NUMERO 3 NOVEMBRE 2011
L'immigrazione e la sfida dell'interculturalitĂ .
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contributi di Giorgio Armillei Montini Domenico Berardi Giancarlo Bosetti Paolo Luigi Branca Mauro Ceruti Paolo Corsini Paolo Feltrin Claudio Giunta Massimo Livi Bacci Michele Prospero Francesco Remotti Ilaria Tarricone Jean-LĂŠonard Touadi Livia Turco Franco Valenti Carmelo Vigna Roberto Zaccaria
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NUMERO 3 - NOVEMBRE 2011
Stefano Di Traglia Direttore responsabile
Franco Monaco Direttore editoriale
Alfredo D'Attorre Coordinatore del Comitato editoriale
COMITATO EDITORIALE
Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini ................................................................ SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it
SOMMARIO FOCUS
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E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico numero 2/2011 - revisione 1
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La diversità come risorsa Mauro Ceruti La via italiana alla convivenza Livia Turco
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Più migranti, meno stranieri Massimo Livi Bacci
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L’agenda dei progressisti esige coraggio e visione Giancarlo Bosetti
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Dalla multicultura all’intercultura: la polis come cittadella delle alterità Jean-Léonard Touadi Noi e l’Islam, una sfida inedita Paolo Branca Libertà religiosa: urge una legge organica Roberto Zaccaria La sinistra e l’immigrazione intervista a Giuseppe Sciortino
Il caso del comune di Brescia Franco Valenti
Claudio Giunta
Tra razzismo e integrazione, il paradosso di Treviso Paolo Feltrin
ALTRI CONTRIBUTI
Salute mentale e migrazione: esperienze di cura e formazione a Bologna Domenico Berardi e Ilaria Tarricone
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Inattualità di Martinazzoli Paolo Corsini La base sociale del berlusconismo Michele Prospero .............................................................
Identità e identitarismo Francesco Remotti Multiculturalismo e interculturalità Carmelo Vigna
PAROLE DA SALVARE
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Sussidiarietà
primato della politica o poliarchia?
Giorgio Armillei Montini
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L’immigrazione e la sfida dell’interculturalità
FOCUS
La diversità come risorsa Mario Ceruti è senatore PD e insegna Epistemologia della globalizzazione all'Università IULM di Milano
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a conoscenza della storia dell'umanità nei suoi tempi lunghi è recente ed è un'inedita opportunità per comprendere e affrontare adeguatamente uno dei problemi cruciali dei nostri giorni: il governo delle relazioni interculturali, a livello politico, culturale, economico, sociale. Oggi, per la prima volta, si sono rese disponibili conoscenze dettagliate sui tempi lunghi dell'evoluzione umana, sui modi e sulle varie tappe con cui l'umanità si è diffusa – a partire dalla sua origine, circa 150.000 anni fa – sull'intero pianeta Terra. La storia della specie umana oggi ci appare come la storia di un processo di globalizzazione del popolamento della Terra, processo che, in età successive, ha assunto aspetti sempre nuovi e imprevedibili. Oggi sappiamo che la specie umana è nata, al pari di tutte le altre specie animali, come specie locale. E' nata legata a un clima, a condizioni di vita, a un ecosistema particolari (quello della savana dell'Africa orientale). Ma poi, unica fra tutte le altre specie animali, è diventata una specie planetaria, capace di popolare tutti gli habitat del pianeta, compresi quelli ad essa originariamente più ostili (tundre polari, deserti, foreste equatoriali). Ha potuto fare ciò grazie a straordinari adattamenti fisici, comportamentali e cognitivi alle specificità degli ecosistemi e dei territori di volta in volta abitati. Tale popolamento planetario della specie umana delinea una prima globalizzazione. La storia umana è stata la storia di una grande diaspora, che ha portato piccoli gruppi ad adattarsi ciascuno a un habitat differente. Tuttavia, questo elevato grado di diversificazione non ha irreversibilmente diviso la nostra specie: la sua unità biologica è stata conservata grazie ai costanti contatti fra gruppi prossimi. L'unità di specie si è costantemente rigenerata attraverso la produzione di diversità locali, e le diversità si sono potute produrre proprio all'interno dell'unità. E' proprio attraverso questa reciproca generazione di unità e di diversità che la specie umana è diventata globale.
La storia della specie umana oggi ci appare come la storia di un processo di globalizzazione del popolamento della Terra, processo che, in età successive, ha assunto aspetti sempre nuovi e imprevedibili
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FOCUS
L’immigrazione e la sfida dell’interculturalità
Le culture umane, così molteplici e disparate, affondano le loro radici in questa grande diaspora planetaria. Esse hanno un'origine ecologica, sono state modellate dalle conoscenze necessarie per sopravvivere e per fiorire ciascuna in un particolare ambiente locale. D'altra parte, sin dai tempi più antichi, ogni cultura si è modificata e ibridata nella relazione con altre culture. Sin dai tempi più antichi le culture si sono scambiate spose, sposi, lingue, idee, manufatti, tecnologie, materie prime... Le culture umane hanno l’impronta strutturale della diversità e dell'unità congiunte: la diversità degli adattamenti locali; l'unità delle reti, prima regionali e poi ancora più vaste, che insieme hanno iniziato a intessere. La rivoluzione agricola, con la rivoluzione demografica che ne è conseguita, in seguito ha invertito la direzione dello sviluppo del popolamento umano della Terra: da diasporica a convergente. Si è così delineata una seconda globalizzazione, intessuta dalle reti delle civiltà e delle culture. Nuove culture e nuove civiltà sono nate da un articolato mosaico di migrazioni e di stratificazioni etniche. Di fatto, nessuna etnia storica ha potuto dirsi e può dirsi "pura", perché è stata sempre il risultato degli intrecci fra etnie e culture preesistenti. Il mondo è diventato più popolato: più pieno, talvolta anche più angusto. Singole culture, da locali che erano, hanno goduto di una grande espansione, fondando talvolta anche enormi imperi multinazionali. Il contatto fra le culture in espansione è diventato più intenso, e ha assunto forme varie e contrastanti. Talvolta ha assunto la forma del conflitto per il controllo di risorse scarse. Talvolta una cultura più forte ha subordinato, omologato o semplicemente distrutto culture più deboli. Ma, nel contempo, il commercio materiale e immateriale delle culture ha prodotto reti di scambio di portata continentale, mettendo in relazione anche territori assai lontani (come l'Europa con l'Estremo Oriente). Talune culture hanno avuto un ruolo importante nella mediazione con altre culture. La stessa cultura dell'Occidente, nell'età greca, ellenistica, romana, medievale, è il prodotto della circolazione delle idee e delle culture materiali entro immense reti commerciali e 6
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culturali, euro-asiatico-africane. Gli inizi dell'età moderna, a partire dalla soglia del 1492, costituiscono l'ingresso della storia umana in una terza globalizzazione. Le varie reti di scambio di portata continentale si sono rapidamente intrecciate in un'unica economia-mondo (o mondiale), e le forme della vita materiale hanno iniziato a convergere. Ma questa convergenza non ha significato necessariamente una riduzione della diversità culturale: gli incontri fra culture non solo hanno prodotto fusioni, omologazioni e annientamenti, ma anche nuove resistenze all'omologazione, nuovi confini culturali, nuovi meticciati, nuovi ibridi. Questa terza globalizzazione – la globalizzazione come interdipendenza di tutte le culture e le civiltà del pianeta – non è dunque una novità assoluta degli ultimi decenni, ma ha caratterizzato tutti i cinque secoli dell'età moderna. Tuttavia, tratti davvero inediti dei nostri giorni sono la diffusione, la dispersione, la de-territorializzazione delle culture. Sempre di più, culture differenti non sono collocate in territori ben separati e distinti. Le interazioni fra culture anche di origine molto lontana l'una dalle altre oggi stanno radicalmente trasformando i paesaggi urbani del nostro continente, sia delle metropoli che dei piccoli centri. Si moltiplicano confini e linee di fronte, ma anche scambi, commerci, impreviste interconnessioni. Molteplici tipologie di incontri, confronti e scontri di culture oggi accadono contemporaneamente negli stessi tempi e in ogni singolo luogo. Contesti urbani in cui la creatività e l'irreversibilità degli scambi interculturali sono assai consolidate rischiano di precipitare in un attimo in conflitti distruttivi. Ma avviene anche l'inverso: dalle linee di fronte si generano esperienze diffuse di condivisione e di mediazione. E' pertinente e importante, anche da un punto di vista politico, prestare la dovuta attenzione alla grande varietà delle tipologie di incontri-confronti-scontri fra culture. Molte volte, a proposito di 'intercultura' e di 'multicultura', si rischia di fissare lo sguardo solo sulle condizioni estreme di un continuum, senza prestare la dovuta attenzione alla complessità delle molteplici e irriducibili relazioni quotidiane fra individui e fra collettività. Si auspica, ad esempio, una condizione interculturale ideale in cui lo scambio fra le culture sarebbe agevole, costante e trasparente. Oppure, ci si preoccupa di una condizione multiculturale in cui i confini fra le culture sarebbero netti e le culture stesse sarebbero fisse ed estranee l'una rispetto all'altra. E' necessario andare oltre queste distinzioni troppo nette, per esplorare la fascia intermedia fra i due estremi, che è
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Questa terza globalizzazione – la globalizzazione come interdipendenza di tutte le culture e le civiltà del pianeta – non è dunque una novità assoluta degli ultimi decenni, ma ha caratterizzato tutti i cinque secoli dell'età moderna
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FOCUS
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Oggi è auspicabile l'ingresso in una nuova fase della storia umana: in una quarta globalizzazione che sia consapevole della condizione interculturale della specie umana e che faccia delle relazioni fra le culture uno strumento di convivenza, di ricchezza e di fecondità
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appunto quella della vita quotidiana e dei problemi concreti della convivenza nelle nostre città e nelle nostre nazioni. La conoscenza della storia umana planetaria sui tempi lunghi può aiutare al proposito. Possiamo comprendere come le culture si siano sempre evolute, in buona parte proprio grazie alle interazioni con altre culture. E come, d'altra parte, le relazioni interculturali spesso abbiano innescato processi, solo apparentemente divergenti, di distinzione e di valorizzazione delle specifiche diversità culturali. Spesso le culture interagiscono restando diverse, e reagiscono a progetti di sostanziale omologazione. Ma c'è un altro aspetto inedito dei nostri giorni: è il ruolo sempre più attivo, e in certo senso perturbante, oggi svolto dai singoli individui, o dai piccoli gruppi, rispetto a distinzioni culturali tradizionali che parevano consolidate. Fino a tempi assai recenti, era scontato che individui appartenenti a una singola cultura fossero considerati (o si considerassero) più simili fra loro di quanto non fossero simili a individui appartenenti ad altre culture. Ciò non è stato sempre vero, ma oggi certamente è sempre meno vero. Il percorso di vita di un numero sempre più rilevante di individui si forma all'incrocio e all'intreccio fra culture differenti, si delinea attraverso sintesi creative, soffre di conflitti e di confini interculturali che passano attraverso la persona stessa. Ogni individuo, in un certo senso, è il nodo che intreccia culture diverse, e reti di culture diverse. Oggi è auspicabile l'ingresso in una nuova fase della storia umana: in una quarta globalizzazione che sia consapevole della condizione interculturale della specie umana e che faccia delle relazioni fra le culture uno strumento di convivenza, di ricchezza e di fecondità. Ai nostri giorni, le culture entrano in relazione a due livelli ben distinti e interagenti: quello collettivo, tradizionale, fatto di linguaggi pubblici e istituzionali; e quello, sempre più rilevante, dei percorsi di vita dei singoli individui, sempre più vari ed eterogenei. Spesso essi realizzano originali ricomposizioni di culture differenti senza per questo annullare le consolidate appartenenze alle culture date. Una presa di coscienza della grande ricchezza e varietà delle relazioni fra culture che stanno emergendo ci aiuterà certamente a rispondere alla grande sfida politica della nostra età globale: elaborare un'idea di cittadinanza adeguata alla condivisione della vita pubblica da parte di cittadini uguali, ma differenti. Dobbiamo così tener fede al messaggio delle tre parole chiave della rivoluzione francese – libertà, uguaglianza, fraternità – e insieme coniugarlo con l'ulteriore imperativo della diversità: diversità nell'unità e unità nella diversità.
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FOCUS
La via italiana alla convivenza Livia Turco è deputato PD e presidente nazionale Forum immigrazione PD
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el 1861, al primo censimento dell'Italia unita, erano 200.000 gli italiani all'estero. 100.000 nelle due Americhe, 80.000 in Francia, 20.000 in Germania e Svizzera. Venivano dal Piemonte, dalla Liguria, dal Veneto e dal Sud. Tra il 1876 e il 1973 l'emigrazione coinvolse a vario titolo, tra partiti, rientrati, rimasti qualcosa come 26.000.000 di individui. La lingua italiana si è diffusa sin dall'inizio in tutto il mondo e l'idea dell'Italia e di italianità è cresciuta sin dall'inizio dell'Unità d'Italia fuori dal nostro territorio. I nostri emigrati hanno costruito un'Italia transazionale perché l'hanno diffusa nel mondo ed hanno portato il mondo a casa nostra. Come ci ha ricordato il Presidente Giorgio Napolitano nel suo bellissimo discorso pronunciato alla Camera il 17 marzo scorso, nell'Italia unita c'è anche la diversità, la pluralità, la solidarietà. Per costruire un'Italia forte e autorevole dobbiamo guardare alle forze in campo, alle energie che possiamo mobilitare e ai talenti da valorizzare. I 5.000.000 di immigrati e di immigrate che vivono con noi sono parte di noi, sono una popolazione e non solo lavoratori. Sono donne, uomini, giovani che ci aiutano a vivere meglio. C'è un'Italia profonda, che ha cominciato a costruire la mescolanza e la convivenza tra i diversi. Questa Italia resta tuttora nascosta e sconosciuta. Eppure, questa realtà ha costruito un peculiare “via italiana alla civile convivenza”. Essa nasce nelle comunità locali alla fine degli anni '70 quando iniziarono i primi flussi migratori. Si forma attorno ai Comuni, che fanno un gioco di squadra con il volontariato, l'associazionismo, i sindacati, gli imprenditori, le scuole. Ciò che ha favorito la via italiana alla convivenza è stato il felice incontro di alcune peculiarità dell'Italia e di alcune peculiarità
I nostri emigrati hanno costruito un'Italia transazionale perché l'hanno diffusa nel mondo ed hanno portato il mondo a casa nostra
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FOCUS
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La via italiana alla convivenza ha valorizzato il lavoro, i diritti sociali, ha puntato sul superamento delle discriminazioni, ha parlato di dirittidoveri
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dell'immigrazione: la diffusione dell'immigrazione su tutto il territorio, nei piccoli centri anche quelli disabitati; la diffusione secondo le esigenze del nostro mercato del lavoro; la presenza delle donne nelle nostre famiglie che hanno abbattuto stereotipi e che hanno costruito legami; la presenza di una democrazia diffusa dei sindacati, le associazioni, i comuni, le parrocchie che hanno coinvolto gli immigrati e sin dall'inizio hanno accorciato le distanze tra italiani ed immigrati; la scuola che ha formato i nostri ragazzi ma anche le famiglie italiane e straniere facendole incontrare e diventare capaci di parlarsi tra di loro. La via italiana alla convivenza ha valorizzato il lavoro, i diritti sociali, ha puntato sul superamento delle discriminazioni, ha parlato di diritti-doveri. Di rispetto delle regole e di riconoscimento delle differenze. Ha favorito la mescolanza attraverso i gesti della vita quotidiana, nelle fabbriche attraverso il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e l'amicizia con i lavoratori, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie. Quando sono esplosi i conflitti ha saputo superarli perché l'ente locale si è messo di mezzo, cercando di capire le ragioni degli uni e degli altri, promuovendo un gioco di squadra ed individuando obiettivi comuni. Un impegno che in genere è coinciso con la lotta al degrado urbano e sociale. E con la rinascita del proprio quartiere e della propria città. È questa la storia di città come Torino, Mestre, Milano, Genova. Fin dall'inizio la via italiana alla convivenza ha puntato sulla partecipazione politica, attraverso le consulte per gli stranieri ed i consiglieri aggiunti. Nel 1996, con il primo governo dell'Ulivo, ha incontrato finalmente la politica che con la legge 40/1996 l'ha sostenuta e valorizzata attraverso indirizzi e risorse. Legge poi del tutto abbandonata e stravolta dalle nuove normative del centro-destra. La via italiana alla convivenza civile è sociale, comunitaria, della mescolanza e dell'integrazione politica. Ci dice che la nuova unità d'Italia è l'unità nella diversità. Oggi la questione del rapporto tra immigrati ed italiani non è più solo quella dei diritti e dei doveri ma di quale Italia costruire insieme, di un nuovo progetto Italia da condividere. Per questo bisogna proporre una alleanza tra italiani ed immigrati per un'Italia migliore. Un'alleanza per lo sviluppo umano, per la dignità del lavoro, per il welfare delle sicurezze per tutti, per il diritto allo studio e la scuola interculturale per tutti, per una democrazia forte ed inclusiva. Costruire
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un'alleanza politica, condividere un progetto significa essere riconosciuti come cittadini, e poter aver le sedi in cui esprimersi e contare. Il tema della democrazia e della partecipazione politica è dunque oggi la questione cruciale, è il passaggio politico istituzionale necessario per creare coesione sociale e politica. Partecipare vuol dire essere riconosciuti ma anche assumersi delle responsabilità, esercitare un dovere nei confronti della propria comunità. Abbiamo bisogno di una democrazia che consenta a chi nasce e cresce in Italia di dirsi italiano e che consenta a chi vive con noi, lavora e paga le tasse di partecipare attivamente alla vita politica. Una democrazia per essere forte deve saper prevenire lacerazioni e conflitti. La democrazia italiana deve cogliere il conflitto potenziale contenuto nel fatto che un elevato numero di giovani che nasce e cresce nel nostro Pese e si sente italiano è privo di identità, e al compimento del 18° anno se non trova un lavoro o se non frequenta con assiduità gli studi universitari diventa clandestino e rischia l'espulsione. Ha solo un anno di tempo per rivolgere domanda di cittadinanza e per poterlo fare deve avere vissuto ininterrottamente per 18 anni nel nostro Paese. Si tratta della legge sulla cittadinanza che a livello europeo è la più ostile nei confronti dei minori. Consentire a chi nasce in Italia, figlio di immigrati con la carta di soggiorno, di essere riconosciuto cittadino italiano e a chi arriva in Italia di essere italiano dopo aver compiuto un ciclo di studi è una necessità e un dovere della nostra democrazia. È una grande priorità per il PD. Siamo impegnati in una campagna affinché tutti gli italiani si riconoscano nella parola d'ordine: chi nasce e cresce in Italia è italiano. In questo modo si superano i limiti del multiculturalismo. Recentemente il leader inglese Cameron ha riaperto il dibattito sulla crisi o addirittura il fallimento del multiculturalismo. È vero, il multiculturalismo si dimostra incapace di dirimere i conflitti e di costruire convivenza quando si limita a praticare il principio della tolleranza e il rispetto della pluralità inteso come il semplice stare l'uno accanto all'altro. Quando rinuncia a fare la fatica di conoscersi, riconoscersi, costruire una relazione reciproca, condividere, anche arricchendoli, i valori e le regole del Paese ospitante. Per costruire l'unità bisogna conoscersi e riconoscersi, condividere le scelte, sedersi allo stesso tavolo, guardarsi in faccia, contribuire a realizzare mete comuni e
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Abbiamo bisogno di una democrazia che consenta a chi nasce e cresce in Italia di dirsi italiano e che consenta a chi vive con noi, lavora e paga le tasse di partecipare attivamente alla vita politica
Siamo impegnati in una campagna affinché tutti gli italiani si riconoscano nella parola d'ordine: chi nasce e cresce in Italia è italiano. In questo modo si superano i limiti del multiculturalismo
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progetti condivisi. Il multiculturalismo può esistere solo se si rafforza l'unità nazionale, sul piano sociale ed economico, ma anche sul piano dei valori condivisi, che fondano l'appartenenza alla cittadinanza ed alla identità collettiva. Solo se si rafforza il senso di appartenenza all'identità collettiva diventa possibile riconoscere le differenze culturali. Solo rafforzando le politiche di uguaglianza diventa possibile accettare le differenze. Occorre essere uguali e differenti. La strada maestra è quella della cittadinanza e della partecipazione politica. L'Italia della convivenza non può continuare a crescere con le sole forze degli enti Locali, del volontariato, delle aziende, delle scuole. Ha bisogno di una buona politica nazionale. Ha bisogno di una nuova legge quadro sull'immigrazione che abroghi la Bossi-Fine e la Berlusconi-Maroni, riparta dalle leggi del centro-sinistra per innovarle. Ha bisogno di avere finalmente un tavolo attorno a cui siedano governo, regioni, comuni, associazioni per costruire un Piano Nazionale per l'integrazione dotato di strumenti di informazione, monitoraggio, formazione e risorse. Che non sia come il piano “identità, incontro” varato dal governo Berlusconi in cui ci sono tante idee anche condivisibili, ma quando si va al capitolo delle risorse, leggiamo “occorre realizzare un coordinamento tra le risorse esistenti”. Coordinamento difficile, dato che le risorse sono inesistenti. Noi proponiamo un piano ed un fondo nazionale che sia cofinanziato dal governo, dalle regioni ed anche da soggetti privati. Oggi vanno di moda gli innovatori e i rottamatori. Non c'è nulla di più innovativo che imparare la fatica di vivere con chi è diverso da noi e non c'è nulla di più urgente da rottamare dei pregiudizi e della paura. Perché offuscano la vista ed alterano il battito del cuore. L'Italia invece ha bisogno di uno sguardo attento e di un cuore generoso.
