NUMERO 0 LUGLIO 2011
di nuovo l’uguaglianza .
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con interventi di Pierre Carniti Maurizio Franzini Maurizio Ambrosini Massimo D’Antoni Luca Bianchi Giuseppe Provenzano Riccardo Moro Gianni Geroldi Claudio Giunta Massimo Adinolfi Walter Tocci Gad Lerner Anna Maria Parente Miguel Gotor Fabio Nicolucci Giorgio Tonini
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La politica è una vocazione che ha bisogno di pensiero, un'attività che va svolta in uno stato di formazione permanente, un'identità che si fonda e si fa su una cultura e una sensibilità condivisa. Pier Luigi Bersani
NUMERO 0 - LUGLIO 2011
COORDINAMENTO EDITORIALE
Stefano Di Traglia Franco Monaco Alfredo D'Attorre COMITATO EDITORIALE
Massimo Adinolfi Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini ................................................................ SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it
SOMMARIO 04 06
versione 1.1
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Clipart courtesy FCIT
41 COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it
La nostra scommessa Franco Monaco
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E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico
Lo sguardo lungo Pier Luigi Bersani
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Eguaglianza, giustizia, equità: valori negletti anche a sinistra? Pierre Carniti La disuguaglianza economica e le sue sfide Maurizio Franzini Povertà ed esclusione, il ritorno della questione morale Maurizio Ambrosini Disuguaglianze, spesa sociale e crescita Massimo D’Antoni Il Mezzogiorno nel gioco delle secessioni Luca Bianchi, Giuseppe Provenzano Giovani italiani: senza arte, messi da parte Roberto Seghetti Nord - Sud del mondo. Global Governance contro lo scandalo delle disuguaglianze Riccardo Moro Generazioni contro? Gianni Geroldi A chi mai può stare a cuore l'uguaglianza nella scuola? Claudio Giunta
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Uguaglianza e questioni antropologiche Massimo Adinolfi Diseguaglianze metropolitane, sfida per il PD Walter Tocci Operai, la sinistra distratta Gad Lerner Le donne tra uguaglianza e differenza Anna Maria Parente
DOCUMENTI
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Combattere le disuguaglianze indotte dalla globalizzazione Benedetto XVI 150° Unità d'Italia: fieri del nostro cammino unitario Giorgio Napolitano
ALTRI CONTRIBUTI
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150° Unità d'Italia: un primo bilancio Miguel Gotor La primavera araba: il mosaico di un risveglio democratico Fabio Nicolucci Le missioni internazionali: onori e oneri per l'Italia Giorgio Tonini
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Lo sguardo lungo Pier Luigi Bersani
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Andremo un po' controcorrente, rispetto ai linguaggi veloci, interattivi e semplificati
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l Partito Democratico, lo avvertiamo ogni giorno più chiaramente, non è più un'ipotesi da verificare. Attraversando passaggi difficili, e superando ostacoli non scontati, siamo entrati ormai in una fase di stabilizzazione del nostro progetto, una fase che richiede scelte di consolidamento. Questa nuova rivista on line si pone al servizio del compito che ci attende. Andremo un po' controcorrente, rispetto ai linguaggi veloci, interattivi e semplificati – comunque utili e necessari – degli strumenti che siamo soliti utilizzare su internet: aggiungeremo il nostro tam tam al grande tam tam della rete ma un po' contropelo, provando a metterci dentro qualcosa su cui riflettere, magari anche con calma; qualcosa da leggere e magari rileggere, e che faccia pensare. Prenderemo un passo non troppo veloce – l'appuntamento è mensile, anche se il sito verrà aggiornato con segnalazioni e spunti dall'attualità, e affronteremo le questioni una per volta, nei loro diversi aspetti, a partire dal tema dell'uguaglianza, oggetto del primo numero. Non promettiamo effetti speciali, insomma. Eppure contiamo di sorprendere lo stesso, se è vero che un po' sorprendente può essere oggi l'idea che la politica sia una vocazione che ha bisogno di pensiero, un'attività che va svolta in uno stato di formazione permanente, un'identità che si fonda e si fa su una cultura e una sensibilità condivisa. Per questo staremo un passo indietro rispetto alle urgenze del quotidiano, e proveremo a suscitare e ad aiutare una riflessione plurale e al tempo stesso condivisa che, ponendosi
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un po' più lontano, possa illuminare il giorno per giorno e contribuire all'elaborazione del progetto del Pd. Metteremo insomma in rete, e a servizio di una ricerca comune, le grandi risorse culturali e politiche di cui il nostro partito dispone, e che intorno ad esso si muovono. Ci sforzeremo di individuare e coinvolgere risorse intellettuali nuove, a loro agio coi nuovi problemi e coi nuovi linguaggi. Saremo aperti, ospitali e curiosi, senza false e inutili neutralità. Ma l'obiettivo non sarà consolidare o rassicurare noi stessi, sarà contribuire a costruire un progetto che parli all'Italia. Se lavoriamo a consolidare la nostra identità e a stabilizzare la nostra forza non è infatti per egoismo di parte ma perché abbiamo a cuore l'Italia e siamo al servizio di un progetto che porti il paese fuori dalle secche di un populismo che non decide, di una politica che è solo annuncio e comunicazione, da un immobilismo che soffoca il civismo e la freschezza di tanti soggetti pronti a mettersi in gioco per un'idea diversa dell'Italia. In questi mesi abbiamo avuto segnali forti che qualcosa di grande sta succedendo in questo paese, e abbiamo mostrato qualche capacità di incrociare questa novità. Da qui ripartiamo, attrezzandoci meglio per andare più lontano.
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La politica è una vocazione che ha bisogno di pensiero, un'attività che va svolta in uno stato di formazione permanente, un'identità che si fonda e si fa su una cultura e una sensibilità condivisa.
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La nostra scommessa Franco Monaco
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cosa può servire un periodico online del PD? La nostra scommessa può essere raccolta dentro il proposito di fare i conti con un luogo comune e con una formula retorica. Il luogo comune è quello secondo il quale al PD difetterebbe una riconoscibile identità. La formula retorica è quella del partito plurale. Intendiamoci: l'uno (il luogo comune) e l'altra (la retorica) evocano problemi reali e complessi che certo non abbiamo la pretesa di sciogliere noi. Solo vorremmo dare un piccolo contributo a quanti, investiti di più responsabilità, sono chiamati a risolverli. Identità è parola abusata, talvolta equivoca, in qualche caso insidiosa. Quando la si scomoda a proposito del PD e di sue vere o presunte insufficienze è per invocare un suo più chiaro profilo politico-culturale. Un'esigenza giusta, se si considerano tre elementi: l'identità di un partito non si risolve nella sua “carta dei principi” (il PD la stilò diligentemente all'atto della sua fondazione) ma si forgia dentro l'azione politica; nel caso specifico del PD l'identità non può essere desunta dal passato ma va declinata ed elaborata al futuro (essa coincide con il suo progetto e la sua missione, riconducibile semmai a un'interpretazione pregnante della sigla “democratica”); le ascendenze storicoideologiche del PD, il patrimonio delle tradizioni in esso confluite (preziose, ma anch'esse non esaustive, da arricchire con “cose nuove”) sono molteplici, appunto plurali. Si innesta qui il tema del partito plurale. Tema effettivamente cruciale per il PD, in chiave culturale e organizzativa, per la propria rappresentanza e per la propria autorappresentazione. 06
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Tutte queste avvertenze anziché inibire all'opposto stimolano la ricerca di una cultura politica comune, di una visione espressiva di una sintesi nuova, ricca e aperta, che faccia da bussola sicura alla nostra azione, che ci doti di quello “sguardo lungo” che vistosamente difetta alla politica italiana di oggi. Lo sguardo che, evocando gli ultimi scritti di Padoa Schioppa, Bersani domanda a se stesso e al PD. Il nostro periodico è solo un piccolo, limitato strumento a servizio di tale ricerca comune. Esso consapevolmente s'inscrive nel quadro delle tante iniziative in capo al PD e alle sue articolazioni. Il proposito è quello di ritagliarsi una sua specifica funzione e, si spera, una sua utilità. In prima approssimazione quel suo “specifico” dovrebbe situarsi sul terreno della cultura politica, cioè dell'approfondimento delle idee che ispirano e orientano l'azione. Un terreno che non interferisce né con gli indirizzi più ravvicinati della politica di partito (di competenza degli organi di direzione politica del partito), ma che neppure insegue le molteplici ricette programmatiche (il PD dispone di dipartimenti tematici e di forum a ciò deputati). Il terreno che vorremmo esplorare è piuttosto quello della ricerca dei paradigmi, della battaglia delle idee. Protesi a una sintesi, ma aperta a diverse sensibilità. Per non stare sul generico, facciamo qualche esempio. Penso all'attenzione da riservare alle elaborazioni in corso tra le forze politiche riformiste e progressiste in Europa e negli Usa; alla ripresa critica del progetto europeo, la cui impasse non ci autorizza alla resa ma appunto a un rilancio su basi nuove; alle riforme ma anche e forse soprattutto all'attuazione del dettato costituzionale, un profilo, quello dell'attuazione, curiosamente trascurato; alle scuole e al pensiero economico che forse non è estraneo alla crisi finanziaria internazionale; al lavoro che manca e al lavoro che cambia, ma anche al suo senso-valore umano e al posto che gli spetta nella società; a una concezione positiva della laicità intesa come opportunità d'incontro fecondo tra culture ed esperienze religiose al plurale. Sono solo alcune delle aree tematiche meritevoli di uno scavo e di un confronto. Chi, tra noi, ha più dimestichezza con gli strumenti della rete ci ha fatto osservare che essa contempla ed esige un suo specifico linguaggio, che non si deve fare un periodico online con formula identica a quella di una rivista classica su carta. Cercheremo di tenere in conto tale suggerimento. Senza tuttavia rinunciare all'ambizione di farne uno strumento sì agile ma di riflessione, che comporta qualche sforzo e una certa concentrazione. Convinti come siamo che le idee valgono anche per quello che costano. 07
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Uguaglianza, giustizia, equità: valori negletti anche a sinistra? Pierre Carniti
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elle tre parole simbolo della Rivoluzione francese: liberté, égalité, fraternité, la seconda è la più evocata, ma anche la più contrastata. Ma come è possibile che questa parola abbia avuto tanta fortuna nella storia dei concetti politici nonostante la difficoltà di stabilire il suo significato descrittivo? Una rivendicazione di eguaglianza ha infatti un qualche senso se si traduce (come scriveva Bobbio) “nella negazione di una specifica ineguaglianza (giuridica, politica, sociale e economica) fra qualcuno e qualcun altro; considerati sotto specifici aspetti e in nome di un qualche criterio di giustizia”. Eppure negli ultimi secoli si è assistito a rivendicazioni di eguaglianza che si sono sempre caricate di pathos derivante da un intento di universalità e assolutezza che si è spinto oltre la rivendicazione particolare. E proprio da questo suo travalicamento è sembrato che traesse la propria forza. Ad occuparsi per prima del concetto di eguaglianza è la cultura greca. Il termine, coniato inizialmente entro il contesto costituito dalle origini della matematica, da principio viene inteso come una categoria dell'ordinamento del cosmo e solo successivamente come elemento centrale dell'ordinamento della polis secondo giustizia. Nella concezione dei greci si tratta però essenzialmente di quella che oggi chiameremmo eguaglianza giuridica. Perciò non una eguaglianza politica e tanto meno sociale. Per la buona ragione che nella civiltà greca la concezione della società è radicalmente antiegualitaria. Essa ritiene infatti che gli esseri umani siano fra loro ineguali “per natura”. Tant'è vero che alcuni sarebbero nati per essere schiavi e altri per essere uomini liberi. Per non parlare delle donne, alle quali non è 09
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riconosciuto alcun diritto. Per i greci quindi gli esseri umani si collocano in un rapporto gerarchico e la giustizia viene intesa come proporzione. Vale a dire attribuendo in modo proporzionato, ad individui naturalmente diseguali, oneri e benefici diseguali. L'egualitarismo moderno nasce diversi secoli dopo. In sostanza a partire dal 1600. Esso si ispira ad un duplice criterio: l'ideologia e l'utopia. La prima parte da una immagine condivisa della realtà sociale. La seconda, al contrario, si riferisce ad un ideale da realizzare modificando la situazione esistente. Hobbes, il più geniale teorico della nuova società (ma anche il più drastico fautore di soluzioni politiche autoritarie), combina questi elementi per costruire una nuova teoria politica. Secondo Hobbes il problema della legittimità di un ordinamento politico va risolto a partire dalla tesi dell'originaria eguaglianza degli esseri umani. Infatti, nell'ipotetico “stato di natura” gli esseri umani sono fra loro uguali. Perché ugualmente capaci di arrecarsi il massimo dei mali: cioè uccidersi l'un l'altro. Va detto che nelle teorie di Hobbes, come di molti altri teorici del contratto sociale e del diritto naturale, si assume la finzione di un'originaria eguaglianza degli individui che si trasforma in ineguaglianza quando questi entrano a far parte della società. Anche perché la società è fondamentalmente concepita come una costruzione artificiale. A questo schema, secondo il quale dall'eguaglianza naturale si passerebbe all'ineguaglianza sociale, Montesquieu introduce una variante di grande rilievo: l'eguaglianza naturale, perduta nella vita sociale, può venire recuperata “grazie alle leggi”. Rousseau fa un ulteriore passo avanti e elabora una concezione della storia nella quale l'originale eguaglianza che viene perduta attraverso l'instaurarsi di un'ineguaglianza non è più concepita come un dato necessario, ma al contrario viene giudicato “funesto”. La restaurazione dell'eguaglianza viene perciò ritenuta precondizione per il superamento di tutti i mali dello stato di cose esistenti. Che rappresentano appunto l'esito nefasto di un processo di degenerazione. In tal modo i concetti di eguaglianza e di libertà vengono collegati in quanto si condizionano reciprocamente. Ne consegue che l'eguaglianza può essere restaurata solo attraverso la costituzione del popolo in potere sovrano. Per tutto il settecento il dibattito pubblico sull'eguaglianza si sviluppa e s'infiamma. Significativa, tra le 10
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altre, la polemica tra il reazionario anarcoide Thomas Carlyle, fautore della schiavitù, e il liberale John Stuart Mill, che avversa le diseguaglianze di partenza, crede nella dignità di ogni uomo e nel libero confronto tra gli uomini in condizioni di parità. Nella loro polemica, riproposta recentemente, in modo magistrale, da Claudio Magris, si contrappongono due concezioni opposte di società. L'una basata sui limiti della democrazia e sul valore assoluto del lavoro, l'altra sull'eguaglianza come condizione di partenza necessaria per ogni uomo. Negli anni che precedono la rivoluzione francese si aggiungono anche progetti utopici di società egualitarie. Queste ipotesi d'ingegneria sociale faranno da sfondo e da lievito all'azione del gruppo di Babeuf e Buonarroti (con la “Congiura degli Uguali”) che li spinge a rivendicare, oltre all'eguaglianza davanti alla legge e all'eguaglianza politica, anche quella che verrà chiamata egalité réelle. Vale a dire l'eguaglianza assoluta delle condizioni socio-economiche. Naturalmente, accanto ai sostenitori dell'eguaglianza non mancano i detrattori e i critici. Non solo di destra, ma anche di sinistra. Tra questi ultimi, contrariamente a quanto sostiene la vulgata mediatica che presenta spesso l'eguaglianza come un principio marxista, c'è Carlo Marx. Marx critica infatti l'eguaglianza come uno pseudo ideale politico. Concezione, a suo giudizio, succube della stessa malattia ideologica che affliggeva gli ideologi della borghesia, gli apologeti dello Stato e del mercato. Secondo Marx l'astrattezza dell'eguaglianza avrebbe finito per farne un cattivo strumento critico nei confronti della realtà esistente. Condannando in tal modo anche i devoti dell'eguaglianza a perpetuare la situazione esistente con tutte le sue ingiustizie e iniquità. All'egualitarismo Marx oppone la prospettiva del comunismo. Un criterio regolatore che si pone oltre l'eguaglianza. Infatti, secondo il filosofo di Treviri, la società comunista dovrà funzionare in base al principio: “a ognuno secondo i suoi bisogni”. Che non è un criterio egualitario. Per il semplice fatto che non è possibile presumere una eguaglianza di bisogni. Ad ogni modo, la discussione sull'eguaglianza continuerà con grande intensità per tutto l'ottocento ed il novecento. In particolare, nella seconda metà del novecento, il tema dell'eguaglianza porterà a riflettere ed elaborare nuove teorie della giustizia. Giustizia è parola che più di altre si presta a definizioni molteplici. A volte persino antitetiche. In 11
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secoli di storia del pensiero il concetto ha infatti conosciuto un numero altissimo di elaborazioni, delle quali non è facile fare anche solo l'inventario. Anzitutto essa s'identifica con la legge e con la capacità (di norma formalizzata in regole e istituzioni) dei corpi sociali di comporre in modo pacifico i conflitti e in ciò che ha a che fare con il giudice, con la giustizia civile e penale. Connaturato a questa nozione di giustizia è il principio che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Che perciò, in una controversia e in generale nei rapporti con i pubblici poteri, essi siano trattati alla stessa maniera, secondo regole comuni. Cioè sulla base di leggi promulgate nell'interesse generale. Che non siano quindi proprietà esclusiva e abusiva di uno solo “che si è appropriato della legge”. Come dice Teseo nelle Supplici di Euripide. Si tratta quindi della giustizia come eguaglianza. Ma anche della giustizia come equa ripartizione dei beni; della giustizia come abolizione di ogni forma (palese e occulta) di sfruttamento. Per intenderci quelle a cui fa riferimento l'articolo 3 della nostra Costituzione. Il quale afferma appunto che è compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. A proposito di giustizia, John Rawls, (in Una teoria della giustizia) ha scritto: “la giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice e elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita di libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri.” In sostanza la teoria della giustizia di Rawls è una teoria dell'equità. I principi su cui si fonda sono essenzialmente due. Il primo è il principio dell'eguale sistema di libertà delle persone, in quanto cittadine di una comunità democratica. Il secondo, strettamente connesso al primo, è il principio di differenza. Esso prescrive che siano giuste e accettabili, e quindi eque, 12
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solo quelle diseguaglianze che vadano a vantaggio dei gruppi più svantaggiati della società. Declinando politicamente tutto il dibattito teorico, Norberto Bobbio (in Destra e sinistra) assume l'eguaglianza come discrimine tra destra e sinistra e come riferimento imprescindibile per la sinistra, in quanto la destra all'eguaglianza oppone la gerarchia. Nel suo libro Bobbio propone una ampia analisi delle diverse destre e sinistre che si sono succedute nel corso della storia e individua nell'antitesi tra egualitarismo e anti-egualitarismo l'aspetto più qualificante. Il suo assunto parte dalla presa in considerazione e dalla critica dei due criteri di distinzione largamente utilizzati dalla letteratura sull'argomento. Il primo riferito all'individualismo e all'organicismo. Perché, riconosce Bobbio, vi sono posizioni individualiste e organiciste tanto a destra che a sinistra. Il secondo relativo alla diade progresso e conservazione. Anche qui con la constatazione che pure i progressisti hanno cose da conservare. A cominciare dalla libertà e dalla democrazia. E a loro volta pure i conservatori non disdegnano di cambiare qualcosa. Preferibilmente ciò che considerano più conveniente o, se messi alle strette, meno sconveniente. Stabilite queste premesse, Bobbio scrive:” a mio parere il criterio di distinzione più significativo e incisivo è quello che si fonda esclusivamente sul diverso atteggiamento che gli uomini assumono di fronte all'ideale dell'eguaglianza, che è certamente insieme all'ideale della libertà (e forse con quello della pace) uno dei fini ultimi dell'uomo che vive in società. Prescindendo totalmente dal giudizio di valore sul perché l'eguaglianza sia preferibile alla diseguaglianza [….] mi limito a constatare che ci sono concezioni politiche egualitarie e concezioni politiche inegualitarie e che la distinzione tra destra e sinistra passa soprattutto attraverso questa contrapposizione”. Bobbio spiega immediatamente cosa intende per egualitari e antiegualitari precisando che: “si possono chiamare correttamente egualitari coloro che pur non ignorando che gli uomini sono tanto uguali che diseguali danno maggiore importanza, per giudicarli e attribuire loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto a ciò che li fa diseguali. Al contrario inegualitari sono coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto a ciò che li rende uguali”. E aggiunge: “ si tratta di scelte etiche che affondano le loro radici in condizionamenti storici, sociali, familiari, 13
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forse anche biologici, di cui sappiamo molto poco. Fattualmente è vero che gli uomini sono tanto uguali che diseguali: il preferire l'eguaglianza alla diseguaglianza (e agire di conseguenza) è una scelta morale. Ma è proprio questa scelta morale che contrassegna molto bene, a mio parere, i due opposti schieramenti che, ormai per lunga tradizione, siamo abituati a chiamare destra e sinistra”. In definitiva per Bobbio la distinzione tra destra e sinistra non è un fatto puramente spaziale (che cioè ha a che fare con la dislocazione nell'emiciclo del Parlamento). Ma appartiene al conflitto di valori. Ne consegue che la sinistra trae la sua legittimazione e la sua identità soprattutto dall'impegno ad una maggiore eguaglianza sociale. O, se si preferisce, dalla sua capacità di contrastare le diseguaglianze. In quanto l'eguaglianza che si esige è il grado più sopportabile della diseguaglianza. Da anni ormai questa tensione della sinistra verso una riduzione delle diseguaglianze appare notevolmente affievolita. Le ragioni di questa involuzione sono diverse. Gli analisti politici e gli studi di sociologia politica ne hanno trattato ampiamente. Tuttavia una sembra preminente. Con la fine delle ideologie la discussione politica ha accantonato anche il dibattito sui fini. Abbandonata la discussione sui fini e dunque sulle alternative politiche è diventata prevalente la personalizzazione della politica. Personalizzazione che spinge ad una competizione per il potere fondata sugli interessi e soprattutto sulla amministrazione dell'esistente. In una situazione del genere, non sorprende quindi che le diseguaglianze abbiano ripreso a correre. Assistiamo così a disparità crescenti: tra chi lavora e chi non riesce a trovare alcun lavoro; tra chi produce guadagnando poco e chi guadagna molto senza produrre niente; tra chi paga le tasse per tutti e chi le può evadere a proprio vantaggio. Questa situazione ha non solo conseguenze politicoculturali che comportano l'abbandono di ogni seria ricerca di una società più equa e più giusta. Ma, cosa che in genere viene sottaciuta, ha soprattutto effetti negativi sul piano economico. Per il semplice fatto che, più crescono le differenze nella distribuzione della ricchezza, minori diventano la possibilità di crescita. E' esattamente ciò che sta accadendo all'Italia. La tendenza all'aumento delle diseguaglianze, assecondata da un governo a guida anarco-conservatrice, crea non solo crescenti ingiustizie, ma blocca la crescita e frena la mobilità 14
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sociale. Cioè quel meccanismo che fa sperare ai padri che ai figli possa essere assicurato un avvenire migliore. Degli effetti economici negativi prodotti dalle diseguaglianze si ha conferma consultando l'ultimo rapporto Ocse. I dati contenuti nel rapporto confermano che tra i paesi appartenenti all'Ocse l'Italia è uno di quelli messi peggio. Nel senso che si colloca ai vertici della diseguaglianza. Per stabilire questa graduatoria l'Ocse ha utilizzato l'indice Gini. Come è noto l'indice è pari a 0 quando tutti i redditi sono uguali; è invece uguale a 1 quando la differenza è massima. Ebbene, il coefficiente Gini per l'Italia è di 0,35. Uno dei peggiori messi a segno dai paesi europei. L'aspetto importante da sottolineare è che, nel giro degli ultimi quindici anni, l'indice Gini per l'Italia è passato da 0,30 a 0,35. Detto in altro modo, significa che negli ultimi anni, da noi sono stati premiati i più ricchi. Cioè coloro che stavano già bene. In effetti, nel periodo considerato, i redditi alti sono cresciuti sei volte di più dei redditi bassi. Non è quindi un caso che il tasso di crescita dell'economia italiana risulti, ormai da anni, nettamente inferiore alla media dei paesi Ocse ed anche alla media europea. Si può correggere questa tendenza al declino? Per l'Ocse gli strumenti “più diretti e potenti” sono le riforme delle politiche fiscali (facendo pagare di meno a chi sta in basso e di più a chi sta in alto nella scala sociale) e adottando misure appropriate di sostegno al reddito. Si pensi ad esempio ai precari, che quando perdono il lavoro perdono tutto. Da sole però queste misure non bastano. Bisogna infatti anche creare lavoro e strappare le famiglie alla povertà aumentando l'occupazione, la formazione e l'istruzione. Bisogna insomma investire di più sul capitale umano e sulla scuola. L'esatto contrario di ciò che si sta facendo da noi. In definitiva, le concrete possibilità di arrestare il declino economico e sociale dell'Italia, altrimenti irrefrenabile, passano anche dall'impegno a riprendere e con la determinazione necessaria una battaglia (culturale, politica e sociale) per l'eguaglianza. Che però per essere davvero incisiva non può risolversi in pensieri solitari, ma deve tornare a essere un condiviso ideale umano e un valore morale.
