NUMERO 6 FEBBRAIO 2012
Per una ricostruzione civile .
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contributi di Massimo Adinolfi Lucia Annunziata Guido Baglioni Massimo Bordignon Stefano Ceccanti Mauro Ceruti Virginio Colmegna Enrico Letta Massimo Luciani Bruno Maggioni Valerio Magrelli Enrico Minelli Franco Monaco Laura Pennacchi Domenico Rosati Roberto Seghetti Raffaele Simone Walter Tocci
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Stefano Di Traglia Direttore responsabile
Franco Monaco Direttore editoriale
Alfredo D'Attorre Coordinatore del Comitato editoriale
Valentina Santarelli Segreteria di redazione
COMITATO EDITORIALE
Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini ................................................................ SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it
SOMMARIO FOCUS
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Vecchie macerie, nuovi mattoni Franco Monaco
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Sull’uso politico della religione Domenico Rosati
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Modernizzazione sì, ma benintesa Mauro Ceruti
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Restituire qualità alla classe dirigente Guido Baglioni
E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it
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Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico
La Costituzione: bussola preziosa o ferro vecchio? Massimo Luciani
Conflitto di interessi e perdita dell'innocenza Lucia Annunziata
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I guasti del “più mercato meno Stato” Laura Pennacchi
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Il padrone dei media testo di Valerio Magrelli introdotto da Massimo Adinolfi
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I talenti solo per la propria autoaffermazione?
ALTRI CONTRIBUTI
La parabola dei talenti letta da un biblista
Proprietario ed editore Partito Democratico Sede Legale - Direzione e Redazione Via Sant'Andrea delle Fratte n. 16, 00187 Roma Tel. 06/695321 Direttore Responsabile Stefano Di Traglia Registrazione Tribunale di Roma n. 270 del 20/09/2011 I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza Creative Commons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate
COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it
Bruno Maggioni La parabola dei talenti letta da un politico
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Europa, il muro da abbattere in questo 2012 Enrico Letta
Walter Tocci
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Restituire verità alle parole Raffaele Simone
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Il fisco, fattore di crescita o rapina di Stato? Massimo Bordignon, Enrico Minelli
Le idee forza dei progressisti europei Roberto Seghetti
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Sussidiarietà, no alla “reformatio” dall’alto della società Stefano Ceccanti
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La solidarietà tra compassione e diritti Virginio Colmegna
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Per una ricostruzione civile
FOCUS
Vecchie macerie, nuovi mattoni Franco Monaco
“R
è senatore PD
icostruzione” è la parola pregnante e impegnativa nella quale il PD raccoglie il compito e l'obiettivo cui attendere da subito e negli anni a venire. A quella prospettiva esso lega la propria proposta politica, il proprio programma per l'Italia, la propria politica delle alleanze: quella che si indirizza a un centrosinistra con cultura di governo di cui il PD 5
FOCUS
Per una ricostruzione civile
Non si tratta di allestire una semplice, ordinaria proposta di governo, ma di ripristinare la condizione di una normale dialettica lungo l'asse destrasinistra dopo un tempo appunto ricostruttivo
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rappresenti l'asse portante, ma che si allarga a forze moderate di centro e a movimenti civici. Un disegno che aspira a coinvolgere un vasto campo di forze esattamente in ragione della portata straordinariamente impegnativa dell'impresa. Non si tratta di allestire una semplice, ordinaria proposta di governo, ma di ripristinare la condizione di una normale dialettica lungo l'asse destra-sinistra dopo un tempo (grossomodo una legislatura) appunto ricostruttivo. Il senso è chiaro: si muove dal convincimento che, alle nostre spalle, stia una lunga stagione segnata da un'opera di decostruzione. Facendoci guidare dalla metafora dell'edificio lesionato e da ricostruire, in questo numero di Tamtamdemocratico, abbiamo messo a tema alcuni profili della decostruzione e, di riflesso, della ricostruzione della coscienza e del tessuto civile del paese. Un pezzo soltanto di un'azione decisamente più estesa e che ricomprende la ricostruzione materiale e morale, economica e istituzionale. Trattasi di profili che hanno a che fare con l'etica pubblica e la cultura politica diffusa (non tanto quella elaborata e riflessa, ma quella che forgia in concreto la coscienza collettiva e la classe dirigente in senso lato). Qualcosa che molto si avvicina al concetto di civismo e di riscatto civico così caro a Pier Luigi Bersani. Chi si dispone a ricostruire deve prima rimuovere le macerie che si sono accumulate nel tempo della decostruzione e predisporre i mattoni del nuovo edificio, la casa Italia. Questo il compito che abbiamo affidato agli autori: fissare i “guasti” di ieri e ancora di oggi e poi accennare agli elementi ricostruttivi. Solo qualche esempio. Ci vorremmo lasciare alle spalle una politica che esorcizza la verità e tutta si concentra sulla spasmodica ricerca del consenso, sulla rappresentazione a discapito della rappresentanza, sulla comunicazione e sulla visibilità a danno dei programmi. Così pure dobbiamo resuscitare una “coscienza costituzionale” (espressione cara a Dossetti, che la preferiva a quella più comune di patriottismo costituzionale): la nostra Carta fondamentale non è un ferro vecchio, ma un patrimonio da trasmettere alle nuove generazioni. La libertà non va confusa con l'arbitrio, la furberia, la sopraffazione e il privilegio. Le regole in genere non sono un fastidioso
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impiccio, ma la condizione di base di una convivenza civile, l'opposto della giungla sociale. Il merito, come suggerisce la parabola dei talenti, è certo un valore, ma non solo per la propria autoaffermazione. Vanno trafficati a beneficio dei molti. La modernizzazione non è omologazione, riduzione dell'uomo a una dimensione, ma polifonia dell'umano. Il mito del fare da sé, del farsi da sé, l'ebbrezza dell'idea che ciascuno è imprenditore di se stesso si rivela spesso una fallace illusione e confina ai margini chi non ce la fa. L'ideologia del mercato come supremo regolatore di ogni sfera della vita e dello Stato come nemico ci ha condotto a un modello di sviluppo di cui oggi misuriamo i guasti e persino i drammi. Il fisco rappresentato come rapina (il celebre “mettere le mani nelle tasche degli italiani” e l'irrisione polemica verso il Padoa Schioppa cui si attribuì una sciocchezza anziché il saggio richiamo al valore etico-sociale del fisco quale essenziale, moderno strumento di redistribuzione e di sostegno a quella straordinaria conquista di civiltà che è il welfare) ci costringe oggi a tardive campagne contro quella
FOCUS
L'ideologia del mercato come supremo regolatore di ogni sfera della vita e dello Stato come nemico ci ha condotto a un modello di sviluppo di cui oggi misuriamo i guasti e persino i drammi
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L'uso politico della religione, le lusinghe e gli ammiccamenti agli uomini di Chiesa, che purtroppo talvolta hanno fatto presa e che comunque sono l'esatto opposto del rispetto che si deve alla religione e a chi la rappresenta
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corrosiva piaga sociale che è l'evasione di massa a lungo incoraggiata dalla pratica dei condoni e da uomini di Stato prodighi di una predicazione irresponsabile. La solidarietà ridotta a paternalistico, compassionevole soccorso di ultima istanza, anzichÊ come anima delle politiche pubbliche. La celebrazione sino all'ostentazione dell'ignoranza, l'irrisione della cultura e del suo elitarismo (come non ricordare il Tremonti che, davanti al popolo leghista, si compiace di non leggere libri, lui che, sui giornali, sdottorava con sussiego facendo sfoggio di erudizione?). Il machismo dei potenti, la donna a loro disposizione e ridotta a tangente. L'uso politico della religione, le lusinghe e gli ammiccamenti agli uomini di Chiesa, che purtroppo talvolta hanno fatto presa e che comunque sono l'esatto opposto del rispetto che si deve alla religione e a chi la rappresenta. Con il dilagare degli atei devoti e dei devoti atei, cioè di coloro che ostentando il proprio pedigree cattolico si propongono di ricavarne una rendita politica e una quota negli organigrammi. Il linguaggio 'malato', oggetto di manipolazione, impoverito, ridotto a slogan e dunque l'impegno volto a una sua bonifica e a un suo arricchimento, per restituire verità alle parole. Basti questa sommaria, incompleta rassegna di macerie da rimuovere e di mattoni per ricostruire a dare la misura e la portata dell'impresa. Un'opera ricostruttiva di lunga lena che, ben oltre la politica, chiama in causa la cultura, i media, le agenzie educative a cominciare dalla famiglia e dalla scuola. Con questo numero Tamtamdemocratico si propone di suggerire sommessamente loro una griglia di problemi e di percorsi.
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Modernizzazione sì, ma benintesa Mauro Ceruti
è senatore PD
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utti i termini del vocabolario politico e culturale sono polisemici, ambigui, ambivalenti. E' inevitabile, dato che i modi, i tempi, i luoghi di chi li utilizza sono assai eterogenei, e i fini assai divergenti, se non contrastanti. Il binomio modernità/modernizzazione non sfugge a questo destino. Quando si parla della necessità di modernizzazione ci si riferisce al futuro, a un progetto non ancora compiutamente realizzato. Quando si parla di modernità, invece, il riferimento è al passato. L'età moderna è l'età che si è appena conclusa. E' un luogo comune dire che oggi stiamo vivendo nell'età post-moderna. L'età moderna, in senso proprio, si è sviluppata in seguito alla grande cesura storica del 1492, quando l'Europa travalica nel mondo, quando prende il via una prima globalizzazione. Nel volgere di pochi decenni, quattro stati dell'Europa occidentale (Spagna, Portogallo, Inghilterra, Francia) tracciarono nuovi itinerari commerciali attraverso gli oceani e posero le basi di una rete economica mondiale. Questi quattro paesi furono anche all'avanguardia nel processo di costruzione degli stati nazionali europei. Si impegnarono per fornire ai milioni di persone che li abitavano il senso di un'appartenenza comune, incarnata in una lingua, in una cultura, in una tradizione comuni, e quindi anche in riti, in memorie, in miti, in monumenti comuni. Il legame fra il sorgere 9
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Quando si parla di modernità, invece, il riferimento è al passato. L'età moderna è l'età che si è appena conclusa. E' un luogo comune dire che oggi stiamo vivendo nell'età postmoderna. L'età moderna, in senso proprio, si è sviluppata in seguito alla grande cesura storica del 1492, quando l'Europa travalica nel mondo, quando prende il via una prima globalizzazione
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dell'economia mondo e il sorgere degli stati nazionali è essenziale. Il nuovo protagonismo economico dei paesi dell'Europa occidentale imponeva loro la rimozione delle tradizionali economie locali di pura sussistenza e la costruzione di ampi mercati nazionali, fatti di relazioni dinamiche e innovative. Questo comportava la trasformazione dei sudditi in cittadini, che è un tratto essenziale della modernità politica. Modernità è favorire l'accessibilità reciproca, fisica e simbolica, fra gli individui e fra le collettività della nazione. Modernità è spostamento, è abolizione delle barriere, è dissoluzione dei circoli chiusi, è mobilità sociale, è innesco e accompagnamento del processo di individualizzazione. Pone regole condivise alla base della convivenza sociale. Quanto iniziava a delinearsi a livello nazionale, si delineò poi rapidamente anche a livello globale. Già nel corso dell'ottocento, la rivoluzione dei trasporti - ferrovie e navi transatlantiche -rimpicciolisce il mondo. E questo mondo rimpicciolito adotta regole comuni: una misura dello spazio comune (basato sulle unità metriche) e una misura del tempo comune (basato sul sistema dei fusi orari), che chiudono l'era della babele delle misure locali. Non possiamo certo considerare concluso il processo di modernizzazione, quando lo intendiamo come l'impegno politico per aprire i sistemi, per rendere permeabili i confini delle appartenenze tradizionali (delle corporazioni professionali, delle classi, dei centri di decisione), per dinamizzare ciò che è statico, per spostare il fuoco della società dalle rendite di posizione agli investimenti per il bene comune: investimenti in tempo, in energie, in idee, in fatica, in risorse materiali e culturali. Intesa in questo senso, la prospettiva integratrice e interattiva della modernità è tutt'altro che superata. Al contrario: è una bussola per il presente e il futuro, in particolare per un paese come l'Italia, che a entrare nella modernità (intesa in questo senso) ha cominciato molto tardi (soltanto con l'unità nazionale) e ancora, in questo processo, ha subito bruschi rallentamenti. Ma c'è un'altra faccia della modernità, che ha avuto e continua ad avere conseguenze molto oscure. Molti soggetti che hanno governato la modernità hanno degradato le loro politiche di integrazione nazionale o internazionale in politiche di omologazione e di omogeneizzazione unilaterali degli individui e delle collettività: omologazione dei loro stili e ritmi di vita, delle loro visioni del mondo, delle loro specificità culturali, persino dei loro bisogni e dei loro desideri.
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FOCUS
Tre sono state le forze storiche principali che hanno tratto vantaggi da questo fraintendimento, voluto o inconsapevole che fosse. La storia della modernità è in buona parte la storia del modo in cui queste tre forze storiche si sono susseguite e intrecciate. La prima forza unilateralmente omologatrice delle visioni e dei comportamenti collettivi è costituita dagli stessi sovrani assoluti degli stati nazionali: allo scopo di controllare, congelare a metà strada, non condurre alle estreme conseguenze la sempre maggiore richiesta di diritti da parte dei propri cittadini. La seconda forza è costituita dalle grandi potenze del mondo, e quindi in buona parte (ma non solo) ancora dagli stessi protagonisti europei: potenze coloniali e poi neocoloniali. Esse hanno rappresentato i propri comportamenti e le proprie visioni come il punto d'arrivo a cui tutti dovrebbero tendere: così, hanno definito la gran parte del mondo come costituita da paesi “sottosviluppati” e “in via di sviluppo”, per i quali l'unica prospettiva sarebbe stata quella di rinunciare alla propria storia e alle proprie modalità di relazioni sociali per conformarsi ("modernizzandosi") a modelli importati dall'esterno. La terza forza è stata l'impresa capitalistica nella sua fase fordista, convinta che l'efficienza e la redditività economica fossero garantite solo attraverso un modello meccanico delle relazioni del mondo del lavoro: e quindi nessuno spazio per gli stili e per le inclinazioni personali; ricerca della ripetizione e della ripetitività a tutti i costi; esaltazione della tecnica come quadro normativo a cui conformare quelle che erano definite “risorse umane”. Il mondo attuale è stato plasmato dall'intreccio di queste forze. Pensiamo a come nel novecento queste forze abbiano fatto sorgere altri sistemi di governo ancora più omologanti e ancora meno rispettosi delle specificità individuali e collettive: i sistemi di governo autoritari e totalitari. E pensiamo a come ancor oggi buona parte dei modelli produttivi dei cosiddetti paesi emergenti consista in uno strano intreccio fra la tradizionale prospettiva di governo autoritario e il lascito del fordismo. Tuttavia, da più da un secolo a questa parte, l'omologazione all'interno delle singole nazioni come pure negli scenari globali ha aperto anche la prospettiva concorrente del recupero di antiche identità e di antiche culture minoritarie, della produzione di nuove identità e di nuove culture e, almeno nelle nostre società, la prospettiva dell'individuo singolare, quale sintesi e identità idiosincratica. 11
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Rendere le diversità interne non un ostacolo ma una ricchezza per la nazione: questo è un compito essenziale per la ricostruzione civile dell'Italia, nel momento in cui le sfide lanciate da un mondo policentrico e policronico possono essere affrontate solo da società che siano nello stesso tempo aperte e coese
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"Come vivere insieme nella diversità": questa non è soltanto una questione scientifica (come ha bene mostrato Alain Touraine), ma una questione centrale della politica. In questo senso, allora sì, siamo in piena età post-moderna. Le regole di convivenza della modernità già ci appaiono troppo strette, troppo rigide. Andiamo in cerca di regole diverse, di diversa generalità, di diversa generatività. Il mondo appare irriducibilmente policentrico e policronico. Il “plebiscito di tutti i giorni” che ci consentirebbe di vivere insieme deve sorgere in un intreccio polifonico di tendenze e controtendenze, di difficile ma necessaria governabilità. Per quanto concerne la nostra società italiana, è fin troppo drammaticamente facile fare un bilancio critico degli ultimi decenni. Il più delle volte si è dimenticata l'adesione ai valori integrativi della modernità, mentre sono stati enfatizzati gli aspetti omologanti della modernità. Così si è prospettata l'industrializzazione generalizzata come unica condizione per lo sviluppo e il benessere di un territorio estremamente diversificato; così si è lasciato cadere a pezzi il nostro patrimonio culturale, si è eclissato il nostro umanesimo... Ma, soprattutto, è stata la nostra stessa costruzione nazionale all'insegna dell'omologazione, e non della valorizzazione delle diversità. E invece le diversità possono e devono essere governate attraverso nuove regole di convivenza e di interazione che non le isoli, bensì le ponga in una prospettiva di interrogazione e di co-evoluzione reciproca. Rendere le diversità interne non un ostacolo ma una ricchezza per la nazione: questo è un compito essenziale per la ricostruzione civile dell'Italia, nel momento in cui le sfide lanciate da un mondo policentrico e policronico possono essere affrontate solo da società che siano nello stesso tempo aperte e coese. A questo devono tendere i progetti di una nuova integrazione nazionale, della realizzazione di una compiuta società multiculturale, della valorizzazione di un equilibrio dinamico fra individuo e collettività: tutti punti cardine – strettamente connessi – dell'orizzonte strategico del Partito Democratico.
