NUMERO 2 OTTOBRE 2011
L’Europa al bivio .
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intervista a Pier Luigi Bersani contributi di Luca Baccelli Emma Bonino Mauro Ceruti Massimo D’Alema Alfredo D’Attorre Stefano Fassina Giuliano Garavini Sandro Gozi Roberto Gualtieri Francesca Marinaro Claudio Martini Ronny Mazzocchi Franco Monaco Fabrizia Panzetti Lapo Pistelli Vincenzo Visco Luca Visentini
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L’unico terreno vincente per i progressisti è la dimensione europea. Pier Luigi Bersani
SOMMARIO NUMERO 2 - OTTOBRE 2011
Stefano Di Traglia INTERVISTA
Direttore responsabile
Franco Monaco
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Direttore editoriale
Alfredo D'Attorre
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Coordinatore del Comitato editoriale
FOCUS
COMITATO EDITORIALE
Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini
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Per una nuova architettura federale dell’Europa
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SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico
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numero 2/2011 - revisione 1
42 Pubblicazione in corso di registrazione presso il Tribunale Civile di Roma I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza Creative Commons 2.5 CC BYNC-ND 2.5 - Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it
Il PD e il futuro del progetto europeo intervista a Pier Luigi Bersani
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Il realismo dell'utopia federalista Emma Bonino e Marco De Andreis La sfida democratica dell'Unione europea tra stato nazionale e istituzioni comunitarie Roberto Gualtieri
I progressisti e il rilancio del progetto europeo
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L'Europa, la sovranità politica e la crisi globale Alfredo D'Attorre
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Colmare il deficit democratico dell'Unione europea. Il contributo dei parlamenti Francesca Marinaro
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Una Convenzione per un nuovo patto federale Sandro Gozi Europa e Regioni, l'impasse delle politiche di coesione Claudio Martini
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La politica europea di giustizia e sicurezza comune dopo il Trattato di Lisbona Fabrizia Panzetti Il deficit sociale e democratico dell'Ue Luca Baccelli
Il ruolo dell'Europa oltre la crisi Massimo D'Alema Per chi suona la campana europea Lapo Pistelli L'Unione Europea, i progressisti e l'Italia Stefano Fassina L'occasione per cambiare il modello di sviluppo Luca Visentini L'Europa e la crisi dei debiti sovrani. Una proposta Vincenzo Visco I limiti della Costituzione economica dell’Ue Ronny Mazzocchi Una e molteplice. L'Europa, provincia globale Mauro Ceruti ............................................................. PAROLE DA SALVARE... DAGLI ABUSI
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Sussidiarietà Franco Monaco
Eurozona: dal mercato comune al mercato unico Giuliano Garavini
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INTERVISTA
L’Europa al bivio
Il PD e il futuro del progetto europeo intervista a Pier Luigi Bersani
Sgombriamo subito il campo da un approccio provinciale. Le democrazie contemporanee sono un po' tutte attraversate da crisi e tensioni. Movimenti e tendenze populiste, così come derive oligarchiche si manifestano ovunque
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Europa ed i progetti dei progressisti europei sono al centro di questo numero di tamtàm. Un tema che non può che essere aperto dalle riflessioni e dalle proposte del segretario nazionale del PD, Pier Luigi Bersani, raccolte da tamtàm con questa intervista. “Oggi ognuno può constatare le difficoltà che incontra il progetto europeo e anche la domanda di Europa che viene dal mondo e che l'Europa non riesce a evadere. Ma, detto questo, bisogna avere la consapevolezza che il progetto europeo continua a parlare al mondo, riguarda una grande area vitale. In questi anni difficili abbiamo ampliato l'area della pace intorno a noi. La piattaforma economica che abbiamo costruito resta la più rilevante del mondo. L'apparato industriale è imponente. Vasto è il mercato interno. Certo, tutti possono constatare che questa piattaforma non riesce ad esprimere le proprie potenzialità. Ma non vedo chi possa pensare, sia in una visione europea, sia in un contesto internazionale, che sarebbe meglio se questa piattaforma si indebolisse o si disgregasse. Il risultato di ogni contatto che abbiamo avuto all'estero, dalla Cina agli Stati Uniti, è questo: tutti chiedono l'Europa”.
L’Europa al bivio
INTERVISTA
Quanto ha inciso nella piena affermazione dell'Europa la guida conservatrice dei principali paesi europei e in quale misura, invece, si sono manifestati limiti da parte dei progressisti? È chiaro che le forze progressiste non sono state estranee ai limiti della costruzione europea. I motivi sono diversi. In ultima analisi è possibile che le forze progressiste si siano sentite giustamente interpreti dell'economia sociale e di quell'equilibrio di welfare che si è determinato nei diversi paesi e che però è stato costruito su basi nazionali. Da qui il timore di veder messi in discussione equilibri conquistati nella dimensione nazionale, un riflesso che ha pesato molto nelle iniziative delle forze progressiste. Per esempio, che cosa ha impedito alle forze progressiste di incidere nel ciclo degli anni Novanta ed anche, diciamo, fino all'euro e subito dopo? Certamente è mancato il cambio di velocità che doveva, secondo me, esserci su due versanti: il rapporto tra la costruzione europea e la rappresentanza democratica del processo; e il fatto di non riuscire a concepire un allargamento che andasse di pari passo con un rafforzamento delle istituzioni europee. Qui ci sarebbero diverse questioni da affrontare. A me piace sempre citarne una, che ovviamente non è l'unica: il ruolo della Gran Bretagna. Per secoli la Gran Bretagna ha vissuto con l'idea, più che legittima, di dover evitare che l'Europa trovasse la sua quadra di Europa continentale perché altrimenti sarebbe stato messo in discussione il suo ruolo internazionale. Un riflesso così antico non scompare da un giorno all'altro. Ecco, questo è solo uno dei tanti esempi, dei tanti casi di cui non sono state tirate le somme fino in fondo. In altre parole, non ci si è spinti a capire se ci fossero le condizioni e in quali termini mentre l'Europa si allargava e portava pace, portava rapporti economici con aree limitrofe - per costituire un nucleo essenziale, per rafforzare il ruolo guida non solo dei paesi fondatori, ma dei paesi che erano disposti a raccogliere la scommessa. Questo, secondo me, è mancato. Invece c'è stato un processo di ripiegamento… Non possiamo sottovalutare il fatto che il processo di integrazione progressiva - certo complicato, ma che avrebbe dovuto avanzare verso il miglioramento - sia stato interrotto dalla politica delle destre. Le destre hanno basato le proprie fortune elettorali su un ripiegamento post euro e sul fatto che la globalizzazione metteva alla frusta i cittadini europei. 05
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Può essere individuato un nesso tra la decisione di procedere all'istituzione della moneta unica, pur in assenza di un rafforzamento dell'integrazione politica, e l'egemonia che un impianto monetarista e neo-liberale ha esercitato per un lungo periodo anche sulla cultura politica delle forze progressiste europee? Al concetto di moneta ovviamente non corrisponde il concetto di monetarismo. È chiaro che la moneta da sola e dentro un logica, diciamo così, esclusivamente tecnica, di tipo monetario e finanziario, non può che portare agli esiti che vediamo. Però io voglio ricordare che nel periodo dell'avvicinamento all'euro, sto parlando della seconda metà degli anni Novanta, questo processo aveva come riflesso la spinta alle politiche strutturali comuni. Parlo della pur parziale e limitata riforma nel campo dell'energia, del progetto Galileo, dell'irrompere di politiche europee sui temi ambientali, dei programmi di ricerca, degli accordi di Lisbona. Quegli anni io li ho vissuti e lo ricordo bene. L'arrivo della moneta non era disgiunto dalla percezione che mentre eri su quel percorso dovevi necessariamente fare passi in avanti sui temi strutturali. Nel post euro invece il cambiamento è stato enorme. Anche l'attuazione dell'euro nei mesi successivi alla sua introduzione diede luogo a scompensi, in particolare da noi ad opera del centrodestra. Prevalse l'idea che le cose vanno da sé, proprio nel momento in cui la globalizzazione portava le sue frustate più forti. Quando è avvenuto questo cambiamento? Noi la percezione di questi grandi fenomeni l'avevamo anche prima. Nell'opinione pubblica la ricaduta di questo fenomeno è stata avvertita sostanzialmente allo snodo del nuovo millennio, periodo in cui sono stati drammatizzati i temi sui cui la destra ha prevalso: i temi protezionistici, i temi di un Europa burocratica che ti impedisce la giusta protezione da quello che ti arriva dal mondo. Insieme a questo dato di fondo ha prevalso l'idea, diciamo neoliberista, secondo la quale il mercato ha le sue regole indiscutibili. E, siccome queste regole sono indiscutibili, la politica deve preoccuparsi solo di difenderti dai processi, non di dominarli. Perché è venuta fuori quell'ondata? Io credo che sia una discussione ancora da fare. Questi fenomeni nascono sempre da fatti di fondo. Nel quindicennio precedente c'era stato un salto tecnologico 06
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micidiale che aveva bisogno di diffondersi nel mondo. Pensiamo solo al ciclo dell'elettronica e dell'informatica: un fenomeno che ha prodotto una grande ricomposizione del capitalismo mondiale. Il capitalismo aveva l'esigenza, come dire, di avere flessibilità nella sua riorganizzazione, di raccogliere finanza per muovere avventure industriali, di normalizzare gli schemi a livello del mondo. Da qui le ricette per implementare le nuove tecnologie, l'esigenza di avere una regolazione e una normalizzazione sul piano proprio dell'accoglienza di questo ciclo industriale, rispetto al quale la finanza si è fatta servente, sia per raccogliere capitale, sia per scomporre e ricomporre assetti, sia per fare da consulente alle politiche pubbliche. Insomma c'è stata una normalizzazione, una standardizzazione delle politiche sotto l'egida di un mondo che comunque andava avanti, anche a debito, perché il pensiero dominante indicava che le tecnologie avrebbero prodotto crescita senza inflazione. Il ciclo conservatore è stato dunque questo: da un lato lo sfrenato lasciar fare, la logica standardizzata, sostanzialmente di destra, con grandi consulti mondiali e consulenti ovunque. Dall'altro, la politica di destra del fare argine alla spinta della globalizzazione in chiave localistica e corporativa, populistica, difensiva. La destra ha fatto tutte le parti in commedia, accumulando consensi. E i partiti progressisti sono rimasti lì in mezzo a difendere le conquiste sociali dall'effetto dumping della globalizzazione, ma senza avere una teoria, senza una possibile alternativa, cercando solo di aggiustare quello che arrivava, rendendolo più potabile socialmente. Abbiamo vissuto un decennio di questo genere. Un problema anche di egemonia… Si può dire che la cultura delle forze progressiste europee sia stata influenzata da un meccanismo difensivo che è apparso conservatore e da una idea di innovazione che metteva in bella, dal punto di vista della sinistra progressista, ricette che non erano le sue. Ci siamo trovati in mezzo a questa cosa. Quella ricetta della destra era ed è fallimentare. Ora lo si vede. Bisogna ripartire dal dato dell'economia reale, dagli squilibri basici dei sistemi economici, delle bilance commerciali e così via. È quello che stiamo facendo. L'europeismo è stato un tratto distintivo dell'Ulivo degli anni Novanta. L'ingresso dell'Italia nella moneta unica è stato il principale successo dei governi di 07
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centro-sinistra. Basta il richiamo di questa tradizione per il Partito Democratico o è necessario un ripensamento dei caratteri di questo europeismo? Certamente il nostro europeismo è fondativo. Noi dell'Ulivo ci siamo misurati in modo vincente con questa prospettiva. Poi c'è stato un grande appannamento. Ora bisogna riprendere il tema del sogno europeo. Ma questo non vuol dire ripartire esattamente dalle cose che abbiamo detto fin qui, perché il congegno europeo va riformato, a partire dai meccanismi che riguardano la democrazia. Il nostro primo ragionamento oggi deve partire da lì. Nella crisi delle democrazie rappresentative, la possibilità d'interpretare i bisogni si collega all'esigenza di trovare una scala dimensionale adeguata alla soluzione dei problemi che dobbiamo affrontare. La dimensione europea è appunto una scala significativa. Dunque, noi dobbiamo mettere al primo posto un superamento progressivo dell'attuale modello intergovernativo, perché l'assenza di una prospettiva di sovranità democratica alla scala europea genera entropia, dispersione e, per difesa, il ripiegamento su modelli localistici, rimpiccioliti. Secondo me, bisogna partire da un nucleo di paesi che si dia obiettivi e sfide più ambiziosi sul piano politico e democratico, per estendere e allargare poi queste conquiste. E se invece si dicesse: teniamoci la moneta e non aggiustiamo altro? Non è possibile. E non basterebbe nemmeno fare altri passi giusti in questa direzione: rafforzare i meccanismi di governance, fare un ministro delle finanze europeo o quello degli esteri. Non basta. Bisogna che i paesi si pongano l'obiettivo, il sogno di un vero salto di qualità. Che cosa può fare il Pd e quale è la consapevolezza degli altri partiti progressisti europei sull'importanza di riprendere il cammino verso un'Europa federale? Il Pd in Italia può richiamare a questa visione un perimetro di forze europeiste. E la stessa cosa va fatta in Europa. Mentre si configura sempre di più, in Germania come altrove, una ristrutturazione del sistema politico sul crinale delle destre populiste che cavalcano e cercano consenso nell'euroscetticismo, le forze di sinistra cominciano a pensare che la carta da giocare è proprio il sogno europeo e anche le forze centriste, popolari e democratiche, come in 08
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Germania, non possono discostarsi troppo dalla missione europea e quindi vanno richiamate a questo progetto. Il Pd, insomma, ha questa aspirazione, cioè di chiamare le forze progressiste ad una piattaforma che abbia al punto numero uno il sogno europeo. Si può dire che nell'ultimo anno e mezzo ho visto un mutamento negli orientamenti delle forze progressiste su questo punto. Noi abbiamo sempre portato questa voce, questo tipo d'impostazione, a costo di sembrare anche un po' velleitari. Adesso devo dire che la consapevolezza che l'unico terreno vincente per i progressisti può essere la dimensione europea mi pare sia largamente compresa. Stiamo ai paesi fondamentali, diciamo così. In Germania socialdemocratici e verdi hanno una posizione più consapevole di questa esigenza. Credo che anche le primarie in Francia, alla fine, porteranno una spinta in questa direzione, perché prende piede la critica al modello Sarkozy, a un protagonismo che non ha relazione solida con l'avanzamento comune dell'Europa. Noi questa cosa dobbiamo sostenerla e dobbiamo dire per primi che in Italia, se arriveremo al governo, noi vogliamo essere alla testa di una disponibilità a cessioni di sovranità su base democratica verso una dimensione europea. Perché o si affronta questo tema e lo si guarda in faccia, o non si trovano le soluzioni. L'inadeguatezza della sola dimensione nazionale è riconosciuta come una delle ragioni centrali della crisi delle politiche socialdemocratiche tradizionali. Perché solo in una dimensione europea un cambio di indirizzo può riavviare un percorso? Perché la dimensione europea può innescare processi di crescita. Intanto perché ci sono risorse potenziali enormi che sono sostanzialmente bloccate dai mancati meccanismi di integrazione. Io mi sono occupato sempre di politiche industriali. Da questo punto di vista la cosa appare più lampante. Non è vero che abbiamo un mercato interno sviluppato. La verità è che, se facessimo passi avanti nell'integrazione dei mercati, con 550 milioni di persone, potremmo avere un guadagno di efficienza e di crescita travolgenti. Faccio qualche esempio: non è vero che uno può comprare l'elettricità in Polonia perché costa meno; in realtà ci son di mezzo tali e tanti intoppi e ostacoli che non succede; non è vero che riusciamo ad avere una politica delle ricerche industriali che metta a massa gli sforzi. Senza parlare della Difesa. Le inefficienze, lo spreco e i costi di questo 09
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sistema economico sono enormi. E questo è il primo punto. Il secondo punto riguarda il peso della dimensione nei rapporti internazionali: non penso alla possibilità di afferrare da soli problemi globali, ma di proporre meccanismi di governo. Un'Europa che abbia una voce sola nel rapporto con la Cina, con gli Stati Uniti e che ponesse un tema: adesso concordiamo una strategia di accettabile equilibrio delle bilance commerciali, facciamo una accettabile strategia di crescita comune, di sviluppo dei mercati interni. E non v'è dubbio che potrebbe anche affrontare da sola alcune iniziative. Non è affatto vero che elementi regolativi della finanza o anche di tassazione della finanza non possano essere fatti e governati in una dimensione europea. E poi la politica estera. Politica estera che non vuol dire solo la pace e la guerra, vuol dire un sistema di relazioni e di crescita. Il Mediterraneo, i Balcani. Si decide una strategia economica, una strategia politica: una politica di questo tipo avrebbe potenzialità straordinarie. Se invece si resta sul metodo intergovernativo, tutto questo diventa un'utopia, se non un disastro annunciato. Si pensi alla crisi attuale. Facciamo quasi tutto noi europei. La Germania esporta nel contesto europeo più del 50 per cento dei beni che produce, noi stessi esportiamo gran parte della nostra produzione in Europa. Insomma, molto dipende da noi. Non c'è dubbio quindi che la dimensione europea sia potenzialmente vincente. Ma non c'è altrettanto dubbio che questa dimensione, se non ci sono progressi e si resta al meccanismo attuale, ci porti a crisi successive e a tentare di aggiustare le cose quando i problemi sono già piovuti, il che è quasi impossibile. Ma è possibile avviare questo processo più avanzato, se prevale nell'opinione dei paesi più forti la diffidenza sul rigore dei paesi più in difficoltà? La divisone fra paesi irrispettosi delle regole, irrequieti e discoli, e paesi morigerati e rigorosi trova fondamento nell'esperienza. Tuttavia credo che, nel momento in cui la crisi precipita, ci si renda conto che è tutto interconnesso: dove c'è stato debito, c'è anche chi lo ha finanziato. E c'è stato anche chi ha usato questa esplosione monetaria per vendere prodotti. Quindi, diciamo così, nel bene e nel male le virtù hanno campato anche sui difetti, così come i difetti hanno campato sulle virtù. Però siamo tutti nella stessa famiglia. Come abbiamo detto andando in Germania, sappiamo bene che i paesi periferici con un minor tasso di 10
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disciplina debbono portare la propria disponibilità al rigore. Ma non dobbiamo dimenticare che noi italiani, noi democratici in particolare, siamo figli del governo Amato, del governo Prodi, del governo Ciampi, del governo D'Alema, sappiamo cosa vogliono dire rigore e riforme. Detto questo, la Germania, l'Olanda, ecc., affermino senza meno che l'Europa ha un valore, una utilità per loro e noi prendiamoci i nostri impegni. Questo mi pare il punto. L'evoluzione della situazione politica e dell'orientamento dell'opinione pubblica in Germania appare incerta. Lei è convinto che la difesa dell'euro rimanga l'unica opzione in campo o che possa porsi realisticamente anche la possibilità di un ritorno alle valute nazionali? L'opinione pubblica sui temi europei è molto incerta e ci sono dei paradossi che andrebbero indagati. In Germania, per esempio, l'opinione pubblica dai sondaggi risulta scettica e problematica sulla solidarietà europea, però poi non dà credito ai partiti che sollecitano questo tipo di risposta. È come se dicesse: “Ci fidiamo di più degli europeisti purché lo facciano con giudizio”, piuttosto che mettersi sulla strada del “Butto a mare tutto”. E quindi siamo in una situazione molto incerta sui grandi movimenti dell'opinione pubblica. Io francamente non credo che nessuno, a partire dalle classi dirigenti, possa pensare davvero ad un ripiegamento sulle monete nazionali. Naturalmente ci sono delle ipotesi di scuola. Ma non credo che sia una opzione praticabile quella di Germania, Olanda, Danimarca e altri paesi che possono farsi il loro euro. Significherebbe tornare alla svalutazione competitiva, significherebbe da noi far decollare l'inflazione, da loro, nei paesi più esportatori, far abbassare il Pil in modo micidiale. Quindi vedo queste ipotesi come elucubrazioni di scuola, ma noi abbiamo solo una ricetta: rilanciare. Arretrare non è un'opzione. Le classi dirigenti europee se ne rendono conto. Gli eurobond possono essere una soluzione strutturale della crisi dell'euro o un primo passo che segnala la necessità, per salvare la moneta unica, di un livello di integrazione e di sovranità politica condivisa che oggi può apparire perfino utopico? Detto in una forma che può apparire estrema: può esistere l'euro nel medio-lungo periodo senza l'avvio di percorso verso gli 11
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Stati Uniti d'Europa? Penso che la zona euro dovrebbe essere in chiave di sviluppo e di cooperazione rafforzate un elemento trainante di questo passo avanti. Certo, non è detto che si debba procedere tutto d'un colpo. Si può anche andare avanti per cerchi concentrici. Credo che gli eurobond finiranno per esempio per essere una piccola cartina di tornasole del fatto che un passo avanti ci vuole. Le tecniche per fare questo saranno diverse, ma, usciti da queste emergenze, come si può dire al mondo che abbiamo un sistema, se non trovando una forma graduata, che non incoraggi comportamenti deviati, ma che metta in comune i fondamentali elementi di stabilità? Prima o poi, questo sarà fatto. E ricordo la nostra grande tradizione. Ricordo Spinelli. Insomma, possiamo anche accettare definizioni intermedie, interlocutorie, e che però ci dicono che un passo avanti in direzione della democrazia si sta facendo. In questo contesto il Parlamento europeo andrebbe drasticamente rafforzato. La Commissione deve essere più autorevole. L'attuale meccanismo a 27 senza nulla di mezzo certamente non aiuta. Credo che, superata la bufera dei paesi dell'euro, debba venire il momento per darsi le regole, un darsi strumenti di solidarietà credibili, un dotarsi di qualche politica di avvicinamento delle economie e che occorra anche qualcosa sulla democrazia. In caso contrario, saremmo in contraddizione con l'aver fatto una moneta. Qual è il ruolo del progetto europeo nell'identità del PD? E come si collega il rilancio del sogno europeo alla valorizzazione del principio democratico? Se ci chiamiamo Partito democratico è perché abbiamo posto il tema della democrazia. Quindi, il banco di prova per noi è aver imparato quello che c'era da imparare sulla deriva populista, è porre come stringente il tema di una democrazia rappresentativa nella scala adeguata. Se i partiti progressisti, come spero, riprenderanno forza nei prossimi mesi e nei prossimi anni, e quindi sarà affidata a loro una carta da giocare, il Partito democratico avrà il compito di essere la punta di lancia sul tema democratico e la punta di lancia nella verifica della possibilità dei governi, che io mi auguro progressisti, di dichiararsi disponibili ad una cessione di sovranità. Quanto ha pesato l'assenza di peso e ruolo di un paese come l'Italia nella crisi che stiamo vivendo? 12
L’Europa al bivio
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Io credo che abbia pesato molto. L'Italia è scomparsa come paese, nella prospettiva europea e nello sforzo di sospingere l'Europa a portare la propria visione nel Mediterraneo. Ma non basta. L'Italia ha anche fornito un modello. Nei dieci anni scorsi, pur con tutta la spocchia con la quale i partiti di destra europei hanno guardato un fenomeno come quello di Berlusconi, in realtà qualcosa hanno imparato dal suo successo. Noi abbiamo applicato per primi le ricette di destra, le ricette populiste, le ricette del ripiegamento. Poi le abbiamo gestite in una chiave berlusconiana fino al punto da metterci fuori da soli perfino dal contesto delle destre. Però abbiamo mandato in giro un messaggio. Questo messaggio si è diffuso in Europa, non sempre è riuscito ad influenzare nettamente i governi di destra europei. Però è sempre stato una spina nel fianco ed ha fornito il modello per le formazioni populiste, le tendenze al ripiegamento, le tendenze alla comunicazione populista e aggressiva, sugli immigrati, la tendenza a descrivere questa Europa come quella che misura la lunghezza delle banane. Questo svilimento è penetrato. Di più. La nostra assenza negli scenari che ci competono ha svilito la possibilità di un'Europa che sappia rivolgersi al Mediterraneo lasciando spazio a confuse strategie nazionali. La questione non è se arriva prima la Francia, l'Inghilterra o l'Italia. Non si può pensare di poter gestire il fronte che si apre lì, con tutti i problemi demografici, sociali, politici ed economici, ricorrendo alle zone d'influenza, seppure riconsiderate alla luce del nuovo secolo… Sarebbe una pazzia! In questo caso solo la dimensione europea può far fronte all'enormità dei fenomeni in corso sulla sponda sud del Mediterraneo.