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La disuguaglianza economica e le sue sfide Maurizio Franzini
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a disuguaglianza nei redditi in Italia è molto alta e da lungo tempo. Di essa ci si è poco preoccupati e non molto è stato fatto per correggerla. Disporsi a affrontare questo grave problema richiede di conoscerne, oltre alle dimensioni quantitative, le caratteristiche qualificanti e i meccanismi generatori. Riflettere su questo può avere l'effetto, come sosterrò, di sfidare alcune convinzioni sulla disuguaglianza e sui modi di farvi fronte, diffuse anche a sinistra. Queste note affrontano brevemente tre questioni: il ruolo dell'istruzione (o capitale umano); la possibilità di diventare super-ricchi con il proprio lavoro; il rapporto tra disuguaglianza economica e mobilità sociale. L'odierna disuguaglianza deriva da cambiamenti profondi intervenuti nei mercati durante gli ultimi decenni. Il coefficiente di Gini, che è l'indicatore più utilizzato, segnala che la disuguaglianza nei redditi di mercato – cioè calcolati prima dell'intervento redistributivo del Welfare - in Italia è fortemente cresciuto (da 42% a 56%) tra la metà degli anni '80 e la metà del decennio scorso. La causa sta sia nelle maggiori distanze tra il valore medio di redditi di diversa natura (quelli da lavoro dipendente hanno perso terreno rispetto a quelli da lavoro autonomo e da capitale) sia nella crescente dispersione tra redditi di uguale natura. La disuguaglianza all'interno dei lavoratori autonomi, che è sempre stata elevata, negli ultimi quindici anni si è accentuata e anche quella tra lavoratori dipendenti, in precedenza assai contenuta, ora è piuttosto elevata. Quest'ultima disuguaglianza è spesso ricondotta alla diversa dotazione di capitale umano, sulla base della convinzione che il rendimento di quest'ultimo, con la globalizzazione e il progresso tecnologico, sia cresciuto. Questa interpretazione, che porta anche a suggerire di accrescere il capitale umano di chi ne è poco provvisto, non è convincente, almeno per il caso italiano. In primo luogo, il rendimento economico del capitale umano risulta più basso che altrove e sembra perfino diminuito negli anni più recenti. Inoltre, come risulta da stime effettuate 16
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Perché al ridursi dei disoccupati si riducano anche le disuguaglianze, occorre che la distribuzione dei redditi tra gli occupati non peggiori. Questo non è accaduto in Italia.
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su micro - dati relativi al 2007, la quota di disuguaglianza salariale imputabile alla diversa dotazione di capitale umano è molto bassa, inferiore a un quarto. Ciò vuol dire che tra lavoratori con la stessa istruzione (e uguali anche per altre caratteristiche come l'età, il genere, l'area di residenza, ecc.) vi sono notevoli differenze di reddito. Dunque, gran parte della disuguaglianza sfugge al capitale umano. La combinazione di disuguaglianza salariale crescente e dinamica assai contenuta dei salari medi ha fatto in modo che i redditi più bassi siano davvero molto bassi: si spiega così perché il numero di “lavoratori poveri” sia in crescita, soprattutto, ma non solo, tra i lavoratori atipici. Inoltre, non pochi, tra i working poor, sono laureati e questo prova che il capitale umano non garantisce dal rischio di povertà. In questa situazione l'accrescimento del capitale umano, anche se altrimenti desiderabile, rischia di essere, di per sé, inefficace contro la disuguaglianza. Occorrono altri interventi: anzitutto, politiche (industriali, dell'innovazione e anche di produzione di beni pubblici) in grado di valorizzare il capitale umano nei processi produttivi. Inoltre, occorre ridurre la possibilità di discriminare i salari sulla base, soltanto, della tipologia del contratto di lavoro: oggi la retribuzione oraria (e non solo quella annuale, che risente delle intermittenze dei periodi di lavoro) di lavoratori per altri versi identici risente molto del tipo di contratto. Misure di questo tipo potrebbero avere, data la situazione di partenza, un effetto apparentemente paradossale: poiché tra i “poveri” vi sono molti lavoratori con capitale umano, accrescere il reddito di questi “poveri” avrebbe il duplice e inatteso effetto di ridurre le disuguaglianze e di elevare il rendimento del capitale umano. Un risultato che dovrebbe essere considerato come assai auspicabile anche a sinistra. Le caratteristiche del nostro mercato del lavoro invitano anche a riflettere sull'efficacia, in termini di riduzione delle disuguaglianze, della creazione di posti di lavoro. Perché, al ridursi dei disoccupati si riducano anche le disuguaglianze, occorre che la distribuzione dei redditi tra gli occupati non peggiori. Questo non è accaduto in Italia e l'effetto è stato che la disuguaglianza complessiva è rimasta sostanzialmente invariata, malgrado il forte aumento di occupazione verificatosi negli anni precedenti la crisi. Dunque, politiche certamente desiderabili come l'accrescimento del capitale umano e dell'occupazione non sono, di per sé, in grado di assicurare la riduzione delle disuguaglianze. Occorre un insieme di interventi ben strutturato, che ne sfrutti le potenziali complementarità. Ragionare sulle complementarità tra politiche è una sfida da raccogliere per un'efficace azione di governo. Volgendo ora lo sguardo alla parte alta, o meglio 17
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di nuovo l’uguaglianza
Per diventare super-ricchi non è più indispensabile aver accumulato capitale reale o finanziario.
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altissima, della distribuzione osserviamo che anche in Italia sembra essersi verificato un fenomeno inizialmente individuato negli Stati Uniti e cioè il forte aumento della quota di reddito nelle mani dell'1% più ricco della popolazione (o di quote ancora più ristrette). Nel nostro paese, dal 1993 il reddito dello 0,1% più ricco ha preso a crescere, risultando, nel 2004, in aumento del 40%. Quello dello 0,01% più ricco è cresciuto del 75%. I dati segnalano anche la crescente presenza tra i top incomes di individui che derivano il proprio reddito non dal capitale o da altre forme di ricchezza, ma dal lavoro. Nello 0,01% più ricco circa il 40% è costituito da percettori di reddito da lavoro, più del triplo rispetto al decennio precedente. Si può immaginare di quali “lavoratori” si tratti: superstar, come si dice, dello spettacolo o dello sport, professionisti di grande notorietà, manager di alto livello e qualche grand commis dello Stato. Su quali siano le origini di questi redditi (talento, potere, mercati protetti, tecnologie che consentono di raggiungere masse sterminate, accondiscendenza fiscale o altro ancora?) molto resta da conoscere. Certamente queste tendenze segnalano che per diventare super-ricchi non è più indispensabile avere accumulato capitale reale o finanziario. Quali implicazioni questo abbia, non è facile a dirsi. Ma il fenomeno definisce un'altra sfida: interrogarsi in modo nuovo sul rapporto tra l'altezza e l'accettabilità dei “premi” decisi dal mercato. Premi alti, derivanti da meccanismi che non è facile giustificare, possono anche avere effetti distorsivi sul funzionamento dell'economia e far dubitare che la ricchezza, e non solo la povertà, sia un problema. L'ultima questione riguarda il rapporto tra disuguaglianza e mobilità sociale. Quest'ultima è frenata se la trasmissione intergenerazionale rende molto probabile che il figlio del ricco sia ricco e il figlio del povero sia povero; parallelamente risulta violata l'eguaglianza delle opportunità, da tutti considerata auspicabile. In Italia, la trasmissione intergenerazionale dei redditi da lavoro è molto alta. Le cause sono molteplici e non si esauriscono nel vantaggio che i figli dei ricchi possono avere in termini d'istruzione. Ma al di là di questo, occorre sottolineare un altro aspetto: come suggerisce l'elevata correlazione, individuata a livello internazionale, tra queste due manifestazioni della disuguaglianza, laddove la distanza tra ricchi e poveri è ampia può essere più facile attivare meccanismi (nel sistema economico, nelle scelte politiche, ecc,) che rendono più agevole ai figli dei ricchi di essere loro stessi ricchi. La conseguenza è un'ulteriore sfida che, soprattutto a sinistra, dovrebbe essere raccolta, e cioè la revisione dell'idea che l'eguaglianza delle opportunità possa realizzarsi indipendentemente da quel che accade alla disuguaglianza nei
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Povertà ed esclusione, il ritorno della questione morale Maurizio Ambrosini
I
temi della povertà, del disagio e dell'esclusione sociale stentano a trovare nel dibattito pubblico il posto che meriterebbero, benché la crisi economica iniziata nel 2008 abbia provocato qualche soprassalto di consapevolezza circa le difficoltà economiche in cui si dibatte una quota crescente della popolazione. Troppo poco, tuttavia: la stessa crisi, la disoccupazione e i problemi connessi sono largamente espunti dal circuito mediatico, oltre che dal discorso governativo, come mostrano le analisi dell'Osservatorio di Pavia. La questione non si presenta d'altronde di facile trattazione. Se per povertà s'intende comunemente l'indigenza economica, ossia la privazione di beni considerati indispensabili, da tempo si conviene che questa dimensione non basta a definire i fenomeni di disagio e marginalità sociale. Per questo a livello europeo e poi anche nazionale si è affermato il concetto di esclusione sociale, che però richiede a sua volta di essere precisato. La Commissione europea, nel suo secondo rapporto ufficiale “sulla povertà e sull'esclusione sociale” (2002) ha fatto ricorso a una batteria di ben 24 indicatori (9 in più del primo rapporto), raggruppati in 5 dimensioni di “privazione non monetaria”: 1) privazione nello stile di vita di base (riferito a beni come il cibo, il vestiario, il pagamento delle bollette, la possibilità di andare in vacanza almeno una volta l'anno…); 2) privazione negli stili di vita secondari (riferiti a beni meno essenziali, come l'auto, il telefono, la TV); 3) disponibilità di standard abitativi comuni (servizi igienici interni all'abitazione, acqua corrente, doccia o vasca da bagno, ecc.); 4) deterioramento dell'abitazione (infiltrazioni d'acqua dal tetto, umidità, finestre rotte, …); 5) problemi ambientali (rumori, inquinamento, 19
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spazi inadeguati…). In Italia, la Commissione d'indagine sull'esclusione sociale ha invece definito gli esclusi come coloro che occupano le posizioni più basse nella stratificazione sociale: non solo perché dispongono di meno risorse di quelle necessarie per condurre una vita normale, ma perché sono in un certo modo separati dal resto della società. L'elemento qualificante della nozione di esclusione sociale viene pertanto individuato nella “separazione tra coloro che partecipano pienamente alla società e coloro che invece si trovano privati di un ruolo riconosciuto” (2000: 75). L'esclusione viene concepita quindi come un concetto dinamico e multidimensionale, ossia derivante dall'accumulazione di diversi fattori di deprivazione, mentre la povertà sarebbe un concetto statico, oggettivo e misurabile. Gli studi sull'argomento hanno posto poi l'accento su un elemento immateriale, che rimanda alla nozione di capitale sociale: la rilevanza delle relazioni sociali, dei legami intersoggettivi, dell'interazione con altre persone, ambiti di vita sociale, luoghi di aggregazione. L'isolamento, ossia la mancanza di contatti con i vicini di casa, la non frequentazione di altre persone, la non appartenenza ad associazioni o ad altre forme di vita collettiva, possono essere assunti come indicatori di esclusione sociale (Chiappero Martinetti, 2008). Castel (1995) ha introdotto nel dibattito sul tema un termine icastico, quello di disaffiliazione, per esprimere la rottura dei legami sociali e dei sistemi di protezione primaria, che rischia di combinarsi con la perdita del lavoro producendo effetti di emarginazione molto pericolosi. Fatto forse socialmente altrettanto rilevante, vulnerabilità e percezione di fragilità interessano un numero molto più ampio di persone, comprese famiglie di classe media che si ritenevano al riparo dalle incertezze economiche. Proprio la dimensione della vulnerabilità, e la percezione sociale di una crescente esposizione al rischio d'impoverimento, riconduce il dibattito sull'esclusione sociale verso il centro della società, ponendo in evidenza il fatto che non si dà una cesura netta tra mondo della povertà e mondo dell'integrazione sociale. Società più mobili e fragili, tanto sul piano occupazionale quanto nella sfera delle relazioni familiari, e incapaci di dotarsi di reti adeguate di protezione sociale, espongono un maggior numero di persone allo scivolamento verso condizioni di marginalità e, in spirali 20
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progressivamente discendenti, verso il precipizio dell'esclusione sociale. Proprio la debolezza e la fragilità della compagine familiare, insieme all'assenza, alla precarietà o alla scarsa redditività del lavoro e alla mancanza di adeguate politiche di sostegno, sono le principali cause delle spirali d'impoverimento. Nel caso della perdita del lavoro, la mancanza del sostegno del coniuge, o peggio, gli oneri derivanti da un divorzio, rischiano di avere effetti devastanti per le condizioni di vita delle persone. Un mercato del lavoro più flessibile e instabile avrebbe bisogno di più impegno istituzionale verso i soggetti che ne sopportano le conseguenze (Zucchetti, 2005). Le famiglie non possono rappresentare l'unico ancoraggio alla società per le persone che perdono il lavoro: questo affidamento implicito ed esclusivo amplifica le disuguaglianze e sovraccarica le famiglie stesse, tracimando sulle loro risorse e capacità di fronteggiamento delle contingenze critiche. Occorre domandarsi a questo punto come intervenire nel contrasto alla povertà. Accanto al dibattito sul reddito di cittadinanza, che qui non riprenderò, c'è un altro aspetto che merita attenzione. I discorsi sul ripensamento dei sistemi di protezione sociale, a partire dalle istituzioni europee, convergono largamente sul superamento di un'assistenza passiva (e passivizzante), in nome di un welfare attivo, volto a sostenere gli individui nello sviluppo di capacità di autoprotezione e responsabilizzazione nei confronti dei rischi sociali. La svolta trova un perno nel concetto di attivazione, in cui si richiede ai beneficiari delle misure di sostegno di assumere un ruolo di protagonismo responsabile nel loro reinserimento sociale, soprattutto mediante il lavoro. Di qui l'enfasi sulle politiche d'inserimento, rappresentate in modo particolare dai programmi di welfare to work, miranti a ridurre la dipendenza dal welfare dei beneficiari, reintegrandoli nel sistema occupazionale (Colasanto e Lodigiani, 2008). L'attivazione si declina pertanto sia come impegno istituzionale, sia come impegno individuale rivolto ai beneficiari: se le istituzioni pubbliche, direttamente o indirettamente, sono chiamate a sviluppare servizi promozionali e personalizzati, come la formazione lungo tutto l'arco della vita, l'orientamento al lavoro, i servizi di mediazione tra domanda e offerta di occupazione, i destinatari sono chiamati a diventare attori compartecipi della 21
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costruzione della risposta ai propri bisogni, essenzialmente attraverso la partecipazione al lavoro. Questo duplice versante del discorso dell'attivazione lo espone a interpretazioni ambivalenti, su cui i critici non hanno mancato di sollecitare l'attenzione. Anzitutto, è per l'appunto un discorso, non costituisce una riforma complessiva del sistema di welfare, le cui coordinate istituzionali restano immutate. Continuano cioè a essere coperti rischi che non generano bisogni, e a essere mal tutelate situazioni (madri sole con bambini, persone senza dimora, disoccupati di lunga durata, ecc.) che richiederebbero ben maggiore impegno pubblico. Giacché una politica dell'attivazione seriamente concepita comporterebbe investimenti economici rilevanti, e dall'esito comunque incerto, è stata recepita, nelle applicazioni, soprattutto l'idea della responsabilizzazione dei beneficiari e del contrasto alla dipendenza assistenziale. Di qui una tendenza verso una maggiore selettività delle misure di sostegno, una pressione affinché gli interessati accettino incondizionatamente le occupazioni offerte, fino a una stigmatizzazione più o meno strisciante verso chi non riesce a emanciparsi dal bisogno di assistenza. Le stesse idee di attivazione e inclusione possono essere diversamente interpretate. Non è scontato, per cominciare, che una persona sia socialmente inserita per il fatto di svolgere un'occupazione remunerata di qualunque tipo, contenuto e durata. Soprattutto in una stagione di recessione e di mancanza di occupazione, e ancor più di “buona” occupazione, emerge poi il fatto che l'attivazione non è destinata a coincidere necessariamente con un lavoro remunerato. La formazione può essere una forma di attivazione, al pari della partecipazione ad attività volontarie, associative, d'impegno civile, di utilità sociale. Specialmente quando si ha a che fare con persone la cui capacità di lavoro è compromessa da fattori invalidanti (per es., la malattia psichica), reduci da esperienze vulneranti come la vita in strada, colpiti da processi durevoli di stigmatizzazione e discriminazione (come le minoranze rom e sinte), o anche soltanto di età avanzata ma non ancora pensionabili, oppure assorbite da impegni di cura che ne limitano la possibilità di lavorare per il mercato, come nel caso delle madri sole con figli piccoli, si coglie l'esigenza di ripensare il contenuto della nozione di attivazione, riempiendola di significati più ampi e 22
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sensibili a varie forme di partecipazione e impegno civico 1 (cfr. Paci, 2005) . Di qui deriva poi un altro spunto: l'attivazione, anziché essere immaginata come un punto di partenza per il recupero degli esclusi, in molti casi va piuttosto concepita come il punto di arrivo di un percorso delicato e complesso, che esige sensibilità, accompagnamento personalizzato, interventi integrati con altri profili d'intervento sociale: in alcuni casi, la risposta al problema abitativo, in altri la disintossicazione o il recupero dell'efficienza psicofisica, in altri ancora il sostegno alla fragilità personale, la mediazione familiare, l'aiuto nella composizione tra impegni di cura e partecipazione al lavoro. Si può parlare di una strategia delle 3 A: accoglienza, accompagnamento, attivazione, come abbiamo messo in luce in una ricerca promossa dalla Fondazione Casa della Carità di Milano (Ambrosini, 2009). L'ultimo termine difficilmente può funzionare senza i primi due.
_______________________________ 1. Si può ricordare di passaggio che le istituzioni statali, in Italia come in decine di altri paesi, già riconoscono e in una certa misura remunerano una forma di impegno sociale come il servizio civile volontario per i giovani. Bibliografia Ambrosini, M. (a cura di) 2009, Costruire cittadinanza. Solidarietà organizzata e lotta alla povertà, Milano, Il Saggiatore. Castel, R. 1995, Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Paris, Fayard Chiappero Martinetti, E. 2008, Dalla povertà all'esclusione sociale: l'evoluzione di un concetto e le implicazioni sul fronte delle strategie, in Rinaldi, W., Giustizia e povertà. Universalismo dei diritti, formazione delle capacità, Bologna, Il Mulino, pp.63-79. Colasanto, M. e Lodigiani, R. (a cura di) 2008, Welfare possibili. Tra workfare e learnfare, Milano, Vita & Pensiero. Commissione di indagine sull'esclusione sociale, 2000, Rapporto annuale sulle politiche contro la povertà e l'esclusione sociale, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato Zucchetti, E. 2005, La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche, Milano, Vita & Pensiero 23
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Disuguaglianze,
spesa sociale e crescita Massimo D’Antoni
L’
ultimo quarto del XX secolo è stato segnato da una crescita marcata della diseguaglianza del reddito e della ricchezza, che ha investito, seppure in misura diversa, tutti i paesi; un'inversione di tendenza rispetto ai quattro decenni precedenti in cui, con l'affermazione ed espansione dei sistemi di protezione sociale e di welfare e l'ampio ricorso a sistemi fiscali progressivi, la diseguaglianza era andata diminuendo. Nel clima culturale dominante negli anni 1980 e 1990, l'opinione prevalente tra gli economisti era che le diseguaglianze fossero l'effetto inevitabile dei processi in atto: lo sviluppo tecnologico che aumentava il valore relativo del lavoro; la globalizzazione che colpiva soprattutto il lavoro meno qualificato. Contemporaneamente, la riflessione accademica più influente poneva l'accento soprattutto sui costi della redistribuzione. Veniva enfatizzato il dilemma tra l'esigenza di aumentare la ricchezza complessiva e il costo, in termini di incentivi, di una sua più equa redistribuzione. L'aumento delle diseguaglianze era tollerato politicamente nella convinzione che queste avrebbero stimolato il desiderio di arricchirsi e quindi promosso una crescita di cui alla lunga avrebbero beneficiato tutti quanti. Più che sulla diseguaglianza tout court, l'accento veniva semmai posto sulla necessità di intervenire rispetto alla povertà, cioè alle situazioni di marginalità, con interventi mirati e selettivi. La crisi del 2008 sta determinando anche su questo aspetto un ripensamento negli orientamenti e nelle parole d'ordine. Tra economisti, in modo anche trasversale rispetto alle diverse impostazioni teoriche, si sta affermando l'idea che la diseguaglianza vada riconosciuta come una delle cause, se non la causa principale, del terremoto finanziario: è stata la concentrazione dei dividendi della crescita nelle mani di pochi ricchi e super-ricchi, unita a una progressiva esposizione al rischio delle classi medie, a determinare in paesi come gli USA 24
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una convergenza di interessi a favore dell'espansione incontrollata del credito. Il finanziamento dei consumi determinato da questo fittizio effetto ricchezza è riuscito a far termporaneamente da traino alla domanda mondiale, ma ci ha condotti su un sentiero che come abbiamo visto non era sostenibile. Che un'equa distribuzione sia condizione per una crescita equilibrata e duratura è una conclusione ben nota agli studiosi di economia dello sviluppo; in paesi caratterizzati da maggiore diseguaglianza larghi strati della popolazione vedono limitata la possibilità di effettuare i necessari investimenti in capitale umano, e una forte concentrazione della ricchezza e del controllo delle risorse è spesso un impedimento allo sviluppo. Ma anche nei paesi economicamente più avanzati ci sono solide ragioni per assegnare al tema della distribuzione un ruolo maggiore di quello che esso ha avuto nei decenni più recenti, e che non è limitato ad un appello a pur fondamentali ragioni di giustizia sociale. Numerosi studi concordano infatti sull'esistenza di una significativa e solida correlazione tra la diseguaglianza e una cattiva performance rispetto ad importanti indicatori di qualità sociale: il tasso di mortalità, la salute (es. l'incidenza di malattie mentali), la frequenza di omicidi e violenze, la diffusione di sentimenti di ostilità e razzismo, gli abbandoni scolastici, si presentano con maggiore frequenza in paesi caratterizzati da livelli più elevati di diseguaglianza. Si noti che tali studi non si limitano a confermare che in società più diseguali tali fenomeni sono più diffusi perché ci sono più poveri; il dato rilevante è che in società più diseguali la qualità della vita è peggiore lungo l'intera distribuzione, cioè anche per coloro che hanno un reddito medio o medio-alto, quando li si confronti con individui di pari reddito in società più egualitarie. Una conclusione che è del resto confermata dalle analisi sugli indicatori “soggettivi” sulla felicità percepita. Anche se correlazione non è sempre interpretabile come causalità, ci sono buoni argomenti per ritenere che società più eguali siano società in cui si vive complessivamente meglio. Meno concorrenza posizionale, meno preoccupazione di ottenere il riconoscimento e il rispetto altrui, maggiore possibilità di cooperare e maggiore fiducia e reciprocità sono spiegazioni plausibili. Da cosa dipende il diverso grado di diseguaglianza? Cause profonde sono la natura delle risorse su cui si fonda la ricchezza di un paese, nonché il tipo di tecnologia prevalente nel suo sistema produttivo. Ma anche e soprattutto le istituzioni del mercato del lavoro. I paesi più egualitari, quelli del Nord Europa, sono caratterizzati da una ridotta variabilità dei salari, effetto della legislazione sul lavoro e del ruolo centrale svolto dai sindacati. Viceversa, la liberalizzazione del mercato del 25
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I moderni stati del benessere forniscono gratuitamente o a prezzi sussidiati cure sanitarie, istruzione, servizi alla persona e beni collettivi, sottraendo alla logica della disponibilità a pagare e garantendo quale “diritto” di cittadinanza l’accesso a un insieme ampio di beni ritenuti “essenziali”.
