Per il buon governo delle città

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NUMERO 8 APRILE 2012

Per il buon governo delle città contributi di Marc Augè • Lorenzo Bellicini • Gianluca Bocchi • Franco Cardini • Sergio Chiamparino Alessandro Coppola • Paolo Corsini • Fabrizio Di Mascio • Andrea Emiliani • Paolo Fontanelli • Maria Grazia Guida Maria Fortuna Incostante • Anna Lazzarini • Massimo Livi Bacci • Gianfranco Marrone • Roberto Morassut Paolo Perulli • Walter Tocci • Jean-Léonard Touadi • Davide Zoggia



Stefano Di Traglia Direttore responsabile

Franco Monaco Direttore editoriale

Alfredo D’Attorre Coordinatore del Comitato editoriale

Valentina Santarelli Segretaria di redazione

COMITATO EDITORIALE Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini

SOMMARIO FOCUS

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SITO INTERNET

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Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico

Proprietario ed editore Partito Democratico Sede Legale - Direzione e Redazione VIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 Roma Tel. 06/695321 Direttore Responsabile Stefano Di Traglia Registrazione Tribunale di Roma n.270 del 20/09/2011 I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza Creative Commons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate

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Paolo Corsini Crisi e futuro del riformismo urbano

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Walter Tocci

26 www.tamtamdemocratico.it

Pensare la città

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Lo spazio urbano attraverso i secoli

Franco Cardini

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Metamorfosi della città contemporanea Anna Lazzarini

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Urbanizzazione e mobilità Massimo Livi Bacci

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Etnos e urbs, la trama del dialogo Juan Luise Touadì

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Le nuove politiche delle città, uno strano contratto comunitario Paolo Perulli

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La casa nell'era del debito e della crisi finanziaria Lorenzo Bellicini Le autonomie locali e la Ue Fabrizio Di Mascio Città e museo Andrea Emiliani Città d’arte. Il caso pisano Paolo Fontanelli

Fare politica in città, dopo la sezione Alessandro Coppola Il governo urbano: i casi di Roma, Torino, Milano, Bologna, Napoli, Palermo Davide Zoggia Roma, il governo urbano dopo gli anni novanta Roberto Morassut Torino tra crisi e metamorfosi Sergio Chiamparino Milano, dilatare la cittadinanza Maria Grazia Guida Come fare Grande Napoli Maria Fortuna Incostante Palermo tra locale e globale Gianfranco Marrone La rinascita di Berlino, una città tra due secoli Gianluca Bocchi

DOCUMENTI

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La città ideale tra luoghi e non luoghi da Marc Augè, Futuro, Bollati Boringhieri, in uscita

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Per il buon governo delle città

FOCUS

Pensare la città Paolo Corsini

è deputato del Partito Democratico, già sindaco di Brescia

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Alle origini della civiltà occidentale un mito presiede all’idea di città, della polis, dunque della politica che, a sua volta, rimanda a polemos, la guerra.

Una polarità, quella polis-polemos, da non perdere di vista, al fine di sottrarre polis ad una lettura irenica, edulcorata, sottratta a tensioni, a contrasti, sino al conflitto. Già Giovan Battista Vico, in modo forse eterodosso, coglieva questa ambiguità, la fatica per il governo equo della città e la “guerra” per il potere di governo della polis. Ma torniamo pure a città-polis. Qui vale la narrazione di Platone nel Protagora. I Titani Epimeteo (“colui che vede dopo”) e Prometeo (“colui che vede prima”) sono incaricati di distribuire a ciascuna stirpe mortale le “facoltà naturali” che consentono la sopravvivenza associata. Il primo, con una inversione di ruolo rispetto al proprio etimo, provvede alla distribuzione, il secondo ne controllerà il risultato. Purtroppo Epimeteo esaurisce la riserva dei doni disponibili, elargendoli agli “esseri privi di ragione”, lasciando così l’uomo “nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi”. Per rimediare a Prometeo non resta che un gesto sacrilego: il furto ad Efesto ed Atena del fuoco e del sapere tecnico da portare agli uomini. Essi, però, pur venuti in possesso della perizia tecnica, restano sprovvisti dell’ “arte politica” senza la quale vivono dispersi, “alla mercè delle fiere”. È necessario, dunque, l’intervento di Zeus, che, timoroso per la loro sopravvivenza, invia Ermes con due doni divini: il rispetto dell’altro (aidos) e il senso della giustizia (diche). I 5


FOCUS

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La costituzione della polis rappresenta la premessa per lo sviluppo dell’arte politica, quella disciplina, fatta di sapere e di pratica, superiore alla tecnica per il tramite della quale l’uomo “inventò [sì] abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra”, ma non fu in grado di assicurare la convivenza associata della polis che qui assurge pertanto a cominciamento, principio di civilizzazione

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vincoli di legamento e di obbligazione insiti nei doni di Zeus consentiranno, dunque, di instaurare quell’ordine (kosmos) che è a fondamento della città . La costituzione della polis, peraltro, rappresenta la premessa per lo sviluppo dell’arte politica, quella disciplina, fatta di sapere e di pratica, superiore alla tecnica per il tramite della quale l’uomo “inventò [sì] abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra”, ma non fu in grado di assicurare la convivenza associata della polis che qui assurge pertanto a cominciamento, principio di civilizzazione. La città, suggerisce Platone, necessita pertanto di una virtù: il pudore, vale a dire il rispetto dell’altro, il sentimento della prossimità, nonché il senso della giustizia da intendersi come condizione di ordine, di armonia, di possibilità che accada ciò che deve eticamente accadere. L’idea della città come struttura ordinata, retta su un fondamento di organizzazione, dunque governabile attraverso la legge, si conserva e si amplia successivamente presso il mondo romano. Sdoppiandosi. Qui, infatti, la città non è solo urbs, configurazione urbana, forma urbis, struttura urbanistica in perenne evoluzione su di un territorio, ma anche e soprattutto civitas, cittadinanza. Non solo, dunque, agglomerato urbano, ma cittadini costituiti in una totalità, partecipi, pur nei limiti dello jus romano, della sfera del diritto, cittadini che convivono non come moltitudine dispersa in ragione di un insediamento e di una presenza, ma in base allo “stare insieme e vicino” che evoca socievolezza, comunità, appartenenza. Uno slargamento della raffigurazione originaria destinato ad ampliarsi sino alla pienezza del moderno. Come ha osservato Paolo Perulli polis e mercato, ambiente umano e rete tecnica, società locale e nodo globale, centro e confine, urbs e orbis: fino dalle sue origini la città ha sempre mantenuto questo significato duplice, ambivalente, in grado di esprimere al tempo stesso la nostra radice e la nostra mobilità, il nostro stare e il nostro andare oltre. Sino alla metropoli contemporanea, alle forme inedite assunte sullo scorcio del ‘900, sino alla città-regione, alla città-arcipelago, alla città-rete, alla città-globale allorquando – questo l’approdo di uno sviluppo storico – la città “socialdemocratica”, fordista, viene rimodellata, vivendo processi di progressiva verticalizzazione e diventando epicentro di trasformazioni dovute, da un lato, alla concentrazione delle funzioni più avanzate del capitalismo e


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del mercato, dall’altro a precipitosi flussi di popolazione, a profonde redistribuzioni del reddito, a modificazioni persino radicali dei diversi fattori di integrazione culturale e sociale. Sino ad una trasformazione del volto urbano che – così lo descrive Steven Flusty, un critico americano dell’urbanistica contemporanea – finisce con l’annoverare “spazi viscidi e irraggiungibili”, “spazi scabrosi e nervosi” che alludono a preclusione e disintegrazione. Quasi il farsi concreto delle “visioni” di Italo Calvino, quando, a proposito della città di Moriana, annota che “da una parte all’altra la città sembra continui in prospettiva, moltiplicando il suo repertorio di immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un diritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua ed una figura di là che non possono staccarsi né guardarsi”.

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La città come coordinata spaziale in cui la vita di ciascuno è immersa, in cui tutti gli eventi coinvolgevano la cittadinanza in un unico vissuto e si svolgevano nell’ambito dello stesso perimetro urbano, non esiste più.

Già Lewis Mumford, il classico storico della città, avvertiva come essa si potesse configurare soprattutto quale insieme di nodi di una rete di rapporti, “luogo in cui l’esperienza umana si trasforma in segni validi”. In stagioni in cui lo Stato nazionale è entrato in crisi sottoposto, da un lato, a pressanti richieste di cessioni sovranitarie nei confronti di istituzioni sovranazionali ed è investito, dall’altro, da un oneroso sovraccarico di istanze territoriali e locali nel segno del decentramento e del federalismo, la città amplia la propria sfera con l’internazionalizzazione degli scambi economici, con lo sviluppo della comunicazione, con l’affermarsi di una dimensione in cui i diversi fenomeni diventano sempre più inseparabili, interconnessi. E pur tuttavia la città resta l’ambito in cui rimangono insediate e sono fruibili le fondamentali funzioni del vivere associato – dell’amministrazione, del servizio sanitario e assistenziale, dello scambio, della giustizia, del culto, della sociabilità nei luoghi di incontro e di cultura, del tempo del lavoro e del tempo libero, della memoria – fulcri e fori di una vita urbana che si deve altresì misurare con i molteplici “non

FOCUS

Non solo agglomerato urbano, ma cittadini costituiti in una totalità, partecipi, pur nei limiti dello jus romano, della sfera del diritto, cittadini che convivono non come moltitudine dispersa in ragione di un insediamento e di una presenza, ma in base allo “stare insieme e vicino” che evoca socievolezza, comunità, appartenenza

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FOCUS

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Urbano è pure il percorso di formazione delle correnti ideali e politiche, dalle ideologie rinascimentali, a quelle illuministiche, a quelle risorgimentali fino alla nascita della nostra coscienza nazionale