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Più migranti, meno stranieri Massimo Livi Bacci è senatore PD
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immigrazione è il fenomeno sociale di gran lunga di maggior forza di questo inizio di millennio. Le cifre aggregate sono note: nei primi anni '90 gli immigrati “regolari” si aggiravano sul milione; la Caritas calcola che all'inizio del 2011 i “regolarmente presenti” fossero 5 milioni (di cui 4,6 milioni residenti iscritti in anagrafe, ed altri 0,4 milioni regolari, ma non registrati in anagrafe). Se a questa cifra aggiungiamo diverse centinaia di migliaia di irregolari, il totale degli stranieri, all'inizio di quest'anno, può stimarsi attorno a cinque milioni e mezzo. Si tratta di una cifra cospicua, che pone l'Italia alla pari – quanto ad intensità del fenomeno – di altri paesi europei di più antica tradizione immigratoria. Occorre però intendersi su cosa s'intenda con la parola “stranieri”: nel lessico comunitario essa si riferisce ai cittadini che non abbiano cittadinanza in uno dei 27 paesi della UE. Ora, nelle nostre anagrafi sono iscritti 1,3 milioni di persone provenienti dagli altri 26 paesi UE (per quasi tre quarti dalla Romania). Si tratta di cittadini “europei” che – se l'Europa davvero esistesse come potente entità politica - dovrebbero considerarsi alla stregua di migranti interni, né più né meno dei siciliani che vivono in Piemonte o, negli Stati Uniti, dei newyorkesi trasferiti in California. E che dire delle molte centinaia di migliaia di minori, nati in Italia da genitori stranieri (un nato su sette) o arrivati in Italia in tenera età: “stranieri anche loro”, anche se frequentano le nostre scuole, giocano con amici italiani o hanno l'italiano come lingua madre? Vale la pena di discutere due argomenti di gran rilievo 13
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per il futuro del Paese. Il primo ha a che fare con le dimensioni dei flussi d'immigrazione. Il secondo riguarda la funzionalità dell'immigrazione allo sviluppo e la natura delle politiche migratorie più adatte a rendere l'immigrazione un gioco a somma positiva. Veniamo al primo dei due punti. Nell'ultimo ventennio l'immigrazione netta annua è stata dell'ordine di 200 mila unità all'anno. Nello stesso periodo, la popolazione in età attiva (tra i 20 e i 65 anni) è cresciuta annualmente di 50 mila unità. Non è quindi un “vuoto” demografico quello che ha attratto l'immigrazione, ma semmai, la crescita economica, ancorché debole; la forte segmentazione del mercato del lavoro; un debole welfare familiare che necessita sostegno; la richiesta di mobilità, alla quale è scarsamente propensa la manodopera autoctona. Nel ventennio 2010-2030, al contrario del ventennio precedente, la popolazione attiva “autoctona” (nell'ipotesi di immigrazione pari a zero) diminuirebbe di oltre un quarto di milione all'anno. Una depressione demografica notevole che non potrà che essere contrastata – almeno parzialmente – da consistenti flussi di immigrazione, pena un forte ridimensionamento dell'economia. Ora, la domanda di lavoro straniero, inevitabilmente sostenuta, potrebbe essere moderata (ma sicuramente non annullata) da politiche industriali orientate a una radicale conversione del nostro sistema economico verso attività a minore intensità di lavoro e alto contenuto tecnologico e da una riforma del welfare familiare che allentasse la necessità di aiuti domestici. Tuttavia, l'effetto moderatore di questi mutamenti strutturali si potrebbe avvertire solo gradualmente e nel lungo periodo. Il secondo argomento di discussione riguarda il modello di immigrazione più funzionale allo sviluppo. Nei paesi ricchi si va consolidando un convincimento che prende varie forme nelle politiche attuate. In sostanza questo si sostanzia nel privilegiare le migrazioni temporanee e la cosiddetta "migrazione circolare": forme di migrazione limitate nel tempo (oltre a quelle stagionali) e comunque cadenzate da ritorni in patria. La giustificazione ufficiale per queste politiche è che si tratta di forme di migrazione che limitano le perdite dovute al brain drain nei paesi di partenza e massimizzano le rimesse per coloro che rimangono in patria. Ma c'è anche una ragione non ufficiale, ma assai più rilevante, che consiste nella convinzione che la domanda di 14
Uno stato moderno con necessità strutturale d'immigrazione – come l'Italia – richiede varie figure di migranti, dagli stagionali nelle campagne a coloro che optano per periodi di lavoro di breve durata; da chi è alla ricerca di lunghe esperienze a chi ambisce ad un radicamento definitivo
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Uno stato moderno con necessità strutturale d'immigrazione – come l'Italia – richiede varie figure di migranti, dagli stagionali nelle campagne a coloro che optano per periodi di lavoro di breve durata; da chi è alla ricerca di lunghe esperienze a chi ambisce ad un radicamento definitivo
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lavoro, specialmente per le mansioni meno specializzate, possa essere soddisfatta da una migrazione di natura temporanea. Così da congiungere un doppio beneficio: quello di minimizzare l'impatto sui servizi pubblici, l'assistenza sociale e quella sanitaria da un lato, e quello di evitare che persone con bassi livelli di professionalità e d'istruzione - e le loro famiglie - che si ritengono meno facili ad integrarsi, divengano residenti permanenti. Le istituzioni europee stanno sostenendo una cosiddetta "Politica di Coerenza per lo Sviluppo" per le migrazioni nella quale gli spostamenti temporanei e “circolari” hanno una funzione centrale. L'esperienza però mostra che una parte considerevole – spesso maggioritaria – dei migranti temporanei e circolari, nei paesi ricchi, finisce per restare nel paese di immigrazione. La graduale integrazione nella vita sociale e nel mercato del lavoro, i ricongiungimenti familiari, la nascita di figli, gli interessi convergenti dei migranti e dei datori di lavoro fanno sì che l'immigrato metta radici. Accesso al diritto di voto amministrativo, cittadinanza poi, sono normali “sbocchi” di questo percorso. Nei paesi a forte tradizione immigratoria, una proporzione elevata degli immigrati regolari a lungo residenti consegue la cittadinanza. La società, cioè, è capace di “convertire” l'immigrato in cittadino. Si noti che le esperienze di immigrazione di “corto periodo” (come, ad esempio, i gastarbeiter in Germania; gli stagionali negli Stati Uniti) sono fallite nel loro intento (essenzialmente: quello di non rendere permanente ciò che doveva essere temporaneo) perché una proporzione elevata degli immigrati destinati al ritorno al paese di origine hanno finito per restare nel paese di adozione, con l'ampio consenso delle forze produttive. Uno stato moderno con necessità strutturale d'immigrazione – come l'Italia – richiede varie figure di migranti, dagli stagionali nelle campagne a coloro che optano per periodi di lavoro di breve durata; da chi è alla ricerca di lunghe esperienze a chi ambisce ad un radicamento definitivo. Ma sono queste ultime categorie di migranti quelle che più contribuiscono allo sviluppo; quelle più propense ad integrarsi; quelle che risparmiano e che investono sul futuro delle seconde generazioni. Quanto detto suggerisce che le politiche migratorie, contrariamente a quanto oggi avviene, disegnino un coerente
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percorso di integrazione per quel nucleo forte di immigrati che ambisce ad un insediamento di lungo periodo. Occorre favorire l'acquisizione del diritto di voto nelle elezioni locali; assicurare l'uguaglianza effettiva di diritti (e doveri) con gli autoctoni; eliminare le discriminazioni; assegnare la cittadinanza italiana ai figli di residenti stranieri (un nato su sette è figlio di coniugi stranieri); rendere chiaro e percorribile il cammino – attualmente contorto – verso l'acquisizione della cittadinanza. Si tratta di misure legislative che debbono accompagnare il rafforzamento delle politiche sociali per l'integrazione; queste politiche richiedono risorse, oggi scarse e ulteriormente tagliate dalle recenti manovre finanziarie, e buone pratiche, che invece esistono. Esse devono evitare la segregazione degli insediamenti; promuovere politiche attive di formazione e lavoro; sostenere l'apprendimento della lingua – soprattutto dalle donne; combattere l'abbandono e il ritardo scolastico. Se prendiamo, a caso, un campione di cittadini francesi, inglesi od americani, e ne indaghiamo l'origine, troveremo un'alta proporzione di persone che provengono da un paese "altro" rispetto a quello di cittadinanza. Questo avviene non solo in ragione di una più lunga storia migratoria, ma anche perché i meccanismi di integrazione permettono di "convertire" in cittadini un 'alta proporzione degli immigrati e dei loro figli. In Italia il processo di naturalizzazione è più lungo e complesso che in altri paesi, ed il paese ha "convertito" in cittadini, nel 2008, circa l'1 per cento dello stock di immigrati regolari, appena un terzo della media europea. Se i figli di immigrati nati in Italia rimangono stranieri; se il tasso di naturalizzazione rimane basso; se i residenti stranieri rimangono esclusi dai diritti politici; se le politiche privilegiano la corta, rispetto alla lunga residenza -allora una massa crescente di persone (6 milioni oggi, forse il doppio tra una ventina d'anni od anche prima) rischia di rimanere "straniera" di nome e subalterna di fatto.
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L'agenda dei progressisti esige coraggio e visione Giancarlo Bosetti è direttore dell'associazione Reset - Dialogues on Civilizations
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È in corso un ricambio senza precedenti della popolazione che innesta un flusso in entrata, eterogeneo e difficile da governare, su un corpo di residenti sempre più vecchio
una domanda sulle difficoltà degli italiani a darsi un modello di comportamento nei confronti dell'immigrazione e dell'integrazione dei nuovi arrivati (sono cinque milioni adesso e diventeranno probabilmente dieci nel 2050, su un totale che resterà di sessanta) si potrebbe rispondere nel modo più facile: c'è una maggioranza che comprende un partito dalla fisionomia xenofoba e che non vuole fare chiarezza sul futuro italiano e sul futuro di niente perché non vuole e non può farlo nelle condizioni in cui è; e c'è una opposizione che potrebbe vincere le prossime elezioni, ma che ha paura di perdere voti se fa troppa chiarezza sul tema. Questa situazione inquina ogni discussione sull'argomento. Ed è un male, grave, perché la questione è centrale per definire il destino della società italiana oggi: il suo Pil, la natura della sua economia, la qualità della vita nelle sue città, quel che sarà della scuola, la sua stessa coesione civile. È in corso un ricambio senza precedenti della popolazione che innesta un flusso in entrata, eterogeneo e difficile da governare, su un corpo di residenti sempre più vecchio. La crisi demografica è drammatica e di lunga durata. È sorprendente, ma non tanto, che il soggetto che lo dice con maggiore forza sia la Conferenza dei vescovi italiani nel suo documentato rapporto1, che invoca una società più «generativa» e una politica concretamente più incoraggiante
_______________________________ 1. Il cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell'Italia, Laterza, 2011 18
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per il «fare famiglia». La Cei ha le sue ragioni confessionali per perorare la causa delle nascite, ma è certo che un aumento del tasso di natalità renderebbe meno drammatico il flusso di immigrati in entrata e dovrebbe essere desiderato da destra e da sinistra, anche se non potrà mai rovesciare la tendenza generale2, perché gli immigrati arrivano in corrispondenza di un reale vuoto, di un fabbisogno «di sistema» degli italiani per far fronte all'assistenza agli anziani, a una molteplicità di servizi e di produzioni scoperte: alimentazione, sanità, agricoltura, costruzioni. Fanno «notizia» gli sbarchi drammatici di clandestini, centinaia e migliaia, ma fanno molto di più «quantità» i regolari che arrivano con visto turistico (o passaporto europeo, Schengen, i rumeni sono oggi circa 900mila), a centinaia di migliaia, milioni, e che stanno rimodellando l'Italia. L'idea di sbarrare la strada all'accesso alla cittadinanza – che è la politica attuale, in assenza di una indispensabile urgente nuova legge – corrisponde a un progetto politico o cieco o folle, quello di immaginare che una sezione enorme della popolazione italiana, oggi il 7,5%, destinata a diventare _______________________________ 2. Sul trend generale e globale della denatalità si veda anche il recente Goodbye Malthus di Alessandro Rosina e Letizia Tanturri, Rubbettino, 2011
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fra 30 anni più del 15%, rimanga sul fondo del barile a reggere con il suo lavoro, i suoi contributi al fisco e all'INPS, il peso sovrastante, rimanendo priva di diritti politici. È evidente che le porte della cittadinanza si dovranno aprire e che è indispensabile garantire un percorso di accesso dopo un ragionevole periodo di residenza, attività, apprendimento della lingua in misura sufficiente a condividere la vita civile e le sue regole. E che ci vuole una legge che garantisca la cittadinanza a chi nasce in Italia. Si discuta rapidamente dei tempi necessari per maturare il diritto al passaporto italiano: cinque anni per gli extraeuropei come nella proposta Sarubbi-Granata; si discuta delle condizioni, che hanno da essere serie, ma non discriminatorie. Non si pretenda per esempio una conoscenza della lingua o della Costituzione fuori portata anche per buona parte dei nostri connazionali. Ma se non manca, come si vede dal testo di cui sopra (vedi proposta alla Camera N. 2270 del 2009), la capacità di concepire una legge del genere (e alle spalle ci sono il progetto di Fini per il diritto di voto agli immigrati nelle amministrative e un ddl Amato presentato dal governo Prodi), quel che è del tutto assente è la propulsione politica e di opinione capace di portarla in primo piano. Perché? È questa la domanda vera da discutere qui: perché il discorso pubblico italiano non riesce ad affrontare il tema? Della maggioranza abbiamo già detto: c'è la Lega, che sa bene quanto gli immigrati siano indispensabili all'economia veneta o lombarda, e che prospera (si fa per dire) sia sul loro arrivo sia facendo loro la «faccia feroce». E sempre del resto la destra tende, in modo più o meno radicale, a rappresentare l'identità e l'indigenismo (da Sarkozy all'inseguimento di Marine Le Pen, fino alla governatrice repubblicana dell'Arizona, Jan Brewer, che criminalizza ogni contatto con i clandestini). E perché la sinistra in Italia (e in tutta Europa non è tanto diverso) non riesce ad alzare la voce su questo argomento? La risposta sta nella enorme difficoltà di una transizione che stiamo attraversando in molti paesi europei, sotto la pressione di minoranze ora così grandi da modificare la tradizionale omogeneità linguistica, culturale, confessionale. 20
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Un processo turbolento, in una fase di crisi economica, deindustrializzazione, deficit dei sistemi di welfare, che rimette in discussione un equilibrio che si basava, senza dichiararlo perché era nella «natura» delle cose, sul perimetro nazionale della crescita. È sorprendente come nelle discussioni sollevate dalla disinvolta condotta transnazionale della Fiat di Marchionne (gli investimenti in Polonia o in Serbia incentivati da minori costi) sia emersa per i sindacati e, di riflesso, per la sinistra una sostanziale irrilevanza della dimensione internazionale o per lo meno europea del problema. Sono davvero impossibili da immaginare azioni di solidarietà sociale al di fuori della propria città e provincia? È giunto il momento di aprire un cantiere di lavoro culturale e politico innovativo. Se alcune formazioni di sinistra possono vivacchiare raccogliendo la protesta e la rabbia, contro il governo, contro le iniquità e le sofferenze del presente, un grande partito riformista non si può contentare di questo, deve alzare lo sguardo sul futuro, indirizzare il malcontento verso un disegno di governo del cambiamento, di gestione sapiente di una complessa transizione, che riguarda il posto dell'Italia nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo. Due ingredienti fondamentali, tra i molti, di questa costruzione saranno la rimessa in onore e in evidenza della politica estera e, sul piano delle idee e della mentalità diffusa, la promozione del «pluralismo culturale». Il primo ingrediente: un partito ha la consistenza di protagonista della vita pubblica se manifesta e incrementa attive simpatie internazionali e non solo in Europa. Non è sufficiente la appartenenza al Partito socialista europeo o a quel che resta dell'Internazionale socialista. Non basta che di estero si occupi qualche parlamentare. I temi del futuro del Nord Africa, dei nuovi equilibri in Medio Oriente, della solidarietà europea nella difesa dei diritti e altro ancora, devono diventare centri focali di un'azione continua, di ricerca, discussione, comunicazione. L'interesse per le campagne elettorali dei partner europei è forte nelle rispettive opinioni pubbliche, ma molto di più si può fare per integrare reti di lavoro politico. E l'interesse costante si deve estendere
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È giunto il momento di aprire un cantiere di lavoro culturale e politico innovativo. Due ingredienti fondamentali saranno la rimessa in onore e in evidenza della politica estera e la promozione del «pluralismo culturale»
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attraverso iniziative dirette dei partiti con tutti i paesi del Sud del Mediterraneo. Proclamarsi socialdemocratici o socialisti non significa nulla se non attivano intensi collegamenti internazionali. Qualcuno si è accorto che alle elezioni tunisine c'erano tre liste che occupano uno spazio simile a quello del Pd o dei socialisti francesi? Il secondo ingrediente: il pluralismo culturale, vale a dire non il pluralismo politico tipico delle società liberali, ma il pluralismo «profondo», delle differenze culturali non è attivo «naturalmente» in nessuna società, neanche negli Stati Uniti, dove il concetto stesso si è affacciato a metà del Novecento e lo si deve a un autore Horace M.Kallen, tradotto in politica da John Kennedy e Lindon Johnson, che aprirono le porte a una nuova enorme ondata di immigrazione. La discussione italiana andrebbe, per cominciare, tratta fuori da un certo primitivismo che affligge non solo gli elettori della Lega. I temi delle relazioni interculturali, della doppia identità degli emigrati di seconda generazione, della necessità di ammettere che un cittadino italiano possa essere marocchino-italiano o albanese-italiano, con o senza il trattino all'americana, la stessa questione del multiculturalismo o della polietnicità non possono più essere considerati esotismi, buoni solo per gli americani (o gli inglesi). Il tempo in cui, tutto sommato, si poteva ancora dire così è finito. Bisogna con umiltà e coraggio mettere mano a una nuova agenda di lavoro politico e culturale.
