Soldi e democrazia | Tamtàm democratico

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NUMERO 9 MAGGIO/GIUGNO 2012

Soldi e democrazia

contributi di Mario Barbi • Giorgio Benigni • Paolo Borioni • Rodolfo Brancoli • Vanni Bulgarelli • Giuseppe Caldarola Pier Luigi Castagnetti • Paolo Corsini • Sergio Gentili • Fabrizio Di Mascio • Alfio Mastropaolo • Antonio Misiani Franco Monaco • Annamaria Parente • Giannino Piana • Geminello Preterossi • Luigi Zanda



Stefano Di Traglia Direttore responsabile

Franco Monaco Direttore editoriale

Alfredo D’Attorre Coordinatore del Comitato editoriale

Valentina Santarelli Segretaria di redazione

COMITATO EDITORIALE Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini

SOMMARIO FOCUS

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Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico

Proprietario ed editore Partito Democratico Sede Legale - Direzione e Redazione VIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 Roma Tel. 06/695321 Direttore Responsabile Stefano Di Traglia Registrazione Tribunale di Roma n.270 del 20/09/2011 I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza Creative Commons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate

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Giannino Piana

9 www.tamtamdemocratico.it

Denaro e potere, realtà ambivalenti

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Etica della trascendenza e creazione della ricchezza Giorgio Benigni Contro la privatizzazione della democrazia Geminello Preterossi Berlinguer e la terza Repubblica

Paolo Corsini

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I partiti nella legislazione europea Pier Luigi Castagnetti

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Dimezzamento e riforma del finanziamento ai partiti Antonio Misiani Innovare guardando all’Europa Paolo Borioni Le peculiarità del caso Usa Rodolfo Brancoli Partiti sazi e inadeguati Mario Barbi

Quando i soldi sono spesi bene: la formazione politica Annamaria Parente La personalizzazione della corruzione al tempo della “partitopenia” Fabrizio Di Mascio Conflitto di interessi, vulnus alla democrazia Luigi Zanda Stampa di partito tra crisi e metamorfosi Giuseppe Caldarola Promemoria sul caso Lusi Franco Monaco

ALTRI CONTRIBUTI

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Scienziati sociali, politici e la suocera di Ilvo Diamanti Alfio Mastropaolo Dalle città per far ripartire l’Italia Sergio Gentili e Vanni Bulgarelli

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Denaro e potere, realtà ambivalenti Giannino Piana

insegna Etica Cristiana all’Università di Urbino ed Etica ed Economia all'Università di Torino

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enaro e potere sono realtà ambivalenti, che non vanno demonizzate, ma che devono essere tenute sotto controllo, perché, soprattutto laddove si associano, possono trasformarsi in una miccia esplosiva. Le ragioni di tale ambivalenza sono chiaramente evidenziate dalla tradizione biblica, in particolare neotestamentaria. Vi sono infatti nei Vangeli, soprattutto a proposito del denaro, affermazioni perentorie che non sono passibili di interpretazioni accomodanti. Dal “guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione” (Lc 6, 24) fino a: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt 6, 24; cfr anche Lc 14, 33; 16, 1-13). A venire qui enunciato non è il rifiuto radicale dei beni economici, i quali sono segno della benevolenza divina che premia l’uomo impegnato a trasformare il mondo con il lavoro. La condanna del denaro in quanto “mammona di iniquità” è condanna di uno status sociologico, che si intreccia strettamente con una attitudine interiore; è, in altri termini, condanna di una condizione materiale, contrassegnata da un’accumulazione eccessiva di beni, la quale provoca ingiustizia e idolatria. Il denaro infatti non alimenta soltanto la chiusura egocentrica dell’uomo, concorrendo ad accentuare le sperequazioni e il disagio sociale, ma tende anche a trasformarsi in idolo cui tutto viene sacrificato, compresa la capacità di aprirsi a Dio, riconoscendone l’assoluta supremazia. Un’analoga riflessione riguarda il tema del potere, la cui ambiguità è riconducibile alla duplicità di significati che lo connotano: da un lato, esso esprime infatti “capacità di” o 5


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“possibilità di” – l’exousìa di cui parlano i Vangeli facendo riferimento all’azione salvifica di Cristo (che si estrinseca soprattutto nei miracoli) – ma contiene, dall’altro, il pericolo di indulgere a quella “volontà di potenza”, che alberga in esso come una componente costitutiva e che racchiude in sé impulsi irrazionali e forze pericolosamente distruttrici. La politica, in quanto comporta necessariamente la gestione del potere, non può prescindere da uno stretto rapporto con esso; ma deve prendere seriamente in considerazione i rischi che gli sono connaturati, in primo luogo la tentazione permanente della caduta in una forma di radicale autoreferenzialità. Questi rischi diventano ancora più consistenti quando il potere politico si lascia lusingare – come purtroppo è avvenuto in questi anni in termini sempre più accentuati anche da noi (il caso della Lega non è che la punta più alta e più volgare di un iceberg che ha radici assai profonde) – dal potere del denaro, provocando l’insorgenza di una vera hybris, di un senso smisurato di onnipotenza per il quale si tende a giustificare qualsiasi comportamento. Che fare allora? Come uscire da questa situazione? Non si tratta, come già si è accennato, di tabuizzare o di rimuovere denaro e potere – non è infrequente che chi fa proprio tale atteggiamento si adegui poi, quando si trova a gestirli, alle

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logiche più deteriori – ; si tratta piuttosto di modificare radicalmente il rapporto che si instaura con essi, sia a livello di atteggiamento di fondo che di comportamenti concreti nella vita quotidiana. L’ambiguità che connota il denaro e il potere è infatti legata alle modalità di uso che si fa di essi da parte dell’uomo. Il capovolgimento di prospettiva richiesto quando ci si rapporta con il denaro è il passaggio dalla tendenza ad accumulare alla disponibilità a donare. L’atteggiamento che va coltivato è dunque il superamento della logica del possesso esclusivo e totalizzante (che porta sempre con sé l’essere posseduti: “poiché laddove è il tuo tesoro, là è il tuo cuore”) per fare propria la logica della condivisione. Questo (e non altro) è il significato della povertà evangelica, la quale non implica il rifiuto dei beni – si tratterebbe altrimenti di una forma di manicheismo – ma la capacità di comparteciparli, venendo incontro soprattutto a chi vive in condizioni di precarietà e di emarginazione. E questo è il senso della testimonianza offerta dalla primitiva comunità cristiana come è descritta dal libro degli Atti degli Apostoli: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2, 44-45). L’attualità di questo messaggio è oggi particolarmente evidente: la crisi che attraversiamo impone un radicale cambiamento degli stili di vita, la rinuncia cioè alla corsa al benessere e ai consumi, che incrementa le disparità sociali e produce alienazione nei rapporti. La ricerca di una nuova qualità della vita e la promozione dei beni relazionali passa attraverso la redistribuzione dei beni economici, l’uso sociale delle risorse e la creazione di forme allargate di socializzazione ma passa soprattutto attraverso l’adozione della povertà evangelica, cioè della sobrietà come via per vincere la povertà negativa, la privazione di beni fondamentali che impedisce ogni possibilità di realizzazione personale e collettiva. In modo analogo, il potere, che è di per sé uno strumento necessario dell’azione politica, deve essere esercitato – come ci ricorda il Vangelo – non come potere sull’uomo, ma come potere per l’uomo; deve cioè trasformarsi in servizio alla crescita umana, di ciascuno e di tutti: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse, e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà

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Il potere è uno strumento delicato che va maneggiato con prudenza, consapevoli del pericolo che permanentemente incombe sulla sua gestione: l’egoismo, che si annida nel profondo dell’io umano, ha in esso un potente alleato

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La ricerca del bene comune, che è il fine proprio della politica, esige il superamento della tentazione a perseguire l’interesse personale e la coltivazione di un senso profondo di solidarietà interumana

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diventare grande tra voi si farà vostro servo… appunto come il Figlio dell’Uomo che non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt. 20, 24-28; cfr. anche Mc. 10, 42-44; Lc. 22, 25-26). La condizione fondamentale perché questo avvenga è l’integrità morale della persona. La capacità di resistere e di vincere le tentazioni (molto forti) della “volontà di potenza”, che rischia altrimenti di avere il sopravvento, è strettamente connessa allo sviluppo di un’attitudine di costante vigilanza frutto di un'autentica vita interiore. Il potere è uno strumento delicato che va maneggiato con prudenza, consapevoli del pericolo che permanentemente incombe sulla sua gestione: l’egoismo, che si annida nel profondo dell’io umano, ha in esso un potente alleato. Il potere tende ad autoconservarsi, alimenta nell’uomo una smisurato bisogno di autoaffermazione, spesso camuffato – è il caso della politica o dell’impegno nel volontariato – dalla presunzione di operare per gli altri o per il bene comune, con il rischio perciò dell’autogiustificazione. La vigilanza richiesta implica l’acquisizione di una particolare attitudine a riconoscere le dinamiche sottese ai comportamenti, smascherando ciò che è (spesso inconsciamente) occultato e facendo emergere con coraggio le ragioni che presiedono alle scelte. La ricerca del bene comune, che è il fine proprio della politica, esige il superamento della tentazione a perseguire l’interesse personale e la coltivazione di un senso profondo di solidarietà interumana. Condivisione dei beni e spirito di servizio sono dunque i presupposti per uscire dalla duplice (e collegata) tentazione del denaro e del potere e restituire alla politica il ruolo di forma più alta (e più nobile) – come ricordava Paolo VI – di esercizio della carità.


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Etica della trascendenza e creazione della ricchezza Giorgio Benigni Ufficio documentazione e studi del gruppo PD alla Camera

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a crisi delle economie occidentali, cominciata in America con la crisi del debito privato e proseguita in Europa con quella del debito pubblico continua a mantenere nello spaesamento non solo le popolazioni dei Paesi del G8 ma, cosa più preoccupante, le rispettive classi dirigenti. Si riscontra un’evidente e generale incapacità di trovare soluzioni adeguate sia sul piano tecnico che su quello etico politico. Il fenomeno dell’impoverimento sia in termini assoluti (decrescita del PIL) che relativi (in relazione ai paesi emergenti) delle economie occidentali ed europee in particolare, sembra essere qualcosa di epocale, irreversibile e quindi impossibile da modificare. È diffusa la sensazione di mantenere ancora standard di vita elevati grazie alla ricchezza accumulata dalle passate generazioni ma senza che le nuove siano in grado di ripetere altrettanto1. Questo, lungi dal colpevolizzare chicchessia, con un atteggiamento moralistico che porterebbe a giudicare senza comprendere, e quindi sostanzialmente senza riuscire ad incidere, rivela però l’esistenza di una questione reale che, in queste brevi note, si tenterà di interpretare con categorie etico-politiche, pertanto non tecniche, ovvero deresponsabilizzanti, né tantomeno morali, ovvero colpevolizzanti. Etica familiare e creazione di ricchezza Fare una famiglia ha un interessante corrispettivo nel concetto di “mettere su casa”. Fare una famiglia implica quindi un progetto, l’idea di un progetto, il progetto della casa, e insieme 1. “Almeno da due decenni le nuove generazioni non sono in condizione di produrre ricchezza e possono godere soltanto di quella accumulata dai genitori” Enrico Letta, Arel, La rivista, Ricchezza 2/2010

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La relazione tra economia e casa, economia e famiglia e quindi tra casa famiglia e ricchezza, prima che essere storica e antropologica è etimologica: la parola economia deriva dal greco e significa “leggi della casa”

l’idea di stabilità, l’idea di un progetto che non si compie nell’istante ma che si realizza nella durata. Un progetto di lungo periodo. Casa e famiglia possono quindi essere definiti due prodotti di una economia del lungo periodo. Un’economia fondata su presupposti antropologici totalmente altri rispetto a quelli imperanti nella nuova economia che tendono alla massimizzazione del profitto nell’istante, si pensi ai prodotti cosiddetti “derivati”, e più in generale a quella finanziarizzazione dell’economia che ha la sua “ideologia” nella “visione a breve termine” ovvero nello short-termism, malamente italianizzato con il termine “shortermismo”. Del resto la relazione tra economia e casa, economia e famiglia e quindi tra casa famiglia e ricchezza, prima che essere storica e antropologica è etimologica: la parola economia deriva dal greco e significa “leggi della casa”, quindi le norme che sovrintendono alla sua gestione. E se si pensa che, sempre in greco, famiglia si dice “οικογένεια”, “casa della generazione”, si capisce come la centralità della casa sia alla base e della formazione della famiglia e quindi della formazione della ricchezza. Del resto, se passiamo dal greco al latino la parola “patrimonio”, che individua l’esistenza di un capitale accumulato nel tempo, ha la sua radice nella parola “pater”, padre, e “munus” compito, indicando pertanto non solo ciò che appartiene al padre ma anche il suo compito. Ergo la costituzione di un capitale, ovvero di un patrimonio, di fatto la creazione di ricchezza, è propriamente ciò che compete al padre. Confrontiamo ora queste considerazioni con quelle che seguono: “la famiglia e la casa sono state le molle principali del tipo di movente specificamente borghese del profitto. Non sempre gli economisti hanno attribuito il giusto peso a questo fattore. (…) coscientemente o incoscientemente il comportamento dell’uomo, le sue idee, i suoi moventi erano foggiati dalla “home”: egli lavorava e risparmiava soprattutto per la moglie e per i figli” “in questo dopoguerra l’ascesa di milioni di persone che si mettono in proprio nelle regioni che vanno dalla Baviera all’Emilia, al Veneto, è caratterizzata da questa etica della famiglia”. A pronunciare queste parole, venticinque anni fa, nel 1987, è stato il Prof. Beniamino Andreatta, in un convegno a Bologna dal titolo “Danaro e coscienza cristiana”2. Andreatta nella sua prolusione si colloca in una visione eterodossa sia rispetto all’analisi classica dell’Homo Oeconomicus, che compie

2. Ora in “Danaro e coscienza cristiana” Edizioni Dehoniane, Bologna. 1987

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scelte in base all’utile immediato e si relaziona solo con le cose, ma anche con il concetto keynesiano di famiglia, che la colloca nell’universo economico essenzialmente come nucleo di consumo, quindi non come nucleo generatore di valori, immateriali e materiali e, in ultima analisi, anche come creatore di ricchezza. Etica pubblica e creazione di ricchezza Se il “patrimonio” è il prodotto in termini economici dell’etica familiare, anche quella che potremmo definire etica pubblica ha un suo prodotto, certo diversamente e più difficilmente misurabile ma tuttavia riconoscibile e riconducibile al concetto di “bene comune” o anche “benessere comune”. Come il patrimonio va al di là, ovvero trascende l’esistenza e l’azione di colui che lo ha creato, così il bene comune trascende l’azione dei singoli, non è il semplice risultato di una somma di azioni ma il prodotto dell’esercizio, più o meno consapevole, di relazioni. Proprio per questo il ”bene comune” non è l’eterogenesi dei fini di Adam Smith: non basta al fornaio fare bene il proprio pane per costruire la ricchezza della sua “nazione”. Non c’è solo la responsabilità verso il proprio lavoro, il proprio prodotto. Non sono una somma di self made man a generare ricchezza per una comunità. Gli animal spirits rappresentano una condizione necessaria ma non sufficiente alla creazione di ricchezza. Privi di un’etica pubblica, una volta acquisita una posizione dominante, ovvero di monopolio, possono risultare oppressivi e opprimenti, 3. Ivi

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Si tornerà a creare ricchezza se si avrà la consapevolezza di concorrere a realizzare progetti grandi, di cui non è detto che noi stessi godremo, progetti che in qualche modo trascendono la nostra esistenza

generando ricchezza parassitaria per sé e impoverendo la maggioranza. Privi di un’etica pubblica gli animal spirits possono quindi arrivare a negare quella società competitiva da cui inizialmente hanno preso le mosse. Non c’è contraddizione allora ma piena coincidenza tra etica pubblica e società competitiva. Anche su questo punto ci possono essere di aiuto le parole di Beniamino Andreatta: “l’anima del progresso è desiderare di fare meglio (…) competere, cum petere, cercare insieme, per quanto l’uno contro l’altro non è un vizio. Ciò che uno guadagna nella competizione non è tolto agli altri, dato che la somma iniziale è investita per essere aumentata e il suo investimento apre nuove possibilità per altri investimenti”3 ovvero per la creazione di nuova ricchezza. Conclusioni L’impoverimento dell’occidente e dell’Europa è una questione politica, etico politica. E’ un fenomeno che non può essere arrestato né dalla buona volontà di governi tecnici né da pronunciamenti ex cathedra di governi moralizzatori. Governi di professori che si nascondono dietro la tecnica e governi di maestri che dettano compiti a casa non hanno i titoli per farci uscire dalla prospettiva dell’impoverimento. I fatti stanno lì a dimostrarlo. Non lo sono perché in realtà partecipano in tutto e per tutto alla visione dominante che ci ha condotto a questo punto: la totale autoreferenzialità e la visione di breve periodo, che ora, attraverso il feticcio dello spread è diventata la dittatura del breve periodo. I governi suindicati si dimostrano succubi di questa condizione e subalterni a questa visione; schiavi dell’emergenza, incapaci di indicare una prospettiva di liberazione, di ri-creazione di ricchezza, di redenzione. Se dunque l’etica del breve periodo e l’autoreferenzialità della ricchezza finanziaria, hanno determinato in questi anni una imponente distruzione del valore, vuol dire che dobbiamo affidarci a un’altra idea di ricchezza, un’idea di ricchezza reale e relazionale, solidale e competitiva, legata ad un orizzonte totalmente altro rispetto a quello dominante negli ultimi trent’anni: un orizzonte di lungo periodo. Sì, lo stesso che, secondo una famosa battuta di Keynes ci avrebbe visto “tutti morti”. Ecco, è proprio questo il punto, si tornerà a creare ricchezza se si avrà la consapevolezza di concorrere a realizzare progetti grandi, di cui non è detto che noi stessi godremo, progetti che in qualche modo trascendono la nostra esistenza. Che ci sopravvivono.