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luoghi” – così li definisce Marc Augé – della modernità, dal centro commerciale, all’aeroporto, dalla multisala cinematografica alle stazioni della metropolitana. Una città in cui si abita ed in cui l’abitare all’incrocio di un sistema di relazioni multiple costituisce – come sosteneva Martin Heidegger – un “tratto fondamentale dell’essere (Sein)”. “Forse – scriveva il filosofo tedesco - cercando di riflettere sull’abitare ed il costruire, mettiamo un po’ meglio in luce come il costruire faccia parte dell’abitare e come riceva da esso il suo essere (Wesen)”. Da qui la necessità, per lui ineludibile, di considerare questa dimensione “fra le cose che meritano che ci si interroghi a loro proposito e che restino nel novero di quelle che meritano vi si pensi”. Vivere la città significa, infatti, situarsi nel “punto di massima concentrazione dell’energia e della cultura di una comunità”. Nel nostro Paese, l’Italia delle cento città, la tradizione storica documenta in effetti un peculiare e permanente carattere urbano. Da Cattaneo a Theodor Schneider – lo storico tedesco che ha dedicato pagine illuminanti alla traiettoria delle nostre città – comune è il riscontro di una centralità oggi in crisi, crisi come valico, passaggio, transizione il cui polo dialettico è il territorio, l’area vasta, una geografia virtuale senza limiti e frontiere. Prevalentemente di origine urbana sono state la nostra cultura, l’organizzazione economico-produttiva e finanziaria, nonché gli assetti istituzionali, lo stesso sedimentarsi delle esperienze civili proprie di un civismo prepolitico. Riferito alla struttura urbana è pure il modello ideale, l’immaginario a lungo inseguito e coltivato nella elaborazione letteraria, filosofica, iconografica – valga l’esemplare raffigurazione del “buon governo” del 1357, dovuta ad Ambrogio Lorenzetti nella sala dei Nove del palazzo municipale di Siena – della forma più avanzata sviluppata, progredita di convivenza. Urbano è pure il percorso di formazione delle correnti ideali e politiche, dalle ideologie rinascimentali, a quelle illuministiche, a quelle risorgimentali fino alla nascita della nostra coscienza nazionale. Urbano è stato l’habitat dello sviluppo industriale, urbano, ancora, il modello preponderante di scambio culturale e di relazioni pubbliche. Dunque l’idea, la cultura della città che un’amministrazione esprime ed in nome della quale opera – non si governa, infatti, una città senza un’idea della città – offre la misura più


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veritiera e probante dell’effettivo grado di rispondenza delle ambizioni di governo coltivate e perseguite in un tempo di repentini mutamenti. Valga il caso di una leva di programmazione del territorio, cruciale per la città, qual’è rappresentata dall’urbanistica. Essa non nasce – l’osservazione va ricondotta ad uno studioso della levatura di Leonardo Benevolo – contemporaneamente ai processi tecnici ed economici che fanno sorgere e trasformano la città moderna, ma si forma in un periodo successivo, “quando gli effetti quantitativi delle trasformazioni in corso sono divenuti evidenti ed entrano in conflitto tra loro, rendendo inevitabile un intervento riparatore”. Presupponendo, dunque, un’idea, una cultura per il governo della città.

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La città di oggi, come riconoscono osservatori di diverse scuole, è il luogo più intenso delle contraddizioni della nostra organizzazione sociale

La città di oggi, come riconoscono osservatori di diverse scuole, è il luogo più intenso delle contraddizioni della nostra organizzazione sociale. Da una parte il concentrato delle differenze e disparità che la nostra società produce (di reddito, di cultura, di consumo, di opportunità), dell’altra è il luogo deputato al risarcimento equitativo, al riscatto umano e civile. Il sistema delle sicurezze sociali a carattere redistributivo è prevalentemente urbano; la cultura urbana è, in senso generale aperta, multipla, fruibile all’accesso; il sistema degli spazi pubblici compensa le ristrettezze e sopperisce alle diverse esigenze di quelli privati.

Eppure la città rappresenta un habitat non facile, un’identità composta da contrasti, da concorrenza e conflitti per l’occupazione degli spazi fisici e l’appropriazione di quelli simbolici. Spesso viene descritta come luogo della solitudine dove più drammatica, persino irrimediabile, può essere l’emarginazione. In città forte è la tentazione dell’esilio e troppo di frequente si trascura il contatto, il rapporto con gli altri in nome di una disposizione solitarista, di una libertà solipsistica, a-relazionale, finendo con lo scoraggiare il rapporto colloquiale, di convivialità, diretto, non mediato tra i cittadini. Un luogo in cui – ha scritto Thomas Maldonado – “tutti presi dalla paura di esporsi cercano affannosamente protezione nella dimora-rifugio, in cui tutti sono in un certo 9


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La città è anche l’ambito entro il quale più intensi sono la percezione e l’esercizio dei diritti di cittadinanza, dove il processo di istituzionalizzazione può essere interiorizzato e concretamente agito dai cittadini

senso esuli, scultori inconsapevoli della ‘emigration intérieure’, in cui le differenze sono brutalmente ghettizzate”. Ma c’è pure l’altra anta perché, di converso, la città è anche l’ambito entro il quale più intensi sono la percezione e l’esercizio dei diritti di cittadinanza, dove il processo di istituzionalizzazione può essere interiorizzato e concretamente agito dai cittadini. Per cui la città dovrebbe essere l’espressione delle multiformi esigenze di una comunità aperta e inclusiva e, insieme, reale opportunità di realizzazione, attraverso un adeguato sistema di servizi, di chances e strategie di vita. Nella realtà è certamente meno, talora molto meno di questo, perché vive nella contraddizione tra quello che è e quello che potrebbe essere, quello che le forze politiche, sociali, economiche, culturali, spirituali realizzano fino a lasciare un segno, impronte riconoscibili. Non è certamente il frutto di una singola volontà demiurgica, né il merito unico o la colpa esclusiva di una classe politica, bensì l’esito di un’immateriale, ma operante e concreta logica sistemica che, pur nei contrasti, nelle contraddizioni, nelle vischiosità, negli stessi conflitti, si afferma. Da qui la necessità di un “municipalismo responsabile” al quale non servono come, alla luce della sua assai felice esperienza amministrativa torinese, ha ammonito Sergio Chiamparino, “palingenetiche reinvenzioni dello Stato su basi che non appartengono alla storia nostra, quanto piuttosto le concrete possibilità per i governi locali di esercitare la discrezionalità propria di ogni vera funzione di governo e sul piano delle risorse materiali e su quello dell’adattamento delle regole alle domande specifiche che salgono dal territorio”.

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La città vive e progredisce se si alimenta di condivise e riconoscibili virtù pubbliche e civiche, di un’etica fatta di storia e memoria, d’identità e appartenenza, di senso di responsabilità e di regole da rispettare. Quell’etica a prescindere dalla quale chi si ritiene sodale e affine, proprio perché civis e quindi portatore insieme di comuni diritti e doveri di reciprocità, rischia di ritrovarsi estraneo ed ostile.

Le virtù della cittadinanza, all’incrocio tra tradizione 10


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classica e affermazione del moderno, tra principi d’ispirazione cristiana e valori connaturati allo spirito laico-repubblicano, presuppongono una città viva, innervata da presenze attive ed evocano, dopo stagioni caratterizzate da invasività dello Stato ed esorbitante ruolo dei partiti, un rapporto tra istituzioni pubbliche e civitas che riconsegni all’impegno della politica l’espressione di una volontà generale, la valorizzazione di un interesse, di un bene comune. Virtù civiche – quelle virtù di cui teorizza Salvatore Natoli – praticate ed agite, di nuovo riscoperte, dopo stagioni di regressione, di deriva incivile, assunte nella loro essenzialità. Quanto al “bene comune” è un bene che precede, assiologicamente, il “bene pubblico” e che non coincide con la sommatoria dei beni dei singoli in quanto è quel bene di tutti da cui i singoli possono attingere e trarre beneficio. Come del resto comprova l’etimologia del termine – valgono qui puntualizzazioni anche recentemente offerte da Giacomo Canobbio – che rimanda sia a “cum munus (munere) cioè a compito condiviso, assunto insieme, sia a cum moenia (moenibus) cioè ad abitazione entro le stesse mura” – torna il tema dell’abitare – e quindi a solidarietà. Insomma una condizione comunitaria che consente di vivere, di convivere, per una causa che trascende gli interessi individuali. Una siffatta prospettiva potrebbe restituire motivazioni e speranza di fronte ad un futuro della città sempre più incerto e meno favorevole per effetto di trasformazioni convulse ed inusitate a motivo dell’affermarsi dell’egoismo dei singoli contro l’esercizio dei diritti di cittadinanza e, nei tempi recenti, soprattutto per le difficoltà insite nel rapporto tra una pluralità di culture. La città non necessita solo, dunque, di una valorizzazione degli spazi pubblici, ma della restituzione di quel senso civile e sociale, di quelle esperienze di interrelazione che sono andate perse e la cui riconquista pretende una cura particolare, un’iniziativa costante da parte degli attori che fanno e producono cittadinanza. Per altro intendere la città come specializzazione di spazi, secondo la modellistica della sociologia urbana classica, certamente non basta. La città non è tale solo in funzione dell’estensione o densità dei suoi luoghi e nemmeno in senso weberiano come “insediamento di mercato”, centro di produzione di beni e di servizi, tantomeno autosufficiente. Essa infatti in quanto comunità vivente si qualifica sempre

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Le virtù della cittadinanza, all’incrocio tra tradizione classica e affermazione del moderno, tra principi d’ispirazione cristiana e valori connaturati allo spirito laicorepubblicano, presuppongono una città viva, innervata da presenze attive