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La Costituzione:
bussola preziosa o ferro vecchio? Massimo Luciani
insegna Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza
È
una sorte assai strana quella che è toccata alla nostra Costituzione. Se, subito a ridosso della sua approvazione, vi fu chi la ritenne affetta da “presbiopia”, perché avrebbe guardato eccessivamente al futuro e ai fini da perseguire, senza curarsi abbastanza dei mezzi per raggiungerli, negli ultimi anni è stata sempre più frequentemente colpita dall'accusa di guardare al passato, di essere vecchia e incapace di servire da bussola nella perigliosa navigazione della contemporaneità. Di conseguenza, chi ancora oggi difende la Costituzione è definito conservatore e gli si rimprovera di non saper interpretare le esigenze del tempo presente. Credo sia ora di prendere coscienza, una volta per tutte, dell'infondatezza di queste critiche. Certo, la Costituzione è un prodotto del suo tempo. Non è dato agli uomini, nemmeno ai più lungimiranti, collocarsi
Chi ancora oggi difende la Costituzione è definito conservatore. Credo sia ora di prendere coscienza, una volta per tutte, dell'infondatezza di queste critiche
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Per una ricostruzione civile
Anche sul piano degli strumenti, la Costituzione seppe definire ciò che davvero si doveva fare, assegnando, con l'art. 49 Cost., ai partiti il compito di consentire ai cittadini, in essi associati, di concorrere a “determinare” la politica “nazionale”; collocando nel Parlamento la sede istituzionale del confronto politico tra le varie visioni partitiche; attribuendo al Governo lo svolgimento dell'indirizzo politico
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fuori del proprio tempo e ragionare con la testa di chi vivrà in una generazione a venire. Ciononostante, la nostra Costituzione ha questo, di particolare: che ha saputo cogliere e interpretare le correnti profonde della società italiana e le esigenze strutturali della nostra comunità politica. Costanti molto radicate, dunque, e destinate a durare. Anzitutto, la Costituzione ebbe ben chiara la centralità della questione dell'unità nazionale. Per la verità, essa fu posta già da Vittorio Emanuele Orlando nel discorso inaugurale che il vecchio uomo politico (e Maestro del diritto pubblico italiano) tenne all'apertura dei lavori, quale decano presidente provvisorio dell'Assemblea Costituente, il 25 giugno del 1946, ma venne ripresa nel corso di tutte le discussioni della Costituente. Ve n'è traccia ovunque, nel testo della Costituzione e la preoccupazione di chi l'approvò fu proprio quella di disegnare un accordo capace di fondare le basi di una nuova unità, come disse, nel discorso che immediatamente precedette la votazione finale, il 22 dicembre del 1947, Meuccio Ruini, osservando che “tutti i rappresentanti del popolo, tutte le correnti del popolo da esse rappresentate possono dire: questa Costituzione è mia, perché l'ho discussa e vi ho messo qualcosa”. Qualcuno potrebbe sostenere che la questione dell'unità sia diventata, oggi, inattuale? Lucida, poi, fu la consapevolezza che le diseguaglianze economico-sociali hanno un effetto di disgregazione della comunità politica (lo sapevano, del resto, già Aristotele e Platone!) e non meno lucida fu l'indicazione della strada che si sarebbe dovuta seguire per evitare questo rischio, alimentando un processo di emancipazione di tutti e di ciascuno, chiaramente tracciato dal secondo comma dell'art. 3. Qualcuno potrebbe negare che i giorni che viviamo mostrino appieno tutti i vizi dell'abbandono di quella prospettiva di emancipazione? Infine, anche sul piano degli strumenti, la Costituzione seppe definire ciò che davvero si doveva fare, assegnando, con l'art. 49 Cost., ai partiti il compito di consentire ai cittadini, in essi associati, di concorrere a “determinare” la politica “nazionale”; collocando nel Parlamento la sede istituzionale del confronto politico tra le varie visioni partitiche; attribuendo al Governo lo svolgimento dell'indirizzo politico. Qualcuno potrebbe negare che la crisi della politica e la stessa crisi dell'unità nazionale siano state
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contemporanee all'offuscamento della capacità aggregativa dei partiti, allo sgretolamento delle loro strutture, all'affermarsi dell'insulsa ideologia della democrazia senza partiti? Mi sono limitato a ricordare questi passaggi essenziali, anche se molto altro si potrebbe dire, perché è proprio sul terreno così dissodato dalla Costituzione che si deve muovere l'iniziativa politica di chi davvero guarda al futuro del Paese. Compito prioritario (e lo stesso Presidente della Repubblica ha fatto cenno al problema nel discorso pronunciato in occasione del recente conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Ateneo bolognese) è quello della costruzione di partiti capaci di assolvere ai compiti complessi che l'art. 49 Cost. affida loro. Il passato non ritorna, sicché è assurdo illudersi o temere di resuscitare formule ormai tramontate, ma è certo che la condizione nella quale i partiti si trovano attualmente non possa essere tollerata. È sempre la Costituzione a dirci che le diseguaglianze sociali debbono essere progressivamente (ma in fretta) ridotte, non solo perché questo dovrebbe essere suggerito da un “naturale” senso di giustizia, ma perché la stessa tenuta del vincolo politico è - come accennavo - condizionata dalla saldezza dei comuni interessi economico-sociali. Qui c'è bisogno, davvero, di risvegliarsi dal torpore che da
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Ogni intervento sul corpo vivo della Costituzione, però, deve essere operato con la prudenza e la perizia che la difficoltà del compito impone: l'esperienza dell'infausta riforma del Titolo V nel 2001 deve far riflettere e non va ripetuta
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anni ha afferrato anche le forze più progressiste del panorama politico italiano, che hanno largamente ceduto al richiamo di un'ideologia neoliberista che ha prodotto non solo disagio sociale, ma addirittura gravi inefficienze economiche. I classici dell'economia politica chiamavano appunto politica la loro disciplina perché sapevano bene che l'economia non è mera tecnica, non è “oggettiva” determinazione di grandezze e di strategie, ma è una disciplina intrisa di presupposti ideologici e politici, che reclama il governo da parte della politica, che non può essere lasciata a se stessa. Anche qui la guida della Costituzione è preziosa, perché è proprio la Costituzione a chiarire che l'iniziativa economica privata è libera, sì, ma deve essere regolata e indirizzata per poter essere in armonia con l'utilità sociale. E l'utilità sociale coincide appunto con quel processo di emancipazione individuale e collettiva del quale ho detto in precedenza. Infine, la questione decisiva dell'unità nazionale. Si parla molto del patriottismo costituzionale come del cemento che dovrebbe tenere insieme le democrazie pluralistiche, attraversate come sono da linee di frattura molteplici e profonde. È una tesi - molto diffusa - che non mi convince. Il patriottismo costituzionale è una condizione necessaria dell'unità politica, ma non può essere una condizione sufficiente. Il vincolo sociale e politico opera in misura significativa attraverso il diritto, ma ha bisogno anche di qualcosa di diverso: di miti nazionali, di istituzioni fortemente legittimate, di simboli condivisi. E ha bisogno soprattutto di soggetti e strategie capaci di costruire quell'unità, di Parlamenti che sappiano discutere e mediare, di partiti che riescano a coagulare consenso, di politiche che assicurino crescita economica e sviluppo sociale. Una volta di più, tutto si tiene. La Costituzione l'aveva compreso bene e ci aveva dato strumenti potenti per interpretare e governare il futuro. Non è a lei che si devono addebitare i fallimenti del presente. Tutto questo non deve far cadere nell'apologetica della Costituzione. Proprio perché, come dicevo, è un prodotto del suo tempo, è naturale che di quel tempo porti i segni e che sia opportuno più di un aggiustamento. Ogni intervento sul corpo vivo della Costituzione, però, deve essere operato con la prudenza e la perizia che la difficoltà del compito
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impone: l'esperienza dell'infausta riforma del Titolo V nel 2001 deve far riflettere e non va ripetuta. Con prudenza e con perizia, dunque, si potrĂ , comunque, mettere mano al bicameralismo, ai meccanismi di razionalizzazione della forma di governo parlamentare (sfiducia costruttiva in primis) e a qualche altro aspetto di meno stringente importanza. La Costituzione stessa ha previsto una propria parziale obsolescenza, tanto vero che ha disegnato il procedimento per la propria revisione. Ma da qui a dire che si tratta di un ferrovecchio ne corre. E quelli che lo dicono dovrebbero dimostrare, prima, di possedere chiavi di lettura del presente e di progettazione del futuro piĂš efficaci di quelle consegnateci dalla Costituzione. Sinora non lo hanno fatto. E dubito molto che sarebbero in grado di farlo.
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I guasti del “più mercato meno Stato” Laura Pennacchi è economista
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l trentennio neoliberista, che ha incubato la crisi economico-finanziaria globale esplosa nell'autunno del 2007 e ancora oggi – dopo cinque anni – drammaticamente in corso, ha sintetizzato la sua esaltazione del mercato e la sua avversione allo Stato e alle istituzioni nel motto “meno regole, meno tasse, meno Stato”, fatto proprio dalle destre. Nella sostanza una potente ideologia ultraortodossa ha predicato un drastico ridimensionamento della presenza pubblica nelle attività economiche e sociali, sostenendo che l'intervento dello Stato è sempre e comunque negativo per il benessere collettivo, che i governi dilapidano risorse e che ogni tentativo di redistribuire la ricchezza dà vita a forme di perseguimento delle rendite. Ne è seguita in tutti i paesi occidentali governati dalle destre (le cose sono andate ben diversamente nei paesi in via di sviluppo) un'ondata di deregolamentazioni, riduzioni delle tasse per i ricchi, privatizzazioni. Come non ricordare che tra i primi atti del governo Berlusconi-Tremonti insediatosi nel 2001 ci furono l'abolizione dell'imposta di successione per i grandi patrimoni, la soppressione del reato di falso in
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bilancio, la proclamazione dell'“arretramento del perimetro pubblico” affidato alla Finanziaria di quell'anno? Non si è trattato di fenomeni che hanno inciso, per quanto profondamente, solo sulla materialità del vivere, perché quei fenomeni hanno investito le menti e le coscienze, coinvolgendo direttamente la dimensione antropologica: le macerie da rimuovere per ricostruire un edificio civile, quindi, sono particolarmente spesse ed ingombranti. Con la pulsione di buschiana memoria verso lo starving the beast (“affamare la bestia”, e la bestia sono gli Stati e i governi) – da realizzare proprio con la riduzione delle tasse che “affama” l'operatore pubblico sottraendogli le risorse necessarie a finanziare servizi, prestazioni sociali, politiche industriali – con un colpo solo si è operata una terribile delegittimazione dell'istituto della tassazione (equiparata a furto, esproprio, estorsione, mentre le costituzioni del Novecento la assumono come un “contributo” al bene comune) e si è aggredita a morte l'idea stessa della responsabilità collettiva, un'idea alla base della civiltà moderna nata dall'illuminismo secondo cui la cittadinanza è costruita da individualità responsabili che condividono responsabilità comuni, cittadini che si debbono qualcosa l'un l'altro in quanto “concittadini”. Così la dimensione antropologica è stata influenzata da uno speciale legame tra ideologia “ultraortodossa” e visione “ultraindividualistica”, poiché la predicazione di un ruolo pubblico ristretto e angusto si è basata su una visione altrettanto ristretta e angusta del rapporto tra individuo e collettività, volta a soffocare le istanze solidaristiche: l'individuo è un atomo, non esistono responsabilità collettive perché “non esiste la società”, secondo le parole di Margaret Thatcher. Le diseguaglianze e lo spostamento della distribuzione del reddito a danno del lavoro e a vantaggio del capitale e delle rendite finanziarie hanno svolto un ruolo cruciale nel modello di sviluppo neoliberista basato su “più mercato, meno Stato”, animando tutti e tre i processi in cui tale modello si è estrinsecato: la finanziarizzazione (a metà 2008 il valore nominale delle quote di derivati trattati nelle borse era di 80 trilioni di dollari, mentre di quelli scambiati fuori mercato toccava i 684 trilioni, con un totale di 764 trilioni, 14 volte il PIl globale), la commodification (una mercificazione estrema di tutto perfino del genoma umano, che non ha
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Nella sostanza una potente ideologia ultraortodossa ha predicato un drastico ridimensionamento della presenza pubblica nelle attività economiche e sociali, sostenendo che l'intervento dello Stato è sempre e comunque negativo per il benessere collettivo, che i governi dilapidano risorse e che ogni tentativo di redistribuire la ricchezza dà vita a forme di perseguimento delle rendite
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Le diseguaglianze e lo spostamento della distribuzione del reddito a danno del lavoro e a vantaggio del capitale e delle rendite finanziarie hanno svolto un ruolo cruciale nel modello di sviluppo neoliberista basato su “più mercato, meno Stato”, animando tutti e tre i processi in cui tale modello si è estrinsecato
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risparmiato il lavoro, la moneta, la terra, le tre cose su cui gli ammonimenti di Karl Polaniy a non mercificare erano risuonati più forti), la denormativizzazione (la sostituzione della norma e della legge con il negozio e il contratto privato e la generalizzazione della lex mercatoria). Un sistema economico e finanziario mondiale costruito sui global imbalances – tale per cui ha lungamente veicolato i guadagni di produttività verso i profitti e le rendite, compensato la stagnazione dei salari e la perdita di potere d'acquisto dei lavoratori dei paesi sviluppati con la facilitazione dell'accesso all'indebitamento (anche nelle forme perverse dei subprime) da una parte, dall'altra con l'importazione a basso prezzo di beni di bassa qualità prodotti da lavoratori sottopagati nei paesi in via di sviluppo – non poteva che generare enormi problemi allo stesso tempo di domanda e di offerta e incredibili diseguaglianze. Come è stato messo in rilievo ripetutamente da Paul Krugman, agli inizi del 2000 negli USA il rapporto tra la retribuzione mediana di un lavoratore che sta nel mezzo della piramide sociale e quella di un top manager – che era di 30 volte nel 1979 – è salito a 150 volte e perfino a 400-500 volte. I mutamenti nella struttura reddituale, a loro volta, hanno agito come detonatore per la sollecitazione dell'indebitamento e per l'innovazione finanziaria, trasformando la finanza in un predatory system, per riprendere le parole di Stiglitz, e facendo della alterazione della distribuzione del reddito un elemento fondamentale del modello di sviluppo neoliberista. Tutto ciò esplode con la crisi del 2007/2008, la quale si manifesta subito non come un epifenomeno o un incidente di percorso ma come crisi strutturale, crisi di un intero modello di sviluppo che con essa deflagra svelando la fragilità delle sua basi materiali e la fallacia dei suoi presupposti teorici: i mercati non sono né razionali né efficienti, i mercati non si autoregolano e, anzi, lasciati a se stessi, rovinano e trascinano nella loro rovina l'intera vita e dignità umana. Se si guarda all'esplosione della disoccupazione e al configurarsi della problematica del lavoro come vera e propria “catastrofe sociale”, si può ben dire a questo punto che è in gioco una questione di civiltà, che un capitalismo così rovinoso è messo in discussione nei suoi fondamenti di civilizzazione e di legittimazione. Ma che la dottrina dell'intrinseca razionalità ed efficienza del mercato e della sua automatica capacità di regolazione
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abbia fatto tragico fallimento non vuol dire che il neoliberismo sia stato sconfitto e sia oggi in ritirata. Il neoliberismo risorge anche se in forme nuove, per esempio non disdegnando di ricorrere macroscopicamente alle risorse pubbliche per salvare le banche e il sistema finanziario internazionale (trasformando così immensi debiti privati in immensi debiti pubblici) ma anche ad altri tipi di intervento pubblico, al punto che oggi si parla di “neoliberismo statalista”. Del resto, il neoliberismo non è mai esistito in forme pure, sempre in forme spurie: negli anni di Reagan e dei Bush negli Usa si è dato vita a qualcosa che alcuni studiosi hanno definito hidden developmental state (Stato “sviluppista” nascosto) e Pinochet, uno dei suoi inventori, associò al neoliberismo e alle privatizzazioni in politica economica e politica sociale un decisionismo violento e un autoritarismo sanguinario nella soppressione della democrazia cilena. Il punto è proprio questo: il ricorso allo Stato che compie il neoliberismo dà vita a una sorta di “keynesismo privatizzato” e di predator state al servizio degli interessi delle corporations e dei poteri forti, il quale implica
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I mercati non sono né razionali né efficienti, i mercati non si autoregolano e, anzi, lasciati a se stessi, rovinano e trascinano nella loro rovina l'intera vita e dignità umana
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comunque da una parte l'erosione delle funzioni più nobili e trasparenti della “statualità”, dall'altra l'abbattimento dei benefici pubblici, specie quelli del welfare state, per ceti medi e lavoratori. Si spiega così il singolare paradosso a cui oggi siamo di fronte: l'intervento pubblico è stato invocato quando si trattava di salvare banche e intermediari finanziari dall'abisso e ora che bisognerebbe sostenere i redditi dei lavoratori, rilanciare la “piena e buona occupazione”, dare vita a un nuovo modello di sviluppo, se ne pretende un drastico ridimensionamento sotto forma di tagli vertiginosi alla spesa pubblica, specie quella sociale (per pensioni, sanità, istruzione, servizi, ecc.), spesso veicolata da regioni ed enti locali su cui la scure si abbatte in modo cieco. Agisce in tal senso la generalizzazione delle linee di austerità draconiana imposte ai paesi europei – quando l'epicentro della crisi si è spostato in Europa e ha aggredito i debiti sovrani – dal duo Merkel-Sarkozy, in conseguenza di una diagnosi gravemente sbagliata, invertente la relazione di causa-effetto e misconoscente che i debiti pubblici sono cresciuti per fronteggiare la crisi e non viceversa. L'austerità draconiana da un lato compromette le prospettive di crescita facendo precipitare i paesi europei nella recessione, dall'altro riapre spazi alle privatizzazioni in tutte le direzioni e al depotenziamento del ruolo dello Stato, nuovamente ridotto a “Stato minimo”. Dunque, il riassestamento del rapporto stato-mercato indotto dalla crisi globale, lungi dall'essere divenuto un falso problema, si configura anche come potential battle – come dicono i democratici americani – tra settore pubblico e settore privato, lungo il cui asse torna a scorrere una forte discriminante destra/sinistra, anch'essa tutt'altro che defunta nonostante l'afasia e l'inerzia della sinistra stessa. Per questo il riequilibrio del rapporto stato-mercato investe sfere di grande portata e non è leggibile solo con l'immagine del “pendolo” che, alternativamente, si sposta dal pubblico al privato e viceversa (immagine comunque non in grado di fornire un'interpretazione delle ragioni dell'oscillazione). La crisi economico-finanziaria ha attizzato il fuoco sotto problematiche che covano da tempo un potenziale esplosivo, dalla crescita delle diseguaglianze agli squilibri territoriali, al depauperamento del capitale sociale e dei patrimoni infrastrutturali, alla dequalificazione dei sistemi educativi e delle strutture di welfare, al riscaldamento climatico e alle 22
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questioni ambientali generali. Trattare queste problematiche implica tornare a un incisivo intervento pubblico – che non si limiti e a regolare e a liberalizzare – e ridare cittadinanza a una parola troppo a lungo negletta: programmazione (Giddens, il teorico della terza via semiliberista di Tony Blair, dice addirittura “pianificazione”). La programmazione e la politica industriale assumono questioni che il mercato non può risolvere: la scelta di quanto investire (e perciò risparmiare) nell'aggregato, la direzione che le nuove tecnologie debbono intraprendere, la decisione di quanto peso e quanta urgenza dare ai problemi ambientali, il ruolo da assegnare alla scuola, alla conoscenza scientifica, alla cultura. Inoltre, ogni crisi, tanto più se severa come l'attuale, forza e accelera il ritmo del cambiamento strutturale. Questa consapevolezza è tanto più cruciale oggi che la crisi globale fa maturare condizioni da Great Transformation à la Polaniy, fornire risposte alle quali è un compito immane, che richiede uno spettacolare sforzo di produzione di pensiero, di idee, di categorie per porre al centro di un nuovo modello di sviluppo green economy, beni comuni, beni sociali. Solo un rinnovato intervento pubblico a scala europea, inteso in termini di “sfera pubblica” alla Hannah Arendt (quindi con un'architettura istituzionale plurale contemplante una molteplicità di attori e di istituzioni), potrà affrontare le esigenze che oggi si pongono:
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La prima riguarda l'opportunità che tutti i paesi e le aree (come, in particolare, quella europea) facciano maggiormente leva per il proprio sviluppo sulla loro domanda interna. Ciò è necessario se si vogliono correggere i global imbalances all'origine della crisi. Del resto Keynes fin dal 1944 segnalava che paesi che avessero puntato esclusivamente sulla crescita trainata dalle esportazioni sarebbero stati inevitabilmente in conflitto tra di loro.