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lavoro e l'indebolirsi dei sindacati portano ad una maggiore dispersione nelle remunerazioni: non stupisce dunque che tra i paesi con maggiore diseguaglianza nelle retribuzioni troviamo Stati Uniti e Regno Unito. Purtroppo l'Italia ha un posto di rilievo in questa graduatoria, risultando un paese estremamente diseguale (ci riferiamo qui alla distribuzione prima di imposte e trasferimenti pubblici). Si noti tuttavia che nel nostro paese la varianza nelle remunerazioni individuali non è elevata, almeno tra i lavoratori dipendenti; la diseguaglianza si manifesta semmai riguardo ai redditi familiari, e dunque la ragione della cattiva performance va ricercata in fattori quali la scarsa partecipazione femminile al lavoro (e quindi l'alta incidenza di famiglie monoreddito); pesa inoltre l'incidenza di lavoro atipico caratterizzato da elevata discontinuità e mediamente più basso di quello stabile nonché l'elevata concentrazione di redditi non da lavoro. Oltre che attraverso la regolazione del mercato del lavoro, un importante canale attraverso cui le politiche economiche possono incidere sulla diseguaglianza è l'intervento redistributivo che lo stato realizza attraverso la fornitura di beni e servizi, i trasferimenti e le imposte: la redistribuzione è l'effetto combinato di accesso a condizioni di eguaglianza a beni e servizi e contributo crescente al reddito (meglio ancora se progressivo). I moderni stati del benessere forniscono gratuitamente o a prezzi sussidiati cure sanitarie, istruzione, servizi alla persona e beni collettivi, sottraendo alla logica della disponibilità a pagare e garantendo quale “diritto” di cittadinanza l'accesso a un insieme ampio di beni ritenuti “essenziali”. La responsabilità pubblica rispetto alla distribuzione si giustifica per la natura di “bene collettivo” di questa. Anche in presenza di una diffusa preferenza per l'eguaglianza, l'apporto volontario risulterebbe infatti inferiore a quanto sarebbe ottimale dal punto di vista sociale. L'espansione del ruolo pubblico nella sicurezza sociale è del resto l'effetto d'interventi resisi necessari per superare l'insufficienza, sia in termini d'insostenibilità finanziaria che di frammentarietà, delle precedenti forme volontaristiche e mutualistiche. Riconoscere il ruolo centrale dell'iniziativa pubblica nel garantire equità di accesso a un insieme di beni a vario titolo essenziali non significa naturalmente ignorare né le disfunzioni di una gestione spesso burocratica né i costi che comporta il finanziamento di tali servizi tramite imposte che hanno raggiunto livelli in alcuni casi molto elevati. Tale consapevolezza non arriva tuttavia a farci concludere che l'alternativa privata sia preferibile, visto che essa risulta spesso più costosa (è il caso della sanità: basti confrontare la spesa sanitaria procapite italiana con quella americana, molto più
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elevata a fronte d'indicatori sanitari che sono complessivamente più favorevoli per il nostro paese) e certamente distribuita in modo più diseguale. Un aspetto importante, che aiuta forse a ridimensionare la rilevanza della contrapposizione tra redistribuzione ed efficienza, riguarda il fatto che la funzione redistributiva dello stato sociale è inestricabilmente collegata a una funzione assicurativa. Ciò che costituisce un trasferimento (dal sano al malato, dal lavoratore attivo all'anziano o all'invalido o al disoccupato, da chi ha avuto successo e ricchezza a chi non ha realizzato il proprio progetto di vita) rappresenta anche una forma di assicurazione contro il rischio che un domani io o qualche mio familiare ci troviamo in una situazione di bisogno. La spesa pubblica e in particolare la spesa sociale è un formidabile strumento di assorbimento di rischi che non troverebbero copertura sui mercati assicurativi. Lo stato sociale dell'Europa continentale è insomma figlio più delle forme assicurative del cancelliere Bismarck che delle poor law britanniche. Più simile a una polizza assicurativa che a un'associazione di dame per la carità. Tale funzione assicurativa, oltre che ridurre i costi diretti dell'esposizione al rischio, consente agli individui di intraprendere con maggiore tranquillità quegli investimenti rischiosi che sono alla base del processo di sviluppo capitalistico. Il rilancio della nostra economia passa dunque non tanto per una compressione dell'attuale livello di spesa sociale (peraltro già contenuto rispetto agli altri paesi europei), ma semmai per un rafforzamento di quei programmi, e non ne mancano, che possono al tempo stesso migliorare l'equità distributiva e stimolare la crescita. Penso all'estensione dei servizi di cura, sia quelli rivolti all'infanzia che agli anziani, e all'effetto che ciò avrebbe sulla partecipazione femminile al lavoro. Un aumento delle possibilità di lavoro per le donne porterebbe a un tempo a un aumento nell'eguaglianza dei redditi familiari e a una maggiore crescita. Penso al sostegno all'accesso alla casa e agli effetti sulla possibilità di lavoro giovanile. Penso infine (allargando l'attenzione rispetto alla spesa sociale in senso stretto) alla scuola, che può rappresentare insieme investimento capace di aumentare la dotazione di “capitale umano” e fattore di mobilità sociale. Una parte rilevante della spesa pubblica, opportunamente orientata e calibrata, lungi dall'essere freno e impedimento, o magari un lusso che l'attuale fase di difficoltà non ci consentono di sostenere, rappresenta perciò un'opportunità, se non una vera e propria condizione necessaria, per riattivare la crescita.
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Il rilancio della nostra economia passa dunque non tanto per una compressione dell'attuale livello di spesa sociale, ma semmai per un rafforzamento di quei programmi.
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Il Mezzogiorno
nel gioco delle secessioni Luca Bianchi - Giuseppe Provenzano
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siste un nesso indissolubile tra Mezzogiorno e sinistra, da cui occorre ripartire per proporre una certa idea di Paese. Per lungo tempo, nella storia repubblicana, il meridionalismo segnò il discrimine tra progressisti e conservatori: non solo tra partiti, ma persino all'interno dei partiti stessi, tra personalità e sensibilità diverse. Con ogni evidenza, sinistra e meridionalismo esprimevano ed esprimono una matrice comune nell'idea di solidarietà e nella tensione irrinunciabile verso l'uguaglianza sostanziale dei cittadini. Una tensione che nella vicenda dell'Italia unita e divisa si traduceva specialmente in necessità di unificazione economica. Solidarietà, uguaglianza: idee in declino nel pensiero dominante degli ultimi decenni. Declino di cultura politica nella sinistra e di pensiero e azione meridionalista, dunque. Ma declino economico, anche. Vi è uno specchio che restituisce nitidamente questa dinamica: il gioco delle “secessioni” a cui il nostro Paese ha ceduto, arrivando a ribaltare le ragioni e gli argomenti. È luogo comune ormai diffuso, infatti, che “è ora di smetterla con queste aree deboli che sfruttano quelle forti”, con questo “sacco del Nord”... Non è forse questo il sentimento con cui si è posto in agenda il “federalismo fiscale” che, nell'intenzione dei suoi promotori, avrebbe dovuto portare alla “territorializzazione delle imposte”, per evitare la “redistribuzione” tra regioni ricche e regioni povere (che il lessico corrente divide in regioni “virtuose” e “viziose” – dove il vizio, manco a dirlo, per un improbabile e grottesco “calvinismo” di governo, coincide sempre con la povertà)? Ma il gioco delle secessioni è un pericoloso piano inclinato, tendenzialmente autodistruttivo in cui le “differenze” tra territori – che a ritroso conducono a porzioni sempre più piccole (dalle regioni, alle province, ai quartieri…) fino ad arrivare a quelle essenziali tra individui – 28
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vengono usate non per definire politiche per la loro rimozione (o per un virtuoso superamento) ma per contrapporre gli interessi dell'uno contro quelli dell'altro. Il ripiegamento localistico è però un fenomeno ben più profondo della sua estrema e degenere manifestazione leghista, e ha a che fare con quel fondamentalismo liberista, in cui la diseguaglianza diventava irrilevante per lo sviluppo, e che in una delle sue varianti meno ruvide ha sofisticato la competizione tra individui nella competizione tra territori, con richiami seducenti anche nel Sud (che nel frattempo viveva brevi primavere municipali), come quel “contare sulle proprie forze”, unica via che sembrava plausibile a un moderno meridionalismo dopo la degenerazione delle grandi politiche pubbliche nazionali per il superamento del divario di sviluppo. La grave conseguenza del particolarismo territoriale – che più che rappresentare legittime ambizioni e aspettative delle comunità locali finisce per moltiplicare paure, egoismi e miserie di cortile – è l'incapacità di guardare al mondo, alle trasformazioni dei mercati, in cui l'Italia del “piccolo e bello” o quella naïf dei “saperi e sapori locali”, non è riuscita a ridefinire un proprio ruolo competitivo. E prim'ancora, l'incapacità di guardare a se stessa, nel suo insieme, alle suo modello di sviluppo, alle prospettive di crescita e alle condizioni di equità. Richiamare l'esistenza di un forte nesso tra equità e crescita consente di leggere le (mancate) trasformazioni dell'economia e della società italiana, e di quella meridionale in particolare, con un'ottica che svela il rischio di declino complessivo del “sistema Italia” e con la prospettiva aperta sui nuovi scenari che il marasma della crisi impone, su un piano non solo economico e finanziario, ma anche politico e culturale. La crisi precedeva “la” crisi. Volgendoci indietro troviamo un decennio di “crescita zero”, che pur mantenendo sostanzialmente invariato le distanze tra Sud e Nord ha visto l'intero Paese scendere nelle graduatorie mondiali. Un parallelo declino in cui le regioni del Nord-Est, come finalmente si accorgono molti commentatori, che avevano raggiunto circa il 140% del Pil per abitante della media europea alla fine degli anni '90, nel 2008 erano scese al 127%; mentre nello stesso periodo il Sud scendeva dal 74 al 69%. Basta confrontare le regioni del Nord con altre aree forti dell'Europa, come ama fare con qualche 29
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approssimazione sui numeri il Ministro Tremonti, per accorgersi che la “locomotiva del Nord” ha molto rallentato: il tasso di crescita nel corso degli anni 2000 delle regioni del Nord è stato dell'1,1%, la metà di quello registrato ad esempio dalla Baviera. Insomma, a ciascuno il suo declino. Ma è stato proprio quello settentrionale a far riesumare, dopo anni di rimozione, l'antica questione meridionale come grande causa di tutti i fallimenti nazionali. “Meridionale” è tornato a essere sinonimo di malvezzo, “Sud” luogo comune di ogni vizio e camorra. Le difficoltà a ridefinire un modello di specializzazione compatibile con le nuove condizioni competitive e a superare i vincoli di un apparato amministrativo inefficiente, anche al Nord, hanno trovato un alibi formidabile nell'immagine del “Mezzogiorno, palla al piede”. E l'ostilità vasta e maliziosa verso il Sud ha generato la reazione scomposta di fenomeni culturali deteriori: il successo di un libro come Terroni, di Pino Aprile, è la testimonianza del rifiorire nel ceto dirigente meridionale di sentimenti neoborbonici, e dello sfiorire di un ceto intellettuale capace di orientare la coscienza collettiva. E così siamo diventati tutti leghisti: una deriva subculturale, un humus ideologico che rischia di rallentare i processi di riforma del Paese, che esalta le appartenenze e fa ritardare la presa d'atto dei propri limiti ed errori rinfacciando quelli degli altri. Un'ideologia, quella del territorio, che ha impedito di vedere quello che accadeva davvero all'interno dei territori, in cui l'ampliamento della polarizzazione dei redditi rendeva il modello di sviluppo italiano unico nel panorama europea per (bassa) intensità e qualità della crescita: un aumento delle disuguaglianze che, colpendo soprattutto gli espulsi e gli esclusi dal mercato del lavoro, come i giovani e le donne, assumeva una marcata connotazione meridionale. Ora, richiamare l'esistenza di un forte nesso tra equità e crescita consente di leggere in particolare le trasformazioni dell'economia e della società meridionale in un'ottica più ampia. L'insufficiente grado di coesione sociale, l'incertezza dei diritti (a partire da quello di proprietà), l'inefficienza delle amministrazioni pubbliche, l'illegalità diffusa e la relativa minore efficacia delle politiche pubbliche concorrono a ostacolare contemporaneamente sia la crescita della produttività, sia il conseguimento di più alti livelli di eguaglianza dei redditi e di migliori condizioni di vita. Le regioni meridionali, infatti, oltre a presentare un 30
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minor livello di benessere, mostrano anche un più alto grado e crescente di disuguaglianza distributiva rispetto alle regioni del Centro-Nord. In particolare, Campania, Calabria e Sicilia risultano in fondo alla classifica europee, insieme ai paesi più diseguali (Grecia, Portogallo, Lituania e Lettonia). L'esistenza a livello nazionale di una “questione salariale” si acuisce fortemente nel Mezzogiorno, dove ormai anche famiglie in cui è presente un percettore di reddito, in passato estranee al rischio di cadere in povertà, evidenziano disagio nel far fronte a bisogni di carattere ordinario. La sperequata distribuzione del reddito ha determinato larghi fenomeni di deprivazione, soprattutto nelle congiunture negative, deprimendo ulteriormente le potenzialità di crescita dell'area. Un'ingiustizia sociale che nel Mezzogiorno amplificava i suoi effetti sulla dinamica economica, proprio perché figlia non solo delle condizioni dell'incompleto processo di sviluppo ma anche di fattori socio-politico che ostacolano l'accumulazione di capitale fisico e umano e favoriscono il consolidamento di un'economia parassitaria legata alla rendita e all'intermediazione del ceto burocratico e politico. Un complesso di relazioni improprie, che ha finito per disarticolare le forze politiche, la vita interna ai partiti come garanzia di democrazia, in una deriva personalistica che ha legato le fortune politiche più alla formazione o alla tutela di un sistema consolidato d'interessi, attivando clientele di “alto” o “basso” rango, che a un progetto coerente di trasformazione economica e sociale, un disegno di sviluppo in grado di emancipare larghe fasce della popolazione dalla condizione di bisogno, e di puntare al rafforzamento di un sistema produttivo più competitivo, che allargasse le opportunità via via negate da una scarsa, cattiva e discrezionale redistribuzione legata alla gestione delle risorse pubbliche. La “demoralizzazione” della politica, al Sud, nasce da questo vuoto di progetto. E il vuoto di progetto, la mera gestione (peraltro non sempre virtuosa) dell'esistente, è il segno di una politica che abdica al suo compito, abbandonando il campo agli avventurieri di ogni bandiera. Con una politica “ripiegata” i deboli sono destinati a soccombere, le idee di uguaglianza e solidarietà scacciate. E così il Mezzogiorno. E così la sinistra.
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Giovani italiani:
senza arte, messi da parte Roberto Seghetti La foto dell’Istat
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a crescita stenta. In Italia la crisi ha portato indietro le lancette della crescita di ben 35 trimestri, quasi dieci anni: l’attuale moderata ripresa ne ha fatti recuperare solo 13. Più in particolare, nel decennio 2001-2010 l`Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i Paesi dell`Unione europea, con un tasso medio annuo di appena lo 0,2 per cento contro l`1,3 registrato dall’Ue e l’1,1 dei paesi aderenti all’euro. L’occupazione cala. Nel biennio 2009-2010 il numero di occupati è diminuito di 532mila unità. I più colpiti sono stati i giovani tra i 15 e i 29 anni, fascia d`età in cui si registrano 501.000 occupati in meno. Nel Mezzogiorno l’occupazione si è ridotta di 280mila unità nel biennio di crisi economica 2009-2010. La recessione ha colpito anche il Nord, dove si contano 228mila occupati in meno mentre le regioni centrali sono state sostanzialmente indenni dalle ricadute della crisi. I giovani si scoraggiano. Sono 2,1 milioni, 134 mila in più rispetto a un anno prima (+6,8 per cento), i giovani tra i 15 e 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione. Le donne sono penalizzate. Sono 800mila le donne licenziate o messe in condizione di doversi dimettere a causa di una gravidanza. In generale il 15 per cento delle donne smette di lavorare perla nascita di un figlio.
Per mantenere i consumi le famiglie risparmiano meno di prima o addirittura attingono al patrimonio accumulato. Per salvaguardare il livello dei consumi, le famiglie italiane hanno eroso il loro tasso di risparmio. Lo scorso anno la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata al 9,1 per 32
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cento, il valore più basso dal 1990.
E cresce la quota della famiglie in difficoltà. Il 24,7 per cento della popolazione, circa 15 milioni, sperimenta il rischio di povertà odi esclusione sociale (media Ue 23,1 per cento). II rischio povertà riguarda circa 7,5 milioni di individui. 1,7 milioni di persone (2,9 per cento) si trova in condizione di grave deprivazione e 1,8 milioni (3 per cento) in un`intensità lavorativa molto bassa. Nelle Regioni meridionali il 57 per cento delle persone vive a rischio povertà (8,5 milioni). La foto del Censis Gli ultimi dati contenuti nella relazione annuale dell’Istat e nella relazione presentata dal Censis al Parlamento sono la prova che la politica economica deve essere orientata alla crescita dell’economia.
Come è scritto nel Piano nazionale per le riforme presentato dal Pd, alternativo a quello del governo, e come ha autorevolmente confermato nelle ultime considerazioni finali il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, senza la crescita non solo non c’è futuro per l’Italia, per i giovani, per le famiglie, per le imprese, ma neanche si mettono al sicuro i conti pubblici. E non è un caso se i fattori della crescita indicati da Draghi sono: l’occupazione giovanile e femminile, la lotta alla precarietà, l’efficienza della giustizia civile, la riforma degli ammortizzatori sociali, le regole della rappresentanza 33
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sindacale, gli investimenti per le infrastrutture, la buona scuola e la buona università, liberalizzazioni e concorrenza, l’abbassamento del prelievo fiscale sui lavoratori e sulle imprese con le risorse da recuperare con la lotta all’evasione fiscale, lo sconto fiscale per gli utili che l’imprenditore ottiene utilizzando il capitale proprio (che era stato previsto dal centrosinistra e che Tremonti ha cancellato nel 2001).
Oltre a un’operazione di taglio delle spese pubbliche che si può fare in modo razionale e utile solo attraverso una revisione delle voci di uscita prese una per una.
Proprio come aveva cominciato a fare Tommaso Padoa Schioppa con la spending review, esperienza che il ministro Tremonti ha azzerato appena ha rimesso piede a via XX settembre per arrivare a decidere i tagli alla cieca che tanti disastri hanno prodotto in questi mesi. 34
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Nord - Sud del mondo.
Global Governance contro lo scandalo delle disuguaglianze Riccardo Moro
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l termine uguaglianza ha avuto storicamente un ruolo molto rilevante nelle richieste dei movimenti politici che denunciavano, appunto, le disuguaglianze sociali. E le prime “Dichiarazioni” di fine '700 sui diritti universali, nei neonati Stati Uniti e in Francia, rivendicavano l'uguaglianza di tutti gli esseri umani. Uguaglianza è però, a ben guardare, una parola politicamente fraintendibile. Che cosa intendiamo quando chiediamo uguaglianza? Che tutti abbiano le stesse cose? Che tutti possano fare e facciano le stesse cose? Una malintesa concezione dell'uguaglianza ha portato a regimi totalitari come quello sovietico in cui, al di là dell' “ingiustizia” costituita dai privilegi goduti dall'elite dirigente, unificare prodotti e salari ha generato una massificazione che umiliava la persona disconoscendone la dignità e riducendo ai minimi termini spazi di scelta e libertà. Esiste comunque un'accezione dell'uguaglianza che mantiene una validità sul piano politico. Non è quella che rivendica le stesse cose per tutti, ma che guarda a dare pari possibilità di accesso a strumenti e percorsi attraverso i quali ogni persona può costruire con dignità il proprio futuro. E' il tema dei diritti, da cui appunto le Dichiarazioni settecentesche partivano, che rivendichiamo uguali per ogni persona, ogni donna e ogni uomo che abitano la terra. Per tutti vogliamo diritto a cibo e salute, per tutti chiediamo scuola e lavoro, in modo da offrire ad ognuno le condizioni grazie alle quali sia possibile elaborare e realizzare scelte libere in cui ognuno sviluppi il proprio originale e irripetibile percorso.
Il metro del reddito Guardando a queste tematiche una tentazione frequente è quella di individuare strumenti per 'misurare' uguaglianze e disuguaglianze. Il parametro più facilmente usato è quello del reddito, immaginando che la disponibilità economica sia mezzo per realizzare scelte e desideri. Da questo punto di 36
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vista nel nostro paese il quadro è preoccupante. Nei primi quattro decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la distanza tra la fascia di popolazione più ricca e quella più giovane si è sistematicamente ridotta, consentendo l'inclusione della popolazione più povera a opportunità di consumo e livelli di benessere prima riservati solo alla fascia media e a quella ricca. Ma negli ultimi venti anni questa dinamica si è invertita. La forbice tra redditi più ricchi e redditi più poveri si è intensamente allargata. E' un fenomeno in corso in tutta Europa, che in Italia si sta producendo in modo più intenso e più rapido. L'indice di Gini italiano, che misura la equidistribuzione del reddito procapite, è uno dei peggiori fra tutti paesi occidentali.
Non solo reddito Osservare solo il reddito non è sufficiente. Se parlando di uguaglianza intendiamo riferirci ai diritti fondamentali dovremmo chiederci se garantiamo a tutti pari tutela del diritto alla salute, pari accesso alla scuola, pari opportunità di lavoro. Qui le preoccupazioni aumentano. Nel nostro paese a fronte di un buon livello medio del servizio sanitario, assistiamo tuttora ai viaggi dal Meridione per farsi operare nei più qualificati ospedali del Nord. Assistiamo quasi inermi, come ha documentato bene il Rapporto SVIMEZ 2010, al ripetersi dei viaggi verso le università del Nord di molti studenti del Mezzogiorno che una volta formati rimangono nelle regioni settentrionali, perché le terre da cui provengono offrono minori opportunità di lavoro.
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Nei primi quattro decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la distanza tra la fascia di popolazione più ricca e quella più giovane si è sistematicamente ridotta. Negli ultimi venti anni questa dinamica si è invertita.
La dimensione internazionale
Reddito, salute e qualità della vita Se queste sono dinamiche che dovrebbero provocare una riflessione esigente su come ridurre queste disuguaglianze interne, scandalosa è la situazione che si presenta osservando questi stessi dati a livello internazionale. Le distanze di reddito appaiono immense. Nei paesi occidentali il reddito procapite si aggira, a seconda delle modalità di calcolo, fra i 30 e i 40.000 dollari annui. Negli oltre sessanta paesi a basso reddito il dato medio è di 500! In Italia ogni cittadino dispone in media di 35.000 dollari annui, in Bangladesh di 580, nella Repubblica Democratica del Congo di 160. E stiamo parlando di paesi grandi: il Bangladesh conta ufficialmente più di 162 milioni di abitanti, il Congo oltre 66 milioni. Guardiamo ai dati aggregati: oltre un miliardo e 37
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trecento milioni di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, tre miliardi vive con meno di due. Di conseguenza più di un miliardo sono le persone malnutrite. Non basta. In Italia 4 bambini su 1000 muoiono prima del quinto anno di età, in Bangaldesh 56. In Guinea questo dato sale a 142, nella Repubblica Democratica del Congo a 199! Nel nostro paese la morte di un bimbo è fatto eccezionale e dolorosissimo. In Africa è esperienza vissuta ordinariamente da quasi tutte le famiglie. Si badi bene, questo non avviene perché nel Sud del mondo siano diffuse pandemie incurabili, si muore di diarrea, malaria, tbc, aids… Malattie di cui in Italia, salvo rarissimi casi, non si muore, grazie alle cure garantite a tutti dal servizio sanitario nazionale.
Scuola Reddito e tutela della salute sono dunque clamorosamente diversi tra Nord e Sud del mondo. Purtroppo la stessa considerazione vale anche per scuola e lavoro. In Guinea, un paese rappresentativo dell'africa Sub Sahariana, circa due terzi della popolazione adulta è analfabeta, e solo recentemente la frequenza scolastica primaria ha superato il 50%. Abbiamo la garanzia che per i prossimi venti o trenta anni, quando i bambini di oggi saranno adulti, avremo ancora la metà della popolazione che non sarà in grado di leggere e scrivere. Si provi a immaginare che cosa possa davvero significare “fare impresa” in un contesto di questo tipo, in cui gli adulti pronti a lavorare sono nati troppo distanti da una scuola per poterla frequentare e conseguentemente non sono in grado di utilizzare un'istruzione scritta, redigere un report… Si provi a valutare che significato abbiano – concretamente – tanti appelli internazionali che parlano del coinvolgimento dell'Africa nel mercato internazionale, nella competizione economica mondiale. Sanno di che cosa stanno parlando quelli che usano formule di questo tipo? In Asia la situazione scolastica è meno pesante, ma è una considerazione che non tranquillizza: la frequenza scolastica primaria di un grande paese come il Pakistan – 170 milioni di abitanti – è solo del 66% e il dato del 91% in India significa che oggi 100 milioni di bambini in quel paese non vanno a scuola, bambini che saranno adulti domani e certo non potranno fare gli ingegneri informatici o gli addetti nei call center. Migliore, grazie agli investimenti di molti decenni, la realtà sudamericana, dove l'obiettivo della scolarizzazione primaria universale non è ancora raggiunto, ma non è lontano.
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Lavoro Anche dal punto di vista del lavoro, purtroppo, le disuguaglianze sono notevoli. Le opportunità di lavoro non sono diffuse e le condizioni spesso rasentano lo sfruttamento. Per quanto l'International Labour Office delle Nazioni Unite ribadisca standard comuni di tutela dei lavoratori, nei contesti più poveri le legislazioni nazionali sono spesso largamente inadeguate. Con differenze così grandi nei percorsi di formazione e con contesti poveri anche di infrastrutture, le possibilità di 'competere' in un contesto sempre più globalizzato si riducono. Assistiamo così a un impoverimento sistematico dei paesi più deboli, tagliati fuori dalla ridistribuzione internazionale del lavoro, tuttora in corso, che trasferisce impianti produttivi dal Nord ai paesi emergenti, sia con vere e proprie delocalizzazioni, sia identificando partner produttivi come avviene nel caso cinese. In queste aree infatti si trovano lavoratori qualificati, ma più poveri dei colleghi del Nord e disposti quindi ad accettare salari largamente inferiori, oltre a legislazioni di tutela ambientale meno rigorose di quelle dei paesi ricchi. Il Nord così da un lato si trasforma rivolgendosi sempre più al terziario (che sia avanzato o quello rappresentato dai servizi alla persona) e alle alte tecnologie, i paesi emergenti crescono sul piano industriale e quelli più poveri rimangono al palo, aumentando la forbice delle differenze di reddito e condizioni sociali e alimentando le migrazioni regionali e intercontinentali.
Che fare? Le disuguaglianze insomma nel mondo permangono e sono molto pesanti. In un contesto di globalizzazione come quello attuale, in cui interazioni e interdipendenze sono sempre maggiori, non è possibile immaginare di ridurle con interventi 'settoriali'. Né è pensabile risolvere queste distanze attraverso ricette fatte cadere dall'alto. Sono le singole comunità che devono scegliere il proprio futuro e lavorare per realizzarlo. In un contesto di corresponsabilità, come quello che l'interdipendenza determina, compito di tutti (dei ricchi come dei poveri, senza alcuna primazia, se non quella di un maggiore dovere in termini finanziari da parte di chi ha più risorse economiche) è favorire le condizioni perché questo accada, perché davvero ogni comunità possa fare un esercizio di libertà e responsabilità in maniera democratica e partecipata. Non c'è però solo l'obiettivo di suscitare percorsi di cambiamento nella dimensione nazionale. Proprio l'intensità
Le disuguaglianze nel mondo permangono e sono molto pesanti. Non è possibile immaginare di ridurle con interventi 'settoriali'. Né è pensabile risolvere queste distanze attraverso ricette fatte cadere dall'alto.