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Promuovere la percezione di appartenenza ad un comune vissuto in vista di una città cooperativa e solidale, consapevole del proprio “patrimonio sociale”

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più come ambito di relazioni sociali, di partecipazione, di autonomia, come luogo, in definitiva, in cui ne va dell’essenza dell’uomo, se alla dirompente frammentazione sa opporre una paziente, tenace ricomposizione in nome di un partecipe sentire civico. Non si tratta di evocare ansie di omogeneità o improbabili omologazioni, né di inseguire appiattimento di differenze o assenza di diversità, ma di promuovere la percezione di appartenenza ad un comune vissuto in vista di una città cooperativa e solidale, consapevole del proprio “patrimonio sociale” che consiste in un insieme di luoghi, di relazioni, di memorie, di affetti, di cultura, di ethos, di corresponsabilità. Una città che raccoglie la sfida della trasformazione, che si impegna a ridisegnare il proprio “statuto di convivenza”, “promuovendo – così ha scritto Giuseppe Samonà – lo sviluppo adeguato degli apparati per i servizi dell’uomo di oggi desideroso di urbanizzarsi in modo corrispondente alle sue molteplici esigenze di vita”. Il riferimento è ad una societas di persone che legittimamente aspirano all’espansione e crescita individuale, ma che dalla colleganza agli altri e all’altro, da questa “umana compagnia”, derivano non una limitazione, piuttosto guadagnano una valorizzazione di sé, un potenziamento, un più alto grado di libertà secondo un equilibrato rapporto tra pubblico e privato, tra etica comunitaria e interesse individuale, fra le passioni dei singoli e il vantaggio di tutti.


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Crisi e futuro

del riformismo urbano Walter Tocci

è deputato del Partito Democratico, già vicesindaco di Roma

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l riformismo urbano ha esaurito la spinta propulsiva. Certo, non mancano le iniziative brillanti di tanti amministratori ma non si vede ancora una capacità inventiva di policies almeno paragonabile a quella che si espresse nella rottura di Tangentopoli: rapporto diretto elettori-sindaco, l'apertura internazionale, le politiche della mobilità, le iniziative culturali, l'avvento dell'architettura contemporanea, l'introduzione del mercato nei servizi, le riforme del New Public Managment, ecc. Questi sono ancora oggi i capitoli fondamentali delle agende di governo delle amministrazioni locali - con l'unica aggiunta delle politiche della sicurezza - ma vengono attuate con fatica crescente a causa dei patti di stabilità e della bulimica produzione normativa statale. Oggi ci troviamo ad un punto di rottura del sistema politico non meno significativo di quello del '93 e dovrebbero esserci le condizioni per un ripensamento delle politiche urbane. Soprattutto il PD dovrebbe essere protagonista di questa innovazione non solo in quanto forza centrale dell'alternativa, ma perché altrimenti la sua funzione di governo ne risulterebbe appannata. I segnali si sono visti nello smacco dei suoi candidati sindaci in città importanti come Milano, Napoli, Genova e Cagliari. Se ne è data una lettura superficiale, mettendo in rilievo le vicende del ceto politico e le regole delle primarie. Ma si è fatta sentire anche la crisi della cultura riformista. Innovare significa anche dimenticare. Per scoprire nuove piste di ricerca bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta. Essa è stata una grande politica riformatrice e proprio per questo tende a conservare un primato teorico e pratico anche quando viene smentita dai fatti. Di tale difficoltà indico tre esempi. 13


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La ristrutturazione di grandi gruppi finanziari e la stessa solvibilità di molte banche dipendono dalla possibilità di esigere in futuro l’attuazione di quelle potenzialità edificatorie. Questa economia di carta e di mattone trova spesso giustificazione e impulso proprio nella scarsità di risorse delle amministrazioni comunali

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Con la scusa del debito – Ai tagli dei bilanci si è risposto gonfiando i diritti edificatori per ottenere in cambio qualche opera pubblica. Si è inventata una zecca immobiliare che stampa una sorta di carta moneta attraverso la creazione di rendita urbana. I suoi plusvalori vengono scambiati tra imprese e banche anche a prescindere dalla effettiva realizzazione, come appunto una moneta circolante. Non solo, la ristrutturazione di grandi gruppi finanziari e la stessa solvibilità di molte banche dipendono dalla possibilità di esigere in futuro l’attuazione di quelle potenzialità edificatorie. Questa economia di carta e di mattone trova spesso giustificazione e impulso proprio nella scarsità di risorse delle amministrazioni comunali. Ma perché le città si sono impoverite? Eppure negli ultimi venti anni c’è stato un boom edilizio paragonabile a quello del dopoguerra con una fortissima crescita dei valori immobiliari, non solo nelle nuove edificazioni ma soprattutto nel già costruito. Questo incremento di ricchezza è andato quasi tutto a vantaggio dei proprietari che lo hanno inserito nel circuito finanziario senza restituire granché in termini di investimenti collettivi. Anzi, si è trattato spesso di un arricchimento immeritato, poiché frutto di una rendita di posizione che aumenta non in base alle iniziative del proprietario, ma solo in ragione del miglioramento generale della vita urbana. La ricchezza prodotta dalla cittadinanza operosa viene acquisita dal ceto parassitario. E tutto ciò introduce un fattore pesantemente distorsivo nell’economia urbana. Rispetto al profitto industriale la rendita immobiliare offre plusvalori di gran lunga superiori, senza neppure l'onere di organizzare un ciclo produttivo. L’acqua va dove trova la strada e in queste condizioni le risorse disponibili vengono attratte dagli usi speculativi a discapito delle attività produttive. La città diventa un’idrovora di rendite e per le innovazioni tecnologiche rimangono solo le retoriche dei convegni. Nel contempo la diseguale appropriazione di valore che ha prodotto il debito si perpetua proprio con la scusa del debito. Infatti, le amministrazioni che non hanno saputo o potuto acquisire una parte significativa della ricchezza immobiliare spesso determinata proprio dal loro buongoverno - sono costrette a mettere in circolazione ulteriore rendita per ottenere in cambio le opere pubbliche. Ciò sembra un guadagno per l'interesse collettivo, ma i valori di quelle opere, spesso presentate come regali alle città, sono


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inferiori ai costi di gestione e di investimento che le nuove costruzioni autorizzate scaricano sulle casse comunali e costituiscono solo una briciola della valorizzazione acquisita dal proprietario. In questo modo la trasformazione urbana produce arricchimento privato e povertà pubblica in un circuito che crea il debito mentre sembra volerlo risolvere. Una nuovo riformismo urbano deve invertire questo ciclo. La rendita prodotta dal buongoverno deve tornare in una quota significativa nella disponibilità collettiva in termini di investimenti pubblici. Questi renderanno più bella ed efficiente la città e di conseguenza aumenterà anche il suo valore, in un ciclo virtuoso che migliorerà sia la vita pubblica sia le opportunità private. Se la rendita viene ripartita equamente non solo non determina debito ma contribuisce al benessere della città. La retorica competitiva – Ogni sindaco ha raccontato una storia di sviluppo alla propria città. Si è favoleggiato sulla neweconomy, sulle classi creative, sulle innovazioni tecnologiche come se fossero processi reali e direttamente dipendenti dall'azione dei Comuni. Ma era solo un omaggio alla retorica economicistica del tempo. In realtà quasi tutte le città italiane hanno partecipato passivamente al declino della produttività determinato dalla difficoltà del Paese a misurarsi con le nuove dinamiche mondiali. Semmai, alle imprese che si ritiravano dalla competizione internazionale il tessuto urbano ha offerto il rifugio non solo della rendita ma anche dei monopoli pubblici privatizzati male (aeroporti, telefoni, energia ecc.). Nella sfera del consumo, invece, il contributo delle città è stato significativo, in particolare con la diffusione dei grandi centri commerciali che hanno avuto effetti marcati sulla struttura urbanistica a favore dell'abbandono di vecchi quartieri e della diffusione dello sprawl a grande scala. Anche i modelli di consumo si sono fortemente divaricati - dal livello massificato a quello del loisir - fino a diventare quasi gli unici caratteri distintivi dei luoghi: dal mall dell'hinterland, al nail-shop della periferia, al loft dell'ex zona industriale. Inoltre, c'è stata un'azione molto positiva delle amministrazioni nella qualificazione dei consumi culturali e nell’attrazione dei flussi turistici. Tutto ciò ha modificato gli stili di vita urbani ed ha conferito alle città immagini suadenti che sono state raccontate dai sindaci sul lato della produzione pur essendo maturate su quello del consumo. Oggi, però la crisi economica ha svelato

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La rendita prodotta dal buongoverno deve tornare in una quota significativa nella disponibilità collettiva in termini di investimenti pubblici. Questi renderanno più bella ed efficiente la città e di conseguenza aumenterà anche il suo valore,

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La crisi economica ha svelato l'insostenibilità di quel modello dei consumi. L'impoverimento dei ceti medi e dei lavoratori indebolisce la domanda e nel contempo l'ossessione dell'offerta consumistica approda ad una sovrapproduzione di merci