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L’intervento pubblico è stato invocato quando si trattava di salvare banche e intermediari finanziari dall'abisso e ora che bisognerebbe sostenere i redditi dei lavoratori, rilanciare la “piena e buona occupazione”, dare vita a un nuovo modello di sviluppo, se ne pretende un drastico ridimensionamento sotto forma di tagli vertiginosi alla spesa pubblica
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Correlata alla opportunità di puntare sulla domanda interna c'è la seconda esigenza, la quale concerne la necessità di fare maggiore spazio nelle nostre economie e nelle nostre società a consumi collettivi, anche considerando quanto esteso sia stato il consumismo individualizzato deteriore indotto dal neoliberismo. Consumi collettivi richiedono 23
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investimenti pubblici. L'operatore pubblico deve svolgere una funzione di traino, ma gli strumenti a cui può ricorrere sono molteplici e tutti aperti alla possibilità di coinvolgere gli operatori privati, specie se si sfrutta la dimesione europea, come avviene nelle proposte di eurobonds e di europrojects
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La terza esigenza si manifesta nella congiunzione redistribuzione/allocazione, perché mai come nella situazione presente questioni di allocazione e questioni di redistribuzione appaiono inseparabili. Al centro debbono starci non solo gli interrogativi sui meccanismi di acquisizione dei guadagni di produttività, sui modelli contrattuali, sulla regolazione del mercato del lavoro, sulla possibilità di fare ricorso a “minimi” e “massimi” retributivi, ma anche quelli su come creare direttamente lavoro per iniziativa di agenzie pubbliche e strutture istituzionali ispirate al New Deal, del tipo di quelle alle quali sta lavorando Obama (si pensi alla banca pubblica per le infrastrutture).
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La quarta esigenza è quella di considerare simultaneamente domanda e offerta. Per l'Europa, ad esempio, è vitale utilizzare pienamente la forza della domanda interna. Ma anche gli interventi sulle componenti allocative, di offerta, sono molto rilevanti: insieme al Keynes osservatore dell'“instabilità finanziaria” – il quale, nella ricostruzione di Minsky, mira ad integrare economia reale ed economia finanziaria proprio per neutralizzare i rischi di instabilità intrinseci al funzionamento di un sistema di mercato – va riscoperto il Keynes attento alle questioni di offerta di bassa “efficienza marginale del capitale”, quando il calo delle attività è indotto, più che da carenze di risparmio, da attese negative sulla redditività degli investimenti.
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La quinta esigenza, infine, riguarda la necessità di interconnettere innovazione tecnologica e innovazione sociale, vale a dire di finalizzare un intensificato processo di ricerca di base e di ricerca scientifica e tecnologica alla soddisfazione di nuovi bisogni e di nuove emergenze sociali: benessere umano e civile, rivoluzione verde, sviluppo delle città e di territori risanati anche grazie a una agricoltura di qualità, invecchiamento demografico, salute, immigrazione integrata e così via. 24
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I talenti
solo per la propria autoaffermazione? Dal Vangelo secondo Matteo (Capiterà)
infatti come di un uomo che, partendo per un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità. E partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò 25
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subìto a trafficarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche chi ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Ma chi aveva ricevuto un solo talento, andò a scavare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del padrone. Dopo molto tempo arriva il padrone di quei servi e regola con loro i conti. Chi aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti, ecco, ne ho guadagnati altri cinque». Gli disse il padrone: «Bravo, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi chi aveva ricevuto due talenti… e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due». Rispose il padrone: «Bravo, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e ho nascosto quanto mi hai dato sotto terra: ecco prendi quello che mi hai dato». Il padrone gli rispose: «Servo cattivo e infedele, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti perciò dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti, perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E il servo buono a nulla gettatelo fuori nelle tenebre, là sarà pianto e stridore di denti. (Mt. 25,14-30)
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La parabola dei talenti letta da un biblista Bruno Maggioni
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talenti (contrariamente a quanto comunemente si pensa) non sembrano essere le doti o le capacità che Dio ha dato a ciascuno, ma piuttosto le capacità o i compiti che a ciascuno vengono affidati. Difatti la parabola racconta che il padrone diede "a chi cinque talenti, a chi due, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno". I primi due servitori (il secondo è la ripetizione del primo) sono l'immagine dell'operosità e dell'intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto. Sono perciò definiti "buoni e fedeli”. Il terzo invece è pigro, passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a conservare, e perciò è definito "cattivo e pigro" e "buono a nulla". Il contrasto sembrerebbe dunque fra operosità e pigrizia, intraprendenza e passività. A questo punto bisogna osservare che nell'economia della parabola i primi due servitori hanno semplicemente la funzione di mettere in risalto - per contrasto - il comportamento del terzo, che diversamente dai primi due nasconde il suo tesoro in una buca. Anche le prime due scene di rendiconto hanno lo scopo di attirare l'attenzione sulla terza. E' perciò chiaro che dobbiamo concentrare l'attenzione sul comportamento del servo cattivo, ed è altrettanto chiaro che la chiave dell'intera parabola è il dialogo fra il servo pigro e il padrone.
L’ascoltatore è tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta, invece, la pretesa del padrone. Ma è un giudizio sbagliato.
I1 vero rapporto con Dio I1 servo buono a nulla ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c'è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto: nulla di più. Il servo non intende correre rischi, e 27
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mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si ritiene sdebitato: «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo denaro: ti rendo quanto mi hai dato». Anche l'ascoltatore è tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta, invece, la pretesa del padrone. Ma è un giudizio sbagliato. L'ascoltatore della parabola è invitato a cambiare prospettiva: non più quella della gretta obbedienza e della paura, ma quella del coraggio di assumere le opportune iniziative. Il servo della parabola è come rimasto paralizzato dalla paura del rendiconto. La paura lo ha reso inerte e dimissionario, incapace di correre qualsiasi rischio. E così è divenuto un burocrate pieno di scrupoli, ma senza alcuna intraprendenza.
Rivolgendosi alla comunità cristiana del suo tempo, la rimprovera per la sua scarsa intraprendenza nella fede. Non c'è posto per comunità intorpidite, rinunciatarie e paurose di fronte al progetto evangelico
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Vigilanza e responsabilità L'evangelista Matteo – che ha raccolto questa parabola dalla tradizione – ha pensato bene di inserirla nel suo discorso escatologico per illustrare l'imperativo della vigilanza, che poi non è altro che il modo di vivere del cristiano “nel tempo presente”. Il servo vigile e fedele – insegna Matteo – è colui che, superando il timore servile e una gretta concezione del dovere religioso, prende l'iniziativa di atti concreti, generosi e coraggiosi. Attendere il padrone significa assumere il rischio della propria responsabilità. Nel giorno del rendiconto Dio non vorrà semplicemente di ritorno quanto ci ha dato, ma vorrà molto di più. E a parte il giorno del rendiconto, è anche vero che per coloro che si assumono il rischio delle decisioni si aprono prospettive sempre nuove. Chi, al contrario, si chiude in se stesso per paura e rifiuta le occasioni che gli si offrono, diviene sterile e sempre più inutile. E' forse questo il senso della frase enigmatica: “a chi non ha gli sarà tolto anche quello che ha”. Ovviamente la parabola – sviluppando il contrasto fra operosità e passività – non intende essere un'esaltazione dell'efficienza. La prospettiva del parabolista è unicamente religiosa. Rivolgendosi alla comunità cristiana del suo tempo, la rimprovera per la sua scarsa intraprendenza nella fede. Non c'è posto per comunità intorpidite, rinunciatarie e paurose di fronte al progetto evangelico. Probabilmente il servo “pigro” non è l'uomo che non compie opere buone, ma l'uomo conservatore e dimissionario, ripetitivo, pauroso
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La parabola dei talenti letta da un politico Walter Tocci
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a parabola dei talenti è forse la più misteriosa di tutto il Vangelo. È condizionata da un'interpretazione letterale che viene spontanea al lettore moderno, anche se ne stravolge il senso spirituale. La parola talento trae il significato proprio dal fraintendimento della parabola e nonostante questa semantica fallace raccoglie una fortuna indiscutibile nell'epoca nostra. Le parole sono come le persone e a volte può succedere che un improvviso successo faccia perdere la misura, susciti un'ebbrezza a discapito della sobrietà, giustifichi una sicumera contro qualsiasi dubbio. Soprattutto come per le persone, se la fortuna è accompagnata col potere l'euforia può diventare anche pericolosa e dovrebbe suscitare gli anticorpi del senso critico. Ho molto amato la parola talento e proprio per questo mi duole e mi insospettisce vederla sempre più spesso frequentare le ville dell'establishment. Nella lettura della parabola ci si sofferma di solito sul messaggio positivo dei due servi - che mettono a frutto i talenti donati dal signore - per suggerire un generico orientamento morale dell'impegno individuale. Gli esegeti più di parte si spingono addirittura verso un riduzionismo economicistico che fa della parabola una sorta di manifesto del capitalismo ante litteram. Il centro del racconto, invece, è nel messaggio negativo del terzo servo che sotterra il talento e per questo viene condannato dal signore all'oscurità delle tenebre. Qui colpisce l'eccesso della pena rispetto ad un comportamento che per quanto criticabile non sembra così meritevole di disprezzo. Sergio Quinzio, sapiente e appassionato lettore della Bibbia, ha difeso le buone ragioni di prudenza del terzo servo, le quali non giustificano, almeno a prima vista, la 29
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Nella lettura della parabola ci si sofferma di solito sul messaggio positivo dei due servi - che mettono a frutto i talenti donati dal signore - per suggerire un generico orientamento morale dell'impegno individuale. Gli esegeti più di parte si spingono addirittura verso un riduzionismo economicistico che fa della parabola una sorta di manifesto del capitalismo ante litteram
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durezza dell'invettiva, “servo malvagio e infingardo”, né della condanna al “pianto e stridore dei denti”. Possiamo quindi immaginare che tutto ciò sia apparso inaspettato al condannato, il quale non poteva certo immaginare di arrecare un dispiacere tanto grande al donatore di talenti e anzi prova a giustificare la propria prudenza con la durezza del signore: “so che sei un uomo duro che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. Il terzo servo, quindi, è un peccatore inconsapevole. Non solo nasconde il talento, ma sotterra anche la propria colpa. La sua prudenza è del tutto giustificata secondo la morale vigente e diventa peccato solo nel disvelamento di un'altra verità. La parabola è collocata in un punto singolare del Vangelo, subito prima del giudizio finale in cui il Figlio dell'Uomo “siederà sul trono della sua gloria” e premierà i giusti, anche loro inconsapevoli di aver amato Dio assistendo chi aveva fame o sete... E di fronte alla loro inconsapevolezza il Signore disvela un'altra verità: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Dalla parabola al giudizio, quindi, si snoda un racconto unitario del passaggio dall'oscurità delle tenebre alla luce della gloria, dove sia il peccato del servo sia la grazia del giusto trovano ciascuno il proprio riconoscimento di fronte al Signore. L'intero capitolo 25 di Matteo è un discorso sul Riconoscimento. È la più misteriosa perché è l'ultima parabola e si comprende solo all'interno del discorso escatologico. Quando invece viene letta isolatamente decade in una morale edificante. Il contesto chiarisce anche la struttura temporale del racconto. Esso non si svolge nel tempo ordinario in cui ci domandiamo cosa è giusto fare secondo i valori correnti, ma indica il tempo che resta prima dell'avvento di un nuovo Regno che sovverte i consueti modi di vita. Non è quindi un discorso morale sul buon comportamento del cristiano nella società secondo l'esempio dei primi due servi, ma è un ammonimento a non fare come il terzo servo che conserva sotto la terra del conformismo le proprie paure, invece di prepararsi per un'altra verità. L'eccesso di colpa del terzo servo - ovvero la crux interpretativa del brano - è una sfida che vuole tenere svegli i discepoli perché non si addormentino prima della Rivelazione, non a caso nella liturgia della Parola la lettura è
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accompagnata dal misterioso passo paolino del ladro che viene di notte. Come un baluginio, la parabola mostra la luce del Riconoscimento del Signore, seppure ancora incerta e solo riflessa. Resi più accorti dall'esegesi possiamo allora tornare alla parola talento, così fortemente implicata nella parabola. Ovviamente, qui il nostro discorso lascia qualsiasi riferimento di fede per collocarsi sul terreno politico-sociale, ma con la convinzione che una critica teologica, almeno per una sorta di analogia formale a prescindere da qualsiasi contenuto religioso, possa illuminare il senso critico della contemporaneità, più di quanto in passato la certezza teologica abbia coltivato il dogmatismo della cultura dominante. L'inciampo di un riferimento teologico, infatti, può evitare il pericolo che il dibattito culturale mainstream, sempre più esposto all'omologazione, scivoli su un piano levigato e privo di asperità. Talento indica una cosa che vale. Il suo valere è sempre rispetto a qualcosa o a qualcuno. La parola non solo esprime, ma istituisce la relazione, dal momento che il valere viene riconosciuto da qualcuno. Il talento è un bene relazionale che suscita un riconoscimento. Proprio in quanto figura del riconoscimento la parola è legata alla parabola da nessi tanto profondi quanto trascurati. Il valere del talento si esprime in tanti modi che in diverse condizioni possono sia esaltarlo sia deprimerlo. I modi dell'avere e del potere tendono ad accumulare il talento, nel caso positivo per metterlo a disposizione di un'impresa personale o collettiva oppure nel caso negativo per sottrarlo allo scambio con gli altri. Nel primo caso il riconoscimento del talento è un movimento che si diffonde senza consumarsi, come sottolinea la bella metafora di Thomas Jefferson della luce della candela che serve ad accenderne tante altre senza mai spegnersi. Nel secondo caso, invece, il talento deperisce perché viene a mancare la linfa vitale di qualsivoglia forma di riconoscimento. Questo è appunto il terzo servo che vive ancora tra noi, è il peccato sociale degli ultimi trenta anni che sotterra il talento nel possesso e nel dominio. E' l'ideologia dell'establishment teorizzata da un libro di grande successo mediatico (R. Abravanel, Meritocrazia) che vorrebbe organizzare la scuola secondo il principio seguente: “la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura 31
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Talento indica una cosa che vale. Il suo valere è sempre rispetto a qualcosa o a qualcuno. La parola non solo esprime, ma istituisce la relazione, dal momento che il valere viene riconosciuto da qualcuno. Il talento è un bene relazionale che suscita un riconoscimento
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offre un'ottima previsione del suo reddito a trentasette anni”. I paesi anglosassoni che si sono spinti su questa strada hanno indebolito le antiche virtù di mobilità sociale, nonostante le retoriche sulle pari opportunità. In quei modelli sociali il terzo servo ha operato sul lato del possesso, come primato della rendita finanziaria che mette in sofferenza l'economia reale, soprattutto il lavoro. In Europa, invece, il terzo servo ha operato sul versante del potere ed è prevalso il modello tecnocratico che rischia di aiutare il declino del vecchio continente, come si vede nella crisi attuale. Allontanando la decisione politica dall'animo dei popoli si risveglia il lato oscuro delle recriminazioni e degli stereotipi che sembravano ormai superati dall'utopia dell'unità politica. E la lunga storia del talento europeo rischia di incagliarsi nell'aridità tecnocratica. Il possesso e il dominio implicano che l'Altro sia un soggetto indifferenziato - un consumatore o un suddito, che non abbia cioè un volto sociale né una voce civile – e quindi rendono impossibile una vera relazione di riconoscimento. Paul Ricoeur (Finitudine e colpa), rileggendo a modo suo il famoso concetto hegeliano, ha definito il riconoscimento un desiderio del desiderio, cioè un movimento come quello dello scambio della luce della candela. Il vero talento è la grazia del riconoscimento da parte dell'Altro. Ed è anche grazia nel senso che è ricevuto come dono. Il possesso e il dominio sotterrano il talento in quanto negano il riconoscimento, come il terzo servo che nasconde il dono ricevuto perché non è in grado di vedere l'Altro nel proprio orizzonte esistenziale. La sua colpa è prima di tutto un'incapacità di riconoscimento. A questo punto possiamo tornare indietro dal significato della parola a quello della parabola per interpretarne il passo più sconvolgente: “a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Ora è più chiaro: chi cura il talento come desiderio del desiderio lo accrescerà nell'abbondanza e al contrario chi pensa di conquistarlo per una solipsistica affermazione lo perderà inesorabilmente. Questo passo di Matteo è sempre suonato come uno scandalo per l'edificante morale cristiana che lo legge senza badare al discorso escatologico. La parabola diventa comprensibile solo nella parusia di un'altra verità, che per la fede è un'attesa del Regno e per la politica è l'impegno a ribaltare il pensiero dominante.