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Per una nuova architettura federale dell’Europa
L’Europa al bivio
FOCUS
Il realismo dell'utopia federalista Emma Bonino è vicepresidente del Senato
Marco De Andreis
già funzionario europeo, dirige l'ufficio studi economici dell'Agenzia delle Dogane
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ietro una moneta ci può essere un sovrano e uno solo. Non c'è nessun precedente di un'unione monetaria sopravvissuta a lungo al di fuori del suo logico contesto di un'unione politica. Un'unione monetaria come quella europea, con 17 sovrani e vari candidati a farne parte, funziona solo col bel tempo, in assenza di problemi economici gravi. Ma quando questi arrivano non sono mai simmetrici: ci sono sempre stati membri che vengono più colpiti di altri. A quel punto, o si abbandona chi rimane indietro al proprio destino – ed è la fine dell'unione - o lo si aiuta. L'aiuto si mette in moto solo se c'è un sentimento condiviso di appartenenza alla stessa entità politica, solo se si è fatto e pluribus unum. Se adesso non arriva l'integrazione politica a tenere tutto assieme, anche quella economico-monetaria va a farsi benedire. Che esistano soluzioni puramente tecnico-finanziarie a questa crisi è, infatti, un'illusione. Con l'emissione di eurobond su larga scala, ad esempio, l'UE diventerebbe un'entità con nessuna funzione di governo importante al di fuori della sfera economica, senza un Tesoro, con un bilancio minuscolo speso tutto in sussidi di dubbia utilità, gravata da un enorme debito pubblico tra il 60 e l'85% del PIL dell'eurozona, ma con una moneta rivale del dollaro su scala globale, una Banca Centrale, una Corte di Giustizia, un Parlamento a elezione diretta. Sarebbe insomma la più grande tecno-struttura 15
FOCUS
L’Europa al bivio
Non si può andare avanti all'infinito a fare le cose a rovescio, cioè a confinare l'Unione europea a una missione di pura stabilità finanziaria e macro-economica
L'unione monetaria va completata con un'unione politica 16
economica della storia, ma in quanto tale radicalmente incomprensibile al pubblico. Secondo noi è ora di rimettere il processo di integrazione europea sui piedi, invece che sulla testa come è ora, smettendo di consentire alla politica economica e finanziaria di guidare il processo politico. I cittadini pagano le tasse per avere in cambio alcune basilari funzioni di governo: legge e ordine, giustizia, sicurezza; e poi sanità, educazione, sicurezza sociale, una moneta come mezzo neutrale di scambio. Tassare e spendere per offrire alcuni o tutti questi beni pubblici, consente a un governo di avere, anche se in seconda battuta, i mezzi per contrastare o prevenire le crisi con la stabilizzazione macroeconomica o la redistribuzione. Non si può andare avanti all'infinito a fare le cose a rovescio, cioè a confinare l'Unione europea a una missione di pura stabilità finanziaria e macro-economica e a far seguire da qui tutto il resto. Succede invece che la stabilità finanziaria non c'è e in più non segue proprio niente. Occorre, secondo noi, provare a guardare più avanti a un assetto in cui la politica economico-fiscale deriva dalle funzioni di governo tipiche di una forma statale, di un contratto sociale - e non le guida come è invece nell'Europa di oggi. Alla fine, anche l'Unione europea dovrà pure funzionare nell'unico modo logico e comprovato dalla storia: tassare e spendere per fornire alcune funzioni di governo ai propri cittadini e su queste basi avere un Tesoro che accompagni l'azione della sua Banca Centrale. George Soros ha fatto riferimento a “qualcosa come un ministero europeo delle finanze che abbia legittimità finanziaria e politica”. Ma in tanti cominciano a dire che bisognerebbe affiancare alla Banca Centrale Europea un ministero delle Finanze dell'Unione: recentemente lo hanno fatto Jean Claude Trichet e Jacques Attali, l'Economist e il Fondo Monetario Internazionale. In altre parole l'unione monetaria va completata con un'unione politica. Perché un ministero delle Finanze presuppone tasse, che a loro volta servono a pagare funzioni di governo. Se gli Stati membri non trasferiscono all'Unione alcune funzioni di governo non si danno né Tesoro né
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Finanze europei. Insomma non si scappa: bisogna fare gli Stati Uniti d'Europa. Questa idea, che non è affatto nuova, si scontra regolarmente con il timore – particolarmente forte in Gran Bretagna e nei paesi nordici - di creare un cosiddetto superstato europeo che soffochi gli stati nazionali. Ma la Federazione europea che sarebbe realisticamente giusto fare oggi, lungi dall'essere un superstato sarebbe al contrario una “Federazione leggera”1 che assorbe e spende attorno al 5% del PIL europeo. La spesa pubblica degli stati nazionali europei maggiori si aggira attorno alla metà dei rispettivi PIL. Queste risorse sarebbero sostitutive e non aggiuntive rispetto alla spesa pubblica nazionale perché accompagnerebbero il trasferimento al centro federale di funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri. Quali? A nostro avviso dovrebbero essere la difesa, la diplomazia (compresi gli aiuti allo sviluppo e quelli umanitari), il controllo delle frontiere e dell'immigrazione, la creazione delle grandi reti infrastrutturali europee, alcuni programmi di ricerca scientifica di grande respiro e gli aiuti alle regioni più povere e in ritardo di sviluppo. Con un bilancio di 600-700 miliardi di euro l'Unione potrebbe svolgere, quando ce n'è bisogno, funzioni di stabilizzazione macro-economica e redistribuzione via ordinaria manovra fiscale, tassando di più gli stati in espansione e meno quelli in recessione. Silenziosamente, senza creare la pubblicità e le enormi aspettative che circondano i vertici dell'eurozona sugli aiuti ai paesi in difficoltà. E abbiamo visto che la sproporzione tra aspettative e risultati regolarmente peggiora la situazione. L'altro ostacolo all'unione politica dell'Europa è la riluttanza, che hanno tutti gli Stati membri, chi più chi meno, a perdere sovranità proprie a favore di un centro federale. Ma la perdita di sovranità c'è già ed è palese. Quando, il 5 agosto scorso, il governo italiano ha finalmente ceduto alle pressioni della BCE e del resto dell'eurozona annunciando _______________________________ 1. Leggi l’articolo all’indirizzo http://www.crusoe.it/paper/federation-light-a-martian-s-view-of-the-european-union-part-2/421/. 17
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l'anticipo del pareggio di bilancio, Mario Monti ha adombrato il concetto di commissariamento del nostro esecutivo da parte di “un governo tecnico sopranazionale… con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York”. Ma per lo stesso commissariamento sono già passati greci, portoghesi, irlandesi e spagnoli. E anche la sovranità tedesca è di fatto limitata dalle responsabilità che la Germania ha verso il resto dell'eurozona. Se dobbiamo fare i conti con “un governo tecnico con sedi sparse”, non è meglio allora passare a un governo politico a livello federale, a Bruxelles, con un mandato e dei poteri definiti e circoscritti per legge? Un governo cui tutti hanno ceduto un pezzo della propria sovranità su un piede di parità, che può tassare e spendere cifre non enormi – una “Federazione leggera” – ma significative. Sono ormai sessant'anni che l'Europa elude la soluzione del suo problema politico. A noi sembra arrivato il momento di sciogliere questo nodo.
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La sfida democratica dell'Unione europea tra stato nazionale e istituzioni comunitarie Roberto Gualtieri insegna storia contemporanea all'Università “La Sapienza” di Roma ed è deputato europeo del Partito Democratico
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l momento delicatissimo attraversato dall'Europa impone una riflessione di fondo sul nesso tra stato nazionale e integrazione europea, sul modo in cui esso è stato declinato nel corso del tempo e sulle sue prospettive di fronte a una crisi epocale come quella che sta scuotendo l'economia europea e mondiale nel quadro di una più generale trasformazione in senso multipolare del sistema internazionale. Ad essere messo prepotentemente in discussione sotto i colpi della crisi non è solo l'avvenire dell'euro ma l'intero equilibrio, che per oltre un decennio era sembrato illusoriamente possibile garantire, tra un'unificazione limitata alla moneta e allo sviluppo del mercato comune da un lato e, dall'altro, la sopravvivenza degli elementi di fondo del compromesso sociale (la cosiddetta “economia sociale di mercato”) e del patto di cittadinanza sulla cui base si è edificata la democrazia postbellica. Come la storiografia più avvertita ha da tempo chiarito, nelle sue prima fase che va dalla istituzione della Comunità europea per il carbone e l'acciaio nel 1951 fino al trattato di Maastricht del 1991 (passando per i Trattati di Roma del 1957) il processo di integrazione europea ha rappresentato una componente di un più generale assetto politico-economico imperniato da un lato sul rapporto Europa-Stati Uniti e dall'altro sullo sviluppo dell'economia mista (fondata su un robusto ruolo dello stato) e della democrazia dei partiti a livello nazionale. La storiografia “realista” di impianto “intergovernamentalista” si è spinta a considerare la 19
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costruzione europea come uno degli strumenti di quel vero e proprio “salvataggio dello Stato-nazione” verificatosi nel secondo dopoguerra (Milward). Un salvataggio basato su di un compromesso transatlantico tra “Keynes all'interno e Smith all'esterno” (Gilpin), cioè tra un forte ruolo dello stato nell'economia e l'apertura del commercio internazionale, di cui l'integrazione europea ha costituito una decisiva camera di compensazione e non certo l'embrione di una nuova entità statuale di tipo federale. Anche gli studiosi di matrice “neofunzionalista” (da Haas a Stone Sweet), che hanno evidenziato come il processo di integrazione abbia messo in moto una dinamica, difficilmente arrestabile, destinata a estendersi ai differenti ambiti funzionali e imperniata sui processi attivati dalle nuove istituzioni comuni, non hanno contestato il fatto che in quel quarantennio tale dinamica non abbia mai investito le componenti decisive della sovranità nazionale o delle parti di essa che erano state devolute in modo consensuale all'insieme dell'area occidentale e quindi all'“egemonia cooperativa” statunitense, imperniata sulla Nato e sul dollaro. È solo con il venir meno dell'equilibrio bipolare, scandito prima dalla fine del sistema di Bretton Woods e poi da quella della guerra fredda, che la costruzione europea ha compiuto un salto di qualità sancito dalla costituzione dell'Ue e dalla creazione della moneta unica, che ha determinato una significativa cessione di sovranità alle istituzioni comuni. Nonostante i pur importanti sviluppi di altre politiche europee che si sono avuti in questi venti anni, non c'è dubbio che quella che per brevità possiamo definire l'Europa di Maastricht sia imperniata essenzialmente sul mercato e sulla moneta. Nella definizione di tale assetto hanno concorso due visioni di fondo, collegate rispettivamente al filone intergovernamentalista e a quello funzionalista e variamente intrecciate tra loro. Da un lato, l'idea di poter riproporre lo schema dei decenni precedenti concependo la moneta unica come una sorta di scudo comune capace di difendere la sovranità delle diverse entità statuali (o almeno delle principali) e funzionale agli obiettivi di tipo neomercantilista di alcune di esse. Dall'altro, la concezione dell'Europa come strumento di una progressiva dissoluzione della statualità in un mondo globale post-sovrano unificato dal mercato. Coerentemente con questa visione, alcuni studiosi considerano l'assetto delineato a Maastricht come uno dei 20
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principali vettori della rivoluzione neoliberista e dello svuotamento delle competenze dello stato nazione e dell'economia mista avvenuto in questi anni, che costituirebbe la vera natura e il principale risultato del processo di integrazione europea (Gillingham). Questa prospettiva (che il lettore ritroverà in parte espressa, sia pure in termini critici, nel contributo di Giuliano Garavini a questo numero) appare eccessivamente unilaterale, in quanto non tiene conto del fatto che la crisi dello stato nazione e dell'economia mista è un processo che precede l'Europa di Maastricht e che i singoli stati europei non avrebbero potuto arginare da soli, mentre la costituzione della moneta unica costituisce una delle condizioni perché l'Europa possa recuperare sovranità economica e far fronte all'uso unilaterale del potere di signoraggio del dollaro inaugurato dagli Stati Uniti all'inizio degli anni settanta. Inoltre, per molti aspetti l'Ue ha rappresentato più un filtro nei confronti dell'impatto della globalizzazione che un suo vettore, sia pure in forme rese non adeguate dai limiti delle sue risorse e delle sue competenze e dell'indirizzo politico-culturale di impronta neoconservatrice prevalente dell'ultimo ventennio. E tuttavia, le vicende degli ultimi mesi dimostrano in modo evidente come entrambe le visioni che hanno ispirato l'Europa di Maastricht siano profondamente inadeguate. E che sia l'idea di una ordinata divisione dei compiti tra una politica monetaria unificata in un mercato integrato e una gestione nazionale delle politiche economiche "coordinate" tra loro, sia quella di una moneta senza sovrano che innesca un graduale e ordinato processo di de-statualizzazione e di de-politicizzazione dell'Europa si sono rivelate illusorie. È vero che alcuni stati hanno saputo avvantaggiarsi più di altri dell'assetto di Maastricht (segnatamente la nuova Germania unita), ma sotto i colpi della speculazione proprio la crescente asimmetria interna all'Europa si è trasformata in un moltiplicatore di interdipendenza, costringendo la sovrana Germania a ripetuti interventi di “salvataggio” dei paesi più colpiti che contraddicevano apertamente gli impegni di “no bail-out” assunti dalle loro classi dirigenti davanti ai propri elettori e solennemente scolpiti nei trattati. Al tempo stesso, di fronte alla crisi la concezione di una moneta senza politica ha dimostrato tutto il suo carattere ideologico e la sua insostenibilità, rendendo di colpo evidente l'enormità dei passi da compiere per costruire un'Europa sovrana e democratica capace di 21
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La via maestra è quella della politica, della progressiva costruzione di uno spazio politico europeo saldamente ancorato alla nascente società civile continentale ed ai suoi molteplici corpi intermedi
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dotarsi di una vera politica economica comune, e smentendo la visione di un sviluppo asettico e incrementale di una “governance multilivello” che avrebbe progressivamente avvolto e diluito la statualità delle nazioni. Insomma, senza un balzo in avanti del processo di integrazione oltre l'assetto delineato a Maastricht e senza un mutamento di indirizzo delle sue politiche, il modello sociale europeo rischia di essere travolto da una dissoluzione dell'unione monetaria (e quindi dell'Ue) o da una sua codificazione in chiave tecnocratica e di politiche di austerità che trasformerebbe irreversibilmente il panorama economico e sociale del continente e le sue prospettive di sviluppo. In entrambi i casi, tale prospettiva assumerebbe il significato sostanziale di una finis europae che aprirebbe le porte a una graduale marginalizzazione del continente nel nuovo mondo globale e a una lunga “età buia”. D'altro canto, proprio la portata e le implicazioni politiche e democratiche (oltre che culturali e sociali) del superamento della asimmetria delineata a Maastricht rende poco convincente l'ipotesi federalista di un “momento costituente” a cui affidare il brusco passaggio dello “scettro” della sovranità dagli Stati nazionali all'Europa. Non solo perché l'ipotesi di una “grande riforma” dei Trattati è, almeno nel breve periodo, politicamente del tutto irrealistica, ma perché la costituzione di un demos europeo è un processo troppo complesso e delicato per poter essere risolto con un atto giacobino di tipo giuridico-istituzionale. La via maestra è dunque quella della politica, e cioè della progressiva costruzione di uno spazio politico europeo saldamente ancorato alla nascente società civile continentale ed ai suoi molteplici corpi intermedi, e organizzato intorno alla complessa dialettica che attraversa e intreccia le famiglie politiche europee e gli Stati nazionali. Una dialettica che sul piano istituzionale si esprime nella nuova dinamica Consiglio Europeo-Parlamento europeo, che nell'Europa di Lisbona sta progressivamente prendendo il posto di quella tradizionale (di tipo tecnico-funzionale) Consiglio-Commissione. Questa politicizzazione dell'Unione europea deve permeare l'assetto istituzionale delineato a Lisbona. Trasformandolo gradualmente dall'interno fino a porre le basi per una riforma dei Trattati che dovrà sancire, assai più che anticipare, la nascita di un'Europa politica di tipo federale, radicata in un vero demos europeo e in cui la statualità non abbia il ruolo residuale
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immaginato da coloro che traspongono nel mito degli Stati Uniti d'Europa la concezione liberista dello “stato minimo”. La sfida di una più stretta integrazione dell'Eurozona costituisce il primo e principale test di questo processo. Il centro-destra europeo, e in primo luogo la coppia MerkelSarkozy, si stanno orientando ad avviarla sulla base di un modello rigidamente intergovernativo, che potrebbe persino tradursi in un nuovo Trattato tra i 17 paesi dell'eurozona al di fuori dell'architettura istituzionale dell'Ue. Una sorta di “patto euro-plus” rafforzato, che oltre ad escludere le istituzioni dell'Unione, e in primo luogo il Parlamento europeo e la Commissione, sulla base del falso assunto che il Trattato di Lisbona non consente l'unione fiscale dell'eurozona, sarebbe tutto incentrato sull'austerità e la flessibilità del mercato del lavoro. Si tratta di modello di governance che appare al tempo stesso inefficiente (perché solo delle istituzioni comuni possono esercitare un vero governo), inadeguato (perché la linea dell'austerità e della flessibilità non è in grado di affrontare le radici della crisi e di promuovere lo sviluppo), ed antidemocratico, perché volutamente aggira i Parlamenti (nazionali ed europeo) a favore di una dialettica governi-banca centrale-mercati. A questa visione, occorre contrapporre il progetto di una vera unione fiscale ed economica tra i paesi dell'euro in grado di esprimere un effettivo governo dell'economia e non un semplice rispetto di più rigidi parametri per le politiche di bilancio. Un'unione saldamente incardinata nelle istituzioni democratiche dell'Ue, e costruita facendo leva sui numerosi strumenti che il Trattato di Lisbona offre per quei paesi che intendono procedere più speditamente sulla strada dell'integrazione senza abbandonare l'edificio comune dell'Unione né assegnare ad esso una funzione del tutto residuale. Basti pensare, solo a titolo di esempio, che i Trattati esistenti consentirebbero di rafforzare il fondo salva stati comunitario (Efsm) attualmente messo da parte a favore di “scatole” intergovernative (l'Efsf e il suo successore Esm), fino a consentirgli l'emissione di eurobonds; renderebbero possibile varare direttive e regolamenti volti a disciplinare la politica economica degli stati dell'eurozona, magari introducendo parametri legati alle politiche sociali e agli investimenti, con il voto in consiglio dei soli rappresentanti di questi paesi (art. 136 TFUE); permetterebbero di aumentare l'Iva per i paesi dell'euro beneficio di linee speciali del bilancio comunitario
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Il progetto di una vera unione fiscale ed economica tra i paesi dell'euro in grado di esprimere un effettivo governo dell'economia e non un semplice rispetto di più rigidi parametri per le politiche di bilancio
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rivolte all'eurozona. Per non parlare della tassa sulle transazioni finanziarie che la Commissione ha appena annunciato (un grande successo del gruppo S&D), o della possibile istituzione di una agenzia di rating europeo e di una più stretta e diversa regolamentazione dei mercati finanziari. Il tutto nel quadro di un rafforzamento della della legitimazione democratica delle istituzioni europee, che potrebbe anch'esso vedere realizzati, a Trattati vigenti, dei significativi passi avanti: dalla scelta del Commissario per gli affari economici e monetari come presidente dell'Eurogruppo all'utilizzo delle "passerelle" previste nei Trattati per passare dal voto all'unanimità a quello a maggioranza e dalla procedura legislativa speciale a quella ordinaria; dalla sostanziale scelta del Presidente della Commissione da parte dei cittadini (attraverso l'introduzione di una circoscrizione pan-europea a fianco di quelle nazionali e l'accordo politico tra i partiti europei di presentare come capolista in tale circoscrizione il proprio candidato alla Presidenza della Commissione) alla fusione del ruolo di Presidente della Commissione e di Presidente del Consiglio europeo, che consapevolmente non è stata esclusa nei Trattati. Sarà questo il terreno su cui si giocherà la sfida politica dei prossimi mesi, che culminerà nelle elezioni in Francia, Italia, Germania e in quelle europee del 2014. Una partita che deve vedere protagonista un nuovo europeismo progressista, capace di costruire una grande alleanza politica e sociale in grado di trasformare dall'interno l'Europa di Lisbona, costruendo l'Europa di domani: democratica, politica, sociale.