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l'insostenibilità di quel modello dei consumi. L'impoverimento dei ceti medi e dei lavoratori indebolisce la domanda e nel contempo l'ossessione dell'offerta consumistica approda ad una sovrapproduzione di merci. È saltato quindi il rapporto tra produzione e consumo. Un contributo a ritrovare l'equilibrio potrebbe venire da nuove politiche urbane, non solo nel campo già positivamente fertilizzato delle iniziative culturali, ma in diversi altri settori: la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, il prendersi cura delle persone, la comunicazione digitale, la filiera corta dell'agricoltura, il ciclo dei rifiuti, la green economy, ecc. In tal senso le aziende dei servizi pubblici andrebbero ripensate come strumenti di politica economica proprio per stimolare nuovi modelli di consumo e di produzione, per creare lavoro curando i servizi della città. Anche qui però bisogna liberarsi dalle dottrine del ventennio che per realizzare la mitica concorrenza hanno imposto una perenne e inconcludente riforma delle aziende locali. Almeno una volta l'anno il legislatore ha modificato le norme di riferimento ma i monopoli non sono stati scalfiti. Tutto ciò ha distorto l'attenzione dei Comuni che si è rivolta più agli asset proprietari che alla qualità del servizio, più alle procedure che agli investimenti, più alle nomine che ai diritti degli utenti. E il paradigma competitivo è stato esteso addirittura all'intera città sempre più interpretata come un'impresa esposta alla concorrenza internazionale, anche se nessuna analisi ha mai dimostrato un’evidenza empirica di tale fenomeno. La competizione tra le città è una delle tante ideologie degli anni Novanta che rientrano nella categoria definita da Paul Krugman del Pop Internationalism (trad. it. Un'ossessione pericolosa, Etas). Ma le retoriche politiche non sono mai senza conseguenze pratiche. Quel paradigma ha rappresentato la città come un attore unico che si muove nel teatro economico ed è servito alle classi dirigenti per raccontare il proprio primato, ma ha oscurato le differenze sociali e culturali che attraversano e talvolta lacerano la vita urbana. Spesso il risveglio è stato amaro, ad esempio, quando è finito il Modello Roma abbiamo scoperto improvvisamente una città frammentata dal disagio sociale e dalle tensioni dell'immigrazione. Occorre tornare a vedere la città eterogenea, le sue striature civili, le sue mura invisibili, le sue ineffabili esclusioni. E la coesione sociale non può essere una retorica nuova che sostituisce la vecchia senza ripensare le politiche. Bisogna


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riscrivere le agende di governo portando al primo posto - per l'impegno di risorse economiche, amministrative e culturali - il compito di costruire un moderno welfare che è prima di tutto una questione urbana. La solitudine dei sindaci – Non a caso il ciclo ventennale è iniziato con la stagione dei sindaci. Questa figura è uscita dalla riforma elettorale del '93 come il perno di qualsiasi intervento riformatore e nella transizione incompiuta di Tangentopoli ha svolto una funzione molto positiva, in gran parte di surroga dei partiti. Tutto ciò ha alimentato un sovraccarico di aspettative e di responsabilità che alla lunga rischiano di sfiancare la stessa funzione istituzionale. Qualche segnale di stanchezza si è palesato nell'ultima tornata amministrativa con un improvviso calo del tasso di conferma dei sindaci uscenti che invece in passato si era attestato sempre su alti livelli. Bisogna aiutare i sindaci a uscire dalla perniciosa solitudine in cui sono stati rinchiusi a causa dei nodi irrisolti nel sistema politico italiano. E si deve uscirne sia in alto sia in basso. In alto, mettendo in discussione tutta l'impostazione dell'intervento statale che ha abbandonato i contenuti per dedicarsi soltanto alle procedure. I tagli lineari, le vacue promesse federaliste e l'ossessione normativa hanno dominato il campo portando quasi al collasso le amministrazioni locali. Nel contempo sono state abrogate le politiche pubbliche che si occupano della vita concreta della gente, dai trasporti, all'istruzione, ai servizi sociali. E le poche eccezioni hanno seguito indirizzi dannosi o inutili: la legge sulla casa è un paravento per nuove speculazioni edilizie mentre altri paesi europei si danno leggi per diminuire il consumo di suolo; i poteri ai sindaci sull'immigrazione sono indirizzati solo alla sicurezza, con risultati peraltro modesti, nella totale assenza di una strategia nazionale di integrazione dei migranti. Si è affermata una malintesa autonomia locale che ha significato da un lato caduta di responsabilità dello Stato verso la condizione urbana e dall'altro un suo ipertrofico intervento legislativo sui bilanci e sulle amministrazioni degli Enti Locali. Fino al delirio dell'attuale governo che è arrivato a eliminare livelli istituzionali per risparmiare sui gettoni di presenza, senza avere alcuna idea sul modello di governo del territorio. Occorre rimettere in agenda grandi politiche nazionali per migliorare la condizione di vita urbana, come fanno tanti paesi europei e la stessa Unione con priorità nei programmi strutturali. Sarebbe curioso che non lo facesse

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Si è affermata una malintesa autonomia locale che ha significato da un lato caduta di responsabilità dello Stato verso la condizione urbana e dall'altro un suo ipertrofico intervento legislativo sui bilanci e sulle amministrazioni degli Enti Locali

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proprio la nazione che più di altre ha sempre fatto scorrere la propria linfa vitale nelle reti delle città. Ma la solitudine dei sindaci va superata soprattutto in basso verso nuove forme di democrazia cittadina. L'uomo solo al comando non ha funzionato nel Paese e ne abbiamo preso atto in modo traumatico. Ma non funziona neppure nelle forme più dolci del governo comunale. I vantaggi iniziali della forte personalizzazione si sono tramutati spesso in evidenti difetti. Doveva assicurare stabilità di lungo periodo, ma il sindaco quasi sempre spreca il secondo mandato pensando a cosa farà da grande. Doveva conferire potenza decisionale, ma quasi sempre questa viene spesa per interventi di corto termine e di sicuro impatto mediatico. Doveva assicurare una relazione diretta con i cittadini, ma più facilmente l'amministratore unico del Comune viene catturato dalle reti dell'establishment urbano. Si riapre il problema di una democrazia governante, di una mediazione nel corpo sociale, di una influenza reale dei cittadini sulla cosa pubblica. I nuovi sindaci di Milano, Napoli e Cagliari sono stati eletti proprio con questa domanda di superamento dell'uomo solo al comando e i primi passi di quelle giunte hanno cercato di dare risposte concrete alle aspettative. Dalla prossima tornata elettorale potranno affermarsi altre amministrazioni decise intraprendere strade nuove.

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Lo spazio urbano attraverso i secoli Franco Cardini

insegna Storia medievale presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze

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a città, come fatto civile e come realtà insediativa, è una presenza antichissima nella storia del genere umano. Negli ultimi tempi, si è parlato di nuovo molto di world history, di “storia universale”: e si è sottolineato quanto difficile sia il reperire categorie concettuali e realtà concrete che si possano trovare in tutte le culture che si sono avvicendate da quando gli esseri umani hanno imparato a convivere fra loro. Una illustre studiosa, Nathalie Zemon-Davis, ha proposto di organizzare i dati che dovrebbero costituire il “comune denominatore” di tutte le civiltà su un sistema di coordinate cartesiane costituito da un asse verticale che collega ai suoi due estremi i valori contrapposti di Potere e di Resistenza al Potere, e da uno orizzontale che rappresenta i due connotati fondamentali dello scambio, il Dare e il Ricevere. Quindi, da una parte tutto quel che si collega (dalla religione al governo politico alle espressioni intellettuali e artistiche) con il potere e le sue forme di espressione e di ricezione, dall'altra tutto quel che riguarda i beni e la loro circolazione. Ebbene: al centro di questo sistema, là dove ascissa e ordinata s'incrociano, si ha appunto la città, nella quale si confrontano le funzioni della manipolazione del Sacro e del sapere, della gestione decisionale e dell'amministrazione della giustizia e infine delle attività legate al lavoro e alla produzione (le “tre funzioni” che Georges Dumézil ha riassunto, studiando le culture indoeuropee, in quella della regalità, del sacerdozio e della produzione: quelle che, per la società medievale europea, Georges Duby ha qualificato, riprendendo appunto la nomenclatura nel medioevo usuale, come dei bellatores, degli oratores e dei laboratores). 19


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Al centro di questo sistema, là dove ascissa e ordinata s'incrociano, si ha appunto la città, nella quale si confrontano le funzioni della manipolazione del Sacro e del sapere, della gestione decisionale e dell'amministrazione della giustizia e infine delle attività legate al lavoro e alla produzione

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Dalle più antiche civiltà del mondo, fiorite millenni fa lungo i grandi fiumi e sul bordo dei mari in Cina, in India e in Egitto (un'altra caratteristica: la città si situa ordinariamente là dove terra ed acqua s'incontrano: l'acqua può essere un oceano o un pozzo al centro di un oasi, ma essa è comunque indispensabile alla vita cittadina nella misura in cui è cellula fondamentale della vita stessa, fin dalle scaturigini biologiche) fino alle megalopoli odierne, la città è l'espressione più intensa della civiltà (e del resto la prossimità filologico-semantica dei due termini, ”città” e “civiltà”, ce li fa sentire come tautologici). Vivere in città, abitare in città, pensare la città. Molti oggi la fuggono, nel nostro Occidente: quelli che possono permettersi ampi e liberi spazi, prati ben pettinati, profumati giardini, salubri boschi. La fuggono a un patto: di vivere a un passo da essa, di poterci tornare come e quanto vogliono. Altrimenti, il loro diventa un esilio. Città-cittadino-civiltà (in latino, civitas-civis-civilitas): tre concetti strettamente connessi, il campo semantico dei quali tende ad intrecciarsi e a sovrapporsi. La città è l'insieme di strutture insediative e di edifici destinati a usi governativi, amministrativi, religiosi, culturali, scientifici, sportivi, nonché di infrastrutture destinate a servirle, come strade, piazze, acquedotti, fontane, depositi, stazioni, sistemi vari di trasporto per passeggeri e per merci, muraglie difensive e via discorrendo. Il cittadino è chi abita la città ma altresì, in senso più ampio, chi si riconosce in una realtà istituzionale alla gestione della quale in vario modo contribuisce, con diritti e doveri volta per volta precisati e precisabili; la civiltà è l'insieme dei valori espressi dalla convivenza dei cittadini e dalla loro autocoscienza comunitaria, dal loro senso – come oggi si ama dire – identitario. Negli idiomi neolatini, questi campi semantici entrano in correlazione con altri, derivanti dalla parola urbs e derivati (urbs, urbanus, urbanitas), che si riferisce, almeno nel mondo latino, alla città non tanto come insieme di abitanti quanto piuttosto alle strutture e agli edifici. Ma che cosa fa la città? Non certo la densità degli abitanti, né l’estensione del perimetro urbano, né gli edifici o il traffico o la ricchezza. Fino dall’Alto Medioevo, un vescovo iberico, Isidoro di Siviglia, proclamava che esiste la città di pietra (o di legno, o di fango, o di mattoni, o di paglia, o di cemento armato, o di vetro e acciaio...) e la città degli uomini; che sono gli abitanti, cioè i cittadini, a far la città.