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del processo di globalizzazione ha creato una condizione per cui elementi rilevanti della qualità della vita delle comunità si giocano nella dimensione globale. In particolare tre “crisi” si stanno sviluppando oggi di dimensione globale e interagiscono fra loro: la crisi alimentare (con sempre maggiori volatilità dei prezzi che impattano pesantemente sui più poveri), quella ambientale (con il cambiamento climatico sempre più percepibile) e quella finanziaria (con la vulnerabilità della deregulation che ha portato al crack del 2008 e tuttora non è stata risolta). Le scelte in campo agricolo influenzano e sono influenzate dalle politiche ambientali (ad es. agro carburanti vs. petrolio). Le modalità di regolamentazione dei mercati finanziari impattano sull'economia reale (la crisi finanziaria ha generato quella economica), ma anche sulle condizioni del mercato agricolo e sui prezzi alimentari (con i titoli derivati che speculando suscitano violenti rialzi e ribassi). Non si può intervenire su una di queste tre dimensioni senza tenere conto delle interazioni reciproche. È necessario un approccio olistico e un progetto complessivo di governance globale. Nel 2050 sulla Terra vivranno 9 miliardi di persone. Non tutti ci saremo. Ma ai nostri figli dobbiamo consegnare una terra almeno bella come quella che abbiamo ricevuto noi, che sia in grado di nutrirli e dare lavoro a tutti. Quarant'anni passano in un attimo. E' in questa prospettiva che occorre declinare gli obiettivi dell'uguaglianza dei diritti, che vanno garantiti a tutti qui e ora, ma anche a tutti coloro che vivranno domani. Occorre dunque un progetto politico responsabile: nessuno progetto politico può oggi seriamente elaborato pensando solo alla dimensione nazionale. Nessuna proposta credibile è realizzabile tenendo conto solo del contesto locale. Anche in questo è purtroppo evidente la miopia e la sterilità di molta politica in Italia. Un nuovo progetto politico, che guardi ai diritti e all'uguaglianza – e, proprio per questo, al protagonismo di tutti - deve cercare una misura che guardi innanzitutto all'obiettivo della global governance, per difendere la dignità di ogni donna di ogni uomo, e alla luce di quella prospettiva sviluppare una proposta di dimensione nazionale. Come ci dimostrano ogni giorno i migranti, che vogliono lavorare con noi per partecipare al sorprendente e meraviglioso esercizio di silenziosa solidarietà quotidiana costituito dall'invio a casa delle “rimesse”, è illusorio pensare di poter tenere il mondo fuori della nostra casa serrando gli occhi e chiudendo a chiave il portoncino.
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Lavoro, reddito e protezione sociale per le giovani generazioni Gianni Geroldi
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lla luce degli andamenti che hanno caratterizzato l'economia italiana nell'ultimo decennio - vale a dire una crescita media prossima allo zero, aumento delle disuguaglianze e assenza quasi totale di riforme strutturali - gli anni novanta dello scorso secolo appaiono un 1 periodo relativamente favorevole del nostro sviluppo . L'accordo del luglio '93 tra sindacati imprenditori e governo, definendo un modello di concertazione nei rapporti tra le parti sociali e nuove linee per la politica dei redditi, ha infatti dato avvio ad un percorso che, accompagnato da un inusuale rigore delle politiche fiscali, ha permesso al nostro paese di accedere direttamente alla moneta unica, con i relativi effetti positivi sul controllo dell'inflazione e sulla capacità di reagire alle ondate speculative ricorrenti nei mercati finanziari internazionali. Negli stessi anni, tuttavia, il venire meno di una leva competitiva come la svalutazione, più volte utilizzata in periodi precedenti dalle imprese italiane per tenere il passo con le imprese di altri paesi, e l'emergere di forme a volte esasperate di concorrenza intervenute a seguito della globalizzazione dei mercati, hanno avuto un notevole impatto sul funzionamento del mercato del lavoro. L'aspetto più evidente è stato il progressivo allargamento dell'area della “precarietà”, ovvero un insieme di condizioni di lavoro caratterizzate da frequenti interruzioni e dal prevalere di bassi salari, oltre che da un'intrinseca limitazione delle tutele normalmente attribuite ai contratti a tempo indeterminato. La precarietà del lavoro riguarda soggetti di diversa età, genere e professionalità ma, come dimostrano i rilievi statistici, è indubitabile che sono le generazioni più giovani _______________________________ 1. Il tasso medio annuo composto di variazione del PIL dal 2000 al 2010 è stato pari allo 0,19%, mentre nel periodo 1990-2000 lo stesso tasso di crescita è stato dell' 1,59%. 41
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che accedono al mercato del lavoro quelle che stanno subendo in misura maggiore gli effetti. All'instabilità dei rapporti di lavoro va aggiunto che, nei momenti più critici della congiuntura, appare difficile per i giovani la ricerca di una qualunque occupazione2 e che, come emerge da alcune indagini, “… anche quando trovano lavoro i giovani stentano a ricoprire ruoli e mansioni superiori. In genere le persone tra 25 e 34 anni svolgono mansioni impiegatizie e molto meno funzioni direttive o dirigenziali. Ciò rimane in gran parte vero anche per le persone tra 34 e 49 anni: in questo senso in Italia si può rimanere giovani ben oltre i 40 3 anni…” . Di fronte a questi fenomeni che incidono negativamente sul quadro delle opportunità, erodendo l'area del mercato del lavoro regolato, e che producono una sostanziale segmentazione tra figure contrattuali più “protette” e aree di marginalità, sul finire degli anni novanta sono cominciate ad emergere proposte che si ponevano l'obiettivo di riequilibrare le disparità di carriera, di reddito e di protezione sociale delle nuove generazioni rispetto alle generazioni meno giovani. Tra queste proposte, quella che ha avuto forse maggiore risonanza è contenuta in un saggio di Nicola Rossi dedicato alla riforma dello stato sociale italiano e, in particolare, alla possibilità di rimodellare le politiche ridistributive, tralasciando l'obiettivo ritenuto illusorio e ideologico dell'uguaglianza dei punti di arrivo e rafforzando invece le misure dirette ad ottenere un'effettiva uguaglianza delle opportunità. In concreto, l'indicazione principale contenuta nel saggio può essere sintetizzata nell'idea che per riequilibrare la situazione dovrebbero essere rivisti gli schemi di protezione che darebbero troppi vantaggi ai lavoratori “padri”, costruendo un sistema di welfare adeguato alle mutate condizioni sociali ed economiche del paese, più basato su logiche universalistiche e meno sugli schemi 4 tradizionali di carattere occupazionale . A seguito di questa proposta, ma non solo, il dibattito sul rapporto tra generazioni e sulla necessità di rimodellare il sistema di protezione sociale nel nostro paese ha avuto _______________________________ 2. I dati Istat riferiti all'ultimo trimestre del 2010 indicano che, a fronte di un tasso di disoccupazione totale pari all'8,7%, il tasso di disoccupazione dei giovani tra 15 e 24 anni ha raggiunto il 29,8%, con un massimo del 42,4% per le donne del Mezzogiorno. 3. Vedi E.Baldacci, Meno ai padri e niente ai figli ? Disagio, opinioni e partecipazione politica tra i giovani: alcuni risultati, novembre 2005, www.italiacelafara.it. 4. Nicola Rossi, Meno ai padri e più ai figli. Stato sociale e modernizzazione dell'Italia, il Mulino Bologna 1997. 42
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molteplici sviluppi. Tra le questioni più a lungo discusse, si può ricordare l'obiettivo di introdurre uno strumento means tested, a favore delle fasce indigenti della popolazione, basato su principi di universalismo selettivo, essendo il sistema di welfare italiano privo di una forma stabile di sostegno al reddito. Tale ipotesi, che ha incontrato l'opinione favorevole di diversi studiosi5 e che ha avuto anche un ampio spazio in alcuni momenti del dibattito parlamentare, ha però dovuto fare i conti con la ristrettezza dei vincoli del bilancio pubblico che ne hanno di fatto limitato la portata ad una sperimentazione temporanea, definitivamente cessata con il governo di centro destra insediatosi nel 2001, oltre a qualche limitata applicazione su scala regionale. Opinioni più controverse sono invece emerse sul supposto conflitto generazionaleche, come si evince dal titolo del saggio, vedrebbe nel “meno ai padri” la condizione per dare maggiore protezione e sicurezza ai figli. Questa convinzione trova infatti diversi elementi di contraddizione nella realtà del mercato del lavoro e nel funzionamento dello stesso sistema di protezione sociale6. Innanzi tutto, i rapporti contrattuali a tempo pieno e indeterminato rappresentano tuttora lo standard più applicato nei paesi europei, mentre la diffusione eccessiva dei rapporti a termine, data anche la particolare concentrazione nelle età di ingresso al mercato del lavoro, solleva ovunque forti obbiezioni, perché l'insicurezza che caratterizza queste forme contrattuali è considerata tra le principali cause delle fragilità e del disagio sul piano sociale. Va peraltro detto che la precarizzazione del lavoro è valutabile negativamente anche sotto il profilo dell'efficienza economica e degli obiettivi di incremento della produttività 7 nel medio e lungo termine . Da questo punto di vista, un aspetto particolarmente critico è rappresentato dai percorsi “discontinui”, cioè contrassegnati da ripetuti contratti a termine, in cui i lavoratori possono trovarsi intrappolati, con conseguenze negative sulla crescita della professionalità e
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la precarizzazione del lavoro è valutabile negativamente anche sotto il profilo dell'efficienza economica e degli obiettivi di incremento della produttività nel medio e lungo termine.
_______________________________ 5. Solo per citarne alcuni noti si possono vedere i saggi di: Massimo Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, il Mulino, Bologna 2005; Laura Pennacchi, Lo stato sociale del futuro, Donzelli Ed., Roma 1997. 6. Sul significato ridistributivo del “meno ai padri e più ai figli” ci sono anche obiezioni di carattere ideologico che ne vedono un possibile strumento per smantellare diritti che i lavoratori hanno faticosamente acquisito attraverso un lungo percorso negoziale. Si veda, ad esempio, il recente articolo di Massimo D'Antoni, Meno ai padri peggio ai figli, 10 aprile 2011, www.leftwing.it. 7. Il tema è stato trattato in vari interventi dal Governatore della Banca d'Italia ed è richiamato anche a pag. 13 delle recenti “Cosiderazioni finali” dell'Assemblea Ordinaria, Roma 31 maggio 2011. 43
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sulle scelte di investimento in capitale umano . Riguardo ai sostegni previsti in caso di riduzioni d'orario o di interruzioni involontarie del rapporto di lavoro, cioè i cosiddetti ammortizzatori sociali, va detto che essi sono presenti in tutti i paesi dell'Unione europea e hanno consistenza e modalità di erogazione molto simili a quelle di cui beneficia la componente più protetta dei lavoratori italiani. I problemi per le politiche del lavoro in Italia, perciò, non sembrano tanto legati a un eccesso di tutele, che potrebbe anche disincentivare la ricerca attiva di occupazione, quanto piuttosto a una copertura che esclude parzialmente o totalmente dai benefici più strutturati quote maggioritarie del lavoro dipendente9, nonché ad una carenza organizzativa dei servizi per l'impiego, diffusa in varie aree del territorio nazionale ma concentrata soprattutto nelle regioni del centro sud dove le problematiche occupazionali sono particolarmente complesse. Restando sul tema degli ammortizzatori sociali, si deve anche aggiungere che nella recente crisi economica mondiale, il ruolo degli strumenti di protezione sociale, soprattutto di quelli che incidono direttamente sul reddito disponibile, è stato valutato in modo positivo per la capacità di contenere 10 sia l'incidenza che la durata degli effetti della crisi . Per quanto attiene agli strumenti di politica del lavoro appare dunque difficile trovare elementi di contrasto generazionale riguardo ai livelli di protezione, se non indirettamente attraverso un doppio piano di analisi: il primo dice che ci sono varie forme contrattuali, soprattutto quelle atipiche, che sono prive o ricevono un'inadeguata protezione sui rischi di interruzione del reddito; l'altra evidenza indica che le forme contrattuali atipiche e precarie si concentrano sui contratti in ingresso al mercato del lavoro dove la _______________________________ 8. In proposito, è opportuno ricordare che, nell'intento di conciliare flessibilità e tutele, in una prospettiva di superamento del dualismo tra contratti permanenti e temporanei, è stata anche proposta l'adozione di un contratto che contempla un periodo triennale di inserimento, con possibilità di licenziamento compensato monetariamente, e una successiva stabilizzazione a tempo indeterminato con le regole previste dallo statuto dei lavoratori. Vedi Tito Boeri e Pietro Garibaldi, Il “testo unico” del contratto unico, www.la voce info, 19.10.2007. 9. Questo si evince anche dai dati Eurostat, che registrano una percentuale sul PIL delle spese per la disoccupazione in Italia pari allo 0,5% contro una media EU27 dell'1,3%. Cfr, Eurostat, The Social Situation in the European Union 2009, Bruxelles, February 2010. 10. Questo aspetto è evidenziato in un recente rapporto predisposto per il Parlamento europeo dove si afferma che “… social protection, in particular unemployment benefits, minimum income support and progressive taxation, have significantly contributed to reducing the depth and the duration of the current recession in EU Member States and to stabilising labour markets and consumption..”. IZA Research Report, The Role of Social Protection as an Economic Stabiliser: Lessons from the Current Crisis, n° 38, December 2010 (http://www.europarl.europa.eu/activities/committees/studies.do?language=EN). 44
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presenza dei lavoratori più giovani è ovviamente di gran lunga maggioritaria. L'esito di questa combinazione è che le fasce adulte, inserite da più tempo nei settori più stabili, hanno in media gradi di protezione più elevati dei giovani entrati più di recente nel mercato del lavoro e spesso inseriti in settori meno strutturati con forme contrattuali atipiche. Se nell'ambito delle politiche del lavoro le disparità generazionali trovano una spiegazione in fattori che potrebbero essere riequilibrati con alcuni opportuni interventi (contrastando la ripetitività dei contratti temporanei, armonizzando il sistema degli ammortizzatori, rafforzando la rete e l'organizzazione dei servizi per l'impiego, …), più complessa appare la situazione sul versante previdenziale. La norma che ha strutturalmente modificato il sistema pensionistico italiano (la legge n.335 del 1995), avendo l'obiettivo di garantire la sostenibilità finanziaria del debito pensionistico nel lungo termine, ha infatti introdotto un principio di corrispettività molto stretto tra contributi versati e prestazioni, che ha delimitato drasticamente i meccanismi ridistributivi interni al sistema, sia quelli indesiderati derivanti da fattori distorsivi connaturati al regime retributivo, sia però anche quelli di natura solidaristica. Da questa constatazione si ricavano due distinte aree di problemi. La prima riguarda l'impatto generazionale della riforma del 1995 e di altri interventi succedutisi negli ultimi quindici anni. La seconda concerne invece il riproporsi di un rischio sociale ben conosciuto, quello di povertà o comunque di un reddito insufficiente in età avanzata (in sede di confronto europeo ma anche nella Costituzione italiana si parla di “adeguatezza delle prestazioni”), che le grandi riforme del welfare del secondo dopoguerra sembravano aver sostanzialmente rimediato. Per misurare gli effetti generazionali delle riforme pensionistiche servono modelli complessi e metodologie affidabili. Le analisi condotte più di recente indicano che al termine della “lenta transizione” al sistema contributivo si raggiungeranno gli obiettivi della sostenibilità finanziaria (stabilità della spesa pensionistica in rapporto al PIL) e dell'equità intergenerazionale (tassi di rendimento delle contribuzioni allineati alla crescita del PIL nell'arco della vita di ogni generazione). Gli oneri conseguenti alla riforma, misurabili in termini di minore rendimento dei contributi
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L'esito di questa combinazione è che le fasce adulte, inserite da più tempo nei settori più stabili, hanno in media gradi di protezione più elevati dei giovani entrati più di recente nel mercato del lavoro e spesso inseriti in settori meno strutturati con forme contrattuali atipiche.
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versati, ossia di prestazioni più basse a parità di carriera contributiva, non sono facilmente calcolabili sulle coorti che sono andate o andranno in pensione a partire dalla data della riforma e per i prossimi trent'anni, perché i fattori determinanti sono molteplici (età anagrafica, età di pensionamento, genere, categoria di assicurato, durata della transizione, ecc.)11. Certamente per le future pensioni, in particolare per quelle che saranno erogate in regime contributivo pieno, si prospettano livelli medi decrescenti rispetto ai salari medi (in ciò vi è anche un effetto significativo del meccanismo di indicizzazione ancorato solo ai prezzi e non più ai salari) e, individualmente, un ammontare della prestazione che diminuisce in rapporto all'ultimo reddito da lavoro: rapporto 12 che viene usualmente denominato “tasso di sostituzione” . Per sintetizzare la problematica distributiva riconducibile al funzionamento del sistema pensionistico, si può quindi dire che, dopo le riforme, sono stati raggiunti risultati apprezzabili sia in termini di futura sostenibilità finanziaria del sistema che di graduale applicazione di un solido principio equitativo. Ambedue i risultati sono tutt'altro che da sottovalutare, perché il primo dà maggiori garanzie per il futuro e il secondo rafforza la legittimazione del sistema pubblico. Una riforma che riporta tendenzialmente in equilibrio bilanci finora deficitari necessariamente tocca le future prestazioni ma, va chiarito, questa decurtazione nel caso italiano riguarda le generazioni nate dagli anni sessanta in poi, ossia anche quei lavoratori che oggi non possono più essere considerati giovanissimi. Inoltre, stabilizzare la quota della spesa previdenziale sul PIL significa anche non dovere aumentare la pressione fiscale sulle future generazioni di lavoratori, quelli oggi sono effettivamente molto giovani o non ancora nati. Il nuovo modello adottato - cioè il sistema contributivo – lascia inoltre spazi per compensare la diminuzione delle prestazioni con scelte consapevoli di _______________________________ 11. Carlo Mazzaferro e Marcello Morciano, I costi della lenta transizione al sistema contributivo: un'analisi distributiva, Studi e Note di Economia, Anno XIV, n. 3-2009, pagg. 515-540. 12. Una completa illustrazione del modo di interpretare i tassi di sostituzione e il loro andamento richiede uno spazio che va oltre quello previsto per questo breve articolo. Per un aggiornamento si possono consultare: EU Social Protection Committee, Indicator Sub Group, Updates of current and prospective theoretical pension replacement rates 2006-2046, Bruxelles, July 2009; Ministero dell'economia e delle finanze, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio sanitario. Aggiornamento 2009, Roma, marzo 2010; OECD, Pensions at a Glance 2011, Paris, March 2011. 46
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prolungamento della vita attiva. Restano tuttavia per il legislatore due compiti fondamentali. Primo, trovare misure efficaci per rendere realistica l'opzione di continuare a lavorare in età matura, dato che attualmente il nostro paese figura agli ultimi posti nei tassi di occupazione oltre i cinquant'anni di età. Secondo, anche più urgente, ripensare a strumenti solidaristici da immettere stabilmente nel sistema pensionistico per compensare le carriere discontinue e i bassi salari, come parte integrante delle politiche di contrasto della povertà. Su questi fronti, in Europa, gli altri paesi si stanno già muovendo con vari strumenti, come le politiche di active ageing, nuovi schemi di minimum pension, il rafforzamento e l'incentivazione della previdenza di secondo pilastro, la cui efficacia potrebbe costituire un utile insegnamento per il legislatore italiano. Gli argomenti fin qui sinteticamente richiamati lasciano intendere che nell'agone distributivo, la competizione generazionale, specie sui terreni del lavoro e della protezione sociale, si regge spesso su luoghi comuni che per la loro complessità meriterebbero approfondimenti maggiori prima di essere tradotti in facili slogan. Per quanto poi riguarda i beneficiari di livelli più elevati di reddito, occorre ricordare che c'è ad esempio un nesso forte, illustrato in diversi lavori di ricerca, tra condizioni di reddito iniziali, che sono quelle della famiglia di appartenenza, e 13 opportunità di carriera e di inserimento sociale . C'è inoltre, per chi ne ha le possibilità, una forte propensione a risparmiare, anche durante gli anni del pensionamento, in funzione dell'eredità per i figli. Tutto ciò dice che per capire meglio i meccanismi di come si distribuisce, si accumula e si beneficia del reddito - che significa individuare chi trae effettivamente i vantaggi e quali sono i fattori che determinano questi stessi vantaggi - servono strumenti di analisi più articolati. A tale proposito, per concludere va segnalata un interessante analisi di due studiosi della distribuzione del reddito che riguarda la trasmissione delle disuguaglianze economiche dai genitori ai figli. Il fenomeno può essere rappresentato utilizzando un “coefficiente di elasticità
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La competizione generazionale si regge spesso su luoghi comuni che per la loro complessità meriterebbero approfondimenti maggiori prima di essere tradotti in facili slogan.
_______________________________ 13. “… sia nell'ambito del lavoro dipendente che nell'ambito del lavoro autonomo, i canali formativi ufficiali sono ben lungi dal garantire una piena indipendenza delle scelte occupazionali dal contesto sociofamiliare dei singoli e quindi una reale uguaglianza delle opportunità. Al contrario, le storie familiari sembrano in grado di segnare profondamente i sentieri occupazionali dei singoli.” Cfr. Francesca Fabbri e Nicola Rossi, Caste non classi. Una società immobile, “Rivista bimestrale di cultura e politica” n.1, Il Mulino, Bologna 1997. 47
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intergenerazionale dei redditi”, noto come coefficiente ß, il quale misura la persistenza media dei divari distributivi. Valori più elevati di ß indicano che i divari di reddito fra i 14 genitori tendono a persistere maggiormente anche fra i figli . Osservando i risultati di una elaborazione riguardante i livelli di reddito da lavoro, limitatamente ai principali paesi europei, emerge che a fronte di valori di ß compresi tra 0,15 e 0,41 l'Italia registra un coefficiente di 0,51 avvicinata solo dal Regno unito (0,5). Ciò dice che nel nostro paese sembra esservi una tendenza più accentuata della media degli altri paesi alla cristallizzazione delle condizioni reddituali di generazioni che si succedono in linea diretta. Per capire la portata di questo fenomeno è anche utile confrontare la disuguaglianza intergenerazionale con quella attuale. L'Italia è un paese ad elevata disuguaglianza corrente che tende a trasmettere in modo rilevante la disuguaglianza dai padri ai rispettivi figli. Poiché questo legame tra indicatori di disuguaglianza corrente e intergenerazionale riguarda anche molti altri paesi, è ragionevole supporre che vi sia una correlazione tra le due misure, che merita ulteriori approfondimenti in quanto essa segnala un aspetto della disuguaglianza a cui finora non è stato dato sufficiente peso e che comporta di riconsiderare l'idea che meritino più attenzione i futuri divari di reddito rispetto alla disuguaglianza corrente. La correlazione appena richiamata implicherebbe invece che dove è maggiore la distanza economica tra individui è anche maggiore l'effetto di trasmissione delle disuguaglianze dai padri ai figli. Per quanto questo risultato richieda ulteriori conferme, soprattutto sul versante dei nessi causali, esso offre un'importante indicazione per gli interventi di policy, in quanto se la disuguaglianza corrente incide su quella intergenerazionale, “… il progetto di ridurre quest'ultima disinteressandosi della prima, poggerebbe su debolissime fondamenta”.
_______________________________ 14. Si veda l'interessante analisi, in particolare il cap. 6, di Maurizio Franzini e Michele Raitano, Disuguaglianze economiche. Tendenze, meccanismi, e politiche, “Rapporto Nens”, Roma, novembre 2009. 48
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A chi mai può stare a cuore l'uguaglianza nella scuola? Claudio Giunta
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na sera sorprendo me stesso – una persona mite, una persona che ha studiato – a tirare una ciabatta contro il televisore, mentre su La7 un deputato di destra e un deputato di sinistra parlano di scuola. Ma non la tiro mentre parla il deputato di destra. La tiro quando il deputato di sinistra interrompe una signora chiaramente non-abbiente e noncolta che si sta lamentando perché nella scuola media pubblica frequentata dal figlio, in una cittadina qualsiasi della cintura milanese, gli immigrati rallentano le lezioni perché non parlano italiano, o perché non studiano, o perché fanno casino. E dopo averla interrotta, il deputato di sinistra le grida “Razzista! Questo è razzismo! Lei è razzista!”. Parte la giusta indignazione della donna: “No, io non sono razzista! Dov'è che devo mandarlo mio figlio, eh? Me lo dice?”. Parte la giusta risata del deputato di destra: “Ma guarda che così finiscono per votarvi soltanto nei salotti, eh!”. Parte la ciabatta. Io ho cominciato ad andare a scuola nella seconda metà degli anni Settanta, dieci anni dopo la pubblicazione della Lettera a una professoressa di don Milani (1967). Allora era quello il libro-chiave sul tema 'Scuola e Uguaglianza'. Non che la mia scuola fosse una contro-scuola, e non che qualcuno mi abbia mai parlato, in quegli anni, di don Milani. Ma l'atmosfera, in giro, era quella (meglio di tutti la rende l'inizio di un pezzo degli Offlaga Disco Pax: “Ho fatto l'esame di seconda elementare nel 1975. / Il socialismo era come l'universo: in espansione. / La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre. / Le risposi che i giacobini avevano ragione e che / Terrore o no, la Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta. / La maestra non ritenne di farmi altre domande”). La nuova scuola democratica 49
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Un po' tutti, sia a destra sia a sinistra, incolpano la Lettera a una professoressa di contenere, in nuce, tutti i disastri para-educativi che sono venuti dopo, ma la verità è che il lassismo di una parte della scuola e dell'università degli ultimi decenni c'entra ben poco con quello che diceva don Milani.