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Il caso
del comune di Brescia Franco Valenti
è presidente della Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell'Uomo ONLUS
Da servizi di eccellenza a un confuso potpourri di ordinanze
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prescindere dalla storia propria di tutte le esperienze poste in essere a livello nazionale, tutte valide e tutte rispondenti alle necessità operative degli enti coinvolti, oggi come oggi, in un momento in cui l'evoluzione del fenomeno migratorio si sta delineando sempre più come una situazione stabilizzata e sempre più complessa, diventa opportuno ripensare o ricalibrare l'assetto organizzativo di servizi che in qualche modo si rivolgono alla popolazione immigrata. Tenendo presenti le competenze comunali e le deleghe che lo Stato centrale ha trasferito ai comuni è legittimo pensare che il nodo di obblighi e di opportunità venutesi a creare richiedano un approccio multilivello e pluridisciplinare. Nel corso degli anni, a partire dal giugno 1989 sino al 14 aprile 2008, il Comune di Brescia ha saputo espletare una capacità gestionale del problema migratorio sulla falsa riga delle esperienze consolidate d'Oltralpe. Negli anni sono stati monitorati e debitamente valutati i contorni quantitativi e qualitativi del fenomeno migratorio, nella loro consistenza e varietà. Alcune modalità di approccio sono state: - la conoscenza della quantità e qualità del fenomeno migratorio; - la previsione di una possibile parabola del suo sviluppo - l'impatto della componente migratoria sulla funzionalità e tenuta dei servizi comunali; - la mappatura dei servizi istituzionali territoriali coinvolti; - la predisposizione di steps procedurali e servizi intermedi in grado di portare la popolazione migrante al corretto accesso 23
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Affiancare, con un percorso di coinvolgimento multilivello di tutte le componenti amministrative presenti in un ente locale, dei servizi specialistici di supporto multidisciplinare agli uffici e servizi di struttura
ai servizi istituzionali a carattere universalistico; - l'impostazione di una operatività trasversale a tutti i servizi comunali coinvolti; - la conoscenza e la valutazione delle modalità applicative delle modifiche normative, sempre più complesse; - la definizione dell'obiettivo di fondo e cioè quello di rendere la macchina comunale, in tutte le sue sfaccettature e competenze, liberamente e facilmente accessibile, riducendo al massimo le varie forme di intermediazione di primo livello; - la disponibilità ad introdurre dei moduli di aggiornamento del personale aperti a tutti gli operatori del pubblico e a quelli che, in varie forme, collaborano direttamente con il pubblico gestendo dei servizi. Quindi un servizio, che oltre ad operare direttamente con l'utenza immigrata, si è dedicato continuamente all'informazione e alla formazione del personale, ben coscienti che tale metodo di procedere può rappresentare uno dei primi strumenti utili affinché le amministrazioni si dotino di competenze e conoscenze largamente diffuse e condivise. La struttura costruita dalle amministrazioni comunali che si sono succedute fino al cambio di guardia della lego-destra nella primavera del 2008, pur non avendo la pretesa di risolvere in radice tutte le difficoltà e le contraddizioni che il movimento migratorio ha portato con se a livello locale, ha sicuramente attivato, nella sua funzione promozionale e formativa, un organo utile alla definizione di una buona prassi di “governance”. La strategia operativa di costruzione del servizio
Un passaggio ulteriormente utile nella strategia di implementazione di strumenti utili ai processi di inserimento sociale della popolazione immigrata è stato quello di pensare di affiancare, con un percorso di coinvolgimento multilivello di tutte le componenti amministrative presenti in un ente locale, dei servizi specialistici di supporto multidisciplinare agli uffici e servizi di struttura. Diverse amministrazioni locali europee di lunga esperienza immigratoria hanno istituito, accanto ai servizi dedicati all'erogazione e ai rinnovi dei permessi di soggiorno, dei servizi specialistici per affrontare le tematiche sempre in 24
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evoluzione legate alle relazioni sociali sempre più complesse e connotate di interculturalità. Tale scelta viene fatta proprio per andare oltre il mero diritto alla permanenza legale all'interno dello Stato, come gli “Auslandaeraemter” nello spazio tedesco, per implementare un processo di inserimento sociale in grado di rendere i nuovi cittadini pienamente responsabili dello sviluppo e della crescita della comunità di inserimento. Città come Amsterdam, Vienna, Francoforte sul Meno o Stoccarda, e così tante altre, si sono dotate di unità operative multidisciplinari per favorire e promuovere processi di coesione sociale, di tutela delle minoranze culturali, di supporto all'inserimento delle nuove generazioni figlie dell'immigrazione e di lotta contro le derive discriminatorie, ai sensi delle direttive europee e delle leggi di recepimento dei singoli stati membri. La costruzione di un servizio come il Servizio per l'Integrazione e la Cittadinanza del Comune di Brescia parte non solo dalla necessità di interazione a livello comunale tra i
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La costruzione di un servizio dedicato all'inclusione sociale dei nuovi cittadini quindi ha richiesto e richiede una strutturazione multilivello, in sintonia con le norme vigenti, ma anche in grado di rappresentare tutte le opportunità inclusive che un ente locale possa essere in grado di porre in essere
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diversi servizi, ma esce dall'ambito strettamente individuabile nel sistema dei servizi e degli uffici dell'ente locale, per collocarsi tra la macchina comunale e le dinamiche della costruzione sociale, sempre più variegate e complesse, proprio per gli effetti introdotti dalla nuova popolazione residente. È altresì uno strumento utile per la comprensione, l'analisi, la comunicazione interculturale e la costruzione di nuovo senso di appartenenza, in una logica di diritti e di doveri di cittadinanza. Guardando alla normativa italiana si può supporre che accanto alla prima parte del Testo unico sull'Immigrazione, tutta incentrata sulle modalità di ingresso, di rilascio dei permessi di soggiorno o la casistica delle espulsioni, occorre tener presenti gli ultimi capi dedicati all'inclusione socioculturale e alla tutela contro le discriminazioni. La costruzione di un servizio dedicato all'inclusione sociale dei nuovi cittadini quindi ha richiesto e richiede una strutturazione multilivello, in sintonia con le norme vigenti, ma anche in grado di rappresentare tutte le opportunità inclusive che un ente locale possa essere in grado di porre in essere. Tutti i servizi opportunamente offerti, anche a carattere non obbligatorio per legge per un ente locale, ma caldamente richiamati nel Teso Unico per l'Immigrazione, risultano essere necessari in quanto strumenti di Governance di secondo livello, anche perché nella loro strutturazione e nella loro attività coinvolgono una buona parte della macchina comunale oltre alle risorse presenti sul territorio afferenti a soggetti del terzo settore o del volontariato, che spesso diventano, a vario titolo, gli attuatori degli indirizzi amministrativi. La situazione attuale
Per segnare la discontinuità rispetto alle scelte amministrative fatte dalle precedenti amministrazioni l'attuale giunta di lego-destra ha deciso di sciogliere il Servizio Integrazione e Cittadinanza in una indefinita rete di sportelli di associazioni e patronati. Il paravento a tale operazione è dato dalla dichiarata volontà di voler decentrare i servizi e favorire una partecipazione di tutti gli attori sociali presenti sul territorio alla gestione dei servizi, senza però garantire a 26
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tutti gli attori presenti la stessa dignità e lo stesso trattamento. L'intento di coinvolgere la cosiddetta “big society” è del tutto positivo, ma non si può delegare la responsabilità di una gestione oculata di un fenomeno e di un tema altamente sensibile, quale quello dell'immigrazione, almeno come viene vissuto e descritto oggi nel nostro paese, a realtà che non hanno ricevuto un mandato specifico di gestione della vita pubblica nella garanzia della tutela del bene comune di tutti i cittadini. Svuotando intenzionalmente la funzione civica, inclusiva di tutti i cittadini nelle dinamiche della polis, supportata anche da servizi specialistici dedicati alla nuova cittadinanza immigrata, non si fa altro che accelerare un processo di polverizzazione delle relazioni sociali e di destrutturazione di un sentimento di appartenenza e di corresponsabilità sociale. L'accusa, mantra tipico delle giunte della destra, era di aver privilegiato con dei servizi di qualità, riconosciuti a livello nazionale e internazionale, la popolazione straniera rispetto alla popolazione autoctona. Accusa alquanto balzana, visto che le macro politiche venivano decise a Roma e a Milano e che il servizio attivato non faceva altro che rispondere alle normative e agli indirizzi affermati dalle norme italiane e dalle direttive europee. Certo! un senso di responsabilità di governo della città espresso da una Giunta rappresenta il valore aggiunto all'efficacia dell'agire politico ed amministrativo. Senza questa congiuntura non sarebbe stato possibile una trasformazione epocale del tessuto umano della città, che in 10 anni ha visto raddoppiare il numero dei residenti immigrati, e che ha saputo gestire con coerenza e rispetto dei valori di giustizia e di carità il passaggio di oltre 1500 nomadi appartenenti a diversi gruppi. Non sono stati fatti costosi e inutili sgomberi alla cieca, ma una programmazione seria, inclusiva, che ha portato la città a risolvere, ben prima degli ultimi arrivati, la questione dei campi nomadi, ora promuovendo un inserimento graduale nella città delle famiglie ora sostenendo la scolarizzazione delle giovani generazioni: Brescia non si vergogna più per i suoi insediamenti storici di nomadi dall'anno 2000. Nulla di straordinario se non quello di aver fatto quanto previsto nel miglior modo possibile nell'interesse collettivo. Attualmente i 39.000 cittadini immigrati di Brescia, che rappresentano il 20% della popolazione totale, con un 40% di tutti i nati vivi, non sono più considerati partner di
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L'intento di coinvolgere la cosiddetta “big society” è del tutto positivo, ma non si può delegare la responsabilità di una gestione oculata di un fenomeno e di un tema altamente sensibile a realtà che non hanno ricevuto un mandato specifico di gestione della vita pubblica
Non sono stati fatti costosi e inutili sgomberi alla cieca, ma una programmazione seria, inclusiva, che ha portato la città a risolvere la questione dei campi nomadi, ora promuovendo un inserimento graduale nella città delle famiglie ora sostenendo la scolarizzazione delle giovani generazioni
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cittadinanza attiva, ma semplicemente dei cittadini, delle famiglie, che devono essere invogliati ad andarsene altrove utilizzando tutti i metodi di dissuasione e di discriminazione, soprattutto in ambito di servizi sociali. Non per nulla negli ultimi due anni e mezzo la Fondazione Piccini, l'ASGI, con il supporto della CGIL, hanno portato in tribunale per 26 volte enti locali bresciani a guida leghista, riportando ogni volta un'ordinanza positiva da parte del tribunale. Ma, nonostante, le sconfitte giuridiche, gli attuali amministratori continuano a discriminare; non da ultimo il proclama di ancorare nel nuovo PGT della città di Brescia il divieto per la costruzione di altri luoghi di culto che non siano cattolici, con la sola eccezione di un luogo di culto per una chiesa copta. Tali atteggiamenti di irresponsabilità civica non sono ancora riusciti però a seppellire l'alto grado di civiltà operosa del bene che la realtà bresciana ha saputo esprimere anche negli ultimi decenni. Sotto la cenere cova ancora la brace della responsabilità civica di una città operosa e solidale. Solamente è necessario il coraggio per smascherare la futilità degli argomenti utilizzati per enfatizzare la sicurezza urbana, o per diffondere stereotipi in una città che non ha mai visto violenze diffuse di alcun genere, se non episodi collegati a delitti espressivi o predatori di normale valenza criminale. Per quanto riguarda la popolazione immigrata, nonostante l'ossessione paranoica dell'attuale giunta per dimostrare di essere in grado di ridurre, di “scacciare”, i cittadini immigrati all'insegna dello slogan “prima i nostri e poi gli altri”, i fatti dimostrano che la popolazione immigrata residente è in continua crescita proprio grazie alle nascite di nuovi cittadini figli di immigrati, per cui, almeno da non seguire l'esempio di Erode, l'anagrafe dimostrerà lo storico avvicendamento di popolazioni, che ridaranno vita e futuro alla città. L'atteggiamento persecutorio, denigratorio e discriminante con il quale diverse amministrazioni di legodestra mirano ad allontanare dai propri territori cittadini immigrati, non fanno altro che danneggiare la convivenza civile creando le premesse di un conflitto sociale inevitabile, in cui le vecchie generazioni rischieranno di soccombere senza trovare una mano solidale nelle nuove generazioni, costituite, almeno nel caso Brescia, per circa il 50% dai figli dell'immigrazione.
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Tra razzismo e integrazione,
il paradosso di Treviso Paolo Feltrin
insegna Scienza politica presso l’Università di Trieste
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ecentemente è uscito nelle sale un film italiano, girato dal napoletano Francesco Patierno, “Cose dell'altro mondo”: all'improvviso, in una qualsiasi mattina di una piccola cittadina veneta, spariscono tutti gli immigrati. Il primo personaggio a farne le spese è un Diego Abatantuono trasformato in imprenditore padano che ogni sera, dalla webtv di cui è proprietario, lancia invettive xenofobe più o meno grottesche e che si trova a fare i conti con la sua fabbrica semideserta e la casa ridotta a campo di battaglia, senza l'intervento della colf. Non ci interessa qui discutere il film, che è una commedia molto leggera e di poche pretese: lo spunto ci viene dal contesto e dalle critiche che hanno preceduto l'uscita del film stesso. Le definizioni: un'opera che dipingeva i veneti come razzisti di basso stampo e di ancora minore cultura, un film offensivo verso questo territorio, e simili. Nessuno si è posto la domanda su dove altro si potesse ambientare in Italia un film che trattasse i temi dell'immigrazione mantenendo un tono leggero. Del resto, è ben nota la sorpresa di qualche anno fa di fronte ai dati della Caritas che mostravano come in area veneta l'integrazione fosse, in realtà, più spinta che in altre aree e la presenza straniera ormai “normalizzata”. Non voglio certo affermare che viviamo in un paradiso: il tema dell'immigrazione e della criminalità catalizza sicuramente l'attenzione delle comunità venete. Basti pensare al muro di via Anelli, oppure alla vecchia proposta di un Presidente di Circoscrizione del comune di Treviso di dotare le donne del quartiere di spray antiaggressione. Tuttavia, va ricordato che il Veneto è una delle regioni d'Italia a più alta densità di immigrazione (oltre 500.000 su una popolazione di quasi 5 milioni di abitanti); la presenza di bambini stranieri 29
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In Veneto la presenza straniera è un dato acquisito, sia in funzione strumentale, sia come riconoscimento reciproco di spazi e modalità di convivenza. Risultato di un approccio alla questione caratterizzato da un livello di responsabilità elevato da parte delle istituzioni pubbliche
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nelle classi di alcune scuole trevigiane e vicentine supera il 50%; sono censiti in Regione 37 centri islamici per una popolazione musulmana attorno alle 150.000 persone. Nonostante l'intensità e la rapidità del fenomeno migratorio e la presenza di una forza politica - la Lega Nord - molto impegnata sul fronte anti-immigrati, gli atti di razzismo sono pressoché inesistenti, l'integrazione sembra funzionare in modo ragionevole, gli stessi immigrati sembrano apprezzare la loro condizione in questa regione. Come mai? Esiste un legame tra il volto feroce dei proclami di Gentilini, di Zaia, di Tosi, ma anche di Zanonato, e una migliore capacità di integrazione degli immigrati? Prima di rispondere a questa domanda va forse ricordato che in Veneto la presenza straniera è un dato acquisito, sia in funzione strumentale, come componente necessaria al funzionamento delle aziende, sia come riconoscimento reciproco di spazi e modalità di convivenza. Sicuramente è il risultato di un approccio alla questione caratterizzato da un livello di responsabilità elevato da parte delle istituzioni pubbliche: al di là degli slogan e delle “sparate” di stampo razzista, i problemi che l'immigrazione comporta raramente sono caduti nel vuoto istituzionale, in genere sono stati raccolti con pragmatismo e le soluzioni, se possono essere discutibili nel merito, portano però a un bilancio sostanzialmente positivo. In secondo luogo va riconosciuto il ruolo di supplenza svolto dalle istituzioni scolastiche, le quali hanno fronteggiato l'emergenza con una capacità impensata di adattamento, fornendo le basi non solo dell'integrazione degli allievi nelle classi ma anche delle loro famiglie all'interno delle comunità locali. In terzo luogo, un ruolo fondamentale è stato giocato dall'associazionismo, sia religioso che laico, molto più orientato che altrove all'azione assistenziale. Questa predisposizione all'intervento sul territorio ha rappresentato un raccordo indispensabile tra l'azione delle istituzioni locali, l'intervento del mondo scolastico e l'azione di famiglie e imprese. Infine va detto che in Veneto anche l'associazionismo immigrato è molto presente. Un recente lavoro di ricerca svolto sul territorio nazionale ha censito 881 associazioni di stranieri in Italia: di queste, 80 sono collocate in Veneto, di queste dieci sono dislocate nel territorio della provincia di Treviso. L'associazionismo degli immigrati funziona da controllo sociale verso i devianti, da argine alla marginalizzazione e, da ultimo, contribuisce alla definizione di reti sociali multietniche. Un ulteriore spunto di riflessione sul senso del
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“malessere” veneto ci viene dall'analisi dei trend recenti del voto leghista. Dal 2006 in poi, una nuova opportunità di crescita della Lega al Nord arriva da una ulteriore ondata di preoccupazioni sociali che affiorano con forza tra l'opinione pubblica delle regioni settentrionali: una miscela in cui si sommano la crisi economica, l'emergenza sicurezza, le proteste contro l'immigrazione, lo scontento verso un governo di centro-sinistra visto come troppo “lassista”. E il consenso alla Lega ritorna a crescere, con una fiammata improvvisa, in larga parte inattesa, che riproietta questo partito ai livelli del 1996. Crisi economica e preoccupazione per l'immigrazione costituiscono i due ingredienti principali di una miscela retorica gestita con imprenditorialità politica dai dirigenti della Lega in questi ultimi 5 anni, anche se oggi patiscono le difficoltà di qualsiasi partito di governo. Come si tengono assieme demagogia verbale, parole forti, finanche atteggiamenti al limite del razzismo con un sostanziale rispetto delle leggi sull'immigrazione, atteggiamenti pragmatici e un'integrazione giudicata di successo? Come mai - nonostante gli slogan a volte odiosi - i fatti di razzismo sono tra i più bassi d'Italia e la regione viene giudicata come accogliente? Una possibile risposta rinvia alla funzione di “paracarro” delle parole d'ordine truculente. La “tolleranza zero” a New York, prima che azione, fu una sorta di avviso ai naviganti, un avvertimento che per il solo fatto di venire dichiarato produceva effetti positivi. Più o meno allo stesso modo, quando un immigrato arriva a Treviso o a Padova sa di trovarsi di fronte amministrazioni comunali che fanno della sicurezza la loro bandiera e che le infrazioni non saranno tollerate (come altrove). Se “uomo avvisato, mezzo salvato” è una strategia efficace allora vale anche l'altro proverbio: “can che abbaia non morde”.