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Contro la privatizzazione

della democrazia Geminello Preterossi

insegna filosofia del diritto e storia delle dottrine politiche all'Università di Salerno

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a logica dei tagli imperversa come unico orizzonte possibile del nostro presente. Domina ormai anche il dibattito sulla crisi della rappresentanza democratica e sulla necessaria rigenerazione della politica in Italia. Le uniche ricette che sembrano prevalere nella discussione pubblica sono tutte declinate nel senso della contrazione dello spazio della politica. Come se il vero problema oggi non fosse il radicale squilibrio di potere tra finanza e democrazia, decisioni imposte in virtù di uno stato di necessità economico interpretato come legge naturale e autonoma progettualità politica fondata su un’effettiva legittimazione democratica. Le soluzioni invece, seguendo il dibattito mediatico e gli umori dominanti dell’opinione pubblica, sarebbero l’eliminazione (o la drastica riduzione) del finanziamento pubblico dei partiti, il taglio dei parlamentari, il rafforzamento del vertice dell’Esecutivo a scapito del Parlamento ecc. Lungi da me negare che le istituzioni e l’amministrazione di questo Paese debbano diventare molto più efficienti: ma ciò al fine non già di ridurre lo spazio e il ruolo della politica, bensì per ribadirne e rilanciarne la funzione irrinunciabile di mediazione e orientamento collettivo. Il problema che abbiamo di fronte non è quello di privatizzare e comprimere i soggetti della democrazia, ma di ricostruirne l’autorevolezza e la legittimazione. Di riannodare quei fili che debbono connettere costantemente la società alle istituzioni, senza i quali le condizioni minime della convivenza civile vengono meno e una comunità politica si sfalda, riprecipitando nello stato di natura, nella guerra per bande, nella decivilizzazione. Ora è innegabile che una parte significativa del ceto politico italiano stia facendo di tutto per dare ragione all’antipolitica, confermando la massima secondo la quale Dio acceca quelli che vuole perdere.

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Così come è indubbio che la qualità della rappresentanza si sia profondamente degradata, grazie soprattutto (ma non solo) agli effetti del berlusconismo, prima trionfante e poi crepuscolare, e al Porcellum. Peraltro, questo processo degenerativo non ha trovato nelle élites economiche e intellettuali anticorpi adeguati, bensì spesso collusioni interessate. Un accecamento collettivo e irresponsabile che prepara l’eclissi della democrazia stessa, perché annuncia non un vero e profondo cambiamento, ma possibili fuoriuscite autoritarie dalla crisi, nuove deleghe in bianco (alla tecnocrazia o al populismo poco importa), e magari un nuovo riflusso quietista dopo la gogna. Insomma, gli errori e l’impotenza della politica alimentano giudizi generici e sommari, determinando un clima nel quale fioriscono luoghi comuni semplicisti e suggestioni antipolitiche che producono un avvitamento pernicioso. Ma pongo un interrogativo: non sarà che la privatizzazione della politica – che conosce oggi episodi eclatanti e tristissimi di corruzione, di uso personale dei partiti e delle funzioni pubbliche –, è anche conseguenza del più generale processo di privatizzazione che ha reso subalterna e servente la politica all’economia? Tanto che, se la politica non serve o al massimo deve (sempre più faticosamente) procacciare consenso a decisioni prese dai grandi poteri finanziari, obbedendo alla nuova “teologia dei mercati”, molti “politici” hanno pensato che tanto valeva usare la politica e il proprio ruolo istituzionale per fini puramente personali o di clan, lucrando un vantaggio privato? Questa non è affatto una giustificazione, com’è evidente,ma un tentativo di comprendere il senso di quanto sta accadendo andando al di là della superficie. Invece, qual è l’alternativa che oggi viene proposta a questa crisi di legittimità? Quella di assumerla e aggravarla: riducendo il peso della rappresentanza (quando invece occorrerebbe interrogarsi sulle ragioni strutturali e le conseguenze pericolose della sua crisi); sostituendo alla politica la tecnica (come se questa fosse neutra e di per sé legittima); privatizzando il finanziamento della politica (quando occorrerebbe porre argini forti all’influenza diretta o indiretta della ricchezza nella politica e ai conflitti di interesse, senza confidare eccessivamente in authorities e regolatori, le cui condizioni di indipendenza debbono essere sempre verificate e in particolare in Italia ricostruite dalle fondamenta). Oltretutto, senza considerare attentamente un punto: laddove 15


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Nella campagna presidenziale in corso Wall Street ha di fatto “comprato” il suo candidato, con un investimento colossale e mai come questa volta univoco sul repubblicano Romney

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più pesa il denaro nelle scelte politiche e si è puntato tutto sui finanziamenti privati ai candidati (riducendo di fatto i partiti a comitati elettorali e collettori di raccolta-fondi), come negli Stati Uniti, non è che le cose funzionino così bene. Su molte materie è assai difficile legiferare (dall’acquisto libero di armi alle questioni energetiche ed ecologiche, dalle imprese farmaceutiche alla sanità, dai mercati finanziari alle banche), perché il peso delle lobbies e dei loro finanziamenti agli eletti è tale da rendere quasi impossibili – o molto onerose – determinate scelte nell’interesse della collettività, ma svantaggiose per i finanziatori. I fenomeni di corruzione, condizionamento opaco, commistione tra regolatori e regolati, strapotere della finanza nonostante la regolamentazione delle attività delle lobbies e la presenza di autorità indipendenti -, sono ormai strutturali e minano la credibilità del sistema americano (si pensi a casi come quello Enron, ai ripetuti crack bancari, agli inquietanti conflitti di interessi di vari esponenti della amministrazione Bush jr. protagonisti della guerra in Iraq). Nella campagna presidenziale in corso Wall Street ha di fatto “comprato” il suo candidato, con un investimento colossale e mai come questa volta univoco sul repubblicano Romney (evidentemente, bisogna farla pagare a Obama, per quel poco di politica indipendente che è riuscito a fare). E francamente è assai dubbio che questa potenza di fuoco possa essere bilanciata dai finanziamenti dal basso che si concentrano sul Presidente in carica. Di fronte a tendenze di questa portata, fa impressione che la Corte Suprema (a maggioranza conservatrice) abbia di recente ritenuto non doversi porre un limite alla raccolta di finanziamenti privati ai candidati, a tutela dell’uguaglianza democratica, legittimando di fatto una sperequazione potenzialmente illimitata tra attori politici e sottovalutandone le pesanti conseguenze in termini di alterazione della competizione, soprattutto nella possibilità di utilizzare gli strumenti decisivi della comunicazione per spiegare, far conoscere, diffondere capillarmente le proprie posizioni. Ora, il potere economico ha sempre contato in politica, mirando a condizionarne le decisioni. Ma proprio per questo sono stati previsti argini e freni a tutela di una sua (relativa) autonomia. Sancire costituzionalmente che non c’è limite all’intervento della ricchezza nella vita democratica non mina alla radice anche una concezione realistica della democrazia come “poliarchia” (Dahl)?


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Come mostra Bernard Manin nei suoi Principi del governo rappresentativo, il vincolo della ricchezza altera la competizione perché conferisce potere di per sé, in virtù del costo della diffusione dell’informazione: “Il primo cambiamento che si rende necessario è l’eliminazione degli effetti della ricchezza sulle elezioni. Un tetto alle spese elettorali, un’applicazione rigorosa di tale tetto, e il finanziamento pubblico della campagne elettorali sono i mezzi più ovvi per progredire in direzione di questo fine” (ed. it. Bologna, Il Mulino 2010, p.177). Dunque, a mio avviso occorre ribadire con forza, anche se non è di moda, che il finanziamento pubblico è giusto e deve essere difeso, se si vuole combattere una concezione patrimoniale della politica (del tutto funzionale all’egemonia neoliberista) e si vuol continuare a prendere sul serio la promessa normativa della democrazia. Ma ciò presuppone una ricostruzione culturale e sociale della qualità della politica, che muova dalla radicale – e autocritica – messa in discussione della bolla ideologica “privatistica” che ha dominato (anche a Sinistra) l’ultimo ventennio. Il finanziamento pubblico dei partiti deve servire a sostenere una politica di alto profilo e autonoma. Affermato questo principio, si può e si deve riformare modalità ed entità di tale finanziamento, imporre trasparenza, dare attuazione al dettato costituzionale sul ruolo dei partiti garantendo democrazia interna e controlli, ripensare seriamente il rapporto politica-denaro, anche con norme incisive sulla corruzione (fin ad oggi mai prese sul serio in considerazione). Perché le storture sono evidenti e insopportabili. E cospicue le forze “elitiste/nichiliste” pronte a utilizzarle per portare a compimento una definitiva transizione postpolitica e antisociale. Se crediamo ancora che la politica democratica serva a dare voce e a chi altrimenti non l’avrebbe, ricordiamoci della lezione di Enrico Berlinguer: una classe politica per essere dirigente e non subalterna deve riconoscere la natura politica e istituzionale della questione morale, essere attrezzata culturalmente ed eticamente, avere una visione del mondo e non temere di portarla avanti nella società. 17


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Berlinguer e la Terza Repubblica Paolo Corsini

è deputato del Partito Democratico, già sindaco di Brescia

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rionfa, ormai, la “democrazia del pubblico”, uno specchio opaco in cui si riflette il modello americano. Mutano le forme del Governo rappresentativo i cui principi classici vengono travolti lungo una china al fondo della quale il sistema dei partiti, la “democrazia dei partiti”, sembra sul punto di implodere travolta da uno tsunami di discredito e ostilità, da un’avversione che investe la politica nel suo complesso. Una sorta di “crisi generale” della politica ormai alle prese con una caduta verticale di credibilità e di consenso, orientata com’è, se non eterodiretta, dal dominio della tecnica, dalla supremazia dell’economia finanziaria. All’orizzonte populismo e tecnocrazia si profilano quali possibili, incombenti esiti di un crollo, un vero e proprio disfacimento. La “Seconda Repubblica” si conclude con una capitolazione forse ancor più ignominiosa della Prima. Senza neppure percepire la propria vergogna (vereor gogna) in quanto offuscato, se non smarrito, risulta lo stesso sentimento del pudore e affievolito persino l’impegno di una sanzione morale nel quadro di un diffuso adattamento al costume di casa da tempo invalso. Si invoca e da tutti si plaude al nuovo – identificato con giovane il cui contrario tuttavia è vecchio – e non si persegue il “diverso”, la possibilità stessa di una rigenerazione morale e civile, foriera di un costume rinnovato ed abilitata a promuovere un sistema condiviso di regole e comportamenti. Assistiamo in diretta, come titola il suo libro Marco Damilano, all’ “eutanasia di un potere”, lungo una sequenza che per più versi rievoca, reduplicandola, la fine della “Prima

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Repubblica”: una “Tangentopoli” che non è mai finita – oggi si ruba non solo per il partito, ma anche al partito, cioè si entra in politica per rubare –, affaristi che si fanno nominare in Parlamento, parlamentari che finiscono in carcere, il default del Paese all’orizzonte, il Quirinale garante della gestione di una fase transitoria, la Casta ridotta a capro espiatorio, a ente inutile, a costo da eliminare. Dunque il compimento del giudizio, quasi una profezia, pronunciato da Pietro Scoppola nel lontano 1991: la “Seconda Repubblica” come “travestimento del vecchio ordine, più che premessa di una nuova realtà”. Ed insieme la conferma dell’ammonimento dovuto ad un buon maestro del pensiero quale Norberto Bobbio: “dov’è il nemico? Il nemico è dentro di noi. Disfacimento indica una lenta, inesorabile decadenza delle nostre istituzioni, per insipienza, superficialità, disonestà degli uomini che se ne servono”. Qui è riconoscibile la traiettoria tanto dei partiti “pubblicitari” – il partito blob , del “presidente”, modellato sul club dei tifosi, con la bandiera, l’inno della squadra, i

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gadget, ben descritto da Pier Luigi Castagnetti in una proposta di legge di cui è primo firmatario, proposta che reca disposizioni per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione –, quanto dei partiti personali e personalizzati a centralismo carismatico che definiscono un campo in cui partecipazione, argomentazione pubblica, mobilitazione sociale cedono il passo al marketing politico ed alla mediatizzazione al punto tale che l’offerta politica non può essere influenzata dal militante, dall’iscritto, dal simpatizzante o dall’elettore, nè sottoposta ad interazione alcuna. Come ha sottolineato Ilvo Diamanti, è la materializzazione della “democrazia immediata” di cui teorizzava il marchese di Condorcet negli anni precedenti la Rivoluzione francese, una democrazia “dis–ancorata, senza orizzonti futuri e lontani”, istantanea perché rivolta al soddisfacimento di preferenze individuali; oggi, nel tempo di internet, delle nuove tecnologie della comunicazione atte a promuovere un processo di “dis-intermediazione” che salta ogni mediazione politico-organizzativa, una democrazia irriflessiva il cui criterio appare il gusto del singolo, l’ipertrofia dell’io, la pulsione incontenibile del “mi piace”. Ma c’è pure un’ulteriore mutazione della forma partito che sembra investire l’intero sistema, della forma partito, intendo dire, quale abbiamo conosciuto nelle sue evoluzioni nel corso della modernità contemporanea: dal partito dei notabili, a quello di “milizia”, al partito di integrazione di massa a quello “pigliatutto”. Il modus odiernus (appunto moderno) è il partito “cartello” non solo “azienda” di emanazione statale, articolazione dello Stato in quanto frutto di “interpenetrazione”, partito che controlla e gestisce risorse pubbliche – ad esempio le nomine nei vari Enti – tra le quali rientra il finanziamento pubblico, ma pure formazione politica strutturata in oligarchie chiuse, autoconservative, reciprocamente referenziali, che gestiscono fedeltà, appartenenza, selezione e cooptazione di gruppi dirigenti praticamente non contendibili. Come scrivono Katz e Mair, in un saggio ormai classico del 1995 , i partiti sembrano diventati “partnership di professionisti più che associazioni di e per i cittadini” ed – echeggiando Weber – la politica si riduce ad “occupazione” piuttosto che “interpretare una vocazione”. Appunto, per scostarci dalle tipizzazioni teoriche e rimettere i piedi per terra, per restare in corpore vili: forse più che il passaggio ad una “Terza Repubblica”, dopo il 20


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fallimento per consumazione della Seconda, una consumazione fortunatamente ancora senza “orda selvaggia”, seppure non manchino segni assai preoccupanti di frantumazione sociale, d’insorgenza di nuovi poteri criminali, di tentazioni aggressive ad impronta neo– stragistica e anarco–insurrezionalista, il problema resta lo stesso dei primi anni Novanta, vale a dire come fondare, dare vita ad una democrazia (non giacobina) dei cittadini e delle Istituzioni, che rimetta a loro posto i partiti e restituisca alla politica la sua dignità, le sue ambizioni. I cittadini, le Istituzioni, i partiti. A costo di apparire retro ed inguaribili nostalgici, non ci pare a questo proposito disdicevole, rileggere l’ultimo Berlinguer. Rileggerlo in un mondo radicalmente mutato, dove campeggiano globalizzazione e mercati finanziari, secolarizzazione post–ideologica ed innumerabili icone del consumo, il web e la comunicazione mediatica, insomma non solo un mondo nuovo, ma un altro mondo caratterizzato dalla fine di tutti gli “ismi” come pure da un’indubitabile spread morale. Eppure accanto ad un Berlinguer inevitabilmente datato ,espressione di una politica che ha da tempo scontato tutti i suoi appuntamenti, resta un Berlinguer “metastorico”, più gobettiano che gramsciano o post-togliattiano, ancora alle prese con quella “eterna Italia” magistralmente descritta da Stendhal, che pure oggi si riproduce nella sua perenne autobiografia, con i suoi vizi secolari, dal trasformismo alla cortigianeria, alla mancanza di ogni vincolo di obbligazione ai valori della coscienza. Un leader “civile”, che può essere riletto in chiave attuale, “volontarista”, “idealista”. È il Berlinguer dell’intervista ad Eugenio Scalfari del 28 luglio 1981, del saggio su “Rinascita” del 4 dicembre dello stesso anno, saggio dedicato al “rinnovamento della politica”. Ancora: del testo, pubblicato postumo nel giugno dell’’84, preparato come parte conclusiva della prefazione ai Discorsi parlamentari di Palmiro Togliatti, e del quale aveva deciso l’anticipazione sul settimanale del Pci, uno scritto titolato emblematicamente “Parlamento, governo, partiti”. Insomma il Berlinguer della “questione morale”; per ricorrere ad un ossimoro , il Berlinguer democratico di cui un “anti-italiano” come Ugo La Malfa riconosce per tempo l’apprezzamento di un sistema di regole, la valorizzazione del governo delle

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Dove sta, dunque, l’attualità di Berlinguer? Esattamente là dove individua la trasformazione dei partiti collocandola nel cuore della questione morale

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leggi” sempre da preferire al “governo degli uomini” anorché illuminati, secondo la lezione insuperata di Bobbio. Dove sta, dunque, l’attualità di Berlinguer? Esattamente là dove individua la trasformazione dei partiti collocandola nel cuore della questione morale, introducendo per tempo le ragioni basilari di un prevedibile crollo del sistema politico dell’Italia repubblicana e tuttavia finendo col sancire l’isolamento del proprio partito, nonché con l’introiettare la conventio ad excludendum, sino all’autovittimizzazione. “I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela – questa la raffigurazione del segretario comunista – : scarsa o mistificata conoscenza dei problemi della società, della gente: idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune”. Da qui il passaggio successivo sulle forme e modalità organizzative : “la loro stessa struttura […] si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori