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L'Europa, la sovranità politica e la crisi globale Alfredo D’Attorre insegna Diritti dell'uomo all'Università di Salerno ed è responsabile del Coordinamento dell'iniziativa politica PD
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erché l'Europa o, più precisamente, l'area dell'eurozona è diventata il principale epicentro e il potenziale buco nero della crisi economicofinanziaria globale? È questa la domanda dalla quale bisogna partire se si vuole comprendere la sorprendente traiettoria del progetto europeo nell'ultimo decennio. La chiave di lettura della destra conservatrice (la crisi come effetto di un eccesso di spesa pubblica e di debiti statali) non è grado di fornire una risposta neppure vagamente convincente a questo interrogativo: l'eurozona nel suo complesso non presenta valori di deficit e indebitamento pubblico maggiori della media degli altri grandi paesi sviluppati, anzi. Si pensi agli Stati Uniti, al Giappone o alla stessa Gran Bretagna, tutti paesi contraddistinti da una situazione delle finanze pubbliche peggiore non soltanto della Germania e della Francia, ma anche della Spagna e perfino dell'Italia (almeno per quanto riguarda il deficit). Eppure, anche nella fase più recente e acuta della crisi, nessuno di questi Paesi è stato toccato dalla caduta di fiducia manifestatasi nei confronti dei debiti sovrani dell'eurozona: il rendimento dei buoni del Tesoro americani è perfino calato sotto il 2% dopo il declassamento di Standard & Poor's, il Giappone continua a pagare circa l'1% di interessi sui propri titoli decennali, pur con un debito pubblico attorno al 220% del PIL, la Gran Bretagna ha avuto nel 2010 un deficit superiore al 10%, il dato peggiore in Europa dopo la Grecia, ma, nel pieno della crisi della crisi dell'euro, ha visto calare il rendimento dei propri titolo decennali sotto il minimo storico del 3%. Detto per inciso, è impressionante come dati del genere, macroscopici e immediatamente comprensibili anche ai non-specialisti di materie economiche, siano 25
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Bisogna andare oltre le chiavi di lettura che isolano l'economia dai fattori politici e istituzionali
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sostanzialmente espunti dal discorso pubblico, in parte per la perdurante egemonia delle mistificazioni neo-liberiste sulla grande stampa, in parte per una più generale difficoltà degli studiosi di economia a liberarsi delle gabbie interpretative dei decenni precedenti e a tornare a concepire la propria disciplina in rapporto al ruolo delle istituzioni politiche e sociali. D'altro canto, la stessa spiegazione in chiave strettamente economica della sinistra neo-keynesiana (la crisi come effetto dell'eccesso di finanziarizzazione dell'economia e dell'enorme aumento delle disuguaglianze), se è decisamente più fondata per comprendere l'origine del problema sul piano globale, non riesce a dar conto del perché ora l'epicentro si sia spostato nei paesi dell'Europa continentale, che su entrambi i fronti –peso della finanza e livello delle disuguaglianzehanno mantenuto più anticorpi rispetto al mondo anglosassone. Un'interpretazione di tipo puramente economico non riesce perciò a spiegare perché l'area dell'euro sia diventata la principale minaccia alla stabilità finanziaria globale. Bisogna perciò andare oltre le chiavi di lettura che isolano l'economia dai fattori politici e istituzionali e provare a trovare una risposta nei caratteri che l'integrazione europea ha assunto a partire dall'adozione della moneta unica. Fino all'inizio degli anni duemila, l'Unione europea appariva come un esperimento istituzionale inedito e di grande successo, al punto da proporsi alle altre aree continentali del pianeta come un modello di integrazione da imitare. L'idea assolutamente prevalente tra le élite politicoculturali europee, specie di indirizzo progressista, era che l'Europa fosse l'avanguardia di una tendenza storica verso la cosiddetta epoca 'post-moderna', segnata dal procedere inarrestabile di una globalizzazione che avrebbe condotto al graduale ma inesorabile declino delle istituzioni e delle strutture d'ordine della modernità e, in particolare, della sua principale invenzione politico-giuridica, lo Stato moderno. A questo riguardo, si è parlato molto e con un certo autocompiacimento di una sorta di «Sonderweg» europeo, ossia di una via peculiare dell'Europa nell'inventare una forma politico-istituzionale adatta ai caratteri della post-modernità globalizzata. La difficoltà di definire la natura dell'Unione europea con le categorie politico-giuridiche classiche e il fatto che questo ibrido istituzionale (né Stato, né federazione,
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né confederazione, né organizzazione internazionale patrizia di tipo tradizionale) tentasse di darsi una moneta unica e una Costituzione, pur in assenza di una sovranità politica condivisa, non venivano considerati come problemi destinati prima o poi a manifestarsi in tutta la loro drammatica radicalità, ma come il sintomo che in Europa si stesse sperimentando qualcosa di innovativo e gravido di futuro, oltre l'obsolescenza dello Stato-nazione. L'Europa, il luogo nel quale il moderno Stato sovrano aveva progressivamente preso forma a partire dalla fine dell'età medievale, sarebbe stata così anche il luogo del suo superamento, come dimostrava il fatto che essa stesse sperimentando -con successo, si pensava in quegli anni- la prima moneta e la prima Costituzione oltre lo Stato. L'irrilevanza politica dell'Unione europea dopo la cesura dell'11 settembre, a partire dalla guerra in Iraq, e il fallimento del progetto di Costituzione europea sono stati le prime «dure repliche della storia» a questa visione. L'esplosione della crisi globale nel 2008 e la messa in discussione degli assunti ideologici neo-liberisti -a partire dal dogma della progressiva irrilevanza del ruolo degli Stati e dei poteri pubblici nell'economia globalizzata- hanno poi definitivamente strappato il velo all'illusione dell'Europa post-statuale e post-sovrana. In un tornante storico drammatico, in cui le sovranità statuali sono state chiamate a svolgere un ruolo decisivo per evitare il collasso totale del sistema finanziario e in cui è tornato un bisogno impellente di decisione politica, ad apparire improvvisamente anacronistica e inadeguata è apparsa la pretesa dell'Europa di comprimere l'autonomia decisionale degli Stati nazionali senza istituire un'autorità politica unitaria e dotata di un autonomo fondamento di legittimazione. L'esperienza storica novecentesca del legame tra l'assolutizzazione del principio della sovranità nazionale e lo scoppio dei due conflitti mondiali ha avuto certo un ruolo determinante nell'ispirare l'idea di una comunità di Stati europei in grado di garantire la stabilità e la pace partendo dall'integrazione dei mercati e delle regole giuridiche. Sarebbe molto interessante analizzare quanto, tuttavia, dopo la caduta del Muro di Berlino, l'introiezione di presupposti ideologici dell'egemonia neo-liberista, anche da parte di settori consistenti delle forze progressiste europee, abbia contato nell'affermazione della tesi che si potesse istituire una 27
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La crisi dei debiti sovrani dell'eurozona non è una crisi dell'eccesso del debito, ma del deficit di sovranità
Il vincolo della moneta può trasformarsi nel nucleo generativo di una sovranità democratica
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moneta comune ancorandola non a un potere politico condiviso, ma semplicemente ad alcuni standard giuridicoeconomici (in primo luogo la disciplina dei bilanci interni degli Stati e la rigida separazione tra governo della moneta e governo dell'economia), che comportavano una drastica riduzione dei margini di autonomia della politica democratica. Per una sorta di eterogenesi dei fini, la moneta unica, la cui realizzazione avrebbe dovuto rappresentare il punto più avanzato di un progetto di integrazione fondato sulla 'spoliticizzazione' delle decisioni economiche fondamentali, sta diventando nella congiuntura attuale il fattore più potente e drammatico di 'ri-policitizzazione' della questione europea. La crisi dei debiti sovrani dell'eurozona non è una crisi dell'eccesso del debito, ma del deficit di sovranità. Molti paesi dell'eurozona sono costretti a pagare interessi sui loro debiti inspiegabilmente alti rispetto ai loro fondamentali economici esattamente perché questi debiti non sono più percepiti dai mercati come sovrani, cioè garantiti da un'autorità politica dotata di tutte le leve decisionali. Il meccanismo di neutralizzazione della politica democratica, su cui la moneta unica è stata costruita, ha funzionato negli anni in cui il “pilota automatico” degli organi tecnocratici ha garantito una navigazione tranquilla, mentre nella tempesta post-crisi si è rivelato una gabbia paralizzante e pericolosa. Tocca adesso alle forze progressiste dei principali paesi dell'eurozona aprire una grande battaglia perché il vincolo della moneta possa trasformarsi nel nucleo generativo di una sovranità democratica condivisa. Al di là delle necessarie misure di emergenza che devono essere assunte nei prossimi mesi (potenziamento del fondo salva-Stati, ruolo più attivo della BCE non nell’imposizione di politiche economiche recessive ma nel sostegno ai titoli dei paesi in difficoltà, avvio degli euro-bond per la garanzia di una quota dei debiti nazionali e per i grandi investimenti infrastrutturali), nel medio-lungo periodo la moneta unica può essere difesa solo ricongiungendo sovranità politica e sovranità monetaria. L'Unione europea a 27 membri può sopravvivere come un'area di libero scambio e di cooperazione, il nucleo dell'eurozona ha un futuro solo se imbocca la via della costruzione di un'unità politica federale, dotata di una legittimazione democratica diretta. D'altronde, l'esperienza storica ci dice che grandi processi di unificazione non
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avvengono quasi mai in circostanze ordinarie, ma solo nel fuoco di crisi e sconvolgimenti epocali. L'integrazione europea e l'euro non possono più essere difesi a scapito del principio della sovranità popolare. Non solo ciò è alla lunga insostenibile per le forze democratiche e progressiste, ma questa strada ha dimostrato ormai di non funzionare né politicamente, né economicamente. Chi avrebbe immaginato che il sogno della prima moneta senza Stato potesse trasformarsi in un potenziale incubo per il mondo intero, oltre che per gli europei? «Ohne das Volk geht es nicht » («senza il popolo non si può fare»), ha dichiarato di recente Andreas Voâkuhle, il Presidente del Tribunale costituzionale tedesco, a proposito della possibilità di trasferire parte significativa dei poteri in materia di bilancio e di politica economica dai parlamenti nazionali a un'istituzione federale europea, e della necessità di profondi cambiamenti costituzionali che questo comporta. Può sembrare una posizione anti-europea, è in realtà l'indicazione dell'unica linea coerentemente filo-europea che nel futuro si può percorrere. Il ritorno puro e semplice alle sovranità e alle monete nazionali potrà essere evitato solo se, a un certo punto, i popoli dell'area dell'euro saranno chiamati a una decisione politica fondamentale, che modifichi le rispettive costituzioni nazionali e istituisca una statualità federale europea. È un'utopia? Forse no, forse è anzi l'unica via realistica, per quanto impervia, se non vogliamo che i progressisti europei si facciano strappare la bandiera della democrazia e della sovranità popolare dai populismi di destra e di sinistra e che questi riescano a rinchiudere l'esercizio del potere democratico negli angusti e ormai impotenti confini nazionali.
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Colmare il deficit democratico dell'Unione europea. Il contributo dei parlamenti Francesca Marinaro è senatrice e capogruppo PD in Commissione per le Politiche dell'Unione europea
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C'è urgente bisogno di organismi istituzionali europei legittimati a decidere nella trasparenza
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ra ormai evidente che la crisi economica internazionale avrebbe impedito a qualsiasi Stato da solo di ipotizzare la sua uscita ed ha mostrato con i suoi esiti a tratti drammatici la debolezza dei nazionalismi e dei localismi portati avanti con caparbietà dalla destra europea al potere nella stragrande maggioranza degli Stati membri dell'Ue. Al fondo di questa scelta c'è un problema serio, che appare ancora irrisolto nella coscienza delle classi dirigenti europee o di una parte importante di esse: un'idea dell'interesse nazionale che appare, se non conflittuale, perlomeno distinto dall'interesse comune. C'è urgente bisogno quindi di organismi istituzionali europei legittimati a decidere nella trasparenza, anche sulla base di una ulteriore cessione di sovranità. Ormai è chiaro il carattere limitativo dell'articolo 5 del Trattato di Lisbona che afferma che "gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche in seno all'Unione" e che per quanto riguarda i grandi orientamenti delle politiche economiche il Consiglio "informa il Parlamento europeo della sua raccomandazione". In questo quadro decisioni da cui dipendono la stabilità di una nazione e il destino di un popolo non possono avere un carattere meramente o apparentemente tecnico, e quindi deve essere evidente chi ne risponde. Gli interventi emergenziali per garantire stabilità e crescita sostenibile nell'intera Unione, per essere credibili, devono essere inquadrati nella prospettiva, a breve e medio termine, di un vero e proprio governo economico dell'Europa da sostenere con nuovi strumenti e politiche comuni. Si tratta di scelte obbligate per sorreggere la natura "unitaria e vincolante" dell'Europa, che per essere condivisa richiede un potere decisionale e di controllo non dei governi dei Paesi più forti, ma della Commissione, in quanto organo esecutivo dell'UE, e del Parlamento europeo, anche per dare forma e sostanza al
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principio di "democrazia partecipata" richiamato nel Trattato di Lisbona come risposta alla crisi di rappresentatività e legittimazione democratica delle istituzioni europee. Il nostro Paese, che per colpa del berlusconismo ha perso in Europa peso e credibilità tanto da diventare un “sorvegliato speciale” da parte di quei governi i cui partiti sono nella stessa famiglia politica europea del PDL, deve tornare a giocare, come nel passato grazie a figure fortemente europeiste come De Gasperi, Spinelli, e dei più attuali Padoa Schioppa, Mario Monti, Romano Prodi, un ruolo decisivo per l'Europa. Per questo c'è bisogno di una classe dirigente all'altezza, di istituzioni europee solide e di un modo di pensare che siano davvero, e per la prima volta, innanzitutto “europei”. Da questo dipende buona parte del nostro futuro e su questo come Partito democratico dobbiamo scavare ancora per la ricostruzione del sistema politico ed istituzionale italiano post-berlusconiano. In questa fase di smarrimento culturale e di perdita di identità i progressisti europei anche in vista delle prossime tornate elettorali che impegneranno la stragrande maggioranza dei Paesi europei devono dare un contributo sostanziale e coerente alla costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Dopo il fallimento delle destre europee spetta ai progressisti riprendere con più convinzione e determinazione la bandiera del "sogno europeo", come affermato da Bersani a Pesaro. La sfida per tutti, ancora una volta, è rinnovare la coesione della società nell'orizzonte europeo e mantenere il tessuto unitario di ogni nazione in un'Europa federale capace di guardare al futuro comune degli europei. Senza voler ripercorrere cause ed effetti dell'attuale crisi, resta il dato innegabile che la caduta di carica costruttiva e ideale dell'Unione risiede essenzialmente nella rinazionalizzazione della politica europea, dove le popolazioni sono certo nell'Unione, ma rimangono straniere le une dalle altre. Lontani quindi da quell'idea che Jean Monnet aveva così formulato: "la Comunità non tende a istituire una collaborazione tra Stati ma a fondere i destini di esseri umani". Pur di salvare il punto e la propria coerenza metodologica nazionalista e particolarista, la classe dirigente europea ha spinto l'Unione all'immobilismo anche di fronte alle innovazioni istituzionali previste nel Trattato di Lisbona: rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, così come del processo democratico di partecipazione alla formazione delle decisioni, attraverso il coinvolgimento diretto e trasparente dei parlamenti nazionali cui si impone di operare in autonomia dai propri governi ed in collaborazione con gli altri parlamenti nazionali; rafforzamento dei diritti dei cittadini europei con l'istituzione del diritto di iniziativa popolare. Sul piano delle politiche vengono superate le eccezioni sinora previste per lo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che viene integrato nel sistema di legiferazione ordinario, mentre rimane incompiuta (per ostracismo dei governi) la politica estera e di difesa comune che,
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La sfida per tutti è rinnovare la coesione della società nell'orizzonte europeo e mantenere il tessuto unitario di ogni nazione in un'Europa federale capace di guardare al futuro comune degli europei
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Il progetto europeo, per tornare ad essere "luogo privilegiato della speranza umana", ha bisogno della mobilitazione e della determinazione di tutti
C'è tutto un processo partecipativo da valorizzare e organizzare, anche nel nostro Partito, per dare senso e forza alla regolazione democratica di uno spazio politico e istituzionale europeo come luogo di vita in "comune".
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in conseguenza, fatica molto ad esprimersi con una sola voce. Anche il fatto che la presidenza di turno sia stata allungata da 6 mesi a 2 anni (rinnovabili), rientra nella necessità di dare un segno di maggiore continuità e stabilità. Il progetto europeo, per tornare ad essere "luogo privilegiato della speranza umana", ha bisogno della mobilitazione e della determinazione di tutti, nei rispettivi ruoli, per fermare la crisi e far crescere nelle popolazioni europee l'idea di un soggetto politico sovranazionale. Di fronte alla gravità della situazione c'è urgente bisogno di "ripoliticizzare" il processo di integrazione europea per far condividere valori comuni ai cittadini e trarne insegnamenti per la pratica comunitaria. In Italia, più che altrove nell'Unione, la strada da percorrere è quella della ricostruzione repubblicana anche per riformare il nostro modo di stare e di vivere la nostra appartenenza all'Unione. Infatti la cornice istituzionale europea, ponendo in evidenza la questione dell'allargamento delle basi di consenso della decisione comunitaria, offre agli Stati membri l'occasione di riconsiderare gli obiettivi, le forme e gli strumenti della loro partecipazione al processo normativo europeo. In entrambi i casi, un ruolo determinante è affidato ai parlamenti nazionali, per consentire loro di incidere sulla decisione comunitaria fin dalla fase di formazione della stessa. In controtendenza con il processo, da tempo in atto in Italia, di svalutazione e compressione dei poteri del Parlamento, l'Unione europea individua proprio nelle Assemblee legislative nazionali la chiave per ricercare un nuovo equilibrio tra interazione sovranazionale e cooperazione intergovernativa e, per questa via, rilanciare l'integrazione europea. Questa innovazione, lungi dal comportare il mero svolgimento di nuovi adempimenti burocratici, costituisce piuttosto una straordinaria occasione per rafforzare lo spazio politico ed istituzionale europeo. Per il nostro Paese, in particolare, è anche l'occasione per potenziare e razionalizzare il recepimento del diritto europeo nel nostro ordinamento, sottraendolo insieme all'arbitrarietà dell'iniziative governativa e alla tipicità e separatezza delle procedure parlamentari. C'è quindi tutto un processo partecipativo da valorizzare e organizzare, anche nel nostro Partito, per dare senso e forza alla regolazione democratica di uno spazio politico e istituzionale europeo come luogo di vita in "comune". Infatti, quello che la crisi fa emergere con forza è proprio l'assenza di adeguati strumenti di controllo politico e partecipazione democratica nell'evoluzione dei meccanismi continentali di integrazione economico- finanziaria. Ed è proprio a questo livello che la politica ha il compito di operare per suscitare una rinnovata ondata di convinzioni e sentimenti europeistici, e far scendere in campo nuove energie determinate nella costruzione di una vera e propria "società europea".
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Una Convenzione
per un nuovo patto federale Sandro Gozi è deputato e capogruppo PD in Commissione per le Politiche dell'Unione europea
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no spettro si aggira oggi in Europa: l'Europa dei governi. Per sconfiggerlo, dobbiamo creare gli Stati Uniti d'Europa. Senza federazione politica, infatti, l'euro non ha futuro. E se fallisce l'Euro, si disintegra l'Europa. Nel bel mezzo di una crisi drammatica, dobbiamo convocare una nuova Convenzione con la partecipazione dei parlamenti e dei governi nazionali e delle istituzioni europee per un nuovo patto federale. Convenzione che, su iniziativa del Partito democratico, è stata richiesta nel settembre 2011 all'unanimità dalla Camera dei deputati e per cui si stanno levando varie autorevoli voci in Europa. La Convenzione deve esplicitamente porsi come obiettivo la creazione degli Stati Uniti d'Europa, costruendo la prima democrazia postnazionale nel mondo, capace di agire in politica estera, economica, della difesa e dotata di un bilancio adeguato (tra il 2,5 e il 5% del PIL europeo). Non si tratta di costruire un super-Stato europeo, ma realizzare una Federazione politica post-nazionale per politiche e esigenze ben identificate attraverso il principio di sussidiarietà. Si tratta cioè di recuperare insieme, in settori decisivi, quella capacità di agire che gli Stati nazionali hanno irrimediabilmente perso nell'era globale. E di superare le numerose lacune del trattato di Lisbona, già vecchio al momento della sua firma e che la crisi attuale ha reso del tutto obsoleto, soprattutto per la sua parte economica. L'Unione deve svincolarsi dagli egoismi e dalle miopie nazionali e non ricadere nella trappola di atteggiamenti, prese di posizione e manovre in cui lo stretto interesse nazionale, legato a questioni specifiche, prevale sul più generale interesse europeo e impedisce di avanzare insieme.
La Convenzione deve porsi come obiettivo la creazione degli Stati Uniti d'Europa, la prima democrazia postnazionale nel mondo
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Atteggiamenti da sempre sbagliati e assolutamente insostenibili oggi di fronte alle minaccia che incombe sull'esistenza stessa dell'Unione. È da questa nuova minaccia che dobbiamo ritrovare la spinta per fare il grande salto federale. La nuova federazione andrà creata con quei popoli e quegli stati che la vorranno e che dovrebbero esprimersi sui risultati della Convenzione con un referendum europeo su scala continentale. Con gli altri, con coloro che decideranno di non avanzare su questa via, la nuova Federazione europea dovrà negoziare accordi speciali a intensità variabile (che potrebbero includere il mercato unico, Schengen, la difesa ecc) rimanendo comunque sempre aperta a coloro che sceglieranno di aderirvi in un secondo momento. La Federazione dovrà poi superare del tutto la persistente frammentazione del potere esecutivo in Europa. In particolare, sul modello dell'Alto Rappresentante, tutti gli altri Commissari europei dovranno presiedere i Consigli dei ministri corrispondenti alle loro competenze, a partire dal Consiglio ECOFIN e dall'eurogruppo, che andrà presieduto dal Commissario all'economia e finanza (Ministro dell'Economia europeo, rappresentate unico dell'euro nel mondo). Un vice presidente ad hoc della Commissione dovrà invece presiedere il Consiglio affari generali, composto da vice primi ministri nazionali con delega alle politiche europee nei singoli Stati-membri. Anche le commissioni del parlamento europeo e dei parlamenti nazionali dovrebbero configurarsi attorno agli stessi settori, dando così vita ad sistema di governo federale misto e cooperativo. Va poi affrontata la questione della legittimità democratica della Commissione, attraverso l'elezione popolare diretta quantomeno del suo Presidente. Un'elezione diretta già possibile oggi e che il Partito Democratico deve continuare a proporre in vista delle elezioni europee del 2014, con candidature capaci di aggregare diverse forze europeiste, democratiche e progressiste, andando oltre le divisioni partitiche novecentesche. Il presidente della Commissione così eletto dovrà anche presiedere il Consiglio europeo, come lo stesso trattato di Lisbona consente di fare, diventando un vero e proprio “Presidente dell'Europa”. Una riaggregazione delle funzioni esecutive attorno ad una Commissione rilegittimata, 34
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espressione della volontà popolare e parlamentare, è l'unica via per assicurare una governo coerente ed efficace. Ciò vale soprattutto per la politica economica, passando dall'attuale, e inefficace, coordinamento tra Stati delle politiche economiche ad un potere economico attribuito al nuovo governo in un'unione fiscale europea. Un governo che agisca in un sistema in cui tutte le decisioni del Consiglio vengono prese a maggioranza e codecise assieme al Parlamento europeo, alla luce degli indirizzi politici di fondo del Consiglio europeo presieduto dal “Presidente dell'Europa”; e con un forte potere di orientamento e controllo sulle politiche europee dei rispettivi governi da parte dei parlamenti nazionali e regionali.