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Un ulteriore spunto di riflessione sul senso del “malessere” veneto ci viene dall'analisi dei trend recenti del voto leghista
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Salute mentale e migrazione:
esperienze di cura e formazione a Bologna Domenico Berardi
insegna Psichiatria all'Università degli Studi di Bologna
Ilaria Tarricone
è ricercatrice in Psichiatria presso l'Università degli Studi di Bologna
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a salute mentale dei migranti è da considerarsi oggi uno dei maggiori problemi di salute individuale e pubblica. In Italia, l'aumento degli stranieri residenti è stato di circa 3 milioni di unità nel corso dell'ultimo decennio e di quasi 1 milione nel 2009-2010. L'Istat ha registrato 4 milioni e 235mila residenti stranieri, ma secondo la stima della Caritas (Dossier 2010) si arriva 4 milioni e 919mila (1 immigrato ogni 12 residenti), includendo le persone soggiornanti ma non ancora regolarizzate. Come sostiene la Caritas, i migranti sono responsabili di un parziale riequilibrio demografico, in un'Italia alle prese con un elevato e crescente ritmo di invecchiamento. A differenza di altri paesi europei, come Inghilterra e Francia, dove la migrazione è legata ad un passato coloniale ed è componente strutturale della società, l'Italia solo di recente si è trovata a confrontarsi con una tumultuosa trasformazione identitaria, divenendo da paese di emigrazione, paese di immigrazione. Dal nostro punto di vista di operatori della salute mentale, attraverso i cambiamenti dei bisogni di cura abbiamo assistito ai cambiamenti del fenomeno migratorio nel nostro paese. In un primo tempo, ci eravamo confrontati con giovani uomini africani, appena arrivati nel nostro paese alla ricerca di occupazione, con scarsa conoscenza della lingua e poco integrati culturalmente; oggi, invece, vediamo sempre più 32
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spesso donne Est Europee, con buona conoscenza della lingua e abitudini di vita meno lontane dalle nostre. Inoltre, sempre più pressanti sono le richieste di assistenza ai rifugiati politici provenienti dai molti paesi in guerra. Resta invariata l'esperienza di trovarsi di fronte a popolazioni fragilizzate ed a rischio di sviluppare disturbi mentali gravi. D'altro canto, è noto da tempo che la morbilità psichiatrica nei migranti è maggiore che nei nativi. La ricerca ha evidenziato un rischio di psicosi doppio nei migranti sia di prima che di seconda generazione, ponendo così la priorità di indagare le ragioni di tale “eccesso di psicosi”. Innanzitutto l'“eccesso di psicosi” non è stato riscontrato nei paesi di origine dei migranti, per cui sono da escludere fattori genetici. Molte sono invece le evidenze a favore di fattori ambientali, che possono agire in tutte e tre le fasi del processo migratorio (Bhugra et al., 2005): pre-migratoria , migratoria e post migratoria. Le maggiori evidenze riguardano la fase post-migratoria, ossia le difficoltà di integrazione nella società ospite. Uno studio illuminante condotto in Gran Bretagna ha mostrato che l'incidenza di schizofrenia è inferiore nelle zone dove nativi e minoranze etniche vivono in gruppi più coesi, mentre è maggiore nelle zone dove le minoranze etniche sono più isolate (Kirkbride et al, 2007). Ne deriva quindi che il rischio di malattia mentale è collegato alla carenza del così detto “capitale sociale” ancor più che alla povertà economica. Rimane invece da esaminare più approfonditamente il ruolo dei fattori traumatici durante la fase migratoria, del “viaggio”dal paese di origine e a quello di approdo. A Bologna, nel contesto dello studio EUGEI (European Network of National Schizophrenia Networks studying GeneEnvironment Interactions), abbiamo messo a punto la Bologna Migration History Interview per la ricognizione dei fattori di rischio per psicosi incontrati dai migranti durante il percorso migratorio. Alla esposizione ai fattori di rischio si assomma una importante difficoltà di accesso alle cure, con un eccesso di ricoveri in urgenza e in regime di trattamento sanitario obbligatorio, a fronte di insufficienti accessi alle cure primarie e specialistiche di livello ambulatoriale. A Bologna,
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La morbilità psichiatrica nei migranti è maggiore che nei nativi. La ricerca ha evidenziato un rischio di psicosi doppio nei migranti sia di prima che di seconda generazione, ponendo così la priorità di indagare le ragioni di tale “eccesso di psicosi”
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Il rischio di malattia mentale è collegato alla carenza del così detto “capitale sociale” ancor più che alla povertà economica
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ci è parso quindi utile approfondire lo studio dei percorsi di cura nei pazienti migranti e questo ci ha permesso di acquisire due importanti informazioni: 1) molti di essi seguono vie alternative, come servizi sociali e associazioni di volontariato; 2) i medici di medicina generale presentano una forte disomogeneità, con alcuni di essi caratterizzati da un'ampia utenza migrante e altri invece per i quali la quasi totalità dei pazienti è nativa. Questo indica come diverse attitudini sia dei medici che dei migranti possano costituire esse stesse un prima determinate dei percorsi di cura. Per cercare di dare una risposta a questi complessi problemi, abbiamo istituto dalla fine degli anni '90 un servizio dedicato all'interno del servizio psichiatrico territoriale di Bologna, il Centro di Psichiatria della Migrazione “George Devereux”, "Bologna Transcultural Psychiatric Team (BoTPT)". Inizialmente, la necessità principale era di attrezzarsi per curare persone che presentavano forti diversità linguistiche e culturali e per cui era necessario creare gruppi di lavoro arricchiti e specializzati. Alle figure professionali tradizionalmente presenti nelle equipe dei servizi (psichiatri, infermieri, educatori e assistenti sociali) abbiamo quindi affiancato figure professionali nuove, quali i mediatori culturali e gli antropologi. Questo dispositivo terapeutico, a “geometria variabile” data la possibilità di includervi diverse figure professionali, ci ha consentito di gestire le emozioni legate all'incontro con la diversità e di declinare un intervento più vicino ai bisogni di questa specifica popolazione. Successivamente e con il crescere della popolazione migrante in città, è emersa l'esigenza di diffondere le competenze culturali a tutti i membri dell'equipe dei centri di salute mentale (secondo il modello della cultural competence). Abbiamo inoltre compreso il delicato e complesso rapporto che il paziente ha con la sua famiglia, seppure lontana, e che continua a esercitare un ruolo fondamentale nel progetto migratorio e nelle capacità di adattamento del paziente, cercando di attrezzarci con interventi di psicoterapia specifica (Losi). Ancora successivamente, si è resa evidente la necessità di stabilire legami collaborativi stretti con i servizi sociali del 35
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comune, in particolare per i richiedenti asilo, oggi in forte e costante aumento. Lavorando con gli operatori del comune abbiamo compreso come il loro rapporto con i richiedenti asilo fosse determinate anche ai fini del benessere psichico di questi ultimi. In questo ambito quindi il nostro intervento si caratterizza in counseling indirizzato agli operatori dei centri SPRAR (Servizi di Protezione per Migranti e Richiedenti Asilo) e in percorsi di formazione. Queste nostre iniziative sono in linea con quanto sta accadendo in altre sedi italiane, anche se con insufficiente omogeneità. Alcuni servizi di salute mentale di stanno muovendo per individuare risorse e modalità organizzative in grado di rispondere ai bisogni di salute mentale dei migranti. Nel 2007 il Ministero della Salute ha istituito la Commissione Salute e Immigrazione, radunando esperti sul tema al fine di formulare indicazioni in varie aree, tra cui la promozione della salute mentale. Le Regioni si sono organizzate in vario modo, anche sotto la spinta dell'associazionismo, del mondo del volontariato e di organizzazioni sanitarie e scientifiche. Uno per tutti è l'esempio della Società Italiana della Medicina della Migrazioni che ha organizzato gruppi di lavoro regionali, con lo scopo di capillarizzare informazioni e formazione su questo tema. Anche la Società Italiana di Psichiatria ha di recente dato vita a un gruppo di lavoro nazionale, che, grazie all'attivazione di un data base informatizzato, sta promuovendo in tutto il Paese un'indagine sull'accesso ai migranti ai servizi di salute mentale. Una nota positiva, infine, sui giovani colleghi che mostrano grande interesse a formarsi al tema della psichiatria della migrazione e che affollano oltre le aspettative i nostri corsi e i nostri servizi.
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Identità e identitarismo Francesco Remotti
insegna Antropologia culturale presso l'Università di Torino
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he cosa di più semplice che definire l'identità? È sufficiente una formuletta, chiara, nitida, elementare e indubitabile: A = A. Una qualsiasi cosa è infatti se stessa, non può che essere se stessa, identica a se stessa e a nessun'altra. Una qualsiasi cosa intrattiene con altre cose diverse relazioni; ma solo con se stessa intrattiene una relazione di identità. A = A è il massimo della certezza. I filosofi e i logici che hanno riflettuto su questo principio si sono resi conto però che il massimo della certezza ha un suo prezzo (come tutte le cose, del resto): in questo caso, il massimo della vacuità. Una volta detto che A = A, che il sole è il sole, o che un melone è un melone, che io sono io o che noi siamo noi, che cosa sappiamo del sole, del melone, del nostro io o del nostro noi? Assolutamente nulla. Se voglio sapere che cos'è il sole, se voglio sapere chi sono io, mi si aprono diverse possibilità, tutte strade non uniche e lineari, ma con ramificazioni, scelte, deviazioni, punti di vista. Se mi faccio la domanda “chi sono io?”, quale strada percorrerò per rispondere in maniera soddisfacente? Potrei tirare fuori la mia carta di identità, dove trovo il nome, il cognome, la data di nascita, l'indirizzo di casa, lo stato civile, la professione, qualche eventuale segno caratteristico, oltre che ovviamente una foto che mi ritrae in un determinato periodo della mia esistenza. È sufficiente questo grappolo di informazioni per dire chi sono, per esibire il mio essere, la mia identità? Oppure devo ripiegare su un piano morale e cercare di capire – prima ancora di dire – se la mia identità è fatta di coraggio
Il massimo della certezza ha un suo prezzo (come tutte le cose, del resto): in questo caso, il massimo della vacuità
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o di pavidità, di intelligenza o di stoltezza, di tenacia o di volubilità? Aveva ragione Blaise Pascal, quando in pieno Seicento affermava che l'io è come una città: forse da lontano e in astratto la puoi intendere come un tutt'uno, un'unità (Roma è Roma e Milano è Milano), ma se ti avvicini e ti addentri nella città per sapere come è fatta, ciò che si impone è la molteplicità indefinita e incontrollabile di elementi, aspetti, dimensioni che la compongono. Non solo, ma l'io – forse più ancora di una città – muta di continuo, a tal punto che diventa difficile, anzi impossibile, dire che cosa davvero rimane inalterato nel tempo. E se anche qualcosa rimanesse inalterato nel tempo (il nome per esempio), siamo legittimati a dire che in esso consiste l'identità dell'io? Beninteso, noi abbiamo bisogno di certificare che l'individuo X, il quale oggi si aggira in un parco cittadino, è davvero lo stesso individuo che ieri ha ucciso una signora a cui voleva trafugare la borsetta: abbiamo bisogno di stabilire questa continuità per poter amministrare la giustizia. Un'identità siffatta è però una convenzione e in qualche modo un'astrazione, necessarie e indispensabili per poter fare valere nel nostro ordinamento un principio di responsabilità individuale: quanti altri elementi di variazione (non di identità) vengono sacrificati perché giustizia sia fatta? Anche l'assassino vive in un fiume che attraversa il suo corpo e la sua psiche, un fiume contro cui si combatte per non lasciarsi del tutto travolgere e per non disperdersi in un pulviscolo di eventi. Il diritto è una delle istanze più interessate a far sì che l'identità dell'io sia garantita in maniera indubitabile al di là del fiume cangiante degli eventi e delle trasformazioni. Anche sotto il profilo psicologico, è facile constatare che tutti gli io avvertono il bisogno di un po' di permanenza, di stabilità, di coerenza: tutti gli individui consistono – a ben vedere – nei loro sforzi di coerentizzazione, nei loro tentativi di stabilizzazione. Sarebbe tuttavia un grave errore scambiare questi sforzi e questi tentativi, la cui realizzazione è sempre parziale, con l'idea di un'identità permanente. Tra l'io che in questo momento scrive e l'individuo che molti decenni prima studiava sui banchi di scuola o giocava in un paese dell'Italia
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È il concetto di somiglianza ciò che ci consente di uscire dalle secche e dalle illusioni dell'identità, perché la somiglianza contiene in sé due componenti che si intrecciano e mai si annullano: una relativa permanenza e una relativa diversità
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settentrionale, si può davvero dire che c'è un rapporto di identità, o non piuttosto di somiglianza (poca o tanta somiglianza: in ogni caso una qualche somiglianza)? Ma anche in un momento dato, questo io che scrive non è forse un insieme di eventi, di processi, di aspetti, ovvero non un'unità, un'identità, bensì una molteplicità più o meno integrata? Anche l'io attuale, considerato nella sua dimensione sincronica, non è forse un io simile, non identico, essendo la sua somiglianza il prodotto, sempre parziale, degli sforzi o dei progetti di coerentizzazione? A ben vedere, è il concetto di somiglianza ciò che ci consente di uscire dalle secche e dalle illusioni dell'identità, perché la somiglianza contiene in sé due componenti che si intrecciano e mai si annullano: una relativa permanenza e una relativa diversità. Se l'io è simile, non identico, a se stesso, che ne è del noi? I noi sono ovviamente fatti di tanti io, per cui risulta logico pensare che a maggior ragione dobbiamo applicare ai vari noi il concetto di somiglianza, non di identità. I noi sono solo simili a se stessi nel duplice senso che abbiamo illustrato per gli io. Si può infatti ragionevolmente parlare di un'identità degli italiani di oggi? Pur così socialmente invadente e pur così politicamente persistente, è per esempio il berlusconismo ciò che determina l'identità italiana? Molto più proficuo è pensare la situazione attuale (nostra o altrui) come un reticolo o un intreccio di somiglianze e di differenze, anche se certe somiglianze possono prevalere sulle differenze. Per quanto riguarda la somiglianza diacronica, possiamo asserire con sufficiente tranquillità che gli italiani di oggi sono non identici, ma in qualche modo e misura simili agli italiani, per esempio, che uscirono dalla seconda guerra mondiale o che fecero il Risorgimento. Una volta applicato ai soggetti individuali e collettivi, il concetto di somiglianza presenta poi implicazioni particolarmente importanti per quanto riguarda i rapporti tra gli io e i noi. Se l'io è un insieme più o meno coordinato di somiglianze e di differenze, se i noi sono insiemi di somiglianze e differenze la cui coordinazione è inevitabilmente ancor più problematica, possiamo davvero
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pensare i confini di questi soggetti come barriere certe, indiscutibili, invalicabili? O non conviene piuttosto pensare questi confini come zone di passaggio, di transizione, di connessione di un soggetto a un altro, dove il plesso di somiglianze e differenze appare come condizione e nello stesso tempo come risultato delle relazioni inter-soggettive? Infatti, in primo luogo ci sono le somiglianze e differenze e poi ci sono – se ci sono – le rappresentazioni identitarie. Considerare il concetto di somiglianza come prioritario presenta l'enorme vantaggio di farci comprendere che l'identità di un io o di un noi è davvero frutto di una rappresentazione (o finzione) che per un verso annulla le diversità e per un altro verso recide le somiglianze. L'identità infatti annulla le diversità interne dei soggetti, trasformando i soggetti stessi in nuclei identitari, e recide le somiglianze con gli altri soggetti, esaltando le diversità. L'identità spazza via la somiglianza sia dentro sia fuori dai soggetti: la somiglianza interna viene trasformata in identità, mentre la somiglianza esterna viene trasformata in alterità. Con l'identità tutto il mondo risulta concepito alla luce di queste due semplici categorie – identità e alterità – e della loro irrimediabile opposizione. Per un verso noi non alberghiamo più molteplicità e differenze interne e, per l'altro verso, quelli che originariamente erano i nostri simili sono visti come “altri”, niente più e niente meno che “altri”, rappresentanti e componenti della categoria generale ed equalizzatrice dell'alterità. Che rapporto si instaura con l'alterità? Null'altro rapporto è concepibile se non quello dell'opposizione. Non solo, ma mentre i simili possono essere tanto simili o poco simili e i rapporti che si intrattengono possono variare a seconda del contenuto sia delle somiglianze sia delle differenze, gli altri sono semplicemente altri, fantasmi minacciosi privi di gradualità, di intensità e di contenuti qualitativi specifici. Con l'identità, una semplice e grossolana dicotomia si sovrappone al groviglio di somiglianze e differenze di cui il mondo, umano e naturale, è da sempre intessuto. L'identitarismo allora che cos'è? È la sovrapposizione di cui ora abbiamo parlato, ed è la convinzione che il mondo sia
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fatto proprio come questa sovrapposizione induce a pensare. L'identitarismo è un'auto-illusione, un mito pernicioso del nostro tempo, creato da società che con l'identità pensano di difendere le proprie ricchezze e i propri privilegi, arroccandosi in una sorta di fortilizio eretto di fronte alle minacce dell'alterità. Ma l'identitarismo non sa che sotto gli schemi oppositivi dell'identità e dell'alterità permane, anche se ridotto, il groviglio dinamico delle somiglianze e delle differenze, da cui soggetti più liberi e meno accecati possono trarre ispirazione per intendere in un altro modo i rapporti tra i gruppi umani.
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Multiculturalismo e interculturalità Carmelo Vigna
insegna Filosofia morale presso l’Università Ca' Foscari di Venezia
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ella letteratura più recente v'è la tendenza a privilegiare il termine interculturalità e a relegare il termine multiculturalismo in una sorta di limbo riservato ai termini ambigui. In alcuni casi multiculturalismo prende addirittura una connotazione lessicale negativa. C'è una ragione, probabilmente, nell'oscillazione dei termini, peraltro naturale nel linguaggio comune e persino nel linguaggio scientifico. Il multiculturalismo è prima di tutto un fatto. Ogni fatto, in sé e per sé, non dice nulla quanto al suo valore. Andrebbe giudicato. Nel caso del multiculturalismo il giudizio non è facile, anche solo perché si tratta di un fenomeno particolarmente complesso e soprattutto si tratta di capire che cosa gli esseri umani decidono intorno a questo fatto. E poiché molteplici sono le interpretazioni del fatto e molteplici le decisioni di fronte al fatto, il linguaggio tende ad essere oscillante. La tendenza, cui prima si accennava, a preferire il termine interculturalità vorrebbe cassare l'oscillazione e indicare il bene del multiculturalismo come una qualche relazione di reciprocità riconoscente fra le diverse culture. Oltre al termine 'interculturalità', va da questa parte il termine (meno impiegato) 'transculturalità'. In effetti, multiculturalismo si dice in molti modi. Il primo modo e il più elementare è appunto quello che registra il fatto dell'esserci di molte culture. Ma le molte culture come stanno fra loro? Questo il multiculturalismo subito non dice. Ma non dice soprattutto come le molte culture dovrebbero stare tra loro. La molteplicità delle culture presuppone sempre o quasi sempre una molteplicità di etnie. Ma le due figure non sono sovrapponibili, come si sa. Una stessa etnia può avere culture
Multiculturalismo si dice in molti modi. Il primo modo e il più elementare è appunto quello che registra il fatto dell'esserci di molte culture. Ma le molte culture come stanno fra loro?