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del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa, sono piuttosto federazione di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sottoboss”. Passaggi che costituiscono la premessa attraverso la quale Berlinguer giunge a tematizzare, rivendicando la “diversità comunista” – in realtà una deontologia, un dovere essere, un’aspirazione etica, non un dato politico antropologico – il rapporto partiti-Stato. L’obiettivo, che dà per scontato il riferimento all’onestà, alla pulizia, alla trasparenza, alla correttezza di condotta del personale politico, punta alla denuncia dei fenomeni di degenerazione, dei fattori di sconvolgimento delle relazioni che devono intercorrere e stabilirsi tra compiti dello Stato e delle Istituzioni da un lato e funzioni dei partiti dall’altro, tutti i partiti, comunque essi siano collocati, al governo o all’opposizione. “Noi vogliamo – così Berlinguer dialogando con Scalfari – che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della Nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi dello Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle Istituzioni”. E più avanti, precisando ulteriormente la propria riflessione politica: “la questione morale non si esaurisce nel fatto che essendo dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli […], la questione morale nell’Italia di oggi […] fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato […], fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione e metodi di governo […] che vanno semplicemente abbandonati e superati”. Da queste premesse discendono, lungo una linea di assoluta coerenza che denuncia il processo di progressiva appropriazione patrimoniale dello Stato, nonché la tendenza alla privatizzazione dei partiti, due indicazioni operative. Da una parte lotta alla corruzione – nel saggio sul rinnovamento della politica – “che sta diffondendosi in ogni campo della vita nazionale e cioè la lotta contro ogni atto e tendenza rivolti a continuare ad adoperare per interessi privati e per fini di partito organi, strumenti, uffici, corpi e mezzi finanziari che sono pubblici, che cioè appartengono a tutti”, dall’altra l’impegno dello Stato a 23


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prendere atto dei mutamenti della società, delle sue conquiste, fino ad “assumerle progressivamente – così nello scritto edito successivamente alla morte – nell’ordinamento giuridico, a sancirle in norme legislative certe e stabili, ossia, in una parola, istituzionalizzarle, rendendole così generali, di tutti i cittadini, loro bene comune […]. In tal senso e solo così lo Stato moderno è davvero Stato di diritto, Stato di tutti, Stato democratico”. Resta naturalmente impregiudicato, quanto alla dialettica democratica, il ruolo insostituibile del Parlamento, quel Parlamento oggi marginalizzato, ridotto ad organo di acclamazione per la maggioranza e di testimonianza per le minoranze, nonché dei partiti. Insistito è il richiamo ad una funzione – Berlinguer , critico dei partiti , si spinge a sottolinearne addirittura il “primato” – che “può divenire reale, può legittimarsi e può, quindi, ricevere consensi”, solo se essi, i partiti, “stabiliscono un rapporto diretto e continuo con la società […], con i cittadini, ne colgono e ne rappresentano i veri bisogni, aspirazioni reali, ne organizzano la mobilitazione e partecipazione democratica per individuare e conseguire obiettivi che avviano a soluzione i problemi del Paese”. A questo punto il cerchio della disamina si chiude. A Berlinguer non resta che proporre il proprio partito come modello di una diversità incontaminata, un soggetto quasi dotato di virtù salvifiche anche nel rapporto con gli altri protagonisti della vita politica italiana. Una linea, una prospettiva criticata, tanto da Alessandro Natta in alcune note personali e appunti riservati, quanto da Giorgio Napolitano allorché, scrivendo a proposito dell’anniversario di Togliatti, ne sottolinea la concretezza e duttilità politica, distinguendo criticamente tra “orgogliosa affermazione della nostra “diversità” e impegno “a far leva sulle “peculiarità” del nostro partito per contribuire ad un corretto rilancio della funzione dei partiti in generale come elemento insostituibile di continuità e di sviluppo della vita democratica”. Come siano andate poi le cose è a tutti noto. Il conservatorismo istituzionale del Pci, e molto altro ancora, non è risultato estraneo alla crisi del Paese ed alla consumazione della prima fase della storia repubblicana. In questo la cronaca del suo tempo ha dato indubbiamente torto a Berlinguer. Ma la vicenda successiva ha finito per confermare e attribuire indubbie ragioni alla lucidità dei suoi giudizi e alla validità della sua testimonianza morale e politica. 24


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I partiti nella legislazione europea Pier Luigi Castagnetti

è deputato del Partito Democratico

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a nostra Costituzione, all'articolo 49 ha disposto che: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». I Costituenti furono tutti d'accordo nel riconoscere il fondamentale ruolo dei partiti politici, ma non sul fatto di sottoporli a vincoli e a verifiche sulla loro vita interna; si preferì allora non intervenire su questo aspetto, per la preoccupazione, espressa soprattutto da parte degli esponenti della sinistra, che si arrivassero a definire «una indebita ingerenza e un pericoloso criterio di esclusione». È opinione condivisa che su tali decisioni pesò il clima politico di quegli anni con l'inizio della guerra fredda e la rottura intervenuta tra i partiti che avevano dato vita al Comitato di liberazione nazionale. La questione tornò d'attualità, agli inizi degli anni '60, nel corso delle polemiche contro la cosiddetta «partitocrazia».

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Nel 1958 Sturzo presentò al Senato un disegno di legge sul finanziamento dei partiti che prevedeva il riconoscimento della personalità giuridica dei partiti. Altri progetti furono predisposti negli anni '60 dalla Commissione per i problemi costituzionali del Partito repubblicano italiano e dal Club Turati, che non riuscirono ad approdare in Parlamento. A metà degli anni '80, nella relazione di maggioranza della Commissione Bozzi venne poi avanzata una proposta di riformulazione dell'art. 49 che prevedeva: «disposizioni dirette a garantire la partecipazione degli iscritti a tutte le fasi di formazione della volontà politica dei partiti, compresa la designazione dei candidati alle elezioni, il rispetto delle norme statutarie, la tutela delle minoranze». Anche questa iniziativa non si tradusse in un concreto intervento legislativo ma segnò una sorta di inversione di rotta, e nuovi progetti di legge sull'attuazione dell'articolo 49 vennero presentati alle Camere a partire dalla IX legislatura. Attualmente giacciono in Parlamento diversi progetti di legge di iniziativa parlamentare e finalmente è iniziata la discussione nella I Commissione della Camera. In Europa Tra i Paesi dell'Unione europea che hanno una normativa di carattere generale riguardante i partiti ci sono la Germania (Gesetz über die politischen Parteien - Parteiengesetz, 22 Dezember 2004), la Spagna (Ley orgánica de partidos polìticos, n. 6/2002) e il il Portogallo (Lei organica dos partidos politicos, n. 2/2003). Anche in Austria (Bundesgesetz über die Aufgaben, Finanzierung und Wahlwerbung politischer Parteien - Parteiengesetz, n. 71/2003) esiste una legge ad hoc sui compiti, sul finanziamento e sulla propaganda elettorale dei partiti politici. In Francia, invece, per un lungo periodo, in presenza di una disposizione costituzionale non diversa dalla nostra, per regolare l'attività dei partiti politici si è scelto di utilizzare una legge di carattere generale sulle associazioni del 1901. Ma la più recente legislazione sul finanziamento dei partiti, e la connessa normativa sulla trasparenza della vita pubblica, hanno prodotto una nuova disposizione che prefigura uno statuto specifico dei partiti destinata a sostituire quella fino ad ora applicata, di carattere generale, valida per tutte le associazioni (Loi du 1o juillet 1901 - Loi relative au contrat d'association version consolidée au 29 juillet 2005). In Grecia si è discusso a lungo non solo sull'opportunità ma anche sulla legittimità costituzionale di un eventuale intervento legislativo in materia, alla luce di un principio di separazione e 26


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di non interferenza tra Stato e sistema dei partiti. Nel Regno Unito, infine, dove i partiti sono, tradizionalmente, una emanazione dei gruppi parlamentari, il Political Parties, Elections and Referendums Act del 2000 disciplina la loro registrazione. Rendere obbligatoria la registrazione dei partiti politici è stato ritenuto un passo necessario per poter procedere alla previsione di un finanziamento pubblico dei partiti e alla disciplina della propaganda elettorale a livello nazionale. Soprattutto nel momento in cui, con l'adozione dell'Additional Member System come sistema elettorale per le Assemblee di Scozia e di Galles, una parte dei candidati si trova ad essere eletta non più a livello di collegio, ma in liste cosiddette «bloccate». Verso uno statuto dei partiti europei Nel 2003 l'Unione europea si è dotata di una legislazione comunitaria per concedere sussidi pubblici ai partiti politici europei (regolamento (CE) n. 2004/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, relativo allo statuto e al finanziamento dei partiti politici a livello europeo, Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea, 15 novembre 2003). Il regolamento, entrato in vigore nel 2004, fissa le condizioni necessarie per poter identificare «un partito politico a livello europeo», riconoscimento che dà diritto al finanziamento comunitario. Esse sono: possedere la personalità giuridica nello Stato membro in cui esso ha la sede; rispettare, in particolare nel suo programma e nella sua azione, i princìpi sui quali è fondata l'Unione europea, libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo; essere rappresentato da membri eletti al Parlamento europeo o in assemblee legislative a livello nazionale o regionale in almeno un quarto degli Stati membri (l'alternativa è avere ottenuto perlomeno il 3 per cento dei suffragi espressi nelle ultime elezioni al Parlamento europeo in ciascuno di questi Stati membri); aver partecipato alle elezioni europee o averne espresso l'intenzione. Infine, la domanda di finanziamento a carico del bilancio generale dell'Unione europea deve essere corredata da uno «statuto che definisca segnatamente gli organi responsabili della gestione politica e finanziaria, e gli organismi o le persone fisiche che detengono, in ciascuno degli Stati membri interessati, il potere di rappresentanza legale, in particolare per quanto riguarda l'acquisizione o la cessione 27


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Il Pd dovrà insistere e “pretendere” un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, non foss’altro perché l’antipolitica o l’ “altra politica” sta strutturando – è cronaca di questi giorni – una insidiosa campagna contro il sistema dei partiti

di beni immobili e la capacità di stare in giudizio». Il 23 marzo 2006, il Parlamento europeo, con 498 voti favorevoli, 95 contrari e 7 astensioni, ha adottato la relazione di Jo Leinen (PSE, Germania) sui partiti politici europei con la quale si chiede «un vero e proprio statuto dei partiti politici europei» che definisca i loro diritti e doveri e dia loro la possibilità di ottenere una personalità giuridica basata sul diritto comunitario, valida anche negli Stati membri. In effetti, allo stato attuale, i partiti politici europei possono solamente avere uno statuto legale basato sulla loro personalità giuridica nel Paese in cui hanno la propria sede. Nella risoluzione approvata si sottolinea, inoltre, la necessità che detto statuto contempli «regole concernenti l'appartenenza individuale ai partiti politici a livello europeo, la loro direzione, la candidatura e le elezioni nonché le modalità e il sostegno per i congressi e le riunioni di tali partiti» (risoluzione del Parlamento europeo sui partiti politici europei (2005/2224(INI)), approvata il 23 marzo 2006). Tornando in Italia Tornando in Italia si può solo aggiungere che una volta approvata anche dal Senato la proposta riguardante la trasparenza e il finanziamento dei partiti politici, occorre riprendere alla Camera tempestivamente l’iter del testo unificato riguardante la disciplina dell’art. 49 della Costituzione su cui – al momento – si registra una certa “freddezza” da parte delle forze politiche del centro e della destra. Il Pd dovrà insistere e “pretendere” un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, non foss’altro perché l’antipolitica o l’ “altra politica” sta strutturando – è cronaca di questi giorni – una insidiosa campagna contro il sistema dei partiti che è ben più di un campanello d’allarme per la nostra democrazia. La democrazia senza i partiti, infatti, non ha senso, anzi non può esistere e non esiste da nessuna parte. A meno che si pensi a un modello di democrazia in cui esistono le istituzioni del tutto separate dal popolo, così privato della sua prerogativa fondamentale di essere il titolare della sovranità. I partiti restano infatti l’unico strumento conosciuto attraverso cui la società si fa Stato.

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Dimezzamento e riforma del finanziamento ai partiti Antonio Misiani

è deputato e tesoriere del Partito Democratico

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ulla ha potuto e può sostituire il ruolo dei partiti, nel rapporto con le istituzioni democratiche. Occorre allora impegnarsi perché dove si è creato del marcio venga estirpato, perché i partiti ritrovino slancio ideale, tensione morale, capacità nuova di proposta e di governo.” (Giorgio Napolitano, 25 aprile 2012) L’Italia post-berlusconiana è alle prese con una vera e propria “crisi di sistema”: politica, economica e sociale. Lo sbocco di questa stagione dolorosa non è affatto scontato. 29


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Oggi – secondo un recente sondaggio IPSOS – l’85 per cento degli italiani esprime poca o nessuna fiducia nei partiti, la cui credibilità già non eccelsa è letteralmente crollata sotto i colpi degli scandali Lusi e Belsito

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Se il PD lavora per un’alleanza tra progressisti e moderati come perno di un progetto di ricostruzione del Paese, una parte della borghesia aspira dichiaratamente ad una democrazia tecnocratica, fatta di partiti-sherpa e sindacati remissivi. Sullo sfondo, ma neanche tanto, incombe il rischio più grande: l’ingovernabilità stile-Grecia, ad alto tasso di populismo e antipolitica. Tirare fuori l’Italia dall’emergenza è la missione dei democratici. Ma il compito è indubbiamente improbo. È indispensabile un cambio di passo a livello europeo, precondizione essenziale per rimettere crescita ed equità al centro delle politiche economiche e sociali. Serve una accelerazione riformista a livello nazionale, per riannodare il filo spezzato dei cittadini nei confronti della politica e delle Istituzioni. I partiti, in questo contesto difficile, sono l’anello debole del sistema. Intendiamoci: differenziare è d’obbligo. Un conto è il vero e proprio collasso elettorale del PDL e della Lega Nord, che alle comunali hanno perso rispettivamente la metà e due terzi dei voti conseguiti alle regionali di due anni prima. Un altro conto è la condizione del PD, che diventa il primo partito italiano conquistando la guida di 16 capoluoghi su 26. Ma al netto di queste distinzioni, il punto è che oggi – secondo un recente sondaggio IPSOS – l’85 per cento degli italiani esprime poca o nessuna fiducia nei partiti, la cui credibilità già non eccelsa è letteralmente crollata sotto i colpi degli scandali Lusi e Belsito. Risalire questa china è arduo, ma cruciale per il futuro della nostra democrazia. Condizione necessaria è una riforma coraggiosa dei partiti stessi, attraverso una legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione – che attribuisca personalità giuridica ai partiti e definisca criteri statutari inderogabili di democrazia interna e trasparenza – e una radicale revisione dei meccanismi di finanziamento e di gestione economicofinanziaria dei partiti stessi. Se sul primo punto si registrano ancora distanze significative con il PDL (che propende per una regolamentazione “ultra-leggera” della vita interna delle forze politiche), sul finanziamento i passi in avanti sono innegabili, con l’approvazione in prima lettura alla Camera dei Deputati di un provvedimento importante e largamente positivo.


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Il punto di partenza è il fallimento del modello introdotto dopo il referendum del 1993: un sistema basato su “rimborsi elettorali” molto generosi (nel 2010 lo stanziamento ha toccato la cifra record di 290 milioni di euro); attribuiti a tutti o quasi, senza discriminare tra partiti veri o finti, esistenti o in via di scioglimento, democratici o personali; sottoposti a controlli interni ed esterni molto deboli, di natura quasi esclusivamente formale. Questa miscela di criticità – evidenziata da ultimo dal Rapporto del Consiglio d’Europa sulla trasparenza del finanziamento dei partiti politici del marzo scorso – ha aperto la strada ai casi di malversazione che tanta (comprensibilissima) indignazione hanno suscitato nell’opinione pubblica. Il risultato è una fortissima spinta verso l’azzeramento di ogni forma di contributo pubblico. Una scelta che ci condurrebbe dritti verso il modello americano di democrazia: partiti-comitati elettorali, campagne costosissime finanziate totalmente dai privati, agende politiche fortemente condizionate dai debiti di riconoscenza nei confronti dei grandi donatori. Dalla padella alla brace, verrebbe da dire. All’Italia serve altro: partiti capaci di recuperare radicamento, autonomia e autorevolezza; una politica sobria e il più possibile libera da condizionamenti. Per questo, dobbiamo guardare al di là delle Alpi, non oltreoceano. In tutti i Paesi europei sono previste – a fianco delle entrate proprie dei partiti - forme di finanziamento pubblico della politica. Contenute, trasparenti, controllate. La riforma approvata dalla Camera va esattamente in questa direzione. Si conferma il principio che i partiti, la cui funzione è riconosciuta dalla Costituzione, hanno diritto ad accedere a fondi pubblici. Ma l’ammontare di queste risorse è dimezzato rispetto alla legislazione vigente: nel 2012 i partiti avrebbero ricevuto 182 milioni (destinati a ridursi negli anni seguenti fino a 142 milioni con i tagli decisi nel 2010-2011). Con la nuova normativa, si scenderà a 91 milioni. La metà da subito, come sollecitato dal PD. Cambiano anche le modalità di erogazione dei contributi, riorganizzate secondo il modello tedesco da noi proposto. Il 70 per cento continuerà ad essere distribuito sotto forma di rimborsi elettorali. Il 30 per cento sarà invece attribuito come contributo proporzionale all’autofinanziamento: 0,50 euro per ogni euro raccolto da quote associative ed 31


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erogazioni liberali. Vengono resi omogenei i criteri di accesso ai rimborsi (almeno 1 eletto) e si introduce l’obbligo per i partiti di dotarsi di un atto costitutivo e di uno statuto conformato a principi democratici nella vita interna, pena la perdita dei fondi pubblici. Il progetto di legge rafforza notevolmente le regole di trasparenza – i bilanci dei partiti dovranno essere pubblicati in Internet e saranno pubbliche le donazioni oltre i 5 mila euro – e i meccanismi di controllo, prevedendo la certificazione obbligatoria dei rendiconti e affidando il controllo esterno ad una Commissione indipendente composta da 5 magistrati designati dai presidenti della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti. Il PD avrebbe preferito attribuire questo compito alla Corte dei Conti, ma il compromesso raggiunto è

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accettabile, se guardiamo a quanto accade nei grandi Paesi europei (i controlli sono affidati in Spagna alla Corte dei Conti, in Germania al Parlamento, in Francia e Regno Unito a commissioni indipendenti). Anche per quanto riguarda le sanzioni, il cambiamento è profondo: mentre oggi è prevista la mera sospensione dell’erogazione dei rimborsi, in futuro i contributi pubblici saranno decurtati in proporzione alla gravità delle violazioni, fino al loro totale azzeramento nei casi limite. È prevista una penalizzazione anche per i partiti che candidano nelle liste esponenti dello stesso sesso per più di due terzi. La riforma introduce limiti alle spese per le elezioni europee e comunali (prima non previsti) e rivede il regime delle detrazioni fiscali per le erogazioni liberali ai partiti e alle Onlus, riducendo di molto la sperequazione iniziale e innalzando l’aliquota dal 19% al 26%. Obiettivo, per quanto riguarda i partiti, è favorire le donazioni medio-piccole: si potrà detrarre di più, ma su cifre più contenute visto che l’ammontare massimo è stato ridotto da 103 mila a 10 mila euro annui. In termini economici la nuova normativa produrrà notevoli risparmi: 319 milioni di euro nel quinquennio 2012-2016. Di questi, 119 milioni finanzieranno le maggiori detrazioni per le Onlus; 22 milioni le maggiori detrazioni per i partiti; 161 milioni saranno destinati alle vittime di terremoti e calamità naturali. I fustigatori della casta hanno definito questo progetto di legge una “porcata” (Antonio Di Pietro) o, al massimo, una “riformicchia” (Sergio Rizzo). In realtà si tratta di una riforma vera. Certo, nel Paese dei “benaltristi” nulla è mai sufficiente. Ma se questa proposta diventerà legge, l’Italia si doterà della normativa più severa d’Europa per quanto riguarda i bilanci dei partiti, con contributi pubblici – 1,50€ per abitante nettamente inferiori a quelli previsti in grandi democrazie come la Germania (5,64€ comprese le fondazioni di partito), la Francia (2,46€) e la Spagna (2,84€). C’è molto PD, in questa legge: dalle regole di trasparenza (i nostri bilanci sono certificati e pubblicati in Internet sin dalla fondazione del partito) alla scelta del modello tedesco con il dimezzamento immediato dei rimborsi elettorali. È giusto rivendicarlo: senza trionfalismi fuori luogo, ma con la consapevolezza del nostro contributo per l’autoriforma dei partiti e della politica.