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L'incompiutezza democratica dell'Europa oggi è un grande freno e crescono le forze populiste, xenofobe e nazionaliste che sfruttano proprio tale freno per bloccare la costruzione europea
Il nuovo processo federativo dovrà sciogliere altri temi fondamentali, come l'incompletezza democratica e l'insufficienza del bilancio. L'Unione europea non riesce a mobilitare anche perché è ancora una democrazia limitata e incompiuta. L'incompiutezza democratica dell'Europa oggi è un grande freno e crescono le forze populiste, xenofobe e nazionaliste che sfruttano proprio tale freno per bloccare la costruzione europea. È quindi necessario completare l'Europa politica e 35
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La politicizzazione è l'unica via possibile per creare quel legame emotivo tra Europa e cittadini, sempre mancato e oggi indispensabile per creare un'Unione veramente democratica
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democratica. C'è bisogno di più competizione politica: questo promuoverebbe innovazione politica, coalizioni più ampie nelle istituzioni, incentivi ai media a seguire l'attualità politica europea e consentirebbe ai cittadini di capire chiaramente chi fa cosa nell'Ue e si schiera dove nei dibattiti europei. Dobbiamo ridurre la distanza tra competizioni partitiche organizzate unicamente in chiave nazionale e problemi la cui dimensione è europea e globale. È la «politicizzazione» dell'Unione europea. Almeno una quota di parlamentari europei nel 2014 andranno quindi eletti in liste transnazionali, guidate dai candidati alla “presidenza dell'Europa”, per favorire l'emergere di veri e propri partiti transnazionali. E le possibilità di iniziativa legislativa offerte ai cittadini dal Trattato di Lisbona vanno sin d'ora pienamente sfruttate dai partiti politici, dai sindacati e dalle varie organizzazioni della società civile, per favorire un rinnovato interesse e una nuova mobilitazione dei cittadini su temi e priorità da affrontare a livello europeo. Un esempio? NO al nucleare in tutto il continente. La politicizzazione è l'unica via possibile per creare quel legame emotivo tra Europa e cittadini, sempre mancato e oggi indispensabile per creare un'Unione veramente democratica. Il finanziamento dell'UE è la seconda questione da affrontare. È evidente infatti che il bilancio attuale, pari all'1% del Pil europeo, è del tutto insufficiente rispetto agli ambiziosi obiettivi enunciati nei Trattati e irrisorio per la federazione europea di cui c'è un pressante bisogno. Basti pensare che, negli Stati federali, il bilancio federale si aggira attorno al 15%. Ciò rende necessaria una sua revisione, nel senso di un aumento dei tetti massimi (tra il 2,5 e il 5%) e una revisione delle risorse proprie dell'Unione, attraverso una fiscalità europea (finanziaria, dell'ambiente…), che renda più certe, trasparenti e meglio verificabili dai cittadini le finanze europee e l'uso che ne viene fatto. Ad un'Europa miope, ripiegata su sé stessa, ad un'Europa prigioniera degli egoismi nazionali, priva di governo e in balia delle turbolenze globali, dobbiamo contrapporre un'Europa della politica e della cittadinanza. Proporre la Federazione europea oggi significa riscoprire la grande attualità del Manifesto di Ventotene. Oggi ancora più di allora, la vera divisione della politica è tra conservatori e
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innovatori. Tra chi si illude che la politica nazionale abbia ancora un senso, che lo stato-nazione sia un attore ancora vivo ed efficace e chi crede che nulla si possa fare in stati ormai politicamente morti. Il mondo stavolta è veramente cambiato, le vecchie vie nazionali non ci sono veramente più, un'epoca è veramente finita. Oggi possiamo e dobbiamo costruire gli “Stati Uniti d'Europa”.
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Europa e Regioni, l'impasse delle politiche di coesione Claudio Martini è presidente del Forum Politiche Locali del PD
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e stridenti contraddizioni esistenti tra le speranze accese dalla costruzione europea e la delusione per l'impasse in cui ci troviamo si colgono molto bene dall'analisi del rapporto tra Europa e Regioni, tra bilancio generale e politiche di coesione. Guardiamoci un po' dentro. Il futuro bilancio dell'UE. Il sostegno del Parlamento europeo e delle Regioni In queste settimane il dibattito sui fondi UE e sulle risorse della politica regionale si va complicando. Dietro le solite dichiarazioni concilianti c'è molta incertezza e affiorano evidenti e trasversali contrasti. La battaglia sull'avvenire della politica di coesione è aperta. La Commissione propone di stabilizzarne il budget appena sopra l'1% del PIL europeo, ribadendo che la politica di coesione ha fatto bene all'Europa, agli Stati più poveri ma anche a quelli ricchi, creando lavoro e moltiplicando gli investimenti. Si chiede coerenza con la strategia 'Europa 2020', concentrazione tematica, più dimensione territoriale e partenariati, coinvolgimento delle autonomie, attenzione alle “regioni intermedie”, cioè né ricche né povere. E si propone di condizionare gli aiuti ai risultati effettivi. Il Parlamento europeo appoggia la proposta, pur dividendosi sulle “regioni intermedie”. Molti parlamentari sono favorevoli (così come le Regioni), ma i tedeschi sono fortemente contrari. Il Comitato delle Regioni condivide il progetto di bilancio, ma con qualche diffidenza sulla sua attuazione reale. 38
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Il mugugno dei Paesi 'donatori' Tra i governi e dentro la Commissione le cose vanno però diversamente. Molti osservatori prevedono che sarà molto difficile arrivare ad un accordo. Si teme che le pressioni francesi per perpetuare i sussidi agricoli e quelle inglesi per mantenere lo “sconto” conquistato finiranno per ridurre i finanziamenti alla politica di coesione. Più sullo sfondo resta il dissidio se essa debba riguardare solo le regioni arretrate o tutti i territori dell'Unione, il che influisce sulla natura e qualità dei programmi regionali. Non si sopisce poi la polemica dei sostenitori della coesione contro ogni tentativo di “rinazionalizzare” le politiche regionali, vanificando consolidate esperienze di integrazione, vicinato, cooperazione. Il pericolo più grosso resta però il “mugugno” dei paesi donatori, giunto oggi ad un nuovo picco. Lo dimostra la lettera inviata da otto grandi Stati per chiedere la diminuzione del budget europeo, fatto ormai immancabile alla vigilia di ogni decisione budgetaria. Questa volta l'argomento è che con forti deficit nazionali non si può spendere molto per l'Europa. Bisogna spendere meno e meglio. Per la prima volta anche l'Italia ha firmato la lettera, con un atto unilaterale del governo. Scelta sconcertante e sciagurata, perché dai fondi strutturali europei le Regioni italiane attingono oggi la maggior parte delle risorse per investimenti e per politiche territoriali innovative. Il governo chiede all'Europa di istituire gli Eurobond e di comprargli i Btp, ma non si impegna per le politiche di coesione. È il trionfo dell'ipocrisia e dell'autolesionismo. L'impasse europea: il gap tra intenzioni e fatti concreti Questo quadro contraddittorio non è una novità. C'è da sempre un gap tra le intenzioni dell'Unione e i fatti concreti, e sulla politica regionale non si fa eccezione. Speranze e delusioni si succedono senza sosta e senza una soluzione in vista. Ricostruiamo gli elementi essenziali di questo dibattito. Dal lato delle speranze accese si può dire che negli ultimi anni l'Unione ha “investito” sulle sue Regioni, o almeno ha fatto credere di volerlo. Già il dibattito della Convenzione, nel 2002-03, ha dato spazio ai temi della sussidiarietà, al ruolo del Comitato delle Regioni, a una prima riflessione sulla governance. E ha 39
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introdotto il nuovo concetto di “coesione territoriale”: tutte le regioni devono avere una chance offerta dalla politica europea. Il Trattato di Lisbona che ratifica la Costituzione recepisce questi punti. C'è dietro il convincimento che il deficit democratico e di legittimazione dell'Europa si possa recuperare anche grazie ai corpi intermedi, a Regioni e città. È forse retorico e insincero, ma si dice! Sul piano programmatico si fa strada una riflessione critica sulla Strategia di Lisbona, il cui fallimento sta anche nella sua impostazione elitaria: tutto è affidato ai governi centrali, senza alcuna “mobilitazione” del territorio. E così è stato ed è per altre strategie e altri programmi. Si nota poi qualche correzione “pratica”. C'è più spazio per le Regioni nei grandi Programmi Quadro, ad esempio sulla ricerca. E la Commissione fa sponda a una discussione nuova sulla “governance multilivello”. Si propongono progetti più integrati, si creano “piattaforme” in cui Unione, Stati membri e Regioni/città ragionano insieme. Cose interessanti, non banali. Ma timide e ancora embrionali. Forse più consistente è il lato delle delusioni. Mentre si predica bene avanza inesorabile la sconfessione dei buoni propositi. In particolare è impossibile non vedere il rafforzarsi del metodo intergovernativo, anche per una debolezza crescente della Commissione. La multigovernance appare esercizio letterario, nella pratica va avanti quello che vogliono i governi (forti). Insistente è il tentativo di “rinazionalizzare” le politiche regionali, quelle a maggiore impatto territoriale. È l'opposto di quello che serve, perché così saltano gli stimoli alle migliori pratiche di cooperazione e partenariato. Ed è anche un colpo evidente alla pur declamata “cultura europea dal basso”. Non si placano poi le baruffe sul budget. Crescente è l'attacco ai fondi destinati alle politiche regionali e di coesione. O comunque vengono creati ostacoli sempre più forti a renderli disponibili, efficaci, coerenti con i pronunciamenti. Quello che più colpisce è la caduta di ambizione dell'Unione rispetto al tema della coesione. La “grande crisi” 2008-2011 sposta l'attenzione sui temi finanziari, prevale una logica emergenziale che fa sì che l'Europa stia sempre più sull'asse governi-BCE-banche centrali. Il “territorio”, al di là della retorica, è saltato a piè 40
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pari. Le tante proposte di progetti integrati, utili anche a fronteggiare i drammi occupazionali, restano lettera morta. E, più generalmente, perdura una visione liberista per cui ripresa e competitività si avranno dalle politiche “mercatiste”. L'idea che la coesione sociale e territoriale possa essere un motore della crescita non si fa strada. Per indisponibilità della destra che domina politicamente l'Unione. Per la timidezza e l'afasia dei socialisti, democratici e progressisti che non propongono una visione nuova dell'Europa. Dalle autonomie un sangue nuovo all'Unione Nella concezione della politica di coesione e nella relazione con le Regioni e le città si conferma dunque il doppio volto dell'Europa. Grandi propositi e pronunciamenti, atti concreti in controtendenza. Eppure dalle autonomie territoriali può venire un “sangue nuovo” al travagliato progetto di unificazione e costruzione dell'Europa politica. Senza enfasi e senza sottovalutazioni. In fondo le Regioni hanno sempre detto che era sbagliato parlare di “Europa delle Regioni”. Già è complicato a livello statuale, figuriamoci se si scende a livello sub-nazionale. Lo slogan giusto non è mai stato quello di “regionalizzare l'Europa” ma semmai quello di “europeizzare le Regioni”. Ossia far sì che nei loro programmi come nei loro investimenti, le Regioni (e le città) si sentissero parte di un progetto condiviso, strumento di rappresentanza e di collegamento con i cittadini e braccio operativo delle strategie più importanti. Sarebbe un grande passo avanti. Superare provincialismi ed egoismi locali, dal basso. E avvicinare l'Unione europea ai suoi cittadini. La pratica vera della politica di coesione. Non è nemmeno difficilissimo. Certo ci vuole almeno un po' di volontà politica da parte degli Stati membri.
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Perdura una visione liberista per cui ripresa e competitività si avranno dalle politiche “mercatiste”. L'idea che la coesione sociale e territoriale possa essere un motore della crescita non si fa strada
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La politica europea di giustizia e sicurezza comune dopo il Trattato di Lisbona Fabrizia Panzetti è policy advisor per la Giustizia e gli Affari Interni, Gruppo Socialisti e Democratici al Parlamento europeo
Per la prima volta la necessità di un'Europa politica è divenuta sempre più evidente nella percezione collettiva, non più soltanto agli occhi degli attori politici di progresso, europeisti, ma anche dei cittadini europei, degli imprenditori, dei sindacati
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a crisi drammatica e profonda che l'Unione europea sta attraversando non coinvolge soltanto l'economia, i mercati, la moneta unica, ma la stessa ragion d'essere dell'Unione come comunità di diritto e dei diritti. La debolezza dell'Unione europea è apparsa in tutta la sua evidenza dinanzi all'incapacità dei governi europei di fare quadrato a fronte della crisi del debito che ha travolto la Grecia e al rischio di una reazione a catena dei movimenti speculativi, che potrebbe travolgere, come in un gioco di domino, anche grandi Paesi europei, in particolare l'Italia – Paese fondatore – e la Spagna. In questa estate drammatica, di fronte alle proteste di piazza in Grecia, alle preoccupazioni dei cittadini e delle parti sociali in tutti i Paesi membri, sono apparsi paradossali e colpevoli tanto il ripiegamento nazionalista di molti dei governi di centro destra e le misure parziali e tardive adottate con fatica dai ministri sul filo delle settimane, quanto l'assenza di coraggio di una Commissione europea, abituata ad assecondare gli orientamenti delle cancellerie nazionali, piuttosto che svolgere in pieno il ruolo che le assegnano i Trattati istitutivi: quello di motore dell'Unione europea, di garante dell'interesse collettivo, insieme a quel potere di iniziativa legislativa che avrebbe consentito al Presidente Barroso di dare un impulso coraggioso e tempestivo davanti all'esitazione del Consiglio. Per la prima volta la necessità di un'Europa politica, dell'Unione europea come attore politico unitario, è divenuta sempre più evidente nella percezione collettiva, non più soltanto agli occhi degli attori politici di progresso, europeisti, ma anche dei cittadini europei, degli imprenditori,
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dei sindacati. E questa evidenza ha messo in difficoltà le classi dirigenti nazionali ed europee prevalentemente di segno conservatore, che, in questi anni, seguendo logiche elettoralistiche di corto raggio, hanno preferito in molte cruciali occasioni il ripiegamento intergovernativo ad un reale governo europeo, a volte accarezzando e a volte cavalcando i timori di opinioni pubbliche, spaventate dalla crisi economica, dalla disoccupazione, dalle sfide poste dall'immigrazione a società sempre più complesse. Questa spinta a un ritorno a dinamiche nazionali e intergovernative in settori di competenza dell'Unione europea non è nuova e, ancora prima delle politiche economiche, ha investito politiche che riguardano il nucleo di principi e di valori su cui si è venuta fondando l'Unione stessa. La verità è che questa crisi inedita viene da lontano e non riguarda soltanto la tenuta della moneta unica e la questione, pur fondamentale, della governance economica, ma investe in pieno l'identità dell'Unione europea e la sua stessa ragion d'essere. Investe, cioè, quei diritti e quelle libertà fondamentali, sanciti dalla Carta dei diritti dell'Unione europea, che il nuovo Trattato di Lisbona ha posto al cuore della costruzione europea. Cittadinanza, dignità, uguaglianza, solidarietà, giustizia: l'esigibilità dei diritti legati a questi valori fondativi dell'Unione, affermati nella Carta, è stata al centro di forti tensioni non soltanto negli ultimi mesi, ma, in modo costante, negli ultimi due anni. In particolare la cittadinanza europea, nelle sue diverse dimensioni, è stata al centro di vicende che hanno messo in discussione, per la prima volta nella storia dell'integrazione europea, i diritti derivanti a tutte le persone dal fatto stesso di essere cittadini europei. Il diritto di muoversi liberamente attraverso le frontiere nazionali, di vivere, studiare, lavorare in uno qualsiasi dei Paesi membri portando con sé i propri diritti e avendo garantito un eguale accesso alla giustizia e una eguale tutela della propria sicurezza: questi diritti sono stati il primo bersaglio dei governi conservatori che ormai detengono la maggioranza in seno al consiglio dell'Unione europea e che hanno preferito una deriva nazionale populista a decisioni concordate nel rispetto del diritto europeo. 43
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Questo è accaduto in diverse occasioni nel corso dei due anni che hanno segnato l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. L'espulsione collettiva di cittadini rumeni di etnia Rom da parte del governo francese nell'estate del 2010 ha segnato un primo importante momento di tensione, a seguito della violazione delle piÚ elementari garanzie che proteggono nell'Unione europea il diritto di ogni cittadino a muoversi liberamente. Nella primavera di quest'anno la reazione dei governi europei ai movimenti migratori, frutto dei processi in corso nel quadro della "primavera araba", è stata emblematicamente debole e inadeguata, specchio dell'assenza di una strategia politica di ampio respiro. Logiche puramente nazionali hanno portato dapprima il governo italiano incapace e indisponibile a gestire l'accoglienza di poche migliaia di persone - ad emettere permessi di soggiorno temporaneo in modo strumentale per favorire il passaggio dei migranti in Francia, e hanno poi indotto il governo francese alla chiusura della frontiera interna lungo il confine italiano.
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I governi dell'Unione europea sono apparsi divisi, attenti al consenso nazionale di breve periodo e incapaci di dare all'Unione europea le gambe per fare quel salto di responsabilità che sarebbe richiesto davanti a una occasione storica importante quale il rapido mutamento in senso progressivo degli scenari politici e sociali in una delle regioni del mondo più importanti per l'Europa. Lo stesso sta accadendo ora con l'attacco di alcuni governi al sistema definito dagli accordi di Schengen e, quindi, all'insieme di regole che disegnano la gestione comune delle frontiere interne ed esterne dell'Unione europea, fondato in positivo sul diritto alla libera circolazione su tutto il territorio dell'Unione e su una cooperazione stretta e leale tra le autorità di frontiera e di polizia, a garanzia della sicurezza dello spazio comune. È figlia di questa crisi di valori anche l'opposizione ideologica di alcuni Paesi membri, tra cui tre Paesi fondatori come Francia, Germania e Olanda, all'estensione della libertà di circolazione ai cittadini rumeni e bulgari e all'apertura delle frontiere interne con Bulgaria e Romania, sebbene i due Stati soddisfino da mesi i requisiti necessari. Il Parlamento europeo ha reagito con forza in ognuna di queste occasioni all'attacco portato contro uno dei pilastri dell'Unione, la cittadinanza europea, e ha richiamato la Commissione europea e il Consiglio alle proprie responsabilità e al rispetto del diritto. La Commissione europea è apparsa titubante, ha esitato a utilizzare i poteri di controllo e sanzione nei confronti dei governi nazionali e a difendere i diritti sanciti nella Carta europea, ma alla fine ha fatto sentire la propria voce e la propria forza avanzando proposte di legge importanti, che potranno mettere l'Unione europea in grado di decidere collettivamente di eventuali limitazioni alla libertà di circolazione, ponendo questo diritto di cittadinanza al riparo dalle decisioni unilaterali dei governi nazionali. Allora, a ben vedere, il lavoro legislativo che il Parlamento europeo svolgerà su queste proposte non è cosa diversa dal lavoro legislativo che è stato svolto sulla governance economica: entrambi, infatti, si collocano nel quadro di un processo dialettico in atto, che ha al centro l'esistenza o meno dell'Unione europea come attore politico pieno e sovrano. Il Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini, può avere il ruolo di catalizzatore politico della spinta verso una 45
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Si tratta senza dubbio di una fase molto delicata, di snodo, per l'Unione europea e in particolare per le forze progressiste; una fase in cui è chiaro che le risposte semplicistiche della destra, pur premiate dall'elettorato, non funzionano più e in cui si apre una opportunità preziosa per un salto di qualità dell'Unione europea nel senso di una più forte sovranità condivisa
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Unione europea politica più forte, che sta montando in questi giorni anche da ambienti conservatori davanti all'evidenza della necessità di un governo europeo per fronteggiare la fase storica difficile in cui i singoli Paesi e le singole società si stanno muovendo. Si tratta senza dubbio di una fase molto delicata, di snodo, per l'Unione europea e in particolare per le forze progressiste; una fase in cui è chiaro che le risposte semplicistiche della destra, pur premiate dall'elettorato, non funzionano più e in cui si apre una opportunità preziosa per un salto di qualità dell'Unione europea nel senso di una più forte sovranità condivisa. È sempre accaduto nella storia dell'integrazione europea: ogni qual volta una riforma istituzionale disegna un Europa politica più forte, subito segue una spinta uguale e contraria dei governi per frenare la realizzazione di quel progetto, quasi nel timore di vederlo realizzato. A ben vedere però, questi mesi drammatici in cui l'Unione europea è apparsa bloccata ci regalano in potenza una inedita e forte finestra di opportunità per quella cessione di sovranità nazionale necessaria all'Unione europea per garantire alle persone i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti e che sono a fondamento dell'Europa e delle nostre costituzioni. Una finestra che i progressisti europei devono spalancare, lanciando una forte offensiva politica e culturale per un'Unione europea più forte, che metta le persone, il loro diritto alla libera circolazione, alla giustizia, all'istruzione, a un lavoro dignitoso, alla salute, a non essere discriminati, al rispetto della vita privata al centro della propria azione. I diritti fondamentali sono dunque il cuore vivo della fase complessa che sta affrontando l'Unione europea e dalla quale non uscirà se non imbraccerà quei diritti, sanciti dalla Carta, che già la proiettano ben oltre le ragioni del mercato interno e della moneta unica e che ne sono, insieme, le fondamenta e la cifra nuova.