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Il multiculturalismo è sempre esistito. Oggi è un problema solo perché le culture rivendicano parità
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diverse; una stessa cultura può essere tradizione consolidata di varie etnie. Quel che conta però, ai nostri fini, è un primo luogo la cultura, che è come l'anima, di cui l'etnia è il corpo. L'inversione dell'ordine di importanza (che non di rado compare nella storia umana) è indubbiamente un fenomeno regressivo. Finisce prima o poi nel razzismo. La molteplicità culturale, oltre ad essere un fatto innegabile, è una inevitabile condizione umana. Il mito della Torre di Babele dice bene di questa condizione originaria, perché registra e il fatto e la patologia che segue al fatto, cioè la divisione della comunità umana in parti che non riescono più ad intendersi. Nel mito della Torre la patologia è legata simbolicamente al linguaggio. Ma non è difficile interpretare il mito come segnale di una patologia più profonda della differenza linguistica. Non ci si intende tanto per via dei fonemi diversi, quanto per via di desideri diversi e conflittuali. Questo dice la comune esperienza. La differenza linguistica fa poi giganteggiare le forme del conflitto. Il multiculturalismo è sempre esistito. Oggi è un problema solo perché le culture rivendicano parità. Cosa che una volta (fino ai tempi del colonialismo), specialmente a noi europei, sembrava una pretesa assurda. Ma la parità culturale è una rivendicazione sempre sensata? Ad es.: si può dire che la cultura di una sperduta tribù dell'Amazzonia è pari alla sofisticata cultura newyorkese? Certo, si può dire, da alcuni viene detto e da tutti in qualche modo si deve dire; ma con una precisazione che spesso viene tralasciata e che rende incomprensibile difendere una vera parità. La precisazione a me par questa: la parità si può e si deve predicare dell'umano che ci accomuna; si deve predicare, in particolare, del buono o cattivo uso della nostra libertà. Nell'uso dell'umana libertà, infatti, non esiste progresso (morale) 'continuo', perché ogni essere umano ricomincia da capo una storia tutta sua. Insomma, quanto alla scelta del bene e del male nella vita, quanto alla dignità personale messa in gioco nelle relazioni tra noi, siamo tutti e sempre ugnali. Ma lo stesso non si può dire dello sviluppo 'civile', senza negare l'evidenza. Naturalmente, ci sono differenze di civiltà che implicano pure una sostanziale parità (ad es., la civiltà greca e la civiltà romana nell'antichità, la civiltà araba e quella cristiana nel Medioevo, Spagna e Inghilterra nella modernità, India e Cina nella contemporaneità). Ma non sempre le cose stanno così.
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Una capanna di fango non è un'opera architettonica pari a un grattacielo, supposto che entrambi nel loro ordine siano dei buoni prodotti, così come il ritmo dei tamburi di una tribù di primitivi non può reggere il confronto con il contrappunto di Bach. Il baratto negli scambi economici non può esser fatto equivalere al 'mercato' nelle società capitalistiche avanzate, come i segnali di fumo degli indiani d'America non sono strumenti di comunicazione da poter considerare pari alla Rete. E così via. Il multiculturalismo raccoglie confusamente vita civile e vita morale, forme giuridiche e forme religiose, tecnologia e arte, economia e politica. E quant'altro. La cultura di un popolo è infatti tutto questo e tutto questo produce, a partire da una certa vicenda storica, identità. Come è possibile che una pluralità di queste identità possano intendersi, cioè poi reciprocamente riconoscersi, e pacificamente convivere? Questo è il problema dei nostri tempi. La soluzione del problema è presso che impossibile in termini astratti. Si tratta infatti di una questione di pratica politica che si bilancia almeno tra l'etica pubblica e le forme del diritto. Ma qualcosa di orientativo si può dire en philosoph. A partire dalla semplice considerazione che nessun popolo mette facilmente in questione la propria identità. E in questo certo non erra. Erra invece quando non mette in questione la difesa più o meno accanita dell'identità escludente. Perciò potremmo già dire, in via di principio: il limite minimo che un popolo non può non difendere, è quell'identità che, in sé e per sé, coincide con la comune umanità; e potremmo subito aggiungere: il limite massimo che un popolo può difendere è l'identità storico-concreta, cioè determinata, in quanto individuazione della comune umanità. Il limite massimo è o deve essere comunque 'trattabile': ossia deve poter esser messo in questione, per capire sino a che punto alcune abitudini e forme di vita possono far posto ad altre forme, mediante un atteggiamento di 'rispetto'. Il rispetto non implica infatti un accordo di visione, ma solo una compatibilità tra due visioni differenti, tale per cui viene escluso un reciproco nocumento. Dal punto di vista semplicemente etico, il limite minimo è o dovrebbe essere un limite invalicabile (nel senso che si può avanzare, ma non retrocedere), perché ogni concessione che vulneri la dignità 45
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della comune umanità è eticamente riprovevole. Deve necessariamente essere rifiutata, perché danneggia tutti: tanto gli 'stranieri' quanto gli 'indigeni'. Sempre dal punto di vista semplicemente etico, il limite massimo dovrebbe essere altrettanto invalicabile (si può retrocedere, ma non avanzare), perché porta con sé facilmente richieste aggiuntive 'distorcenti' o 'patologiche'. Come accade, ad es., quando a tutti si chiedesse di parlare solo una determinata lingua o si chiedesse a tutti di vestire allo stesso modo ecc. Ciò significa che il multiculturalismo, per oltrepassare lo stadio della mera fattualità, deve essere politicamente guidato con grande competenza e con grande prudenza. Ma la direzione di marcia sembra abbastanza chiara nella sua linea di snodo: andare verso il reciproco riconoscimento fra culture (cioè poi verso l'interculturalità) come stile di vita socio-politica. Come dire: procedere verso le forme di amicizia tra popoli. Viceversa: andare verso il reciproco misconoscimento, significa innescare conflitti senza fine e lasciare il campo all'universale aggressività, più o meno distruttiva. Da questa parte sono infatti venute le guerre, e in particolare le due ultime guerre mondiali. Dalla parte opposta, comunque, gli esempi non mancano, anche se non sono numerosi, perché l'impresa del riconoscere è più difficile dell'impresa del confliggere. Qui penso alla storia degli Stati Uniti d'America, ma anche a tante microstorie dell'America del Centro e del Sud. Il meticciato qui largamente diffuso potrebbe essere un indicatore di rilievo, mentre negli Stati Uniti un indicatore di rilievo si potrebbe trovare nella fine della segregazione razziale. In ultima istanza, il rispetto per l'umano che ci è comune è ciò che bonifica l'identità determinata di una cultura e che consente nel contempo di rispettare e riconoscere un'altra cultura senza temere di esserne soggiogati. Se si riuscisse ad enuclearlo con sufficiente determinatezza condivisa, si avrebbe il dovuto rispetto e della diversità culturale e la necessaria salvaguardia dell'identità del paese ospitante. In effetti, questa è forse la sfida teorico-pratica principale dei nostri tempi. Forse bisogna coraggiosamente rimetter mano, dopo poco più di mezzo secolo, alla vecchia formulazione dei “diritti universali dell'uomo”.
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Dalla multicultura all'intercultura: la polis come cittadella delle alterità Jean-Léonard Touadi è deputato PD
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a tragedia delle Torri Gemelle a New York ha scaraventato sulla scena globale e nei contesti nazionali e locali l'onda impetuosa del nuovo paradigma dello scontro delle civiltà. Identità, culture e civiltà sono diventate le chiavi di lettura attraverso le quali è possibile leggere ed interpretare le vicende geopolitiche, le configurazioni politico-ideologiche all'interno dei paesi e le dinamiche sociali nei contesti urbani. Numerosi conflitti dai Balcani al Medioriente, passando per i Grandi laghi africani e il subcontinente indiano portano la matrice dell'odio etnico o dell'eliminazione dell'alterità demonizzata. Anche nei contesti nazionali, soprattutto urbani, la nostra contemporaneità sperimenta quello che l'antropologo Marco Aime chiama l'«eccesso di culture», intendendo con quest'espressione l'assolutizzazione delle identità arroccate nella loro presunta purezza minacciata e la demonizzazione delle alterità teorizzate e vissute come minaccia. Due sono le reazioni possibili di fronte all'irrompere dell'identità come parametro di delimitazione rigida tra un “noi” e un “loro”. Si può accettare lo schema dello scontro inevitabile e prepararsi alla resa dei conti finali dove le culture e le identità più forti trionferanno trascinando verso l'estinzione le alterità sconfitte; oppure andare nella direzione opposta, ossia credere ancora nella possibilità di una costruzione comune di uno spazio condiviso. In questa seconda ipotesi, il cantiere delle alterità deve nascere dal riconoscimento della diversità come ricchezza che merita di essere salvaguardata alla stessa stregua della biodiversità in natura. Riconoscimento della diversità, dei modi diversi di declinare la comune appartenenza all'umanità che diventa scommessa per edificare insieme la cittadella dello scambio. Quest'opzione si chiama intercultura che si presenta come un
Due sono le reazioni possibili di fronte all'irrompere dell'identità come parametro di delimitazione rigida tra un “noi” e un “loro”. Accettare lo schema dello scontro inevitabile oppure credere nella possibilità di una costruzione comune di uno spazio condiviso
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processo dinamico teso al superamento della multicultura che fotografa le diversità e permette che ciascuna intensifichi la comunicazione “ad intra” senza aperture verso gli altri. La multicultura intesa come semplice co-presenza spazio temporale finisce per creare spazi auto ghettizzati che prima o poi sfociano nella diffidenza e nel conflitto irrimediabile. L'intercultura, invece, lungi dall'essere un'impostura aderisce maggiormente all'essenza stessa delle culture e delle identità che si forgiano e si nutrono dentro un incessante processo di apertura, di acquisizioni, di alienazioni e di contaminazioni. Proprio per questo non è data intercultura se non nella prospettiva di una relazione fecondante con la precipua vocazione di andare incontro alla dirompente novità dell'innesto.
Se assumiamo la prospettiva dell'intercultura, il contesto urbano diventa un vero e proprio laboratorio della nostra contemporaneità. Lo spazio urbano cosi dilatato all'interno del quale le persone e le comunità ritrovano, smarriscono e si riappropriano di identità mutevoli è lo spazio dell'intercultura. È il luogo dove l'impegno primario della politica è quello di evitare la formazione dei ghetti ed operare per ricondurre ad armonica ricomposizione interessi 48
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divergenti e segmenti identitari potenzialmente conflittuali. Nella città ci si allena a leggere le differenze presenti nel tessuto urbano nelle pieghe della sua caotica organizzazione; ci si cimenta con la fatica di rapportarsi con l'alterità nella stanca scansione degli impegni quotidiani e nella stratificazione degli eventi lavorativi, sociali o aggregativi; infine, è l'agorà dove imparare a gestire i conflitti usando metodi argomentativi e nonviolenti entro le relazioni conflittuali. Si tratta di apprendere comportamenti e saperi quotidiani capaci di spezzare la rigida logica dell'unica appartenenza al fine di sperimentare ruoli diversi che rendono esplicita e vissuta la logica della diversità e della relazione tra alterità nelle società plurali. Si tratta di acquisire competenze nuove capaci di permettere ad ogni cittadino di agire ed abitare i nuovi scenari sociali da attivo protagonista piuttosto che da passivo fruitore” (Incontro europeo delle città interculturali, 1997). Ma che cos'è una città interculturale? La domanda in realtà andrebbe posta più correttamente in questo modo: attraverso quali meccanismi una città passa da contesto urbano multiculturale (co-presenza passiva di comunità diversamente connotate culturalmente) a spazio interculturale ( in grado cioè di attivare processi attivi d'incontro tra alterità)? Lo studioso Aluisi Tosolini rende evidente in modo chiaro il profilo della città interculturale: «Una città interculturale è un progetto che gioca la propria fattibilità nella capacità delle istituzioni di mettere in atto sia percorsi di formazione in senso classico e specifico, sia eventi, situazioni, percorsi di vita reale che facilitino l'assunzione di consapevolezza e la diretta esperienza dell'alterità e delle modalità di relazioni tra alterità. Tra i momenti specifici vanno certamente considerate le proposte di formazione-aggiornamento che devono coinvolgere tutti gli operatori (dal vigile urbano all'addetto allo sportello all'anagrafe, dal centralinista all'insegnante, dal giudice all'assistente sociale, dall'infermiere al dirigente dell'assessorato all'urbanistica) al fine di assumere, in quanto istituzioni, le dinamiche della relazione interculturale. Come sopra si è detto le istituzioni e le loro azioni non sono mai neutrali: esse tendono a definire lo spazio sociale e non è pensabile che l'ottica interculturale venga assunta solo a livello di “spazio definito”: se la logica interculturale deve attraversare l'intera città e' questa logica che deve definire gli spazi sociali, ridisegnare la città, i suoi vissuti e le sue finalità. 49
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Ma per farlo non può certo farlo con logica paternalistica quanto piuttosto riconoscendo cittadinanza, ovvero voce, ad ogni suo abitante» (dalla relazione presentata all'incontro europeo tra le città, settembre 1997). L'intercultura dunque all'interno della costruzione della polis, per una nuova cittadinanza, dando voce “ad ogni suo abitante”. È il caso di sottolineare l'accento che l'intercultura non è una gentile concessione della maggioranza alla minoranza di culture diverse presenti nella polis. Essa attiene all'essenza stessa della democrazia all'interno della quale tutti devono fare la propria parte. I cittadini stranieri devono evitare di rinchiudersi nella loro risentita marginalità per cogliere le opportunità offerte dall'incontro; mentre la comunità ospitante deve rinunciare alla sua dorata autosufficienza e sentirsi pro-vocata (letteralmente chiamata in avanti) dall'irrompere dell'alterità. Dentro la democrazia urbana dobbiamo inserire la teoria e la pratica di cinque pilastri di governo: - il pluralismo che è il riconoscimento e la valorizzazione della diversità come ricchezza, con lo sforzo di soffocare le nostalgie monoculturali dei bei tempi perduti e i riflessi auto ghettizzanti delle minoranze; - la laicità intesa non solo come netta separazione tra la sfera religiosa e quella civile, ma come mentalità anti dogmatica dove non sono le verità che si contrappongono ma l'incontro avviene sulla ricerca della giustizia; - le pari opportunità in ossequio agli articoli 2 e 3 della Carta costituzionale che riconosce e garantisce i “diritti inalienabili della persona” ed opera per “rimuovere gli ostacoli” alla piena realizzazione della persona; - l'autonomia dei singoli e dei corpi intermedi che concorrono per il bene comune seguendo il principio di sussidiarietà orizzontale e verticale; - lo sforzo positivo per creare degli spazi di contaminazioni interculturali che aiutino non solo a riconoscere la diversità ma a capirla, sia come comprensione intellettuale, oggettiva, sia come comprensione umana intersoggettiva. La città diventa quindi il luogo della prossimità e dell'empatia agognata, praticata, frustrata e recuperata. Dentro la città è fondamentale porre un'impronta interculturale sui luoghi dell'elaborazione simbolica e della rappresentazione collettiva. Solo in questo modo si potrà partorire un nuovo alfabeto interculturale per una positiva globalizzazione. 50
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Noi e l'Islam, una sfida inedita Paolo Luigi Branca
insegna Lingua araba e islamistica presso l'Università Cattolica di Milano
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incremento della presenza islamica in Europa sembra riproporre antiche tensioni che hanno a lungo caratterizzato i rapporti storici tra noi e i musulmani. Ma l'islam al quale ci troviamo di fronte non è quello tradizionale del Nordafrica, del Medioriente o dell'area indo-pakistana: si tratta di un'appartenenza ormai “deterritorializzata”, figlia e prodotto della modernità, anche se apparentemente ad essa ostile e intenzionalmente alternativa. Va dunque superata la semplicistica e inconcludente rappresentazione di un’Europa cristiana e civile assediata dai nuovi barbari del fondamentalismo musulmano, tanto cara ai non pochi polemisti che si illudono di poter reagire rispolverando gli ormai arrugginiti e comunque inadeguati armamentari di una controversistica che ha fatto definitivamente il suo tempo. La questione è nuova e richiede nuovi strumenti di analisi e d'intervento per essere convenientemente fronteggiata. A differenza di quanto avviene in Inghilterra, Germania e Francia, la situazione italiana ha caratteristiche di minore entità e di ridotto impatto. Questo secondo non è semplicemente riconducibile al numero tutto sommato ancora limitato di immigrati musulmani che vivono tra noi, ma dipende piuttosto dal fatto che - per fortuna o per disgrazia - l'Italia è sostanzialmente sprovvista di forti “paradigmi” etnico-culturali o ideologici che spingano decisamente verso l'assimilazione dei nuovi arrivati. A prima vista ciò potrebbe sembrare un vantaggio, in quanto riduce l'attrito fra un “noi” scarsamente strutturato e un “loro” percepito come meno estraneo e invasivo. In realtà, e non è una novità, la via più facile è anche la più rischiosa. Le numerose e meritorie iniziative che cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati (come la casa e il lavoro),
Va superata la rappresentazione di un’Europa cristiana e civile assediata dai nuovi barbari del fondamentalismo musulmano. La questione è nuova e richiede nuovi strumenti di analisi e d'intervento per essere convenientemente fronteggiata
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sono infatti nella maggior parte dei casi carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le supporti e le sappia orientare. Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è portatore anche di altre domande che non sappiamo interpretare principalmente perché noi stessi siamo i primi a non porcele più. L'assistenza ai bisognosi è certo una cosa positiva, ma davvero non abbiamo da offrire che un letto e un pasto caldo? Duemila anni di cristianesimo, l'ancor più antica eredità greca e romana, oppure le recenti e sofferte acquisizioni che abbiamo pagato a caro prezzo emancipandoci dai nazionalismi esasperati e ai furori ideologici del '900 sono un bagaglio già così poco “nostro” da impedirci di immaginare di poterlo almeno condividere con chi bussa alla nostra porta? Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l'iniziativa, è la condanna a subire quella altrui. C'è dunque il rischio di riprodurre un gioco di ruoli già noto: agli europei la parte un po' svilente dei benestanti, preoccupati soprattutto che i parenti poveri non siano troppo molesti, disponibili a sopportarli purché disposti a svolgere le mansioni più umili e faticose e a condividere almeno qualche rito collettivo, calcistico o televisivo, per dimostrare di non essere del tutto incivili. Agli immigrati 52
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musulmani, quella dei retrogradi ancorati a una visione del mondo medievale, teocratica e sessista, tutt'al più camuffata nella dozzinale apologetica che contrabbanda le interdizioni alimentari coraniche come norme igienico-sanitarie o addirittura la preghiera islamica come salutista, in quanto le prosternazioni che contempla sarebbero una forma benefica di ginnastica... Troppe occasioni che invece sussistono nel tratto di cammino che ci è dato di percorrere con questi inattesi compagni di strada vengono largamente disattese. Una delle conquiste che hanno determinato lo sviluppo dell'Occidente è stata sicuramente l'incremento delle conoscenze sulla base di indagini obiettive e approfondite. Sarebbe un errore considerare tale acquisizione in contrapposizione alle certezze proprie della fede. La sfida del cosiddetto multiculturalismo non potrà essere validamente affrontata senza attingere, con umiltà ma anche con determinazione, a tale dinamica di costante rigenerazione. Sorprendentemente, quanti si trovano in un certo senso “in prima linea” rispetto a tale fronte d'impegno - come gli insegnanti, gli operatori sociali e gli stessi pastori - si trovano per lo più sprovvisti di ausili che li possano coadiuvare in tale difficile compito. Più in generale, nonostante il numero impressionante di iniziative che ad ogni livello vengono promosse su questa tematica, il nostro Paese dimostra preoccupanti carenze negli strumenti di base indispensabili alla formazione di quanti si trovano coinvolti in un simile fenomeno. I richiami alla “vocazione mediterranea” dell'Italia restano vuote frasi retoriche, non soltanto inutili, ma potenzialmente fuorvianti, in quanto lasciano credere che la nostra posizione geografica possa garantirci da sé la capacità di assolvere adeguatamente un ruolo che richiede invece ben altre assunzioni di responsabilità. La stessa proliferazione di volumi sul fondamentalismo islamico seguita ai tragici attentati dell'11 settembre 2001 potrebbe risultare una cortina fumogena che maschera l'assenza, nella nostra lingua, di testi di riferimento per una conoscenza almeno elementare del mondo in cui quegli atti di spaventosa violenza distruttrice sono maturati. Lasciare alla buona volontà e all'improvvisazione dei singoli la gestione di questo fenomeno dimostra una miopia e una leggerezza preoccupanti. Quel che maggiormente rincresce è la mancanza di consapevolezza che proprio in casa nostra, per un fortuito caso della storia o secondo gli imperscrutabili
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La sfida del cosiddetto multiculturalismo non potrà essere validamente affrontata senza attingere, con umiltà ma anche con determinazione, a tale dinamica di costante rigenerazione
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disegni della Provvidenza, passa il “fronte” dell'incontro di due grandi tradizioni culturali e religiose chiamate nuovamente a confrontarsi. Che facciano parte del gioco anche il timore da parte degli uni di essere “invasi” e degli altri di essere “assimilati” è del tutto legittimo, ma si tratta di reazioni naturali al primo impatto che non possono e non devono esaurire il discorso. Sarebbe infantilistico o, peggio, strumentale fermasi a questa prima fase. Ci sono ormai tra noi musulmani di seconda e di terza generazione, alcuni di loro parlano meglio l'italiano che non l'arabo o le altre lingue dei loro genitori. Con essi, l'islam che è in Europa potrebbe diventare l'islam “d'Europa”, con benefici riflussi sul mondo musulmano nel suo complesso. La grancassa dei media offre ben poco spazio a costoro, privilegiando personaggi molto meno rappresentativi e più folcloristici, quando non addirittura squilibrati. Non ci nascondiamo che, soprattutto tra i gruppi organizzati, l'ideologia prevalente è spesso di stampo integralista, talvolta guidata da responsabili “paracadutati” nel nostro continente che poco o nulla sanno della situazione locale nella quale dovrebbero condurre le rispettive comunità. Mentre i musulmani meno illuminati approfittano largamente di tutto questo, non altrettanto si può dire degli altri, che per loro immaturità e nostra indifferenza restano defilati, insieme alla gran massa di quanti sono troppo occupati dalle questioni concrete e quotidiane per potersi permettere il lusso o per avere il coraggio di fare udire la loro voce. Quel che importa è che queste brevi riflessioni inducano tutti a un esame di coscienza, perché non ci accada di sentirci apostrofare da uno dei più inquietanti rimproveri del Vangelo trovandoci dolorosamente ritratti nella posizione degli ignavi che esso stigmatizza: “A chi, dunque, dovrò paragonare gli uomini di questa generazione e a chi rassomigliarli? Sono simili ai ragazzi seduti sulla pubblica piazza, i quali gridano gli uni agli altri dicendo: 'Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato. Abbiam cantato lamenti e non avete pianto'” (Luca 7, 31-32).