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C’è molto PD, in questa legge: dalle regole di trasparenza (i nostri bilanci sono certificati e pubblicati in Internet sin dalla fondazione del partito) alla scelta del modello tedesco con il dimezzamento immediato dei rimborsi elettorali

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Innovare guardando all'Europa Paolo Borioni

lavora per la Fondazione Brodolini e per il Center for Nordic Studies dell'Università di Helsinki

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ur essendo indubbio che il finanziamento ai partiti va riformato, occorre fissare alcuni concetti per capire in quale direzione muoversi: 1) le migliori soluzioni si trovano nell’ Europa continentale, e dal lato opposto c’è il sistema Usa; 2) Tramite il sistema di finanziamento si determina gran parte del tipo di partecipazione che si intende ottenere. Il sistema Usa conferma che un finanziamento pressoché esclusivamente privato non favorisce l’ abbattimento dei costi della politica, immensi in quel paese nonostante l’esilità territoriale e volontaria dei partiti fra le elezioni. La ragione è che sono indispensabili le sezioni e la selezione dei quadri dal basso come in Europa, perché solo così si anima la democrazia con risorse non eccessive; 3) la forza dei partiti non corrisponde affatto ad una società paternalistica e bloccata come alcuni affermano. Partiamo da questo: i dati rivelano che l’Italia non è molto al di sopra della media europea in quanto a potere di nomina (patronage) dei partiti. Inoltre, sui suoi stessi valori sono due paesi di grande efficienza e competitività come la Germania (leggermente al di sotto) e l’Austria (leggermente al di sopra). Quindi i partiti possono legittimamente selezionare parte della classe dirigente per rinforzare la democrazia, ed in effetti in Italia è indiscutibile che la democrazia sia stata 35


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costruita ad un livello di qualità europeo. Semmai i veri problemi sono giunti negli ultimi 18 anni, quando la presenza sociale dei partiti si è rarefatta, la loro capacità di rappresentare grandi ideali si è indebolita, e la loro gestione si è personalizzata, divenendo eccessivamente mediatica e personalistica. In Austria e Germania i partiti non sono, come da noi, stati investiti da pseudo-innovazioni che demonizzano il modello europeo del Novecento. Il problema è che la particolare influenza della guerra fredda e dei poteri esteri in Italia ha impedito di limitare il forte ruolo (tutt’altro che solo italiano) del finanziamento informale o illecito. Soprattutto, questo alla fine (specie nella Dc e nel Psi) è sfuggito al controllo centrale ed ha minato il tesseramento, distorcendo proprio i parametri dell’inclusione e della rappresentanza. Ecco perché è vitale una legge sulla base dell’art. 49 della Costituzione, che stabilisca l’importanza dei partiti per la democrazia nell’unico modo possibile: regolandone la vita interna, con sanzioni comminate da un’apposita magistratura indipendente. Negli anni della “prima repubblica”, comunque, i partiti tramite la propria capacità di associare larghe masse, includerle negli ideali, nella democrazia e nella politica e poi selezionare classi dirigenti popolari sono stati un indubbio canale di mobilità sociale. La loro scarsa popolarità odierna dipende quindi soprattutto da due fattori: da un lato essi non sono più riusciti a riformare il capitalismo modificandone la tendenza verso sfruttamento e diseguaglianza. Dall’altro, inevitabilmente, hanno assunto su di sé i vizi di una società più disuguale: data l’egemonia neoliberale, hanno avuto minori risorse (e intenzioni) per trasformare la situazione, il che ha ridotto la loro rappresentatività, facendoli identificare con lo status quo. È questa la principale causa dei populismi, il resto è ideologia elitista. Tutto ciò è confermato proprio dai dati sulla mobilità sociale. I paesi a maggiore mobilità sociale sono quelli in cui avviene la migliore redistribuzione primaria (ovvero la maggiore redistribuzione di profitti verso i salari) e dove esiste una democrazia fortemente radicata: partiti forti e non “liquidi” (concetto sconosciuto nelle democrazie più avanzate), sindacati forti e welfare forte. Sono i paesi nordici. Subito dopo ci sono appunto i paesi germanici, che hanno livelli apprezzabili (ma non nordici) di 36


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eguaglianza e hanno però appunto partiti più forti nel promuovere la classe dirigente diffusa, il che evidentemente potenzia la mobilità eguale. Inevitabilmente, i paesi con minore mobilità sociale sono gli Usa e il Regno Unito, perché il loro sistema sociale produce forte disuguaglianza, e d’altra parte il loro sistema politico-partitico non vi rimedia come abbiamo visto accadere in Austria e in Germania. In Usa, poi, altri dati ci dicono che la politica è altamente condizionata dai grandi poteri economici, con ricambio bassissimo ai vertici. Purtroppo, la mobilità sociale italiana è poco migliore che negli Usa, poiché negli ultimi 20 anni è cresciuta la diseguaglianza primaria, e il welfare, che in parte la riduce, è stato indebolito. E così pure i partiti, con la loro passata capacità di promuovere partecipazione e classe dirigente. Ma non si tratta di un destino antropologico, a patto che si scelgano i modelli sociali e politici giusti e non quelli errati. A patto quindi che si torni a riformare il capitalismo

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nel senso della maggiore parità capitale-lavoro, innovazione, mobilità, e si pratichi un finanziamento partitico che, pur ridotto, rimanga forte e promuova il radicamento e la cultura politica. Come? Va rafforzato il radicamento perché la rappresentanza e la rappresentatività di un partito socialista/progressista implicano coerenza fra ceti rappresentati, politiche (privilegiando l’innovazione/eguaglianza e la remunerazione delle competenze anziché lo sfruttamento intensivo del lavoro) e provenienza di militanza e risorse. La socialdemocrazia nordica pratica (nonostante recenti contraddizioni) tale coerenza fra sistema socio-produttivo, elevato finanziamento dallo Stato e finanziamento dal sindacato. Quest’ultimo è però difficile da imitare in altre tradizioni. La Germania, quindi, somma alto finanziamento pubblico ai partiti (133 milioni di Euro) e alle fondazioni di partito (circa 400 milioni per formazione e cultura politica, mai propaganda). Soprattutto, una quota importante di questo finanziamento è composta da “fondi proporzionali”, ovvero erogati in base non ai voti, ma alle piccole donazioni dichiarate, comprese le quote di adesione, magari da promuovere fiscalmente, così da incentivare la trasparenza. Si dovrebbe prevedere inoltre che una quota obbligatoria di finanziamento pubblico vada alle sedi locali e di quartiere. Ricostruita la forza del partito sul campo, si dispone del miglior potenziale di dialogo e monitoraggio sociale, riducendo la dipendenza da costosi sondaggi e focus groups. Il potenziale però va realizzato con la formazione: corsi ai militanti per comunicare, raccogliere piccole cifre, organizzare feste locali, eventi culturali e ricreativi. Questo costruisce la fiducia in sé delle sezioni territoriali, e moltiplica la loro presenza anche lontano dalle elezioni: un fattore vitale di credibilità. Inoltre, tale base, opportunamente formata, consente di innovare: si può affidare singole campagne di finanziamento per progetti concreti (di formazione democratica per italiani etnici e cittadini immigrati, solidarietà, cultura in zone disagiate, cultura antimafia, partecipazione femminile) alle organizzazioni dei giovani, delle donne, o a zone in cui è importante incrementare la presenza del partito. Questo tipo di attivazione dei vari settori del partito 38


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può: 1) farli entrare in contatto con nuovi aderenti; 2) assicurare loro un finanziamento proporzionale ai risultati ottenuti, accrescendo così la varietà e la capacità funzionale (non solo territoriale) dell’organizzazione. Inoltre, si potrebbero coinvolgere le associazioni vicine, e il sindacato, in queste operazioni, allargando l’ampiezza operativa e la base di raccolta delle campagne. È importante farlo intensificando in modo innovativo la relazione con l’area di riferimento sociale del partito, ovvero reciprocamente e duplicemente: prima attivando il contatto per sostenere progetti valorialmente condivisibili, poi restituendo risorse sotto forma di iniziative diversificate, così da coinvolgere settori e livelli diversi della propria militanza e della propria area di consenso.

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Le peculiarità del caso Usa Rodolfo Brancoli

è giornalista e scrittore, ex collaboratore del Presidente Romano Prodi

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li articoli che in abbondanza (anche se non con pari serietà) sono stati pubblicati in Italia in tempi recentissimi sul tema del finanziamento della politica contengono tutto quello che c’era da dire in proposito: poiché i termini della questione sono stranoti da tempo, e così le possibili soluzioni. Se i meccanismi via via adottati in Italia sono risultati così discutibili non è per mancanza di analisi e di idee, ma per l’interesse fortissimo dei partiti a finanziamenti pubblici abbondanti e certi, sposati a controlli inesistenti. Tanti soldi pubblici, da gestire con assoluta discrezionalità: così è stato finora, e resta da vedere se ora esiste davvero la diffusa volontà politica di approdare a un sistema del tutto opposto, fondato su contributi pubblici limitati la cui gestione sia sottoposta a controlli efficaci. Questo richiede una vera e propria rivoluzione culturale perché il ceto politico è assuefatto a modalità di gestione dei partiti, e di attività pubblica degli stessi, che ha i suoi presupposti nelle due condizioni che andrebbero ribaltate. Un paio di osservazioni generali. Se c’è un campo – si dice – in cui il meglio è nemico del bene è proprio quello di cui stiamo parlando. E in effetti i “puristi” fanno spesso danno perché, nel proporre soluzioni irrealistiche, finiscono per fornire un alibi a quanti intendono cambiare il meno possibile (e che, non dimentichiamolo, sono i soli abilitati a fare e disfare le leggi in Parlamento). A patto però di mettersi d’accordo sulla definizione di bene, perché spesso viene spacciato per tale un compromesso mediocre, che lascia passare qualche norma

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positiva in un contesto sostanzialmente continuista che mantiene l’opacità del vecchio sistema. Una seconda osservazione generale. Non esiste società democratica in cui la questione non venga periodicamente dibattuta. In altri termini, non esistono soluzioni valide una volta per tutte. Per un verso lentamente ma inesorabilmente i professionisti della politica tendono a forzare i limiti della legislazione in vigore pro tempore, per un altro verso tende a mutare il comune sentire, generalmente a seguito di scandali ma anche in connessione con lo sviluppo generale del paese. Quindi si deve andare per tentativi cercando risposte adeguate sia a esigenze reali ed eventualmente nuove che si presentano, sia all’evoluzione del comune sentire, individuando di volta in volta un compromesso di qualità. La questione andrebbe insomma affrontata con un atteggiamento laico, senza furori moralistici come senza sordità e arroccamenti. Il che è praticamente impossibile. Per questo le soluzioni di volta in volta adottate appaiono quasi da subito insoddisfacenti e/o inadeguate. I modi escogitati per affrontare il problema nelle società democratiche si collocano lungo un continuum che ha ad un estremo il finanziamento totalmente privato e all’altro estremo il finanziamento totalmente pubblico. Ogni altro sistema si colloca fra i due , più prossimo al primo o al secondo in dipendenza di fattori storici e culturali e della sensibilità del personale politico e della società civile. In teoria, peraltro, i due estremi non esistono. Anche negli Stati Uniti, la democrazia che più si affida al finanziamento privato, esiste sulla carta il finanziamento pubblico (non sto qui a entrare nei dettagli tecnici) nelle campagne presidenziali (primarie ed elezioni generali), e solo in queste. Le campagne per Camera e Senato, come per l’elezione dei governatori e delle assemblee statali, sono totalmente finanziate con denaro donato dai cittadini, come singoli o in associazione con altri nei cosiddetti PACS. Dico sulla carta perché in questo decennio solo i perdenti in partenza, quelli con limitatissima capacità di autofinanziamento, hanno fatto ricorso al finanziamento pubblico, che comporta l’obbligo di contenere le spese entro il limite del finanziamento stesso, peraltro adeguato al costo della vita ad ogni ciclo elettorale. Prima alcuni candidati repubblicani e poi il democratico Obama nel

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Anche negli Stati Uniti, la democrazia che più si affida al finanziamento privato, esiste sulla carta il finanziamento pubblico nelle campagne presidenziali (primarie ed elezioni generali), e solo in queste

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2008 vi hanno rinunciato per il semplice motivo che non ha senso accettare i limiti di spesa nel momento in cui il finanziamento privato è disponibile in abbondanza e, pur costringendo entro limiti individuali le donazioni, consente di raccogliere complessivamente ad ogni ciclo elettorale alcuni miliardi di dollari (da notare che, contrariamente a quanto affermano spesso i nostri orecchianti della materia, tali donazioni NON sono detraibili dal fisco, neppure parzialmente). Alcune cifre, per cogliere la dimensione del fenomeno. Nel biennio 2007-2008 (negli Stati Uniti il ciclo elettorale è biennale, perchè la Camera viene rinnovata ogni due anni, e così un terzo del Senato) Obama raccolse 745 milioni di dollari, più che doppiando il rivale. E la spesa totale, includendo anche i candidati presidenziali di formazioni minori, fu di un miliardo e 300 milioni di dollari. Ma , se si include anche quanto speso dai candidati per i seggi della Camera e per i 33 seggi a scadenza nel Senato, si arriva all’incredibile totale di oltre quattro miliardi di dollari (da notare che solo otto anni prima il totale era stato di tre miliardi).

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Quest’anno, secondo ogni previsione, verrà stabilito un nuovo record, se non altro per la capacità del candidato repubblicano di non essere da meno del rivale nel raccogliere fondi. Del resto nel 2011 sono già stati raccolti complessivamente, includendo anche i fondi per le campagne parlamentari, quasi due miliardi di dollari, e si sa che nell’anno delle elezioni il fundrising si intensifica. In realtà poi le somme che entrano in gioco sono notevolmente superiori, attraverso il finanziamento di privati a entità come i SuperPacs che in modo nominalmente indipendente dai candidati ne fiancheggiano lo sforzo. Quello americano è insomma di fatto un sistema a finanziamento totalmente privato, anche volendo non replicabile altrove per diversi fattori. Stiamo parlando di un paese-continente con oltre 300 milioni di abitanti, di una società ricca in cui è diffusa l’abitudine a donare anche poco alle cause in cui si crede (ma ci sono miliardari che donano anche una diecina di milioni di dollari), e in cui è abituale la forma di pagamento attraverso assegni e carte di credito, che facilita il fundrising elettronico e,

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incidentalmente, consente la tracciabilità delle donazioni ( infatti il limite per le donazioni in contanti è di 100 dollari). Un paese in cui non a caso ci si interroga non sulla adeguatezza dei finanziamenti, ma su come contenere l’influenza dei fondi privati sulle decisioni dei politici. Neppure esiste, in teoria, l’estremo del finanziamento interamente pubblico. Anche in Italia, la democrazia che più dipende dal finanziamento pubblico, sono contemplate forme di finanziamento privato. Ma le somme che vengono raccolte sono, stando ai bilanci, così limitate da essere insignificanti. In parte perché non esiste una abitudine o inclinazione a finanziare direttamente la politica andando oltre la quota associativa o l’obolo versato in occasione di qualche manifestazione; in parte perché nessun partito si è posto finora il problema di un fundrising serio e ripetuto nel tempo, non essendoci motivo di destinare tempo ed energie a una attività che l’abbondante finanziamento pubblico rende di marginale utilità. È possibile che la nuova legge, creando un incentivo alla raccolta di fondi privati per concorrere alla attribuzione di una quota di finanziamento pubblico, cambi qualcosa a questo riguardo. Ma è un fatto che generalmente i siti dei partiti neppure prevedono modalità di finanziamento elettronico, forme di sollecitazione costante anche di piccole somme. Voglio qui ricordare che nel 2008 Obama raccolse online 500 milioni di dollari, e che il 58 per cento del totale finora raccolto in questa campagna è rappresentato da importi, anche con assegni, inferiori ai 200 dollari. Nel solo mese di marzo ha raccolto in questo modo oltre 14 milioni di dollari. Insomma, quello italiano è di fatto un sistema di finanziamento interamente pubblico, o almeno lo è stato finora accennando appena a staccarsi da questo estremo e a muoversi con passi esitanti lungo quel continuum di cui ho parlato. Un sistema che, a parte ogni altra considerazione, è profondamente diseducativo sia per i percettori dei finanziamenti, che per i cittadini.