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Nella misura in cui si sentono, appunto, città. Lo aveva già detto, del resto, il vecchio Aristotele nella Politica: “L’associazione di più villaggi è la città, che basta a se stessa, cioè si forma per perseguire la perfezione dell’esistenza... L’uomo è un essere politico, cioè fatto per vivere in città”. È partendo da Aristotele e considerando la polis greca e il comune medievale come fenomeni tipici ed esclusivi dell’Occidente nel loro porsi quali centri autonomi, che Max Weber in un celebre saggio uscito postumo – ma composto tra 1909 e 1912 – delinea la specificità esclusiva della città occidentale come capacità di porsi quale centro autonomo a talora autocefalo di potere. Città come sinonimo peraltro di sedentarietà, quindi correlativa ad attività che richiedono una qualche stanzialità – come l'agricoltura e la manifattura/industria – laddove pastorizia e commercio si organizzano piuttosto sull'asse che alla città è parallelo, quello delle vie terrestre o marittime (dal XX secolo anche aeree) di comunicazione. Ma una struttura insediativa pensata come mobile, può avere con la dimensione urbana solo un rapporto in fondo

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Una struttura insediativa pensata come mobile, può avere con la dimensione urbana solo un rapporto in fondo precario e transitorio: si parla di accampamenti di nomadi come di “città”, ma solo e nella misura in cui il nomade decide di optare per l'abbandono almeno parziale del suo stato passando dall’accampamento alla città carovaniera

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precario e transitorio: si parla di accampamenti di nomadi come di “città”, ma solo e nella misura in cui il nomade decide di optare per l'abbandono almeno parziale del suo stato passando dall’accampamento alla città carovaniera. I romani, che ostruivano “città mobili” per le loro esigenze militari, i castra, impiantavano spesso nuove città sul loro orientamento fondato sui quattro punti cardinali, ma allora i castra divenivano castrum, disposti a evolversi nelle forme urbanistico-istituzionali dell'urbs o dell'oppidum. È proprio sulla misura della fondazione della città che sedentari e nomadi si confrontano e si scontrano: lo si vede bene nei miti che presentano l'inimicizia mortale di contadini e di allevatori. Il contadino Caino uccide il pastore Abele e i suoi discendenti fondano le città, che la stirpe nomade di Abele non conosce; il contadino Romolo uccide il pastore Remo che ha violato il”sacro tracciato” dell'aratro delimitante lo spazio urbano. La città nasce su un rito di fondazione ch'è un sacrifizio, un atto di violenza. Nel tempo presente, caratterizzato dall’eclisse degli stati e dall’emergere “puntiforme” di centri di forza, di produzione, di know how tecnologico, la città si ripropone come un luogo ideale d’irradiazione di nuovi valori e di nuove esperienze in un mondo che - com’è stato detto - si muove in termini informatico-telematici, come cioè se i centri fossero dappertutto, infiniti, simultanei, e non vi fossero più né periferie, né circonferenze. Ciò, quanto meno, nell’esperienza di chi questi centri gestisce o quanto meno di chi vi risiede contribuendo attivamente alla loro conduzione. Ma è davvero la città occidentale la “madre” esclusiva e specifica di tutto ciò? O non si tratta, invece, di una condizione strutturale, senza la quale la città come fenomeno civile e culturale – e non solo urbanistico – neppure esisterebbe? Torniamo all’antico conflitto (in gran parte mitico) tra sedentari e agricoltori, ben caratterizzato da due “miti di fondazione”: quello pagano etrusco-italico di Roma e quello ebraico di Caino e Abele. La coppia Romolo e Remo è del tutto simmetrica a quella Caino e Abele: e, in entrambi i miti, il nomade pastore soccombe al contadino agricoltore. Ma dal maledetto Caino nascerà la stirpe dei costruttori di città, dei fabbri, dei musici, il che configura un originario tabù biblico del vivere in agglomerati sedentari e di servirsi della tecnologia: i caratteri che renderanno la città di Roma, con Romolo, candidata a un grande destino. Ben conscia di questo suo carattere irradiatore di cultura,


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la città ha sempre cercato di affermare questa sua vocazione. Città-capitali, città-tempio, città-reggia, città-simbolo, dove le istituzioni e le funzioni civili potevano presentarsi in vario modo. Se si resta fedeli alla vecchia visione duméziliana delle tre funzioni-base (la sacrale-religiosa, la politico-giuridicomilitare, la produttiva), vediamo ad esempio come poleis greche e città romane tendano a valorizzare i centri urbani della religiosità e della politica – acropoli, campidoglio, agorà, forum – e a nascondere in quanto “meno nobili” i mercati, cioè il ventre cittadino. Per contro le città medievali, che non sono più centri amministrativi dove si consumano i beni bensì centri di produzione, pongono tranquillamente le piazze del mercato accanto a quelle del duomo e del palazzo comunale. Nell’Apocalisse di Giovanni, l’Agnello sta al centro della Città di Dio, la Nuova Gerusalemme. Sembra che le grandi civiltà si siano tutte e sempre espresse in termini cittadini: e che, attraverso la forma e il decoro della città, abbiano voluto definire ed esprimere il centro concettuale del loro messaggio civile. Non a caso, molte città avevano alla base della loro ispirazione planimetrica una volontà di compendiare l’universo e al tempo stesso di rappresentarlo: così Babilonia, Roma, Baghdad, ma anche Cuzco e Pechino. Alessandro scelse Babilonia come centro del suo impero eurasiatico e una città di nuova fondazione, la marittima Alessandria, come autorappresentazione del suo potere. L’Atene di Pericle e, secondo il suo modello, la Roma di Augusto intendevano, nello splendido equilibrio delle loro aree dedicate al culto, alla vita politica e a quella intellettuale e fisica, suggerire una misura d’equilibrio interiore cui il cittadino doveva ispirarsi. Il carattere normativo della città di Roma quale capitale d’impero presiedette, a sua volta, al costruirsi di quelle che, nelle rispettive civiltà, vollero imitarla proponendosi a loro volta come caput mundi: la Costantinopoli di Giustiniano, l’Istanbul di Solimano, la Mosca di Ivan il Terribile, la Parigi del Re Sole, la Pietroburgo di Pietro I, la Vienna di Carlo VI e di Maria Teresa, la Berlino di Federico II, la Washington dall’impianto massonico e neoclassico di P.-Ch. L’Enfant, la Londra di Vittoria, la Parigi di Napoleone III e di Haussmann. Sono le “capitali dell’impero”: alle quali avrebbe dovuto aggiungersi, nella fantasia dominata da sogni demiurgici e titanici di Adolf Hitler e sostenuta dall’abilità di Albert Speer,

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La coppia Romolo e Remo è del tutto simmetrica a quella Caino e Abele: e, in entrambi i miti, il nomade pastore soccombe al contadino agricoltore. Ma dal maledetto Caino nascerà la stirpe dei costruttori di città, dei fabbri, dei musici, il che configura un originario tabù biblico del vivere in agglomerati sedentari e di servirsi della tecnologia

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La New York di Manhattan, la Sidney dalle ardue architetture, la Hong Kong e la Shangai attuali, hanno saputo interpretare bene le caratteristiche del nostro tempo: l’ansia di sperimentazione, la ricerca della novità nel Bello, l’unione tra forme classiche e rivisitazioni moderne, il trionfo della forza

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la nuova “Germania” (tale il nome che Berlino avrebbe dovuto assumere, all’indomani dell’Immancabile Vittoria). Le “capitali d’impero” si alimentano sovente, inglobandolo, dell’utopia già antica, ma soprattutto rinascimentale, della “città ideale”: che, al di là della planimetria del Filarete e di Leonardo (in parte tradotte in realtà, da Urbino a Rimini a Pienza a Palmanova), hanno generato piuttosto emuli contemporanei di pur differente valore: si pensi ad esempi pur tanto diversi tra loro, quali le città fasciste dell’Agro Pontino e Brasilia. Accanto al modello “romano”, importante quello gerosolimitano. E’ l’impianto delle nostre città del medioevo, che spesso nella letteratura statutaria si definiscono “figlie di Gerusalemme” e che ripetono forme e dimensioni della basilica del Santo Sepolcro in molti loro monumenti cittadini: lo si vede nella Piazza dei Miracoli a Pisa e in Santo Stefano a Bologna. In queste città, prevale d’altronde una forma urbis ispirata alle grandi famiglie aristocratiche e/o imprenditoriali, dove chiese, palazzi e case risentono della compresenza e delle rivalità dei casati riuniti attorno alle chiese monumentali nelle quali hanno sepoltura. Così la Firenze prima dei Medici; così Bologna; così Venezia e Genova aristocratico-mercantili; così la stessa Roma, città dei papi ma – non bisogna dimenticarlo – soprattutto dei cardinali che l’adorneranno dei loro palazzi nell’età in cui i pontefici si serviranno di Michelangelo e del Bernini. La New York di Manhattan, la Sidney dalle ardue architetture, la Hong Kong e la Shangai attuali, hanno saputo interpretare bene le caratteristiche del nostro tempo: l’ansia di sperimentazione, la ricerca della novità nel Bello, l’unione tra forme classiche e rivisitazioni moderne, il trionfo della forza attraverso non più i modelli di potenza politicomilitare, ma quelli di potenza economico-tecnologica (le banche, un tempo costruite a forma di cattedrale...), la contaminazione degli stili (si pensi a due soli esempi newyorkesi: lo stile “reggia” della Central Station e l’ispirazione del Chrysler Building alle forme della gioielleria e della bigiotteria newenglander del primo XX secolo). Come leggere il fatto che, oggi, molte nuove sperimentazioni architettoniche urbanistiche vengono compiute all’interno della progettazione di grandi moschee? Ogni città dei tempi passati, ogni grande città, ha sempre obbedito a un suo criterio di marketing urbano: ha saputo