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Libertà religiosa:
urge una legge organica Roberto Zaccaria è deputato PD
L’
adozione di discipline legislative in materia di libertà religiosa costituisce una sfida particolarmente impegnativa per il legislatore: si tratta di un settore capace di suscitare, dopo una prima generica accettazione di principio, vivaci contrasti e discussioni, anche per le inevitabili connessioni con una serie di questioni essenziali, prima fra tutte quella sull'idea di cittadinanza. Tutto questo non è sorprendente. La Costituzione dedica grande attenzione alla libertà religiosa: è sufficiente leggere il testo costituzionale per rendersi conto a prima vista del fatto che nessun'altra libertà costituzionale risulta evocata esplicitamente in maniera così rilevante (articoli 3, 7, 8, 19 e 20) sia sotto il profilo individuale che collettivo. La sfida che il legislatore si trova dunque di fronte è introdurre una disciplina di un fenomeno così complesso in conformità con il dettato costituzionale. In questa legislatura la maggioranza, animata da uno spirito antislamico e da una vocazione meramente propagandistica, ha seguito sicuramente la strada sbagliata, accantonando l'idea (che pure aveva caratterizzato la XIV e la XV legislatura tra il 2001 e il 2008) di introdurre una legge generale sul fenomeno religioso. La scelta è stata quella di porre mano a interventi settoriali, senza una visione d'insieme, con il risultato di far prevalere, nella regolamentazione di ciascun istituto, istanze securitarie e fortemente restrittive della libertà religiosa. Si pensi al progetto di legge sulla regolamentazione degli indumenti indossati per ragioni di natura religiosa (correntemente chiamata legge anti burqa) (A.C. 627 e abb.), nella versione adottata dalla Commissione affari costituzionali della Camera con il testo base del 13 luglio 2011 e con il mandato al relatore del 19 ottobre. A partire da fine ottobre la legge sarà in Aula. Invece di
La Costituzione dedica grande attenzione alla libertà religiosa: è sufficiente leggere il testo costituzionale per rendersi conto a prima vista del fatto che nessun'altra libertà costituzionale risulta evocata esplicitamente in maniera così rilevante sia sotto il profilo individuale che collettivo 55
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affrontare la questione all'interno delle coordinate generali di una legge di sistema in materia di libertà religiosa, la maggioranza ha scelto di intervenire attraverso una modifica alla c.d. legge Reale (l. n. 152/75) che oggi vieta l'uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Non solo. È stata del tutto esclusa la possibilità di seguire i modelli accolti in Paesi come la Francia, il Belgio o l'Olanda e si è scelto di adottare una disciplina che ha forti profili di incostituzionalità: menziona infatti espressamente abbigliamenti tipici di una determinata religione o cultura (il burqa ed il niqab) e discrimina in base al sesso i destinatari della legge stessa, citando esclusivamente indumenti femminili. Gravissimo È anche il fatto che nella stessa legge si impedisce l'acquisto della cittadinanza a chi abbia costretto qualcuno ad indossare l'abbigliamento predetto in pubblico o anche in privato. Il fatto è indubbiamente riprovevole, ma la sanzione è abnorme e certamente incostituzionale. Come se ciò non bastasse, la proposta di legge della maggioranza conteneva un preoccupante paradosso (non so fino a che punto intenzionale). Nel regolamentare unitariamente la fattispecie oggi disciplinata dalla c.d. legge Reale (l'uso cioè di mezzi atti a rendere difficoltoso il 56
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riconoscimento della persona) e quella rappresentata dall'uso di indumenti di «origine etnica e culturale» che comportino lo stesso effetto, la proposta di legge giungeva addirittura ad alleggerire le sanzioni nei confronti di chi, celandosi dietro abbigliamenti capaci di occultare la propria fisionomia, ne approfittasse per compiere devastazioni e saccheggi nel corso di pubbliche manifestazioni. L'esempio di quanto è accaduto a Roma è sotto gli occhi di tutti. Ebbene, oggi la c.d. legge Reale prevede l'arresto da uno a due anni e l'ammenda da 1.000 a 2.000 euro per chi partecipi a manifestazioni in luogo pubblico con il volto coperto. La proposta di legge della maggioranza, assimilando tale ipotesi a quella dell'uso di analoghi indumenti di origine etnica e culturale, aveva abbassato per tutte le fattispecie la sanzione ad un'ammenda da 300 e 500 euro. La fretta e la propaganda della Lega, impegnata in prima linea nell'approvazione di questa legge, ha rischiato di fare brutti scherzi anche alle politiche di sicurezza ed al Ministro Maroni. Dopo le nostre denunce pubbliche, la maggioranza è corsa ai ripari ed ha dovuto correggere il testo in fretta e furia. Un altro esempio è dato dalla disciplina degli edifici di culto. La maggioranza ha scelto di intervenire (anche qui al di fuori di qualsiasi disegno di sistema) attraverso una proposta di legge Gibelli-Cota (A.C. 1246) recante Disposizioni concernenti la realizzazione di nuovi edifici destinati all'esercizio dei culti ammessi. L'imposizione antislamica e fortemente restrittiva nei confronti della libertà religiosa della proposta di legge si desume già dall'art. 1 dove si dispone che «la costruzione di nuovi edifici destinati a funzioni di culto, la loro ristrutturazione o il cambiamento di destinazione d'uso edilizio o di destinazione urbanistica sono ammessi sulla base delle intese sottoscritte tra una confessione o un'associazione religiosa legalmente riconosciuta e lo Stato ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione» e che «nei casi in cui le intese previste al comma 1 non siano state sottoscritte, le regioni possono comunque autorizzare la costruzione di un nuovo edificio destinato a funzioni di culto, la sua ristrutturazione o il cambiamento di destinazione d'uso edilizio o di destinazione urbanistica ai sensi dell'articolo 2 e in conformità ai principi stabiliti dall'articolo 3». Tutto ciò appare inaccettabile. Il godimento del diritto costituzionale a professare liberamente la propria religione, cosa che implica anche la possibilità di avere luoghi di culto dove farlo, viene
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Il godimento del diritto costituzionale a professare liberamente la propria religione, cosa che implica anche la possibilità di avere luoghi di culto dove farlo, viene così in definitiva subordinato ad una autorizzazione regionale
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L'interrogativo che si pone è dunque come rispondere alle iniziative antiislamiche messe in atto dalla maggioranza
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così in definitiva subordinato ad una autorizzazione regionale! Che l'atteggiamento ideologico sotteso alle scelte di maggioranza sia quello antislamico ha trovato conferma d'altronde dalla mozione 1-00076 presentata dall'on. Cota e discussa nel maggio 2009 alla Camera la quale impegnava il Governo ad una “moratoria” per la costruzione di nuove moschee e di centri culturali islamici, fino a quando non fosse approvata una legge per regolamentare l'edificazione di luoghi di culto per le confessioni prive di intese con lo Stato italiano (è per l'appunto il caso dell'Islam!). La maggioranza ha dunque tentato di approvare in quell'occasione una mozione che finiva per sospendere un diritto costituzionale, in pieno contrasto peraltro con la giurisprudenza costituzionale secondo la quale la realizzazione di edifici di culto ha per effetto quello di rendere concretamente possibile e comunque di facilitare le attività di culto che rappresentano un'estrinsecazione del diritto fondamentale e inviolabile della libertà religiosa espressamente enunciata nell'articolo 19 della Costituzione (cfr. sent. Corte cost. n. 195 del 1993) e quella Cedu (cfr. sent. 17 settembre 1996 - Manoussakis e altri c. Grecia). Fortunatamente la nostra ferma opposizione (e forse anche quella della Presidenza della Camera) ha bloccato quell'improvvida iniziativa. L'interrogativo che si pone è dunque come rispondere alle iniziative antiislamiche messe in atto dalla maggioranza. Alle singole proposte di legge della maggioranza abbiamo cercato di ribattere con alcune proposte di legge che tentassero di offrire, quanto meno in relazione agli specifici istituti, una visione politicamente alternativa e costituzionalmente conforme. Sulla questione del divieto di indossare indumenti religiosi che celino il volto, abbiamo presentato il 4 dicembre 2009 assieme alla collega Amici una proposta di legge (A.C. 3020) di modifica della legge Reale dove non si fa riferimento agli indumenti religiosi indossati «per ragioni di natura religiosa, etnica o culturale», senza dunque alcun riferimento ad indumenti riconducibili a specifiche religioni. Nella proposta di legge viene mantenuta l'attuale sanzione per la fattispecie oggi disciplinata dalla legge Reale mentre viene ridotta la sola sanzione relativa ad una condotta riconducibile al caso in cui gli indumenti siano indossati per ragioni di natura religiosa, etnica o culturale.
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Sulla regolamentazione degli edifici di culto ho presentato il 10 febbraio 2009 una proposta di legge (A.C. 2186) volta a regolamentare il fenomeno sul presupposto tuttavia che la libertà in materia di edifici di culto sia strumentale alla professione della propria fede e quindi costituzionalmente garantita. Non è questa però la strada principale. La risposta realmente efficace per attuare le disposizioni costituzionali in materia deve tuttavia avere una portata più ampia e consiste nell'approvazione di una legge generale in materia di libertà religiosa. È la strada che si tentò nella XIII e XIV legislatura e che poi, come relatore di due proposte di legge Boato (A.C. 36) e Spini (A.C. 134), ho tentato di perseguire nella XV legislatura, quando si giunse all'adozione di un testo unificato in Commissione affari costituzionali il 4 luglio 2007. I contenuti di quel testo sono oggi riproposti in una proposta di legge che ho presentato all'avvio di questa legislatura il 29 aprile 2008 (A.C. 448). È da lì che, a mio giudizio, bisogna ripartire, introducendo una regolamentazione generale della libertà religiosa in Italia che tenda a strutturare la normativa su quattro livelli di intervento. Il primo livello già esiste ed è quello concordatario (ovviamente indisponibile da parte della legge ordinaria alla luce dell'art. 7 Cost.). Il secondo livello è quello delle intese tra Stato e single confessioni. Questa È una strada che l'art.8 della Costituzione indubbiamente prevede ma che è sbagliato inflazionare, magari con l'obiettivo sempre più diffuso di arrivare alla ripartizione dell'ambitissimo 8 per mille. Esiste un terzo livello, che la legge generale deve disegnare, dei diritti e dei doveri delle confessioni religiose registrate; il quarto livello, pure molto importante, è quello del diritto comune dei soggetti collettivi (le associazioni) o individuali, che non intendono stabilire un rapporto con lo Stato. Solo una legge generale così impostata che affronti una serie di questioni nodali, dall'insegnamento, al matrimonio, dalle possibili discriminazioni in ambiti particolari al diritto di recesso rispetto a confessioni particolarmente opprimenti, dalla disciplina dei ministri del culto all'uso di simboli religiosi, è in grado di offrire una garanzia completa e "organica" rispetto ai grandi temi della libertà religiosa nell'epoca contemporanea.
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La sinistra e l’immigrazione Intervista a Giuseppe Sciortino
Claudio Giunta
insegna Letteratura italiana all'Università di Trento
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iuseppe Sciortino (Palermo, 1963) insegna Sociologia del mutamento nella Facoltà di Sociologia dell'Università di Trento. Ha studiato a Bologna e alla Yale University; ha insegnato, oltre che a Trento, a Phnom Penh (sa il cambogiano) e alla Yale University. Insieme ad Asher Colombo ha curato la serie di volumi Stranieri in Italia per Il Mulino; è membro, tra l'altro, dell'Istituto Cattaneo di Bologna e del board delle riviste «Polis» e «Sociological Theory». Il suo ultimo libro, scritto in collaborazione con Gianfranco Poggi, è Great Minds. Encounters with Social Theory (Stanford University Press). Prima di dire quello che non va nell'approccio della sinistra all'immigrazione, vediamo quello che non va nell'approccio della destra. Possibile che l'unica policy a cui si riesca a pensare, su quel versante, sia la repressione? Possibile che l'idea-guida sia quella di «essere cattivi coi clandestini» (Maroni)? Ma la destra in questi anni è stata tutto salvo che repressiva e crudele. La crudeltà la si ritrova, in modo per altro piuttosto trito, nei disegni di legge e nelle interviste. E la sinistra regolarmente ci casca, si mobilita, s'indigna, evoca spettri epocali, poi perde e dimentica, regalando così alla destra una patente di rigore del tutto virtuale. I fatti stanno diversamente. È stata la destra a promuovere le sanatorie e i decreti flussi più generosi, a tagliare le spese per le espulsioni (che infatti non aumentano), a costringere i poliziotti a stare chiusi negli uffici a fare i travet di un'anagrafe parallela invece 60
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che a pattugliare le strade, a riconoscere lo status di protezione umanitaria ai giovani tunisini sbarcati a Lampedusa soltanto per toglierseli di torno. I fatti sono che nessuna delle misure repressive della Bossi-Fini ha mai prodotto gli effetti desiderati: alcune norme sono state rapidamente dichiarate incostituzionali (ed era praticamente certo sin dall'inizio che lo sarebbero state), altre sono risultate impraticabili (e si sapeva anche questo), altre ancora troppo costose (ed era addirittura scritto nella relazione tecnica che accompagnava la legge). Se oggi ci sono in Italia un po' meno irregolari di qualche anno fa è solo per effetto della crisi economica e dell'allargamento ad est dell'Unione Europea. Non sicuramente per le politiche della destra, che si sono limitate solo a qualche dispetto, generalmente rivolto agli immigrati onesti. La realtà è che la destra non ha una politica per l'immigrazione, ma tira solo a campare facendo la voce grossa, senza sapere nemmeno approntare un centro di detenzione decente. Più che la repressione, è la loro improvvisazione che fa paura.