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Partiti,

sazi e inadeguati Mario Barbi

è deputato del Partito Democratico

N

el 1978, in un referendum, i cittadini respinsero la proposta di abolire il finanziamento pubblico dei partiti. Nel 1993 la approvarono plebiscitariamente. Il risultato di quel referendum fu disatteso e rovesciato fino a fare lievitare oltre ogni misura un finanziamento pubblico assegnato formalmente come “rimborsi elettorali” calcolati per ogni tipo di elezione (europea, nazionale e locale), per ogni elettore (compresi proquota i non votanti) e per la durata di tutta la legislatura (anche nel caso di una sua anticipata interruzione). Il risultato è che i partiti, anche quelli piccoli-piccoli non rappresentati nelle assemblee elettive ma che superano una soglia percentuale minima di voti, sono sommersi da una enorme quantità di denaro. Per i partiti maggiori si tratta di decine di milioni di euro all’anno. I partiti, però, è giusto e doveroso evidenziarlo, non sono tutti uguali. Il Pd non è il Pdl né la Lega. I partiti a gestione “collegiale” hanno un funzionamento un po’ diverso da quelli “carismatici” o strettamente “personali”. I partiti che discendono da una storia, che comporta patrimoni di idee e di risorse, non sono uguali a quelli che sorgono da movimenti puntuali o che si costituiscono come meri cartelli elettorali. Eppure, nonostante le differenze, i “nostri” partiti qualcosa in comune lo hanno. Il finanziamento pubblico è la voce stra-dominante, quando non l’unica, dei loro bilanci. Infimo – almeno relativamente – il contributo degli aderenti, trascurabili le erogazioni liberali di altri soggetti privati. Negli organismi dirigenti, l’approvazione dei bilanci (certificati o no da organismi terzi) è preferibilmente condotta come una mera formalità per pochi appassionati e

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Non è con leggi di facciata, scritte per rispondere alle sfide di un’opinione pubblica sempre più stanca e insofferente, che si faranno risorgere partiti che hanno smarrito la strada

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senza eccessiva trasparenza e pubblicità. I bilanci sono sottoposti a controlli pubblici meramente formali. Insomma, i partiti dipendono per la loro esistenza dal finanziamento pubblico e godono del privilegio di una gestione affidata a codici interni. È questo lo sfondo in cui si collocano i casi Lusi e Belsito, che sono ovviamente diversi, e che riguardano due partiti differenti sotto ogni punto di vista: un partito ibernato e dormiente e un partito che dovrebbe essere ben vivo e vegeto e che è stato – lo ricordiamo incidentalmente – portato a modello, anche a sinistra, dell’idea stessa di partito. È stupefacente che le parti lese (intendo almeno i numero uno dei partiti), che non si sono accorte di nulla, proprio perché non si sono accorte di nulla non abbiano sentito e non sentano il bisogno di farsi da parte e di chiedere scusa per provata incapacità. Tutto questo accade mentre la capacità dei partiti di dirigere la vita nazionale con proposte di governo che tengano conto delle loro basi sociali e degli interessi generali del paese si è ridotto ai minimi termini fino all’abdicazione formale delle proprie prerogative in favore di un governo tecnico. Come meravigliarsi allora che la credibilità dei partiti oscilli ora tra il quattro e l’otto per cento e si situi nel gradino più basso nella classifica di fiducia delle istituzioni? È paradossale che nel bel mezzo della crisi si immagini di ri-costruire la repubblica intorno a questi partiti, ancorché rinnovati. E che si immagini che il loro rinnovamento possa venire da leggi che ne disciplinino il “funzionamento” e assegnando loro il monopolio della presentazione alle elezioni. E senza toccare il “finanziamento”, che è invece causa ed effetto del distacco dei partiti dalle loro “basi”, e della sostanziale in-influenza degli attivisti e degli aderenti sul loro funzionamento e sulle loro scelte di fondo. Partiti, sazi e perduti…Partiti di stato, drogati e intontiti dai soldi pubblici. Non è con leggi di facciata, scritte per rispondere alle sfide di un’opinione pubblica sempre più stanca e insofferente, che si faranno risorgere partiti che hanno smarrito la strada e dimenticato le ragioni della loro esistenza. Riduzione drastica del finanziamento pubblico, incentivi alla partecipazione diretta dei cittadini alla vita e alla decisione delle forze politiche (cioè primarie con disciplina pubblica) e comportamenti coerenti e rigorosi di dirigenti ed eletti: questa – e non quella delle leggi manifesto – sarebbe la strada da seguire, una strada che si propone di fare rivivere e ri-animare la democrazia italiana di cui le forze politiche sono un mezzo e non il fine.



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Quando i soldi sono spesi bene:

la formazione politica Annamaria Parente

è responsabile Formazione Politica Partito Democratico

L’

articolo 49 della nostra Costituzione recita “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. L'animazione della democrazia è dunque il compito fondamentale dei partiti. È per consentire a cittadine e a cittadini di assolvere ad un dovere civico e democratico costituzionalmente sancito che sono previsti i finanziamenti pubblici. E la cura della democrazia non è limitata a garantire il libero svolgimento delle elezioni, ma si intende estesa ad un ambito più generale di convivenza civica, di buon governo, di ethos pubblico. Mai come in questa fase valgono gli esempi. Il Partito Democratico sta compiendo percorsi complessi di formazione politica per approfondire i problemi della nostra società, sensibilizzare l'opinione pubblica, accrescere competenze e conoscenze della classe dirigente, aumentare

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la partecipazione dei giovani alla vita pubblica, affrontare tematiche della crescita economica e sociale nel Mezzogiorno per una politica nazionale in grado di uscire dalla crisi economica che stiamo vivendo. Un sistema così concepito è un servizio non solo orientato a rafforzare il partito al suo interno, ma anche, e soprattutto, rivolto a costruire una cultura partecipativa e inclusiva anche dei soggetti e dei territori più deboli. Descriverò tre iniziative, diverse tra loro, ma coerenti con l'intero impianto. Ogni anno organizziamo la Scuola di Formazione estiva di Cortona con temi di attualità. É aperta a tutti (le iscrizioni sono previste direttamente sul sito), con relatori italiani ed internazionali. Non ci sono solo conferenze, ma seminari e gruppi di lavoro dove i partecipanti possono confrontarsi liberamente tra di loro e con gli esperti. È uno spazio vero di apprendimento, di scambio di conoscenze ed esperienze, di partecipazione. Nell'edizione 2011 abbiamo addirittura condotto insieme a Reset un esperimento di democrazia deliberativa sul tema del Lavoro. Alla fine di questo percorso le ragazze e i ragazzi, non solo conoscevano leggi europee e italiane, contratti, proposte, dati statistici, ma erano in grado di prendere decisioni "informate" su un tema che riguarda da vicino la vita delle giovani generazioni. Impieghiamo dunque risorse economiche per ospitare i nostri esperti, organizzare documenti, fornire servizi di interpretariato, affittare le sale, utilizzare professionisti di metodologie, di tutoraggio, mettere a disposizione sulla nostra piattaforma di formazione a distanza, denominata "abaco", le relazioni di Cortona ragionate e catalogate per temi insieme alle video lezioni. Dall'aprile 2011 al maggio 2012 si è realizzato il primo Master di Politica. Iniziativa questa volta dedicata a 40 giovani del PD, sotto i 30 anni, la maggioranza amministratori locali, tra cui due sindaci. Gli obiettivi sono stati il rafforzamento delle competenze, l'esercizio delle capacità di essere e creare reti per agire con sempre maggior efficacia nelle comunità locali con una tensione costante al bene comune. Abbiamo speso 10 euro all'ora a partecipante per un percorso di un anno, per un fine settimana al mese, compreso vitto e alloggio, relatori, materiale didattico. Se pensiamo ora che un corso di formazione professionale 49


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regionale costa 15 euro, si comprende bene lo sforzo compiuto dal partito a beneficio della collettività per garantire, anche attraverso l’utilizzo coscienzioso del finanziamento pubblico, la formazione politica di qualità sempre orientata al buon governo territoriale e soprattutto a creare una classe dirigente motivata e preparata. Infine, da qualche mese siamo partiti con un progetto capillare per 2000 giovani del Mezzogiorno "Finalmente Sud". Anche qui non solo iscritti al PD. Conosciamo tutti le difficoltà del nostro Mezzogiorno. Ripartiamo dai giovani, da tanti giovani per una riscossa civica, morale, politica. Si è concepita una grande piattaforma di Rete di ECollaboration (Enterprise Content Management). Una sperimentazione unica nel panorama politico italiano. I giovani partecipanti, dell’età media di 26 anni, si confrontano costantemente su temi come l'ambiente, il lavoro, la legalità, le prospettive del Mediterraneo, la Scuola, l'Università, il Welfare, le Istituzioni Locali. Una rete di condivisione, animazione territoriale, di scambio di informazioni, di formazione. Abbiamo creato una piattaforma di formazione a distanza che propone temi generali e, nello stesso tempo, raccoglie istanze delle persone coinvolte. Contemporaneamente diamo vita a laboratori locali con

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tematiche scelte dai partecipanti e che coinvolgono mondi associati e della società civile. Quindi rete telematica ed incontri in loco. Una nuova modalità di essere partito nella realtà sociale, una diversa organizzazione partitica. In questi giorni, solo per fare degli esempi, con i ragazzi e le ragazze di Finalmente Sud affrontiamo alcune problematiche di territorio: l'inceneritore di Acerra, il Muos di Niscemi, i rifiuti a cielo aperto di Campomarino, i pendolari nella circumvesuviana di Napoli, lo stato di salute e l’efficienza dei servizi urbani a Palermo, l'incontro scuola/ lavoro a Mesagne, i trasporti a Crotone. E nello stesso tempo parliamo nei forum nazionali di Siria, Egitto, del futuro del Mar Mediterraneo, di economia illegale. Discussioni sempre orientate allo studio, all'approfondimento, volte non solo ad animare cittadinanza attiva, ma anche ad elaborare in un collettivo una maturità civica e politica. Siamo consapevoli che il vero rinnovamento si compia dal basso, coinvolgendo la società e cercando insieme nuove modalità di approccio alle cose, proposte aderenti alle diverse situazioni. La formazione della futura classe dirigente di un paese è operazione complessa, permanente, non avviene una tantum e non potrebbe essere altrimenti in un mondo così globalizzato. Il portale prevede anche forum permanenti con gli amministratori locali per aiutare, chi quotidianamente deve fornire risposte alle cittadine e ai cittadini nel proprio "particulare", a collegarle sempre alle tematiche della crescita e dello sviluppo sostenibile, della gestione dell'acqua, dei rifiuti, delle infrastrutture, dell'occupazione, dell'impresa. Naturalmente anche qui ci sono dei costi che il partito ha fin qui sostenuto. Di viaggi per i giovani partecipanti, dalla tre giorni di Napoli in occasione dell’inaugurazione del percorso, agli incontri provinciali e regionali, alle spese per la piattaforma telematica e per la FAD, per l'acquisto di testi e la produzione di documenti. Stiamo perfino sperimentando con alcuni qualificati ricercatori "ambienti di apprendimento" innovativi rispondenti alle nuove modalità di conoscenza delle giovani generazioni. Finora il costo a partecipante è stato di 245 euro. Anche così il Partito Democratico utilizza le risorse pubbliche. Sì, per tenere vivo il "metodo democratico", offrendo spazi di partecipazione ai giovani, mettendosi al servizio della società e lavorando alla creazione di una

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La formazione della futura classe dirigente di un paese è operazione complessa, permanente, non avviene una tantum e non potrebbe essere altrimenti in un mondo così globalizzato

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La realtà prima o poi avrà la meglio sulla "fabbricazione di immagini ", secondo un'espressione cara ad Hannah Arendt o sul "reality", volendo usare un concetto moderno

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nuova classe dirigente preparata, competente, appassionata. Questo lavoro, certosino e capillare insieme, non ha per ora "visibilità", come si usa dire oggi, non entra come dovrebbe nella “Babele” del dibattito pubblico dove si tende sempre al pessimismo, al "sono tutti uguali" e si dimostra spesso scarsa capacità di discernimento. Situazione pericolosa per la tenuta della democrazia. Per questo il PD ha presentato una proposta di legge per l'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione in materia di democrazia interna e trasparenza dei partiti. Il finanziamento pubblico è necessario e il suo utilizzo deve essere controllato in primis dalle cittadine e dai cittadini, da un'opinione pubblica informata e consapevole. Lo sanno bene le persone coinvolte nei percorsi di formazione del Partito Democratico. E la realtà prima o poi avrà la meglio sulla "fabbricazione di immagini ", secondo un'espressione cara ad Hannah Arendt o sul "reality", volendo usare un concetto moderno. Noi siamo orgogliosi di partecipare ad un processo di ricostruzione del tessuto democratico del paese in un momento così difficile anche per il sogno e l'idea di Europa. La formazione politica è un valore non solo perché sollecita e incoraggia il civismo, coltiva una nuova umanità, rianima la fiducia, ma per l'indicazione che fornisce della strada giusta per la democrazia fatta di costruzione di progetti di soluzione a problematiche locali, europei e internazionali in un alveo collettivo di ideali, cultura politica, Weltanschauung, mediazione tra bisogni ed interessi per una convivenza equa e solidale. Un partito è tutto questo. Non bastano le denunce, le proteste; il populismo è dilagante, bisogna essere in grado di proporre soluzioni e strumenti per attuarle. So bene che viviamo tempi di degenerazione politica con i recenti scandali che hanno coinvolto chi ricopriva incarichi di gestione delle risorse dei partiti. Per questo dobbiamo sempre anteporre nella nostra vita associativa la questione morale nell'accezione quasi profetica di Enrico Berlinguer. Nello stesso tempo bisogna andare avanti con orgoglio e passione perché stiamo costruendo il futuro.


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La personalizzazione della corruzione

al tempo della “partitopenia” Fabrizio Di Mascio

è dottore di ricerca in Scienza Politica presso l'Istituto Italiano di Scienze di Firenze

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distanza di 20 anni dalle indagini del pool di Mani Pulite che sancirono il crollo della vecchia partitocrazia, sono nuovamente le vicende di cronaca giudiziaria in tema di rapporti tra politica e affari a minare le gracili fondamenta del bipolarismo all’italiana inventato dall’anomala discesa in campo di Berlusconi. Esposta alla grandine di inchieste e scandali che 53


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Disorientamento e rassegnazione dei cittadini italiani sono ben evidenziati dall’indice di percezione di corruzione (CPI) elaborato da Transparency International

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campeggiano stabilmente sulla stampa, l’opinione pubblica appare disorientata e rassegnata alla natura gattopardesca della transizione italiana in cui tutta l’offerta politica appare mutata nell’invarianza della corruzione. Disorientamento e rassegnazione dei cittadini italiani sono ben evidenziati dall’indice di percezione di corruzione (CPI) elaborato da Transparency International nel cui ranking l’Italia è crollata dalla 33esima alla 69esima posizione nel periodo 1995-2011, finendo per collocarsi in piena zona retrocessione nell’area OCSE in cui su 34 paesi solo Grecia e Messico fanno rilevare uno score inferiore. Inoltre, la percezione dei cittadini sembra essere corroborata dalle evidenze raccolte da tutte le fonti più autorevoli – dai lavori di Della Porta e Vannucci (Mani impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia, Laterza 2007) alle relazioni annuali della Corte dei Conti – secondo cui la corruzione in Italia rimane sistemica, vale a dire istituzionalizzata da condizioni durevoli che favoriscono lo sviluppo di estesi e radicati reticoli di transazioni occulte. Eppure, se la corruzione è sopravvissuta alla grande trasformazione del sistema politico italiano, i suoi tratti – logiche, meccanismi e attori – sono stati alterati dalla riconfigurazione tanto del sistema partitico quanto di quello amministrativo. Al fine di evidenziare con maggiore efficacia la natura di tale cambiamento, è opportuno tratteggiare in primo luogo il punto di partenza della transizione, vale a dire la corruzione così come era stata organizzata dai partiti storici. Infatti, la vecchia corruzione trovava nelle organizzazioni di partito gli agenti di coordinamento e protezione centralizzata degli scambi occulti che andavano intrecciandosi tra pubbliche amministrazioni e operatori economici. Come intuito con la consueta lucidità da Alessandro Pizzorno, al tempo del pluralismo polarizzato imperniato sul controllo permanente degli apparati pubblici da parte della DC i circuiti dello scambio politico sono stati gestiti secondo la logica del “sistema fiscale secondo”. In base a questa logica, gli operatori economici ottenevano prestazioni erogate selettivamente da amministrazioni saldamente controllate dai partiti versando il denaro che andava ad alimentare i partiti come apparati di delega organizzati secondo il modello del partito di massa. In sostanza, si trattava di una corruzione che scorreva nell’alveo del regime clientelare centralizzato e distributivo