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Il deficit sociale e democratico dell'Ue Luca Baccelli insegna Filosofia del diritto nelle Università di Camerino e Firenze
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e lo chiede l'Europa». Per giustificare la manovra di ferragosto, insieme sgangherata ed eversiva della costituzione formale e materiale, Berlusconi ha ripetuto questo mantra. Strano che non abbia aggiunto che l'Europa l'hanno fatta i giudici. Fin dal 1951, l'integrazione sembra aver seguito un'intuizione già presente nella Dichiarazione Schumann: “realizzazioni concrete” sul piano economico avrebbero aperto la strada all'integrazione politica e garantito la pace. In realtà il processo non è stato lineare, come dimostrano le ricorrenti crisi politiche. Per risolvere quella della “sedia vuota” nel 1966 il compromesso di Lussemburgo ha riaffermato il potere dei governi e messo in stallo l'integrazione politica. È qui che sono intervenuti i giudici: negli anni sessanta e settanta è stata la Corte di Giustizia a risolvere alcune questioni decisive ed è per via giurisprudenziale – in realtà senza molti appigli nella lettera dei trattati – che la Comunità ha assunto molti dei connotati di un modello federale. Già nel 1963 la sentenza Van Gend en Loos trattava la CEE come un ordinamento “di nuovo genere”, cui gli Stati hanno ceduto poteri sovrani, e affermava che il diritto comunitario attribuisce ai cittadini determinati diritti soggettivi, azionabili dinanzi alle giurisdizioni nazionali ed europee. In Costa c. Enel, del 1964, è emerso il primato dell'ordinamento comunitario in caso di contrasto con le leggi statali; e questo principio è stato esteso al caso del conflitto con le costituzioni nazionali da Internationale Handelsgesellschaft del 1970. Sentenze come Lütticke del 1966, Dassonville del 1974 e Rewe del 1976 hanno notevolmente contribuito alla realizzazione del mercato interno. D'altra parte, fin dagli anni sessanta, la Corte ha fatto più volte riferimento alle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”. In particolare, nella sentenza Nold del 1974, la Corte ha affermato che i diritti fondamentali espressi in tali tradizioni “fanno parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce l'osservanza”. Dato il primato dell'ordinamento comunitario, attraverso l'azione della 47
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Il diritto giurisprudenziale potrebbe allinearsi a quei processi che mettono a repentaglio il patrimonio costituzionale comune e dunque la stessa identità europea
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Corte tali principi producono norme immediatamente operative nell'ordinamento comunitario e in quelli degli stati membri. A Maastricht il riferimento alle tradizioni costituzionali comuni è stato inserito nel Trattato UE. Ma, come ha osservato Alessandro Pizzorusso, già prima delle vicenda della redazione del Trattato costituzionale e dei referendum in Francia e Olanda, la Corte aveva di fatto risolto, per via giurisprudenziale, il problema dell'esistenza di una “costituzione europea”. La “funzione costituente” svolta dalla Corte ha un notevole rilievo per la stessa questione dell'identità dell'Europa. Contro la nota tesi di Dieter Grimm, per cui non è possibile realizzare una costituzione europea perché non c'è un popolo europeo, si è sostenuto che ciò che definisce la comunità politica non sono fedi religiose, tradizioni culturali risalenti, identità etnico-linguistiche, ma piuttosto una serie di principi giuridici e di istituzioni politiche, e la solidarietà comune rimanda al “patriottismo costituzionale”. Jürgen Habermas ha cercato di precisarne la specificità, identificando alcuni tratti che differenziano l'Europa da altre esperienze liberaldemocratiche. Particolare rilievo ha la costituzionalizzazione dei diritti sociali: nell'Europa contemporanea una serie di garanzie sul piano della salute, della sicurezza sociale, dell'istruzione, del lavoro non sono viste come il mero risultato di politiche pubbliche congiunturali, ma rientrano in quel nucleo di principi che definiscono un ordinamento costituzionale, “indisponibili” rispetto al gioco delle maggioranze parlamentari ed alle vicende del ciclo economico. Il diritto giurisprudenziale sembra rimanere protagonista anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Una delle sue principali novità è l'attribuzione alla Carta dei Diritti dello stesso rango dei trattati. Ma in una serie di sentenze del 2010, a cominciare da Kücükdeveci, la Corte di Giustizia, quando non ignora la Carta, tende a considerarla niente più che un'ulteriore conferma di principi ricavati dall'esame delle direttive e della giurisprudenza. Questo appare particolarmente evidente nel caso dei diritti sociali, peraltro formulati nella Carta con una certa timidezza e numerose limitazioni che rimandano al diritto comunitario ed alle legislazioni nazionali, e che la Corte tende ad affidare ai giudici nazionali. Come ha notato Paolo Bianchi, il rischio è quello di un processo di “decostituzionalizzazione” dei diritti sociali, e l'aspettativa che la Corte contribuisca con sentenze coraggiose all'affermazione di un patrimonio europeo dei diritti sociali sembra assai irrealistica. Il diritto giurisprudenziale potrebbe così allinearsi a quei processi (dalla globalizzazione dei mercati finanziari alla precarizzazione del lavoro, alle nuove politiche sicuritarie, ad
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alcuni aspetti dello stesso processo di integrazione, come la “liberalizzazione” dei servizi gestiti dai privati in assenza di una comune politica sociale e fiscale) che mettono a repentaglio il patrimonio costituzionale comune e dunque la stessa identità europea. L'ordinamento giuridico dell'Unione Europea offre molti argomenti ai teorici delle trasformazioni “post-moderne” del diritto, se non di un ritorno del modello premoderno, romanistico e medievale. Appare irrealistica una “restaurazione” a livello europeo del paradigma statalistico moderno, ed è verosimile che il diritto giurisprudenziale mantenga uno spazio ampio. D'altronde i giudici non devono necessariamente assumere un ruolo conservatore. Basterebbe pensare all'azione innovativa della Corte Suprema negli USA negli anni sessanta (dopo decenni di sentenze conservatrici), in particolare nell'ambito dei diritti civili. Oppure ricordare, in Italia, il ruolo della Corte costituzionale per l'introduzione della legislazione sull'aborto, o quella della giurisprudenza del lavoro nella trasformazione delle relazioni industriali. Ma occorre interrogarsi sul contesto nel quale avviene l'operato dei giudici, che in genere si rivela timido e/o inefficace se non è sollecitato e sostenuto da una mobilitazione nella società e nell'opinione pubblica. Un ruolo progressivo della giurisdizione presuppone una sorta di triangolazione fra i processi sociali di rivendicazione – quei processi da cui, secondo Norberto Bobbio, “nascono” i diritti – l'operato delle corti, le innovazioni introdotte dalle istituzioni legislative; quel processo che Frank Michelman ha chiamato political jurisgenesis. E d'altra parte, la costruzione di un diritto europeo per via giurisprudenziale ha operato in parallelo con quel processo virtuoso, intuito da Schumann, attraverso il qual le azioni sul piano economico hanno favorito l'integrazione politica. Oggi ci troviamo, viceversa, di fronte ad una integrazione economica, in primis monetaria, che non è governata da solide istituzioni politiche e non si fonda su un'effettiva integrazione sociale. D'altronde, è evidente che al diritto giurisprudenziale non si può chiedere troppo: non può sostituirsi ai soggetti individuali e collettivi né elaborare un progetto politico. Questo ci riporta drammaticamente all'attualità. Le istituzioni europee, per come sono emerse dal processo di integrazione, ad oggi si sono dimostrate incapaci di un'azione politica in grado di rispondere alla crisi globale iniziata nel 2008, e tantomeno di far fronte alla ridefinizione degli equilibri geoeconomici globali: sono state assenti – si pensi all'afasia della Commissione – o concentrate sulle compatibilità monetarie e il pareggio dei bilanci. I governi, non solo quelli dei paesi tradizionalmente euroscettici, hanno messo in primo piano i conti interni e il consenso elettorale, peraltro senza ottenere grandi risultati: si
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Occorre interrogarsi sul contesto nel quale avviene l'operato dei giudici, che in genere si rivela timido e/o inefficace se non è sollecitato e sostenuto da una mobilitazione nella società e nell'opinione pubblica
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Non è solo questione di eurobond. Occorrerebbe intervenire su quel deficit sociale che rimanda ad un deficit identitario e si traduce nel deficit democratico
Non si è attivata una mobilitazione politica in grado di valorizzare quel tanto di cittadinanza europea che si è realizzata e di rivendicarne lo sviluppo nel senso della democrazia e della tutela dei diritti fondamentali
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pensi al crepuscolo di Angela Merkel, e, per amor di patria, si taccia sulla leadership italiana. Molti commentatori invocano un rilancio dell'integrazione europea. Ma non è solo questione di eurobond. Occorrerebbe intervenire su quel deficit sociale che rimanda ad un deficit identitario e si traduce nel deficit democratico. L'ambivalenza fra la costruzione di un'Europa con una sua identità politica – e sue politiche sociali – che riprenda e sviluppi il suo patrimonio costituzionale, da un lato, e il rischio di neutralizzazione della specificità europea, la sua normalizzazione rispetto agli imperativi della finanza globalizzata, ha aperto uno spazio ideologico che i gruppi populisti e reazionari hanno saputo occupare. Non si è attivata una mobilitazione politica in grado di valorizzare quel tanto di cittadinanza europea che si è realizzata e di rivendicarne lo sviluppo nel senso della democrazia e della tutela dei diritti fondamentali. Riavviare l'integrazione europea significherebbe allora non attenuare, ma valorizzare l'identità europea, in primo luogo sciogliendo l'ambiguità presente della Carta di Nizza fra l'affermazione della “solidarietà” e la costituzionalizzazione del liberismo. Ma è chiaro che non può bastare l'azione dei giudici, che comunque allo stato attuale in tema di diritti sociali sembra riassumere i tratti conservatori tradizionalmente attribuiti al diritto giurisprudenziale. Dipenderà dalle capacità di impostare a livello europeo le istanze in termini di contrattazione collettiva, diritti dei lavoratori, sicurezza sociale, sistemi pensionistici, diritto alla salute, tassazione. E dipenderà dall'elaborazione di progetti politici e dalla costruzione di soggetti politici europei. Questo non è possibile se si pretende che tutti i paesi si muovano alla stessa velocità e forse non è neppure pensabile che si muovano nella stessa direzione. Intorno alla svolta del millennio la dirigenza europea ha giocato la scommessa di tenere insieme il rafforzamento politico dell'Unione ed il suo allargamento, e rebus sic stantibus questa scommessa l'ha persa. L'allargamento ad Est e a Sud, oltre che un profondo valore storico-simbolico, ha senza dubbio anche un potenziale significato politico, sociale ed economico. Ma che possa procedere di pari passo con l'integrazione politica è un desiderio irrealistico. La ricostruzione di un nucleo forte dell'integrazione europea e l'adozione della “cooperazione rafforzata” appare l'unica via possibile. È qui il campo di azione, l'ambito per la ricerca intellettuale e la sfida vitale per una nuova forza politica del progressismo europeo.
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Eurozona:
dal mercato comune al mercato unico Giuliano Garavini è ricercatore in Storia delle relazioni internazionali presso l'Università di Padova
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el 1986 è stato firmato l'Atto unico europeo, nel 1992 il trattato sull'Unione europea (quello di Maastricht), il trattato di Amsterdam nel 1997, quello di Nizza nel 2001 e, buon ultimo, il trattato di Lisbona nel 2009. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, i governi dei paesi che compongono quella che, dopo Maastricht, si chiama Unione europea, hanno sfornato in media un trattato ogni 5-6 anni. In termini di produzione legislativa potrebbe dunque sembrare che nell'ultimo trentennio vi sia stata un'accelerazione dell'integrazione fra i cittadini europei; passi sostanziali verso la creazione di una comunità politica e culturale, così come auspicato da pensatori federalisti come Altiero Spinelli. La realtà è più complessa e meno incoraggiante. L'Europa del Mercato comune, avviata a partire dal 1957 con la nascita della Comunità economica europea (Cee), era costituita da un insieme di nazioni innervate da grandi partiti di massa, caratterizzate dalla presenza strategica dello Stato nella produzione e nella finanza, così come nella gestione di tutti i servizi di interesse generale. La Cee non interveniva nelle scelte interne degli Stati nazionali. Solo negli anni Settanta essa si pose il problema di un maggior ruolo in politica estera, nelle politiche di coesione (creazione dei fondi regionali), nelle dinamiche culturali (creazione dell'Istituto universitario europeo a Fiesole) e di democratizzarsi con l'indizione delle prime elezioni dirette del Parlamento europeo nel 1979. 51
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L'Europa del Mercato unico prese invece forma nel 1986 con la sigla dell'Atto unico europeo indirizzandosi prevalentemente a consentire all'industria e alla finanza privata di competere in un mondo sempre più interconnesso, anche attraverso il ridimensionamento del ruolo del pubblico nella gestione di imprese e servizi. Alla nascita dell'Unione europea e dell'euro nel 1992 corrispose l'indebolimento dei grandi partiti di massa, garanti fino a quel momento della coesione democratica delle nazioni e il mutamento del ruolo dei sindacati, sempre più strumento di pacificazione sociale piuttosto che di avanzamento sul piano dei diritti e della partecipazione diretta dei lavoratori. L'Unione europea, anche grazie all'innegabile fascino evocato dall'idea di libertà di movimento tra le frontiere (non però extraeuropee), della riconciliazione pacifica fra Europa dell'Ovest e dell'Est e dell'embrione di comunicazione culturale incarnato dal progetto Erasmus, si è trasformata in uno strumento che sta sottraendo ai cittadini la possibilità di decidere su grandi opzioni strategiche e di civiltà: pubblico/privato, beni comuni/privatizzazioni, inflazione/disoccupazione, lavoro sicuro/lavoro flessibile. Il ricorso sistematico a strumenti di partecipazione popolare diretta – prova ne siano gli esiti dei referendum del 2005 in Francia e in Olanda contro la “Costituzione europea” presentata da Giscard d'Estaing – non avrebbe consentito tali progressive cessioni di sovranità in favore di organismi tecnici quali la Commissione europea e la Banca centrale europea, o solo indirettamente rappresentativi come il Consiglio europeo. La reazione dei cittadini olandesi e francesi si è evidentemente indirizzata contro il funzionamento di un'Unione europea che, incentivando processi di deregolamentazione piuttosto che quelli di armonizzazione fiscale, sociale e culturale, ha avuto esiti così penalizzanti per la tutela del potere d'acquisto dei lavoratori e per la solidità dei sistemi di protezione sociale. La dimostrazione più evidente delle storture generate, non già dall'integrazione europea ma da quel particolare assetto istituzionale che essa si è data con il Mercato unico e l'euro, sta nel progressivo impoverimento e indebitamento delle aree ad Est e a Sud del cuore pulsante dell'economia europea. Gli aiuti finanziari sono passati dall'essere erogati dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, come 52
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avveniva fino agli anni Ottanta, ad essere erogati direttamente da alcuni paesi europei e dal Fondo monetario ad altri paesi della stessa regione per tenere in piedi il meccanismo dell'euro. Si è innescato uno strano e inconscio fenomeno collettivo per il quale l'opinione pubblica attende con ansia la concessione di nuove tranches di aiuti a paesi in difficoltà ai margini della zona euro. Si è atteso il generoso intervento della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale a sostegno dell'Irlanda, poi del Portogallo e della Grecia. Ma non ci si è chiesti a sufficienza se valesse veramente la pena di gioire per la concessione di tali aiuti. Sappiamo che Irlanda, Portogallo e Grecia sono entrati in una crisi che ne sta facendo vacillare il sistema finanziario e minando seriamente la solidità dell'economia. Per correre in loro soccorso, Fondo monetario internazionale e Unione europea hanno stabilito piani di aiuti da 109 miliardi di euro per la Grecia, 85 per l'Irlanda e 78 per il Portogallo. La caratteristica interessante di tutti questi piani è che una parte importante dei soldi va direttamente alle banche (35 miliardi nel caso irlandese, 10 miliardi nel caso portoghese), mentre l'altra parte va anche quella alle banche, ma solo indirettamente, permettendo a questi paesi di saldare il loro debito internazionale contratto in larga parte con istituzioni private francesi e tedesche. In cambio della salvaguardia dei sistemi bancari, tutti i piani prevedono le stesse identiche ricette lacrime e sangue per i cittadini, corredate da riduzione di stipendi e pensioni, riduzioni del numero di impiegati pubblici e da massicce privatizzazioni di compagnie aree, banche e servizi di ogni genere, fino a porzioni del territorio nazionale. Un altro edificante particolare del funzionamento dello European Financial Stability Facility (http://www.efsf.europa.eu/attachments/efsf_presentation_ en.pdf) è che, mentre si ripagano banche private che per anni hanno fatto profitti speculando sul differenziale tra i tassi di interessi con i quali loro prendevano soldi a prestito e i tassi su alcuni debiti sovrani, ci guadagnano anche le istituzioni pubbliche che prestano i soldi (tranne nel caso del prestito rinegoziato con la Grecia). L'Europa dell'euro diviene così apertamente uno strumento, non già per espandere le potenzialità di ciascuna nazione attraverso meccanismi di scelta comune e solidarietà
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Si è innescato uno strano e inconscio fenomeno collettivo per il quale l'opinione pubblica attende con ansia la concessione di nuove tranches di aiuti a paesi in difficoltà ai margini della zona euro. Ma non ci si è chiesti a sufficienza se valesse veramente la pena di gioire per la concessione di tali aiuti
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interna, ma per costringere a politiche di austerità cittadini delle aree periferiche del Continente. Le prossime modifiche dei trattati europei sembrano prefigurarsi proprio in questa direzione: costituzionalizzazione dei meccanismi di austerità e di controllo dei creditori sui debitori, modifica delle costituzioni dei paesi per introdurvi il pareggio di bilancio (che non si chiederebbe a nessuna azienda). Dalla Costituzione di Giscard si passerà così direttamente alla Costituzione di Francoforte, senza considerare quanto risentimento ulteriore questo genererà nei cittadini più disagiati del Continente. Il punto è che proprio non si vede in che modo, dopo aver salvato i rispettivi sistemi finanziari, cittadini senza un soldo in tasca e senza un lavoro, dovrebbero risollevarsi e non invece cadere in una spirale senza fondo di impoverimento e di subordinazione politica al Nord del Continente. Le forze politiche e sociali della sinistra europea dovrebbero invece opporsi, prima di tutto nel Parlamento europeo, ad ogni ulteriore erogazioni di aiuti finanziari che non vadano di pari passo a modifiche strutturali vere della governance economica dell'Unione europea: armonizzazione della fiscalità, difesa di beni comuni dalla privatizzazione, restrizioni alle banche sugli investimenti finanziari e loro parziale ripubblicizzazione, ristrutturazione del debito estero dei paesi in difficoltà, obblighi espansivi per i paesi in surplus commerciale, regole comuni sul lavoro, tassa sulla transizioni finanziarie da investire in beni comuni e infrastrutture, disincentivi alle delocalizzazioni e armonizzazione delle leggi sul lavoro. Eurolandia è solo l'ultima incarnazione del processo di integrazione europea e, se prosegue sulla strada tracciata dai leader conservatori di Francia e Germania così come dai tecnocrati di Francoforte, rischia di segnarne il progressivo quanto inesorabile sfaldamento.
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I progressisti e il rilancio del progetto europeo
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Il ruolo dell'Europa oltre la crisi Massimo D’Alema è presidente della Fondazione Italianieuropei e della Foundation for European Progressive Studies (FEPS)
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el giro dei prossimi due anni, il volto politico dell'Europa può cambiare. In quest'arco di tempo, infatti, in Francia, Germania e Italia si terranno elezioni politiche che potranno riconsegnare ai progressisti la guida di tre dei principali Paesi dell'Unione. Gli attuali governi di centrodestra appaiono alla fine del loro ciclo. Guardiamo alla condizione disastrosa in cui versa il governo Berlusconi, alle sconfitte elettorali incassate da Angela Merkel, non ultima quella di Berlino di pochi giorni fa. E guardiamo alla situazione di Sarkozy, dato perdente in tutti i sondaggi francesi. D'altra parte, un primo segnale di questa possibile svolta progressista lo abbiamo avuto in occasione delle recenti elezioni danesi, che hanno riportato il centrosinistra al governo dopo 10 anni di chiusura nazionalistica e identitaria. La prova che i progressisti europei hanno di fronte è senza dubbio impegnativa, ma ricca di opportunità se sapranno portare avanti un'opera di rinnovamento, a partire dalle proposte che dobbiamo mettere in campo. Per tornare a essere una forza di governo nella stagione politica che sta per aprirsi, non possiamo ritenere che sia sufficiente richiamarsi tout court agli schemi del passato. La crisi che stiamo vivendo, infatti, se da un lato ripropone l'attualità di alcuni grandi temi della sinistra riformista, dall'altro richiede nuovi approcci e strumenti per affrontarli. In questo senso, sono convinto che il primo tratto fondamentale che deve caratterizzare questo progressismo rinnovato sia il rilancio dell'europeismo. Una strategia vincente non può prescindere da un pensiero riformista che faccia dell'Europa unita il proprio fulcro, ridando all'Unione nuova forza politica ed economica. Proprio per questo le
Una strategia vincente non può prescindere da un pensiero riformista che faccia dell'Europa unita il proprio fulcro, ridando all'Unione nuova forza politica ed economica
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forze progressiste chiamate alla prossima sfida elettorale stanno lavorando per presentarsi ai propri cittadini con alcune proposte comuni a livello europeo che affrontino la crisi economica, finanziaria e sociale. Non si può continuare a pensare, infatti, ad una Unione che vada avanti a ranghi sparsi: è necessario dotare l'Europa di un propulsore autonomo, che si basi su alcune proposte per rilanciare la crescita, che sono da tempo al centro del progetto politico ed economico dei progressisti europei. Mi riferisco, ad esempio, alla financial transaction tax, all'emissione di eurobond, alla creazione di un'Agenzia indipendente per il debito. Strumenti a cui si deve accompagnare un piano di investimenti in infrastrutture, un pacchetto di misure per la valorizzazione e la tutela del lavoro, maggiori risorse per la ricerca, l'istruzione, le energie rinnovabili. Insomma, una risposta riformista che punti alla crescita economica e alla riduzione delle disuguaglianze, dopo il fallimento dimostrato dai governi delle destre che finora non hanno saputo proporre altro che rigore dei conti e misure fiscali restrittive. Se le classi dirigenti europee non daranno prova di lungimiranza, se l'Unione non reagirà alla propria debolezza politica ed economica, il declino sarà inesorabile. Ci muoviamo, infatti, in un contesto di tumultuosi cambiamenti, anche nel quadro delle relazioni internazionali. Con la riduzione del potere di iniziativa dell'Occidente e l'emergere (o il ri-emergere) di nuovi attori sulla scena mondiale, l'intero assetto dei rapporti di forza tradizionali si sta scompaginando. Non a caso si usa definire il secolo appena iniziato come “il secolo asiatico”: dall'inizio della crisi finanziaria, nel 2008, il PIL cinese ha proseguito la sua crescita vertiginosa, a ritmi di circa il 10% l'anno, mentre l'Occidente fatica tuttora a riprendersi. Cina, India, Brasile, Russia, Sudafrica non sono solo partner economici sempre più importanti, ma stanno assumendo iniziative politiche di primo piano a livello mondiale, anche grazie alla perdita di ruolo di Stati Uniti e Unione europea. Il cambiamento in corso è ben esemplificato dal fatto che un Paese come il Brasile, fino a pochi anni fa considerato tra i più poveri al mondo, è stato tra quanti hanno aderito al piano di salvataggio di Paesi europei come la Grecia o il Portogallo, e sta guidando oggi l'azione dei BRICS per un acquisto coordinato di bond europei. 58
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Eppure, tutto questo non vuol dire che l'Europa sia necessariamente destinata a segnare il passo sullo scenario internazionale. Anzi. Sono fermamente convinto che possa e debba ancora giocare un ruolo centrale nel mondo, forte del patrimonio di valori, di cultura, di civiltà che la rende unica e che possiamo far valere, un patrimonio conquistato attraverso secoli di storia. È da qui che noi europei dobbiamo partire per ritrovare slancio e fiducia nel futuro. Non si tratterà più di muoversi in una logica di politica di potenza, questo è certo, ma è certo che il nostro messaggio non sarà meno importante che in passato. Abbiamo l'opportunità di mostrare il nostro ruolo rinnovato accompagnando e sostenendo le rivoluzioni che agitano l'altra sponda del Mediterraneo. In fondo, i giovani protagonisti di queste rivolte aspirano agli stessi valori di democrazia e libertà che noi europei abbiamo conquistato nei secoli e che consideriamo ormai un patrimonio acquisito. Eppure finora l'Europa aveva colpevolmente chiuso un occhio di fronte alla negazione di tali principi da parte dei regimi autoritari che governavano in quella regione, in nome della presunta stabilità e sicurezza rispetto alle forniture energetiche, al controllo dell'immigrazione e del terrorismo. I recenti avvenimenti ci hanno dimostrato, invece, che il mantenimento dello status quo non assicurava alcuna stabilità, anzi, non faceva che alimentare la rabbia di quei popoli che si sono infine rivoltati. Il nostro compito, oggi, deve essere quello di condannare con fermezza le violazioni dei diritti fondamentali e isolare i regimi che tuttora le perseguono. E dobbiamo essere noi a guidare questo processo, anche perché gli Stati Uniti oggi non sembrano in grado di poter dare una risposta coerente al dossier mediorientale. Pensiamo al contrasto tra i lungimiranti discorsi di Obama verso il mondo arabo e la calorosa accoglienza riservata dal Congresso – a maggioranza Repubblicana – nei confronti del premier Netanyahu in occasione della sua visita a Washington. Solo l'Unione può intervenire con una proposta politica forte in questa regione, assumendo quel ruolo di guida che già ebbe nel 1989, quando propose ai Paesi dell'Est che si liberavano dal comunismo l'ingresso nella Comunità europea, a condizione che rispettassero alcuni parametri e i valori fondamentali di democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani. Ecco, dobbiamo mettere in piedi un'operazione simile verso la sponda Sud del Mediterraneo. Penso a una forma di
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L'Europa può e deve ancora giocare un ruolo centrale nel mondo, forte del patrimonio di valori, di cultura, di civiltà che la rende unica e che possiamo far valere, un patrimonio conquistato attraverso secoli di storia
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Penso a una forma di cooperazione stretta con l'Unione, non certo nella forma di un nuovo allargamento, ma che assuma comunque i lineamenti di una vera e propria comunità euromediterranea con i Paesi dell'altra sponda che scelgono la democrazia
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cooperazione stretta con l'Unione, non certo nella forma di un nuovo allargamento, ma che assuma comunque i lineamenti di una vera e propria comunità euro-mediterranea con i Paesi dell'altra sponda che scelgono la democrazia. Una proposta che non ripeta gli stessi errori di progetti vuoti come l'Unione per il Mediterraneo di Sarkozy, ma che abbia un vero significato simbolico e, soprattutto, politico. Naturalmente, una seria azione credibile non può prescindere da una posizione incisiva sul conflitto israelopalestinese. Per la nuova opinione pubblica araba, infatti, la soluzione del conflitto è un banco di prova fondamentale nel rapporto con l'Europa e gli Stati Uniti. In questo senso ho apprezzato molto la posizione di Javier Solana e Martti Ahtisaari, che hanno chiesto all'Unione europea di appoggiare la richiesta di Abu Mazen all'ONU. È evidente che il riconoscimento da parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite non risolve il conflitto e che uno Stato palestinese può nascere solo da un negoziato con Israele, ma è anche chiaro che senza una forte pressione internazionale e una posizione chiara delle istituzioni globali, il risultato non si sblocca, anche per il rifiuto israeliano di fermare gli insediamenti in Cisgiordania. Se l'Occidente esita, noi rischiamo non solo che si faccia sempre più largo l'attivismo della Turchia di Erdogan, ma che oggi la Turchia e domani l'Egitto si spostino su posizioni antioccidentali. Ho indicato i capitoli e le ragioni per le quali, a mio parere, i progressisti devono riprendere in mano la bandiera dell'europeismo per aprire una stagione che non dovrà essere socialdemocratica in senso classico. Certo, i socialisti ne saranno protagonisti, ma assieme ad altri. Dovremo muovere necessariamente sulla base di coalizioni, nelle quali troveranno spazio l'ambientalismo, il pensiero liberale di sinistra, le forze di ispirazione cattolica e religiosa, i movimenti provenienti dalla società civile. Penso a un centrosinistra di tipo plurale e aperto, sulla scia di quanto accade nei grandi Paesi del mondo. Solo così saremo in grado di affrontare le sfide cruciali che abbiamo di fronte con uno spirito rinnovato e con la forza necessaria per ridare all'Europa lo slancio di cui ha bisogno.