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cioè “vendersi” nell’atto stesso in cui si proponeva come modello. Il punto consiste nel messaggio paradigmatico che la città del passato ha offerto, e che quella del presente può ancora offrire. Anni fa, un architetto disse che le Twin Towers di New York non veicolavano valori meno intensi del Partenone di Atene. Un’osservazione tuttavia che, riletta dopo l'11 settembre 2001, non manca di mettere i brividi. D'altronde, lo stesso Partenone – guarda caso... – saltò in aria nel corso di una guerra che alcuni considerano dotata di caratteristiche di “scontro di civiltà” tra Occidente e Islam: esplose perché i turchi ne avevano fatto una polveriera sulla quale caddero alla fine del Seicento, durante la “guerra di Morea”, le bombe esplose dai cannoni delle navi veneziane assedianti la città di Atene allora in potere degli ottomani. Corsi e ricorsi storici?

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Metamorfosi

della città contemporanea Anna Lazzarini

è ricercatrice presso l’Università di Bergamo

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a città contemporanea è travolta da cambiamenti inediti e repentini. Si ridisegna lo spazio, si modificano le modalità dell’essere insieme, si ridefiniscono i confini. La città si diffonde e si fa evanescente, disegnando forme ancora impensate. Oggi, nel contesto globale, soprattutto per il declino delle funzioni tradizionali dello stato nazionale, le città sono l’epicentro della riorganizzazione delle dinamiche economiche, sociali e culturali, nonché dell’articolazione dello spazio e del tempo. Per questo la città costituisce uno spazio privilegiato di osservazione e di analisi. È il “laboratorio” più interessante in cui queste dinamiche prendono forma: rappresenta la

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società per intero, diventa il luogo in cui mobilità, flussi, reti prendono corpo. La città europea moderna, sia pure con tensioni e contraddizioni, presentava un disegno politico coerente, un forte isomorfismo tra funzioni, saperi, poteri e territori: aveva saputo organizzare al proprio interno individui, gruppi, attività e servizi secondo i principi integratori dello stato nazionale e secondo una logica spaziale funzionale alla fabbrica manifatturiera. Certo, tale razionale organizzazione non ha saputo evitare l’insorgere di contraddizioni vistose che riguardano l’ordine territoriale e l’ordine sociale: l’accentuarsi delle diseguaglianze e l’affiorare di gravi sofferenze sociali, con effetti di ghettizzazione ed emarginazione; la forte dissipazione delle risorse; la riduzione delle potenzialità autopropulsive dei territori; la congestione spazio-temporale; una sostanziale perdita di abitabilità dei luoghi. Certo, i cambiamenti sono stati numerosi e rapidi. Ma fino a qualche decennio fa non avevano sconvolto il disegno urbano e la sua logica di fondo: le istituzioni dello stato nazionale e la fabbrica costituivano il perno concettuale e spaziale della configurazione urbana, articolando il rapporto fra aree residenziali, produttive, di transito. Tuttavia, con la crisi del sistema incentrato sulla grande fabbrica, e con il decentramento e la disseminazione della produzione al di fuori del tessuto urbano, si è assistito al rapido declino della città moderna. E contemporaneamente, la nascita della rete globale, in modo sempre più indipendente dai confini nazionali, ha attivato relazioni e scambi che riorganizzano spazi e funzioni dei territori e delle città. La rete modifica profondamente i processi di produzione, di diffusione e di scambio, così come le forme dell’esperienza, della comunicazione e della cultura stessa. I processi globali trasformano non solo la vita economica, sociale, politica e culturale della città: essi generano anche precise configurazioni spazio-temporali, incidono sulle forme stesse della città. Nel contesto globale, le città cambiano ruolo e natura. La città costituisce oggi il punto di intersezione fra locale e globale, fra luoghi e flussi: ripensare la città e il suo governo, significa interrogare criticamente questa relazione. I confini urbani si trasformano. La città si diffonde sul territorio, si espande, si dissemina: rispetto alla città moderna mutano gli assi tradizionali di espansione; le relazioni fra

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La città europea moderna, sia pure con tensioni e contraddizioni, presentava un disegno politico coerente, un forte isomorfismo tra funzioni, saperi, poteri e territori

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Alcuni luoghi sembrano concentrare in modo emblematico le metamorfosi che si rendono visibili sul corpo delle città. Sono gli spazi pubblici urbani: “pubblici” perché non hanno solo significato funzionale, ma esprimono anche valore sociale, quali luoghi di incontro e di aggregazione

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centro e periferia; il significato dei luoghi simbolici tradizionali. Nella dispersione spaziale delle attività economiche, politiche e culturali, la città continua a svolgere attività e funzioni “centrali” (produttive, commerciali, terziarie). Tuttavia, tali funzioni sono sempre meno riconducibili a localizzazioni precise e a immagini riconoscibili, come quelle che in passato si esprimevano nella dialettica centro-periferia. La diffusione della città si manifesta in una sorta di continuum urbanizzato e nella densificazione attorno ad alcuni nodi. Si assiste a una “specializzazione” di aree del territorio (commercio, tempo libero, sanità, cultura): il territorio si fa multipolare. Queste caratteristiche richiedono una capacità di integrazione nuova dei territori, una nuova reticolarità. Le città, così come l’intero pianeta, sono percorse da flussi ininterrotti di capitali, beni, merci, informazioni, persone, simboli…Tuttavia, per quanto entro uno spazio di attraversamento, di mobilità incessante e di scambi, le città reali continuano a essere costruite sui luoghi. I flussi sono trasferimenti da un luogo a un altro luogo: la mobilità contemporanea, per quanto “fluida” o “liquida”, non è in antitesi all’esistenza dei luoghi, poiché tale mobilità prende corpo e accade proprio dentro i luoghi, fra i luoghi. In particolare, alcuni luoghi sembrano concentrare in modo emblematico le metamorfosi che si rendono visibili sul corpo delle città. Sono gli spazi pubblici urbani: “pubblici” perché non hanno solo significato funzionale, ma esprimono anche valore sociale, quali luoghi di incontro e di aggregazione. Lo spazio pubblico è uno spazio fisico e relazionale al tempo stesso: è costituito da forme costruite, da spazi naturali e artificiali; ma anche da forme sociali, da persone, gruppi e dalle loro interazioni. Per questo, pensare lo spazio pubblico è pensare insieme gli spazi e chi li abita, comprendere il rapporto fra le forme di socialità e le articolazioni spaziali e architettoniche. La sfera pubblica, nonostante gli straordinari sviluppi tecnologici, necessita di configurazioni materiali, di luoghi, in cui l’interazione sociale e politica possa svolgersi e rendersi visibile. Oggi assistiamo a un processo ambivalente. Da una parte, la città cerca di regolamentare gli spazi pubblici attraverso la loro privatizzazione (alcuni luoghi sono diventati semplici percorsi di transito, o sono stati consegnati a funzioni di tipo


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prettamente economico) e attraverso l’omogeneizzazione progressiva dei gruppi (per culture, stili di vita, redditi) fino alla segregazione sociale e funzionale. In questo senso la città sembra avere perso la sua capacità di dare corpo alla società, di mostrare le diversità e le interdipendenze, di rendere le differenze meno minacciose e più familiari. Dall’altra parte, negli spazi pubblici, nelle zone di confine, materiali e immateriali, si generano interazioni, significati, rappresentazioni, narrazioni, negoziazioni. Si tratta di pratiche molteplici, un proliferare disseminato di attività e modi di fare spesso creativi, pur se provvisori, che in genere hanno a che fare con l’uso dello spazio, con la possibilità di muoversi, di trasformarlo, di occuparlo con i corpi. La città oggi si trova di fronte alla sfida di ricercare punti di incontro, di mediazione fra vissuti e fra mondi culturali e simbolici differenti: essa diventa lo spazio privilegiato della traduzione. Tutte queste trasformazioni interrogano la politica e chiedono forme rinnovate di governo. La città è oggi il contesto dove la politica riesce ancora a resistere alla crisi di senso, di linguaggio e di motivazione che da molti anni la attraversa. Certo, nel contesto globale possibilità e strumenti stessi di governo cambiano. Negli spazi urbani si esprime una gerarchia di scale diverse, che articolano spazi di governo e giurisdizioni: le città sono attori in grado di giocare decisivi ruoli multi-livello, dalla scala regionale e nazionale alla scala europea e globale. Inoltre i cambiamenti morfologici e strutturali comportano inedite problematiche sociali, demografiche, economiche e politiche. Se le città contemporanee si sviluppano all’intreccio tra flussi e luoghi, la struttura del governo urbano territoriale, nazionale e internazionale, con i suoi linguaggi, le sue pratiche, i suoi confini, i suoi organi istituzionali, i suoi riti, non funziona più, perché ha ormai poco a che fare con la natura integrata, simultanea e transnazionale delle reti e dei flussi. È necessario assumere un modello di governo dei processi incentrato su forme di coordinamento, autorganizzazione e capacità di gestire complesse reti di attori, di interessi e di linguaggi. Questa è la governance, la capacità di articolare e coordinare interessi, attori, organizzazioni locali, di rappresentarli all’esterno, di sviluppare strategie di relazione con lo stato, il mercato, le altre città e gli altri livelli di governo. Nel tessuto urbano l’intreccio tra flussi, reti, luoghi e corpi

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La città sembra avere perso la sua capacità di dare corpo alla società, di mostrare le diversità e le interdipendenze, di rendere le differenze meno minacciose e più familiari

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La città manifesta una intrinseca matrice relazionale, una possibilità capacità di stabilire relazioni, nei luoghi e nel territorio, come anche nella rete dei flussi

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prospetta forme inedite di convivenza. La città manifesta una intrinseca matrice relazionale, una possibilità/capacità di stabilire relazioni, nei luoghi e nel territorio, come anche nella rete dei flussi. Questa capacità è la cifra peculiare per definire forme spaziali e simboliche, ma anche forme di socialità. La città si struttura in base alle relazioni che stabilisce, alle interdipendenze che attiva e alle funzioni che ospita: alla capacità di mantenere e valorizzare le connessioni interne, di arricchire quelle esterne. Per queste ragioni la città è un laboratorio politico di grande interesse. Malgrado le incessanti metamorfosi cui è sottoposta, la città può continuare a generare forme materiali e simboliche, a plasmare le relazioni sociali, a offrire alla politica contenuti, linguaggi e pratiche. Una politica che torni a essere l’arte preziosa di “fare città”.