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edificato dalla DC per consolidare la difficile democrazia italiana attraverso la socializzazione delle rendite estratte da uno Stato debole. In condizioni di integrale politicizzazione di amministrazioni colonizzate da partiti di massa, si accedeva dunque alle prestazioni pubbliche versando voti o soldi come imposta gradita ai partiti di massa come architrave amministrativa di un sistema privo di un corpo burocratico professionale. Con il crollo dei partiti storici, la logica del sistema fiscale secondo è però divenuta residuale rispetto ai nuovi meccanismi che hanno governato la corruzione nell’era del bipolarismo all’italiana. La corruzione, infatti, non è più organizzata da partiti solidi bensì da partiti liquidi quali quelli della cosiddetta “Seconda Repubblica”, affetti da un cronico deficit di istituzionalizzazione delle proprie organizzazioni prive di identità e fisionomia ben definite. Tali partiti tendono a operare come fluide organizzazioni di élites che auto-finanziano la propria attività politica. Si tratta di partiti ridotti a mero veicolo di professionisti che investono nella carriera politica per rafforzare le proprie posizioni di potere nella società civile. Nell’invarianza della scarsa istituzionalizzazione tanto dei mercati quanto delle burocrazie pubbliche, non è più la società civile a piegarsi al sistema fiscale secondo della società politicoaffaristica come accadeva al tempo della partitocrazia. Nell’era della “partitopenia” denunciata dall’ultimo Bobbio è piuttosto la società politica a essere al servizio della società civile. Non ci sono più i politici d’affari indagati da Pizzorno, i quali progredivano in carriera organizzando i reticoli della corruzione. 55


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Ci sono invece uomini degli affari che agganciano i propri reticoli privati a partiti fluidi per estrarre risorse dallo Stato. Il vecchio politico d’affari era ancora un mediatore partitico che faceva fare affari ai privati per guadagnare status nelle cerchie partitiche. Il nuovo politico d’affari è un privato che entra/resta in politica per fare affari, per consolidare il proprio status nelle cerchie private delle professioni e della finanza. Abbattere il vecchio sistema partitico a colpi di referendum e inchieste giudiziarie, pertanto, ha solo cambiato i protagonisti della corruzione. In assenza di uno sforzo organizzativo e istituzionale teso a costruire un sistema imperniato su partiti robusti, il posto dei vecchi partiti come agenti del coordinamento delle pratiche di cattura dello Stato è stato preso dagli entourages che emergono da un mio recente studio sulle nomine pubbliche in Italia (Partiti e Stato in Italia, Il Mulino 2012). Il circuito degli entourages è costituito da quei collaboratori delle élites politiche che organizzano la scambio politico sfruttando i propri reticoli fiduciari innervati nei mondi professionali (finanza, media e giustizia). Scomparsi i partiti come reticoli che accumulavano fiducia, sono i professionisti che operano al confine opaco tra amministrazione ed economia a riprodurre quella fiducia che alimenta le pratiche di corruzione sistemica. La corruzione, dunque, è andata personalizzandosi essendo organizzata da individui (i professionisti degli entourages) a vantaggio di individui (le élites politiche) che acquisiscono quote di potere organizzativo nei partiti in base alla propria capacità di mobilitare reticoli privati a caccia di rendite nello Stato. La personalizzazione della corruzione, abbinata alla riconfigurazione del sistema amministrativo, ha determinato la configurazione dei nuovi partiti come grappoli stratarchici di élites. Infatti, la contrazione del perimetro dell’intervento pubblico a livello centrale e l’estensione della galassia di società a capitale pubblico in periferia ha contribuito ad ampliare notevolmente il potere dei notabili locali come attori che scambiano il consenso organizzato sul territorio attraverso il controllo personalizzato delle amministrazioni contro l’autonomia concessa dai leaders nazionali. Il denaro così non alimenta più i partiti come macchine 56


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nazionali bensì i comitati dei notabili raccolti in partiti come cartelli elettorali multi-livello. In uno scenario di debolezza endemica dei partiti, a nulla sono valsi gli impulsi comunitari a sviluppare una efficace politica di contrasto alla corruzione. Nemmeno il severo monito del Group of States against Corruption (GRECO), organismo del Consiglio d’Europa che ha denunciato l’inconsistenza di strategia e strumenti di lotta alla corruzione in Italia in occasione del suo secondo Evaluation Round, è riuscito a scuotere il provinciale e confuso dibattito domestico tradizionalmente poco attento all’elaborazione di politiche tese a restituire funzionalità al sistema italiano. Del resto, alle rissose coalizioni prendi-tutto della Seconda Repubblica, cementate solo dal controllo protempore degli apparati pubblici, è risultato conveniente alimentare il dibattito sulla grande riforma della politica italiana lasciando nel dimenticatoio il tema delle politiche anti-corruzione. Piuttosto che restituire trasparenza allo scambio occulto, la lotta anti-corruzione è così diventata anch’essa occulta.

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Conflitto d'interessi, vulnus alla democrazia Luigi Zanda

Vicepresidente del gruppo PD al Senato

“S

oldi e politica". Due sostantivi che, scritti vicini, oggi portano subito alla mente due vergognose vicende di malapolitica: il caso Lusi e quello Belsito. Questa, certo, l'associazione immediata. Ma ce ne è un'altra, non so se più dannosa per i cittadini, ma certamente altrettanto subdola e minacciosa per la qualità della democrazia. È il conflitto d'interessi, in Italia davvero macroscopico. Non solo nell'informazione televisiva (dove ha raggiunto livelli elevatissimi ed ha riguardato il vertice delle istituzioni), ma anche in gran parte della vita economica e sociale nazionale. Da qualche decennio, Berlusconi personifica il conflitto d'interessi nella forma più alta. Ma, col tempo, la malattia ha contagiato in profondità larga parte della società italiana. Come ha ben detto Guido Rossi, da noi il conflitto è diventato endemico. Sono il dilatarsi e lo spandersi dei privilegi, dei monopoli, del potere delle corporazioni, delle variegate forme del conflitto di interessi ad aver fatto dell'Italia un paese bloccato, incapace di crescere e svilupparsi. È sintomatico come, in un mercato oppresso dalle scatole cinesi e da un capitalismo familistico e di relazioni, sia stata necessaria una legge dello Stato per metter fine alla presenza delle stesse persone in decine e decine di consigli di amministrazione di imprese anche di grandissime dimensioni operanti nei settori del credito, delle assicurazioni, della finanza. Se dobbiamo dare una definizione elementare del conflitto d'interessi, possiamo dire che esso si verifica quando viene affidata un'alta responsabilità decisionale – politica o non – a

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un soggetto che abbia interessi personali in conflitto con l'imparzialità che gli è richiesta e che può venir meno proprio in relazione ai suoi interessi. Gli italiani hanno a lungo subito e tollerato che gli interessi privati del capo del loro governo venissero subordinati agli interessi generali dello Stato e dei cittadini. Il conflitto d'interessi, quando arriva a tali livelli, può incidere gravemente sull'equilibrio del sistema democratico e conseguentemente, soprattutto in tempi complessi come quelli che stiamo vivendo, lo Stato di diritto ha il dovere di disciplinarlo efficacemente. Sinora l'Italia non l'ha fatto. Adesso esiste un obbligo democratico inderogabile che deve indurre il Parlamento ad adottare al più presto una normativa in grado di impedire realmente e non fittiziamente tutti i conflitti d'interesse. L'Italia ha assistito, negli ultimi venti anni, a un vero e proprio spappolamento dello Stato, perseguito attraverso attacchi alle istituzioni, al Parlamento, al Capo dello Stato, alla

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magistratura, alla libera stampa e con atti legislativi spesso usati in modo improprio: decreti legge, maxi emendamenti, provvedimenti eterogenei e sconclusionati, finalizzati solo ad inserire qualche norma ad personam qua e là. Un quadro aggravato dalla mancanza di una legge seria sul conflitto d'interessi. D'altra parte lo riconosce lo stesso segretario del Pdl, Alfano, quando annuncia la possibilità di una legge sul conflitto d'interessi come se oggi, in Italia, non ce ne fosse già una. Infatti, la legge 215 (la cosiddetta Legge Frattini) è stata costruita nel 2004 con il chiaro obiettivo non dico di non colpire, ma nemmeno di disturbare la gravissima degenerazione della democrazia, la profonda distorsione del mercato, il forte condizionamento della concorrenza rappresentati dal conflitto d'interessi del presidente del Consiglio. E non ha quindi impedito né l'arricchimento personale di Berlusconi attraverso numerosi atti di governo emanati in evidente conflitto d'interessi, né l'utilizzo a fini politici della potenza delle televisioni commerciali (di sua proprietà) e di quelle pubbliche (controllate dalla sua maggioranza parlamentare). La legge Frattini del 2004 nei suoi otto anni di vita, senza divieti, senza sanzioni e senza controlli, ha ampiamente dimostrato tutta la sua inutilità. Un solo esempio: l'andamento della pubblicità televisiva negli ultimi anni, in particolare dopo l'approvazione della legge Gasparri del 2004. Da alcuni decenni, la televisione in Italia è caratterizzata da un duopolio quasi perfetto che produce effetti nefasti soprattutto negli incassi pubblicitari. Su un monte totale di 4,7 miliardi di euro, le quote attuali sono 3,1 miliardi per Mediaset e di 1,4 per la Rai. Ma, nonostante una discreta tenuta negli ascolti, la Rai ha mostrato una crescente debolezza nella capacità di valorizzare economicamente lo share. Nel 2006, un punto di share valeva 28,3 milioni di euro per la Rai e 60,3 milioni di euro per Mediaset. Nel 2010 il suo valore era crollato per la Rai a 24,9 milioni di euro, mentre per Mediaset era salito a 64,7 milioni di euro. Questo significa che negli anni del ritorno del centrodestra al governo i grandi inserzionisti pubblicitari hanno spostato una quota significativa di spesa pubblicitaria dalla Rai a Mediaset. Inoltre, in coincidenza con l'approvazione della legge Gasparri, si è prodotto un profondo ampliamento della tristemente nota lottizzazione della Rai da parte della 60


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politica, anch'esso segno dell'invadenza del conflitto d'interessi. E, con grave responsabilità dell'ingerenza berlusconiana, in Rai si è passati dalla "sola" designazione politica di direttori di testata e di rete, e una vera e propria occupazione di pressoché tutte le posizioni chiave della struttura industriale: palinsesti, produzione, marketing, pubblicità, finanza, personale, affari legali. Si è così creata una "rete" interna di influenza, capace di determinare l'agenda politica dell'informazione Rai e condizionare le sue dinamiche industriali. Sotto molti profili il duopolio si è avvicinato pericolosamente al monopolio. Da un punto di vista politico il conflitto d'interessi nell'informazione è il più acuto e pericoloso esistente in Italia (per il Censis una larga maggioranza di cittadini italiani condiziona il proprio voto a quel che vede nei telegiornali). Questo spiega perchè la maggior parte delle proposte di legge riguardino specificatamente quel particolare conflitto d'interessi. In Senato, tra le altre, c'è anche una mia proposta. Si tratta di un ddl costituzionale contenente una disciplina sul pluralismo dell’informazione e sul conflitto di interessi analoga a quella presente nella legislazione di molte altre democrazie evolute, anche se tiene conto delle esigenze più specifiche, ma non meno rilevanti, legate alla storia d’Italia degli ultimi anni. L'obiettivo è la regolamentazione di questioni generali e di principio determinanti per il corretto svolgimento dei fondamentali processi democratici del nostro Paese e, come tali, degni d'essere disciplinati con normativa di rango costituzionale. Il disegno di legge tiene conto della necessità di porre rimedio alle gravi conseguenze che l’assenza di una legge adeguata sta determinando nella nostra Repubblica dove da anni prospera e si sviluppa indisturbato il più eclatante e invasivo conflitto di interessi che sia mai apparso in una democrazia occidentale, cui consegue una quotidiana mortificazione del pluralismo dell’informazione. Il disegno di legge costituzionale lascia immutato, completandolo, il contenuto dell’articolo 21 della Costituzione, le cui prescrizioni sono tuttora attuali e valide. La proposta prevede esclusivamente l’inserimento, all’interno dell’articolo 21, e precisamente dopo il primo comma, di due nuovi commi volti a disciplinare due fattispecie che nel '48, quando cioè la nostra Costituzione è stata emanata, non era in nessun modo prevedibile che si sarebbero sviluppate con

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Da un punto di vista politico il conflitto d'interessi nell'informazione è il più acuto e pericoloso esistente in Italia

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tanta forza e tanta pericolosità e che, quindi, non potevano in nessun modo essere regolamentate. Le nuove norme, nel riaffermare i princìpi del pluralismo dell’informazione, vogliono disciplinare i casi più rilevanti di ineleggibilità e incompatibilità dovuti al conflitto di interessi dei proprietari o dei gestori di mezzi di informazione a diffusione nazionale. In particolare, la previsione del secondo comma dell’articolo 21 è diretta a rendere chiara, esplicita e netta la tutela del pluralismo dell’informazione. Per far ciò la nuova norma costituzionale impegna il Parlamento ad emanare norme a garanzia del pluralismo dell’informazione, a favore della sua imparzialità anche ponendo limiti alle concentrazioni e vietando posizioni dominanti. Nel nuovo terzo comma dell’articolo 21 viene poi regolamentato, attraverso la previsione di specifiche cause di ineleggibilità e di incompatibilità, il gravissimo fenomeno del conflitto di interessi tra i titolari di alcuni organi costituzionali, nonchè dei membri del Governo e dei Presidenti delle giunte regionali e posizioni di rilevante influenza nella proprietà o nella gestione di reti televisive o telematiche e la proprietà o la gestione di quotidiani o periodici. "Influenza rilevante" è l’espressione che meglio definisce le posizioni societarie dalle quali possono potenzialmente scaturire i conflitti di interessi che è necessario disciplinare. Si tratta di un'espressione che ha ormai trovato piena accoglienza nel nostro ordinamento giuridico dove compare sia nella normativa antitrust, sia in quella del codice civile e più precisamente del nuovo diritto societario. Lo stesso nuovo terzo comma, infine, prevede che altri casi di conflitto di interessi possano essere regolamentati con legge ordinaria. Vista l'attuale forza dei gruppi politici in Parlamento, in quest'ultima parte della Legislatura, sarà improbabile riuscire a sanare il grave vulnus democratico che il conflitto d'interessi crea all'Italia. È però fondamentale che il Pd, quando governerà il Paese, non commetta lo stesso errore del passato: lasciare sostanzialmente intatto il conflitto d'interesse. Così come i Costituenti, nel '48, hanno fatto di tutto per tutelare la democrazia nascente, allo stesso modo oggi è necessario fare di tutto per non rischiare che nuovi conflitti d'interessi finiscano per mortificare la democrazia italiana già umiliata da Silvio Berlusconi. 62



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Stampa di partito tra crisi e metamorfosi Giuseppe Caldarola

è giornalista, ex parlamentare Gruppo Ds-Ulivo

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a questione del finanziamento pubblico dei giornali di partito e delle cooperative coglie il mondo dell’informazione nel pieno della tempesta. Alcuni giornali hanno già chiuso, si pensi al “Riformista”, altri lo seguiranno, si pensi al “Manifesto”, altri ancora sono a rischio, si pensi a “Europa” e all’ “Unità” per stare nel campo del centro-sinistra anche se la fine si avvicina per gli stessi quotidiani di destra. Il sottosegretario Peluffo ha fatto approvare dal governo, lo scorso 10 maggio, un decreto legge e un disegno di legge delega in cui sono disciplinati i contributi per l’editoria in generale. L’ammontare della cifra a disposizione è assai più bassa che nel recente passato e i criteri nel sostegno al mondo dell’informazione sono cambiati. Ad esempio godranno del finanziamento solo le testate nazionali distribuite in almeno cinque regioni che dovranno dimostrare di vendere almeno il 30% del distribuito, prima si parlava del 15%, mentre per le testate locali si porta la soglia al 35% mentre prima era del 25%. C’è poi il parametro occupazionale che prevede almeno cinque contratti a tempo indeterminato con una maggioranza di assunti iscritti all’Ordine. Per i giornali gestiti da cooperative si richiede che queste siano composte solo da giornalisti, poligrafici e grafici, e in prevalenza giornalisti, e che i soci debbano essere assunti a tempo indeterminato. Da quel che si capisce i criteri adottati sono due: il primo l’effettiva presenza sul mercato dei giornali finanziati, il secondo, per quanto riguarda le cooperative, il criterio è che siano cooperative vere. In ogni caso siamo di fronte a un taglio dei finanziamenti diretti e indiretti che riguardano sia i giornali

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di partito e editi da cooperative sia l’intero sistema. Per i giornali di partito siamo di fronte a un vero colpo d’accetta. È giusto o no? I giornali di partito furono aiutati per la prima volta da una legge, governo Forlani, del 1981, poi con successive modifiche quella normativa allargò la platea degli “assistiti”. Nell’87 venne stabilito, infatti, il sostegno a giornali che fossero editi da movimenti politici promossi da almeno due deputati. Fu da quella data in poi che il finanziamento diventò a pioggia e iniziò lo “scandalo” dei giornali finti, perché neppure in edicola, o di “finti” giornali di partito, perché i movimenti politici sottostanti non esistevano, che ha portato a un enorme spreco di denaro. Oggi siamo di fronte a un bivio, anzi a dire la verità a un baratro. L’intero sistema dell’informazione su carta è in grave crisi. I grandi giornali, sostenitori della legge Fornero sull’allungamento dell’età pensionabile, hanno fatto ricorso ai pensionamenti anticipati, e persino il “Sole-24 ore”, che è espressione di una Confindustria che lamenta l’eccessiva spesa pubblica, applica il contratto di solidarietà che scarica sullo stato le spese del costo del lavoro. I giornali sono in crisi per diverse ragioni: perché il costo di produzione è eccessivo, perché la pubblicità è drenata dalle tv, perché le formule giornalistiche sono desuete, perché l’ on line fa una serrata concorrenza al punto che gli stessi quotidiani in crisi nell’edicola hanno un proprio on line assai frequentato. In questo stesso settore si sta moltiplicando l’offerta sia locale, sono molti i giornali on line che nascono nelle città e nelle regioni, sia l’offerta di nicchia, e si sta per abbattere il ciclone dell’ “Huffington Post”, edizione italiana. Di fronte a questo uragano il tema del finanziamento dei giornali di partiti e delle cooperative rischia di apparire secondario. Tuttavia c’è un problema di pluralismo che si può affrontare solo disboscando il settore dalle presenze ibride, le false cooperative, o ingannevoli, i giornali che non vanno in edicola o che in edicola non hanno lettori. Il rischio della scomparsa di giornali storici è un rischio grave per la democrazia così come altrettanto grave sarebbe immaginare un futuro di giornali, a loro volta sostenuti dal denaro pubblico, come lo sono tutti i giornali cosiddetti indipendenti, che non diano voce al pluralismo politico italiano. I giornali nel resto di Europa godono di diverso trattamento. Sono finanziati in Francia, non lo sono in Gran Bretagna. Non c’è una formula unica, quindi. La via d’uscita