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Restituire verità alle parole Raffaele Simone
insegna Linguistica all’Università di Roma Tre, autore de “Il mostro mite”, Garzanti
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l linguaggio politico si distingue in due sfere: quella del discorso pubblico (che si rivolge ai cittadini e agli avversari) e quella del discorso interno (che si rivolge ai membri e ai sostenitori delle forze in questione). In epoca moderna, nella prima ha preso un posto speciale il linguaggio che si adopera nei media, che sono diventati il principale canale di trasmissione dei messaggi dalle forze politiche ai cittadini. Entrambe le sfere contengono vari attrezzi: un vocabolario per indicare le cose e le persone, delle formule (popolarmente dette tormentoni) che servono a far presa e a lasciare un ricordo immediato, una retorica per argomentare, una raccolta di simboli (logo, bandiere, immagini, colori, canti e canzoni…). Questo insieme di risorse è in parte soggetto ai cambiamenti della storia, in parte stabilmente legato alle tradizioni di una forza politica. In ogni caso, costituisce, nella sua globalità, un patrimonio – o per meglio dire un tesoro – che ogni forza politica elabora con cura e conserva gelosamente come un bene culturale. Naturalmente, lo stato di conservazione di questo patrimonio dipende anche da una varietà di fattori esterni. Il primo è il grado di successo che un certo partito riscuota: a un insuccesso prolungato corrisponde inevitabilmente il deperimento di una parte di quel linguaggio (formule, retoriche, vocabolario…). Un altro è il variare della chimica del partito: se le sue componenti si modificano e ciascuna porta con sé un linguaggio proprio, il risultato potrà variare in 34
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modo serio, e non necessariamente in meglio. Infine, va considerato il comportamento degli avversari: una delle loro mosse può esser proprio il tentativo di distorcere e inquinare il patrimonio di linguaggio politico dell'altro, per esempio associandolo a esperienze storiche negative e comunque connotandolo criticamente. Questi brevi argomenti aiutano a capire come oggi il linguaggio di quella che chiamiamo sinistra, un po' dappertutto in giro per l'Europa ma specialmente in Italia, stia attraversando una perturbazione senza pari, che lo ha sfibrato e privato della sua forza. In Italia, i vent'anni di berlusconismo, con la perniciosa radiazione populistica che hanno diffuso ovunque, hanno dato al linguaggio pubblico un colpo fatale. In senso neutro si è trattato di un'innovazione senza pari; quanto al merito, di un crollo. Argomenti volgari e ad personam, un vocabolario aggressivo e sboccato, semplicismi insopportabili per temi complessi, dileggio sistematico dell'avversario (l'appellativo di comunisti impiegato a ogni piè sospinto) hanno distorto il clima comunicativo della politica senza che nessuno, dalla parte avversa, trovasse il modo di ribattere in modo efficace. A ciò si aggiunge un codice mediatico studiato a tavolino con ricorso a sistemi inusuali praticati a freddo (overtalking, urla selvagge, iterazioni ossessive, volgarità e insinuazioni personali adoperati come metodo), che è penetrato nella coscienza del fragile pubblico italiano lasciando non poche rovine sul terreno. Nel contempo il berlusconismo inventava un vocabolario spicciolo di basso rango ma di grande efficacia: mettere in campo, scendere in campo, fare un passo indietro, remare contro, odio e invidia personali, ecc., che rappresenta banalmente la vita come un campo di calcio o una rissosa camerata, che i suoi avversari non solo non hanno rifiutato e rintuzzato, ma assorbito e rimesso in circolazione. Nel contempo il linguaggio dell'altra parte (che non si chiama più sinistra ma centro-sinistra…) si scoloriva come conseguenza del cambiare della chimica sottostante. La fusione di una componente ex-marxista e una exdemocristiana, quale che sia la valutazione storica da darne, non ha prodotto (né poteva) una corrispondente fusione del patrimonio comunicativo, ma ha inevitabilmente favorito la virtuale dissoluzione delle tradizioni dell'una e dell'altra. Il segretario attuale del partito azzarda con prudenza, nei suoi comizi, l'appellativo compagni e compagne, gli “ideali” 35
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Una delle tante rifondazioni a cui la sinistra dovrebbe applicarsi è proprio questa: rifondare il proprio patrimonio linguistico e comunicativo, espellendo quegli oggetti diventati inservibili, salvando il salvabile e rinnovando ab imo tutto l'arsenale
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(parecchio scoloriti anche quelli) non hanno più un nome preciso, le bandiere hanno perduto i colori e quanto ai canti si è scivolati… fino a Ivano Fossati! Una certa “paura linguistica” del passato ha diffuso ovunque i suoi effetti. Alla base sembra esserci la paura di far paura. Basterà pensare che nel PD il termine socialismo coi suoi derivati e prefissi è scomparso: non appare nello statuto, non negli interventi, non nei logo, persino antichi segretari lo evocano mettendo gran mani avanti… Ciò è dovuto, a mio avviso, da un lato alla nuova, non ancora consolidata, chimica del partito e dall'altro al brutale impatto, non contrastato, del linguaggio dell'avversario. Come effetto complessivo, il principale partito di opposizione italiano ha eroso il suo codice comunicativo e non riesce a inventarne un altro, né interno né esterno. Grave, ma meno, la situazione in Francia e in Spagna. I recenti congressi dei rispettivi partiti socialisti hanno mostrato che, malgrado il prolungato martellamento delle forze avverse (sarkozysti e PP non sono club di dame…), le due sinistre hanno conservato buona parte del proprio tesoro linguistico: intanto la famiglia di parole attorno a socialismo appare tranquillamente ovunque, e poi gli argomenti hanno “nomi di sinistra” (bene o male che ciò sia, naturalmente). Perfino i simboli, i canti e i gesti sono quelli a cui la tradizione di sinistra è attaccata. Basterà ricordare il tono realmente socialista (secondo alcuni analisti, anche troppo) delle proposte presentate in gennaio 2012 da François Hollande per la campagna presidenziale; oppure ad alcuni argomenti, se vogliamo schematici ma sicuramente netti, usati da Carme Chacón nel congresso PSOE di qualche giorno fa (“¡Si decimos socialismo, es socialismo!”). Chi in Italia avrebbe il coraggio di dire e fare cose di questo genere? In conclusione, una delle tante rifondazioni a cui la sinistra dovrebbe applicarsi è proprio questa: rifondare il proprio patrimonio linguistico e comunicativo, espellendo quegli oggetti diventati inservibili (io ci metterei, ma è una posizione impopolare, anche gli appellativi compagno e compagna), salvando il salvabile (io ci metterei la famiglia di socialismo) e rinnovando ab imo tutto l'arsenale. Ma, siccome il vocabolario serve per chiamar le cose, prima di inventare nuove parole bisognerà aver inventato le cose a cui applicarle!
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Il fisco,
fattore di crescita o rapina di Stato?
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Massimo Bordignon
insegna Scienza delle Finanze presso l'Università cattolica di Milano
Enrico Minelli
insegna Economia Politica presso l'Università di Brescia
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l movimento che in dicembre ha occupato la piazza davanti a Wall Street si è dato il nome 'We are the 99%'. Forse non tutte le persone scese in piazza lo sapevano, ma la forza di quelle parole non deriva da percezioni soggettive o da letture ideologiche, ma da un lavoro di ricerca imponente, disponibile a tutti sul sito Top World Incomes Database, che ha permesso di mettere in luce la massiccia redistribuzione dei redditi verso il percentile più alto avvenuta in molti paesi a partire dagli anni Ottanta. Il sito è un esempio di come sia possibile oggi, grazie ad internet, un nuovo modo di fare economia politica, mettendo conoscenze tecniche e informazioni statistiche al servizio di un dibattito pubblico più trasparente e basato sui fatti. All'origine del progetto c'è la determinazione di un economista francese, Thomas Piketty, che da anni è impegnato nello studio, teorico ed empirico, della distribuzione del reddito e delle ricchezza. I suoi studi con Emmanuel Saez hanno permesso di 'aprire la scatola' dei meccanismi di redistribuzione del reddito negli Stati Uniti e, prima dello slogan di Occupy Wall Street, hanno ispirato, nel 2009, il programma economico di Barack Obama. L'ultimo lavoro dei due economisti, in collaborazione 37
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Il sito è un esempio di come sia possibile oggi, grazie ad internet, un nuovo modo di fare economia politica, mettendo conoscenze tecniche e informazioni statistiche al servizio di un dibattito pubblico più trasparente e basato sui fatti
con Camille Landais, (Per una rivoluzione fiscale, La Scuola Editrice, 2011).è da poco disponibile anche in Italia1. Il libro tratta di una specifica proposta di riforma del sistema fiscale francese, ma è interessante anche per i lettori italiani per almeno due motivi, uno di metodo e l'altro di contenuto. Anzitutto anche in questo caso, come nei lavori precedenti di Piketty e Saez, ritroviamo la volontà di 'parlare di tasse' senza complessi, riconoscendo la centralità del sistema fiscale nel patto sociale tra cittadini, e dunque l'importanza di garantire trasparenza ed accessibilità a tutte le informazioni utili per il dibattito pubblico. In Francia come in Italia i temi fiscali sono spesso utilizzati in modo strumentali a fini elettorali (esemplare, da noi, il caso dell'annuncio dell'abolizione dell' ICI a pochi giorni dalle elezioni del 2008). Ciò è possibile anche perché la stratificazione e complessità dei sistemi fiscali li rende opachi e illeggibili da parte dei cittadini; se non c'è una visione chiara della distribuzione di costi e benefici diventa molto facile fare appello all'interesse privato di categorie e gruppi. L'obbiettivo dichiarato del libro è di contrastare questa tendenza, dando ai cittadini uno strumento utile in vista delle elezioni presidenziali francesi di quest'anno. E' chiaro però che il metodo proposto vale ben al di là di questa occasione specifica. Gli autori chiariscono fin dalla prime pagine che il loro scopo non è quello di argomentare a favore di un aumento o di una riduzione della pressione fiscale. Nel primo capitolo riccostruiscono la storia, comune a tutti i paesi dell'Europa continentale, dell'aumento progressivo dell'imposizione fiscale. Nell'Unione Europea il rapporto medio tra tassazione (inclusi i contributi sociali) e prodotto interno lordo (PIL) è attorno al 40%. Nei paesi del nord dell'Europa raggiunge il 50%, mentre Francia ed Italia si situano nella zona alta della classifica con rapporti del 42-44%. Queste aliquote sono oggettivamente alte, ma il punto di vista degli autori è che esse riflettano un equilibrio politico sul livello di servizi pubblici (pensioni, sanità, istruzione, etc.) che i cittadini dei paesi occidentali si aspettano dallo Stato in cambio delle imposte pagate. Una tabella ricostruisce quanto
_______________________________ 1. Landais, Piketty, Saez “Per una rivoluzione fiscale”, La Scuola Editrice, 2011. 38
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ogni cittadino paga e riceve sotto forma di trasferimenti e servizi. In ogni caso non è questo il tema di discussione. Tutta l'analisi accetta come un dato il livello totale del prelievo e si concentra invece sulla composizione dello stesso: come si ripartiscono le tasse tra classi di reddito? Quanto pesano in percentuale su lavoro e capitale? Il principale contributo metodologico del libro consiste nel quantificare per la prima volta in modo preciso il peso effettivo del sistema fiscale nel suo complesso (tenendo conto cioè di tutte le imposte, i trasferimenti, le esenzioni) su ciascuna fascia di reddito. Si scopre così che in Francia, malgrado un' aliquota marginale massima più alta che in Italia, il sistema nel suo complesso è regressivo: il peso totale delle imposte è proporzionalmente più basso per il dieci per cento più ricco della popolazione che per il resto dei contribuenti. Tutti i dati a sostegno di questa e delle altre affermazioni contenute nel libro sono disponibili sul sito internet ad esso collegato, dove è anche possibile, in modo molto semplice, simulare gli effetti redistributivi di diverse proposte di riforma fiscale. Nei mesi trascorsi dalla pubblicazione in Francia, l'impatto di questo grande esercizio di trasparenza è stato significativo: politici e commentatori sia di destra che di sinistra sono stati costretti ad abbandonare toni fumosi ed ideologici e a confrontarsi su proposte e cifre concrete e verificabili. Rendere trasparenti gli elementi del patto fiscale che lega i cittadini non è solo utile per modificare il tono del confronto politico ma, specialmente in momenti di crisi e di ridefinizione degli equilibri, anche per provare a ripensarne
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Il principale contributo metodologico del libro consiste nel quantificare per la prima volta in modo preciso il peso effettivo del sistema fiscale nel suo complesso su ciascuna fascia di reddito
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La discussione su questi temi si è recentemente riaccesa anche in Italia, intorno alla questione specifica dell'opportunità o meno di una 'patrimoniale una tantum'. E' tuttavia riduttivo impostare il discorso solo in termini 'emergenziali’
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gli elementi fondamentali. Su questo piano il libro offre spunti interessanti sul tema, cruciale anche in Italia, della ridistribuzione del carico fiscale dal reddito da lavoro ai patrimoni. Dal confronto tra le cifre della Contabilità Nazionale e quelle contenute nelle dichiarazioni dei redditi emerge infatti come meno del 20% dei redditi da capitale si ritrovi nella base imponibile dell'imposta progressiva sui redditi. In particolare, sfuggono ampiamente all'imposizione progressiva i redditi derivanti dal patrimonio, immobiliare e finanziario, che sono tassati con imposte proporzionali sostitutive o non tassati affatto. E' quest'assenza, assieme al peso straordinario assunto dai contributi sociali, che spiega la sostanziale regressività del sistema. La discussione su questi temi si è recentemente riaccesa anche in Italia, intorno alla questione specifica dell'opportunità o meno di una 'patrimoniale una tantum'. E' tuttavia riduttivo impostare il discorso solo in termini 'emergenziali'. Un riequilibrio dell'imposizione dal lavoro ai redditi di capitale e al patrimonio è necessario non tanto e non solo per ragioni di giustizia distributiva, ma, più in profondità, per garantire l'efficienza e la sostenibilità del sistema. Le ricerche degli autori, riprese nel libro, ricostruiscono l'evoluzione storica del rapporto tra patrimoni e redditi in diversi paesi europei, e mettono in luce, in un'ottica secolare, l'eccezionalità del periodo intercorso tra gli anni cinquanta ed ottanta del Novecento. Dopo le due guerre, l'accumulazione di patrimoni è ripartita da livelli storicamente molto bassi, generando un equilibrio economico e sociale in cui prevaleva una percezione dinamica e meritocratica. Il rapporto tra ricchezza e reddito è poi cresciuto stabilmente negli ultimi cinquant'anni fino a tornare negli ultimi anni ai livelli tipici dei primi anni del secolo scorso. Questi andamenti di lungo periodo sono importanti perché esistono legami forti tra il rapporto ricchezza/reddito, la crescita economica, l'equilibrio sociale di un paese: una società in cui la ricchezza ereditata dal passato prevale su quella prodotta ingessa la mobilità sociale, deprime le spinte innovative e alla lunga rischia di corrodere la base stessa del consenso all'economia di mercato. Per capire l'origine di questi fenomeni bisogna guardare
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alla differenza tra tasso medio di rendimento del capitale e tasso di crescita del reddito. Quando il tasso di crescita del reddito è elevato, come in Europa e negli USA nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, la ricchezza prodotta cresce più velocemente di quella ereditata, e il rapporto tra patrimonio totale di un paese e reddito nazionale si stabilizza su valori moderati. In situazioni di crescita debole, come al'inizio del Novecento, o come nella situazione attuale, in cui i tassi di crescita sono più vicini all' 1% che al 2%, mentre il tasso medio di rendimento del capitale è dell'ordine del 4 - 5%, il rapporto patrimonio/reddito tende inevitabilmente a crescere, e il ruolo della ricchezza ereditata a prevalere su quello del risparmio individuale. Queste analisi dunque contrastano con l'immagine diffusa di un capitalismo post-patrimoniale, in cui conterebbero più lo sforzo individuale e il capitale umano che la ricchezza accumulata. Con un valore della ricchezza nazionale tornato su valori di sei/sette volte il reddito nazionale, paesi come la Francia o l'Italia di oggi sono in realtà più simili alla 'società di rentiers' di inizio Novecento di quanto si pensi. L'economia 'meritocratica' prevalsa nel secondo dopoguerra si spiega, secondo questa interpretazione, come una fase transitoria causata dalla distruzione di patrimoni durante le due guerre mondiali e dalle pressioni sociali per imposte fortemente progressive, non certo da un'evoluzione naturale del sistema, che invece, lasciato a se stesso, rischia di finire in un circolo vizioso di bassa crescita e alta rendita. Un'imposta progressiva sul patrimonio, non una tantum, con base ampia ed aliquote basse, lungi dall'essere un male necessario per superare l'emergenza, o peggio un'espropriazione ingiustificata e con effetti depressivi sull'economia, potrebbe allora essere, se accompagnata da un alleggerimento della tassazione dei redditi da lavoro e da impresa, un elemento centrale di un nuovo patto sociale capace di scongiurare lo scenario deprimente di un'economia di 'redditieri poveri'.