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Per chi suona
la campana europea Lapo Pistelli è responsabile Esteri e relazioni internazionali PD
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n un bellissimo testo dedicato alla “malinconia” dell'Europa, Tommaso Padoa Schioppa notava, con la leggerezza riservata in genere ai dettagli, come nei libri, nei saggi, nelle riviste specializzate, l'Europa fosse prevalentemente il racconto, la spiegazione di una storia di grande successo e come, per contrasto, quotidiani e periodici si dedicassero invece al medesimo tema per sottolinearne i passi falsi, gli errori, i ritardi. Da un lato, dunque, la prospettiva di una grande impresa esaminata con il respiro del tempo e ammirata ovunque nel mondo; dall'altro l'ansia da crisi perpetua, giudicata freneticamente con un cronometro, capace purtroppo di produrre un senso comune di ripiegamento. L'ultima volta che l'ho incontrato – al Consiglio ItaliaStati Uniti a New York – al tempo delle prime difficoltà della Grecia, il tema si ripropose: i commentatori americani evidenziavano l'inadeguatezza e i ritardi di Bruxelles mentre Padoa Schioppa, gentilmente ma in modo fermo, spiegava la relativa prontezza con la quale nascevano le nuove regole di governance economica, dovendosi appunto modificare norme, strumenti istituzionali affinché la nuova cosa fosse destinata a durare anziché essere la solita maionese impazzita degli annunci da conferenza stampa destinati ad essere superati da nuovi annunci. Utilizzo questo ricordo per articolare in tre brevi tappe la mia riflessione sul progetto europeo, la necessità di cogliere questo passaggio - davvero eccezionale - di trasformazione della globalizzazione, come opportunità obbligata per compiere nuovamente una scelta di campo, per fare ciò che non abbiamo avuto la forza o il coraggio di fare finora. L'articolo perciò non contiene un elenco di proposte per la riforma dell'UE - quelle si possono leggere nel documento approvato dall'Assemblea Nazionale del Pd – ma elementi per la rinnovata adesione a un'idea che, data altrimenti per 61
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scontata o vissuta come una purga, rischia di appassire. 1. L'Europa è oggi al centro del dibattito politico, dell'agenda quotidiana. Di essa si parla fra le persone comuni, anche per lamentarsene. Banale? Non è sempre stato così. Anzi, non è stato così fino a pochissimo tempo fa. L'integrazione europea ha festeggiato da molto il cinquantesimo compleanno ma per quasi quaranta anni essa è stata argomento per addetti ai lavori, per europeisti, per scrittori e lettori di libri appunto. L'unico momento d'incontro con i cittadini avveniva negli info-point istituzionali – brochure e visite guidate per studenti - per informare che l'Europa conveniva, che era cosa buona e giusta, che si trattava di una decisione tecnicamente utile per tutti. La politica vera però girava al largo. Perfino la negoziazione e la ratifica del Trattato di Maastricht, padre della moneta unica, punto di svolta per la vita di famiglie e imprese, momento di riallocazione della sovranità nazionale, avvenne senza il “dibattito” pubblico che oggi accompagna perfino le più inutili sciocchezze. Che sia stato provincialismo politico, distrazione di massa deliberata o insufficienza professionale del giornalismo nazionale, questa è stata la sostanza della realtà: l'Europa era un fatto “tecnico”, “non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”. I sette anni di risanamento per centrare il traguardo della moneta, la caparbietà di Romano Prodi, la sua ascesa alla Commissione, il big bang dei dieci nuovi membri nel 2004, la tentata Costituzione hanno goduto di una diversa attenzione e sono divenuti pian piano e finalmente temi politici. Certo, senza esagerare se è vero che mai, sottolineo mai, cinque anni di discussione sulla nuova Europa hanno meritato la puntata serale di un talk-show, Porta a Porta, Annozero, Ballarò o altro. La crisi recente ha cambiato le carte in tavola. Quotidiani e televisioni si aprono sovente con le decisioni adottate a livello continentale. In questo nuovo campo di gioco, l'Europa smette di essere una professione di fede, il nostro Paese non può più praticare il gioco dell'europeismo di facciata combinato con il più alto numero di infrazioni alle norme comunitarie, euroentusiasti ed euroscettici si devono guadagnare il pane del consenso argomentando e persuadendo l'opinione pubblica. E l'Europa, una volta “comunità di destino” per antonomasia, diviene argomento divisivo fra centrosinistra e centrodestra, diviene argomento politico. 62
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Non viviamo nel tempo dell'invadenza della politica ma nel tempo della sua fragilità
Il ritorno all'Europa si impone perciò come uno stato di necessità. L'Unione che in vent'anni ha raddoppiato i suoi membri, che ha modificato 5 volte i suoi Trattati, che è ancora per poco l'area più ricca e meno ineguale del mondo, potrebbe vedere l'implosione lenta del proprio edificio se non compie un'ulteriore scatto in avanti
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2. L'estate 2011 ha sollevato nell'opinione pubblica, ma anche in ambienti insospettabili dell'establishment economico ed intellettuale del Paese, il nodo cruciale del rapporto fra democrazia e sovranità nell'epoca del capitalismo finanziario globale. Detto in termini semplici, è apparso evidente come i Paesi più piccoli e fragili, ma da ultimo anche il nostro, siano costretti a “rispondere” tramite aggiustamenti strutturali del proprio bilancio ai mercati finanziari, veri padroni del loro “debito”; che la qualità del debito – e dunque la volontà di sottoscriverne di nuovo e la soglia dei rendimenti attesi - sia “certificata” da tre agenzie di rating americane la cui proprietà è per altro privata; che le manovre di riduzione della spesa e di aumento delle entrate siano adottate con l'orologio delle Borse e non con quello del calendario democratico parlamentare. L'economia è globale, la politica è nazionale. L'economia scorre rapida come acqua fra i sassi, la politica ha i tempi delle costituzioni e delle leggi. L'economia risponde ad un'elite orientata di investitori che rappresentano anonimi azionisti, la politica risponde ai cittadini e alle decisioni da loro espresse nelle urne elettorali. Ma la politica nazionale ha in mano due soli strumenti economici, le tasse e il ricorso al debito, o meglio “avrebbe” poiché le prime sono arrivate al punto di rottura e il secondo dipende da altre mani. Le grandi ricchezze in compenso sono crescentemente staccate dal legame con il territorio e le grandi aziende possono permettersi il lusso di andare a pagare le tasse nei Paesi in cui questo risulti più conveniente. Una politica nazionale senza strumenti economici veri viaggia inesorabilmente sulle montagne russe della finanza mondiale. Si può girare attorno alla giostra finché si vuole ma questa è la questione delle questioni. Non viviamo nel tempo dell'invadenza della politica ma nel tempo della sua fragilità. Possiamo pure illuderci che è sufficiente affannarsi a dare “segnali”, a rincorrere il senso comune, ad aggiungere qualche chilo di demagogia spicciola per dimostrare che siamo sulla palla, a proporsi di rimpiazzare un pezzo di ceto politico con un altro per vincere la partita, ma la verità della realtà è più scomoda e pone un'ipoteca seria sulla rilevanza dei vecchi strumenti politici di questa epoca. 3. Il ritorno all'Europa si impone perciò come uno stato di necessità. Romano Prodi coniò a suo tempo un'espressione semplice ed efficace: l'Europa è come una bicicletta; se si smette di pedalare, si cade. Oggi è più vero che mai: l'Unione che in vent'anni ha raddoppiato i suoi membri, che ha modificato 5 volte i suoi Trattati, che è 63
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ancora per poco l'area più ricca e meno ineguale del mondo, potrebbe vedere l'implosione lenta del proprio edificio se non compie un'ulteriore scatto in avanti. Non è più una scelta da compiersi solo per passione, per visione, per amore di un'Europa federale, ma l'unica decisione realista possibile per costruire un livello di sovranità efficace nell'epoca della globalizzazione. Possiamo trattare le nostre società come degli eterni adolescenti, additare loro un nemico di turno che insidia il nostro modello di vita (la Cina, l'Islam, l'immigrazione, l'euro o la burocrazia di Bruxelles), vincere le elezioni con il populismo di una finta manona protettiva che promette senza potere ma non risolve i problemi lasciandoli sclerotizzare. Possiamo però anche caricarci di una quota di responsabilità del rilancio europeo, sia per quello che si può fare a regole vigenti, sia per l'iniziativa che si può assumere assieme ad altri sui temi dell'energia, dell'immigrazione, della ricerca, delle politiche fiscali, della crescita sostenibile in un pianeta che avrebbe risorse abbondanti per tutti ma una cui parte vive nell'ossessione dell'accumulo di nuovo sviluppo. Archivi, siti e riviste abbondano di proposte: Delors, Monti, Prodi e molti altri hanno già scritto ciò che occorre fare; il Partito Democratico ha adottato in proposito un proprio documento, preciso e articolato. Non manca la ricetta. Manca la volontà e la leadership per l'impresa. L'Europa della destra ha palesemente fallito: essa non ha sbarrato le porte all'estremismo eurofobico che oggi manda a Strasburgo più di 100 deputati, ma non ha guidato il processo. Così, anche alcune decisioni giuste adottate negli ultimi mesi sono sembrate figlie di una pena da scontare. Dotare l'euro non solo del freno del risanamento ma dell'acceleratore dello sviluppo e del volante di una guida politica, spendersi sulla opportunità storica offerta dagli eventi del Mediterraneo, molte e già conosciute sono le prove che ci aspettano. E' questa l'Europa dei democratici che dobbiamo costruire con urgenza e con il coraggio politico che manca alla Commissione Barroso e all'imballato motore franco-tedesco. “Non è tempo di chiedersi per chi suona la campana perché essa sta suonando anche per noi”.
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L'Unione Europea, i progressisti e l'Italia Stefano Fassina è responsabile Economia e Lavoro PD
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euro e l'Unione europea sono a rischio. Non soltanto rischio finanziario, ma sociale e democratico. È sotto osservazione, misurato ogni minuto dagli spread e dal prezzo dei CDS, il rischio di rottura della moneta unica dovuto alla insostenibilità dei bilanci pubblici ed alle pressioni dei mercati finanziari. È meno osservato il rischio di rottura indotto dagli insostenibili squilibri sociali ed alle reazioni dei mercati rionali. Gli indici qui sono decisamente più rozzi, ma non meno preoccupanti: la percentuale di cittadini, soprattutto giovani, senza fiducia nella politica, il numero degli indignatos, le percentuali di voto raccolte dai partiti nazionalisti e populisti. Le prospettive dell'economia sociale di mercato, il tratto distintivo delle nazioni europee nella seconda metà del '900, sono prigioniere della inadeguata impalcatura politicoistituzionale della moneta unica. Un "difetto" di fabbrica non accidentale, dovuto innanzitutto a cause di ordine culturale, oltre che ad illusorie resistenze nazionalistiche: lo sfondo ideologico liberista che ha accompagnato la nascita dell'euro. I padri dell'euro avevano ed hanno impostazioni culturali diverse e finanche opposte (Ciampi non è Tietmaier; Prodi, Napolitano e Delors non sono Sarkozy), ma non c'è dubbio che il paradigma che ha disegnato le istituzioni della moneta unica e prima ancora le politiche economiche di stabilità e crescita ha seguito i precetti dominanti il trentennio alle nostre spalle. In sintesi: la tecnicizzazione e la neutralizzazione della politica economica. Quanto rimane in mano alla politica, ossia le politiche di bilancio, perde ogni margine di manovra (lo "stupido" Patto di Stabilità). La politica monetaria si affida ad una istituzione tecnica indipendente (la BCE), dotata di pilota automatico orientato a colpire l'aumento dei prezzi sopra la soglia del 2%. La politica industriale diventa bestemmia. Compito unico della politica è liberare l'economia dalle bardature regolative per 65
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lasciare le forze economiche far da sé e, così, fare società. Insomma, come efficacemente sintetizzava un bel saggio di Fitoussi del 1997, nella politica economica "il dibattito è proibito". Fare l'euro è stata una straordinaria scelta politica in controtendenza. È stata giusta e lungimirante. La condizione necessaria per ricostruire democrazie fondate sul lavoro. Per recuperare, in condivisione, la sovranità nazionale perduta nel mare dell'economia globale. Tuttavia, non era e non poteva essere sufficiente. Ma le forze culturali, politiche e sociali progressiste non hanno voluto vedere, hanno in misura prevalente affidato al mercato il compito di risolvere i problemi. Il massimo che hanno saputo fare, quando governavano in 13 Stati su 15, é stato il tentativo di coordinamento di risposte supply side affidato alla famosa "Agenda di Lisbona" del 2000. Oggi, siamo a rischio di implosione e rimaniamo nel tunnel della stagnazione perché, nonostante il fallimento storico, le politiche economiche sono ancora prigioniere del paradigma neo-liberista, ossia tira più forte di prima il vento culturale che ha accompagnato le scelte politiche degli ultimi 30 anni. Le condizioni dei mercati del lavoro (7 milioni di disoccupati in più dalla metà del 2008), le condizioni di reddito, i rischi di povertà, le prospettive delle classi medie, la qualità dell'ambiente sono aspetti tematici, lasciati agli specialisti del settore (giuslavoristi, economisti del lavoro, esperti di welfare, sociologi, ambientalisti). L'economia si dedica esclusivamente alla finanza pubblica, ai mercati finanziari ed al tasso di inflazione. La politica esegue le inevitabili scelte dettate dai mercati finanziari, impossibilitata a rispondere alle domande dei mercati rionali. Come il sig Malaussene, protagonista dei romanzi di Pennac, i politici, sempre più caricaturali, sono in prima fila a prendere gli insulti o ad abbaiare alla luna. In tale quadro, monta l'ossessione dell'opinione pubblica verso i costi della politica. È comprensibile. A che servono i ministri ed i parlamentari, per non parlare dei rappresentanti nei livelli di governo territoriali, quando non vi sono rilevanti scelte da fare ed è sufficiente il Ragioniere Generale dello Stato per attuare i presunti diktat di Bruxelles? Va chiarita la posta in gioco. Nell'UE, non siamo in una fase di aggiustamento dei conti pubblici scassati dal “socialismo della spesa”, portato storico delle forze socialdemocratiche e, da noi, catto-comuniste, come oramai 66
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passa nel dibattito politico, ampiamente anche nelle nostre fila, sempre più nutrite di rigoristi senza se e senza ma. Oramai, anche per tanti di noi, spesa primaria corrente = spreco. Quindi, tagli alla spesa primaria = efficienza. Dobbiamo avere chiara la posta in gioco. Nella UE, è in atto una regressione genetica: cambiano i connotati del modello sociale europeo, dell'economia sociale di mercato, insomma quell'insieme di caratteri che nella seconda metà del XX secolo hanno reso l'UE l'aerea non soltanto più ricca del pianeta ma più avanzata in termini di coesione sociale, condizioni del lavoro, opportunità. Attenzione: è necessaria l'innovazione. Le modalità per ricostruire la civiltà del lavoro promossa dallo Stato nella seconda metà del '900 vanno ridefinite per riconoscere ed interagire attivamente con l'inedita intensità, velocità e pervasività delle interdipendenze globali del secolo appena incominciato, con la mutazione delle relazioni tra persona-lavoro-consumo, con la rilevanza delle relazioni extra-economiche per l'identità della persona, con il protagonismo dei corpi intermedi. Oggi, tuttavia, non siamo alla “distruzione creatrice”. Oggi, siamo alla retrocessione strutturale del lavoro, allo smantellamento dei welfare universalistico, alla fine delle democrazie delle classi medie ed alla costruzione di un ordine neo-corporativo a democrazia elitaria e populista. Siamo in presenza di una “rivoluzione passiva”, un'ulteriore concentrazione di poteri come adattamento reazionario al (dis)ordine globale del XXI secolo. Non cambia soltanto la finanza pubblica o l'economia, cambia la qualità della democrazia. Ed è evidente, cambia il profilo identitario delle forze progressiste e lo status della politica. È davvero inevitabile? Ossia, l'economia, un elite economica sempre più ristretta, deve continuare a dare le carte e la politica, come dice Reichlin, ad andare in TV a spiegare l'ineluttabilità dei sacrifici sempre sugli stessi? Che fare? Innanzitutto un'analisi corretta. Primo, la finanza pubblica non è indipendente dall'economia reale. Senza riavvio dello sviluppo non si ha sostenibilità del debito pubblico. È banale, ma dimenticato nell'eccitazione “responsabile” per l'austerità, intesa sempre più come categoria morale, anziché economica. Secondo, il debito pubblico, a parte il caso Grecia, esplode a causa dell'assorbimento del debito privato e in conseguenza dell'implosione delle bolle speculative, immobiliari o finanziarie, gonfiate per tre lustri dalla finanza
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È in atto una regressione genetica di quell'insieme di caratteri che nella seconda metà del XX secolo hanno reso l'UE l'aerea non soltanto più ricca del pianeta ma più avanzata in termini di coesione sociale, condizioni del lavoro, opportunità
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irresponsabile. L'interpretazione su cui si basa gran parte degli interventi messi in atto dai governi dei paesi dell'eurozona attribuisce, viceversa, la responsabilità delle difficoltà presenti al comportamento dei paesi più deboli della zona dell'euro che non avrebbero saputo tenere sotto controllo la loro finanza pubblica. Di qui i piani di aggiustamento imposti e tesi più che altro a 'punire' i paesi periferici più indebitati sottoponendoli a severe politiche di austerità e deflazione interna, di fatto insostenibili in un'ottica di medio termine. Ma non funziona scaricare i costi soltanto sul bilancio pubblico, quindi sui cittadini più deboli e sulle classi medie. Devono pagare, anche con la ristrutturazione del debito privato, quanti hanno mietuto raccolti copiosi nei due decenni passati. Terzo, il blocco alla ripresa delle economie europee dipende da insufficiente domanda aggregata non da rigidità dell'offerta, in particolare in materia di licenziamenti, come la vulgata neo-liberista ed i cosiddetti "riformisti coraggiosi" continuano a ripetere. L'UE e gli USA hanno un eccesso di capacità produttiva e le economie emergenti non hanno e non avranno nel medio periodo la capacità di assorbire il volume di esportazioni necessario ad arrivare ad un equilibrio di piena occupazione. In ogni caso, come dimostra la storia recente, un equilibrio è instabile se puntellato da squilibri sistematici delle bilance commerciali. Quarto, la degenerazione della distribuzione del reddito e della ricchezza, dovuta agli squilibri nei rapporti di forza sul mercato del lavoro e amplificata dalla delegittimazione e dall'indebolimento del welfare, via fisco o benefit, soffoca la domanda interna nazionale ed europea. Quinto, un'area a moneta unica, segnata da ampi differenziali di competitività sistemica, può sopravvivere soltanto in due scenari o in una qualche combinazione dei due: diventa una “transfer union”, come l'Italia con il nostro Mezzogiorno; oppure si rimuovono i differenziali di competitività attraverso una politica economica "interventista". La UE ha affrontato, male, l'emergenza debito pubblico. È, invece, completamente assente una seria tematizzazione dei differenziali di competitività evidenziati dai saldi della bilancia commerciale di ciascun paese membro, come da tempo ha sottolineato, prima di altri, Emiliano Brancaccio. Allora, che fare? La risposta prima che economica è politica. Nella straordinaria transizione globale in corso, le 68
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forze progressiste europee ritengono possibile ricostruire le condizioni per innovare e rilanciare il modello sociale europeo oppure si rassegnano alla fine della civiltà del lavoro e delle democrazie delle classi medie? In altri termini, il ridimensionamento del peso demografico, economico e politico dell'Occidente e della UE deve necessariamente implicare la regressione della civiltà del lavoro e della democrazia nell'Occidente e nella UE, la sua punta più progredita in termini di coesione e mobilità sociale? Siamo ad un passaggio di fase, un tornante storico, un periodo breve durante il quale si segnano i destini di un lungo periodo per l'economia, la società, l'identità delle culture politiche e lo status della politica. L'errore storico delle elite europee è stato l'abbandono del percorso di unificazione politica dopo l'avvio dell'euro. Mercato unico e banca centrale non sono sufficienti a promuovere sviluppo. È necessario un salto di scala nel governo politico. La novità di straordinario interesse politico è che le forze socialiste europee e, insieme a loro il Pd, hanno ritrovato autonomia culturale. Sono uscite dalla subalternità al pensiero unico. Oggi, guidano il tentativo di riscossa politica europea. L'agenda di riforme messa a punto dal Pse e dal Pd e, in larga misura condivisa dalla Confederazione europea dei sindacati, tenta di riportare la politica all'altezza dell'economia. Per uscire dalle prospettive di regressione democratica, i socialisti europei ed il Pd propongono in sintesi: 1. L'evoluzione del Fondo salva-Stati in una Agenzia europea per il debito, dotata delle risorse sufficienti ad acquistare i titoli dei paesi aderenti ed emettere titoli di debito europei (eurobonds) garantiti in modo collettivo. 2. Un piano di ristrutturazione dei crediti sovrani e di ricapitalizzazione delle banche, gestito a livello dell'intera area europea. 3. Un piano europeo di investimenti per l'occupazione, l'ambiente e l'innovazione, alimentato dalle risorse raccolte attraverso l'emissione di eurobonds o project bonds, l'introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la Financial Transaction Tax e la tassazione a finalità ambientali, un piano complementare all'avanzamento del mercato unico, secondo quanto previsto dal Rapporto Monti. 4. Un'inversione di marcia nella distribuzione del reddito
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Siamo ad un passaggio di fase, un tornante storico, un periodo breve durante il quale si segnano i destini di un lungo periodo per l'economia, la società, l'identità delle culture politiche e lo status della politica
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da lavoro e della ricchezza, da realizzare sul mercato del lavoro e nel welfare-fiscali, per restituire potere d'acquisto e sicurezza alle famiglie. 5. A tali aspetti condivisi, nel dibattito tra i socialisti europei il Pd ha proposto di aggiungere uno “standard retributivo” europeo per coinvolgere anche i paesi in surplus di bilancia commerciale (Germania, Olanda, Austria) nel processo di aggiustamento (si veda il "Programma Nazionale di Riforma" presentato dal Pd nell'aprile 2011). Lo standard retributivo implica un allineamento della dinamica delle retribuzioni reali con quella della produttività, intesa in termini aggregati, generali o settoriali (e dunque oltre la tenuta del potere d'acquisto). Insomma, i progressisti europei, oltre ad Obama negli Usa, hanno rialzato la testa. Innanzitutto sul piano culturale, condizione necessaria per vincere sul terreno politico. L'agenda di policy ricordata interviene a ricostruire l'impalcatura politico-istituzionale europea e a ridefinire le condizioni per le democrazie delle classi medie, fondate sulla dignità della persona che lavora. È una sfida ambiziosa e drammatica, ma non ci sono alternative. Soltanto il salto di scala politico nell'area euro (almeno) può dare futuro al lavoro.