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Urbanizzazione

e mobilità Massimo Livi Bacci

è demografo e senatore del Partito Democratico

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in dal tardo medioevo, l'Italia è stata di gran lunga il paese più urbanizzato d'Europa. All’inizio del Trecento, prima della peste, Firenze, Venezia e Milano erano tra le città più popolose, assieme a Cordoba, Siviglia e Parigi. Fino alla chiusa del Seicento – quando lo sviluppo dei paesi dell'Europa centrale e settentrionale si fece più rapido e l'Italia perse il suo primato economico – la rete urbana di piccole, medie e grandi città era la più densa e popolosa del continente, ad eccezione di quella delle Fiandre e dei Paesi Bassi, che peraltro insisteva su un territorio molto più piccolo. La rivoluzione industriale tolse definitivamente il primato urbano all'Italia, col sorgere dei grandi agglomerati industriali, l'ampliarsi dei mercati, il sorgere di importanti attività terziarie. Alla proclamazione del Regno d’Italia Napoli era la città più grande d'Italia, e la terza più popolosa d'Europa, dopo Londra e Parigi. E oggi Roma ha poco più del doppio degli abitanti che contava al culmine della sua espansione in epoca classica, mentre Venezia (la città, non il comune) ha oggi meno abitanti di quanti ne avesse all’inizio del Trecento. Non inganni, allora, il ricordo di un'Italia prevalentemente rurale del secondo dopoguerra, quando ancora non era iniziato il vivace processo di migrazione interna degli anni '50 e '60. Un paese che era uscito con le ossa rotte dal ventennio fascista, che aveva tentato – con l'ideologia ma anche con le politiche contro l'urbanesimo – di frenare o invertire un processo di urbanizzazione che percorreva l'intera Europa 31


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La rete urbana del Mezzogiorno è meno densa e articolata di quella del Centro Nord e la debolezza delle infrastrutture si riflette in una minore interazione tra le città

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e che aveva riguardato anche l'Italia fino alla prima guerra mondiale. Gli Italiani di sessant'anni fa, benché in maggioranza legati ai modi di vita delle campagne, erano fortemente condizionati dalla tradizione urbana. Chi viveva nelle campagne riconosceva il "predominio" della città – un predominio di civiltà, oltreché economico, politico e sociale. Gli emigranti che dagli anni '80 dell'Ottocento agli anni '20 del Novecento avevano abbandonato le campagne, si erano riversati in Europa e oltreoceano, e prevalentemente nelle grandi metropoli. Da New York, Filadelfia, Boston, Chicago, Buenos Aires, San Paolo, mantennero una fitta rete di contatti e relazioni con familiari, parenti e amici nelle aree rurali di partenza. Con la fine del secondo conflitto, il ritorno alla normalità, la rapida crescita, riprende un processo di urbanizzazione che era stato solo interrotto e che aveva antiche radici. Il paese si industrializza, le migrazioni interne accelerano, l'assetto insediativo muta rapidamente: via dalle aree montane e isolate verso le pianure e le città; via dal Mezzogiorno e dalle Venezie verso il "triangolo industriale"; via dalla dorsale appenninica verso Roma o altre aree in sviluppo. Un processo che si esaurisce negli anni '70. Si può avere una rapida idea della velocità dell'urbanizzazione, considerando la crescita delle città (comuni capoluogo, generalmente) che al censimento del 2001 avevano più di 150.000 abitanti. Si tratta di 24 città (Roma la più grande, Foggia la più piccola, appena sopra il limite), 11 al Nord, 4 al Centro e 9 nel Mezzogiorno. Ebbene, queste 24 città contavano circa 3 milioni di abitanti nel 1861, 4,4 milioni nel 1901, 9,3 nel 1951, 13 nel 1971 – anno nel quale è stato toccato il massimo storico – per poi scendere a 11 milioni nel 2001. Una lieve ripresa si ha nel 2011 (11,4 milioni secondo i dati anagrafici, non essendo disponibili quelli di censimento) dovuta alla componente straniera che ha più che compensato l'esodo degli italiani. Nel 1861, circa un italiano su nove viveva nelle "grandi città", nel 1971 – allo zenith del processo di urbanizzazione – uno su quattro, nel 2001 uno su cinque, proporzione invariata nel 2011. Storicamente, la rete urbana del Mezzogiorno è meno densa e articolata di quella del Centro Nord e la debolezza delle infrastrutture si riflette in una minore interazione tra le città.


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Tuttavia il processo di urbanizzazione è stato assai più complesso di quanto appaia dai dati sopra riportati, che si riferiscono solo ai territori comunali. A partire dagli anni '70, infatti, la popolazione dei grandi comuni, soprattutto nel centro-nord, imbocca un rapido declino: tra il 1971 e il 2001 Milano perde mezzo milione di abitanti, Torino 300.000, Genova 200.000, Bologna 120.000, Firenze 100.000: si tratta di arretramenti tra il 20 e il 30 per cento. Assai minore è stata la flessione dei grandi centri del Mezzogiorno. Lo svuotamento delle grandi città – un processo simile era iniziato nell'Europa industriale qualche decennio prima – non significa un arretramento, ma al contrario un rafforzamento del ruolo delle città. Aumentano i costi delle abitazioni, peggiorano le condizioni ambientali e questo genera spinte all'insediamento suburbano, con un nuovo pendolarismo periferia-centro facilitato dalla diffusione del trasporto privato e dal miglioramento dei collegamenti. Si spopola il centro urbano, ma si popolano le prime e le seconde cinture, e oltre, fortemente integrate col centro. Si generano poi connessioni migliori con altri centri minori e si generano sistemi metropolitani più estesi. Si annulla quella che era stata la dicotomia secolare tra città e contado. La grande città mantiene il suo predominio – ci sono le sedi distaccate dello Stato, le Università, i centri direzionali, gli hub del trasporto – ma si scolorano quelle discontinuità che dividevano il modo di vivere urbano da quello rurale. 33


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Finalmente Sud, per crescere insieme

Si è smarrito gradualmente quel centro di gravità del vivere attorno al quale ruotava la vita di un tempo. Quando – semplificando al massimo – c’era sovrapposizione tra il luogo delle relazioni familiari, degli affetti e del privato, il luogo dello studio, della produzione del reddito e del lavoro, il luogo del consumo

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Nella realtà le carte si sono mischiate e i modi di vita si sono fatti più complessi che in passato. Si è smarrito gradualmente quel centro di gravità del vivere attorno al quale ruotava la vita di un tempo. Quando – semplificando al massimo – c’era sovrapposizione tra il luogo delle relazioni familiari, degli affetti e del privato, il luogo dello studio, della produzione del reddito e del lavoro, il luogo del consumo. La mobilità era bassa, il pendolarismo infrequente. Così era ancora nell’immediato dopoguerra. L’identificazione con il luogo dove tutte le complesse funzioni si concentravano, molto forte. Ma oggi si può aver casa e famiglia in un luogo, lavorare in un secondo, fare acquisti in un terzo. E, ancora, le famiglie possono essere frammentate, il lavoro parcellizzato, i consumi diffusi. Non c’è un solo luogo “del vivere” ma tanti diversi luoghi e la comune domanda: “di dove sei?” ha risposte sempre meno precise e nette. Il discorso sulla città – e su ciò che essa ancora significa nelle società contemporanee – è stato offuscato dal dibattito sulla natura, sulla definizione, sulle funzioni delle aree metropolitane. Si tratta di un dibattito di natura tecnocratica – uso questo termine non in senso spregiativo – che sorge dalla constatazione che le infrastrutture, le reti, molti servizi si affrontano con maggiore razionalità ed efficienza se il territorio è più esteso e la popolazione più grande. Cosicché la definizione di “città metropolitana” resta elusiva e tutt’al più strumentale. Non esiste un consenso su quale sia l’area ottimale: per quanto riguarda l’area metropolitana con baricentro a Milano, la Svimez le attribuisce 4360 kmq. e 6,4 milioni di abitanti; il Censis parla di “megaregione lombarda” con 8362 kmq e 8 milioni di abitanti; l’Institute of Regional and Metropolitan Studies di Barcellona definisce una “area funzionale milanese” di 5169 kmq e 5,2 milioni di abitanti; le Nazioni Unite infine attribuiscono all’agglomerazione urbana milanese 3 milioni di abitanti. Studi ed analisi esistono in abbondanza: quel che manca, semmai, è la capacità politica di dar vita e gambe alle aree metropolitane.