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La solidarietà
tra compassione e diritti Virginio Colmegna
è sacerdote e presidente della Casa della carità
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ttorno alla parola solidarietà vi sono evidentemente molte macerie da rimuovere, luoghi comuni da superare, ma anche mattoni per ricostruire un volto nuovo della solidarietà che parta principalmente da una consapevolezza della responsabilità verso gli altri, da una cultura che valorizzi la relazione e il legame tra le persone, la promozione della dignità della persona e dei molteplici mondi che caratterizzano il vivere sociale. Dire solidarietà significa responsabilità verso gli altri, impegno orientato al bene comune e questo è il dovere esigente della politica; ma dire così significa anche riempire la solidarietà di passione, di condivisione, di sollecitazione a vivere ascoltando e guardando quanto succede attorno, vicino e lontano. Dire solidarietà significa parlare di comunità umana, di centralità della persona con i suoi diritti esigibili, portando con sé a volte anche la necessità di andare contro corrente. Ogni persona, ogni famiglia chiede di essere sostenuta nel proprio percorso di appartenenza ad una cittadinanza condivisa, porta in sé prima di tutto una domanda di giustizia sociale, che alimenta ed esige la concretezza operativa della solidarietà. Tutti questi principi sono entrati in un modo straordinariamente attuale nella nostra carta costituzionale che rimane un riferimento strategico, anche formativo. Praticare solidarietà esige una ricchezza culturale ma anche una vita piena di emozioni, compassione, condivisione, una motivata spiritualità. Questo è il legame tra solidarietà e carità, che rende la solidarietà non già compassionevole ma corroborata da pathos. Irrompe un linguaggio nuovo che non va confinato nella separatezza della semplice testimonianza in una logica autoreferenziale, ma deve diventare anche impegno e cultura politica. 42
Dire solidarietà significa responsabilità verso gli altri, impegno orientato al bene comune e questo è il dovere esigente della politica
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La loro testimonianza oggi più che mai è estremamente attuale: non può esserci un aiuto solidale per gli ultimi in modo separato ma bisogna intervenire sulle fragilità di una società intera, condividendo la sofferenza delle persone senza essere indifferenti, per riscoprire l'importanza dei legami sociali e familiari, la cui mancanza è tipica delle nuove povertà
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La disuguaglianza sociale odierna assume forme e carattere multi-dimensionale e non può essere riletta soltanto in base all'occupazione, al reddito, alle condizioni di vita. Per dirla con A. Sen: "L'eguaglianza in uno spazio tende a coesistere di fatto con la disuguaglianza di un altro” (1992). Dire solidarietà significa immettere nella società una dinamica di cambiamento: marginalità sociale, povertà, fragilità, vulnerabilità non sono categorie astratte ma sono volti, storie di vita che domandano un forte ed esigente percorso di condivisione. Questo percorso si alimenta non solo con competenze, conoscenze, saperi ma anche con il cuore, con un'interiorità, con una cultura di ascolto e compassione. Questa solidarietà che parte dall'ascolto di quello che alcuni sociologi chiamano non luoghi o vite di scarto indica che ci sono luoghi caldi, utopie vissute che debbono riscaldare la storia che viviamo. Penso a quel legame profondo tra mistica e politica che uomini come La Pira, Mazzolari, Dossetti, Lazzati hanno indicato. La loro testimonianza oggi più che mai è estremamente attuale: non può esserci un aiuto solidale per gli ultimi in modo separato ma bisogna intervenire sulle fragilità di una società intera, condividendo la sofferenza delle persone senza essere indifferenti, per riscoprire l'importanza dei legami sociali e familiari, la cui mancanza è tipica delle nuove povertà. Il grado di civiltà di una società si misura soprattutto nel modo in cui essa si rivolge ai cittadini senza esclusione, perché solidarietà e carità sono una straordinaria sintesi da vivere e promuovere: la carità investe la solidarietà di questa domanda di giustizia , come diceva Don Milani:“ la carità senza giustizia è una truffa”. Ma la carità immette nell'impegno solidale il sentimento e la coscienza della fraternità, la spinge anche su sentieri che non si misurano soltanto sull'utilità sociale, la colloca anche nei sentieri della cronicità, delle emergenze, nel mezzo delle esclusioni sociali. Il Cardinale Martini indicava l'eccedenza della carità come forma dell'impegno che avvolge la solidarietà e la spinge su frontiere che non si misurano soltanto sul consenso, sull'utilità sociale, e sui risultati quantitativi, legati al consenso e spesso di corto respiro. Riportare la solidarietà su queste frontiere significa superare l'assistenzialismo, come erogazione paternalistica di risorse non discusse e che affievolisce la centralità dei diritti. Con uno slogan potremmo dire: "non dare come carità compassionevole ciò che è esigito come diritto". In questa
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prospettiva la carità e la compassione premono sulla solidarietà, chiedendo evidentemente di non diventare un'azione sovrastrutturale ma capace di riguardare la centralità della persona, la sua soggettività, mettendo in moto stili di vita e di cura che interrogano anche l'ambiente nel quale si vive. Una politica carica di sentimenti di mitezza e sensibilità fa sì che queste parole non siano soltanto un galateo di buone usanze comportamentali, ma urgenze e sollecitazioni anche politiche che allontanano l'indifferenza. Cresce sempre di più l'esigenza di una politica vissuta nell'orientamento della solidarietà ma anche una politica che interpelli le scelte personali, coniugandole con la coerenza di vita, la trasparenza e la legalità, punti di partenza imprescindibili per promuovere progetti solidali. Mi permetto di richiamare qui l'esperienza che sto vivendo in Casa della carità, nelle sue azioni di ospitalità verso le persone più vulnerabili, un'ospitalità segnata anche dall'emergenza, ma sempre carica di profonde relazioni umane e di interrogativi, inquietudini culturali e spirituali. Essa è un'esperienza che appunto per questo si fa carico delle persone come soggetto di storia, di appartenenza ad una comunità, di cittadinanza sociale, sollecitando una politica intesa come ricostruzione di legami. Entra nell'urgenza politica uno scenario nuovo, un'esigenza di ripensarsi non nello schema amico-nemico, ma come opportunità per espandere l'amicizia e la fraternità umana, come scelta fondante l'impegno: in un mondo globalizzato e insieme frammentato, si chiede che questo orientamento interpellali l'economia, la cura dell'ambiente, governi il cambiamento nella crisi che stiamo vivendo. Cresce sempre di più una domanda formativa, usando una parola fuori moda, di scuola all'impegno politico che parta dalla società civile, da questo mondo vivace, carico di esperienze solidali, che non può essere collocato soltanto nel “prepolitico”, con una concezione di rapporto con la politica e le istituzioni di carattere soltanto contrattualistico. Questa realtà sociale è carica di esigenze di costruzione del bene possibile per rilanciare poi la sollecitazione forte a rimettere sempre in discussione gli equilibri raggiunti. Idee e pensiero critico stanno dentro questo scenario carico di solidarietà, che non può essere collocato soltanto in una esperienza gestionale, ma si fa luogo di appropriazione del valore della politica e della politica solidale. Vorrei ricordare in chiusura la notissima parabola del
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Riportare la solidarietà su queste frontiere significa superare l'assistenzialismo, come erogazione paternalistica di risorse non discusse e che affievolisce la centralità dei diritti
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È una scuola di umanità e di condivisione: alla politica va restituita questa passione, questo gusto che non può essere confinato in un semplice atteggiamento residuale e, di fatto, marginale perché la politica fa i conti con questa umanità, anzi si ricarica continuamente di urgenze
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buon samaritano, una narrazione dove possiamo cogliere le radici antropologiche del valore solidale del dono. Oggetto di molte riletture in chiave metaforica o attualizzante, ci pare contenga alcuni riferimenti simbolici che aiutano a comprendere la dimensione dell'altro come dono e a mettere in moto la dimensione della condivisione. Sono linguaggi nuovi che debbono entrare anche nel circuito della politica, delle scelte. Non sono solo richiami moralistici ma sollecitazioni a render appassionato l'impegno politico capace di costruire legami, solidarietà e rimettere in moto sfide che fanno intravvedere l'urgenza e la necessità del cambiamento. Nella parabola la strada è il luogo dove avviene l'evento: una strada pericolosa, da cui l'anonimo viandante deve transitare per compiere il suo viaggio. La strada, il viaggio indicano uno stato di incertezza, di ambiguità, in cui le certezze della vita ordinaria sono sospese temporaneamente e l'identità personale si trova in una condizione di fragilità e indeterminatezza. Il soggetto deve compiere una transizione da uno stato ad un altro: la strada quindi richiama il modo col quale dobbiamo osservare la realtà del mondo partendo da questo punto che è la strada piena di situazioni di marginalità. Dunque, uscendo dal linguaggio metaforico, bisogna iniziare da quelli che un teologo dell'America Latina chiamava i sotterranei della storia, cioè la stragrande maggioranza dell'umanità che vive situazioni di povertà, di privazione della sicurezza del vivere, di esclusione sociale. È la realtà drammatica delle grandi metropoli del mondo, del vivere urbano, delle contraddizioni dello sviluppo. La parabola evangelica riguarda anche il rapporto tra stranieri sconosciuti, separati da pregiudizi culturali e religiosi: infatti nell'episodio le parti sono rovesciate perché colui che soccorre il ferito è il samaritano, noi potremmo dire lo straniero reietto, che scavalca le barriere dell'incomunicabilità, dell'ostilità preconcetta e vede nell' umanità dolente dell'altro un richiamo cogente e indifferibile, mentre il sacerdote e il levita (noi potremmo tradurlo con coloro che hanno un compito pubblico) passano oltre, non sostano di fronte alle vere inquietudini. Entra dunque un nuovo soggetto che deve caratterizzare la politica della solidarietà e dei legami con questa umanità dolente: la compassione qui intesa in senso etimologico pregnante innesta una tensione ad andare al di là delle differenze e delle divisioni, fa emergere l'essenziale, una
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comune identità di esseri umani, costruisce ponti e intesse legami tra le persone che nel corso ordinario della loro vita non si sarebbero mai incontrate. L'attualità del racconto ci riporta all' esperienze della solidarietà, dell'atto del dono che anche oggi è un'occasione di allargamento dei confini, di apprendimento di linguaggi e mondi di significato diversi, di costruzione di rapporti interpersonali che superano situazioni di separatezza. È una scuola di umanità e di condivisione: alla politica va restituita questa passione, questo gusto che non può essere confinato in un semplice atteggiamento residuale e, di fatto, marginale perché la politica fa i conti con questa umanità, anzi si ricarica continuamente di urgenze. Quell'atto di aiuto che la parabola indica fa riferimento anche ad una situazione di ingiustizia duplice: si riferisce all'attacco violento dei briganti, ma anche all'indifferenza nei confronti del ferito. Che i briganti siano malvagi questo appartiene all'ordine normale delle cose, ma è l'indifferenza, il passare oltre che interroga profondamente. Qui si può cogliere un'implicazione che travalica il contesto storico del racconto. Il sacerdote e il levita non fanno altro che seguire le norme puntuali che vietano loro di sporcarsi di sangue continuando ad adempiere al loro ministero. Sono quindi perfettamente in regola con le norme della comunità a cui appartengono e con il codice deontologico cui devono attenersi. Non è compito loro soccorrere i feriti, spetta ad altri: qui vi sta la sollecitazione ad una politica liberata da schemi di pura utilità, che producono spesso indifferenza rispetto all'ingiustizia sociale. Si noti che il samaritano non si limita a medicare ferite ma porta al sicuro il ferito e si ferma con lui fino al giorno dopo e lascia del danaro all'albergatore perché continui ad assistere il ferito promettendo di tornare ed eventualmente rifondere le spese supplementari. Aiuto non è quindi un atto estemporaneo e frettoloso ma, pur inserito nel flusso delle contingenze delle necessità della vita, sviluppa una volontà di prendersi cura in maniera seria, responsabile e attenta all'efficacia dell'intervento e della cura verso le persone incontrate. Tutto questo richiede non solo una disposizione emotiva ma anche una scelta razionale, perché il nuovo linguaggio della tenerezza, spesso portata da questa partecipazione al femminile dell'impegno politico, non è una dimensione esteriore ma chiede di rinnovare lo sguardo col quale ci si riferisce all'urgenza di una politica solidale. 47
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Sull’uso politico della religione Domenico Rosati
giĂ presidente nazionale delle Acli
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Forse è presto per avere un'idea esatta delle dimensioni, comunque enormi, del disastro che in Italia è stato causato dalla distorsione del rapporto tra politica e religione durante la lunga egemonia berlusconiana. Macerie immateriali, come quelle provocate da un terremoto o da un bombardamento, ma non meno ingombranti e inquinanti. Tanto che non si sbaglia se ci si organizza per cominciare a spalare. E ci si attrezza per farlo con un certo criterio, considerando cioè i due principali versanti su cui è avvenuto l'accumulo: quello politico e quello religioso e avendo cura di selezionare i materiali da scartare e quelli da riutilizzate, come fecero le donne delle macerie, le Trummerfrauen, le “donne delle macerie”, nella Berlino distrutta dalla guerra. Tra potere politico e religione c'è una consuetudine antica di frequentazioni e di scambi, che non comincia con Berlusconi. Anche i governi più dichiaratamente laicisti ed anticlericali dell'Italia appena unificata cercarono se non un'intesa (che era preclusa dall'antagonismo irriducibile) almeno un modus vivendi da cui trarre vantaggio. Ciò accadde soprattutto quando più vigorosamente si fece sentire la minaccia delle masse proletarie, operaie e contadine, sul sistema economico-sociale dominante, e specialmente dopo l'introduzione del suffragio universale maschile. Fu allora che esplicitamente si fece appello al soccorso delle salmerie cattoliche per contenere l'avanzata del socialismo; e lo strumento di un'alleanza non dichiarata ma effettiva fu il “patto Gentiloni” con il quale i vescovi erano abilitati a rimuovere il divieto di partecipazione (non expedit) imposto agli elettori cattolici, dopo che la dinastia dei Savoia si era impadronita dei territori pontifici e poi di Roma.
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Tra potere politico e religione c'è una consuetudine antica di frequentazioni e di scambi, che non comincia con Berlusconi
Tra Gentiloni e fascismo Gli storici ne parlano come di un primo positivo scongelamento di relazioni in vista di un'ancora problematica coesione nazionale. Ma non si può ignorare che quella scelta, che metteva nelle mani dei vescovi la decisione se mantenere o rimuovere il non expedit, ebbe come esito quello di garantire il sostegno cattolico ad una maggioranza di parlamentari massoni, anticlericali e libertini, con buona pace dei “principi non negoziabili” allora proclamati. Né si può 49
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trascurare la denuncia di Sturzo che lamentava un'indebita strumentalizzazione del consensi dei credenti a supporto di ideologie e programmi lontani dalla visione cristiana; e che proprio in quelle circostanze maturò l'idea di una distinzione radicale tra ciò che era davvero cattolico (cioè universale) e ciò che era partito, cioè parte. Con il corollario della non sovrapponibilità dei due concetti e quindi della autonomia e aconfessionalità della politica, ciò che fu poi alla base dell'esperienza del Partito Popolare. Accadde successivamente che il potere fascista, insediatosi su con una piattaforma estremista, avesse bisogno di ampliare la propria base di consenso; ed allora ricercò e condusse in porto un'intesa globale con la Santa Sede che per un verso chiudeva la “questione romana” e per un altro affiancava nell'immaginario collettivo i due poli del potere in atto: quello politico e quello ecclesiastico. Chi ha usufruito nell'adolescenza del…beneficio dell'educazione fascista non può archiviare l'immagine della presenza del parroco accanto ai gagliardetti del Fascio e l'indiretto avallo dell'idolatria mussoliniana che essa raffigurava.
Il berlusconismo entra in scena come entità sostanzialmente indifferente rispetto al fatto religioso. La sua piattaforma d'ingresso è eminentemente liberista-tecnocraticapopulista
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Dalla Dc al Berlusconismo Con la Democrazia Cristiana al governo, il potere politico non avverte più il bisogno di…negoziare con il potere ecclesiastico: partito e mondo cattolico sono vasi comunicanti e tra Gerarchia e leadership democristiana c'è un continuum fisiologico, la cui originalità è rappresentata dalla fondamentale opzione democratica del partito alla cui responsabilità la stessa Chiesa sembra affidarsi, scontando il rischio della mediazione con “gli altri”. L'ondata del Concilio metterà poi in crisi la natura di questo collateralismo ecclesiastico e getterà le basi per una nuova e diversa relazione tra fede e politica, chiesa e mondo, piano dei valori e ambito delle opzioni secolari. La Democrazia Cristiana ne risulterà spiazzata e, specie nell'ultima fase, si muoverà sempre più alla ricerca di avalli che ne consolidino o ne puntellino il potere. Con questi antefatti il berlusconismo entra in scena come entità sostanzialmente indifferente rispetto al fatto religioso. La sua piattaforma d'ingresso è eminentemente liberista-
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tecnocratica-populista. Ma proprio l'assenza di una nervatura ideologica configurata le consente una flessibilità opportunistica che la stessa Democrazia Cristiana non aveva. In un contesto culturale e di costume sensibilmente mutato rispetto alle abitudini precedenti non crea traumi nell'opinione pubblica il fatto che il leader del nuovo corso dichiari che i suoi governi saranno “compiacenti” verso le istanze della Chiesa. Lo avesse detto un democristiano, sarebbe stata una rivolta nel mondo laicista sempre attento alle derive clericali; ma a Berlusconi tutto era consentito in nome delle credenziali che riusciva ad ostentare sui molteplici banchi di vendita: più laico-libertino con i laici, più clericale dei clericali sull'altro versante. La dottrina della compiacenza si traduceva nel consenso e nel sostegno di tutte le iniziative ed istanze che promanavano dalla gerarchia ecclesiastica, con la quale direttamente e con specifiche ambascerie egli intratteneva rapporti, escludendo l'intrusione di espressioni organizzate ed autonome del mondo cattolico, come invece non era consentito, ad esempio, al suo avversario Prodi il quale per origine ed esperienza aveva su quelle sponde i propri punti di appoggio.
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C'è il catalogo delle “imprese” su cui si è realizzata la sintonia tra gerarchia cattolica e centrodestra: il tema delle unioni di fatto, la fecondazione assistita, il testamento biologico
L'interfaccia episcopale A valle del pragmatismo berlusconiano, che era in sé autosufficiente, si enuclearono nel tempo elaborazioni più sofisticate, volte a dare dignità culturale a scelte che comunque avevano una loro preminente motivazione utilitaristica: giustificare e accreditare l'uso politico della religione. Nacque così lo spazio degli “atei devoti”, come li chiamò Nino Andreatta, come quelli che proclamavano non essere necessaria la fede in Gesù Cristo per dichiararsi cristiani ed anzi sostenevano che “dirsi cristiani” è obbligatorio, anche se non lo si è, in presenza delle sfide del secolo ed in particolare al montare della pressione islamica sui valori dell'Occidente e dell'erosione endogena che essi subiscono per via di una modernità relativistica subdola e aggressiva. Pera, Ferrara, Magdhi Allam, Sacconi ne sono stati gli alfieri. Fenomeni come quelli descritti non nascono tuttavia da processi unilaterali. Hanno sempre bisogno di un'interfaccia, 51
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nel caso un'interfaccia religioso. E questo, per stare all'Italia degli ultimi lustri, è stato rappresentato da una conduzione dell'episcopato italiano che in parte ha sostenuto il corso berlusconiano, in parte vi si è adattato e comunque non lo ha esplicitamente contrastato anche quando ciò era ed appariva necessario. C'è solo l'imbarazzo della scelta: l'autorevole invito ecclesiastico a…contestualizzare un'espressione blasfema del leader, la preferenza da accordarsi ad un candidato libertino che si proclama allineato sui principi rispetto ad un altro che, pur avendo una vita familiare ineccepibile, ricerca mediazioni praticabili con…gli altri. E c'è il catalogo delle “imprese” su cui si è realizzata la sintonia tra gerarchia cattolica e centrodestra: il tema delle unioni di fatto, la fecondazione assistita, il testamento biologico. Tutte questioni nelle quali si sono avallati alcuni compromessi ritenuti preferibili ad altri pure possibili, con una traslazione impropria dei principi non negoziabili su norme aventi comunque un valore relativo. Concilio, Costituzione, Confronto Ma per spalare le macerie non importa tanto indulgere sui singoli episodi, ognuno dei quali ha una storia che risente anche dei comportamenti dei soggetti in causa, quanto andare alle matrici del guasto solo individuando le quali è possibile scongiurare per il futuro il fenomeno della coazione a ripetere. C'è da chiedersi innanzitutto se l'avocazione in esclusiva, da parte dell'Episcopato, della trattazione di alcuni temi sensibili, con l'esclusione sostanziale del laicato cattolico (se non selle fasi terminali pubbliche) non abbia favorito la preferenza del potere politico per una trattativa da potenza a potenza senza complicazioni…democratiche. C'è da valutare se il fenomeno non sia stato agevolato dalla presentazione di un doppio ordine di principi, alcuni dei quali (la vita, la famiglia, la libertà d'insegnamento) posti a 52
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fondamento di tutti gli altri, ciò che ha dispensato una parte politica dal pronunciarsi sull'intero complesso dei capitoli che narrano della condizione umana e ne condizionano il destino; quasi che, “compiaciute” quelle istanze cattoliche, si potesse essere dispensati dal pronunciarsi sul tutto, dalla guerra, alla pena di morte, al lavoro. E c'è da considerare se, rispetto alla stessa consuetudine democratica consolidatasi in epoca democristiana, non sia un arretramento il non aver riconosciuto ai laici cristiani l'agibilità dell'”ultimo miglio” nella determinazione sulle opzioni concrete della politica, dal voto all'emendamento. Ma sono soltanto alcuni spunti di ricerca per i quali da sotto le macerie si possono estrarre i mattoni per costruire una nuova, diversa esperienza. Se il tracollo del berlusconismo è anche la dissolvenza degli atei devoti, è necessario che si faccia sentire l'impulso dei cristiani inquieti, come quelli che hanno mantenuto, sotto la cenere del conformismo, il calore di tre fuochi essenziali per ricostruire: - il Concilio, da rileggere interamente nell'anno anniversario che è già iniziato, come testo essenziale della responsabilità dei cittadini cristiani; - la Costituzione, da meditare dalla scuola in poi, come piattaforma di un'impresa politica democratica non indifferente ma “sensata” rispetto alla condizione umana in tutte le sue dimensioni; - il confronto, da recuperare sia dentro le comunità cristiane che con gli uomini di buona volontà, come metodo permanente di ricerca e di collaborazione sulle “cose buone o riducibili al bene”. Tutto questo per ricominciare. E non è davvero poco.
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Restituire qualità alla classe dirigente Guido Baglioni
è sociologo, professore emerito presso l’Università Bicocca
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Nella nostra società complessa, coloro che hanno responsabilità dirigenziali sono numerosi, in ambiti diversi, a livelli diversi. Possiamo elencare le categorie più rilevanti, pensando alla classe politica, agli operatori economici, a chi gestisce grandi organizzazioni, ai medici, ai professori universitari, ai magistrati, ai manager nel mondo dell'editoria, spettacolo, mass media e sport. Nei settori privati e pubblici. Vediamo di accennare alle qualità necessarie ed opportune, che, da un lato, valgono per tutte le categorie e, dall'altro, dovrebbero essere adatte per la classe politica.
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Un dirigente politico, quale che sia il suo ruolo e la sua responsabilità, deve avere una qualità di base, irrinunciabile, e cioè quella di essere complessivamente un poco migliore dei suoi rappresentati e dei suoi collaboratori; proprio perché li rappresenta e li deve guidare. Egli fa politica per migliorare le
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Mettiamo in primo piano l'onestà, non solo quella più richiesta relativa al denaro, ai favoritismi, ai privilegi. Ci sono anche altri versanti, come utilizzare la trasparenza per le cose dette o fatte. E, quindi, con una linea di continuità fra onestà e coerenza, senza bizantinismi e argomentazioni superflue
cose, si è candidato per fare questo, nessuno lo ha costretto: allora deve dimostrare concretamente di riuscirvi. Con questa impostazione ci sono qualità necessariamente connesse. Mettiamo in primo piano l'onestà, non solo quella più richiesta relativa al denaro, ai favoritismi, ai privilegi. Ci sono anche altri versanti, come utilizzare la trasparenza per le cose dette o fatte. E, quindi, con una linea di continuità fra onestà e coerenza, senza bizantinismi e argomentazioni superflue. Subito dopo, viene la competenza. Il politico deve sapere, perché deve conoscere, decidere e scegliere. Rispetto alle esigenze, decide meglio se è più preparato. Essere preparato non significa sapere un po' di tutto “all'acqua di rose”. Bisogna, invece, avere una cultura generale, possedere i principali problemi politico-istituzionali e conoscere a fondo almeno uno di essi. Quest'ultimo aspetto è utile per il sistema e procura una buona identità all'uomo e alla donna che fanno politica. L'attività politica, a livello nazionale o locale, è molto impegnativa e anche faticosa. Esige molto tempo e molto impegno. Bisogna stabilire delle priorità in ragione del posto che si occupa ed evitare di essere sempre affannati e di corsa per cose marginali od opzionali. Nel lungo periodo, il concentrarsi sui problemi importanti paga anche in termini di popolarità e di prestigio.