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L'occasione per cambiare il modello di sviluppo Luca Visentini è segretario Confederale Confederazione Europea dei Sindacati
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estate ha visto un aggravamento della seconda fase della recessione mondiale, legata alla crisi dei debiti sovrani. La speculazione sta colpendo l'Italia, finora preservata da un risparmio privato che compensava il debito pubblico e dalla sostanziale stabilità del sistema bancario. Il progressivo deteriorarsi della credibilità politica del paese ha scatenato gli investitori. Le ricette di salvataggio concepite dalle istituzioni europee e dai paesi forti, tutte incentrate sull'austerità dei bilanci pubblici, sui tagli ai salari e allo stato sociale, sul contenimento dell'inflazione e su auspicate riforme strutturali, sono state riproposte anche all'Italia, costringendo il governo ad una manovra correttiva confusa, iniqua e dai dubbi risultati concreti. Lo stucchevole vertice ferragostano tra Merkel e Sarkozy, oltre ad aver definitivamente svuotato i centri decisionali dell'Unione e le procedure previste dai Trattati, ha prodotto esiti deludenti, pasticciati e per nulla apprezzati dagli stessi elettorati di quei paesi, i cui umori negativi il vertice si proponeva di sedare. Il vertice ECOFIN, riunitosi in Polonia a metà settembre, ha purtroppo confermato l'insipienza europea. I Ministri delle Finanze non sono stati in grado di decidere nulla, neppure sulla Grecia, salvo farsi tirare per le orecchie dagli Stati Uniti, con un richiamo allarmato e forse irrituale ma molto giustificato nella sostanza. L'Europa brancola nel buio e le misure con le quali si tenta di arginare la crisi, di salvare i paesi a rischio default, di preservare l'euro dalle speculazioni sono fallite, in Grecia come altrove, perché continuano a procedere nella direzione sbagliata, quella di azioni pro cicliche che accrescono la recessione, lasciano intatti i debiti pubblici e la disoccupazione, desertificano ogni tutela sociale e collettiva alimentando rivolte 72
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di piazza. Si dimentica che in molti paesi l'indebitamento è cresciuto per salvare le banche, si scambiano le cause con gli effetti e si consente alle speculazioni finanziarie, vera origine del male, di continuare a fare business senza regole. La dimensione etica dell'economia, come strumento al servizio delle persone, del lavoro, delle aziende e degli stati, si è perduta ed è sostituita da un falso moralismo verso i paesi deboli, che nasconde i concreti interessi nazionali di quelli forti. Questa crisi epocale è figlia di un modello basato sulla finanziarizzazione dell'economia, sul neo liberismo, su una globalizzazione salvifica e mal interpretata; un modello che non viene minimamente messo in discussione, nessuna visione alternativa può essere avanzata, salvo essere tacciati di keynesismo, quasi fosse un insulto. È questo il risultato del pensiero dominante dei decenni passati, che ha fatto cadere ogni valore riformatore e regolatore, di cui ormai ci si vergogna. Queste ricette vecchie e miopi verranno accantonate almeno ora, che si stanno dimostrando del tutto inefficaci? Facciamo l'esempio dell'Italia, che è conciata meglio della Grecia e non sta molto peggio della Francia. Con la cura da salasso imposta dalla irrituale lettera di Trichet, il nostro paese forse riuscirà ad abbattere il deficit corrente, forse persino ad ottenere un piccolo avanzo primario, ma questo a che ci servirà? La conseguenza sarà di mettere il paese in ginocchio stroncando una crescita già debole, sterilizzando i consumi, alimentando la recessione. La mancata crescita si mangerà l'avanzo primario e abbattere il nostro debito pubblico, pari al 120% del PIL, diventerà impossibile. In più l'Italia deve ogni anno aggiungere al conto circa 80 miliardi di euro di interessi, quasi il doppio di questa drammatica manovra estiva. L'austerità, i tagli e i miliardi spesi per i salvataggi non stanno producendo nessun risultato, perché i mercati sanno riconoscere i bluff di una politica che non dà i segnali giusti. Le speculazioni continuano e ora colpiscono persino le grandi aziende tedesche e francesi, in odore di contagio recessivo. Questo scenario richiede una svolta economica e culturale che non può più essere rinviata. Romano Prodi, assieme ad Alberto Quadrio Curzio, ha rilanciato il mese scorso sul Sole 24 Ore la proposta degli Eurobond. EuroUnionBond li hanno ridefiniti, delineandone una formulazione innovativa rispetto a quelle emerse finora. Gli
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La dimensione etica dell'economia, come strumento al servizio delle persone, del lavoro, delle aziende e degli stati, si è perduta ed è sostituita da un falso moralismo verso i paesi deboli, che nasconde i concreti interessi nazionali di quelli forti
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economisti si interrogano su quale sia la soluzione tecnica migliore, ma in ogni caso questa è l'unica strada che può aiutare ad aggredire la crisi dei debiti sovrani e ad invertire la spirale recessiva. È una soluzione che è stata proposta a più riprese nell'ultimo anno e mezzo da illustri economisti e anche da alcuni politici, come Tremonti e Junker. Ha trovato il sostegno della Confederazione Europea dei Sindacati e negli ultimi tempi, finalmente, anche di molte rappresentanze degli imprenditori. Ma ciò non è bastato per convincere i paesi forti dell'Unione, che continuano ad escluderla, almeno per il momento. È invece urgentissimo adottare questo strumento, le circostanze sono più che mature e se si attende ancora potrebbe essere tardi. I vantaggi sono espliciti. Mettere assieme tutti i debiti pubblici dei paesi dell'area euro sotto l'egida dell'Unione ed emettere obbligazioni europee per finanziarli, consentirebbe di risparmiare sui tassi di interesse e di aiutare i governi ad abbattere più velocemente il proprio debito, di stroncare la speculazione sui singoli paesi e sulla moneta unica, di generare risorse importanti a sostegno degli investimenti per la crescita. Questi effetti sono incontestabili e sarebbero immediati. Ovviamente dovrebbero essere accompagnati da una piena assunzione di responsabilità da parte dei paesi sul versante della riduzione del deficit e del debito, senza la quale essi perderebbero il diritto ad usufruire di questo ombrello protettivo ritornando alle proprie obbligazioni. L'uscita dalla recessione sarebbe un obiettivo di medio termine realisticamente raggiungibile. Ci sono molti motivi di opposizione agli Eurobond da parte dei paesi forti, Germania in testa, ma esistono anche alcuni buoni argomenti per rispondere a queste obiezioni. La Germania teme di spendere di più, passando ad un interesse medio più alto di quello di cui gode con i Bund. Oltre 30 miliardi all'anno, si dice. Probabile. Ma forse il salvataggio o il default della Grecia costeranno di meno? E quali altre conseguenze potrebbero produrre? C'è poi la questione delle banche tedesche (e anche di quelle francesi), che hanno in cassaforte porzioni ingenti del debito greco e degli altri paesi a rischio. Con l'introduzione degli Eurobond queste banche subirebbero una pesante riduzione del proprio patrimonio che
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rischierebbe di determinarne il fallimento. È un problema reale, non è un caso che la Merkel abbia secretato i risultati degli stress test tedeschi. Tuttavia quanto costerebbe a queste banche un fallimento della Grecia? E quanto dovrebbe spendere la Germania per salvarle? E infine, non era proprio la Merkel a sollecitare una partecipazione ai costi della crisi anche per quegli investitori spregiudicati che l'hanno alimentata? Vi è infine un'obiezione morale. L'elettorato tedesco, e quelli nordici in generale, non vogliono essere chiamati a farsi carico dei debiti dei paesi “spendaccioni”. In realtà, come si diceva, l'emissione di Eurobond sarebbe rigorosamente condizionata ad un'assunzione di responsabilità per l'abbattimento del deficit e dei debiti. Ma il punto non è questo. Si tratta in realtà di decidere se l'Europa intende chiudersi sempre di più nei propri egoismi nazionali, o se invece può prevalere una solidarietà che dovrebbe essere insita nel concetto stesso di moneta unica. Forse che la Germania, quando ha unificato l'Est con l'Ovest, ne ha tenuti divisi i debiti? O che l'Italia emette BTP diversi da quelli del Nord per il proprio Mezzogiorno? In un'intervista nei mesi scorsi Helmut Kohl sottolineava come la Germania abbia rinunciato al proprio ruolo di guida economica e politica dell'Europa. È certamente vero che l'emissione di obbligazioni comuni implica un concetto più alto e unitario di Europa, a cui un pezzo di continente non sembra pronto. Tuttavia, come ha detto Giuliano Amato, gli Eurobond si faranno solo con la Germania, è necessario convincerla. Ogni alternativa è peggiore e non funzionerà. La soluzione indicata dalla Merkel, da Van Rompuy, dalla BCE, ovvero prima il risanamento poi gli Eurobond, è impraticabile. La crisi è una grande occasione di cambiamento, impone di ripensare l'Europa che vogliamo. Un'unica moneta impone una gestione unica del debito e anche strumenti fiscali comuni, a partire dalla Tassa sulle Transazioni Finanziarie. Non la governance economica minimalista e punitiva che ci viene proposta, ma una vera politica economica unitaria. Tutti i paesi sappiano condividere la medesima visione strategica, spostino l'attenzione dal proprio dibattito nazionale alla dimensione europea. Sui giornali italiani si leggono molte diatribe provinciali tutte concentrate solo su questa manovra senza padri, quando invece da una Governance europea alternativa potremmo ricavare gli spazi per un vero risanamento. Per fortuna nelle
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La crisi è una grande occasione di cambiamento, impone di ripensare l'Europa che vogliamo
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ultime settimane si sono aperti alcuni sprazzi di speranza. Il dibattito sugli Eurobond ha preso piede in Europa, accanto alle proposte degli economisti è emerso un importante documento di sostegno da parte dei Partiti Socialdemocratico tedesco e Socialista francese. Il Commissario all'Economia Olli Rehn, intervenendo al Parlamento Europeo il 29 agosto, ha annunciato una proposta della Commissione sugli Eurobond per il mese di ottobre. Sempre ad ottobre la Commissione avanzerà la propria idea di Tassa sulle Transazioni Finanziarie. È il segno che una parte della politica e delle istituzioni ha deciso di riconquistare l'iniziativa, di assumersi una responsabilità. L'Europa ha bisogno di leadership e di democrazia. È nelle sedi che le dovrebbero incarnare, la Commissione e il Parlamento, che si deve ricostruire una capacità di proposta e di dialogo con i cittadini. È necessario parlare direttamente agli sfiduciati cittadini europei, spiegargli che cosa è bene per loro, dirgli con chiarezza che solo dalle scelte ragionevoli, anche se difficili, può derivare un benessere futuro. Tuttavia questo dibattito non deve rimanere confinato nelle stanze ovattate di Bruxelles. I governi, le forze politiche, le parti sociali, anche a livello nazionale, devono sentirsi coinvolti nel portare il proprio contributo alla costruzione di una diversa prospettiva. L'auspicio è che la politica sappia recuperare il ruolo propulsivo che ha avuto nel passato nella costruzione del processo di unificazione dell'Europa.
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L’Europa e la crisi dei debiti sovrani. Una proposta Vincenzo Visco già ministro delle Finanze e del Tesoro, è presidente di Nens
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a storia delle (grandi) crisi finanziarie ci insegna che esse sono tutte caratterizzate da una sequenza di eventi molto simile: hanno inizio con un crollo dei valori (gonfiati) in qualche segmento del mercato finanziario; la caduta si estende rapidamente all'intero mercato; in conseguenza le banche si vengono a trovare in condizioni di illiquidità e talvolta di insolvenza (e possono fallire); le difficoltà delle banche si traducono in una inevitabile restrizione creditizia (credit crunch) e quindi in una crisi dell'economia reale, della produzione e della occupazione; cala il Pil, falliscono le imprese, crollano i consumi, aumenta la disoccupazione, l'economia entra in recessione, e si avvia verso la depressione. Le crisi finanziarie, inoltre, provocano un forte impatto negativo sui bilanci pubblici degli Stati in quanto la recessione fa cadere il gettito fiscale, mentre i meccanismi di sostegno della (crescente) disoccupazione fanno lievitare la spesa pubblica. A ciò si sono aggiunti nell'ultima crisi, sia robusti interventi di sostegno congiunturale diversamente da quanto accadde nel 1929), sia la decisione (corretta) di non fare fallire le banche, e quindi di trasformare consapevolmente ed esplicitamente debiti privati in debito pubblico1. _______________________________ 1. Naturalmente non era necessario salvare, oltre alle banche, anche i proprietari delle banche. Sarebbe stato invece opportuno nazionalizzarle, sostituire il management e trasformare gli obbligazionisti in azionisti in modo da costringere anche loro a farsi carico dei costi della crisi. Le banche così risanate potevano successivamente essere riprivatizzate. Non aver seguito questa strategia che pure era stata prospettata (persino in maniera bipartisan), è stato il principale errore che può essere imputato al Presidente Obama. Più probabilmente, però, tale comportamento riflette l'influenza (nefasta) del finanziamento privato della politica negli S.U., e cioè la crisi della democrazia americana. 77
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In altre parole ciò che sta succedendo oggi nel mondo è tutt'altro che inusuale ed era ampiamente prevedibile data l'ampiezza e la portata della crisi; il problema è dato dall'eccesso di debiti (privati e pubblici) che in qualche modo devono essere smaltiti
In conseguenza la crisi si trasferisce dal settore privato a quello pubblico fino a determinare l'insolvenza, il default degli Stati. Tradizionalmente i default successivi a una grande crisi finanziaria hanno riguardato soprattutto Paesi in deficit nei conti con l'estero in seguito alla crisi delle bilance dei pagamenti , ma nella crisi attuale il rischio di insolvenza si è manifestato anche a causa del lievitare dei disavanzi fiscali dei bilanci pubblici. In altre parole ciò che sta succedendo oggi nel mondo è tutt'altro che inusuale, ed era ampiamente prevedibile data l'ampiezza e la portata della crisi; il problema è dato dall'eccesso di debiti (privati e pubblici) che in qualche modo devono essere smaltiti, il che pone la questione della ripartizione dei costi dell'aggiustamento che comunque è necessario per consentire una ripresa. Non è un caso che le crisi siano accompagnate inevitabilmente da conflitti sociali, politici, tra Stati, e talvolta da guerre. È per questi motivi che oltre un anno fa prospettai una possibile soluzione al problema dell'eccesso di debito pubblico generato dalla crisi, valida nella ipotesi (del tutto irrealistica) che la consapevolezza dei problemi qui illustrati fosse adeguata, e che la ragione potesse guidare le scelte economiche del mondo2. In sostanza si trattava di collocare in uno speciale Fondo l'incremento di debito dovuto alla crisi finanziaria finanziandolo con i proventi di una imposta a ciò dedicata (che poteva essere una tassa sulle transazioni finanziarie), isolando così l'extra-debito dai bilanci degli Stati, e garantendo il suo smaltimento nel lungo periodo senza interferenze con il funzionamento delle economie. Il Fondo avrebbe potuto operare liberamente sul mercato e quindi produrre anche profitti. Questa soluzione ove adottata sarebbe stata più utile di quelle che tradizionalmente si producono dopo la crisi finanziaria per smaltire i debiti: inflazione, consolidamenti, ripudi, defaults degli Stati, repressione finanziaria, ecc. vale a dire la rappresentazione cui stiamo oggi assistendo.
_______________________________ 2. Lo stesso problema era stato sollevato da Paolo Savona più o meno contemporaneamente in alcuni articoli comparsi sul Messaggero. 78
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Lo stesso ragionamento, dall'economia globale poteva essere trasferito su scala regionale (a livello europeo) e così la proposta si è trasformata in quella di convertire in eurobonds l'eccesso di debito dei Paesi europei3. Infine la proposta è stata semplificata ulteriormente sottolineando che se una imposta sulle transazioni finanziarie non fosse facilmente attuabile, o ponesse problemi dal momento che il suo gettito non è distribuito in modo uniforme tra gli Stati, sarebbe sufficiente prevedere il finanziamento del servizio degli eurobonds a carico dei singoli Stati in proporzione al debito conferito nel Fondo mediante un esplicito ear-marking (destinazione prioritaria) delle loro entrate di bilancio al servizio del debito comune. Inoltre è possibile dimostrare che, dato il prevedibile costo degli eurobonds (tasso di interesse), i risparmi determinati dalla convergenza dei tassi sarebbero tali da consentire non solo il riequilibrio delle finanze pubbliche degli Stati ma anche la compensazione degli eventuali extra costi a carico dei Paesi virtuosi da parte di quelli “viziosi” che trarrebbero il massimo vantaggio dalla emissione degli eurobonds4. Da questo punto di vista non mi sembra necessario prospettare forme di garanzia reale per il Fondo che dovrebbe emettere gli eurobonds, come avviene nella proposta di Prodi e Quadrio Curzio (l'oro delle banche centrali); infatti il servizio del nuovo debito europeo dovrebbe avvenire mediante un flusso di esborsi correnti (interessi, ecc.) e sarebbe comunque necessario (e sufficiente) garantire tale flusso dalle entrate correnti dei bilanci dei singoli Stati e/o da imposte a ciò dedicate e destinate (come la FTT nella proposta Visco). Il passo logicamente e temporalmente successivo dovrebbe essere, ovviamente, la previsione di imposte (o comunque gettito) di pertinenza diretta dell'Unione, e quindi l'inizio di una vera e propria politica fiscale europea. In materia di eurobonds sono state avanzate diverse ipotesi e proposte5: da parte di Monti, Delpla e von _______________________________ 3. V. Visco: Innovative Financing at a Global and European Level, Audizione la Parlamento Europeo 10 gennaio 2011. 4. V. Visco Il Sole 24Ore 16 luglio 2011. 5. Il fatto che l'emissione di eurobonds possa in teoria e in pratica, essere utilizzata per finanziare infrastrutture e programmi di investimento, o per “europeizzare” parte del debito dei Paesi della zona euro è ovviamente del tutto irrilevante. 79
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Weisäcker, Juncker e Tremonti, fino a Prodi e Quadrio Curzio. Tutte seguono lo stesso schema: ipotizzano cioè che si possano emettere titoli di debito europeo per un ammontare massimo pari al 60% del Pil dell'eurozona. La proposta Visco invece ipotizza o che si trasformi in eurobonds solo la parte corrispondente all'incremento del debito provocato dalla crisi, o – viceversa - quella che eccede il 60% del Pil di ciascun Paese. L'obiettivo della stabilità richiede infatti che i singoli Paesi possano ripartire con nuove regole, nuovi controlli e adeguate riforme dalla stessa condizione iniziale. Si eviterebbe così il rischio di un trattamento pregiudizialmente diverso dei singoli Paesi da parte dei mercati. Ciascun Paese dovrebbe finanziare dal proprio bilancio sia il servizio degli eurobonds che quello relativo al debito domestico. Né è difficile capire perché siamo arrivati alla situazione attuale. Dopo la introduzione dell'euro, la convergenza dei tassi di interesse e l'integrazione dei mercati finanziari fu immediata come si conviene in condizioni di moneta unica, e tale situazione ha prevalso fino a pochi mesi fa quando l'intero sistema della moneta unica è entrato in crisi per ragioni evidenti: il rifiuto dell'Unione europea di gestire insieme e collettivamente la crisi finanziaria e in particolare quella delle banche considerandola questione nazionale da trattare a livello di singolo Stato. È emersa così l'insufficienza tecnica e politica della costruzione dell'euro: era quello invece il momento per utilizzare l'emissione di eurobonds per ricapitalizzare congiuntamente le banche europee e far fare un passo avanti al processo di integrazione. La attuale crisi dell'euro è infatti poco giustificabile da un punto di vista economico: la zona euro presenta livelli di debito piuttosto ridotti (80-85%) rispetto a quelli degli USA, del Giappone, del R.U e un equilibro nelle partire correnti e tuttavia è stata più fortemente colpita dai mercati: se l'Europa avesse agito come un unico soggetto economico tutto ciò non sarebbe accaduto. Il possibile default di alcuni Paesi, Italia compresa, e la conseguente possibile disintegrazione della zona euro sono il prodotto di errori, miopie e nazionalismi riemergenti che richiamano alla memoria vicende non dissimili verificatesi dopo la crisi del '29. Soprattutto in Europa si è 80
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affermata nel dibattito politico corrente una singolare inversione tra le cause e gli effetti della crisi. Mentre – come si è detto – è del tutto ovvio e pacifico che i disavanzi e la crescita del debito sono un effetto della crisi, in Europa si è teorizzato, e ci stiamo comportando come se la crisi fosse l'effetto, e non la causa, dei disavanzi di alcuni Paesi periferici, sicché sarebbe necessario per risolvere i problemi europei, che questi Paesi, ai quali di è aggiunta l'Italia, deflazionassero pesantemente la loro economia costi quello che costi. È abbastanza ovvio che così facendo si peggiora la situazione anziché risolverla, si creano risentimenti, paure e sofferenze reali che potrebbero essere evitati. Il problema rimane quindi quello della gestione dei debiti provocati dalla crisi finanziaria: se si ritiene che debbano essere ripianati all'interno dei bilanci di ciascun Paese, non rimane che procedere come stiamo facendo e ipotecare 10-20 anni delle nostre vite dedicandole a questo compito. Se viceversa si prende atto della realtà (anche storica) e si cercano sistemi cooperativi e meccanismi e strumenti finanziari idonei a gestire la crisi, (come sono anche gli eurobonds) è possibile riprendere una fase di sviluppo più ordinata di quella che si è risolta nella catastrofe del 2007-09. Ma per fare ciò sarebbero necessarie leadership politiche molto forti, consapevoli e autorevoli.