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I giornali sono in crisi per diverse ragioni: perché il costo di produzione è eccessivo, perché la pubblicità è drenata dalle tv, perché le formule giornalistiche sono desuete, perché l’ on line fa una serrata concorrenza

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dovrebbe prevedere il mantenimento del finanziamento per i giornali realmente espressione di cooperative e di partiti reali a raffronto con la loro reale diffusione, piÚ o meno come prevede il provvedimento Peluffo. Tuttavia la rivoluzione nel mondo dell’informazione non

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si potrà fare con una Cassa del Mezzogiorno dei giornali. Serve un grande mutamento e questo prevede il passaggio ad altre forme di comunicazione da parte dei partiti. Il vecchio giornale di partito serviva negli anni dei partiti di massa. Diversi da ora erano quei partiti, diversi da ora i loro giornali, i quali, in epoca storica, da un lato garantivano l’acculturazione popolare, pensiamo all’Italia del dopoguerra, dall’altro l’unificazione politica su una linea stabilita dall’alto. La crisi inizia con l’ avvento di “Repubblica”, così come in tempi recenti per i giornali di destra con il “Giornale” e “Libero”, quando cioè il giornale di area prevale sul giornale di partito perché risponde con maggiore libertà alle domande del pubblico e degli elettori. I giornali di destra addirittura perché danno voce a un sentimento profondo, le cosiddette viscere. A questo punto i giornali di partito cessano la loro funzione. “L’Unità” cercò una mutazione ponendo il tema della propria autonomia, nel periodo inaugurato da Renzo Foa, o con il proprio spostamento su una linea più radicale, neo-giustizialista, rispetto al partito, la stagione di Furio Colombo. Tuttavia era esaurita la funzione storica del giornale di partito. Anche le nuove testate, penso ad “Europa”, malgrado la buona fattura, non riescono ad intercettare il grande pubblico, operazione che riesce invece a un giornale senza finanziamenti pubblici come “Il Fatto” che si sintonizza su un movimento di opinione critico verso il sistema dei partiti. La difesa dello status quo se quindi ha un senso rispetto al tema della tutela delle testate storiche, non ha senso rispetto all’evoluzione del sistema che vedrà resistere, nel panorama dell’informazione scritta, poche testate nazionali, alcune testate locali e quei giornali di nicchia che sapranno sopravvivere con le proprie forze o aiutati dal pubblico. Ma il mondo sta correndo verso altri orizzonti in cui prevarrà l’on line, che adesso sta esplodendo e che fra qualche anno selezionerà i più forti. In questa morte ad opera della rete i giornali pagano un prezzo alla rivoluzione tecnologica ma anche alla difficoltà mostrata dal sistema dei media di auto-rigenerarsi. L’informazione scritta arriva al lettore quando è già informato sui fatti e addirittura quando gli opinion leader dei giornali hanno già detto quello che pensano nei talk show. Non so se la “carta scritta” sta scomparendo, so che il modo di difenderla sa di vecchio e di antico. Non basteranno quattro soldi dallo Stato a tenere in vita quel che sta morendo. 67


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Promemoria sul caso Lusi Franco Monaco

è senatore del Partito Democratico

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n tema di rapporto tra soldi e politica, è nostro preciso dovere riflettere sul caso Lusi. Non ci è possibile esorcizzarlo. Un caso, sia chiaro, con il quale il PD non ha nulla a che vedere, ma che non ci esonera da una riflessione di ordine generale circa i partiti, il loro finanziamento, la destinazione delle loro risorse, le responsabilità nella gestione e nel controllo di esse. Vi sono precise e manifeste responsabilità personali di rilievo penale in capo al protagonista principe. Di esse si sta occupando la magistratura. Mi limito a una sola osservazione: dimensioni e modi della sottrazione di denaro sono così clamorosi da risultare sconcertanti. È persino materia da psicologi e qui ci fermiamo, per passare alle radici del problema, per ricavare dal caso Lusi una lezione e un promemoria. Mettiamo in fila i problemi che esso ci consegna. Primo: girano troppi soldi. Come per il caso Lega, a monte sta la contraddizione di tesorieri di partito che si trasformano in operatori finanziari, impegnati a investire denaro che evidentemente sopravanza il costo delle attività politiche conformi a legge e fini statutari di partito. Dunque, in primo luogo, si deve procedere a una cura dimagrante, a ridurre sensibilmente il volume dei finanziamenti. Tagli ma anche riforma di essi, nel senso di un di più di trasparenza, di controlli, di mixaggio tra finanziamento pubblico ed erogazioni liberali (da incentivare, ma fissando limiti ed assicurando la loro pubblicità), di connessione con la certificata democraticità della vita interna ai partiti in conformità all’art. 49 della Costituzione. A Dio piacendo, sembra che finalmente si siano avviate in sede parlamentare concrete iniziative di legge che vanno in tale direzione.

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Secondo. Sino a prova contraria, siamo tenuti a credere che i vertici della Margherita nulla sapessero di tali distrazioni e maneggi. Anche se, diciamo la verità, considerate le modalità e le dimensioni del fenomeno, non è facile convincersene. Resta tuttavia la responsabilità politica (non penale) di chi ha dato fiducia a quell’amministratore infedele e, per lunghi anni, lo ha conservato e confermato in quella funzione. Per statuto e per consuetudine, il tesoriere è persona di stretta fiducia del vertice del partito e, più precisamente, del suo leader. Così notoriamente anche nel nostro caso. Terzo: il vistoso deficit di controlli interni ed esterni. Quelli interni hanno un nome e un cognome: i revisori dei conti e il Comitato di tesoreria del partito. Quelli esterni si concretano in quei funzionari della Camera dei deputati presso la quale la legge prescrive siano depositati i bilanci quale condizione per l’erogazione del finanziamento pubblico. Ora ci informano che il loro potere di controllo è limitato e che i bilanci erano contraffatti con diabolica abilità. Può essere. Resta tuttavia la domanda: è normale che a scoprire la patologia siano solo a valle i magistrati? Problema cruciale cui urge porre rimedio. Quarto. Abbiamo premesso che il PD non c’entra. Lo confermiamo. Salvo un peccato d’origine, all’atto della sua nascita. Alla fusione politica tra Ds e Margherita non si accompagnò una fusione altrettanto limpida e compiuta delle rispettive risorse. Conosciamo la ragione: l’asimmetria delle condizioni. I Ds con un cospicuo debito arretrato accumulato nel tempo, a fronte del quale tuttavia essi disponevano di un ricco patrimonio immobiliare confluito in una apposita fondazione; la Margherita senza debiti, anzi in attivo, e per converso priva di un suo patrimonio. Un problema, un grana che non è stata affrontata. Oggi possiamo dire che fu un errore non impegnarsi a risolverla. Ci sarebbero voluti intelligenza, coraggio, applicazione, vincendo reciproche diffidenze e la resistenza di vecchi “sancta santorum”. Ma è la politica che deve guidare la cassa, non viceversa, e la politica aveva fatto la scelta audace e saggia dell’unità. Se si fosse seguita quella strada, si sarebbero fatte accurate verifiche, precisi inventari e il tesoriere di un partito disciolto non avrebbe potuto scorrazzare per quattro lunghi anni con assegni e bonifici milionari. 69


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Quinto: a quanto si è inteso, le risorse non sottratte illecitamente alla Margherita sono state destinate ad attività politiche di persone e associazioni che fanno capo ad esponenti che militavano in quel partito. Destinazioni conformi alle legge. Ma sulla base di quali criteri? A quanto si è inteso, le destinazioni erano a totale, assoluta discrezionalità di uno come Lusi. Non il massimo della garanzia. Lo ripeto: finanziamenti leciti se e in quanto finalizzati ad attività politiche. Si pone tuttavia un serio problema etico e politico: quello dell’alterazione della competizione democratica, della concorrenza sleale, di piccole leadership costruite sulla disponibilità privilegiata di risorse. Accessibili ad alcuni e non ad altri. E ancora: tra costoro figura anche chi ha lasciato il PD per dare vita a iniziative altre e concorrenti, in contrasto con l’approdo politico deliberato formalmente dagli organi di Margherita e dunque semmai naturale destinatario di quelle risorse. Sesto. Una lettura retrospettiva suggerisce che, all’esito malato, forse non sono estranee la natura e la struttura di Margherita. Non voglio essere frainteso: va fatto salvo l’onore di elettori, militanti e dirigenti di quel partito, ma questo non ci esonera da una riflessione critica sulle radici politiche della degenerazione, dentro la “costituzione materiale” di quel partito. Due in particolare: una leadership marcatamente personale e una struttura federativa tra componenti separate e mai per davvero rimescolate dalla politica. Una leadership personale che teneva strette a sé la comunicazione e le risorse; una struttura tripartita di rutelliani, Popolari, ulivisti, tra loro poco o nulla permeabili. Qualcuno – penso a Gad Lerner – in chiave retrospettiva ha sollevato un signor problema evocando il grave errore originato da una sciagurata assemblea di Margherita del 2005 che condusse, nel 2006, a liste separate tra Ds e Margherita anziché alla lista unitaria dell’Ulivo al Senato (con l’assurdità di due campagne schizofreniche Camera-Senato e il risultato di due punti percentuali in meno a palazzo Madama, cui non fu estraneo il calvario del secondo governo Prodi in quel ramo del parlamento). A quel colpevole errore, dicevo, è del tutto estranea la cura di preservare l’autonoma e distinta gestione delle risorse? In tutta franchezza, non so dare una risposta. Credo che a 70


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quella infelice decisione abbiano condotto semmai velleitari particolarismi di partito e mediocri ambizioni personali. Non la cassa. E tuttavia la domanda non è in assoluto peregrina. Resta il fatto che il prezzo pagato a quell’errore politico è stata la caduta del Prodi 2, la bruciante sconfitta del 2008 e i tre anni di Berlusconi che sono seguiti. Non è poco.

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Scienziati sociali, politici e la suocera di Ilvo Diamanti Alfio Mastropaolo

è docente di Scienza Politica alla Facoltà di Scienze Politiche di Torino

ietro un’apparenza inoffensiva, bonaria, ironica e smilzo pure di pagine, Ilvo Diamanti ha scritto un libro feroce (Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche, Il Mulino Bologna, 2011). È un libro che, dietro l’apparenza, cela una polemica serrata come poche contro le scienze sociali e pure contro la politica. A leggere il titolo, e la quarta di copertina, la prima ipotesi che vien da fare è che l’autore, come si usa, parli a suocera perché nuora intenda, o viceversa. Come si scopre leggendolo, alla suocera il libro riserva una parte assai più nobile, che è quella di fare da surrogato ai sondaggisti: è una spia, involontaria, sguinzagliata per scoprire come la pensano gli ordinari esseri umani, in maniera meno raffinata, ma forse più attendibile di quanto i sondaggi non facciano. Ciò malgrado, neanche la prima impressione è del tutto fuori luogo, perché il libro da un canto si rivolge a quelli che per professione fanno scienze sociali, mentre per un altro, e forse ancor di più, lancia un avvertimento alla

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politica (e dintorni: in primo luogo i media) che suona più o meno così: non fidatevi troppo. Il libro di Diamanti è dunque una preziosa occasione per riflettere. Il mondo reale è una cosa complicata. Le scienze sociali, per renderlo comprensibile, lo semplificano. Ed è un lavoro necessario. Ma non prendiamo le semplificazioni prodotte dalle scienze sociali per il mondo reale, che resta pur sempre complicato. Il problema è che le semplificazioni delle scienze sociali entrano comunque nel mondo reale e comunque qualcuno le prende sul serio. Di qui Diamanti rivolge un invito esplicito: alle scienze sociali di essere più riflessive e più responsabili, ovvero consapevoli dei loro limiti. E alla politica di evitare di cadere nella trappola delle semplificazioni e delle previsioni delle scienze sociali ne fanno seguire. Delle semplificazioni delle scienze sociali potremmo redigere un lunghissimo catalogo. Una tra tutte è quella secondo cui liberare l’economica dai vincoli e dai costi che le imponeva lo Stato l’avrebbe resa più libera e avrebbe favorito lo sviluppo. Stiamo di questi tempi scoprendo come le energie sprigionate dall’economia liberata sono finite in


ALTRI CONTENUTI speculazione finanziaria, che per mantenere il tenore di vita della gente comune e sostenere i consumi e la domanda, lo Stato si è caricato di debiti – in qualche paese si sono caricati di debiti invece i privati –, e che alla lunga lo Stato stesso si trova sottoposto a vincoli drammatici, tanto che non può più aiutare l’economia produttiva, proprio adesso che ne avrebbe gran bisogno. Il miraggio delle scienze sociali si è rivelato per quel che era. Nel mondo delle scienze sociali, in realtà, si fanno tantissime cose serie, ma non mancano neanche paillettes e lustrini, magari senza che gli scienziati sociali ne siano consapevoli appieno. Quello che essi raccontano non è il mondo reale, ma il mondo per come essi lo leggono, con lenti necessariamente imprecise, le quali ne condizionano le capacità di visione. Le lenti sono i valori in cui ciascuno scienziato sociale crede, le sue preferenze politiche, le teorie (o i paradigmi) che adopera e i metodi di ricerca di cui si serve. Questo non significa che il loro sia un lavoro inutile. È anzi un lavoro prezioso, perché comunque ci aiuta a capire cosa succede nel mondo. Ma è importante sapere in partenza che per uno scienziato sociale, come qualsiasi altro osservatore, le lenti sono una risorsa, non meno di quanto non siano un handicap, giacché consentono solo una rappresentazione parziale del mondo reale. Del resto, rappresentazioni perfette dell’originale notoriamente non esistono. Dove sta il problema? Sta in buona parte anche nel fatto che le rappresentazioni degli scienziati sociali da tempo ormai immemorabile – tra Sei e Settecento – hanno la pretesa di essere “scientifiche”. Le scienze sociali avanzano la pretesa di raggiungere la verità e, siccome da un tempo esse adoperano lo strumento principe della scienza, che sono i numeri, esse si pretendono indiscutibilmente scientifiche.

Le smentite che tale pretesa, e le previsioni che ad essa si accompagnano, subiscono sono quotidiane. Eppure, le scienze sociali faticano a riconoscersi per quel che sono, cioè un genere letterario (come i gialli, i fotoromanzi, ecc.), sicuramente tarato per determinati scopi (diversamente da altre opere letterarie), anziché un sapere in grado di dettare prescrizioni su come manipolare il mondo. Ora, il mondo lo si manipola comunque, e spesso virtuosamente. Non è necessario evocare la letteratura politica: Gomorra di Saviano. Sono tanti i libri che hanno lasciato dietro di sé un mondo un po’ diverso da quello che avevano trovato. Ma si può essere anche avvertiti delle proprie limitatezze e si può essere presi da deliri di onnipotenza. E

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ALTRI CONTENUTI quindi, con la pretesa di smentire il senso comune, come osserva Diamanti, si offende il buon senso e si perpetrano disastri. Quella che le scienze sociali si sono storicamente giocate è una partita delicatissima: la politica le ha viziate e loro hanno accettato le sue attenzioni. Perché noi le chiamiamo scienze sociali, ma sono tutte nate come scienze del governo, successivamente articolatesi in economia, sociologia e quant’altro, neanche sempre a servizio del governo in carica, ma talora anche dei suoi avversari. In ogni caso mantenendo la pretesa di essere scienze, in un mondo in cui le scienze esatte avanzavano la pretesa di dire l’ultima parola, a spese di chi l’aveva detta prima, cioè la religione (o i filosofi). Corroborando da ultimo la loro pretesa coi metodi quantitativi, le scienze sociali sono riuscite ad accreditarsi nell’accademia e presso la politica, salvo che adesso, quando le scienze esatte stanno radicalmente ripensando il loro statuto, e accettando le proprie inesattezze, troppo spesso le scienze sociali si irrigidiscono. Non capita sempre. Punti di vista problematici non ne mancano. Ma sono minoritari e anche meno ascoltati.

sociali e anche prescindono da esse. Ma le scienze sociali, la scienza politica in special modo, si sono fatte veicolo privilegiato di questa standardizzazione, che cammina sulle gambe dei paradigmi. Naturalmente la standardizzazione promossa dalle scienze sociali si accompagna a un moto di standardizzazione effettivo. Se rileggiamo gli ultimi settant’anni è stato un moto di americanizzazione. L’America è diventata il grande modello. Donde le scienze sociali arrivano. Non è stato un moto univoco. L’America ha importato moltissimo dal resto del pianeta, le parti del pianeta che si sono americanizzate hanno adattato le cose americane a loro uso e consumo e questi scambi esistono da sempre (non dimentichiamo che la parola jeans arriva da Genova). Non è neanche detto che l’America debba far scuola per sempre. Potremmo prima o poi cinesizzarci. Intanto però le scienze sociali, anziché seminare dubbi, propongono certezze. L’altra questione è che la standardizzazione, che è complicata da sempre, è da qualche tempo diventata ancor più complicata. Perché i destinatari non solo recepiscono, a modo loro, ma si sentono pure autorizzati a