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A quelli appena detti, possiamo aggiungere altri requisiti per avere un “buon politico”. La dimensione extra-nazionale e internazionale dei problemi non può essere appannaggio sol di chi si occupa di politica estera o di commercio con l'estero. Tutti noi, politici o cittadini, se vogliamo capire qualcosa, dobbiamo avere sempre presente questa dimensione. Essa è la più rilevante e visibile in questo momento ma, speriamo con aspetti più positivi, sarà importante anche domani. Quando il politico parla del nostro paese, sarebbe bene abolire il sostantivo “gente”, che non esprime le articolazioni della nostra società, strati e ceti sociali, gruppi tradizionali o nuove tendenze. La politica non è quasi mai neutrale e, quindi, per necessità o per inclinazione, favorisce qualcuno e non tutti. L'uomo politico non può pensare di limitarsi a “rispecchiare” le aspettative dei suoi elettori, anche perché quasi sempre non ci sono risorse sufficienti. Deve ugualmente saper “interpretare” tali aspettative coniugate con le esigenze generali. È su questo terreno che bisogna 56
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essere chiari e spiegare con pazienza perché si prendono a volte decisioni amare. Cosa che chissà per quanto tempo ancora avverrà.
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Fare politica è un “mestiere”, una pluralità di mansioni, un insieme di compiti e di attività. Allora è meglio avere politici di professione, piuttosto che persone che lo fanno temporaneamente? Tutto sommato è meglio avere politici di professione ma a due condizioni, buone per loro e per gli altri. La prima è quella di sapere fare altre cose, altre professioni o, semplicemente essere pubblici dipendenti. Così si può staccare senza angosce. La seconda è propriamente quella di staccare comunque ad una certa età perché il “sistema” lo decide. Perciò bisogna avere coltivato interessi, accettare incarichi più modesti, aiutare il prossimo direttamente senza il tramite della rappresentanza.
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Dopo le precedenti osservazioni – fondate sul buon senso e sulla normale correttezza ma non per questo sempre facilmente applicabili – vorrei concludere su questo punto: il dirigente politico, come altri gruppi della classe dirigente, dovrebbe sottoporre il suo operare al rapporto tra “avere” e “dare”, ossia al bilanciamento fra il primo e il secondo. Sul piano dell'“avere”, abbiamo potere, notorietà, buone remunerazioni, soddisfazioni personali, assieme alla possibilità di critiche e di una conclusione non voluta dell'esperienza (quest'ultima possibilità fa parte delle regole del gioco). Sul piano del “dare”, sottolineerei quattro criteri cui attenersi: - realizzare obiettivi a breve, ma sempre anche di lungo periodo (come la gestione del territorio, la ricerca scientifica, l'efficienza della pubblica amministrazione); - le cose che si fanno dovrebbero essere fatte bene (in primo luogo ciò vale per le finalità ed i contenuti delle leggi); - quando si decide, si dovrebbe tener conto delle implicazioni connesse al momento e nel futuro (cosa che, specie negli anni '70 e '80, non è stato fatto per il debito pubblico); - periodicamente, è doveroso accertare quali risultati sono stati conseguiti tenendo conto delle promesse e delle risorse impiegate (ad esempio, nel campo della istruzione generale e di quella tecnico-professionale).
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L'attività politica, a livello nazionale o locale, è molto impegnativa e anche faticosa. Esige molto tempo e molto impegno. Bisogna stabilire delle priorità in ragione del posto che si occupa ed evitare di essere sempre affannati e di corsa per cose marginali od opzionali
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Conflitto di interessi e perdita dell'innocenza Lucia Annunziata è scrittrice e giornalista
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a detto, innanzitutto, che ci siamo divertiti. Impossibile guardare al decennio alle nostre spalle senza ammettere questa banale verità. Sono consapevole del fatto che tale affermazione sia irritante per i molti(ssimi) che giudicano il giornalismo del nostro paese “partigiano”, “avvelenato”, “poco serio”, “ricattatorio”, e, soprattutto “irresponsabile”. Sono consapevole che c'è una intera scuola di pensiero che sostiene, pensosa, che il giornalismo non ha esercitato fino in fondo la propria funzione civile, che ha contribuito ad arenare il paese perdendosi nelle minuzie invece di additare I grandi esempi, o indicare i grandi scenari. È un'analisi, va detto, che circola soprattutto nel mondo del centro sinistra, la cui cultura rimane ancorata – me lo si lasci dire – a un elitario senso molto ottocentesco ( e del resto l'età degli influenti di questa area vira ormai intorno al secolo) e scolastico della comunicazione come veicolo di “educazione” delle masse, come elemento costruens della virtù pubblica, come rafforzamento delle istituzioni. Conseguenza logica di queste valutazioni è che il giornalismo italiano è giudicato esso stesso oggi un campo di macerie, tutto da ricostruire, esattamente come il mondo che 58
Il giornalismo italiano è giudicato esso stesso oggi un campo di macerie, tutto da ricostruire, esattamente come il mondo che lo circonda
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La presenza nel paese di un premier che ha unito politica e comunicazione ha costituito una causa permanente di incendio, un obbligo continuo a schierarsi da una parte o dall'altra, a diventare come giornalisti sempre più simili a politici che a quello che dovremmo essere
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lo circonda. Chiamata in questa sede a dire la mia su queste macerie, non posso però che sottrarmi, sperando che gli editori trovino ugualmente “divertente” un dissenso. Ho usato , come si vede, di nuovo l'aggettivo divertente, in poche righe, per riferirmi alla comunicazione. So che è un termine molto irritante per una visione nobile della questione, e proprio per questo insisto, e spiego. La quota di passione nei mestieri intellettuali è l'elemento dirimente, la vera ragione per farli. Non arricchiscono (davvero), non sono stabili, non sono privi di rischi. Quel che se ne ricava è il senso di una funzione espletata, un incarico portato a termine. Da cui il “divertimento” cui faccio riferimento, che non è il cinico sorriso alle spalle delle disgrazie altrui (oh, il giornalista che ha rovinato una vita!), ma la grande sensazione che qualcosa che non era stato ancora visto, valutato, trovato, o anche solo ammissibile, è stato portato a galla e messo sul tavolo. In questo senso , in questa direzione , il giornalismo italiano esce dalla seconda repubblica , circa venti anni, con un segno più e non uno meno. Fra macerie e ricostruzione vedo, francamente, già molti mattoni in fila. Il che non vuol dire che di macerie non ce ne siano. Intorno se ne vedono tante. Le accuse che elencavo a un giornalismo avvelenato, poco serio, partigiano, irresponsabile, non sono affatto infondate. Mai forse come negli anni che ci sono alle spalle l'informazione è stata così spudoratamente priva di scrupoli, in tutti i sensi. Nel trattamento delle fonti, nella distorsione delle opinioni e nella evidente strumentalizzazione ai fini di altri progetti del proprio potere. La presenza nel paese di un premier che ha unito politica e comunicazione ha costituito una causa permanente di incendio, un obbligo continuo a schierarsi da una parte o dall'altra, a diventare come giornalisti sempre più simili a politici che a quello che dovremmo essere. Ma se quello che dovremmo essere – fonti e opinioni terze, non importa su chi e su quale evento – è anche vero che il conflitto di interesse che ci ha devastato ci ha anche, per buona parte, migliorati. Perciò parlo più di mattoni che di macerie. La messa allo scoperto del conflitto di interesse di Silvio Berlusconi non è stato un fatto statico, anche se così appare oggi. Non è stato solo il crearsi del muro contro muro fra chi sta da una parte e chi dall'altra: ha funzionato piuttosto come un motore che con le sue vibrazioni ha smosso il terreno
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intorno a tutti. Diciamoci un'altra verità, intanto. Il giornalismo italiano è sempre stato “partigiano”, al di là delle sue pretese e delle romantiche ricostruzioni storiche. Nasce segnato, molto più che in tutti gli altri paesi, dal forte peso del distacco territoriale dell'Italia – nell'anniversario dei 150 anni è ahimè andato del tutto perso il capitolo su quanto i media italiani siano stati dominati dalla forza ( e dalla visione) del Nord rispetto a quella del Sud. E ha continuato ad essere fortemente definito dai conflitti sociali del paese, specie nel dopoguerra, in cui l'atmosfera di plumbea Guerra Fredda, blocca l'informazione in uno scafandro di lealtà reciproche tra parti in gioco, cui nessun giornalista vuole ( non dico può) sottrarsi. Che si tratti di Chiesa, Finanza Laica del Nord, partiti politici di destra o di sinistra, il giornalismo italiano del passato – ora così celebrato dalla memoria distorta dalla nostalgia – è stato pieno di trombettieri. Fatte salve naturalmente tutte le illustri figure, che sono diventate tali proprio perché fortemente individuali, il panorama del giornalismo italiano è stato quello di un forte conformismo. Non rispolvero qui il paragone, troppe volte fatto, con l'identità dei media negli altri paesi. Questo conformismo non era una attitudine etica e nemmeno psicologica. It's the economy, stupid, diceva il Presidente Clinton. La comunicazione italiana è sempre stata influenzata e imbrigliata da un colossale conflitto di interessi – economici, politici e ideali. Nessuna proprietà pura nel nostro paese – gli editori che investono solo nell'editoria sono stati una eccezione e non la regola. Non è una colpa – ma forse una condizione obbligata. In un paese con un mercato asfittico, e uno Stato a lungo dominante, l'editoria era merce essa stessa bloccata. I fondi – e questo si trascina fino ad ora – per la sopravvivenza di una testata non venivano certo delle vendite e l'editoria è stata sempre fino a un certo punto un business. Tutto questo ora lo sappiamo. Sappiamo fino in fondo quanto contino nella comunicazione gli interessi, gli intrecci societari, e le battaglie ideologiche. Ma lo sappiamo così bene anche perché lo abbiamo capito su pelle viva. In altre parole, presi nel più gigantesco dei conflitti di interessi, quello di Silvio Berlusconi, abbiamo scoperto anche tutti gli altri conflitti di interessi. Quelli dei media e aziende per cui noi stessi lavoravamo.
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La comunicazione italiana è sempre stata influenzata e imbrigliata da un colossale conflitto di interessi. Gli editori che investono solo nell'editoria sono stati una eccezione e non la regola
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Questa è stata la grande maturazione che il decennio passato ha regalato a noi giornalisti, e alla società intera. Abbiamo scoperto intanto che il nostro paese è un ingorgo di nodi di interessi. Nessuno più oggi può evitare di ragionare su un sistema chiuso e autoreferenziale – sia esso quello che ha nutrito il fenomeno Berlusconi, sia quello che ha nutrito il grande default nazionale del mercato, delle banche e del loro ruolo terzo . In questa scoperta sono state messe alla prova tutte le lealtà che prima automaticamente venivano riproposte. Domande mai fatte prima hanno attraversato il mestiere del giornalista. La più importante: scrivo o non scrivo un articolo contro la mia proprietà, sia essa un partito, una azienda, un patto di sindacato? Questa è stata la vera messa alla prova di noi della stampa. Per me è stato affrontare o meno gli aspetti negativi di una parte politica in cui, come è noto e come ho sempre dichiarato, mi ritrovo come cittadino , il centro sinistra. Per altri è stato dover parlare o meno di conflitti economici dei proprietari delle loro testate. Per altri, e vediamo questo fenomeno forte nella stampa cattolica, la messa alla prova è avvenuta addirittura sul sensibilissimo terreno dello scontro fra fede e realtà dei fatti – la storia della pedofilia docet. Ognuno di noi ha poi risolto come voleva o poteva
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questi conflitti di interessi dentro il proprio lavoro, la propria azienda, e le proprie convinzioni. Ma l'aver dovuto guardare in faccia, nella pienezza di uno scontro sociale e politico che non ha mai dato tregua, la questione delle proprie lealtà, se a un gruppo, a una idea, o al mestiere, è stata una grande prova. Le tradizionali linee di sicurezza si sono spezzate. Certo, buona parte di questo cambiamento è stato un portato della rivoluzione (anche produttiva) del web. La impressionante capacità della rete di rendere impossibile nascondere qualsiasi cosa, è forse la più grande rottura sistemica finora avvenuta – e non solo da noi . Di questo per altro dovrebbe davvero preoccuparsi la struttura attuale dei media, che invece preferisce immaginare ancora un armonioso passaggio fra tradizione e innovazione. Oggi ogni segretario di partito, ogni banchiere, ogni imprenditore, sa che non deve necessariamente aspettarsi dai giornalisti della sua testata un trattamento di favore. Ogni istituzione sa di non essere più per sua natura esente da analisi e critiche. E gli stessi media che ogni giorno oggi in Italia offrono il loro prodotto hanno una libertà in più, e una in meno: sanno che saranno giudicati essi stessi in filigrana, per i propri conflitti di interessi, oltre che quelli altrui. E voi non pensate che questa sia una straordinaria maturazione del nostro paese?
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Il padrone dei media Guida alla lettura del testo di Valerio Magrelli "Il Sessantotto realizzato da Mediaset ovvero il conflitto di disinteresse e inoltre la Grande Rimozione della Vittima in un Dialogo agli Inferi fra Machiavelli e il Tenerissimo", a cura di Massimo Adinolfi
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l titolo completo recita: “Il Sessantotto realizzato da Mediaset ovvero il conflitto di disinteresse e inoltre la Grande Rimozione della Vittima in un Dialogo agli Inferi fra Machiavelli e il Tenerissimo”. Il testo di Valerio Magrelli, di cui presentiamo un estratto – l'inizio dell'Atto terzo – ha la forma di un «dialogo con i morti»: genere letterario minore ma, come spiega l'autore, ricorrente nella cultura europea. E si capisce
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perché: quando la realtà compie una capriola, e si presenta quasi rovesciata, occorre procurarsi un punto di vista ben distante, per osservare il rovesciamento e non rimanerne catturati. Si guarda la vita dagli inferi, quando la vita assume connotazioni quasi infernali. Un tempo di questi meccanismi si occupava la dialettica: ma chi osa più servirsi di un simile ferro vecchio? Hegel aveva addirittura coniato l'espressione: die verkehrte Welt, il mondo rovesciato, e dopo di lui si sono susseguiti numerosi tentativi di rimettere il mondo sui suoi piedi, a testa in su. Con esiti, è vero, quasi sempre disastrosi. Anche di questi funesti rovesciamenti abbiamo uno specchio letterario: il geniale rivoluzionario Sigalev, nei Demoni, autore di un piano di emancipazione universale, che si conclude, ahilui, con il dispotismo illimitato. Il fatto però che piani come quelli dell'ideologo Sigalev finiscano in malora non deve impedirci di vedere tutte le storture del nostro tempo. Un'opera di fantasia – così definisce Magrelli il suo dialoghetto, nella breve avvertenza premessa al testo – non è meno un'opera di verità. E non affronta con minore serietà, nonostante il tono leggero, il problema di cui non ci si è potuti a lungo capacitare: com'è possibile, leggiamo a un certo punto, che in un paese in declino una maggioranza di italiani progressivamente impoveritasi abbia dato convintamente il proprio voto all'uomo più ricco e più potente del paese, «il padrone dei media»? La parte del testo che pubblichiamo contiene qualche elemento di una possibile risposta. Ma uno di essi si trova già nel lungo titolo sopra riportato: non c'è stato in Italia solo un gigantesco conflitto di interesse, mai regolato o mal regolato, c'è stato anche – e in parte c'è ancora – un altrettanto grande conflitto di disinteresse. La domanda, diviene allora, per noi: com'è possibile ricostruire un interesse, si direbbe quasi una nuova sensibilità, per la cosa pubblica, per i beni comuni, per il diritto e per i diritti di tutti? Questo fascicolo di Tamtàm intende favorire, in tutti i suoi contributi, l'opera di ricostruzione civile del Paese che il partito democratico giudica oggi necessaria. È un'opera che passa anche per un (non facile) scioglimento del disinteresse che circonda lo
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Quando la realtà compie una capriola, e si presenta quasi rovesciata, occorre procurarsi un punto di vista ben distante, per osservare il rovesciamento e non rimanerne catturati. Si guarda la vita dagli inferi, quando la vita assume connotazioni quasi infernali
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Non scomodiamo la parola «impegno», per non riaprire in forme trite e stucchevoli la questione del rapporto degli intellettuali con la realtà, ma possiamo provare a dire (con le parole di un intellettuale del nostro '900, che vi ha riflettuto a lungo) che ci sono stati certo tempi in cui la politicità saturava l'arte o la letteratura, fino a soffocarla, ma vengono pure tempi in cui un'insufficienza di politicità rende la letteratura vacua e oziosa.
stato della cultura – e in particolare dell'istruzione e della formazione. Ed è per questo motivo che pubblichiamo il testo di uno dei nostri maggiori scrittori su questi anni. Non scomodiamo la parola «impegno», per non riaprire in forme trite e stucchevoli la questione del rapporto degli intellettuali con la realtà, ma possiamo provare a dire (con le parole di un intellettuale del nostro '900, che vi ha riflettuto a lungo) che ci sono stati certo tempi in cui la politicità saturava l'arte o la letteratura, fino a soffocarla, ma vengono pure tempi in cui un'insufficienza di politicità rende la letteratura vacua e oziosa. E forse è da questi ultimi tempi che dobbiamo allontanarci. Magrelli lo fa. Nella direzione di Kant, più che di Hegel: dalla parte del «legno storto dell'umanità» che invano i Sigalev proveranno a raddrizzare, ma anche con tratti di intransigenza morale e l'invito, rivolto alla sinistra italiana, a reinventarsi «realistica, oggettiva, pragmatica», senza fuggire dinanzi ai problemi o accontentarsi di mere enunciazioni di principio. Nel libro, l'autore si congeda dal lettore ricordando una pagina di Filippo De Pisis sulle solfatare di Pozzuoli. De Pisis vi descriveva lo spettacolo (ad uso dei turisti) del cane che, avendo respirato le esalazioni della fangaia, dapprima danza in stato di ebbrezza, poi stramazza esausto al suolo. Una metafora del rapporto fra lo scrittore e la società: «nella figura di chi si occupa di letteratura, io non riesco a scorgere né una sentinella, né un soldato d'avanguardia, né un antesignano, né un diagnosta, ma semplicemente una cavia: il cane che cade per primo». Ma perché non pensare anche al primo che si rialza, e a come rialzare il Paese? Il dialogo è stato completato nel giugno 2011, ma pubblicato solo a novembre. Magrelli ha fatto a tempo a inserire un Post scriptum, steso quindi a ridosso del cambio di governo e dell'uscita di scena di Berlusconi, in cui formula l'augurio che «queste pagine risultino tanto meno urgenti per il presente, quanto più istruttive per il futuro». Ecco: perché siano istruttive, bisogna pensare che l'ebbrezza passi, e che il cane e il paese si rimettano per davvero in piedi. Massimo Adinolfi
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Con l’autorizzazione dell'autore, pubblichiamo un estratto dell'ultimo libro di Valerio Magrelli, Il sessantotto realizzato da Mediaset. Un Dialogo agli Inferi, Einaudi 2011 IL TENERISSIMO. Eccomi
finalmente ricaricato a dovere.