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I limiti della Costituzione economica dell’Ue Ronny Mazzocchi
insegna Economia Monetaria e Finanziaria all'Università di Trento
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La crisi ha reso più evidenti i difetti d'origine della costruzione europea e le pesanti carenze del suo assetto istituzionale, in particolar modo per quel che riguarda il governo economico
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a costruzione europea sta attraversando in queste settimane uno dei momenti più difficili della sua lunga storia. Gli squilibri macroeconomici e della finanza pubblica, i rischi connessi agli elevati debiti sovrani e le forti tensioni sui mercati finanziari stanno mettendo in serio pericolo il futuro della moneta unica. Sarebbe tuttavia un errore considerare l'attuale momento di crisi come un evento eccezionale che ha finito per terremotare un edificio europeo altrimenti solido. La crisi ha solamente reso più evidenti i difetti d'origine della costruzione europea e le pesanti carenze del suo assetto istituzionale, in particolar modo per quel che riguarda il governo economico. Tutto l'apparato di convergenza macroeconomica messo in piedi all'inizio degli anni Novanta non solo si è rivelato insufficiente, ma probabilmente del tutto inutile, a realizzare in modo sostenibile nel tempo il progetto dell'Unione monetaria. Non ci sono stati solo gli enormi ostacoli determinati dalle diversità delle grandezze contabili macroeconomiche, che già costituivano un problema ai tempi del Sistema Monetario Europeo, ma anche tutti i problemi legati alle strutture e attitudini microeconomiche su cui nemmeno l'agenda di Lisbona è riuscita a imporre correzioni e determinare dinamiche convergenti. Ad essere messo in discussione dovrebbe essere innanzitutto l'impianto storico-dottrinale su cui è stata costruita la cosiddetta “Costituzione economica” dell'Ue (Trattato di Maastricht e il successivo Patto di Stabilità e Crescita). Una struttura teorica che ha visto affermarsi dei vincoli sempre più stringenti alla cosiddetta Non-Agenda dei governi e, contemporaneamente, ha riposto una cieca fiducia nel funzionamento efficiente dei mercati. Proprio negli anni in cui vennero elaborati i trattati europei era dominante la
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cosiddetta New Political Economics di Milton Friedman e James Buchanan, un filone di pensiero che analizzava le architetture politiche e istituzionali e i loro effetti sul sistema economico partendo dal presupposto che i rappresentanti politici e i funzionari dello Stato fossero individui razionali che compivano scelte ottimali rispetto ai loro interessi privati, i quali però non sempre corrispondevano con gli interessi generali. Si tratta di una linea di pensiero profondamente intrisa di scetticismo riguardo agli effetti economici dei meccanismi democratici. Si era convinti, cioè, che la competizione elettorale e l'alternarsi al governo di maggioranze diverse avrebbero prodotto, proprio sul terreno della finanza pubblica, incentivi perversi come tagli fiscali pre-elettorali, un uso inappropriato della spesa pubblica per distribuire posti di lavoro e prebende oppure dosi eccessive di debito pubblico che sarebbero state pagate dalle generazioni future. Proprio su questa estrema sfiducia si è a lungo innestata l'idea che l'interesse pubblico, univocamente rappresentato dall'efficienza economica, dovesse essere protetto dai difetti dei meccanismi democratici, sottoponendo ogni azione al “giudizio dei mercati” e limitando il più possibile il margine di manovra dei governi. A distanza di vent'anni si può però affermare senza timore di essere smentiti come le cose siano andate in maniera diametralmente opposta. Dopo che attraverso i Trattati europei sono stati elevati alti e robusti allarmi di protezione contro gli eccessi della finanza pubblica, l'incendio è scoppiato nel settore privato e si è diffuso senza incontrare ostacoli resistenti e politiche economiche adeguate a farvi fronte. I mercati finanziari, che dovevano punire l'irresponsabilità della politica, si sono dimostrati un giudice assai indisciplinato, al punto da essere all'origine del disastro che ci troviamo sotto gli occhi e da cui facciamo così fatica ad uscire. A giocare un ruolo fondamentale nella debolezza della costruzione europea ci ha pensato anche la reciproca sfiducia fra i governi che costituirono la moneta unica, soprattutto fra i presunti virtuosi – come Francia, Olanda e Germania – e il cosiddetto Club Med, una sorta di anticipatore di quel gruppo che negli ultimi tempi è stato ribattezzato con l'assai poco simpatico acronimo anglosassone di “Pigs”. Da ultimo, ma non per scarsa importanza, non va dimenticata una generale indisponibilità a cedere quote significative di sovranità fiscale ad un'autorità sovranazionale capace di
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Si è a lungo affermata l'idea che l'interesse pubblico, univocamente rappresentato dall'efficienza economica, dovesse essere protetto dai difetti dei meccanismi democratici, sottoponendo ogni azione al “giudizio dei mercati” e limitando il più possibile il margine di manovra dei governi
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Le cinque clausole di ammissione sono state lo strumento di attuazione del progetto, che però ha finito per subordinare la volontà politica di adesione all'esame costituito dal rispetto dei parametri di convergenza economica, a loro volta presentati come tecnicamente appropriati e politicamente neutrali
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istituire trasferimenti dal centro alla periferia a seconda delle esigenze. Un ingrediente che, come suggerivano vari studi sulle aree valutarie ottimali, sarebbe stato fondamentale per tenere in piedi un'unione monetaria formata da economie strutturalmente diverse, soggette a shock asimmetrici e caratterizzate da una bassa mobilità del lavoro, sia nei paesi che fra paesi. Forse la colpa peggiore della Costituzione economica europea è stata però quella di aver trasformato un grandioso progetto politico da attuarsi con mezzi anche economico-finanziari in un circolo economico-finanziario in cui entrare con mezzi politici. Scartata la visione che vedeva l'unione monetaria come un mezzo per rimuovere gli impedimenti economici che rendevano difficile il raggiungimento dell'unione politica, il Trattato di Maastricht stabilì che la moneta unica doveva essere un obiettivo in sé, da realizzarsi attraverso un processo di convergenza macroeconomica da attuarsi sotto la piena ed esclusiva responsabilità di ciascun paese membro. Le cinque clausole di ammissione sono state lo strumento di attuazione del progetto, che però ha finito per subordinare la volontà politica di adesione - manifestata o dalla ratifica dai Parlamenti nazionali o addirittura da referendum confermativi - all'esame costituito dal rispetto dei parametri di convergenza economica, a loro volta presentati come tecnicamente appropriati e politicamente neutrali. La verità, come ricordò l'economista belga Paul De Grauwe al momento della stipula dei trattati, era che quei criteri non erano affatto fondati su solidi principi economici, ma avevano lo scopo di minimizzare il numero dei paesi partecipanti al club monetario e di mantenerlo piccolo. Erano ritagliati su misura per la Germania, socio fondatore essenziale per la riuscita del progetto, ed erano - per buona parte della classe dirigente tedesca - l'unico equilibrio politico accettabile. Purtroppo si sono rivelati non solo non necessari, ma addirittura inutili per garantire la coesistenza monetaria di economie strutturalmente diverse come quelle che ora adottano l'euro. Quel che è peggio è che tutto questo insieme di regole e criteri, inseriti per rendere credibile agli occhi dei mercati la volontà di unificazione, sono risultati sin dall'inizio talmente poco credibili da renderli facilmente manipolabili al primo momento di difficoltà. È successo nel 2003, quando di fronte alle infrazioni al Patto di Stabilità e Crescita di Francia e Germania, l'Ecofin decise a maggioranza di sospendere le sanzioni, un privilegio che invece non fu concesso al
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Portogallo solo due anni prima. Ed è successo a partire dal 2008 quando – con interpretazioni ardimentose e controverse dei trattati – si è concesso alla Bce di muoversi secondo direttive piuttosto diverse da quelle che originariamente erano state previste. Le valutazioni politiche, cacciate dalla porta, sono così rientrate assai poco dignitosamente dalla finestra, provocando non pochi danni al già fragile impianto democratico delle istituzioni comunitarie. Nel momento in cui siamo chiamati al difficile compito di ridare slancio all'Europa, non possiamo quindi prescindere dalle lezioni che ci vengono dal passato. Armonizzare le economie europee, conseguire una maggiore convergenza macroeconomica e migliorare la redistribuzione delle risorse sono compiti che possono essere conseguiti più efficacemente all'interno dell'Unione, attraverso la predisposizione di una serie di strumenti – agenzia del debito, eurobond, standard retributivi – utili a tale scopo. Presentare questi strumenti come il premio per un processo di convergenza autonomo – così come era successo per la moneta unica una dozzina d'anni fa – significa andare incontro agli stessi problemi e agli stessi errori già compiuti. Questa volta, però, si rischia di non avere una prova d'appello.
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Una e molteplice. L'Europa, provincia globale Mauro Ceruti è senatore PD e insegna Filosofia della scienza all'Università di Bergamo
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ttorno alla metà del ventesimo secolo, si delineò un nuovo progetto di Europa. Artefici ne furono uomini politici che avevano vissuto le tragedie dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale. Questo progetto era fondato sul riconoscimento dei limiti e della distruttività che avevano caratterizzato l'età degli stati nazionali assoluti e sovrani. Valori innovativi e antitetici rispetto al recente passato avrebbero orientato questa costruzione europea: non più l'omologazione, ma la valorizzazione delle diversità; non più le semplificazioni indotte dalle maggioranze dominanti, ma il rispetto della complessità dei mosaici e degli intrecci etnici, linguistici, culturali e religiosi; non più la compressione delle molteplici identità individuali e collettive, ma il loro riconoscimento e il supporto al loro pieno sviluppo. Le istituzioni comunitarie dell'Europa unita originaria, l'Europa a sei degli anni cinquanta, sono state plasmate in particolare da una consapevolezza: che il lungo conflitto nazionale e nazionalistico franco-tedesco aveva creato un vicolo cieco, e che era necessario riformulare i problemi tradizionali. Così, la prima istituzione comunitaria, la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), nacque dalla scelta di riformulare in modo inclusivo un problema che era sempre stato posto solo in modo esclusivo: la scelta di condividere le risorse di quei luoghi - Alsazia, Lorena, Saar, Belgio, Lussemburgo, Renania, Ruhr - per il possesso esclusivo dei quali si era tanto combattuto (in particolare tra Francia e Germania), senza mai trovare alcun assetto stabile ed equilibrato.
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Grazie a questo nuovo paradigma politico e culturale, l'Unione Europea è stato un grande “attrattore” nel panorama internazionale della fine del ventesimo secolo e degli inizi del ventunesimo. All'Unione si sono rivolti gli altri paesi dell'Europa occidentale negli anni della guerra fredda. Ad essa si sono rivolti i paesi dell'Europa centro-orientale e i paesi baltici post-sovietici nell'età della dissoluzione dei blocchi. Ad essa oggi si rivolgono i paesi dei Balcani occidentali, che hanno sperimentato il potere distruttivo delle identità nazionali irrigidite e contrapposte, allorché non siano vincolate da reti di cooperazione più generale. Ad essa si rivolge la Turchia, riscoprendo e valorizzando il suo ruolo storico di mediatore fra la cultura europea e la cultura delle coste orientali e meridionali del Mediterraneo. La fondazione e le prime espansioni dell'Unione Europea sono state vincenti per alcune ragioni: l'Unione si è definita come un progetto e non come un territorio; si è istituita come entità politica e non geografica; ha delineato i suoi confini attraverso l'esito dei negoziati con gli interlocutori del momento e non attraverso dichiarazioni di principio sulle demarcazioni ultime della civiltà europea; ha dichiarato i suoi confini esterni come transitori e rivedibili; ha interpretato questi confini come fasce di comunicazione con il mondo e non come barriere di separazione. Questa visione, che è anche una pratica, è ancor più attuale nel momento in cui la globalizzazione moltiplica le relazioni e le intersezioni fra l'Europa e il resto del mondo. La questione delle frontiere esterne dell'Europa e la questione del ruolo dell'Europa nel mondo sono oggi due facce della medesima medaglia. Il mondo, sempre più policentrico, è plasmato dalle politiche e dalle strategie di attori globali a pieno titolo – Stati Uniti, Russia, Cina, India, Brasile e forse in un prossimo futuro Australia. Tali attori giocano a tutto campo, tessono complesse reti di conflittualità e cooperazione, sono sempre più interdipendenti. L'Europa oggi ha un futuro solo se ambisce a diventare, a sua volta, un attore globale. Ma per diventare un attore globale, l'Europa non può che sviluppare una politica estera e una politica finanziaria che siano comuni e coerenti, e proseguire il trasferimento di sovranità dai singoli stati alle istituzioni comunitarie, per superare il particolarismo delle singole prospettive nazionali. L'Euro è soltanto l'inizio di una strada, e proprio la sua crisi, per la carenza di
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La fondazione e le prime espansioni dell'Unione Europea sono state vincenti per alcune ragioni: l'Unione si è definita come un progetto e non come un territorio; si è istituita come entità politica e non geografica
L'Europa oggi ha un futuro solo se ambisce a diventare, a sua volta, un attore globale. L'Euro è soltanto l'inizio di una strada e proprio la sua crisi ci incita a percorrere questa strada fino in fondo
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coordinazione e di condivisione fra le nazioni, ci incita a percorrere questa strada fino in fondo. L'Unione Europea è nata e si è sviluppata proprio nel momento dell'ultimo, definitivo fallimento delle prospettive europee di controllo del mondo. L'Europa, oggi, non è più dominatrice: è diventata una provincia del mondo, peraltro sempre meno importante per peso demografico, forza militare, risorse energetiche e minerali. Proprio per questo, il ruolo dell'Europa nel governo dei processi di globalizzazione è unico e irrinunciabile: non più centro del mondo, ma suo laboratorio sperimentale, volto ad affrontare le difficoltà e le controversie che i processi di globalizzazione comportano, e nella condizione di promuovere soluzioni innovative, attraverso la specificità della sua storia e della sua identità plurale. L'Europa è stata costretta a imparare, dalla sua storia remota e recente, a diventare una e molteplice: a pensare insieme, come complementari e non opposte, identità e diversità; a concepire ogni identità come incompiuta ed evolutiva, come irriducibilmente multipla, generata dall'intreccio di molteplici storie; a comprendere che la valorizzazione delle diversità delle culture e delle persone nonché della biosfera è la vera opportunità antropologica e politica dell'età globale; a elaborare il nucleo di un umanesimo planetario, imperniato sulla coscienza della comunità di destino di tutti i popoli della Terra, e dell'umanità con la Terra stessa. Proprio per la sua storia, per la sua identità plurale e per la sua attuale condizione di “provincia globale”, l'Europa può essere laboratorio di innovazione istituzionale e culturale, per affrontare le sfide cruciali del “mondo globale”: governare i disordinati processi di globalizzazione economica; prospettare modalità di integrazione dinamica tra pubblico e privato, laddove hanno fallito sia il liberismo sia il dirigismo unilaterali; sviluppare la qualità della vita degli individui e delle collettività attraverso le opportune riforme ed estensioni del welfare state; riannodare i legami sociali e difendere le specificità culturali; concepire relazioni sostenibili fra la specie umana e gli ecosistemi; connettere indissociabilmente qualità ambientale e qualità sociale; porre un termine all'età delle energie fossili; rendere economicamente produttive le energie rinnovabili; intervenire sul riscaldamento globale e stabilizzare il clima del pianeta. E, fra le tante sfide oggi aperte per l'Europa, decisiva 88
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è quella di costruire insieme la sua politica energetica e la sua politica di cooperazione con il Sud del mondo, in particolare con le coste meridionali e orientali del Mediterraneo. In un momento in cui le politiche energetiche nazionali sono sempre più vane, soprattutto in un continente segnato da una notevole scarsità di materie prime, l'impegno europeo per rendere praticabile ed economico lo sfruttamento delle enormi riserve di energia solare che possiede l'Africa settentrionale non solo può avere una ricaduta decisiva per il bilancio energetico europeo, ma può creare nuovi orizzonti di cooperazione fra il Nord e il Sud del Mediterraneo. Si riproporrebbe, con una consistenza e su orizzonti ancora più ampi, il medesimo cambiamento di paradigma che è stato, con la CECA, alle origini stesse della storia europea. L'Europa potrà avere un futuro solo se saprà comprendere che questo futuro è da costruire con decisione e spirito di collaborazione. Purtroppo, in questi ultimi tempi, sembra che il passato voglia risucchiare chi è incamminato su questa strada, con la coazione a ripetere rinnovati egoismi nazionali e facili populismi. L'agenda della politica deve rimettere in primo piano la necessità del cambiamento di paradigma, e ritrovare le ragioni profonde per cui è nata l'Europa. Ragioni che oggi, nella nuova età globale, appaiono ancora più attuali.
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L'Europa potrà avere un futuro solo se saprà comprendere che esso è da costruire con decisione e spirito di collaborazione
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PAROLE DA SALVARE... DAGLI ABUSI
Sussidiarietà Franco Monaco è senatore PD
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onfesso la mia diffidenza verso una certa retorica bipartisan. Specie in una stagione politica nella quale l'oggettiva esigenza di fronteggiare l'emergenza e di invocare il senso di una responsabilità comune può condurre a offuscare le differenze politiche e a misconoscere la funzione costituzionale dell'opposizione. Alla quale compete sì di non sottrarsi al dovere di cooperare alla fuoriuscita dalla crisi, ma anche di porre le premesse di un'alternativa. La qualità e la forza di una democrazia si misurano anche dalla sua capacità di non rinunciare, pure dentro le emergenze, ai fondamentali della stessa democrazia. Tra questi appunto la funzione costituzionale di un'opposizione degna di questo nome. Tanto più diffido della retorica bipartisan in tema di sussidiarietà. Un principio prezioso, sia chiaro, che, con la riforma del titolo quinto, abbiamo messo in Costituzione. Un principio cardine anche dell'insegnamento sociale della Chiesa sin dalla enciclica "Quadragesimo Anno" di Pio XI del 1931. Ma anche una parola decisamente inflazionata e dal significato mobile e spesso equivocato. E' la ragione per la quale non ho mai aderito alla pur affollata associazione parlamentare bipartisan per la sussidiarietà. Associazione sulla quale cercano di mettere il cappello gli uomini di Formigoni, che teorizza e soprattutto pratica una sua visione della sussidiarietà. Si pensi al sistema sanitario lombardo. Una visione legittima, ma che non può essere spacciata come "la" sussidiarietà. Semmai come una interpretazione politica di essa. Dalla quale è lecito dissentire.
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PAROLE DA SALVARE... DAGLI ABUSI La sussidiarietà cosiddetta orizzontale corrisponde a un'idea del rapporto tra società e Stato che riconosce e valorizza tutte le espressioni sane dell'autonomia sociale. Delle comunità naturali, a cominciare dalla famiglia, e dei corpi intermedi (appunto posti in mezzo tra il cittadino singolo e le istituzioni politiche). Di più: come recita il nuovo art. 118, lo Stato favorisce lo stesso esercizio di funzioni pubbliche da parte delle formazioni sociali. Vi sottende una visione dello Stato in senso personalistico e pluralistico. Personalistico in quanto subordinato e servente le persone singole e associate, impegnato verso i loro diritti e sollecito verso i loro bisogni. L'opposto delle visioni statalistiche o addirittura statolatriche. Pluralistico perché riconosce e promuove quella ricca trama di esperienze associative che si dipanano tra la persona e le istituzioni e le responsabilizza nello stesso soddisfacimento delle domande di prestazioni e di servizi pubblici che ad essi fanno capo. Sin qui tutti d'accordo. Ma proprio qui si innesta una distinzione. Il principio di sussidiarietà, che certo incorpora la suddetta visione e le connesse opzioni di valore, si qualifica tuttavia come principio regolativo dei rapporti tra persona-societàStato che attiene al modo e ai mezzi del soddisfacimento dei bisogni attraverso l'esercizio di funzioni pubbliche. Esso va orientato e subordinato a un fine che lo trascende. Quello fissato solennemente nell'art. 2 della nostra Carta fondamentale che così si esprime: la Repubblica riconosce e garantisce i diritti fondamentali della persona sia come singolo sia nelle formazioni nella quali si sviluppa la sua personalità. Attenzione ai verbi impegnativi: riconosce la preesistenza di quei diritti rispetto alla stessa comunità politica e soprattutto - ecco il punto - garantisce il soddisfacimento di quei diritti. Questo è il fine, questo è ciò che ultimamente conta sotto il profilo costituzionale. Non è precisazione di poco momento. Pena celebrare enfaticamente la sussidiarietà (che, ripeto, è principio regolativo prezioso e tuttavia servente il fine), magari sottacendo appunto la sua finalizzazione: quella di garantire l'effettività di diritti fondamentali. Qui si fonda il diritto-dovere dello Stato e delle sue articolazioni a un sano, virtuoso interventismo. L'opposto di una visione angustamente liberista dello Stato (minimo e residuale) o confederativa della società ove gruppi e comunità, magari omogenei ideologicamente, si organizzano nel segno della separatezza e dell'autosufficienza, pretendendo dalle istituzioni solo 91
PAROLE DA SALVARE... DAGLI ABUSI provvidenze o beni strumentali. Misconoscendo da un lato il preciso dovere dello Stato di assicurare che tali beni-diritti siano garantiti a tutti i cittadini e dall'altro rapportandosi ad esso solo in termini rivendicavi e particolaristici. In definitiva denegando il valore simbolico ed etico dell'appartenenza alla Repubblica intesa, al modo dei costituenti, come casa comune. Una cosa è rifiutare lo Stato etico, tutt'altra cosa è negare la valenza etica dell'appartenenza alla Repubblica. La quale a sua volta si impegna a garantire effettività e universalità all'esercizio dei diritti di cittadinanza anche quando i privati e le formazioni sociali da sé soli non sono in grado di farlo. In sintesi, una visione sociale e solidaristica dello Stato nella quale inscrivere lo stesso principio di sussidiarietà. Il quale non contrasta con un ben inteso primato della politica e del suo compito di regolazione e di indirizzo della dinamica civile. Come poi in concreto raccordare domanda sociale e risposta istituzionale, con quali mezzi e in quali forme, è questione affidata anche alle legittime e diverse visioni politiche. Ecco perché non si deve esagerare nell'immaginare che il principio di sussidiarietà sortisca una e una sola azione politica. Ci sono modi diversi di interpretarlo e di tradurlo politicamente. Non saranno né il tavolo parlamentare bipartisan, né il meeting di Rimini ad esonerarci dal dovere di elaborare politicamente una nostra idea della sussidiarietà. Che è francamente diversa da quella praticata da Formigoni.
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NUMERI PRECEDENTI
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