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doveva smetterla di essere un ospedale che cura i sani e manda via i malati; doveva integrare, non segregare; doveva essere una scuola di uguali, indipendentemente dalla cultura e dal reddito delle famiglie; e dunque, tra l'altro, non doveva bocciare. S'intende (o meglio, non s'intende, perché questa precisazione non è stata ben intesa, dopo): negli anni dell'obbligo. Perché tra chi continuava oltre l'obbligo era normale che ci fossero i promossi e i bocciati. Oggi vedo che un po' tutti, sia a destra sia a sinistra (ma più a destra, si capisce), incolpano la Lettera a una professoressa di contenere, in nuce, tutti i disastri para-educativi che sono venuti dopo, ma la verità è che il lassismo di una parte della scuola e dell'università degli ultimi decenni c'entra ben poco con quello che diceva don Milani; e che quello che diceva don Milani è spesso diverso dalla vulgata che si sente ripetere in giro (per esempio: a don Milani non piaceva la lingua inutilmente difficile della burocrazia; e neppure, per la verità, la lingua giustamente difficile della Tradizione; ma ai suoi studenti cercava d'insegnare anche un po' di latino, e studiava l'ebraico). Erano solo buoni sentimenti, si dice. Già, ma questa continua ironia sui buoni sentimenti (se pure ha una parte di ragione) è molto allarmante. Il libro-chiave sul tema 'Scuola e Uguaglianza' di questi anni è, invece, Il ruggito della madre tigre di Amy Chua. Amy Chua è americana ma i suoi genitori erano cinesi, e secondo il metodo cinese l'hanno educata. Dato che questo metodo ha avuto – sostiene Amy – ottimi effetti su di lei, le è parso giusto adoperarlo a sua volta nell'educazione delle due figlie (co-educate da un marito ebreo che però s'indovina costretto, nel corso del Processo Educativo, nella posizione un po' defilata del due di picche). Il Metodo Chua viene così riassunto nella prima pagina del libro: “Alle mie figlie Sophia e Louisa non è mai stato permesso di: (1) andare a dormire dalle amiche; (2) andare a giocare dalle amiche; (3) partecipare a una recita scolastica; (4) guardare la televisione o giocare con i videogiochi; (5) prendere una voto inferiore a 10; (6) non essere la migliore in ogni materia”. Anche se è duro da credere, il resto è peggio: duecentoquaranta pagine di esercitazioni al pianoforte e al violino, di lezioni private, di compiti facoltativi svolti mentre i compagni di scuola limonano alle feste, di trionfi scolastici, di violenze fisiche (“Ora stai fuori dalla porta finché non ti deciderai a esercitarti al piano” – e fuori nevica) e psicologiche (“Ti brucio i peluche”). Amy Chua non è
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nemmeno sfiorata dall'idea che la scuola possa non essere una competizione continua, una battaglia tra le sue figlie e il Resto del Mondo nella quale il Resto del Mondo non ha chances. Accade che la piccola Sophia arrivi seconda «al test di velocità nelle moltiplicazioni», dietro al compagno coreano Yoon-seok. Brava! direbbe una mamma occidentale. La reazione di Amy Chua è un po' diversa: «Ogni sera della settimana successiva le assegnai venti test di prova, cronometrandola ogni volta. Da allora a scuola arrivò sempre prima. Povero Yoon-seok. A un certo punto tornò in Corea con la famiglia, ma non credo sia stato per il test» (ogni tanto – per esempio quando applica questi stessi princìpi educativi al samoiedo Coco, che ha la sventura di finire in casa sua – ci si domanda se Amy Chua non stia scherzando. Se è così, è una dei grandi umoristi del nostro tempo. Ma non è così). Mezzo secolo dopo don Milani, che cosa pensa dunque Amy Chua dell'uguaglianza a scuola? Più o meno quello che ne pensava Nietzsche (esiste anche un'interessante Sinistra Nicciana, e volentieri le dedico questa citazione): “Educazione superiore e numero enorme – sono cose che si contraddicono sin dal principio. Ogni educazione superiore non appartiene che all'eccezione; si deve essere privilegiati per aver diritto a un così alto privilegio. Tutte le cose grandi, tutte le cose belle non potranno mai essere un bene comune: pulchrum est paucorum hominum. Che cosa determina la decadenza della cultura tedesca? Il fatto che l'educazione superiore non è più un privilegio – il democraticismo della 'cultura generale', della cultura diventata comune” (Crepuscolo degli idoli, Milano, Rizzoli 1998, p. 95). Decisamente, mezzo secolo non è trascorso invano. E, come tante altre idee di Nietzsche, anche questa è, oggi, sentimento diffuso, cognizione diffusa tra le masse che Nietzsche aborriva. Ciò detto, e passando dai Libri alla Vita, e alla vita odierna: a chi può stare a cuore l'uguaglianza, la parità, dentro la scuola? Certamente non alle famiglie degli studenti più abbienti (ed è chiaro che si è sempre più abbienti di qualcun altro, e di underdogs da lasciare indietro – tra immigrati, zingari e bambini o ragazzi semplicemente un po' lenti – ce ne saranno sempre di più in futuro). Uno può essere così longanime da non volere, per sé, vantaggi rispetto agli altri, da voler partire da un piano di parità in ufficio o su un campo da tennis, ma quando si tratta dei figli le cose vanno diversamente, e ci vuole una volontà di ferro, e una 51
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Ma l'uguaglianza non piace neppure a molti ragazzi, che non avendo né cultura né esperienza di vita sono spesso più spietati dei loro genitori.
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fede democratica davvero fuori del comune, per non far valere il proprio censo o le proprie conoscenze allo scopo di dare ai propri figli l'istruzione “che non ho avuto io”. Quello che le famiglie vogliono è che nella prossima divisione tra vittime e carnefici i loro figli non stiano dalla parte delle vittime. A dire la verità non vogliono neppure che stiano dalla parte dei carnefici: l'autentico, il consapevole cinismo è merce rara. Vogliono che possano permettersi di guardare le cose dall'alto; e, molto concretamente, vogliono evitare che i loro figli finiscano in scuole fatiscenti, con insegnanti sottopagati e demotivati, in mezzo agli immigrati, agli zingari, ai disabili. Segue elenco delle opzioni: la Scuola Americana, la Scuola Francese, la Scuola Tedesca, la Scuola Internazionale, la Scuola Steineriana, i Gesuiti, la Svizzera, gli Stati Uniti… Ma l'uguaglianza non piace neppure a molti ragazzi, che non avendo né cultura né esperienza di vita sono spesso più spietati dei loro genitori. Mi spiega un'amica che lavora in una Scuola di Avviamento al Lavoro, dove le classi sono composte per metà di albanesi, romeni, maghrebini: “Se questi ragazzi non sono nati in Italia l'integrazione è possibile, perché 'stanno al loro posto', 'non alzano la cresta'. Se invece sono nati qui vorrebbero, giustamente, essere come i loro compagni italiani, e invece non lo sono per questioni di reddito, di identità, di padronanza della lingua. Così si creano i gruppi, le fazioni contrapposte: albanesi contro italiani, romeni contro italiani. E io passo le ore a rispondere a domande come 'E perché i miei devono pagare la scuola a questi, che non sono neanche italiani?'”. Infine, è ingenuo credere che i tutori dell'uguaglianza, che i difensori dell'uguaglianza possano essere ancora – mentre si è fatta ormai quasi inudibile la voce di don Milani – gli insegnanti, perché chiunque insegni in una scuola che non sia il Liceo Ginnasio D'Azeglio o il Liceo Ginnasio Parini o il Liceo Ginnasio Mamiani è, legittimamente, un po' provato, e dello spirito egualitario constata soprattutto gli effetti nefasti, i malintesi: la crisi dell'autorità, i genitori impiccioni, gli studenti che si tagliano le vene se prendono quattro, le bocciature che generano querele da parte dei genitori (onde la fobia del 'registro in ordine', dell'ispezione, eccetera). E perché allo sciocco idealismo di massa di un tempo mi pare si sia diffuso un pessimismo di massa, un cinismo di massa che è, alla fine, altrettanto sciocco e ancora più pericoloso. Resta lo Stato, questa astrazione. O quell'altra astrazione ancora più astratta, la Società. A molti viene
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l'orticaria anche solo a sentir parlare di 'Scuola e Uguaglianza': perché non è ovvio, non lo sappiamo tutti che gli esseri umani non sono uguali? Si tratta di solito di persone così privilegiate e così stupide da non riuscire neppure ad accorgersi dei propri privilegi. Ad Amy Chua, in tutto il suo agghiacciante libro, non viene mai in mente che il suo modello educativo 'funziona' (se di funzionamento si può parlare) non perché riesce a calare il rigore dell'educazione cinese nella Terra delle Opportunità che è l'America, ma perché Amy Chua – Ivy Leaguer sposata con un Ivy Leaguer – dispone del capitale economico e culturale per fare delle sue figlie le perfette, predestinate matricole di Harvard (nonché, sperabilmente, delle nevrotiche borderline dopo i trent'anni): le lezioni di violino costano. Lo Stato ha il dovere di intervenire, di correggere queste diseguaglianze. Ma dato che farsi capire da persone privilegiate e distratte come Amy Chua è difficile, una strategia alternativa potrebbe essere quella di accompagnare i cinici che credono seriamente di 'avercela fatta da soli' nelle periferie di Londra o di Chicago (o di Napoli, se è per questo), là dove l'istruzione primaria è diventata il mezzo più efficace per ratificare le distinzioni di classe prima ancora che la vita cominci. E insomma, se non per buon cuore e per senso di giustizia, i privilegiati dovrebbero cercare di condividere i loro privilegi spinti dall'interesse personale, dall'egoismo. Il fatto che lo Stato non riesca a garantire a tutti l'accesso all'istruzione significa, immediatamente, degrado, povertà, violenza, e un conflitto sociale che finisce per riguardare anche Amy Chua e i suoi pari. Ciò considerato – e tornando al lancio della pantofola –, che cosa dovrebbe pensare, che cosa dovrebbe fare una persona di sinistra sensibile al problema dell'uguaglianza delle opportunità? Forse si potrebbe cominciare dicendo ai cittadini che i problemi dell'istruzione sono immani e che hanno poco a che fare con la buona o cattiva volontà di governi chiaramente inadeguati come il governo Berlusconi. E si potrebbe provare a rinunciare alla lista dei tabù. La paura della madre non-abbiente e non-colta della cintura milanese, paura che il proprio figlio 'resti indietro', è una paura ragionevole, e non è razzismo. Proprio perché hanno questa paura, del resto, tutti gli abbienti e i colti, anche di sinistra, evitano accuratamente di mandare i loro figli nelle scuole professionali della cintura milanese. A me pare evidente che migliaia, forse milioni di voti li abbiamo perduti per ipocrisie
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Lo Stato ha il dovere di intervenire, di correggere queste diseguaglianze.
Si potrebbe cominciare dicendo ai cittadini che i problemi dell'istruzione sono immani e che hanno poco a che fare con la buona o cattiva volontà di governi chiaramente inadeguati come il governo Berlusconi.
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di questo tipo. Se un ragazzino che viene dal Maghreb o dall'Ucraina non parla e non capisce l'italiano, non è detto che la scelta migliore, per lui e per i suoi compagni, sia quella di catapultarlo 'tra i suoi nuovi amici italiani'. A volte sarà questa la strada giusta, a volte no. Perciò, ipotesi come quella delle classi-ponte possono, perlomeno, essere discusse, specie laddove mancano i fondi per gli insegnanti di sostegno (la replica “i fondi ci devono essere” non fa progredire la discussione di un solo passo). La sinistra ha competenze e cultura politica tali da poter dare risposte sensate alle sensate angosce delle persone comuni: e tali anche da poter dimostrare inadeguate e controproducenti le risposte della Lega. E insieme ai tabù potremmo anche provare a smetterla con la retorica. Gli esseri umani non sono tutti fratelli. Alcuni di loro diventano fratelli alla fine di un lungo processo di civilizzazione che passa anche attraverso la scuola. Per questo la scuola oggi è così importante: perché tra i suoi vari compiti ha anche quello, capitale e massacrante, dell'integrazione degli immigrati e dei figli degli immigrati. Purtroppo è un tema meno sexy della normativa sul digitale terrestre o sul trattamento delle staminali. Ed è anche un problema meno visibile. Ma il modo in cui lo affronteremo deciderà più di ogni altra cosa della qualità della vita italiana nei prossimi decenni. Che fare in concreto? (1) Formare degli insegnanti eccellenti; (2) Pagarli decentemente. La prima cosa – anche se molti possono pensare il contrario – è più importante della seconda, e viene prima.
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Uguaglianza
e questioni antropologiche Massimo Adinolfi
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ondare e giustificare il potere politico in termini puramente umani è stata l'impresa fondamentale della filosofia moderna. Un'impresa che non avrebbe presentato particolari difficoltà se non fosse che ad essa si è da subito associata l'idea che gli uomini sono tutti uguali (e viceversa: senza una simile idea, infatti, difficilmente si sarebbe cercata una fondazione puramente umana del potere). Il problema rappresentato dalla necessità di introdurre una relazione di comando e obbedienza fra uomini che, tuttavia, sono uguali, poté avere una soluzione e una soltanto: la democrazia. Non c'è pertanto bisogno di filosofie della storia troppo ingombranti per indicare nell'ideale democratico il telos della modernità. Dopo Marx, però, è subentrata una complicazione ulteriore. Non bastava infatti che si fondasse il potere politico mantenendo tuttavia gli uomini su un piede di uguaglianza: bisognava inoltre che l'uguaglianza si estendesse anche ad altre relazioni di vita: alla sfera economica e sociale, ad esempio. A che vale, infatti, un'uguaglianza di diritto, un'uguaglianza davanti alla legge, se essa lascia intatte tutte le altre diseguaglianze? È una complicazione, peraltro, inevitabile. Dal momento che nessuno sarebbe soddisfatto di essere uguale a tutti gli altri solo nella morte (come ne 'A livella di Totò), la richiesta di uguaglianza si è presentata da subito come richiesta di eguaglianza nella vita, nella sicurezza, nella libertà. Non si è uguali per essere uguali, ma per poter dispiegare liberamente il proprio progetto di vita. Poiché però il libero dispiegamento individuale dei progetti di vita può ledere l'uguaglianza di tutti, così come il perseguimento di un'uguaglianza reale fra gli uomini può minacciare la libertà di ciascuno, è parso subito necessario 55
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Per la via di come il mondo deve essere, l'eguaglianza, in qualunque combinazione di principi sia presentata, viene proposta sempre solo come un ideale.
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mettere limiti all'una e all'altra, e le filosofie e le dottrine politiche si sono d'allora in poi distinte a seconda di dove ponessero quei limiti e di come li giustificassero. E tuttora ragionano soprattutto di questo, cioè del giusto mix di uguaglianza e libertà, e lo fanno per lo più con una buona dose di astrattezza, dal momento che si sforzano di definire in linea teorica quale sarebbe la soluzione più giusta, come ordinare le priorità, come coniugare i principi, senza troppo preoccuparsi delle forze storiche reali, degli uomini, dei gruppi umani che dovrebbero far propria l'idea di giustizia approntata per loro. Un buon numero di difficoltà sorgono pertanto non già per il contenuto dell'idea, quanto piuttosto per il modo stesso della sua presentazione. Di primo acchito, sembra ragionevole: anzitutto, la scienza giuridico-politica definisce cos'è l'eguaglianza, cos'è la libertà, cos'è la giustizia; dopodiché si abbandona il dominio della teoria e ci si mette in cerca di mezzi per realizzarla in pratica. La più influente teoria della giustizia del XX secolo, quella elaborata da John Rawls, procede in questo modo. Peccato che, nel riflettere sulle possibili difficoltà della sua teoria, Rawls abbia preso in considerazione quasi solo un certo tipo di obiezioni: quelle mosse al presupposto di una omogeneità delle intuizioni morali di sfondo di una società democratica. Ha così trascurato quasi del tutto di spiegare in qual modo organizzare effettivamente le forze per correggere le disuguaglianze che si producono nel mondo. Si è occupato insomma del modo in cui comporre la pluralità irriducibile di concezioni morali presenti in una società - tutte, beninteso, supposte ragionevoli - assai più che d'interessi configgenti (cioè della vera materia della politica: la «feccia di Romolo» di vichiana memoria). Per comporre questi ultimi, quel che peraltro ci vuole sono i partiti, piuttosto che dosi raffinate di elementi normativi puri. D'altra parte, per la via di come il mondo deve essere, l'eguaglianza, in qualunque combinazione di principi sia presentata, viene proposta sempre solo come un ideale. Elevata, certo, ma anche, per ciò stesso abbassata a mero ideale, dal momento che, per dirla con Hegel, un simile ideale non sarà mai così razionale da potersi realizzare anche, dovendo affidarsi invece a mezzi apparecchiati altrove per il reperimento delle condizioni necessarie alla sua realizzazione. Ma si può procedere in un altro modo? Non è forse vero che l'uguaglianza è ben lungi dall'essere non si dirà
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realizzata, ma anche solo approssimata? In effetti, a guardare ad esempio la distribuzione del reddito nel nostro paese e la sua dinamica negli ultimi vent'anni viene difficile dire che la società degli eguali è, oggi, più vicina. Questo non vuol dire però che non vi siano dimensioni dell'uguaglianza che debbono essere protette qui ed ora. Che appartengono cioè alla nostra esperienza presente, non a un lontano futuro ancora da realizzare, e che non sono quindi da conquistare, bensì piuttosto da difendere. E non è forse sempre stato (anche) così: l'uguaglianza non si è sempre spartita tra un'esperienza e un'idea? E non è forse in ragione della prima, dell'uguaglianza che sperimentiamo nelle concrete pratiche di vita, che sappiamo cos'è l'uguaglianza? E non è a questo sapere che attingono anzitutto gli stessi filosofi della politica, per poi mettere a giorno l'idea e magari inventarne l'inedita formula? Lo diceva già Kant: non vi do una nuova morale, vi do una nuova formula per cogliere le nozioni morali che intervengono già nella coscienza di ognuno. Se infatti non sapessimo cos'è l'uguaglianza, ben difficilmente qualcuno potrebbe insegnarcelo. Si tratta, è chiaro, di un sapere particolare. Di un sapere non teoretico, sprovvisto quindi di dimostrazioni in punta di logica, ma non per questo dotato di un minor grado di certezza. Al contrario. Come infatti vi è un sapere preteoretico su cui si fonda ogni costruzione scientifica, e che quindi non può essere dimostrato poiché ogni dimostrazione poggia su di esso, così vi è un sapere pratico che costituisce il fondamento di ogni costruzione politica, che non può essere dimostrato ma che si dimostra da sé, nel suo concreto esercizio. L'uguaglianza è anzi nient'altro che (e proprio) il terreno di conflitto politico effettivo in una società democratica. Non c'è altro da sapere e c'è, qui, tutto il sapere che occorre per orientarsi politicamente. Dopodiché si possono ben fornire esempi concreti. Tony Judt, nel suo ultimo libro (Guasto è il mondo, Laterza 2011) risale addirittura ai dibattiti di Putney (siamo nel pieno della guerra civile inglese) e osserva: gli egualitari dell'epoca non lottavano per un improbabile futuro lontano, ma reagivano alla sensazione che si stesse sottraendo loro qualcosa di ben reale e presente. E non è forse una sensazione analoga, quella che strati importanti della popolazione provano oggi, di fronte alla globalizzazione? “Era questa sensazione di perdita che alimentava le energie
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L'uguaglianza è anzi nient'altro che (e proprio) il terreno di conflitto politico effettivo in una società democratica. Non c'è altro da sapere e c'è, qui, tutto il sapere che occorre per orientarsi politicamente.
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politiche dei primi socialisti”, conclude Judt. Di qui due dettami precisi: “la prima cosa da fare è ricordarci delle conquiste del XX secolo, e delle conseguenze verosimili di una corsa scriteriata al loro smantellamento”. La prima cosa da fare è, insomma, un po' di storia. La seconda, invece, recita: “se dobbiamo avere uno Stato, e se questo Stato deve contare qualcosa nelle faccende umane, allora la tradizione socialdemocratica resta importante”. Traduco, per i miei scopi: se lo Stato, cioè l'ordine politico che la modernità ha inventato per garantire pace e uguaglianza di diritti, rimane il terreno politico privilegiato, allora la tradizione socialdemocratica, cioè il tentativo di innervare la condizione politica di uguaglianza di contenuti sociali, resta importante. Anzi fondamentale. C'è, infine, un punto teorico. Si può ben riconoscere la superiorità di capitalismo ed economia di mercato rispetto ad ogni altra forma di organizzazione economica della società: non si può però mancare di osservare che se il suo propellente è la ricerca del profitto (in termini antichi: la pleonexìa, la spinta a volere sempre di più, dunque la passione per la disparità, non per l'uguaglianza) allora l'uguaglianza ricadrà sempre dal lato delle contro-finalità del sistema, e richiederà per ciò stesso una tutela particolare. Sarà sempre ciò che si può perdere, prima ancora di ciò che si può conquistare. Vale a dire: si può convenire sul fatto che lo sviluppo genera anche nuove uguaglianze – almeno nella forma di nuove opportunità per tutti – ma esse rientrano giocoforza nell'ambito delle conseguenze non intenzionali: più esposte, per questo, a una certa aleatorietà. In una sede più propriamente teoretica, proveremmo anche a generalizzare l'assunto. Qui lo formuliamo soltanto: l'uomo – l'uguaglianza dice infatti l'umanità dell'uomo - è una conseguenza non intenzionale della sua stessa prassi. Un prodotto del suo prodotto, secondo la formula sartriana (rovesciata però nel suo senso, poiché non si tratta della sua alienazione, quanto della sua stessa costituzione ontologica). Mantenendosi su questo difficile crinale, il tema dell'umanità dell'uomo (il nuovo umanesimo di cui parlano anche i documenti istitutivi del Pd) non interverrà solo come la riproposizione di un antropocentrismo dogmatico e in fin dei conti esigenziale, ma come la corposa ragione di un fatto. Come una difficile quanto precaria costruzione storica, che per essersi fatta e per essere stata fatta non vale meno, anzi vale più di ogni astratta proposizione di principio. 58
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Disuguaglianze metropolitane Walter Tocci
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uando ero un giovane militante avevo inventato un gioco mentale per mettermi di buon umore. Allora si usava andare quasi tutte le sere dalla sede centrale del partito verso la periferia, dove erano le nostre roccaforti elettorali. Lungo il viaggio mantenevo fisso lo sguardo dal finestrino dell'autobus verso la strada e al susseguirsi dei palazzi associavo l'aumento degli elettori di sinistra. Oggi, per avere la stessa sensazione devo fare un'inversione di marcia. A volte faticavo a trovare il luogo dell'assemblea. In quelle periferie diradate era infatti difficile darsi un appuntamento. Gli spazi erano estesi e senza differenze sia nei quartieri dei palazzoni legali sia nelle borgate delle casette abusive. Oggi, al contrario le nostre roccaforti elettorali sono nella città consolidata, dove è proprio l'alta densità a creare le differenze e le opportunità del riconoscimento. Infine, trovavo in quelle assemblee quasi sempre problemi nuovi da discutere. La periferia era allora in continua espansione e l'arrivo di nuovi ceti sociali forniva occasioni per la partecipazione popolare. Oggi, al contrario, le fortune elettorali della sinistra sono collocate nei vecchi quartieri, sia quelli di provenienza borghese sia quelli della periferia storica riscoperti dagli stili di vita della classe creativa. 1. Le tre Disuguaglianze: Distanza, Densità, Durata Questi tre ricordi di vita da militante disegnano i gradienti spaziali del consenso politico. Potremmo chiamarli gli assi delle tre D: la Distanza, la Densità e la Durata. Su di essi si è consumato nelle grandi città il ribaltamento elettorale tra sinistra e destra degli ultimi trenta anni. Il consenso della 59
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sinistra è passato dai quartieri più distanti a quelli più vicini al centro, dai luoghi meno densi a quelli più densi, dalle zone di trasformazione a quelle di consolidamento (Queste correlazioni sono dimostrate, ad esempio, dalle analisi di Federico Tomassi sul caso romano -Argomenti Umani n. 5, 2009). Si può concludere semplicemente che la sinistra perde dove è più debole il legame sociale, dove i soggetti sono più isolati, dove gli individui sono privi di identità collettive e storicizzate. Ma forse dobbiamo andare più avanti nell'analisi. La distanza, la densità e la durata convergono in una dimensione che le riassume e le contiene, una sorta di grande D, la Diseguaglianza metropolitana. E non è cosa da poco se la sinistra perde dove cresce la diseguaglianza. C'è un problema più grande di questo? Eppure, viene continuamente rimosso nel nostro discorso politico. Sono evidenti le cause generali del problema, ma qui ci interessa isolare le determinanti spaziali e capire come vi rimangono impigliate le relazioni sociali, economiche e politiche. La città si trasforma in periferia e si rappresenta in centro. Questa diseguaglianza spaziale tra l'essere e l'apparire è strutturale e produce una tensione politica creativa che assume diverse configurazioni nella mutazione storica. Nella città del miracolo economico la sinistra era incardinata nel luogo della trasformazione e andava alla conquista dei centri di rappresentazione. Al contrario, nella città postindustriale la sinistra è centrata nei luoghi dell'immaginario urbano e deve riconquistare i territori della mutazione socioeconomica. Inoltre, la globalizzazione porta alla massima intensità questa diseguaglianza, poiché il centro è attirato nelle reti internazionali del terziario avanzato, mentre la periferia è impegnata nell'elaborazione sociale dell'immigrazione, con gli estremi del rifiuto, ma anche con arricchimenti antropologici. 2. L'altrove spaziale senza tempo La trasformazione ha cambiato paradigma: nel primo trentennio la città evolveva per espansione dal centro verso la periferia secondo una logica di sviluppo progressiva e cumulativa. Nel secondo, invece, il mutamento ha preso la forma della frammentazione, secondo una logica disseminativa di insediamenti sparsi nella scala sempre più ampia dell'area metropolitana. La nuova dinamica travolge i vecchi confini tra interno ed esterno, mettendo in 60
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discussione una funzione delicata dello spazio che costituisce una sorta di interiorità delle relazioni sociali. Come per una persona la forza del carattere dipende dalla solidità della propria dimensione interiore, così l'organizzazione sociale trova il proprio ubi consistamnella rappresentazione spaziale. Il fenomeno è ben noto in teoria e trova conferma sia nelle forme di vita improntate alla solidarietà sia nei leghismi vecchi e nuovi. Senza scomodare Kant si può facilmente convenire che il senso interno è depositario della concezione del tempo. Nella periferia della fase espansiva la funzione interiorizzante dello spazio era tanto forte da sostenere le temporalità progressive alla base di diverse utopie sociali: le lotte popolari di emancipazione, il sogno consumistico dei ceti medi in fuga dai centri storici verso i quartieri nuovi delle palazzine; le sperimentazioni del modernismo architettonico dal Corviale di Roma, alle Vele di Napoli e allo Zen di Palermo; la politica progressista della casa dal piano Fanfani allo sciopero generale del 1969. La diseguaglianza nella periferia storica veniva rielaborata tramite un altrove temporale, un'utopia di buona società da raggiungere attraverso un cammino di progresso. Nella periferia della frammentazione, invece, venendo a mancare l'interiorità si atrofizza anche l'immaginario temporale e di conseguenza l'altrove può essere espresso solo in termini spaziali. La periferia contemporanea è un insieme eterogeneo di altrove senza tempo. La sua alterità è immediatamente realizzata nel qui e ora e proprio per questo i processi identitari non trovano un terreno di consolidamento. C'è sempre un altro qui e ora che si afferma con pari legittimità contro il precedente. Per fermare tali contrapposizioni le relazioni sociali sempre alla ricerca di stabilità si coagulano intorno a funzioni urbane capaci di garantirla. L'altrove spaziale, quindi, è sempre legato a una determinata funzione (M. Magatti, Libertà immaginaria, Feltrinelli, 2009, pp. 161-166). L'esempio migliore è il mega centro commerciale, dove proprio la specializzazione funzionale del consumo, cioè il dominio assoluto del qui e ora, è in grado di tenere insieme le eterogeneità della periferia frammentata. Il centro commerciale è il rovescio della piazza. Questa nella periferia storica operava al contrario proprio come spazio senza alcuna funzione specifica, come luogo dell'indugio e dell'inutile. La stabilizzazione delle relazioni sociali nella piazza, infatti, si realizzava tramite la dimensione temporale o come memoria storica o come utopia dell'integrazione sociale.