Vi ascolto. MACHIAVELLI. Stavo
parlandovi di un sotterfugio molto simile al gioco delle tre carte. Ebbene, notate cosa è accaduto in questi ultimi decenni: si è cominciato a considerare il calcio, e lo sport in generale, come se fosse un fenomeno culturale, riferendosi all'uso estremamente ampio che questo termine poteva avere per un antropologo, includendo cioè al suo interno tanto le usanze funebri quanto le pratiche alimentari. Una volta che tale abitudine linguistica ha attecchito, una volta che il concetto è stato sdoganato, si è tornati ad usare il termine “cultura” nell'accezione più tradizionale. E giù, onorificenze di ogni tipo a presidenti di club e calciatori. IL TENERISSIMO. Niente
di più semplice.
MACHIAVELLI. Semplice?
Più che semplice, truffaldino. Il fatto è che, a ben vedere, la dogana è stata tranquillamente aggirata; siamo anzi al contrabbando vero e proprio. E questo sempre e soltanto per far sì che il mercato possa accaparrarsi tutto. Vedi le analoghe, smodate ambizioni della musica commerciale, il suo ardente desiderio di essere eseguita nelle sale da concerti. Da tale celebrazione dell'esistente, trapela una sollecitudine sospetta, un dubbio zelo di legittimazione. Ma non gli basta un giro di milioni? No, vogliono anche i titoli nobiliari. Tutto ciò mi ricorda una scena di Miseria e nobiltà. La conferenza diventa Lectio magistralis, l'applauso si muta in Standing ovation, la qualita si traduce in Eccellenza. E' come volere farsi belli, ma conservando tuttavia una fame di superlativo assoluto, un appetito da cafoni, sorpresi con gli spaghetti che sbucano dalle tasche. IL TENERISSIMO. Vi
capisco, sì, ma fino a un certo punto. Così, voi rifiutate ogni opera d'arte moderna. Non potete negare la bellezza di Bob Dylan o dei Beatles. MACHIAVELLI. Vi
risponderò con un aneddoto. Dopo un 67
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concerto pianistico interamente dedicato a Johann Sebastian Bach, Ramin Bahrami offre come ultimo bis una canzone di Frank Sinatra. Cercherò di spiegare il mio disgusto. Non sto a descrivere l'imbarazzante abisso percettivo e conoscitivo che separa uno fra i massimi coronamenti del pensiero umano come L'arte della fuga, dalla desolata povertà mentale di un qualsiasi prodotto di consumo (abisso che mi ha ricordato quel proverbio in cui si parla di “portare un cane in chiesa”). Il fatto è che il rapporto fra cultura e mercato risulta ormai falsato dai sempre più frequenti riconoscimenti che la prima concede al secondo per un malriposto spirito di convenienza. IL TENERISSIMO. Cioè? MACHIAVELLI. E'
inutile donare a man bassa lauree honoris causa a sarti e motociclisti: questa miserabile liquidazione di un potere intellettuale conquistato dopo secoli di lavoro, non sortirà alcun effetto, oltre a quello di una immedicabile umiliazione. Inutile sperare in un compenso: avete mai visto un rettore a una sfilata di moda o nei box di qualche Grand Prix? Come in ogni forma di prostituzione, il punto non è evitare di vendersi, ma di svendersi. IL TENERISSIMO. Caspita! MACHIAVELLI. E
Siete rimasto al paleolitico!
me ne vanto. Proverò a spiegarlo in altri termini: tutto gira intorno al frenetico desiderio di innalzare alla sfera dell'arte, le più basse attività di fruizione quotidiana. Musei del fumetto, Enciclopedie della tv, Archivi del cartone animato. Mi viene in mente l'immagine di una donna attempata che cerchi di piacere al suo gigolò, o viceversa quella di un anziano sedotto e abbandonato, come l'eroe del film L'angelo azzurro. Professori che discettano sul cantante rock seduto alla loro destra, lusingatissimo dalla situazione: “Ma allora l'università non è inaccessibile!” In effetti, lo è stata per quasi un millennio, e il suo prestigio proveniva appunto da tale inaccessibilità, ossia dalla pretesa di richiedere uno sforzo profondo e educativo. Oggi, invece, siamo ai saldi di fine stagione. Todos caballeros! Così, però, si sperpera un inestimabile patrimonio di autorevolezza, correndo dietro al miraggio di un guadagno soltanto immaginario. 68
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IL TENERISSIMO.
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A questo punto, starvi dietro è
impossibile. MACHIAVELLI. E
c'è dell'altro. Cambiamo per un attimo terreno, e veniamo alla letteratura. IL TENERISSIMO. Con
molto piacere.
MACHIAVELLI. Tempo
fa Tiziano Scarpa ha giustamente ricordato come la recensione sia un genere letterario che prevede l'incontro tra un lettore professionista e uno scrittore. Purtroppo oggi, dai giornali ai blog, in cui imperversano lettori improvvisati, assistiamo invece allo smantellamento del concetto stesso di autorevolezza. La funzione del critico consiste nel fare da filtro; se il filtro viene meno, andiamo in dialisi. E' ciò che sta accadendo: una gara al ribasso tra i più prestigiosi editori italiani. Dalla Rizzoli, che ha festeggiato il suo sessantesimo compleanno con una collana che affidava le prefazioni di grandi autori della letteratura italiana a dei cantautori (Vinicio Capossela sulle Rime di Michelangelo!), alla Feltrinelli (che ha pubblicato le poesie di Villon con una “prefazione” di Fabrizio De André!), per finire con l'Einaudi (che ha scelto come testimonial, per la manchette pubblicitaria di un romanzo, una comica televisiva!) IL TENERISSIMO. Ma sono solo espedienti, buoni per attirare giovani lettori; possibile che non lo comprendiate?
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MACHIAVELLI. Permettete
che replichi con una domanda: per visitare il Louvre, chi scegliereste come guida, un chitarrista o uno storico dell'arte? IL TENERISSIMO. Non
avete neanche un briciolo di
elasticità! MACHIAVELLI. Altro
che elasticità: qui stiamo subendo un fenomeno di delegittimazione della funzione critica, tipico del presente berlusconizzato. Direi che la Gelmini va esattamente nella stessa direzione degli editori citati. IL TENERISSIMO. Avete
per caso mai sentito parlare di accesso alla cultura delle masse? MACHIAVELLI. Certo,
e proprio per questo ritengo che si debbano preservare e sviluppare competenze specifiche. IL TENERISSIMO. Questione
di punti di vista.
MACHIAVELLI. Sì,
ma intanto l'università pubblica è stata messa alla gogna, a tutto vantaggio della comunicazione televisiva. IL TENERISSIMO. Tema
sacrosanto, ma abbastanza
abusato, ne converrete. MACHIAVELLI. Allora
ve lo ripropongo in poesia. L'ho letta in una rivista. Che ne dite? IL TENERISSIMO. Avanti! MACHIAVELLI. Si
tratta di un acrostico, cioè un componimento in cui le lettere iniziali dei versi, lette dall'alto in basso, formano una parola o una frase. IL TENERISSIMO. Fin MACHIAVELLI. Me
qui ci arrivo anch'io.
ne compiaccio. Ecco il testo:
Allegria! (di naufragi) ovvero Le ceneri di Mike. Niente funerali di Stato per Edoardo Sanguineti A Andrea Cortellessa 70
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Mi sembrava di dover celebrare una morte, Invece sono qui a piangerne due; Kyrie eleison per l'Università E per l'alfiere della sua alterità. Bello non era. Un Bronzo di Riace, Ostentava: “Dei due, quello che più vi piace”. Nell'Aula Magna della Sapienza Guizzava in libertà la sua sapienza, Innesto dello Studio sull'amata Poesia, Ossia: metà cultura, metà idiosincrasia. Ripeto: oggi perdiamo sia lui, sia l'Accademia, Nel Tele-Mondo che ad un Professore Ormai antepone un Dio-presentatore. IL TENERISSIMO. Rimango
un po' spaesato, ve lo confesso. Anche perché ho sempre avuto una certa simpatia per Mike Bongiorno, tanto più negli ultimi anni, quando la sua vecchiaia ha conosciuto un'inattesa, incantevole vena di autoironia. MACHIAVELLI. Non
ci riuscite proprio, a smentire il
vostro soprannome… IL TENERISSIMO. Insomma,
un attacco del genere mi sembra francamente spropositato. MACHIAVELLI. Spropositato? Ma non afferrate la gravità della situazione? I Funerali di Stato decretati in onore di Mike, vanno considerati alla stregua di una pura e semplice ignominia. Se il 29 maggio 1453 segnò la caduta dell'impero romano d'Oriente, il 12 settembre 2009 rappresenta la capitolazione intellettuale e morale delle istituzioni italiane. Per dirla con un'espressione coniata dai francesi, siamo di fronte a un'autentica Chernobyl culturale. IL TENERISSIMO. Tombola! MACHIAVELLI. Il
perché è presto detto: in un paese che attinge ministri fra modelle di calendari, eurodeputati fra conduttrici tv, conferenzieri fra cantanti di night (e il ricordo indelebile corre a Franco Califano, acclamato ospite di una prestigiosa università romana), c'è da aspettarsi di tutto. IL TENERISSIMO. Ma
in definitiva, Bongiorno era un 71
FOCUS
Per una ricostruzione civile
semplice professionista che svolgeva il suo lavoro onestamente. MACHIAVELLI. Nessuno
ne mette in dubbio le capacità di operatore dell'intrattenimento. Il punto è un altro: come mai le autorità hanno deciso di preferirlo a eroi, scienziati, artisti, uomini di dottrina? IL TENERISSIMO. Non
sarà mica una ventata corporativa,
la vostra? MACHIAVELLI. E
se anche fosse? Fino ad oggi, i senatori a vita si chiamavano Eugenio Montale, Rita Levi Montalcini, Mario Luzi. Adesso si è pensato a un presentatore televisivo come Mike Bongiorno. Ecco in che modo si è arrivati al “sabato nero” del 12 settembre. Accuratamente dissodato da una sinistra ansiosa di meticciato, riscoperta dei generi, livellamento fra cultura alta e bassa, il terreno è stato finalmente consegnato al suo legittimo proprietario: il padrone dei media.
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Altri contributi
ALTRI CONTRIBUTI
Europa, il muro da abbattere in questo 2012 Enrico Letta
è vicesegretario nazionale del PD
er secoli l'Europa è stata generatrice, diretta o indiretta, di “cesure” storiche. Accadimenti singoli o fenomeni protratti nel tempo accomunati da un tratto distintivo: l'irreversibilità del cambiamento. È andata così anche per la caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda, vale a
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dire per l'ultima frattura epocale che le nostre generazioni abbiano vissuto in prima persona. Doveva, secondo alcune frettolose interpretazioni, sancire l'archiviazione forzata del progetto politico dell'integrazione europea, giudicato da molti come obsoleto di fronte alla ricomposizione dell'ordine mondiale sotto l'egida esclusiva della superpotenza americana. Si è tradotta, al contrario, in
ALTRI CONTRIBUTI La crisi costituisce il nuovo “muro” da abbattere. E, nel bene o nel male, il 2012 sarà per l'Europa un altro '89: con la stessa capacità innovatrice, la stessa carica di distruzione della situazione pregressa, lo stesso margine di azione per recuperare centralità nella comunità internazionale un'accelerazione senza precedenti dell'unificazione economica e monetaria degli Stati membri della CEE. Maastricht e la nascita stessa dell'euro sono, focalizzate in questa prospettiva, il prodotto di quella cesura: la contromisura, pragmatica e al contempo visionaria, individuata dalle classi dirigenti di allora per rispondere al tramonto dell'assetto bipolare, alla riunificazione della Germania e alla moltiplicazione delle sfere di influenza nel nuovo contesto globale. Anche la crisi degli ultimi tre anni può a buon diritto essere annoverata tra le fondamentali cesure dell'epoca contemporanea. Una frattura che – unitamente al combinato disposto della globalizzazione, della rivoluzione tecnologica e delle trasformazioni demografiche in corso – ha ormai alterato irrimediabilmente i connotati dello scenario geopolitico e geoeconomico nel quale gli Stati nazionali si collocano. “Niente sarà più come prima” è così diventato l'assioma ripetuto all'unisono da analisti e commentatori di ogni orientamento e disciplina. Meno chiare, e senz'altro meno condivise, sono invece le prospettive che si dischiudono e, soprattutto, le coordinate del nuovo paradigma di sviluppo e di democrazia verso cui tendere per uscire dall'impasse drammatica nella quale ci troviamo.
Quale che sia l'approdo di questo faticoso ma obbligato processo di rielaborazione politico-culturale, un dato è certo: la crisi costituisce, sulla carta, il nuovo “muro” da abbattere. E, nel bene o nel male, il 2012 sarà per l'Europa un altro '89: con la stessa capacità innovatrice, la stessa carica (potenziale) di distruzione della situazione pregressa, lo stesso margine di azione per recuperare centralità nella comunità internazionale. Il tutto provando a lasciarsi definitivamente alle spalle il decennio post 11 settembre, il rischio marginalizzazione connesso all'emersione dei BRIC's, lo stallo di un processo decisionale frustrato da troppe battute d'arresto e dalla perenne oscillazione tra pulsioni intergovernative e istanze comunitarie. Un'alternanza, quest'ultima, che a ben vedere riproduce, attualizzandola, la dicotomia classica tra “egemonia” ed “equilibrio” che da secoli scandisce la storia dell'Europa. È per arginare il caos postbellico, sventare l'ennesimo tentativo egemonico di uno o più Stati sovrani e trovare un interstizio tra le due superpotenze della guerra fredda che i Paesi fondatori diedero vita alla prima Comunità europea. È per ricondurre il caos a maggiore equilibrio e recuperare un ruolo di preminenza in una comunità globale sempre più multilaterale che l'Unione ha 75
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ALTRI CONTRIBUTI oggi un disperato bisogno di essere qualcosa di più del più grande mercato integrato del mondo, di diventare pienamente e compiutamente una comunità politica legittimata sotto il profilo democratico: di farsi Stati Uniti d'Europa. È una necessità primaria, di pura sopravvivenza, che attiene ai rapporti di forza nei consessi internazionali, ma che soprattutto investe l'idea di Europa, il senso più profondo della storia fin qui percorsa e il concetto di sovranità sovranazionale, oltre le facili approssimazioni sulla postmodernità con cui è stato decodificato negli anni scorsi. Inquadrata da quest' angolatura, è evidente che la posta in palio è altissima. Non è – come troppo spesso ci capita di ascoltare nel dibattito pubblico – la tenuta dell'euro, la cui crisi riflette, e non determina, il deficit di credibilità politica dell'UE. E non è neanche – come talvolta corriamo il rischio, noi per primi, di far ritenere – la plausibilità o meno di una teoria economica oppure l'appeal di una specifica ricetta per uscire dalla crisi. In palio ci sono, piuttosto, la nostra identità di cittadini europei e la costruzione del futuro delle prossime generazioni. C'è un patrimonio condiviso di cultura politica e civiltà del diritto da conservare con cura. Ma c'è anche un modello di società e di benessere, eretto incrementalmente lungo
tutto il Novecento, da riformare con coraggio per renderlo forte e giusto abbastanza da reggere l'urto degli stravolgimenti epocali, sociali ed economici, cui è sottoposto. Stravolgimenti che l'Unione europea, così com'è, può semplicemente tamponare, per giunta con le armi spuntate di un'architettura istituzionale inadatta al compito. E non perché a Bruxelles o a Francoforte siedano burocrati incompetenti o eterodiretti da chissà quale struttura ostile, ma perché a mancare è stata finora la volontà politica, condivisa da tutti i principali attori in causa, di voltare definitivamente pagina e, dunque, di prendere atto dell'irreversibilità del cambiamento. Sta tutta qui la sfida del 2012 per l'Europa: primo, tornare a far coincidere l'interesse nazionale degli Stati membri con l'interesse generale della comunità, come è stato negli snodi cruciali del processo d'integrazione; secondo, richiamare i leader di ciascun Paese a un'assunzione di responsabilità che travalichi il contingente e che soprattutto prescinda dalle appartenenze di parte, come è avvenuto per i grandi padri dell'Unione, progressisti o conservatori, comunque costruttori d'Europa; terzo, arrivare subito e fino in fondo all'unificazione politica, anche a costo di procedere a geometrie variabili.
Le tre dimensioni della sfida collimano alla perfezione con le priorità classiche della politica comunitaria di un Paese come il nostro, indispensabile all'Europa e al tempo stesso dipendente dall'Europa, il cui interesse nazionale da decenni si lega indissolubilmente a quello comunitario 77
ALTRI CONTRIBUTI Il premier Monti ha potuto in poche settimane riguadagnare al nostro Paese un ruolo di primissimo piano nell'Europa che cerca di salvare se stessa dalla crisi Dinanzi a questo impegno, e alla necessità di affrontarlo nell'immediato, il nostro Paese si trova oggi in una posizione di protagonismo ritrovato. Un protagonismo che certamente si spiega con il prestigio europeo del nuovo presidente del Consiglio e con il recupero più complessivo di credibilità dell'Italia all'estero dopo l'uscita di scena di Berlusconi, ma che in larga parte è riconducibile alle radici del nostro europeismo. Le tre dimensioni della sfida richiamata prima infatti – interesse comunitario, leadership europea, legittimazione democratica dell'UE – collimano alla perfezione con le priorità classiche della politica comunitaria di un Paese come il nostro, indispensabile all'Europa e al tempo stesso dipendente dall'Europa, il cui interesse nazionale da decenni si lega indissolubilmente a quello comunitario. È forte anzitutto di questa radicata e solida tradizione europeista – rispetto alla quale l'isolamento e
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l'eurotepore degli ultimi anni vanno letti come un'anomalia o tutt'al più come una parentesi – che il premier Monti ha potuto in poche settimane riguadagnare al nostro Paese un ruolo di primissimo piano nell'Europa che cerca di salvare se stessa dalla crisi, peraltro incassando già importanti progressi, come i passi avanti fatti nei negoziati sul nuovo Patto di Bilancio e l'attenuazione della regola del rientro dal debito testimoniano. Ed è sulla base della medesima consapevolezza che noi dobbiamo sostenere oggi con determinazione il programma di rigore e riforme che il governo Monti ha posto in essere. Non perché ce lo chiedono lontani e inflessibili euroburocrati. Ma perché è nostro dovere, etico prima ancora che politico. Ne va dell'interesse nazionale italiano che, oggi più che mai, coincide tutto intero e fino in fondo con quello dell'Unione europea nell'anno più difficile della sua storia.