Nel mondo delle scienze sociali, in realtà, si fanno tantissime cose serie, ma non mancano neanche paillettes e lustrini, magari senza che gli scienziati sociali ne siano consapevoli Quello affidato alle scienze sociali – a gran parte di esse, almeno – è un servizio di standardizzazione del mondo. Si fa così da qualche parte, in genere in America, qualche volta in Gran Bretagna, così ha da farsi dappertutto. Non c’è niente di male. I movimenti di standardizzazione sono antichi: pacifici e violenti, precedono le scienze 76

resistere. Il moto di standardizzazione promosso dall’America, e diffuso dalle scienze sociali, è ferreo e anche discretamente pianificato. Ma indossa i panni del pluralismo e della democrazia. Una volta indossati quei panni, la resistenza diventa legittima. Siamo in democrazia, che diamine! Se poi ci


ALTRI CONTENUTI aggiungiamo che tra le cose che abbiamo legittimato c’è la sfera locale, c’è la società civile, mentre abbiamo delegittimato lo Stato, i grandi partiti, e via di seguito, quando la sfera locale si oppone, come capita in Val di Susa, e fa resistenza, non dobbiamo stupirci. Dobbiamo stupirci invece dell’ingenuità dei politici e del semplicismo delle scienze sociali, che si concentrano sulle istituzioni e ci spiegano che basta adeguare quelle e tutto si risolve. Purtroppo, i politici, che dovrebbero saperla più lunga, perché la politica non la raccontano, ma la vivono, ci cascano pure loro. Gli apprendisti stregoni – scienziati sociali e uomini politici – sono caduti vittime delle loro alchimie. Fai il tuo sindaco! E, allora, perché non posso fare pure la mia galleria? E se devo scegliere io il mio premier, se sono io il sovrano, ma allora le mediazioni dei politici, che di questi tempi per giunta non combinano niente di buono, un po’ per colpa loro, ma molto in ragione delle circostanze, che sono assai impervie, non servono più. Non pretendo di far politica io, ma sono pronto a dar fiducia al mio vicino di casa, che è giovane (come prescrive un’altra regola di successo), è un gran lavoratore e promette di non arricchirsi a spese della collettività e dunque mie. Beppe Grillo è figlio non di umori antipolitici, bensì proprio di questo spirito: di umori molto politici, che sono stati piegati dalle idee messe in circolo dalla politica stessa e dalle scienze sociali. E dire che lo si sapeva. Prima di lui, figlio di questi umori era pure il successo di Bossi. Questi sono i disastri della pretesa democrazia immediata. Un po’ inevitabili, perché il mondo è cambiato e la democrazia rappresentativa non basta più. Ma un po’ evitabili, se si fosse usato un po’ di buon senso. A promettere i miracoli, qualcuno ci crede. Già, e magari si sarebbero utilizzati i media

con un po’ più di cautela. I media hanno cambiato la competizione politica, hanno cambiato il modo di fruirla (ma solo per una parte del pubblico), hanno suscitato, giustamente osserva Diamanti, l’illusione dell’immediatezza. Ma, a ben vedere, gli orientamenti di voto sono sempre gli stessi, mentre gli elettori, quelli che fruiscono i media attivamente – perché ci sono anche i fruitori passivi – sono diventati più esigenti: incalzano i politici da vicino, si trincerano nel non-voto, votano a dispetto. Al contempo, tuttavia, è raro che gli elettori si smentiscano, che smentiscano le proprie opzioni di schieramento, che sono ben sedimentate – i convertiti, in politica come nella sfera religiosa, sono sempre pochi – ma sono insofferenti e ben più irritabili che in passato. E coi sistemi elettorali binari che si è pensato bene di introdurre bastano un pugno di irritati a cambiare il risultato (fra l’altro: non tiriamo conclusioni affrettate dalle amministrative. Alle amministrative spesso di scherza, alle politiche si fa sul serio… Si fa gran parlare del risultato di Palermo: se guardiamo alle liste, quelle di centrosinistra non hanno ottenuto neanche il 35 per cento, il 60 è andato al centro e al centrodestra. Cosa avrebbe fatto il centrosinistra senza il traino di Orlando? E cosa capiterà alle politiche?) I politici sono dunque un po’ ingenui, credendo di fare i furbi. Prendono per mondo reale il mondo che gli raccontano gli scienziati sociali – di solito quelli che dicono cose che piace loro sentirsi dire – salvo poi scoprire che le previsioni erano sbagliate. Cercano la pietra filosofale che faccia loro vincere le elezioni senza troppa fatica e magari li faccia governare senza intoppi, liberandoli a un tempo dei loro concorrenti politici e delle troppe pretese dei cittadini. Solo che la pietra filosofale non c’è. Lo 77



ALTRI CONTENUTI scopriranno presto anche i sindaci del Movimento 5 Stelle: non basta essere nuovi e onesti per governare un comune e per soddisfare gli elettori Si potrebbe continuare con gli esempi. Diamanti si sofferma sul partito personale. E sottolinea come le nuove tecnologie mediatiche abbiano personalizzato la competizione politica, trasformandola non poco. Se non che, una cosa è un partito che appone sulle sue insegne l’effigie di un personaggio, ne riempie i cartelloni pubblicitari e satura gli spot televisivi, altra cosa è pensare che il partito sia pertinenza personale di quell’individuo. Anche in un caso molto particolare come quello di Forza Italia, poi Pdl, di un partito che è nato su iniziativa di un individuo, che ci ha investito massicciamente del suo, il partito resta comunque un’intrapresa collettiva: è una macchina complessa, che richiede un’accurata divisione del lavoro, competenze molto raffinate, staff e line e quant’altro. Basterebbe andare a vedere con un po’ d’attenzione cosa capita al livello locale. Forza Italia per osservare che il kit del candidato è stato sì molto scenografico, ma che il partito per radicarsi ha dovuto incorporare le reti politiche locali che già c’erano. Qualcuno ha parlato, non a torto, di un partito in franchising. In ogni caso, nelle sue interazioni con gli elettori, Forza Italia si è presto preoccupata con molto scrupolo di riattivare i bacini elettorali della Dc e degli altri partiti di centro. Gli elettori, si è detto, sono inerziali. Ci vuole del bello e del buono per farli muovere. Il gruppo dirigente di Forza Italia ha presto capito che la sua prima sfida era quella di apparire il più legittimo erede della Dc. Inizialmente l’ha fatto soprattutto sul piano dell’immagine: siamo nuovi, ma siamo anche la nuova Dc, il decisivo baluardo contro i comunisti. E poi con sempre più

convinzione l’ha fatto in termini di quadri dirigenti. Il ceto dirigente locale di Forza Italia, e ora del Pdl, è in grandissima parte arrivato dalla vecchia Dc e dai suoi dintorni. Qual è il paradosso? Che la fiaba del partito personale, che era solo una battuta di Norberto Bobbio, l’hanno presa in tanti sul serio. L’ha presa sul serio il Pd, che pure è un partito strutturato, andando a caccia di personaggi – del Berlusconi di sinistra, ad esempio, senza mai trovarlo – e la sta prendendo troppo sul serio lo stesso Pdl, che rischia di sfasciarsi, adesso che la stella di Berlusconi si è appannata, quando invece dovrebbe serrare le fila e prendere atto della sua natura di impresa collettiva. In questa sede potrebbe apparire un consiglio dato al nemico. Il Pdl non è granché, anzi è una brutta cosa, per più di un motivo. Ma forse bisognerebbe pensare che se si sfascia, è alquanto improbabile che il centrosinistra se ne giovi. A rimpiazzarlo potrebbe anche venire di peggio. E pertanto bisognerebbe anzitutto puntare a irrobustire il Pd (e le formazioni politiche che gli sono contigue). I partiti non si improvvisano. Sono il frutto di un lungo, umile, defatigante lavoro di organizzazione e di messa a punto simbolica. E forse sono proprio loro – quelli democratici – la principale difesa su cui la democrazia può contare.

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ALTRI CONTENUTI

Dalle città per far ripartire l’Italia Sergio Gentili

è Coordinatore Forum Politiche ambientali Partito Democratico

Vanni Bulgarelli

è esponente del Forum Politiche ambientali Partito Democratico

uando come Forum Ambiente del PD abbiamo avviato una riflessione sul rinnovamento delle politiche urbane e sulla necessità di dotare il nostro paese di una politica nazionale per le città, non pensavamo certo di scriverne e ragionarne con “Tam Tam” nel mezzo di una dolorosa tragedia prodotta dal terremoto nelle terre emiliane. La solidarietà è già in forte movimento e gli interventi di emergenza sono d’obbligo: le popolazioni non possono rimanere sole con le proprie paure e bisogni, le attività economia non si debbono fermare. Le realtà urbane italiane, piccole e grandi, sono una straordinaria risorsa umana, economica, storico-culturale ed ecologica, generatrici di energie creative, di capitale sociale, di cultura e saperi. Ma il territorio su cui insistono è fragile. Da questa considerazione generale proponiamo una riflessione e delle proposte. Condividendo l’ispirazione del dibattito promosso dalla rivista, crediamo che occorra ragionare sul ruolo dei centri urbani oggi. La considerazione di fondo è che di fronte alla necessità di superare gli effetti drammatici della recessione e delle

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politiche neoliberiste, gli aggregati urbani assumono una nuova e maggiore centralità nella vita nazionale ed europea. Pertanto il programma del PD per ricostruire l’Italia e per contrastarne il declino, dovrà partire necessariamente dalle città e dovrà farlo innovando, affermando cioè una nuova idea di città: sostenibile, intelligente, accessibile, inclusiva e bella. Perché è proprio dai livelli di governo più vicini ai cittadini e dalla loro partecipazione che può essere ricostruito e sostenuto un “nuovo civismo” che rappresenta l’energia pulita per ridare futuro all’intero Paese. Le responsabilità delle destre Nella lunga fase neoliberista le città sono state sempre più sole nell’organizzazione del territorio e del welfare locale, nelle emergenze, nella realizzazione di infrastrutture e servizi, essenziali per lo sviluppo economico e la coesione sociale, fenomeno aggravatosi soprattutto nell’attuale drammatica fase. In tanti casi i governi locali guidati dal centrodestra non sono stati all’altezza del compito, generando sprechi, inefficienze e logiche clientelari, abusando delle risorse naturali. Nell’ultimo decennio, tagli lineari e ripetuti dei trasferimenti statali, una fiscalità locale precaria, l’erosione dell’autonomia locale,


ALTRI CONTENUTI disordine normativo e assenza di strategie nazionali hanno colpito i comuni, spesso penalizzando i più attivi. Questo è stato il federalismo ideologico e inconcludente della Lega e del PdL, che con il localismo egoista e con il centralismo hanno negato la funzione nazionale delle città. Una società ecologica urbana Questione urbana, economica, sociale ed ecologica s’intrecciano. Vanno per questo superati interventi settoriali, disorganici e discontinui per affermare una visione integrata del governo urbano e di area vasta. Le città non sono solo i luoghi del consumo intensivo di risorse, dell’inquinamento, ma sono storicamente il modo più efficace di organizzare su grande scala la vita e le attività umane. Per questo sono soggetti primi e decisivi nella ricostruzione/cambiamento per una società ecologica. Tante città, anche in Italia, hanno scelto già politiche innovative di tutela dei beni comuni, dell’aria, del suolo, del territorio, del patrimonio artistico da cui sono emerse nuove opportunità economiche, lavorative e sociali.

ecologica, la green economy. Solo per questa via sarà possibile alle città cogliere le grandi opportunità che comporta correggere le storture di uno sviluppo che ha spezzato il rapporto cittàcampagna, consumato risorse naturali oltre limiti sostenibili. La recente proposta del Governo Monti di un “Piano per le città” va nella direzione giusta e va resa una politica nazionale coerente e centrale, dovrà essere messa a sistema, oltre la logica delle “opere pubbliche”. Le città motore della ripresa economica sostenibile L’economia urbana è stata a lungo ostaggio della rendita immobiliare, organica alla speculazione finanziaria. La finanziarizzazione ha penalizzato l’economia reale, l’innovazione, il welfare e l’ambiente. Questo meccanismo speculativo va rovesciato. Le priorità sono altre. Sono la ripresa economica e l’occupazione, soprattutto di giovani e donne. Siamo convinti che con un programma nazionale di rigenerazione delle città, grandi e

In tanti casi i governi locali guidati dal centrodestra non sono stati all’altezza del compito, generando sprechi, inefficienze e logiche clientelari, abusando delle risorse naturali Un nuovo rapporto tra urbanesimo, tutela e promozione del capitale naturale e sociale, è necessario anche per la credibilità del brand Italia, fatto di paesaggi e bellezza delle città, di tipicità e cultura nelle produzioni agro-alimentari, di creatività nella manifattura, di valore del suo patrimonio storico-culturale, che va mantenuto e in più punti ricostruito. La leva con cui operare è l’economia

piccole, sia possibile contribuire ad una nuova politica industriale per il Paese, incentrata sull’innovazione ecologica dei prodotti e dei processi. L’attuazione di nuovi indirizzi nel governo urbano (territorio, acqua, rifiuti, energia immobili, mobilità, biodiversità), ha come conseguenza la ripresa economica e delle imprese, la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro, la formazione e lo 81


ALTRI CONTENUTI sviluppo della ricerca. Le proposte che riteniamo essenziali per una “road map” contro la recessione e per la ricostruzione sostenibile riguardano: a) il monitoraggio del patrimonio immobiliare e della rete idraulica urbana; la riqualificazione e rigenerazione urbana, per ridurre il consumo di suolo; la valorizzazione del patrimonio immobiliare statale, da condurre insieme tra Stato e città; un programma di bonifica e risanamento dei siti industriali dismessi, spesso collocati in posizioni urbane strategiche; reti tecnologiche e digitali (smart grid), al servizio di cittadini e imprese, e per la mobilità sostenibile; servizi ambientali ed energetici intelligenti, stimolando investimenti pubblici e privati, per fare reti di città intelligenti; vanno resi stabili gli incentivi fiscali a favore di chi investe nell’efficienza energetica degli edifici, negli interventi antisismici (le recenti decisioni del Governo sugli incentivi vanno nella giusta direzione); un allentamento selettivo del patto di stabilità interno, per consentire investimenti nell’efficienza energetica degli edifici pubblici, nella loro messa in sicurezza e nella manutenzione e difesa del territorio; b) il superamento della contrapposizione tra Stato e comuni per completare il disegno di un mercato sociale dei servizi pubblici locali, senza svendere le aziende pubbliche, in particolare quelle del servizio idrico integrato, ma rafforzandone competitività, integrazione, efficienza e adeguando i sistemi di regolazione e controllo pubblico; attuare le linee comunitarie nella gestione dei rifiuti, per costruire una società del recupero e del riciclo; c) più in generale, il miglioramento delle prestazioni ambientali delle città sostenendo i Piani locali per la riduzione 82

delle emissioni di CO2 e l’adattamento al cambiamento climatico, come contributo al relativo Piano nazionale; d) le politiche urbanistiche, ambientali e per la mobilità e l’accessibilità delle città vanno poste al servizio di una strategia generale. Il governo del territorio e delle trasformazioni urbane è un punto cruciale per l’insieme delle azioni di sostegno alla qualità dello sviluppo delle città e del Paese. Resta indispensabile una riforma urbanistica. Si pone tuttavia, in termini stringenti, l’approvazione di alcuni provvedimenti per dotare i comuni di strumenti più adeguati. Una revisione delle norme fiscali, premianti gli interventi sui suoli già urbanizzati, riportando gli oneri urbanistici alla loro originaria destinazione. Occorre poi sancire, con norma nazionale, i meccanismi di perequazione e compensazione previsti in diverse regioni, rafforzandone l’efficacia giuridica, introducendo il principio della compensazione ambientale. È necessario rilanciare l’edilizia residenziale pubblica destinata all’affitto e il social housing, attivando innovativi strumenti finanziari e gestionali. Risorse per una politica integrata Lo stato dei conti pubblici non consente massicci investimenti e minore pressione fiscale. Tuttavia, è comunque indispensabile aiutare i comuni per il pieno utilizzo dei fondi comunitari. Anche il fondo rotativo di 600milioni, per gli obiettivi di Kyoto va aumentato e stabilizzato e impiegato anche per le aree urbane e ad esso va affiancata la creazione di fondi di investimento privato e cooperativo, non speculativo, per concorrere a sostenere specifici interventi e nella formazione delle figure professionali richieste


ALTRI CONTENUTI dalla crescita della urban green economy. Per un vero federalismo e il rinnovamento partecipativo della democrazia Le amministrazioni locali, sollecitate da consistenti e frammentate domande dei cittadini, pur tra limiti e distorsioni anche gravi, si fanno carico e spesso rispondono attivamente. Il PD sostiene questa azione e gli amministratori che la interpretano. Ora, grazie anche al brillante risultato ottenuto in tante città dalle liste del centrosinistra e del PD, si impone una evoluzione qualitativa e quantitativa delle politiche locali. La governance dei territori, la partecipazione dei cittadini e la riorganizzazione istituzionale e amministrativa degli enti locali sono punti cruciali, per praticare una forte innovazione

nella gestione della “cosa pubblica”. Ciò implica di superare i municipalismi. In particolare la pianificazione territoriale deve assumere a riferimento l’area vasta, eliminando stratificazioni normative, intrecci perversi di competenze e livelli decisionali. Occorre sostenere le unioni tra comuni o la loro fusione, per gestire i servizi e realizzare programmi d’area, ottenendo economie di scala, più trasparenza e competenza tecnica. Nell’agenda politica del Governo e del Parlamento deve per questo entrare con forza l’idea di un patto con le città, che integri quello di stabilità interno, solo finanziario e restrittivo, con politiche attive per la crescita e lo sviluppo, che le città possono attuare, se adeguatamente aiutate e coinvolte in un progetto nazionale di rinascita.

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