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C'è sempre un altro qui e ora che si afferma con pari legittimità contro il precedente.
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Le politiche e i linguaggi della sinistra sono rimasti legati alla fase dell'espansione e non sono più applicabili ai nuovi codici della periferia della frammentazione. Da qui viene un'incomprensione della realtà e tanto più un'incapacità a rappresentarla. “Non so immaginare un borgataro riformista”, dice con formula icastica Walter Siti.
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Il passaggio dall'altrove temporale a quello spaziale spiega molti cambiamenti dell'immaginario periferico. Se il sociale non ha più un telos possono convivere nello stesso luogo prospettive diverse e opposte. Da un lato lo spazio diventa garanzia di chiusura della comunità, come si vede in quella vera e propria ossessione a recintare ogni cosa nelle periferie: la casetta con il cartello attenti al cane, il parco chiuso con i cancelli, il condominio esclusivo, la zona delimitata per gli immigrati ecc. Da quando il confine urbano ha perso il segno distintivo delle mura queste sono diventate immanenti rispetto alle relazioni sociali. D'altro canto, però, uno spazio senza interiorità è penetrabile da fenomeni che si sviluppano su scale diverse. Un insediamento metropolitano oggi è spesso una pluriperiferia, non solo rispetto a vecchio centro urbano, ma anche in relazione alla cittadina preesistente nell'hinterland e al mondo che fa sentire la sua presenza tramite gli immigrati. La compresenza di chiusura e apertura sfuma la distinzione interno-esterno che è proprio la frontiera decisiva dell'identità sociale e politica. Tutto ciò determina uno sbilanciamento verso l'esteriorità e questa caratteristica viene esaltata dai mass-media che contribuiscono a dare notizia della periferia solo per espressioni estreme, dalle banlieu parigine, alle rivolte antinomadi, ai progetti di demolizione proposti da amministratori in cerca di celebrità. Ma lo sbilanciamento esteriore si può vedere anche in certi aspetti della vita quotidiana, ad esempio la proliferazione di hair stylist, solarium e nail shop nelle vie di borgata. La povertà estetica dei luoghi trova una compensazione o una purificazione nel trucco eccessivo della ragazze, come osserva Christian Raimo. Le politiche e i linguaggi della sinistra sono rimasti legati alla fase dell'espansione e non sono più applicabili ai nuovi codici della periferia della frammentazione. Da qui viene un'incomprensione della realtà e tanto più un'incapacità a rappresentarla. Non so immaginare un borgataro riformista, dice con formula icastica Walter Siti, narratore neopasoliniano della periferia romana. Il politico di sinistra si presenta in borgata parlando di regole, di assetti istituzionali, di soluzioni amministrative da realizzare in futuro, cioè di un altrove temporale. Quello di destra, invece, gioca la carta dell'irregolarità, del rancore verso l'altro e del desiderio consumistico, secondo un radicale altrove spaziale. Per ribaltare i rapporti di forza la sinistra avrebbe dovuto trovare una connessione tra le riforme e la vita quotidiana della periferia, un linguaggio nuovo per parlare al popolo meglio di
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quanto faccia il populismo. Ciò avrebbe comportato calarsi nei luoghi della trasformazione rielaborando i propri codici culturali. E' stato più facile conservare i vecchi e applicarli dove ancora potevano funzionare, cioè nei quartieri borghesi e della periferia consolidata. Lungo gli assi della Distanza, Densità e Durata la politica di sinistra si è semplicemente spostata da un estremo all'altro per poter conservare se stessa. Così, le cinture rosse sono diventate le roccaforti delle destre e i quartieri borghesi sono diventate le casematte della sinistra. 3. La rendita urbana Tuttavia, queste modifiche dell'immaginario non sono sufficienti a rendere conto di un ribaltamento politico tanto marcato. E anzi spesso si è sbagliato ad assumerle come unico strumento di analisi, fino a dimenticare le componenti più strutturali delle diseguaglianze metropolitane. Questo approccio unilaterale ha portato un certo sociologismo giornalistico a sostenere che la periferia non esiste più o perlomeno non corrisponde a un disagio sociale. In realtà, la distanza tra le diverse parti della città sono aumentate proprio seguendo l'inasprimento delle diseguaglianze economiche che ha portato l'Italia negli ultimi venti anni verso una gerarchia sociale di tipo americano. La periferia è ancora il luogo della povertà urbana. Innanzitutto, in termini economici. Tante analisi territoriali della distribuzione dei redditi, nonostante una certa diffusione di insediamenti di ceto medio nelle fasce più esterne della città, mostrano una forte polarizzazione territoriale. E, anzi, questa viene rafforzata dalle specifiche dinamiche sociali dell'economia della conoscenza. Al di là delle ireniche narrazioni sulla città creativa, lo sviluppo del terziario avanzato accentua le differenze tra i knowledge workers globalizzati e i poor workers delle periferie, come per prima ha evidenziato Saskia Sassen nell'analisi delle global cities. La trappola della diseguaglianza è ulteriormente accentuata dalla disparità nell'accesso all'istruzione, dai tassi di abbandono scolastico e in generale dalle opportunità di formazione del capitale umano. Il livello del titolo di studio segue un inesorabile andamento negativo dal centro verso la periferia. L'unico ammortizzatore delle diseguaglianze è il patrimonio immobiliare. La proprietà della casa è stata l'obiettivo perseguito da sempre con insolita coerenza dalla 63
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politica italiana. La diseguaglianza del reddito disponibile, quindi, risulta attenuata se si considera una componente che tiene conto dell'affitto risparmiato da chi possiede l'alloggio. Paradossalmente si potrebbe dire che la diffusione di rendita verso i piccoli proprietari è stato uno dei pochi interventi riusciti del welfare italiano, anche se a prezzo del degrado dei beni comuni. Infatti, per consentire l'acquisto della casa ai ceti medio bassi si sono dovuti ridurre i costi di realizzazione scaricando il peso sulla bassa dotazione di servizi e di trasporti. Questo è stato il tipico modo di produzione dell'edilizia speculativa, talvolta anche dell'edilizia pubblica e in modo estremo delle costruzioni abusive. Soprattutto nel centro sud tramite illegalità e condoni è stato possibile realizzare intere periferie costituite da ammassi di case senza città. Ricchezza proprietaria creata tramite la povertà pubblica. L'attenuazione delle diseguaglianze di reddito in questo caso è stato ottenuto a prezzo di più forti diseguaglianze nella qualità urbana. Negli ultimi anni poi la rendita immobiliare si è agganciata a quella finanziaria mediante l'istituzione di appositi fondi di investimento. Il mattone ha preso a funzionare come un derivato, condividendo con la dinamica della finanza sia i vorticosi aumenti di valore sia le tempeste perfette. Nelle grandi città italiane la crescita dei prezzi degli immobili e degli affitti, in assenza di qualsiasi politica pubblica dell'abitazione, ha costretto giovani coppie e ceti popolari a trasferirsi negli hinterland per poi tornare nei centri storici a lavorare, determinando un pesante aggravamento di traffico a causa della penuria di trasporti su ferro. In questo caso la diseguaglianza spaziale si è manifestata nella forma più estrema, quella cioè dell'espulsione, come una sorta di ripresa contemporanea della pratica antica di bandire gli indesiderati dalla città. 4. Oltre il leaderismo e il notabilato Tutto ciò ha influito sui comportamenti politici. Si sono accumulati nelle periferie della frammentazione grandi depositi di rancore, utilizzati istintivamente dalla destra e subiti ingenuamente dalla sinistra. Laddove questa era al governo ha dato una rappresentazione luccicante dello sviluppo urbano che ha provocato un rifiuto soprattutto da parte di quei cittadini messi al bando. Inoltre, i ceti sociali che nella fase dell'espansione, sotto le bandiere della sinistra, hanno realizzato il sogno della 64
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casa, soprattutto nelle zone abusive, hanno preso a ragionare come proprietari di una rendita sentendosi quindi più vicini alla destra. Non solo, la carenza di servizi che aveva abbassato i costi di costruzione dell'alloggio, viene avvertita oggi, in particolare dalle nuove generazioni, come un'ingiustizia localizzativa, senza considerare che quella povertà urbana è in parte responsabilità anche dei padri che hanno compiuto l'abuso. Ad aggravare la situazione c'è poi la presenza degli immigrati che vengono avvertiti da questi ceti proprietari come la possibilità di tornare alla povertà da cui si sono liberati. E il diverso diventa l'occasione per dare un simbolo a tutte le paure e i rancori accumulati nella trasformazione urbana. Tutto ciò produce per la destra un vantaggio diretto in termini di orientamento politico, ma soprattutto un vantaggio indiretto a causa di una perdita di fiducia verso la politica, che è una condizione sempre sfavorevole per il progetto politico della sinistra. Proprio nelle estreme periferie si determina l'astensionismo più forte. E dove si perde fiducia aumentano anche i comportamenti utilitaristici verso la politica. Non solo la partecipazione elettorale diminuisce, ma viene fortemente condizionata da promesse clientelari e da forme notabilari di consenso. Nella periferia della frammentazione viene a mancare la rappresentanza. Non solo la società periferica non si esprime in politica ma ne subisce le logiche di potere. I processi di formazione del consenso dal basso verso l'alto sono stati completamente sostituiti dalle macchine di controllo elettorale organizzate dal ceto politico. Tutto ciò comporta una perdita di potere della periferia. I suoi problemi passano in secondo piano rispetto alle altre parti della città. E' l'esito politico dei fenomeni sociali ed economici descritti sopra. L'altrove spaziale è una relazione sociale senza rappresentanza proprio perché viene a mancare quella interiorità che è alla base di una comune consapevolezza dei bisogni. Le diseguaglianze economiche sono frutto di processi a larga scala – perfino, come si è visto, della finanza globalizzata - che sfuggono ad una consapevolezza sociale maturata nel territorio. La politica ha risposto adeguando perfettamente le sue forme a tali trasformazioni. Altro che distacco dalla società! Il sindaco eletto dai cittadini e il notabile che raccoglie preferenze sono ormai le uniche forme di presenza politica nella periferia. Entrambe rafforzano la verticalizzazione del consenso dall'alto verso il basso e quindi contribuiscono ad
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Proprio nelle estreme periferie si determina l'astensionismo più forte. Nella periferia della frammentazione viene a mancare la rappresentanza. Non solo la società periferica non si esprime in politica ma ne subisce le logiche di potere.
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In nessuna città italiana si ha notizia di importanti realizzazioni capaci di modificare la vita quotidiana delle periferie.
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indebolire ulteriormente il potere politico della periferia. Nel passaggio dall'altrove temporale a quello spaziale si consuma la perdita di autonomia politica e si afferma l'eterodirezione dei gruppi sociali. Ma soprattutto quelle forme politiche tendono a mantenere lo status quo. Il notabilato è per sua natura la più conservativa, non a caso inventata dalla borghesia liberale prima del suffragio universale. Meno evidente è il carattere conservativo del sindaco, perché l'elezione diretta aveva promesso una forte capacità decisionale. A distanza di quasi venti anni da quella riforma elettorale - unanimemente giudicata come la migliore - è forse giunto il momento di farne un bilancio veritiero. A fare difetto nei sindaci è proprio la decisione, per diversi motivi. Innanzitutto, il secondo mandato è quasi sempre inutile, poiché la forte personalizzazione spinge il sindaco a pensare al suo futuro politico più che all'amministrazione, come si può constatare nella vicende politiche delle principali città italiane. Inoltre, la totale dipendenza dal circuito mediatico e la rafforzata rappresentazione del centro-città spinge il sindaco ad azioni di breve termine e di carattere fortemente simbolico. Queste in modo particolare parlano anche al popolo delle periferie, utilizzando proprio quella tendenza all'esteriorità di cui si è detto, ma in ogni caso sono tutte espressioni di leaderismo senza decisione. Il mandato decennale doveva assicurare la realizzazione di progetti di lungo periodo, ma la promessa non è stata mantenuta, anzi il sistema politico comunale è ormai malato di short-termism. Tutto ciò impedisce di affrontare i problemi strutturali della periferia, la quale quindi non solo non è rappresentata, ma non è neppure governata. In nessuna città italiana si ha notizia di importanti realizzazioni capaci di modificare la vita quotidiana delle periferie. Non si tratta però di mettere in discussione l'elezione diretta del sindaco, che è una delle poche certezze istituzionali del nostro paese, ma di guardare con realismo ai problemi che lascia insoluti l'attuale sistema politico comunale. Soprattutto per il Partito Democratico dovrebbe porsi la domanda se sia proprio inevitabile lasciare al leaderismo e al notabilato l'esclusiva del rapporto con la periferie. Se sia, invece, quanto mai necessaria un'organizzazione politica capace di produrre rappresentanza e decisioni. Se la periferia sia il luogo decisivo per costruire il PD come moderno partito popolare capace di fare le riforme facendosi capire dai cittadini. Se la parola democratico scritta nelle nostre bandiere debba significare prima di tutto dare il potere a chi non ce l'ha. Anche ai cittadini delle periferie metropolitane.
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Operai,
la sinistra distratta Gad Lerner
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ra il 1983 e il 2005 la percentuale del Prodotto interno lordo italiano attribuibile in quota ai profitti d'impresa ha goduto di un balzo poderoso: otto punti di Pil all'insù, corrispondenti in moneta corrente a circa 120 miliardi di euro. Se la ricchezza travasata negli utili aziendali fosse rimasta invece, come prima, nelle buste paga dei lavoratori, si sarebbe evitata loro una decurtazione corrispondente a 7 mila euro di salario all'anno. Tale danno può essere ricalcolato per cautela in 5200 euro annui di perdita, sommando alla platea dei lavoratori dipendenti (17 milioni) anche la variegata galassia degli autonomi (6 milioni). Ma la sua incidenza sul tenore di vita delle famiglie operaie resta in ogni caso decisiva: basti pensare che nel 2009 migliaia di dipendenti Fiat, a causa di prolungati periodi di cassa integrazione, hanno subito un abbassamento di reddito fino alla soglia di 11 mila euro annui. Mese dopo mese, anno dopo anno, un'enorme massa di denaro è stata dirottata dalle buste paga ai dividendi degli azionisti e ai bonus dei manager. La conferma viene dagli studiosi delle disuguaglianze di reddito che adottano per le loro misurazioni un indicatore sintetico, detto “coefficiente di Gini”. L'Italia viene indicata fra le nazioni a più alto tasso di disuguaglianza interna, nell'apposita classifica stilata fra i trenta paesi dell'Ocse. Per l'esattezza figura sesta, superata solo da Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti, Polonia. Le nazioni virtuose, contraddistinte da minori distanze sociali, sono la Danimarca e la Svezia. Ma anche la Germania e la Francia ci surclassano per giustizia redistributiva, mentre Regno Unito e Irlanda si avvicinano al nostro tasso d'ineguaglianza pur senza raggiungerlo. Come spiega Maurizio Franzini (Ricchi e poveri. L'Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, Università Bocconi
Brani tratti dall'introduzione alla nuova edizione del libro Operai di Gad Lerner, edizioni Feltrinelli
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Editore, 2010), il forte divario fra benestanti e non abbienti è da sempre un tratto distintivo del nostro paese, benché negli anni settanta e nei primi anni ottanta si fosse registrata un'attenuazione delle distanze grazie al miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne. Da allora questo tasso d'iniquità, già imbarazzante se confrontato con quello delle altre nazioni industrializzate, ha ripreso ad allargarsi, fino a registrare un balzo repentino fra il 1991 e il 1993 (attribuibile, suppongo, alla recessione economica vissuta oltretutto per la prima volta senza gli effetti protettivi del punto unico di contingenza che per una dozzina d'anni in precedenza aveva frenato gli effetti dell'inflazione sulle buste paga). Il dato è inequivocabile: secondo il Luxemburg Income Studies, il coefficiente di Gini s'impenna dal 29% del 1991 al 34% del 1993. Salirà di un punto ulteriore nel decennio successivo. Per capirsi, secondo gli studiosi un peggioramento di 2 punti del coefficiente di Gini significa in pratica che la metà più povera della popolazione cede il 7% del suo reddito alla metà più ricca. In Italia è andata molto peggio, almeno un quinto del reddito già modesto dei lavoratori è andato perso. Le persone adibite a svolgere lavori manuali non sono certo diminuite di numero, ma in compenso hanno subito un esproprio di ricchezza la cui entità ha oltrepassato le conquiste sindacali dei decenni precedenti. Così le famiglie degli operai sono regredite fino a star peggio –in proporzione- di mezzo secolo prima. Solo parzialmente compensate dall'ingresso nel mercato del lavoro di una più cospicua componente femminile. Del tutto assente, peraltro, è risultata in Italia la correzione redistributiva che altrove lo Stato opera almeno parzialmente, tramite il prelievo fiscale e le politiche di Welfare. La ricerca di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini e Enrico Saltari(L'Italia possibile. Equità e crescita, Brioschi, 2010) dimostra come le nostre istituzioni pubbliche lascino intatta l'iniquità così come la trovano. A suggellare il nuovo rapporto di forza tra imprenditori e salariati giunse nel 1993 un “patto tra produttori” che abbassava drasticamente il costo del lavoro in cambio della promessa di nuovi investimenti. Ma l'effetto fu solo quello di incoraggiare la nascita di numerose micro-imprese fondate sullo sfruttamento intensivo della manodopera. Al sacrificio concesso dai sindacati non corrisposero i nuovi investimenti promessi. Talmente drastica è la decurtazione subita dai lavoratori, da costringerci a rimettere in discussione le teorie 68
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tradizionali sui cicli del conflitto sociale. Perché non si sono ribellati? Perché hanno considerato accettabili le disuguaglianze crescenti a loro danno, per di più enfatizzate dalla nuova cultura spettacolare di un potere che ha utilizzato il lusso e l'ostentazione come strumenti di consenso? Confido che gli interrogativi suscitati dalla lunga stagione di pace sociale trovino parziale risposta nelle testimonianze di vita narrate in questo reportage: già nel corso degli anni ottanta si verificava, infatti, il ridimensionamento del salario a componente parziale del reddito con cui tirano avanti le famiglie operaie. La busta paga si rivelava insufficiente alla loro sussistenza. E' aumentato, viceversa, il ruolo di sostegno esercitato all'interno del nucleo familiare dai titolari di reddito pensionistico, sommato alle entrate occasionali derivanti dal lavoro nero. Solo questo insieme di ammortizzatori spontanei ha scongiurato un crollo verticale del potere d'acquisto e della capacità di consumo complessiva. Il popolo delle formiche si è industriato nell'arte di arrangiarsi, ridimensionando le sue aspettative salariali. Venuta meno la speranza di ottenere miglioramenti per via sindacale e politica, il valore della tranquillità ha prevalso sulla propensione al conflitto. Ma, prima di affrontare gli effetti culturali della disgregazione, credo sia necessario opporre alcuni semplici dati di fatto alla mitologia della metamorfosi di sistema che si è imposta come lascito culturale dopo la sconfitta sindacale del 1980 alla Fiat. E' certamente vero che ebbe inizio in quegli anni una profonda riconversione dell'economia italiana. Il decentramento produttivo ha ridimensionato la centralità della grande fabbrica, moltiplicato le attività esterne a essa, favorito nuovi rapporti di lavoro autonomi e temporanei. Ma neppure la proliferazione di nuove aziende di piccole dimensioni, con il loro contorno di prestazioni autonome e imprese individuali –insomma, neppure la scoperta del capitalismo molecolare- autorizza una lettura “democratica” di un tale spostamento di quote della ricchezza nazionale a favore dei profitti. Anche gli apologeti del popolo delle partite Iva dovranno ammettere, per lo meno, che i benefici del nuovo tessuto produttivo hanno tagliato fuori una massa crescente di persone. Il reddito da capitale avrà pure subito una frammentazione, ma ad avvantaggiarsene sono rimasti in pochi. Mentre risuonava su e giù per la penisola il ritornello autoconsolatorio –“piccolo è bello”- la massa degli esclusi si ampliava sensibilmente. Il periodo storico in cui esplodono le disuguaglianze 69
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Un luogo comune da sfatare è quello che fa coincidere il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori italiani con la concorrenza internazionale di manodopera a basso costo.
Per quanto sia vero che in tutto l'Occidente il lavoro ha perso quota, la brutalità con cui ciò è avvenuto in Italia non ha eguali, né ci ha arrecato vantaggi competitivi.
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–ormai lo sappiamo- non corrisponde a un incremento bensì all'incepparsi della crescita economica italiana. Nonostante lo strapotere conseguito dalle gerarchie aziendali, il tasso di crescita della produttività del lavoro per dipendente colloca il nostro paese all'ultimo posto in classifica, dietro a tutte le principali economie industrializzate. L'ineguaglianza non ha favorito lo sviluppo ma ha contribuito a mortificarlo. Si è verificato l'esatto contrario di quanto avveniva nel ventennio precedente, quando, a partire dal boom economico, l'Italia consolidò la sua struttura produttiva e favorì l'accesso al benessere delle classi subalterne lasciando immutato –si badi bene- il rapporto fra la quota di ricchezza destinata ai profitti e quella destinata al lavoro. Ancora nel 1983 la quota di Pil destinata ai profitti era assestata sul 23,12%. Meno di un quarto del reddito complessivo, proprio come si era registrato lungo tutti gli anni sessanta e settanta. Subito dopo ebbe inizio lo smottamento. Nel 2001 la quota riservata ai profitti toccò il culmine del 32,7%, per attestarsi infine nel 2005 al 31%. E' un'Italia profondamente cambiata quella che entra nel nuovo millennio incrementando da un quarto a un terzo la quota di Pil acquisita dai possessori di capitale. Ecco il risultato del processo avviatosi nell'autunno 1980 con i trentacinque giorni di occupazione dello stabilimento di Mirafiori e con la replica padronale della marcia dei quarantamila, promossa dai quadri Fiat nel centro di Torino: se nel 1983 ai salariati toccava il 76% della ricchezza nazionale, nel 2001 avrebbero dovuto accontentarsi del 68%. Una quota ulteriormente diminuita nel decennio in corso, consegnando all'Italia il titolo poco lusinghiero di avamposto dell'ingiustizia sociale. Un altro luogo comune da sfatare è quello che fa coincidere il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori italiani con la concorrenza internazionale di manodopera a basso costo. Basta uno sguardo alle date: la perdita di valore delle buste paga in Italia anticipa di parecchi anni le delocalizzazioni industriali effettuate per risparmiare sulla forza lavoro, e a maggior ragione le compensazioni salariali più di recente ottenute dagli operai dei paesi emergenti. Il brusco cambiamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro all'interno del nostro paese ha preceduto, non seguito la globalizzazione. Per quanto sia vero che in tutto l'Occidente il lavoro ha perso quota, la brutalità con cui ciò è avvenuto in Italia non ha eguali, né ci ha arrecato vantaggi competitivi.