ALTRI CONTRIBUTI
Le idee forza dei progressisti europei Roberto Seghetti
è capoufficio stampa del PD
e si mettono da parte le diversità di linguaggio, dovute alle fonti, agli obiettivi e ai differenti momenti in cui sono stati scritti, il documento pubblicato dall'Spd e dai Verdi tedeschi il 12 dicembre (www.nens.it), il programma elettorale reso noto dal candidato alle elezioni presidenziali francesi, il socialista Francois Hollande (www.francoishollande.fr), e il Piano Nazionale per le riforme consegnato a Bruxelles e al Parlamento italiano dal
Partito democratico italiano nell'aprile del 2010 (www.partitodemocratico.it) presentano una impostazione di fondo simile e che può essere grosso modo riassunta in quattro punti. Primo: linea di politica economica pervicacemente perseguita dalla Germania della cancelliera Angela Merkel rischia di spingere l'Europa ancora di più in recessione, perché in un momento di crisi come quello che si sta vivendo la giusta austerità nei conti pubblici, se non viene accompagnata da un robusto progetto per la crescita volto a sostenere i settori più
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ALTRI CONTRIBUTI innovativi dell'economia e l'occupazione, è un errore che rischia di aggravare la crisi invece di risolverla. Secondo: il ruolo della Banca centrale europea deve essere diverso, nel senso che alla Bce deve essere consentito di adottare linee di intervento simili a quella della Federal Reserve Usa o della Boe, la Bank Of England. Terzo: vanno introdotte forme di tassazione delle attività finanziarie, i cui introiti possono concorrere a ridurre o quantomeno a sostenere il debito pubblico dei diversi paesi. Quarto: l'emissione di eurobond può servire a finanziare progetti di sviluppo. Il documento tedesco, scritto da economisti ed esperti, è più compassato, tecnico e affronta i problemi europei in un'ottica che tiene conto del confronto politico interno alla Germania. Il programma elettorale di Hollande, scritto in prima persona (io dirò, io proporrò, io farò…) è chiaramente tutto rivolto al sentimento degli elettori francesi, fino al punto di ipotizzare una revisione dei trattati europei così faticosamente concordati nelle ultime settimane.
con le proposte del Pd perché riteneva (in linea con alcuni grandi quotidiani che lo sostenevano senza se e senza ma) che non vi fosse alternativa alla politica economica del governo di centrodestra. Tutti oggi possono verificare come sia finita e quale disastro abbia rischiato l'Italia. Per salvare il paese il Pd ha responsabilmente sostenuto il governo di impegno nazionale di Mario Monti, rinunciando ad andare subito al voto. Rispetto ad un anno fa vi sono molte cose diverse in Italia, a Bruxelles, a Parigi e perfino a Berlino. Ma le proposte di fondo e la situazione complessiva dell'Europa non sono cambiate di molto: l'obiettivo di una politica europea volta non solo al rigore, come pure è giusto, ma anche alla crescita e all'occupazione ormai è riconosciuto da tutti come “il” problema da affrontare per uscire dalla crisi. E su questo piano i documenti dell'Spd e dei verdi tedeschi, il programma elettorale francese di Hollande e il Pnr del Pd presentano oggettivamente, pur nella diversità di fonti, pubblici e occasioni e passaggi tecnici, molti elementi in comune. Per dirla con le parole usate da Hollande in
Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha sottolineato in alcuni discorsi pubblici e in un recente articolo su Tamtàm democratico la necessità di rilanciare “il sogno europeo” e cioè un percorso di costruzione europea in cui diventi attuale anche la cessione di sovranità nazionale E il Pnr del Pd risente ovviamente del tempo trascorso: fu presentato un anno or sono, con Silvio Berlusconi ancora saldamente alla presidenza del Consiglio italiana e con il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ancora in auge: diceva che tutto andava bene e rifiutava di confrontarsi 80
una intervista a Il Sole 24 Ore, “Non mi riconosco certo nelle politiche condotte dalle destre in Europa, che fanno del rigore e dell`austerità l`alfa e l`omega dei loro programmi. Credo, al contrario, che riduzione dei deficit e rilancio della crescita possano essere perseguiti nello stesso tempo”.
ALTRI CONTRIBUTI Dire solo questo però sarebbe riduttivo. In questi documenti-piattaforme dei tre schieramenti progressisti vi è anche di più, e cioè vi è al fondo la convinzione profonda che da questa crisi si esca con più solidarietà europea, non con chiusura e ripiegamento. Anche se è proprio su questo, e cioè sul tema dell'accelerazione da imprimere al percorso dell'unità, che gli accenti dei tre documenti sono più diversi, in particolare per quanto riguarda le prospettive descritte da Hollande nel suo programma elettorale. Più esplicito e forte è il richiamo alla necessità di un passo in avanti verso l'Europa unita nel Pd e nell'Spd. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha sottolineato in alcuni discorsi pubblici e in un recente articolo su Tamtàm democratico la necessità di rilanciare “il sogno europeo” e cioè un percorso di costruzione europea in cui diventi attuale anche la cessione di sovranità nazionale. Accenni simili nella sostanza e nella forma si possono trovare nel documento scritto dagli esperti dell'Spd e dai Verdi, anche se si tratta di un testo volto ad esaminare soprattutto problemi economici:
resta radicato nel programma del candidato progressista d'Oltralpe. Punti di contatto e sensibilità diverse emergono con chiarezza dalla lettura diretta di alcuni brani dei diversi testi. Come si può verificare dagli stralci che seguono. Documento Spd-Verdi. Punto 7 “La stabilità finanziaria e di bilancio è importante ma essa va coniugata con una politica di sviluppo capace di ridurre la disoccupazione in Europa ( sopratutto giovanile) di cui la Germania deve farsi promotrice”. Documento Spd-Verdi. Punto 8 “Se il governo federale in una tale situazione richiede come un mantra sempre ulteriori misure di consolidamento e, nel contempo, rifiuta categoricamente di compiere ogni passo che potrebbe concorrere a tranquillizzare i mercati finanziari, esso mette in pericolo la stabilità dell'Unione monetaria europea e dell'intero sistema finanziario europeo”. Documento Spd-Verdi. Punto 9 “La proposta comune del Consiglio
“Abbiamo bisogno adesso di un programma europeo di infrastrutture che abbia una chiara priorità degli investimenti nell'economia reale” “L'Unione monetaria deve diventare una vera unione politica, con una comune politica fiscale e finanziaria e con comuni obiettivi per lo sviluppo economico, sociale e culturale dell'eurozona”. Meno esplicito e più attento al sentimento nazionale degli elettori francesi, anche perché più vicino alla prova elettorale contro Sarkozy, appare invece Francois Hollande, anche se il progetto europeo è e
degli esperti del governo federale, che prevede l'istituzione di un fondo d'ammortamento comune europeo, è la strada giusta. Una veloce realizzazione di questo fondo di ammortamento – collegato ad una vera unione fiscale europea nella zona euro - è l'ultima possibilità per ricreare un clima di fiducia verso i debiti sovrani dell'eurozona*”.
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ALTRI CONTRIBUTI
Documento Spd-Verdi. Punto 10 “Abbiamo bisogno adesso di un programma europeo di infrastrutture che abbia una chiara priorità degli investimenti nell'economia reale. Abbiamo bisogno in Europa di una trasformazione sociale ed ecologica, con la creazione di nuove catene di produzione di valore nei mercati guida del futuro. Abbiamo bisogno di una iniziativa europea per combattere la disoccupazione giovanile. Abbiamo bisogno di una tassazione dei mercati finanziari. Coloro che hanno causato la crisi devono chiamati a contribuire alla soluzione. Se ciò non è possibile con l'Europa dei 27, l'Euro-gruppo deve fare da capofila”. Programma Hollande. Punto 11 “Io proporrò ai nostri partners un patto di responsabilità, di governo e di crescita per uscire dalla crisi e dalla spirale di austerità che l'aggrava. Io rinegozierò il trattato europeo tratto dall'accordo del 9 dicembre 2011 privilegiando la crescita e l'occupazione, e riorientando il ruolo della 82
Banca centrale europea in questa direzione. Io proporrò di creare eurobonds”. Programma Hollande. Punto 12 “Io difenderò un'associazione piena e completa dei parlamenti nazionali e europei a queste decisioni. Cinquant'anni dopo il trattato dell'Eliseo, io riproporrò ai nostri partner l'eleborazione di un nuovo trattato franco-tedesco. Io difenderò un bilancio europeo (2014-2020) al servizio dei grandi progetti del futuro. Io sosterrò la creazione di nuovi strumenti finanziari per lanciare programmi industriali innovativi, soprattutto nel settore delle tecnologie verdi e del trasporto merci ferroviario. E lavorerò con i nostri partner per un'Europa dell'energia”. Programma Hollande. Punto 13 “Io proporrò allo stesso tempo una nuova politica commerciale per ostacolare tutte le forme di concorrenza sleale e per fissare regole stringenti di reciprocità in materia sociale e ambientale. Una tassazione che abbia attenzione ai problemi
ALTRI CONTRIBUTI del clima e dell'energia alle frontiere d'Europa completerà questo progetto. Io lavorerò, nell'ambito del G20, per un cambio più equilibrato tra euro, dollaro americano e yuan cinese, proponendo un nuovo ordine mondiale”. Piano nazionale per le riforme presentato dal Pd a Bruxelles nell'aprile del 2011 1. Un'agenzia europea per il debito per acquistare i titoli dei paesi aderenti ed emettere titoli di debito europei (eurobonds) garantiti in modo collettivo. 2. Un piano europeo di investimenti per l'occupazione, l'ambiente e l'innovazione, alimentato dalle risorse raccolte attraverso l'emissione di eurobonds, l'introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la Financial Transaction Tax ed il rafforzamento della tassazione ambientale, oltre agli interventi della Banca Europea degli Investimenti e del fondo infrastrutturale “Marguerite” (…) Un piano
complementare all'avanzamento del mercato interno come raccomandato dal “Rapporto Monti”. Un piano in controtendenza rispetto alla logica di “non interferenza” seguita negli ultimi anni le istituzioni comunitarie di fronte ai rischi di desertificazione industriale di intere regioni. 3. Uno “standard retributivo” europeo per coinvolgere i paesi in surplus nel processo di aggiustamento delle bilance commerciali. Lo standard retributivo implica una crescita delle retribuzioni reali in linea con la dinamica della produttività (…). 4. Una più equilibrata distribuzione del reddito da lavoro, sia primaria (conseguita sul mercato del lavoro) che secondaria (sostenuta da interventi di welfare e fiscali) capace di restituire potere d'acquisto e sicurezza alle famiglie. * Una proposta analoga è stata elaborata oltre due anni or sono da Vincenzo Visco e fatta propria dal Pd.
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ALTRI CONTRIBUTI
Sussidiarietà, no alla "reformatio" dall'alto della società Stefano Ceccanti è senatore PD
nzo Balboni nella sua interessante replica a Giorgio Armillei sullo scorso numero* di Tam Tam Democratico per un verso assume positivamente (e contribuisce a precisare) la distinzione tra Repubblica e Stato (valorizzando così la sussidiarietà all'interno di questa visione pluralistica) e per altro verso però pretende di iscrivervi per intero il dossettismo e di espungervi invece le correnti euroamericane di Terza Via che sono quelle che in questi anni si sono collocate più chiaramente su quella direttrice. Insomma Balboni sostiene una linea in larga parte condivisibile (tranne però un richiamo generico alla bontà dell'interventismo statale in forma essenzialmente diretta che collide con l'idea di un ruolo prevalentemente regolatore dello Stato che è coessenziale all'idea di sussidiarietà), ma poi, paradossalmente, iscrive dentro di essa soggetti che non le sono omogenei ed esclude quelli che la affermano. Senza voler semplificare troppo, però delle due l'una: o c'è la sussidarietà o c'è un rapporto gerarchico tra Stato e
Repubblica(vuoi nella forma statalista per cui lo Stato è sostanzialmente il monopolista del bene comune, vuoi, ma non è il nostro problema in questa sede, nella forma paleo-liberale predemocratizzazione col suffragio universale per cui lo Stato è residuale e ancillare e il bene comune sta altrove). La citazione di Pietro Scoppola da parte di Armillei, che pone Dossetti o, più esattamente, almeno il Dossetti della relazione sullo Stato del 1951, tra gli statalisti e non tra i sussidiari, non era invece affatto immotivata ed avulsa dal contesto. Scoppola (insieme ad Elia) scrive un interessante testo, "Dossetti dalla crisi della Democrazia Cristiana alla riforma religiosa" in appendice all'intervista sua e di Elia allo stesso Dossetti pubblicata dal Mulino nel 2003 e realizzata nel 1984. La pagina 131 è dedicata quasi per intero a una critica radicale del testo del 1951, dimostrato come inconciliabile rispetto a una visione liberaldemocratica dello Stato. Due i passaggi-chiave di Scoppola. Il primo è la matrice di fondo: "Dossetti parte com'è noto, da una forte polemica contro lo Stato liberale, del quale non vede o sottovaluta l'evoluzione in senso democratico, così da giungere ad auspicare 85
ALTRI CONTRIBUTI una forte discontinuità.". Il secondo è la conseguenza: "Discende da questa polemica la risoluta affermazione di una concezione finalistica dello Stato..viene riproposto, cioè, in quella relazione, quel tradizionale concetto di un 'bene comune in sé definito e non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società". Per di più anche Elia che, a differenza di Scoppola, nell'intervista si mostra più comprensivo degli intenti politici di Dossetti, nella sua postfazione "Dossetti, Lazzati e il patriottismo costituzionale", deve comunque ammettere senza reticenze (pag. 142) che "Dossetti manifestava un giudizio fortemente negativo sui ceti medi, sul capitalismo e sulla stessa libertà di iniziativa economica..Dossetti considera superata 'la cd libertà dell'iniziativa privata nell'economia occidentale' ". Nello stesso senso si comprende anche la ferma opposizione di Dossetti alla dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa "Dignitatis Humanae", al testo obiettivamente più anglosassone e liberale, che avrebbe ignorato, per usare le sue parole le "esigenze oggettive del bene comune in una polis ordinata secondo ragione e secondo una ispirazione solidaristica e comunitaria", come ben ricostruisce Silvia Scatena nel volume "La fatica della libertà" dedicato a quel documento del Concilio Vaticano II (in particolare p. 440). Insomma, a me, anche partendo dalla ricostruzione di Balboni sulla sussidiarietà, sembra difficile negare che abbia sostanzialmente ragione, oltre ad Armillei, Luca Diotallevi nel suo recente libro su "L'Ultima chance" (in particolare a pag. 60): o si persegue la sussidiarietà, come
Diotallevi propone rimarcando in particolare il contributo del Magistero recente, in particolare dalla "Centesimus Annus" (per altro in continuità con la "Dignitatis Humanae") e gli autonomi contributi dei cattolici italiani come il recente documento della Settimana sociale, o ci si muove sulla linea della relazione dossettiana del 1951 che, con l'idea di "reformatio del corpo sociale" da parte dello Stato, non appare compatibile con essa. L'eclettismo tra sussidiarietà e reformatio non sembra funzionare, anche quando è dottamente argomentata, come nel caso di Enzo Balboni che, per inciso, commette però un errore di schematismo politico ed ecclesiale quando per confutare Armillei polemizza con le teorie e le prassi di Cl, quasi che non potesse darsi invece, come per fortuna molecolarmente si dà, un percorso politico di centrosinistra ed ecclesiale per lo più di Azione cattolica che, come nell'impostazione di Pietro Scoppola, è radicalmente irriducibile al dossettismo proprio perché chiaramente cattolicoliberale. Questo è, per inciso, per chi non lo conosce, anche il percorso di Giorgio Armillei, per dare a ciascuno il suo. Non vorrei peccare di schematismo ma a me sembra che puntualmente in questi anni, ogni qualvolta sono emerse legittime collocazioni diverse tra i cattolici del Pd rispetto a rilevanti opzioni di policy (non parlo di quelle di 'politcs', come gli schieramenti congressuali che seguono logiche parzialmente diverse), dalla politica economica (fino al giudizio sul Governo Monti) a quella estera (l'atteggiamento sulle missioni di pace e sull'uso legittimo della forza) è riemersa quella linea di frattura su
O c'è la sussidarietà o c'è un rapporto gerarchico tra Stato e Repubblica 86
ALTRI CONTRIBUTI
cui le premesse sono obiettivamente divaricanti perché attingono a letture diverse anche dello stesso contributo dei cattolici alla Costituente nell'intreccio con le altre culture politiche ed in particolare intorno al giudizio sul liberalismo. C'è chi descrive questo contributo come essenzialmente dominato dall'incontro tra il
dossettismo e il comunismo italiano quasi in contraddizione con le contestuali scelte di Governo (economia di mercato, adesione all'europeismo e al Patto Atlantico) e c'è invece chi ritiene più decisivo e soprattutto fecondo il contributo degasperiano, pienamente coerente con quanto affermato nella Costituzione e quanto realizzato dai 87
ALTRI CONTRIBUTI Il terreno della sussidiarietà non sembra pertanto oggi un terreno neutro rispetto a questi diversi cattolicesimi politici e consente un giudizio molto differenziato rispetto alla loro odierna fecondità storica, decisamente a favore del filone degasperiano-liberale Governi di quel periodo e più che significativo l'intreccio col variegato panorama delle culture politiche, comprese quelle socialdemocratiche e liberali, presenti e spesso numericamente determinanti in varie votazioni risicate. Anche qui è discriminante la ricostruzione di Pietro Scoppola, in ultimo nel suo contributo "De Gasperi fra passato e presente", la lezione svolta a Borgo Valsugana il 19 agosto 2004, ripubblicata nel 2009 dall'Istituto de Gasperi e dalla Fondazione Sturzo nel volume "Lezioni degasperiane 2004-2009". Il punto è esattamente quello lì sottolineato da Scoppola: il lavoro della Costituente fu inquadrato ex ante da due scelte antigiacobine di De Gasperi (la sottrazione all'assemblea della questione costituzionale affidata al referendum e, soprattutto, del potere legislativo ordinario comprese riforma agraria e industriale, facendo eccezione solo per i trattati e le leggi elettorali) in alternativa all'idea che già da essa si dovesse predisporre una 'reformatio' dall'alto del corpo sociale. "De Gasperi spiega Scoppola - ebbe un ruolo decisivo nel garantire il clima necessario ai lavori della Costituente: neutralizzò nella fase preparatoria spinte giacobine in nome del potere assoluto della sovranità popolare". E' il passaggio chiave della lettera di de Gasperi a Sturzo del 3 marzo 1946, dove richiama il doppio successo ottenuto contro "la posizione delle estreme in favore dei poteri assoluti della costituente e non 88
solo in materia costituzionale ma anche in materia legislativa in genere, compresa la formazione del governo". Così anche Leopoldo Elia, nella lezione dell'anno successivo, "Alcide De Gasperi e l'Assemblea Costituente" conferma tale giudizio, ricorda anche il senso puntuale dei due interventi in Aula, quello sull'articolo 7 (teso a distinguere il metodo pattizio per vincolare la Chiesa alla democrazia dal concreto testo del Concordato del 1929) e quello sullo Statuto del Trentino AltoAdige (sull'autonomismo come chance per una gestione migliore rispetto alla burocrazia statale che andava dimostrata nei fatti spendendo meno e meglio, in una visione che chiaramente risente della distinzione tra Stato e nazione maturata nel periodo dell'impero absburgico) e lo motiva ulteriormente rimarcando che anche nella prima legislatura non vi fu affatto una volontà negativa di inadempienza, ma "un criterio di gradualità..di attuazione 'cum grano salis", secondo l'espressione dello statista trentino del 1952. Il terreno della sussidiarietà non sembra pertanto oggi un terreno neutro rispetto a questi diversi cattolicesimi politici e consente un giudizio molto differenziato rispetto alla loro odierna fecondità storica, decisamente a favore del filone degasperiano-liberale. *http://www.tamtamdemocratico.it/do c/228875/la-nostra-sussidarieta-non-estatalista.htm
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NUMER0 4 DICEMBRE 2011
NUMER0 3 NOVEMBRE 2011
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NUMER0 1 AGOSTO/SETTEMBRE 2011
NUMER0 0 LUGLIO 2011
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