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Se oggi ci sono in Italia un po' meno irregolari di qualche anno fa è solo per effetto della crisi economica e dell'allargamento ad est dell'Unione Europea. Non sicuramente per le politiche della destra, che si sono limitate solo a qualche dispetto, generalmente rivolto agli immigrati onesti
Bene, allora archiviata (speriamo) questa Destra, parliamo della Sinistra. Cosa dovremmo fare? Dovremmo, come sostengono alcuni, spingere per un coordinamento a livello europeo, per una politica europea che gestisca l'immigrazione nella UE? Che Dio ci scampi e liberi. Pensare di affidare le politiche migratorie all'Europa è semplicemente una pessima idea. Qualunque studioso può dimostrare che i diversi paesi europei sono coinvolti in moltissimi sistemi migratori indipendenti e largamente non comunicanti. La situazione sociale degli immigrati nei diversi paesi europei è diversissima. I paesi scandinavi hanno tassi d'occupazione degli immigrati molto più bassi rispetto a quelli dei nativi, i paesi mediterranei hanno invece tassi d'occupazione superiori. In alcuni paesi sono 'stranieri' i nipoti degli originari immigrati, in altri il grosso dell'immigrazione è fatto da gente arrivata da meno di un decennio. In queste condizioni, una politica europea sarebbe una camicia di forza. A questo aggiungiamo che l'obiettivo di una politica europea a tutti i costi ha già prodotto seri danni all'Italia. Abbiamo accettato di controllare le frontiere esterne 61
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dell'Unione senza chiedere alcuna una seria condivisione dei costi ai paesi che hanno solo frontiere interne. Ci vergogniamo per chi sbarca a Lampedusa, pensiamo di essere il ventre molle dell'Unione, ma non ci chiediamo mai come mai buona parte dei migranti dall'Europa orientale – molti, molti di più – sia entrato in Italia con un visto Schengen rilasciato da un'ambasciata tedesca. Infine, si sa benissimo che solo gli italiani sono favorevoli a una politica europea dell'immigrazione. Tutte le altre opinioni pubbliche, lo ricorda anche la recente survey internazionale Transatlantic Trends, sono ferocemente contrarie. Noi ormai cederemmo quote di sovranità persino all'impero ottomano, se esistesse ancora. Ma gli altri no. Quindi, non è solo un obiettivo sbagliato ma anche perdente. Questo è forse il primo consiglio per la sinistra: nessuno verrà a salvarci dall'esterno. Accettiamo i livelli (minimi) di coordinamento che sono realistici e per il resto cominciamo a scegliere da soli cosa vogliamo fare, quali priorità fissare. Possibilmente, perseguendole anche. Già che stiamo dando consigli quali altre cose pensi che la sinistra potrebbe fare, o potrebbe proporre di fare? Cose concrete, intendo, quelle che tu porteresti all'attenzione dei responsabili se ne avessi l'opportunità. Bisogna capire che la regolazione delle migrazioni non si fa soltanto con le politiche migratorie. Sotto questo profilo, la Turco-Napolitano era un'ottima legge, e con qualche aggiustamento potrebbe anche funzionare. Ma per gestire bene l'immigrazione dobbiamo deciderci ad affrontare finalmente alcuni nodi strutturali. Se si vuole ridurre l'immigrazione irregolare, i poliziotti alle frontiere servono il giusto; gli ispettori del lavoro nei cantieri, nelle aziende e nelle famiglie servono molto di più. Ci sono dieci, anche solo dieci, parlamentari decisi a fare della lotta all'economia sommersa la loro missione? Se vogliamo l'integrazione delle seconde generazioni, ci servono scuole che insegnino bene a leggere, scrivere e far di conto. Anni scolastici che durino di più, con più ore e più compiti, e che offrano, ma anche chiedano, di più agli studenti. Ne beneficeranno i figli degli immigrati ma anche i figli delle classi operaie italiane. Ci sono dieci parlamentari nella sinistra disposti a spiegare al paese 62
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che non si va a scuola per realizzarsi bensì per imparare? Se vogliamo maggiore sicurezza nelle nostre città, che poi è quello che chiede la stragrande maggioranza degli immigrati, visto che sono molto più spesso vittime di reati e temono molto di più per le cattive compagnie dei figli, occorre decidersi a riformare il ministero dell'Interno, facendo tornare i poliziotti a fare i poliziotti, togliendoli dagli uffici e rimettendoli sulle strade. Ci sono dieci parlamentari della sinistra disposti ad impegnarsi in un compito così difficile, sapendo che non andranno mai sulle prime pagine dei giornali? I problemi delle politiche migratorie sono banalmente i problemi del paese.
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I problemi delle politiche migratorie sono banalmente i problemi del paese
E quali non fare assolutamente? Continuare a pensare che la sinistra abbia la soluzione in tasca. È evidente che non ce l'ha. Continuare a fare prediche per coprire la mancanza di idee. Continuare ad abbandonare alla rozzezza della Lega tutti gli argomenti contrari ad elevati livelli d'immigrazione (molti dei quali, peraltro, assai vicini a posizioni di sinistra in altri paesi). Continuare a permettere alla sinistra radicale di ammantarsi di un moralità naïve e sdolcinata invece di costringerla ad adottare l'etica delle conseguenze (che poi, banalmente, è l'etica della politica, se ce n'è una). Continuare a non chiedersi chi ha tutti i benefici e chi sopporta tutti i costi. Soprattutto, continuare a pensare che con le leggi si possa influire su tutto. Molte dimensioni dei processi d'integrazione degli immigrati avvengono a
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livello molecolare, tra vicini di casa, tra compagni di classe o di officina, tra associazioni e squadre di calcetto. È materia della tanto esaltata società civile, che se c'è batta un colpo. I politici non c'entrano: quando gli assessori cercano di intromettersi, finiscono sempre per oscillare tra il patetico e il pedagogico. Occorre invece cercare di concentrarsi su quello che i politici possono effettivamente fare: scelte chiare, obiettivi conseguibili, leggi ben scritte, circolari coerenti, procedure amministrative efficaci. Immagina di essere il sindaco di Firenze. Rispondi a questa lettera di una cittadina – una lettera vera, non inventata:
Caro «Corriere Fiorentino», il degrado del quartiere di Santa Maria Novella, via Palazzuolo e strade limitrofe è più deciso e radicale di quanto il vostro articolo racconti. No, non si vive bene in queste strade e dispiace che i riflettori dei media si accendano solo quando ci sono scappati i morti. Io abito in via Palazzuolo da quasi vent'anni e vi assicuro che qui da noi ogni socialità è saltata e i mondi degli abitanti e dei migranti si fronteggiano senza capirsi e senza parlarsi. Internet point e minimarket sono ormai la realtà dominante della mia strada. Di molti di questi 'negozi' davvero non si sa come possano campare, dato che vendono poco o nulla e spesso rappresentano solo dei luoghi di aggregazione, non sempre felici. Eppure qualcuno ci guadagnerà pure da questi affitti, o no? I minimarket sono desolatamente tutti uguali e tutti ben forniti prevalentemente di alcolici, venduti a tutte le ore in barba a ogni divieto. La strada è spesso piena di ubriachi. Non sono incontri piacevoli, se una rincasa da sola. Ci sono risse frequenti, come ben sanno polizia e carabinieri, che chiamiamo in media una volta alla settimana. Sabato notte in via Palazzuolo, uno dei nuovi 'negozi' aperto da appena una settimana – pareva vendesse stoffe! – ci ha tenuto tutta la notte svegli con relativi ubriachi e pisciate sul marciapiede perché, come ci hanno detto la mattina dopo, festeggiavano la Pasqua... Noi abitanti misuriamo insieme 64
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alla diminuzione di valore delle nostre case tutta la nostra impotenza e constatiamo l'indifferenza dei politici, finora incapaci di mettere mano agli aspetti strutturali del degrado, che pure conoscono, perché tante volte glielo abbiamo raccontato. Questa mutazione sociale ed economica del tessuto di una fetta del nostro centro storico andrebbe governata. Sarebbe proprio questo il compito della politica. Ma questo governo è mancato e continua a mancare e intanto il degrado non si ferma. I politici della nostra città devono sapere che, se non fanno qualcosa, e non lo fanno presto, quando un leghista intraprendente, razzista e xenofobo come si conviene, si affaccerà con un bel gazebo in queste strade con tutta la sua rozzezza e il suo razzismo, ebbene riscuoterà un gran successo. Sarà un brutto giorno anche per me, ma loro – i politici – ne saranno responsabili. Gentile Signora, Lei ha ragione su alcune cose e torto su altre. Ha ragione sul fatto che la nostra città non è governata come dovrebbe. Domani mi incontrerò col capo dei vigili urbani, e ho intenzione di chiedergli seriamente cosa fanno i suoi uomini (e donne), quanto tempo stanno in ufficio e quanto per le strade, quanto di giorno e quanto di notte. I regolamenti non servono, infatti, se nessuno poi li osserva. Poi, da dopodomani, una volta alla settimana, passerò una serata in un'area diversa della città. Non dirò a nessuno quale in anticipo, ma telefonerò al questore il giorno dopo per dirgli se ho visto i suoi uomini o meno nelle strade. E metterò i risultati su Facebook. Tra un mese convocherò il consiglio comunale e proporrò una revisione integrale di tutti i regolamenti di polizia municipale – lo so, è una gran seccatura – sulla base della semplice regola che qualunque norma deve essere accompagnata da sanzioni sufficientemente dissuasive, e da una probabilità di controllo ragionevole. Inutile proibire quello che non si sanziona. Urinare per strada è sbagliato, punto, che lo faccia uno straniero, uno sfigato locale o uno di quei turisti danarosi ma non sempre educati ai quali abbiamo prostituito la città. Poi troverò il modo di colpire gli affitti in nero. So che portano un bel po' di soldi anche nelle tasche dei miei elettori, ma se 65
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non sappiamo neanche chi abita dove, promettere maggiori controlli è un semplice trucco da prestigiatore. Poi telefonerò all'assessorato regionale per chiedere quanti ispettori del lavoro visitano i cantieri e le aziende della città per controllare se chi lavora è in regola. Potrò contare sulla sua mobilitazione in un comitato contro i furbetti o furboni? A questo punto, le parlo di due o tre mesi mica di millenni, fatto quello che dovevo fare io, le potrò dire chiaramente che è ora che anche i cittadini imparino l'arte di distinguere. Perché quello di cui lei parla non sono le centinaia di migliaia di stranieri che lavorano come matti e che vogliono soltanto una prospettiva migliore per la propria famiglia. Non creda siano contenti che i loro figli, spesso molto meno viziati dei nostri, assistano alle cose che lei racconta: sarebbero i primi ad essere d'accordo con lei su ciò che depreca. Parlare di 'stranieri' serve solo a confonderli in un magma indistinto, dove i molti sono colpevoli delle azioni di pochi. Crede che un sindaco leghista le scriverebbe quello che le sto scrivendo? L'esperienza dice che farebbe solo la voce grossa, annunciando provvedimenti che poi non realizzerebbe, spacconate buone solo ad offendere migliaia di persone oneste nate solo in un altro paese per coprire la propria impotenza. Tutelando nel frattempo gli interessi dei padroni di casa che vogliono affittare in nero, gli interessi dei datori di lavoro che vogliono assumere in nero, gli interessi dei commercianti che spacciano per libertà la birra alle quattro di mattina. So che noi politici di sinistra abbiamo molte colpe. Ma se i fiorentini pensassero davvero che l'essere rozzi a prescindere è la soluzione, forse qualche esame di coscienza dovrebbero farselo anche loro, non trova? Sono del parere che nelle scuole di ogni ordine e grado si dovrebbe leggere “La grande migrazione di Enzensberger”; sei d'accordo? Sì, ma solo dopo aver fatto i compiti.
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ALTRI CONTRIBUTI
Inattualità di Martinazzoli Paolo Corsini è deputato PD
nattuale Mino Martinazzoli e da archiviare il suo pensiero, la sua presenza politica, tutt'al più da consegnare alla futura ricerca degli storici? L'interrogativo potrebbe apparire retorico. In realtà sopite le emozioni e consumato il cordoglio per la morte – un cordoglio vissuto in termini di corale partecipazione e contrassegnato da diffusa stima, a partire da Giorgio Napolitano, un cordoglio per altro non esente da camaleontiche mimetizzazioni -, resta l'impegno di un bilancio in grado di esorcizzare la disposizione alla smemoratezza e l'attitudine alla rimozione che contrassegnano il discorso pubblico nel nostro Paese. In gioco non sono naturalmente il rigore del personaggio, la statura intellettuale e morale, lo sguardo lucido e originale sulla realtà, la mitezza
della sua fede, le indefettibili passioni culturali, la stessa dignità del silenzio nel tempo doloroso della malattia, la preziosa lezione di stile nell'esercizio di un potere dal quale non si è lasciato certamente soggiogare, lezione che ha trasmesso ad un'opinione pubblica sottoposta a reiterati messaggi di distrazione, quasi naturaliter portata all'amnesia politica. Tutte le virtù di Martinazzoli, in effetti, segnano una distanza stellare dal costume ormai invalso, soprattutto in tempi di “velinizzazione” della politica – uno studioso ha addirittura scritto di “pornificazione” della politica che tracima nella vita quotidiana –, di deriva senza fine, di incivile regressione. Quel che oggi in realtà è in gioco è l'eredità politica , la preservazione del seme di una storia che, alle prese con onerosi ingombri e paralizzanti detriti, è del tutto in pregiudicato se potrà tornare, in un tempo meno inclemente, ad alimentare passioni ed
Tutte le virtù di Martinazzoli segnano una distanza stellare dal costume ormai invalso, soprattutto in tempi di “velinizzazione” della politica di deriva senza fine, di incivile regressione 68
ALTRI CONTRIBUTI impegno di una democrazia declinante, stressata, alle prese con la propria inesorabile stanchezza. Oltre le apparenze ci sono comunque ragioni che durano come diceva Martinazzoli – “ragioni che consentiranno al Paese di ritrovare il senno trasferito sulla luna”. Ciò vale anzitutto per l'eredità che il fondatore del Ppi lascia sul piano etico-politico, al di là del fatto che, al contrario di Aldo Moro il quale in lui ha trovato la prosecuzione ideale di un proficuo lascito, non sembrano profilarsi oggi personalità in grado di dare continuità al magistero e all'opera del leader bresciano. Questo per dire delle difficoltà di un'impresa. A ben guardare la scommessa è rappresentata dalla risposta all'interrogativo che investe l'attualità del cattolicesimo democratico di cui Martinazzoli è stato il volto più espressivo nell'ultimo ventennio. Vale a dire, per sintetizzare la cifra di una tradizione, l'attualità di quella coniugazione tra laicità e solidarismo che deve misurarsi con la portata delle rivoluzioni contemporanee, contro ogni integrismo antimoderno ed ogni forma di sacralizzazione delle religioni secolari, della nazione, della classe, dello Stato, compresa quella, oggi in voga, delle “libertà”. Ebbene di contro alle teorizzazioni di esponenti politici e studiosi – ad esempio è il caso del pidiellino Gaetano Quagliariello e del democratico Aldo Schiavone che prospettano la fine ormai consumata di un'intera storia culturale e politica – compete a quanti alla tradizione cattolicodemocratica si rifanno, testimoniarne e comprovarne il valore, per altro in un contesto fortemente problematico e in
rapida evoluzione. Comprovarne cioè, nel segno ad un tempo della fedeltà e dell'innovazione, la capacità di contrastare – come suggerisce Guido Formigoni – una devastante mentalità tesa a promuovere identità esibite e a volte gridate, a consolidare una cultura individualisticospiritualista senza attenzione per le dinamiche sociali, propensa, altresì, a sostenere “una logica antipolitica che svaluta la mediazione e la militanza ritenuta segno di semplice ambizione al potere, personale, per pochi professionisti”. Su questo piano forse Martinazzoli potrebbe finalmente incontrare il Pietro Scoppola de La democrazia dei cristiani, nella possibilità cioè che, al di là di improbabili riti di salvataggio ideologico e di tutele organizzative garantite, emerga non tanto una posizione ufficialmente cattolica in politica quanto l'opportunità per la fede cristiana di animare esperienze assunte in piena, consapevole, coerente responsabilità. Ed ancora, a livello più strettamente politico, non della battaglia ideale, ma della definizione delle forze in campo, degli schieramenti: è nota la sconfitta di Martinazzoli alle elezioni politiche del 1994, così come la sua contrarietà alla bipolarizzazione, il tentativo non portato a compimento di alimentare la presenza di un Centro in grado di essere gravitazionale ed attrattivo anche in una stagione in cui – come ha opportunamente osservato Giuseppe Vacca -, ormai venuta meno era la funzione nazionale del cattolicesimo politico, ed il tentativo di “inalveare il passaggio alla democrazia dell'alternanza in un rinnovato sistema di partiti di stampo più schiettamente europeo” non si era 69
ALTRI CONTRIBUTI realizzato, sino ad un'accentuazione esasperata del disconoscimento reciproco fra i poli dello schieramento politico. Certamente alla luce di un giudizio spassionato ed equanime, anche ripensando all'evoluzione di questi anni, va obiettivamente sottolineata la gracilità dell'interlocuzione pidiessina di allora, l'immaturità, fin quasi all'improvvisazione“la gioiosa macchina da guerra”-, del gruppo dirigente post comunista che, perseguendo una strategia di bipolarizzazione tendenzialmente bipartitica, finiva col marginalizzare,
come in quel passaggio cruciale, che denunciava l'esistenza di un problema in seguito puntualmente riaffiorato e oggi ancora praticamente irrisolto – la presenza in Italia di componenti centriste prevalentemente cattolico-moderate, anche se non solo cattoliche – , può essere individuata l'erezione di una sorta di vallo di contenimento che, fissando argini al confine sulla Destra, ha impedito a Berlusconi, pur uscito vincitore dalle consultazioni elettorali di estendere la propria supremazia, il suo controllo egemonico sull'intera area moderata.
Riserve ed obiezioni sollevate da Martinazzoli sullo sviluppo del sistema politico italiano non appartengono al passato di un'illusione: fare i conti con la sua vicenda ed esperienza significa, né più né meno, che misurarsi con la transizione del presente, con il futuro che si intende assegnare all'Italia secondo un disegno di malcelata ispirazione egemonica, la stessa presenza sulla scena di una formazione, come quella voluta da Martinazzoli, di un partito a radicamento popolare di ispirazione cristiana e democratica. Considerando altresì gli sviluppi successivi e gli altalenanti posizionamenti della strategia di Pier Ferdinando Casini, è possibile oggi, sine ira ac studio, riconoscere finalmente che la “resistenza” del Ppi e dei suoi alleati ha contribuito a rendere possibile la stagione dell'”Ulivo”, come ha onestamente sottolineato lo stesso Romano Prodi. Così 70
Questo per dire che riserve ed obiezioni sollevate da Martinazzoli sullo sviluppo del sistema politico italiano, nonché gli interrogativi posti sulla presenza politica dei cattolici nel nostro Paese, non appartengono al passato di un'illusione, né rimandano ad una pura evocazione nostalgica; che fare i conti con la sua vicenda ed esperienza significa, né più né meno, che misurarsi con la transizione del presente, con il futuro che si intende assegnare all'Italia. Certo non è immotivata la percezione di una sorta di “inattualità” di Mino
Martinazzoli purché - vale per lui quanto egli stesso ha scritto a proposito di Aldo Moro – si riesca a “cogliere in questa 'assenza' il suono di una domanda che comunque tornerà ad essere pronunciata”. In effetti, dopo tutto, possiamo giudicare come ognuno di noi ritiene, il percorso di Martinazzoli, ma non si può non riconoscere l'afflato di una perlustrazione, la lungimiranza di un'intelligenza, la limpidezza di una fede, la testimonianza resa lungo un'intera biografia. Sino alla fine, sino alla conclusiva, accorata e dolente perorazione: “Parole senza pudore e senza qualità intasano la chiacchiera dei partiti. Le
fattucchiere del politichese riempiono di nulla questa infelice stagione politica. Forse non vale la pena di entrare nel fuoco della controversia, che è un fuoco fatuo. Conviene chiedere soccorso alle risorse dell'ironia e della pietà. Ci aiutano a ritrovare la misura umana della politica e risarcire la sua incompetenza della vita”. Appunto la vita – come a dire che il metro di misura della politica non si riduce al suo successo –, quella vita che l'”impolitico” Martinazzoli si è sforzato di ricondurre all'orizzonte senza confini della Verità.