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Dappertutto i salari sono aumentati meno della produttività dei lavoratori. Dappertutto l'innovazione tecnologica ha reso più frequenti i licenziamenti e accresciuto il potere delle aziende. Vale in tutto l'Occidente anche la circostanza storica per cui gli operai non si erano mai trovati a guadagnare così poco rispetto alla ricchezza nazionale. Ma altrove, se non altro, va riconosciuto che le economie locali hanno usufruito di incrementi di crescita grazie alle riconversioni produttive. Mentre in Italia ai lavoratori è toccata una fetta molto più piccola di una torta a sua volta peggiorata in qualità e quantità. Il lungo ciclo d'impoverimento del lavoro operaio, naturalmente, ha subito un'accelerazione poderosa, non ancora calcolabile, a seguito della grande depressione mondiale avviatasi nel 2008. Con il predominio della speculazione finanziaria che ha sottratto risorse agli investimenti produttivi. Ma tutto ciò non ha determinato una ripresa dei conflitti sociali. Se gli effetti drammatici della recessione sul mondo del lavoro suscitano solo una protesta flebile, talvolta disperata, se la sinistra è ammutolita, del tutto priva di argomenti, mentre insorgono spinte di protezionismo parasindacale e recriminazioni populiste contro la finanza internazionale, lo si deve ancora alla frattura consumata a partire dal 1980 e ratificata dal “patto tra produttori” del 1993. In Italia il paradigma ideologico della classe operaia come classe generale che liberando sé stessa avrebbe liberato l'umanità intera, è stato dapprima piegato dal Partito Comunista alle esigenze della realpolitik –la classe operaia che si carica sulle spalle gli interessi della nazione- per poi essere semplicemente rimosso. Si noti la differenza: in Germania e nel Regno Unito la revisione del marxismo era stata compiuta da decenni, già prima che il neo-liberismo s'imponesse come pensiero unico grazie all'influenza di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, ma preservando nella mentalità e nei modelli organizzativi della sinistra un'attenzione al mondo del lavoro che in Italia, viceversa, è venuta bruscamente meno. La generazione di giovani dirigenti del Partito comunista italiano che ereditarono la leadership di Enrico Berlinguer, e che vent'anni dopo contribuirono alla fondazione del Partito democratico, non ha più intrattenuto alcuna consuetudine con il mondo del lavoro dipendente. Costretta a fare i conti con la dominante cultura neo-liberale, ha ricercato legittimazione in un establishment nazionale di 71
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cui ha tollerato, in cambio, i vizi, sposandone talvolta i comportamenti. Figli di una concezione aristocratica della politica di matrice togliattiana deprivata della sua carica ideologica, i nuovi dirigenti della sinistra italiana hanno perpetuato di quella tradizione solo la diffidenza (talora cinica) nei confronti dei movimenti spontanei della società, tanto più quando ne intuivano la debolezza. Disconosciuta inevitabilmente la centralità degli operai come Classe per sé, gli è venuto naturale ignorare gli operai come persone sempre meno interessanti, anche perché perdenti. L'emancipazione dei lavoratori, disgiunta da un progetto di potere fondato sulla loro insostituibilità, non costituiva più una motivazione sufficiente all'impegno sociale comunitario. Un paradosso marchia così la biografia di questi dirigenti della sinistra. Rescisso il legame esistenziale con gli operai, essi sono approdati finalmente –sia pure per brevi periodi- al governo del paese. Guarda caso, proprio nell'epoca in cui si è verificato, senza che essi riuscissero a porvi freno, il dirottamento della ricchezza nazionale dai salari ai profitti. Probabilmente lo ignoravano. Forse qualcuno di loro riteneva che lo sviluppo della nazione implicasse quel sacrificio da sottacere. Nel riesame autocritico dell'esperienza di governo della sinistra italiana –troppo impacciata per frenare lo scivolamento a destra degli equilibri politici e la degenerazione reazionaria del senso comune- non è mai stato concesso spazio a un bilancio veritiero sulle condizioni di vita delle classi subalterne. Come negarlo? Per anni le fondazioni culturali di matrice post-comunista o socialdemocratica hanno promosso convegni con i banchieri e i principali esponenti del malconcio capitalismo italiano, ma non si ricorda un momento di riflessione significativo dedicato alle difficoltà di rapporto con le organizzazioni sindacali né tanto meno al peggioramento della vita operaia. La responsabilità di questa inadempienza storica è certamente collettiva. Negli anni ottanta si interrompe il circuito delle carriere politiche dal sindacalismo ai vertici del partito. Viene meno anche la consuetudine di eleggere in Parlamento quadri operai rappresentativi dei principali stabilimenti industriali. Il racconto della vita dei lavoratori, nella pubblicistica di sinistra, diviene episodico, distratto, pietistico.
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Le donne tra
uguaglianza e differenza Anna Maria Parente
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guaglianza, libertà, differenza, tre concetti, intimamente connessi tra loro, per rifondare la nostra democrazia. Non si è uguali se non si è liberi, non c'è uguaglianza sostanziale senza il riconoscimento della diversità dell'altro. I movimenti femminili e gli women's studies hanno insegnato molto al riguardo. Uguali a chi? Era la domanda delle donne negli anni 70. E oggi è più che mai attuale per "rianimare" la democrazia la necessità di costituire uno spazio veramente comune in cui l'eguaglianza dei diritti e delle opportunità preservi la differenza delle identità personali a partire dall'irriducibile dialettica uomo/donna. E' questa la grande sfida per una politica moderna che sappia interpretare e aggiornare i processi emancipatori e di liberazione, storicamente costitutivi dei partiti di centro sinistra. L'attualità della nostra bella Costituzione, frutto dell'incontro fra tre grandi correnti politiche e ideali, d'ispirazione cattolica/democratica, social/comunista e liberal/democratica, ci indica il terreno sul quale agire questa politica soprattutto nell'articolo 3. In quest'ultimo, mettendo insieme il principio dell'eguaglianza formale e quello di eguaglianza sostanziale con il concetto di pari dignità sociale, si manifesta il valore delle differenze che non possono giustificare condizioni di sopraffazione e discriminazioni e si assegna alla Repubblica e dunque a tutti noi e non solo alle istituzioni, il compito di rimuovere gli ostacoli per consentire il pieno sviluppo delle persone. La nostra Costituzione realizza dunque la saldatura tra l'apparente contraddizione tra eguaglianza e differenza attraverso il riconoscimento delle pari dignità. L'evoluzione storica della nostra legislazione "al femminile", sempre preceduta da battaglie sindacali, parlamentari e dei movimenti, è emblematica della continua tensione tra universalità dei diritti, concretezza delle singole tutele e creazione di sistemi lavorativi, economici, sociali 73
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Crisi della democrazia accompagnata da gravi difficoltà economiche e sociali, sono le caratteristiche amare del tempo che viviamo.
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dove far convivere le differenze. Alcuni esempi: " Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio", "Azioni positive per la realizzazione della parità uomo/donna. Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città". Attraverso queste tre leggi del 63, del 91 e del 2000 riflettiamo sul percorso: dalla costruzione di condizioni di eguaglianza alla rimozione degli impedimenti per la realizzazione sostanziale delle pari opportunità fino alla promozione di contesti in cui gli uomini e le donne, pur diversi, contribuiscono con pari dignità allo sviluppo umano e sociale. Negli ultimi anni è sembrata affievolirsi questa spinta al progresso delle persone secondo i dettami della nostra Costituzione che non è solo rispetto delle regole, ma continuo pathos per la democrazia. Crisi della democrazia accompagnata da gravi difficoltà economiche e sociali, sono le caratteristiche amare del tempo che viviamo. E dunque per rilanciare il nostro ideale democratico bisogna ripartire dalla concretezza delle situazioni. Le condizioni delle madri sole con figli, delle giovani donne del Sud che non trovano uno sbocco occupazionale pur avendo studiato, delle neo mamme che lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio, delle anziane con pensioni al limite della sussistenza, di quante soffrono di discriminazioni salariali e di poche opportunità di carriera sono lo specchio della realtà odierna. Che è afflitta da problemi generali come la mancata crescita economica, la difficoltà di trovare lavoro per i giovani, l'assenza di mobilità sociale, le arretratezze di alcune zone del paese. Per trovare soluzioni economiche, legislative, contrattuali occorre impostare bene i problemi prendendo esempio e spunto dalle battaglie culturali e civili delle donne nel nostro paese. Una politica di sistema, che dia prospettive di emancipazione ai singoli nella loro irriducibile individualità, di libertà di essere e non solo di avere e che riprenda allo stesso tempo percorsi collettivi di equità e giustizia sociale anche rispetto alle differenze territoriali. Recuperando idee forti come dignità, bene comune, virtù civiche, etica pubblica, come ha testimoniato anche la manifestazione delle donne del 13 febbraio scorso. E' necessario riferirsi a una dimensione radicale della democrazia, la partecipazione dal basso e un agire politico che sia in continuo "ascolto", riaccendendo lo spirito ricostruttivo dei nostri padri e delle nostre madri alla nascita della Repubblica.
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Combattere le disuguaglianze indotte dalla globalizzazione Benedetto XVI Sul tema degli effetti sociali della globalizzazione proponiamo alcuni passaggi del discorso di Benedetto XVI ai partecipanti all'incontro del pontificio consiglio della giustizia e della pace nel cinquantesimo anniversario dell'enciclica “Mater et magistre”, 16 maggio 2011.
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er il beato Giovanni XXIII, la Dottrina sociale della Chiesa ha come luce la Verità, come forza propulsiva l'Amore, come obiettivo la Giustizia (cfr n. 209), una visione della Dottrina sociale, che ho ripreso nell'Enciclica Caritas in veritate, a testimonianza di quella continuità che tiene unito l'intero corpus delle Encicliche sociali. La verità, l'amore, la giustizia, additati dalla Mater et magistra, assieme al principio della destinazione universale dei beni, quali criteri fondamentali per superare gli squilibri sociali e culturali, rimangono i pilastri per interpretare ed avviare a soluzione anche gli squilibri interni all'odierna globalizzazione. A fronte di questi squilibri c'è bisogno del ripristino di una ragione integrale che faccia rinascere il pensiero e l'etica. Senza un pensiero morale che superi l'impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l'uomo d'oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano. Occorre sviluppare sintesi culturali umanistiche aperte alla Trascendenza mediante una nuova evangelizzazione radicata nella legge nuova del Vangelo, la legge dello Spirito a cui più volte ci ha sollecitati il beato Giovanni Paolo II. Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita e potenziata ed è possibile accedere ad una visione più adeguata dello sviluppo, dell'economia e della politica secondo la loro dimensione antropologica e le nuove condizioni storiche. Ed è grazie ad una ragione ripristinata nella sua capacità speculativa e pratica che si può disporre di criteri fondamentali per superare gli squilibri globali, alla luce del bene comune. Infatti, senza la conoscenza del vero bene umano, la carità scivola nel sentimentalismo (cfr n. 3); la giustizia perde la sua «misura» fondamentale; il principio della destinazione universale dei beni viene delegittimato. Dai vari squilibri globali, che
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caratterizzano la nostra epoca, vengono alimentate disparità, differenze di ricchezza, ineguaglianze, che creano problemi di giustizia e di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, specie nei confronti dei più poveri. Ma non sono meno preoccupanti i fenomeni legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all'acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà. Analogamente, l'aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente ricerca di energie alternative guidata, talvolta, da interessi esclusivamente economici di corto termine, finiscono per avere conseguenze negative sull'ambiente, nonché sull'uomo stesso. La questione sociale odierna è senza dubbio questione di giustizia sociale mondiale, come peraltro già ricordava la Mater et magistra cinquant'anni fa, sia pure con riferimento ad un altro contesto. È, inoltre, questione di distribuzioneequa delle risorse materiali ed immateriali, di globalizzazione della democrazia sostanziale, sociale e partecipativa. Per questo, in un contesto ove si vive una progressiva unificazione dell'umanità, è indispensabile che la nuova evangelizzazione del sociale evidenzi le implicanze di una giustizia che va realizzata a livello universale. Con riferimento alla fondazione di tale giustizia va sottolineato che non è possibile realizzarla poggiandosi sul mero consenso sociale, senza riconoscere che questo, per essere duraturo, deve essere radicato nel bene umano universale. Per quanto concerne il piano della realizzazione, la giustizia sociale va attuata nella società civile, nell'economia di mercato (cfr Caritas in veritate n. 35), ma anche da un'autorità politica onesta e trasparente ad essa proporzionata, pure a livello internazionale (cfr ibid., n. 67).
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150° Unità d'Italia: fieri del nostro cammino unitario Giorgio Napolitano
Proponiamo l'intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, tenuto con i rappresentanti dei diversi Stati che hanno accolto l'invito dell'Italia a partecipare alle celebrazioni del 150° dell'Unità il 2 giugno 2011.
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ono certo di rappresentare il naturale sentimento di tutti gli italiani esprimendovi profonda gratitudine per il gesto di amicizia e di omaggio nei confronti della nostra nazione e del nostro popolo che avete inteso compiere accogliendo l'invito a partecipare oggi a Roma alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia. E se abbiamo voluto celebrarlo insieme con voi, è innanzitutto perché la nascita dello Stato nazionale italiano nel 1861 rappresentò un fatto di grande rilievo nella storia dei movimenti nazionali e dei moti di libertà in Europa e per l'evoluzione degli equilibri continentali. Di lì l'importanza internazionale del compimento del moto unitario in Italia: importanza che si sarebbe poi dispiegata sempre di più, toccando il culmine nella seconda metà del secolo scorso. Da allora, infatti, l'Italia ha saputo trovare il suo posto e assumersi le sue responsabilità nella comunità internazionale, in modo particolare come paese fondatore, insieme con i suoi principali vicini, della costruzione di un'Europa integrata e unita. E' il riconoscimento di ciò che abbiamo sentito risuonare nelle generose parole - di cui lo ringrazio vivamente - del Segretario Generale di quella Organizzazione delle Nazioni Unite i cui principi e le cui regole rappresentano per noi il supremo quadro di riferimento. E mi sia consentito di dire come nel calore della partecipazione di voi tutti, malgrado gli impegni di un fitto calendario internazionale, a questa celebrazione, noi abbiamo colto l'eco di un moto universale di simpatia per il nostro paese. Un moto di simpatia suscitato dalle qualità umane migliori del popolo italiano, dallo slancio con cui esso ha saputo superare le prove più difficili della sua storia. Un moto di simpatia suscitato dall'interesse, per non dire
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dall'ammirazione, che sempre ha suscitato e suscita nel mondo il patrimonio storico, culturale, artistico, lo stesso patrimonio naturale che caratterizza l'Italia. Il retaggio di civiltà dell'antica Roma ; il messaggio del Cristianesimo ; lo splendore del Rinascimento ; il succedersi, nei secoli, di straordinarie figure di poeti, di scienziati, di artisti ; la fioritura di una lingua e di una cultura comuni molto prima che l'Italia si unificasse politicamente divenendo Stato nazionale : è di tutto questo che si è nutrita l'idea d'Italia, ispirando, fin dall'inizio dell'Ottocento, quel processo di lotte per l'Unità, di tentativi e di errori, di eroici sacrifici, e di lungimiranti azioni politiche che prese il nome di Risorgimento e giunse all'ambito e sofferto traguardo 150 anni orsono. Vorrei dirvi che siamo consapevoli dell'ineguagliabile valore del patrimonio storico di cui - nella modestia delle nostre persone - siamo eredi come italiani, e quindi della responsabilità che ci spetta di mostrarcene degni custodi e continuatori. Mai dimenticando l'ampiezza di orizzonti, ben oltre i nostri confini, che ha animato gli spiriti più altamente rappresentativi del genio italiano. Scrisse di sé, nei primi anni del XIV secolo, Dante Alighieri: "Noi che pure amiamo Firenze tanto da subire ingiustamente l'esilio per averla amata, abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare".Nei 150 anni trascorsi dal giorno dell'unificazione nazionale, l'Italia ha compiuto un lungo e travagliato cammino. Ci siamo sforzati di ripercorrerlo con spirito critico in occasione di un così solenne anniversario, traendone motivi di lucida consapevolezza, di orgoglio e di fiducia. L'Italia è profondamente cambiata, soprattutto da quando è risorta a vita democratica, riacquistando libertà, unità e indipendenza dopo il ventennio della dittatura fascista e la tragedia della seconda guerra mondiale. Abbiamo diventando Repubblica - fondato una rinnovata convivenza civile sulle solide basi dei lungimiranti principi della Costituzione del 1948. Grazie a uno straordinario sforzo collettivo di ricostruzione, ci siamo non solo sollevati dalle rovine di una guerra sciagurata, ma trasformati e rapidamente sviluppati entrando a far parte dell'area dei paesi più industrializzati e progrediti del mondo. Eppure, eravamo partiti da condizioni di grave arretratezza, 150 anni fa. Non pochi tra voi - Illustri Ospiti sanno che cosa sia stato nel passato il fiume dell'emigrazione italiana: da questo nostro paese, che dopo l'unificazione non riuscì per lungo tempo a offrire prospettive di lavoro a troppi suoi figli, partirono nel corso di un secolo, emigrando nel 79
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resto d'Europa e nel Nuovo Mondo, al di là degli oceani, oltre venticinque milioni di italiani. E' solo da poco più di vent'anni che l'Italia è divenuta invece un paese di immigrazione, fino a registrare una presenza di stranieri pari al 7% della popolazione: ultimo segno della trasformazione che l'economia e la società italiana hanno conosciuto. Sì, abbiamo percorso un lungo cammino e straordinari balzi in avanti: ma non sottovalutiamo il peso di problemi di fondo non risolti, di contraddizioni non superate, di squilibri e tensioni persistenti nel tessuto economico e sociale del paese. Non sottovalutiamo, soprattutto, la portata delle nuove sfide che l'Italia è chiamata ad affrontare in un'epoca di radicale e incessante cambiamento della realtà mondiale. Si tratta di sfide che sono dinanzi al nostro paese in quanto tale, ma anche di sfide comuni che l'Europa unita e l'intera comunità internazionale debbono saper raccogliere e vincere insieme. Ebbene, l'Italia farà la sua parte: perché avanzi nel mondo la causa della pace, dei diritti umani, della democrazia, di un equilibrato, equo, sostenibile sviluppo economico e sociale globale. Non nascondiamo le nostre difficoltà: ma sono certo che voi - Signori Presidenti, Altezze Reali, Illustri Ospiti - saprete guardare con amicizia e con fiducia al nostro impegno. Con l'amicizia che la vostra presenza qui oggi ci ha testimoniato; con la fiducia che l'Italia merita per il lungo corso della sua storia di paese democratico, di soggetto responsabile della comunità europea, atlantica e internazionale.
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150° Unità d'Italia: un primo bilancio Miguel Gotor
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e manifestazioni in corso di svolgimento per festeggiare l'anniversario dell'unità italiana sono state accompagnate da una partecipazione che ha sorpreso i principali osservatori. In particolare, la figura del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è riuscita a catalizzare intorno alla propria persona l'entusiasmo dell'opinione pubblica e i suoi viaggi nelle principali città della penisola, da Torino a Milano, da Reggio Emilia a Firenze, sono stati caratterizzati da un notevole e diffuso successo popolare. Si tratta di un fenomeno originale e inaspettato che merita di essere sottolineato tanto più perché il nostro paese è arrivato all'appuntamento con i festeggiamenti per i suoi 150 anni stanco e sfiduciato, avviluppato in un mediocre e litigioso presente e, quel che è peggio, all'apparenza incapace di progettare il proprio futuro. I giudizi svalutativi sul ruolo del Risorgimento e sulla funzione storica dell'Unità di Italia non stupiscono affatto, anche se hanno la grave responsabilità di dimenticare un punto cruciale: nel 2011 andrebbe ricordato non solo e non tanto il compleanno di una particolare forma storica di Stato, quanto degli ordinamenti costituzionali e liberali del nostro paese. Infatti, sembrerebbe inutile doverlo rammentare, e invece è necessario farlo, che, nel loro tempo, i nemici del Risorgimento non ammettevano le libertà civili né quelle politiche ed è un dato di fatto che la tradizione liberale, laica, democratica italiana viene a coincidere per intero con lo Stato unitario e la sua storia. A prescindere dai convincimenti politici e ideali di ognuno, dobbiamo avere la consapevolezza comune che riflettere su questo appuntamento significa anche celebrare la vitalità di quei principi stabiliti per la prima volta con l'Unità d'Italia e, in seguito, ribaditi con la scelta repubblicana. Una scelta che ha avuto l'indubitabile merito 82
ALTRI CONTRIBUTI storico di ristabilire il nesso tra patria e libertà, recuperando gli ideali propugnati da Risorgimento e traditi dal fascismo che nell'esaltare un'idea di nazione aggressiva e razzista aveva negato all'Italia il valore della libertà di parola, di stampa e di associazione. A questo proposito credo sarebbe opportuno inserire nel dibattito sui 150 anni anche una riflessione più pacata ed equanime sulla cosiddetta Prima Repubblica, che significa considerare gli ultimi sessant'anni di storia nazionale, vale a dire oltre un terzo dell'intero cammino unitario dello Stato italiano. Un tema non secondario perché quel percorso coincide nella sua interezza con la democrazia politica modernamente intesa, quella che pratica il suffragio universale, a prescindere dal censo, dal sesso e dall'istruzione. Eppure si tratta di un dibattito rimosso dal discorso pubblico nazionale e, se si affronta, è solo per esecrare quell'esperienza storica. Sarebbe invece importante discutere dell'ultimo sessantennio repubblicano, evitando caricature disfattiste e senza alcuna ridicola nostalgia perché il passato non si ripropone mai uguale a se stesso; bisognerebbe però farlo con rispetto, con senso di prospettiva storica e con la capacità di formulare un giudizio, malgrado i ritardi, le contraddizioni, gli errori, complessivamente positivo. Perché il nocciolo è che l'Italia della Prima Repubblica, tra il 1946 e il 1993, e quella classe dirigente, democristiana, comunista, socialista, repubblicana, liberale, nonostante enormi difficoltà sociali ed economiche (si pensi all'industrializzazione e ai fenomeni migratori interni) e di carattere politico (si pensi allo stragismo neo-fascista e al terrorismo rosso), è riuscita non solo a conservare la democrazia, ma a consolidarla, garantendo oltre cinquant'anni di pace, di sviluppo e di progresso come non mai, forse, nella plurisecolare storia della penisola. Basterebbe questa constatazione non solo a confermare i vantaggi dell'Unità nazionale, ma a ricordare la superiorità della democrazia rappresentativa rispetto a qualsiasi altra forma di regime politico. Bisognerebbe anche non dimenticare che tutto ciò è stato garantito dai vituperati partiti di massa, che sono riusciti a colmare la tradizionale divisione fra cittadini e politica, fra istituzioni e società civile, che dopo la loro crisi si è ripresentata in forme, retoriche e modalità dalle antiche e fossilizzate radici. È sufficiente leggere i libri di memorie dei protagonisti di quegli anni, dal democristiano Paolo Emilio Taviani al
Credo sarebbe opportuno inserire nel dibattito sui 150 anni anche una riflessione più pacata ed equanime sulla cosiddetta Prima Repubblica.
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L'unità di una nazione è soprattutto nella sua intenzione. È importante valorizzare questa consapevolezza, a partire dalla Carta costituzionale che celebra quell'Italia una e indivisibile che con la Repubblica ha trovato la libertà e la democrazia che sono a fondamento del vivere civile.