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ALTRI CONTRIBUTI
La base sociale del berlusconismo Michele Prospero
insegna Scienza della politica presso l'Università “La Sapienza" di Roma
li statisti più influenti d'Europa ridono apertamente del presidente del consiglio italiano che ai loro occhi non ha più alcun credito e per questo nei vertici che contano la sua parola vale zero. Lo spettro greco che si espande assai veloce agita le cancellerie più potenti che temono che dal collasso italiano, sempre più vicino per l'inerzia del governo, possa scaturire un contagio devastante con danni enormi per tutto il vecchio continente. L'Italia è la grande malata d'Europa e la sua leadership politica viene percepita da tutti come la fonte principale del problema. L'asse franco-tedesco ha sfiduciato Berlusconi con una risata. Eppure, in prossimità del baratro, i sondaggi danno il Pdl arroccato sempre su un incredibile 2627 per cento dei voti. Come si spiega l'indifferenza di una porzione così ampia di elettorato circa la condotta spericolata di un capo di governo cui il mondo imputa la catastrofe del paese? La risposta abituale, che piace molto ad un parte assai influente della grande stampa d'opinione, insiste sul tassello alquanto abusato di una carenza etico-politica come dato
L'asse franco-tedesco ha sfiduciato Berlusconi con una risata. Eppure i sondaggi danno il Pdl arroccato sempre su un incredibile 26-27 per cento dei voti. Come si spiega l'indifferenza di una porzione così ampia di elettorato circa la condotta spericolata di un capo di governo cui il mondo imputa la catastrofe del paese? 72
ALTRI CONTRIBUTI originario della condizione pubblica italiana. Risuonano allora gli echi di una antica polemica, sempre recriminatoria nei suoi aspri toni, contro il carattere civico degli italiani insensibile per i suoi tratti genetico-strutturali ai forti e sublimi richiami del principio di legalità. In certe trasmissioni il canone etico era così enfatizzato che per mesi interi la chiave di lettura del berlusconismo era quella della mancata riprovazione morale di un corpo manipolato nei capelli, nelle rughe e quindi esecrabile proprio per la volontà di sfuggire alle cadenze del tempo e della natura. Il filosofo Umberto Galimberti arrivava persino a porsi in studio la domanda metafisica fondamentale: Berlusconi ha l'orgasmo? Tutte queste esercitazioni in chiave di cosiddetta biopolitica o di demolizione dell'ethos soggettivo del politico lasciavano del tutto scoperte le questioni di fondo di una patologia della politica che copre circa un ventennio ormai della vicenda repubblicana. Una comprensione del fenomeno Berlusconi ancora stenta ad emergere e l'analisi non riesce a suggerire con coerenza un paradigma interpretativo che sia condiviso e penetrante. Molti hanno letto la sua stella come una conseguenza di una favola venduta ad un elettore pigro affascinato dalla bella narrazione. Niente di più fuorviante. L'origine e la persistenza nel tempo di un consenso
piuttosto ampio a favore di Berlusconi affondano le radici non già nei labili capricci dell'immaginario ma nelle falde più profonde del materiale. Il cavaliere non appartiene alla curvatura mediatica della politica che si riproduce sub specie comunicazione ma rimanda alla politica che dà una rappresentanza distorta a ceti che contraggono ogni spirito pubblico. Una forma di alienazione di settori rilevanti dei ceti produttivi e del commercio che da devianza e rigetto del politico diventa governo: questa è la base sociale del berlusconismo. Il Cavaliere è l'espressione e il costruttore al tempo stesso di una doppia società. La prima è abitata dai lavori pubblici e privati che sono tassabili alla fonte. Su di loro ricadono le spese del mantenimento di uno Stato minimo che non ha più le risorse per disegnare una qualche cittadinanza sociale. Nel corso della cosiddetta seconda Repubblica questa porzione di società ha perso reddito, visibilità pubblica, qualità della vita, servizi. Quando questo mondo dei lavori riesce a trovare una sintesi e quindi a non subire la seduzione dell'antipolitica consente alla sinistra di andare al governo. In tempi di politiche pubbliche molto magre, è assai difficile mantenere il consenso di ceti che aspettano investimenti in beni collettivi e in assenza di politiche di inclusione i settori dell'elettorato popolare cadono in preda
Una forma di alienazione di settori rilevanti dei ceti produttivi e del commercio che da devianza e rigetto del politico diventa governo: questa è la base sociale del berlusconismo 73
ALTRI CONTRIBUTI alla disillusione, all'apatia, e in frange non piccole essi si rifugiano nel repentino passaggio a destra. Il rendimento perverso della destra al governo risveglia nei ceti popolari e in quelli del lavoro un residuale principio di realtà che li induce a un confronto comparativo con le esperienze maturate negli anni dagli esecutivi di centrosinistra che non avranno magari portato il sol dell'avvenire ma hanno comunque assicurato una più che dignitosa capacità di guida del paese. Tra il lavoro dipendente e intellettuale il congedo dal berlusconismo è stato abbastanza precoce e il fallimento economico della sua esperienza di governo non ha fatto altro che confermare le ragioni di un distacco avvenuto già in modo fisiologico. È nella seconda società, quella del commercio, della microimpresa e del lavoro autonomo, che neppure il principio di realtà, ovvero la percezione della crisi indotta da un governo imbelle, riesce a determinare l'abbandono del trasporto esercitato dal partito personale. Le riprovazioni etiche sui comportamenti allegri di queste vaste fasce sociali sono ricorrenti ma le lamentele sul perduto senso della dignità delle istituzioni lasciano purtroppo il tempo che trovano. Esiste un nesso molto stringente tra il peculiare tessuto produttivo fortemente polverizzato (si contano 5,2 milioni di partite Iva; il 51 per cento dei titolari dichiara meno di 15 mila euro all'anno) e l'alienazione politica a tratti disarmante che ha espresso il ventennio della stagnazione berlusconiana. Va esplorato il legame perciò profondo che esiste tra il partito personale e la microfisica dell'economia 74
ALTRI CONTRIBUTI dominata dal commercio, dalla piccola impresa e dal lavoro autonomo. La struttura economica del paese presenta una tale squilibrata composizione organica che marginalizza la produzione ad elevato contenuto tecnologicoinnovativo-manageriale. La ricerca di margini di competitività, impossibile da rintracciare nei settori ad alta composizione tecnico-cognitiva dove la presenza italiana è strutturalmente periferica, si insinua nei meandri della microfisica economica dove vantaggi di corto respiro possono essere offerti dal contenimento del costo del lavoro, dalla ricerca di vantaggi indiretti (lavori neri, irregolari, sommersi), dalla propensione patologica all'evasione fiscale e contributiva. Questa struttura sociale di per sé poco dinamica e incline alla stagnazione prolungata per l'assenza di grandi vettori di sviluppo condanna l'Italia a scivolare nell'alveo dei paesi semiperiferici perché costringe l'economia a rifugiarsi entro settori residuali e con la fuga generalizzata dal fisco prosciuga le condizioni minimali di politiche pubbliche e industriali. Una microfisica dell'economia e uno Stato reso minimo per la secessione fiscale dei ceti produttivi costituiscono una barriera insuperabile allo sviluppo e all'innovazione. La mancata crescita riscontrabile nel ventennio berlusconiano rinvia a questa condizione oggettiva che prevede il trionfo del blocco sociale dell'arricchimento privato perseguito però nell'immobilismo di sistema. I ceti sociali protagonisti di questa economia stagnante possono incamerare ampie ricchezze private e dedicarsi all'acquisto di 75
ALTRI CONTRIBUTI beni posizionali ma con le loro pratiche competitive poco edificanti (fatturazioni false, Iva non pagata, scaricamenti impropri, abusi nel ricorso a leasing di auto ed imbarcazioni, attività non profit fasulle che trasformano società commerciali volte al lucro in associazioni culturali) non solo destrutturano le basi fiscali della statualità moderna ma una ricchezza privata senza innovazione e dinamismo di sistema. Si tratta di una tipica manifestazione economico-sociale propria di un paese ormai semiperiferico in cui cioè convivono ampie zone di ricchezze private (nascoste al fisco ma esibite in pubblico) e una perdita di capacità competitiva del sistema-paese accentuata anche dall'impressionante degrado della funzione pubblica. La comparsa di questo blocco sociale che impone al paese una cadenza immobilista non è estranea alla esplosione della prima repubblica i cui partiti stentavano ormai a operare una mediazione tra le istanze particolaristiche (dei territori e dei ceti produttivi) e il governo della complessità. Nel 1990 emergeva una radiografia del paese piuttosto eloquente: i lavoratori dipendenti dichiararono in media 22,5 milioni di lire, i commercianti 19,9 milioni e gli artigiani 17,7 milioni. Il proprietario del negozio dichiarava 15,4 milioni mentre il suo commesso in media denunciava 19,4 milioni di lire. Quando gli imperativi del vincolo esterno imposero il rientro immediato dal debito per agganciare
il treno dell'integrazione europea qualcosa di profondo si ruppe negli assetti sociali del paese. Si aprì una lotta molto forte per stabilire chi avrebbe dovuto pagare i costi del risanamento. Il blocco sociale microproprietario e commerciale si oppose con ogni mezzo al destino amaro di pagare una parte dei costi. Quando nel 1992 venne concepita una minimum tax per far partecipare anche la microfisica dei ceti produttivi allo sforzo comune richiesto dai trattati di Maastricht, esplose senza tregua l'alienazione politica dei ceti medi e del commercio. La Lega subito scese in soccorso del popolo delle partite iva umiliato e si eresse a interprete politico intransigente degli interessi dei produttori e dei protagonisti infiniti del capitalismo diffuso basato sull'egoismo competitivo ostile a regole, sull'export indifferente al decollo della domanda interna, sulle commesse richieste soprattutto dalla Germania, sul ricorso a forme inaudite di sopralavoro. Dal blocco sociale della microimpresa venne un contributo decisivo non solo alla decapitazione dei vecchi partiti, percepiti come del tutto inadeguati a tutelare interessi diffusi, ma anche un apporto determinante per la comparsa di un nuovo sistema politico. In esso il microcapitalismo e il popolo del commercio e delle partite iva conquistavano qualcosa in più rispetto alla mera capacità di condizionamento delle politiche. Guadagnavano sul campo una
Una microfisica dell'economia e uno Stato reso minimo per la secessione fiscale dei ceti produttivi costituiscono una barriera insuperabile allo sviluppo e all'innovazione 76
ALTRI CONTRIBUTI vera e propria egemonia politica garantita solennemente dalla Lega e da Forza Italia. Per gli altri partiti la presenza di questo grande blocco sociale comportava il fallimento di ogni sforzo di redistribuire i sacrifici e di costruire le reti di una fedeltà fiscale. Qualsiasi misura fiscale verrà percepita come un affronto, come un segno di accanimento. Anche se gli studi di settore che fissano un reddito presunto sono elusi facilmente in quanto lasciano ampi margini per occultare il reddito reale, essi furono immediatamente bollati come misure degne di uno Stato di polizia fiscale. Se non si decodifica questo fondamento materiale dell'immaginario berlusconiano non si capisce nulla di un fenomeno così resistente nonostante i fiaschi colossali. Perché, allora, Berlusconi è dato ancora attorno al 27 per cento dei consensi malgrado il mondo intero denunci la sua presenza al governo come il problema strutturale del paese? La risposta la si rintraccia in questo dato: nel complesso, solo il 3,3 per cento delle partite iva dichiara redditi superiore ai 100 mila euro. Più nel dettaglio: oltre il 73 per cento degli addetti all'agricoltura denuncia oggi meno di 15 mila euro all'anno (lo 0,8 per cento si colloca oltre i 100 mila euro), sulla stessa cifra si attesta il 48 per cento degli imprenditori (solo l'1,5 per cento di essi dichiara oltre i 100 mila euro). Il 24,2 dei professionisti (redditi oltre i 100 mila euro sono denunciati solo dall'11,4 per cento di essi). Si potranno perfezionare gli strumenti di controllo, aggiornare i parametri, introdurre redditometri con indicatori efficaci di spesa. Ma questo è solo un aspetto del problema. Resta il nodo della convivenza di due società. Una è spremuta (la pressione fiscale nel 2009 è pari al 43,2
per cento, 4 punti in più della media europea), tendenzialmente impoverita (in Italia il reddito procapite è oggi più basso di quello di 10 anni fa). L'altra ha accumulato vantaggi, privilegi, esenzioni. Ma fino a quando? La fuoriuscita dal berlusconismo non può che coincidere con la ricomposizione delle due società quella del lavoro e quella dell'imprenditorialità diffusa. Le reti locali di solidarietà finora perseguite con i distretti, con le reti, con i consorzi situati nel microterritorio non garantiscono più una accettabile e dinamica base produttiva e non mancano i lampanti segnali di competitività decrescente. Le imprese sono strozzate non solo dai tradizionali imbuti burocratici ma da nodi strutturali e dalla mancanza di un agevole accesso al credito quale condizione per innovare. Ma può esserci un sistema creditizio robusto ed efficace in una condizione di doppia società nella quale cioè il lavoro perde funzione e smarrisce ogni capacità di risparmio e di consumo? Il ventennio berlusconiano conduce il micro capitalismo in un immane vicolo cieco. Concede evasione, elusione ma al caro prezzo della stagnazione e dell'assenza di politiche di sviluppo. Solo il centrosinistra può oggi proporre un nuovo patto sociale per la crescita.
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PAROLE DA SALVARE
Sussidiarietà primato della politica o poliarchia?
Giorgio Armillei Montini Un'opinione critica sull'intervento di Franco Monaco (tamtàm democratico numero 2)
I
n un ormai non recente libro sul pluralismo Paul Hirst spiega come non si debbano confondere i piani e che il pluralismo non è compatibile con ogni forma di molteplicità. Si danno così gradi di maggiore o minore apertura dei modelli pluralisti. E pluralità che non sono pluraliste ma, piuttosto, statocentriche. Ecco perché è bene non ragionare di sussidiarietà spacciandola come qualcosa di definitivamente coerente con un quadro pluralistico. Per molti sembra quasi che l'evoluzione legale comunitaria e la riforma costituzionale del 2001 abbiano compiuto il miracolo: ridurre l'invadenza dello stato italiano e articolare sapientemente i pubblici poteri. E il gioco è fatto, il pluralismo acquisito. Lo sviluppo di una dinamica sussidiaria e pluralista nella società italiana, prima ancora che nell'organizzazione dei pubblici poteri, è invece lento, difficile e contraddittorio. La partita tra sussidiarietà e primato della politica è aperta. Ben ha fatto dunque Franco Monaco, qualche settimana fa, a tentare un chiarimento se non altro per migliorare l'uso dei termini nel dibattito pubblico. E tuttavia anche Monaco sembra non sfuggire a quella sottile sindrome statocentrica con la quale una parte del PD legge il principio di sussidiarietà. Una lettura che guarda indietro, mentre sotto i nostri occhi lo stato perde quota, il diritto diventa globale, la regolamentazione è pubblica e privata allo stesso tempo. Le lenti, nel caso di Monaco, sono quelle di un certo dossettismo per il quale allo stato spetta comunque una funzione di sintesi della dinamica sociale. Il questo senso l'intervento di Monaco è particolarmente importante perché mostra una evidente volontà di
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PAROLE DA SALVARE continuismo con la famosa relazione di Dossetti del 19511. Una relazione non priva di accenti statalisti comuni a porzioni consistenti della sinistra socialdemocratica. Certo anche qui la sussidiarietà nasce in un orizzonte pluralistico, esprime la precedenza dei diritti della persona rispetto alla stato, ma poi finisce con l'affidare allo stato il soddisfacimento di quei diritti. È lo stato il curatore di ultima istanza del bene comune. L'interventismo “sano e virtuoso” dello stato, come dice Monaco, costituisce la norma di chiusura. Un'impostazione inutilizzabile oggi, come già disse Pietro Scoppola proprio a commento di quel testo di Dossetti: “viene riproposto in quella relazione quel tradizionale concetto di un 'bene comune' in sé definito e non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società”. In questa dialettica lo stato è solo uno tra gli attori, la politica è solo una tra le sfere sociali, come insegna il pensiero pluralista. Una visione dinamica e aggiornata del principio di sussidiarietà, sulla scia di queste riflessioni di Scoppola, porta dunque a diffidare dell'interventismo dello stato. Innanzi tutto perché in una visione sussidiaria e pluralista è la politica a ritrovare la sua funzione nella società e non lo stato a vedere riaffermato il suo ruolo. Gregorio Arena e Giuseppe Cotturri in un recente bel libro sulla sussidiarietà lo dicono chiaramente: la politica deve tornare al suo posto. A maggior ragione, si può dire, lo stato torna al suo posto. La sussidiarietà sancisce la distinzione tra ciò che è pubblico e ciò che spetta alla politica e, in seconda battuta attraverso la sua dimensione verticale, alla politica in forma di stato. Il primo non coincide con la seconda e meno che mai con lo stato. Né allo stato è chiesto di ridurre ad unità il molteplice. Alla sussidiarietà interessa in primo luogo la produzione di beni pubblici non la riaffermazione del ruolo dello stato. Un ruolo che in questa produzione non vanta nessun primato. Il bene comune, cioè la tutela dei diritti fondamentali della persona, spetta infatti a tutte le sfere sociali, nel linguaggio della costituzione è la Repubblica (e non lo stato) a riconoscere e garantire i diritti. È quello che in altri termini si definisce poliarchia, una visione della società nella quale la politica è forte, cioè capace di decidere, ma limitata, cioè priva di ogni sovranità sulle altre sfere sociali. Nella quale la regolazione pubblica non necessariamente, e anzi in misura sempre minore, è una _______________________________ 1. http://comitatidossetti.wordpress.com/scritti-di-don-giuseppe-dossetti/funzioni-e-ordinamento-dello-stato-moderno 79
PAROLE DA SALVARE regolazione statale. Nella quale i soggetti privati, anche quelli che operano in una logica di mercato, possono svolgere funzioni di rilievo pubblico e curare interessi di carattere generale. Nella quale più che di bene comune si dovrebbe cominciare a parlare di beni comuni, cioè a pensare in termini di differenziazione incomprimibile piuttosto che in termini di ricapitolazione unitaria. È la strada della sinistra modernizzatrice, dai new democrats americani al laburismo non socialista. Ma, ci si potrebbe chiedere, esiste una sussidiarietà di destra e una di sinistra? Monaco risponde di sì, ma anche questa è una risposta che, pur alimentando una sana prospettiva bipolare e dunque riconducendo la dialettica tra destra e sinistra ad un comune e riconosciuto quadro costituzionale, guarda prevalentemente al passato. Ci sono senza dubbio uno statalismo della destra e uno statalismo della sinistra, accomunati dalla diffidenza verso le dinamiche di tipo poliarchico. E, allo stesso tempo a sinistra come a destra, vi è un modo chiuso e statalista di interpretare la sussidiarietà. Il corporativismo si adattava ad una lettura statalista della sussidiarietà ma non era certo compatibile con il pluralismo e la poliarchia. Il contesto di interpretazione della sussidiarietà pesa infatti in modo determinante per definirne gli esatti contorni. La linea di frattura non passa però tra destra e sinistra ma tra una lettura aperta e poliarchica della sussidiarietà e una lettura chiusa e dirigistica. Vi è dunque un grande bisogno di articolare la frattura tra destra e sinistra dentro un quadro nuovo, come aveva tentato il PD nel 2007 e come hanno fatto i cattolici nella Settimana sociale di Reggio Calabria nel 2010. Diversamente da quanto si è fatto nel recente incontro di Todi, nel quale il richiamo simbolico ai principi ha oscurato ogni sforzo di articolazione dei contenuti. L'impressione è che, seppur con tutt'altre intenzioni, anche le categorie di Monaco non riescano a produrre contenuti capaci di rispondere alle domande di oggi. La Big Society di Cameron è di destra o di sinistra? Il si al referendum sui servizi pubblici locali è di destra o di sinistra? Sostituire al monopolio dello stato, della regione o di un comune un collusivo oligopolio privato è di destra o di sinistra? Sono domande da porre anche a qualche Presidente di Regione e a molti Sindaci, ideologicamente collocati nel campo della sussidiarietà ma sostanzialmente immersi in pratiche dirigistiche. La sinistra che vuole governare ha urgente bisogno di saper rispondere a queste domande. Occorre perciò riprendere la strada del pluralismo e della poliarchia, imboccata e troppo presto abbandonata. 80
NUMERI PRECEDENTI
L’Europa al bivio NUMER0 2 / OTTOBRE 2011
democrazia, partiti, partecipazione NUMER0 1 / AGOSTO-SETTEMBRE 2011
di nuovo l’uguaglianza NUMER0 0 / LUGLIO 2011
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