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comunista Giorgio Napolitano, dall'europeista Altiero Spinelli al repubblicano Giovanni Spadolini, al socialista Sandro Pertini per avere la chiara percezione che, nonostante le profonde diversità ideologiche e politiche, sono esistiti un cimento e una spinta ideale comuni, un progetto democratico, popolare e nazionale condiviso. L'unità di una nazione è soprattutto nella sua intenzione. È importante valorizzare questa consapevolezza, a partire dalla Carta costituzionale che celebra quell'Italia una e indivisibile che con la Repubblica ha trovato la libertà e la democrazia che sono a fondamento del vivere civile. Una Costituzione nata grazie alla Resistenza che è stato il secondo Risorgimento nazionale perché nel corso del primo il contributo degli strati popolari, i contadini e gli operai, fu necessariamente più limitato. Al contrario, come ricorda nelle sue memorie Paolo Emilio Taviani «Nel secondo Risorgimento tutte le componenti della popolazione - ceti, generazioni, classi, e ambienti - parteciparono in qualche modo alla lotta: chi combattendo in prima persona, chi cospirando nella città, chi fornendo sostegno, ricovero e nascondiglio e quando necessario informazioni e approvvigionamento». E prosegue: «uomini e donne di ogni classe - professionisti, studenti, operai, artigiani, impiegati che compivano attività cospirative avevano attorno a loro un'atmosfera di vigile, se pur necessariamente tacita, solidarietà». Quando l'Assemblea costituente si riunì per ricostruire l'Italia, i Padri costituenti avevano alle spalle vent'anni di dittatura fascista, la sconfitta della guerra, quasi due anni di occupazione straniera, liberatrice al Sud e ferocemente dominatrice al Nord, venti lunghi e interminabili mesi in cui la penisola fu tagliata in due; e infine il collasso dello Stato e delle istituzioni dopo l'8 settembre 1943. Nonostante ciò seppero trovare la forza per rinascere come Stato nella forma repubblicana grazie alla volontà popolare e stabilire un insieme d'istituzioni, regole, principi, bilanciamenti che facessero proprie le istanze di democrazia, di libertà, di progresso civile e sociale di un'Italia che aveva ritrovato la sua unità. E ciò avvenne grazie all'impegno e allo sforzo congiunto di tre grandi processi storici e politici che si svolsero in quel giro di anni recentemente ricordati da Napolitano: la riscossa partigiana e popolare rappresentata dalla Resistenza; il senso dell'onore e la fedeltà all'Italia di quei militari che, a Cefalonia e non solo, si ribellarono ai
ALTRI CONTRIBUTI Tedeschi e scelsero di impegnarsi nella guerra di Liberazione dal nazifascismo; l'intelligenza, la prudenza e il coraggio del fronte antifascista che, malgrado le profonde divisioni ideologiche e politiche, seppero riconoscere i vantaggi di un obiettivo comune per gettare le fondamenta di una nuova Italia democratica da rappresentare nel consesso europeo che si andava formando dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Penso che oggi, purtroppo, stiamo vivendo una crisi di sistema da cui si potrà uscire solo contando sulle nostre forze e senso di responsabilità come fecero i nostri nonni negli anni della ricostruzione postbellica, recuperando uno spirito di coesione politica, sociale e civile. Non servono il disfattismo, né l'autolesionismo, ma rimboccarsi le maniche proprio come avvenne nel Dopoguerra nonostante le divisioni ideologiche e sociali fossero molto più acute di quelle attuali. Eppure quella classe dirigente seppe trovare il minimo comune denominatore che corrispondeva agli interessi nazionali dell'Italia garantendo un lungo periodo di benessere e di sviluppo. Non a caso, un protagonista di quella lontana stagione, l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha ricordato di avere vissuto gli anni della ricostruzione con una frase ben fissa nella mente che era solito ripetersi prima di addormentarsi: «Ci svegliavamo alla mattina convinti che a sera avremmo fatto un passo avanti». Un proposito ancora valido al quale affidare le nostre speranze di riscatto per un nuovo risveglio italiano.
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La primavera araba: il mosaico di un risveglio democratico Fabio Nicolucci
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a primavera araba è ancora in corso, anche se sembra arrivare un'estate termidoriana, ma la sorpresa per il suo arrivo già può essere menzionata come un caso di scuola del fallimento e dell'incapacità di analizzare correttamente processi politici e reali forze in campo. Ancora una volta dopo l'11 settembre, analisti ed esperti occidentali hanno fatto una magra figura, pari solo a quella dei sovietologi nel 1989. Passata la sorpresa, è così venuta la tentazione di dare una spiegazione univoca che semplificasse il quadro. In gran voga è stata una lettura viziata da un sottile pregiudizio antiarabo: gli arabi – che però oramai non sono un solo popolo , ma tante nazioni in cerca dello Stato – avrebbero scatenato una “rivolta per il pane”. Non è così. In questione non è il pane, ma il potere. E l'unico dato unitario è quello che vede in quasi tutti questi paesi un deficit di rappresentanza. Ma qui le analogie si fermano, e cominciano le specificità. Se si tratta infatti ovunque di rose e non di pane, a chiederle sono però di volta in volta soggetti diversi. In Tunisia e in Egitto la richiesta è partita da una nuova classe media di giovani, privati di rappresentanza e dunque di futuro ma con un'idea ben precisa di esso perché cosmopoliti e globalizzati, e che questa volta sono anche riusciti a comunicarsela tra di loro facendola diventare un fatto politico attraverso la “nuova moschea” costituita da Facebook e da Internet. In Tunisia gli utenti di Facebook sono ben due milioni su una popolazione totale di 10. E' una generazione post-islamista, che è riuscita ad allacciare alleanze con il mondo del lavoro sulla base di questa richiesta di rappresentanza. In Libia, invece, la situazione pare diversa. Qui sono invece forti i diversi gruppi islamisti e le 86
ALTRI CONTRIBUTI diverse tribù e clan familiari, che peraltro spesso coincidono. Non a caso la rivolta è partita dalla Cirenaica e da Bengazi, culla degli uni e degli altri rispetto al più conformista e urbano ovest libico. Gheddafi ha però mostrato una certa forza e radicamento, e dunque l'aver fatto della sua eliminazione – fisica, o mediante la Corte Penale Internazionale – una precondizione di ogni processo politico invece del suo obiettivo finale non potrà garantire l'unità del paese e la sua non evoluzione in “stato fallito”. Questo hysteron proteron politico – inversione nel nesso causale tra prima e dopo - di fatto inchioda la situazione in una guerra esistenziale e impedisce la negoziazione di un nuovo ordine politico post Gheddafi. Occorre quindi una strategia capace di fare da levatrice a questo nuovo ordine politico e non solo di predisporre un ricambio al vertice. Cosa succederà dopo Gheddafi in Libia dipende da come e quando Gheddafi se ne andrà. Malgrado la Libia sia marginale nel dibattito nell'amministrazione Obama sul medioriente, al momento incentrato sul che fare in Siria, riformulare la strategia Nato è possibile. L'Italia potrebbe avere un ruolo. Sempre che sia capace di guardare al di fuori dei suoi confini. In Siria, a differenza di Tunisia ed Egitto e come in Giordania, la protesta contro il regime sembra invece nascere socio-economica. Il regime siriano si regge al momento su un'alleanza tra gli alauiti e la classe media sunnita delle grandi città. La rivolta contro il regime non a caso è partita dalla città di Der'aa, un sonnolento sobborgo vicino al confine giordano dove molto forte sono gli ismaeliti e i drusi, etnie arretrate dal punto di vista socio-economico e politico. Una rivolta la cui scintilla è stata la protervia con cui la polizia politica ha arrestato il 15 marzo scorso un gruppo di ragazzini che aveva trovati intenti a vergare sulle mura della propria scuola la frase “as-sh'ab iurìd isqàt an-nizàm” (“il popolo vuole la caduta del regime” in arabo, ndr.) copiando la frase ripetuta migliaia di volte nelle manifestazioni prima tunisine e poi egiziane. La reazione imprevista a Der'aa ha così acceso altre cittadine periferiche come Bania e Homs, dove forti sono le componenti druse e ismaelite, colpite in modo molto duro dalla crisi economica che flagella la Siria da qualche anno. Questa crisi è stata prodotta da un forte siccità iniziata nel 2006, dall'influsso di quasi un milione di profughi dall'Iraq, e dalla crisi sofferta dal settore agricolo - già provato dalla siccità - per le misure di liberalizzazione 87
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La primavera araba è insomma il prodotto di un cambiamento strutturale del sistema politico mediorientale. Un sistema che ha una doppia caratteristica: è una regione a fortissima interdipendenza – politica, religiosa e culturale – ma di debolissima statualità. Ciò ha sottoposto da decenni a forte torsione tutta la regione.
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dell'economia introdotte da Bashar al- Asad all'inizio del suo mandato sia per tentare di modernizzare il paese sia per stringere una forte alleanza con la classe urbana sunnita. Fino a che questa alleanza tra alauiti delle montagne con i mercanti sunniti di Damasco non entra in crisi Bashar al-Asad può stare relativamente tranquillo. In Bahrein e nello Yemen, invece, il motore sono due minoranze non rappresentate: nel primo, la maggioranza sciita della popolazione che è minoranza politica negli assetti di potere; nel secondo, una minoranza sciita a cui si uniscono le spinte secessioniste di una parte del paese – il sud – e di un tessuto tribale mai divenuto Stato. La primavera araba è insomma il prodotto di un cambiamento strutturale del sistema politico mediorientale. Un sistema che ha una doppia caratteristica: è una regione a fortissima interdipendenza – politica, religiosa e culturale – ma di debolissima statualità. Ciò ha sottoposto da decenni a forte torsione tutta la regione. Nel sistema mediorientale gli stati formalmente riconosciuti sulla carta geografica convivono infatti accanto ad altre entità e identità politiche plasmate in modo sotterraneo dalla fortissima pressione dei flussi d'interdipendenza, così da disegnare una vera e propria mappa informale e generare due assetti regionali, uno formale e uno sostanziale, non complementari bensì alternativi tra loro. Il sistema mediorientale è stato dunque sempre in disequilibrio e perciò sensibile sismografo di ogni cambiamento negli equilibri di potenza. L'evoluzione di questo sistema regionale ha così conosciuto tre fasi. Tutte e tre segnate da una guerra che ne ha ridisegnato caratteristiche, potenza di riferimento e classi etnico-religiose in funzione dirigente. La prima è quella che va dalla sua fondazione dopo la prima guerra mondiale fino alla fine della seconda. In essa la potenza di riferimento è la Gran Bretagna, la caratteristica è la fluidità degli assetti statuali in definizione, guidati dai ceti dirigenti del grande latifondo sunnita. La seconda fase è invece quella che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine della Guerra fredda. La potenza di riferimento diventano gli Usa, la sua caratteristica è la linea di faglia del conflitto arabo-israeliano – che contribuisce a militarizzare la regione e a dare forza al fenomeno del cesarismo – i cui processi sono guidati da elité sunnite che si sono urbanizzate.
ALTRI CONTRIBUTI Oggi sembra iniziata la "fine dell'inizio" della fase costituente, con il possibile consolidamento di altri assetti e altri ceti dirigenti. La "primavera araba" che ne segna il rintocco è innanzitutto infatti una rivolta contro il cesarismo che è stata la caratteristica della fase precedente, e il cui costo umano e politico si rivelava sempre più insopportabile via via che ne cadevano le ragioni strutturali che l'avevano motivato. Nasce così un nuovo bipolarismo incentrato da una parte sugli Usa e dall'altra sull'Iran come potenza regionale, e la Cina e la Russia come potenze mondiali. Estensione e caratteri del campo di questo nuovo bipolarismo, e soprattutto la sua connotazione "mite" o militarizzata" dipenderà non solo dagli eventi mondiali più generali, ma anche da come l'occidente saprà parlare non solo alla nuova classe di giovani post islamisti e globalizzati che è protagonista di alcuni di questi processi, ma soprattutto a quella Turchia che ne costituisce il paese di riferimento per cultura politica istituzionale e per il rapporto tra sviluppo e democrazia. Come si è visto dalla morte di Bin Laden e dall'indifferenza con cui è stata accolta in medioriente, ci sono spazi grandi per una nuova cultura della rappresentanza e della democrazia. Occorre allora riparare all'errore fatto verso la Turchia con il limbo imposto alla sua richiesta di aderire all'Ue. Se non per le ragioni di un cuore federalista, sarebbe il caso che tale processo venisse ripreso almeno per quelle del raziocinio di una nuova realpolitik, capace di contribuire all'affermazione di un nuovo medioriente cooperativo e finalmente in equilibrio.
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Le missioni internazionali: onori e oneri per l'Italia Giorgio Tonini
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In un articolo molto critico sulla politica estera del Governo Berlusconi, definita eccentrica e priva di visione, uno dei più autorevoli esponenti della diplomazia italiana, l'exambasciatore Antonio Puri Purini, osservava (sul Corriere della sera del 9 novembre scorso) come le missioni militari italiane all'estero sostengano, pressoché da sole, la credibilità, “verrebbe da dire l'onore”, del nostro paese. In effetti, Stati Uniti a parte, l'Italia è uno dei primi paesi al mondo per impegno nelle missioni internazionali d'imposizione e di mantenimento della pace: solo negli ultimi dodici mesi, tra il secondo semestre del 2010 e il primo del 2011, al netto del contributo all'intervento della Nato in Libia, ancora difficilmente quantificabile, l'Italia ha mobilitato circa 8.500 effettivi, tutti professionisti ben addestrati e molto apprezzati dai comandi internazionali, e una grande quantità di mezzi, terrestri, navali e aerei, per un onere finanziario, a carico del bilancio dello Stato, di quasi un miliardo e mezzo di euro. Alto è stato, in questi anni, anche il costo umano delle missioni: decine di caduti, militari e civili, in combattimento, in attentati o in incidenti; numerosi feriti gravi e un numero imprecisato di ammalati a causa di contaminazioni, come quelle da uranio impoverito. Soprattutto, si tratta di un impegno ormai di lungo periodo: Balcani, Afghanistan, Iraq, Libano, ora Libia, per citare solo i più importanti, sono altrettanti teatri di conflitto che vedono, o hanno visto, una presenza militare dell'Italia, in alcuni casi più che decennale. Si può dire che negli ultimi vent'anni, quelli seguiti alla fine dell'ordine internazionale della Guerra Fredda, e più precisamente dalla prima Guerra del Golfo fino ad oggi, l'impegno italiano nelle missioni militari internazionali è divenuto una costante della nostra politica estera e di difesa. Con la sola eccezione di quella in Iraq, contestata 90
ALTRI CONTRIBUTI perché considerata in qualche modo figlia di un intervento illegittimo e sbagliato, il Partito democratico oggi, come l'Ulivo ieri, ha sempre sostenuto col suo voto in parlamento, sia dal governo che dall'opposizione, le nostre missioni militari all'estero. E per questo ha anche dovuto affrontare un dissenso, in qualche caso esteso, del suo stesso elettorato (basti pensare al Kosovo e all'Afghanistan nella prima fase), oltre ad una divergenza, talora radicale, con gli alleati alla sua sinistra, che è stata tra le cause principali della crisi sia del primo che del secondo governo Prodi. È quindi difficile sopravvalutare l'importanza politica delle missioni militari all'estero: per la radicalità delle questioni che mettono in gioco (la pace e la guerra, il diritto e la forza) e per la rilevanza delle implicazioni che comportano in termini di politica estera e di difesa (la policy che forse più di ogni altra influenza la politics), esse hanno svolto e tuttora svolgono di fatto il ruolo di marcatore privilegiato dell'identità di ogni forza politica, nonché della “credibilità, affidabilità e praticabilità” (Napolitano citando Antonio Giolitti, il 5 maggio scorso) delle coalizioni di governo, che non possono durare in presenza di divergenze di fondo a questo riguardo. Come l'esperienza dei governi di centrosinistra dimostra in modo difficilmente controvertibile. Sulle orme dell'Ulivo, il Partito democratico ha fatto del sostegno alla partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali d'imposizione e mantenimento della pace uno dei suoi tratti identitari. E non semplicemente per ragioni di Realpolitik, o di fedeltà alle alleanze internazionali dell'Italia: anche sulla base di entrambe queste ragioni, i democratici hanno dato vita nel tempo ad un solido framework di cultura politica, costituito da principi di fondo e da analisi geopolitiche di lungo periodo, che può essere utile, almeno sommariamente, richiamare.
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Sul piano dei principi fondamentali, la stella polare che ha orientato la rotta dei democratici è stato, indubbiamente, l'articolo 11 della Costituzione: un testo che, letto nella sua interezza, prevede a un tempo e nella stessa logica, il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; il consenso, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; e la promozione delle organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. L'articolo 11 della Costituzione schiera dunque l'Italia 91
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Il pacifismo costituzionale ha dunque un carattere attivo, interventista e multilateralista: l'Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell'ordine mondiale
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tra i Paesi “pacifisti”, che ripudiano la guerra, se non per legittima difesa. Ma il pacifismo dell'articolo 11 non ha un carattere neutralista o isolazionista. La seconda e la terza proposizione dell'articolo (non a caso composto di un unico comma) escludono in radice questa possibilità: tutto al contrario, esse impegnano l'Italia a promuovere attivamente un ordinamento internazionale che assicuri la pace e la giustizia. E indicano nella limitazione della sovranità nazionale e nella promozione di organizzazioni sopranazionali (quelle che poi saranno la Comunità europea, la Nato e l'Onu), la via maestra per raggiungere un tale scopo. Il pacifismo costituzionale ha dunque un carattere attivo, interventista e multilateralista: l'Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell'ordine mondiale; l'Italia deve intervenire attivamente nel contesto internazionale, ma col duplice vincolo segnato dal fine, che deve essere la promozione di un ordinamento più pacifico e più giusto, e dal mezzo, che deve essere la limitazione della sovranità in un quadro multilaterale e non l'affermazione unilateralistica della sovranità stessa. Parte integrante e qualificante della limitazione della sovranità è la progressiva cessione del monopolio dell'esercizio della forza armata, dal livello statuale (fermo restando il diritto-dovere alla legittima difesa) a quello sovrastatale e multilaterale. È quanto prevede il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che contempla e regola l'uso della forza, da parte della comunità internazionale, per mantenere la pace e la sicurezza. Il nesso strettissimo che lega la Costituzione repubblicana alla Carta delle Nazioni Unite è stato di recente richiamato dal presidente Napolitano nel suo intervento all'Assemblea generale dell'Onu, a New York, il 28 marzo 2011. Dalla tribuna ai piedi del Palazzo di vetro, Napolitano ha definito le scelte compiute dall'Italia, negli stessi anni in cui nascevano le Nazioni Unite, da un lato di abbracciare la democrazia e dall'altro di aderire ad un ordine internazionale multilaterale, come “due facce della stessa medaglia”. Ed ha affermato solennemente che gli ideali contenuti nell'articolo 11 della Costituzione, “fissati nei principi fondamentali della Repubblica, hanno ispirato l'azione internazionale del mio paese nel corso di più di sessant'anni di vita delle Nazioni Unite e in particolare il nostro fattivo contributo alla costruzione delle istituzioni europee sopranazionali”. In quell'importante discorso, Napolitano ha in effetti riaffermato i quattro pilastri fondativi della politica estera italiana, da De Gasperi fino ad oggi: “I due punti fermi della
ALTRI CONTRIBUTI posizione dell'Italia nelle relazioni internazionali – ha detto il presidente della Repubblica – sono stati e sono la creazione e il rafforzamento della Comunità Europea e l'adesione all'Alleanza Atlantica. Le Nazioni Unite (terzo pilastro, ndr) incarnano la medesima scelta multilateralista su scala globale”. Poco prima, nello stesso intervento, Napolitano aveva evidenziato la vocazione mediterranea dell'Italia, il quarto pilastro della nostra politica estera: “La storia, la geografia e la cultura dell'Italia sono radicate nel Mediterraneo… Il nostro futuro risiede in un partenariato condiviso con i nostri amici in Nord Africa, nel Medio Oriente, nel Golfo”. Nelle parole del Capo dello Stato, principi fondamentali etico-politici e linee direttrici geo-politiche di lungo periodo s'incontrano e si fondono in un quadro robusto e solido, quello della costruzione di un ordine internazionale giusto e pacifico, perché fondato su istituzioni solide e durature, rivolte a tale scopo. È lo stesso quadro che, beninteso su un piano diverso e senza alcuna pretesa esclusiva, anzi con l'esplicita ricerca di una condivisione bipartisan di lungo periodo, ha orientato ed orienta la linea di politica estera e di difesa dei democratici italiani.
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Sulla base di questa costellazione di criteri, è stato possibile in questi anni, prima per l'Ulivo e poi per il Pd, sostenere la partecipazione dell'Italia alle missioni militari internazionali, affermandone la piena coerenza con il dettato costituzionale: esse infatti, da un lato non violano l'articolo 11, in quanto non si pongono come azioni di guerra finalizzata a offendere la libertà degli altri popoli, o a risolvere con la forza, anziché col diritto, le controversie internazionali; dall'altro, esse concorrono all'adempimento del precetto costituzionale che impegna l'Italia a collaborare, attraverso il metodo multilaterale, alla costruzione di un ordine internazionale più giusto e più pacifico, nel quale la forza sia posta, per quanto gradualmente e imperfettamente, al servizio del diritto e non sia più essa stessa unica misura dei rapporti internazionali. Naturalmente, non tutte le missioni sono uguali: l'esperienza difficile e anche sofferta di questi vent'anni, ha consentito di definire una gerarchia d'interventi preferibili ad altri, stabilire i confini di un'area problematica, sotto il profilo della legittimità costituzionale, ed escludere decisamente un'ultima tipologia d'interventi. È evidente che l'area di massima preferibilità coincide con quella di massima multilateralità, sotto il profilo della 93
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È da escludere la partecipazione dell'Italia a missioni internazionali prive di legittimazione multilaterale, o addirittura effettuate contro la maggior parte della comunità internazionale, e motivate da obiettivi di assai dubbia legittimità, come il regimechange o la cosiddetta “esportazione della democrazia”: fu questo il caso della guerra contro l'Iraq,
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forma giuridico-politica, e a più marcato carattere di peacekeeping, sotto il profilo delle finalità politico-militari. La missione in Libano (2006), voluta e costruita in primo luogo per l'iniziativa internazionale del governo Prodi, è tra quelle che meglio rispondono a questi criteri: una missione di caschi blu, sotto comando Onu collocato al Palazzo di vetro, e finalizzata a presidiare una frontiera calda, quella israelolibanese, dopo un accordo di cessate il fuoco, del quale la missione d'interposizione è stata una delle clausole decisive. Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, grazie all'impegno dell'Italia, una risoluzione del Consiglio di sicurezza (la n. 1701 dell'11 agosto 2006) ha fermato una guerra e creato le condizioni politiche perché il segretariato generale dell'Onu si dotasse di un comando militare diretto (assunto da un generale italiano), non più delegato a singoli paesi o a organizzazioni militari regionali. La seconda area, più problematica, è quella segnata da una legittimazione multilaterale meno diretta e da un più elevato ricorso all'uso della forza (peace-enforcing), sia pure sempre orientato, quanto alle finalità, alla promozione di un ordinamento di pace e di giustizia tra i popoli e generato da evidenti ragioni di sicurezza internazionale (Afghanistan, 2001) o da gravi emergenze umanitarie (Kosovo, 1998 e Libia, 2011). È l'area nella quale si colloca la maggior parte delle missioni più impegnative, sia politicamente che militarmente, in un ordine decrescente di multilateralità: dall'Afghanistan (e ora dalla Libia), autorizzate da risoluzioni dell'Onu, ma affidate alla Nato (Libia) o a un'ampia coalition of willings (Afghanistan) per la loro conduzione politicomilitare, fino al caso del Kosovo, quando l'intervento contro Belgrado partì privo di autorizzazione dell'Onu, bloccata dal veto russo in Consiglio di sicurezza, pur nell'evidenza di una drammatica catastrofe umanitaria. È invece da escludere la partecipazione dell'Italia a missioni internazionali prive di legittimazione multilaterale, o addirittura effettuate contro la maggior parte della comunità internazionale, e motivate da obiettivi di assai dubbia legittimità, come il regime-change o la cosiddetta “esportazione della democrazia”: fu questo il caso della guerra contro l'Iraq (2003), alla quale l'Italia non poté partecipare, per il veto opposto dal presidente Ciampi, Costituzione alla mano, contro le intenzioni interventiste del governo Berlusconi. L'Italia inviò poi, a guerra finita, una missione di supporto alla difficile transizione irachena, legittimata dalle Nazioni Unite, ma in un quadro di divisione politica, sia internazionale che interna. L'Ulivo votò sempre contro la missione in Iraq, pur nella solidarietà con le nostre
ALTRI CONTRIBUTI forze armate, nell'apprezzamento del loro lavoro e nella condivisione del dolore e del lutto prodotti da diversi gravi episodi bellico-terroristici, a cominciare dalla strage di Nassiriya (12 novembre 2003), la più cruenta della storia delle nostre missioni militari all'estero (19 caduti italiani, tra militari e civili).
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L'applicazione dei criteri generali di legittimità costituzionale ed etico-politica alle singole missioni resta quindi un problema aperto e mai risolto una volta per tutte: il contesto geopolitico è infatti in continuo mutamento e ciò influenza non poco obiettivi e metodi delle missioni. Basti pensare all'alternanza, nell'ultimo quarto di secolo, tra amministrazioni repubblicane e democratiche alla Casa Bianca e quanto essa abbia connotato in modo diverso l'uso della forza nelle relazioni internazionali e influenzato il giudizio delle forze politiche, democratici italiani compresi: dal prudente realismo di Bush padre, all'interventismo umanitario di Clinton (e Blair), fino all'unilateralismo neoconservatore di Bush jr. E ora, alla complessa “dottrina Obama”, alla ricerca, da parte del presidente nero dal nome arabo, di una sintesi tra “realismo” e “idealismo”, tra ridimensionamento “realistico” dell'esposizione americana e occidentale nel mondo, in favore di un più forte e deciso investimento sulle organizzazioni multilaterali, a cominciare dall'Onu, e dovere “idealistico” di sostenere, anche attraverso un uso regolato, proporzionato, misurato della forza, legittimato da quelle stesse organizzazioni, quanti nel mondo, a cominciare, proprio in questi mesi, dai paesi arabo-islamici, si battono per la libertà, la democrazia, i diritti umani fondamentali. Nell'importante discorso tenuto a Oslo il 10 dicembre 2009, nel ricevere il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama ha proposto come bussola, per orientarsi in un passaggio storico di tale, enorme complessità, un pensiero del suo grande predecessore, John F. Kennedy: “Concentriamo il nostro impegno su un'idea di pace più concreta e raggiungibile, affidata non a un'improvvisa rivoluzione dell'umana natura, ma a una graduale evoluzione delle umane istituzioni”. Non si potrebbe, credo, definire meglio il pacifismo dei riformisti, il pacifismo dei democratici.
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