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Etnos e Urbs:

la trama di un dialogo Jean-Luise Touadi

è deputato del Partito Democratico

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na volta le città si proteggevano dall’arrivo dei “barbari” e i confini erano molto netti e visibili tra “noi” – chi era dentro – e gli altri – chi viveva fuori. I “barbari” potevano attentare all’incolumità fisica della città espugnandone le mura; oppure rappresentavano un’insidia mortale per l’identità culturale di cui la lingua era un veicolo fondamentale. Oggi le città sono spazi aperti, luoghi in cui la sicurezza fisica è tutta da costruire e l’identità culturale non è più riconducibile – se mai lo fosse stato – ad una purezza unica da salvaguardare. Lo spazio cittadino è sempre più un terreno di confronto, di scontro e d’incontro possibili tra mondi identitari eterogenei. Le città stanno diventando sempre più dei laboratori d’innovazione, contenitori di mutamenti profondi che toccano lo spazio fisico, la creatività culturale, la dinamica delle relazioni interpersonali, la costruzione stessa delle individualità. All’interno di questa dinamica, l’immigrazione rappresenta un potente fattore di configurazione delle nuove complessità urbane. Ci sono quasi 5 milioni di persone straniere regolarmente residenti in Italia. Un dato che evidenzia in modo plastico il cambiamento di status dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Negli ultimi dieci anni il numero degli immigrati è aumentato del 150% incidendo anche sullo sviluppo produttivo e demografico. Più del 9% del Pil è prodotto da lavoratori stranieri; il loro contributo al gettito fiscale è stimato a più di 6 miliardi di euro. Lentamente, ma in maniera irreversibile, la presenza dei cittadini stranieri in alcune metropoli come Milano e Roma sfiora il 10% 35


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d’incidenza rispetto alla popolazione indigena e ovunque la media supera il 7%. Una presenza stabile, organica, destinata a modificare in profondità non solo la struttura sociologica, ma il volto fisico e l’anima culturale delle comunità metropolitane. Una presenza ricca di premesse positive, ma anche densa d’incognite. Proprio per questo riteniamo che la sfida dell’integrazione dei nuovi cittadini nelle nostre città misurerà la qualità e l’adeguatezza della proposta politica complessiva delle forze politiche. L’immigrazione genera molti aspetti del governo delle città: dall’urbanistica agli spazi culturali; dall’accesso ai servizi alla sicurezza; dalla questione giovanile alla promozione dei servizi dedicati alle donne. Ecco come l’ex sindaco di Torino Chiamparino affrontava nel 2009 il tema della presenza degli stranieri nella sua città: «In molti comuni, specie al Nord, siamo sopra il 20% di persone in rapporto alla popolazione. La stampa, giustamente dal suo punto di vista, parla soprattutto delle emergenze legate ad alcuni quartieri simbolo. Però i problemi con i quali dobbiamo misurarci sono molti altri e spesso non hanno lo stesso rilievo di cronaca: l’abbandono di alcuni spazi pubblici da parte dei residenti storici; il rischio che nei quartieri, non soltanto in

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quelli più noti, si formino delle sorti di cittadelle monoetniche chiuse nei confronti di altre popolazioni; le difficoltà nel supporto alle scuole che hanno inserimenti di minori stranieri. Non nascondiamoci dietro a un dito: fenomeni isolati finché si vuole, ma fenomeni di xenofobia e razzismo che in modo più o meno evidente ci sono e che vanno capiti per poter essere contrastati. Non vanno, come dire, “esorcizzati”. Difficoltà di convivenza con le comunità, in particolare rom, ci sono in tutte le grandi città, come ci sono molti problemi; alcuni li ho già citati prima parlando del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro nero, degli incidenti sul lavoro». Un quadro realistico, con luci e ombre, quello tracciato dall’ex sindaco di Torino, per molti anni presidenti dell’Anci. Mi permetterei solo di aggiungere la grande vivacità culturale dei cittadini stranieri che esprime attraverso la proliferazione di gallerie d’arte dedicate alle produzioni dei paesi d’origine; il moltiplicarsi d’iniziative culturali come scuole di danza, stage di animazione teatrali destinati sia alle scuole che al grande pubblico; l’esistenza di libreria e di biblioteche che offrono pubblicazioni di culture non europee in italiano e in lingue originali. Un mosaico di opportunità culturali dove quello che una volta era l’esotico diventa vicino, si fa offerta culturale, un ponte di conoscenza e di allargamento degli orizzonti. Come far convivere tutta questa ricchezza ? Per prima cosa bisogna evitare la formazione dei ghetti. Quest’ultimi prendono vita attraverso un processo di auto-ghettizzazione delle comunità che – di fronte a quello che viene vissuto o percepito a torto o a ragione come un rifiuto della comunità ospitante – tendono a chiudersi e a intensificare le reti capillari di comunicazione interne alla stessa comunità in modo da escludere non solo gli italiani, ma anche le altre comunità straniere. Al tempo stesso, la nascita dei ghetti è anche il frutto di una marginalizzazione diretta o indiretta della comunità ospitante italiana. Rifiuto di affittare a stranieri, costi troppo elevati delle residenze, luoghi accuratamente evitati perché percepiti dagli italiani come “insicuri”. Ma l’insicurezza spesso è solo insofferenza, paura del diverso nella città. Gli altri sono percepiti e vissuti come “persone in esubero” come dice Z. Bauman: «I Essere in esubero significa essere in soprannumero, non necessari, inutili,

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Mi permetterei solo di aggiungere la grande vivacità culturale dei cittadini stranieri che esprime attraverso la proliferazione di gallerie d’arte dedicate alle produzioni dei paesi d’origine

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Occorre un nuovo piano regolatore che tenga conto della dimensione interculturale della città

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indipendentemente dai bisogni e dagli usi che fissano lo standard di ciò che è utile e indispensabile. Gli altri non hanno bisogno di te, possono stare senza di te, possono stare senza di te e cavarsela altrettanto bene, anzi meglio» (Vite di scarto, Ed. Laterza). Occorre un nuovo piano regolatore che tenga conto della dimensione interculturale della città. Evitare di concentrare in un solo pezzo di città tutti gli esercizi commerciali cosiddetti “etnici”. Lo strumento della concezione delle licenze commerciali, lungi dall’essere un mero atto burocratico, diventa uno strumento di pianificazione urbanistica, tanto per fare un esempio. Perché la formazione dei ghetti urbani è il fallimento dell’intercultura. Essa significa pensare l’integrazione come una mera coesistenza spazio-temporale tra comunità che si ignorano. La città, invece, è un organismo vivente con un rapporto si supporto strumentale, di fecondità relazionale tra i membri. La città è il luogo dove gli spazi di condivisione devono crescere per favorire la conoscenza, la risoluzione dei conflitti, la nascita di utopie condivise. La scuola nella città interculturale è il luogo della “formazione dell’uomo e del cittadino”. Sono 750.000 gli alunni con cittadinanza non italiana seduti sui banchi di scuola nell’anno scolastico 2011/2012. Sono l’8,5% sul totale della popolazione scolastica. Una palestra di cittadinanza è anche la parte più visibile e promettente del cambiamento delle nostre città. Dentro le mura di scuola si trova la linfa vitale della città futura. La scuola deve perciò essere accogliente nel doppio senso di fare spazio ai nuovi cittadini e, con loro, il bagaglio culturale, religioso e spirituale di cui sono portatori; nello stesso tempo aiutare i nuovi cittadini ad essere pienamente italiani. La pedagogia interculturale ha questo di pregevole: essa aiuta l’osmosi dei mondi verso una conoscenza più ricca. Ma la scuola è anche un potente fattore d’integrazione per i genitori che – grazie ai loro figli – entrano a fare parte della comunità formata dagli insegnanti e dagli altri genitori. Infine, possiamo puntare sulla mediazione interculturale che è insieme un approccio complessivo più aperto all’alterità e una dinamica relazionale che mette in circuito le diversità. Le biblioteche, gli sportelli sociali, i centri di aggregazione giovanili, i teatri e le ludoteche diventano quei spazi di contaminazione interculturale di cui si nutre la città plurale. Sono gli spazi della costruzione di un


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alfabeto comune della città di tutti. La città di domani avrà bisogno di mediatori culturali, ma è tutta la comunità che deve assimilare una forma mentis interculturale per riconoscere la diversità, valorizzarla, risolvere i conflitti e offrire soluzioni che renda la vita collettiva più serena e riconciliata. Le politiche dell’intercultura sono una pedagogia di accompagnamento dei territori e delle comunità verso la leggibilità e vivibilità di una società complessa.

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La pedagogia interculturale ha questo di pregevole: essa aiuta l’osmosi dei mondi verso una conoscenza più ricca. Ma la scuola è anche un potente fattore d’integrazione per i genitori

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Le nuove politiche delle città, uno strano contratto comunitario Paolo Perulli

insegna Sociologia economica presso l'Università del Piemonte Orientale

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e città per essere strategiche hanno bisogno di sviluppare relazioni, di giocare ruoli e di tessere alleanze a scale molto diverse da quelle municipali. Eppure la nostra cultura politica è ancora localista, la nostra visione è amministrativa, le politiche urbane sono-anche nei casi migliori-confinate al quartiere, al comune. Nelle considerazioni che seguono, e che sono tratte da un libro appena uscito cui rimando il lettore che volesse approfondire1, inquadro invece il tema della città nelle nuove politiche europee. Si tratta di un tema cruciale ma poco esplorato, soprattutto del tutto assente nel dibattito politico italiano. In esso le città appaiono sempre come soggetti cui “destinare” politiche centrali (siano esse fiscali, assistenziali o altro), mai come soggetti strategici a partire dai quali “ristrutturare” la governance multi-livello dalla scala locale a quella europea. Se si capovolgesse il modo corrente di vedere e si guardasse così a partire dalle città, si potrebbe allora agire con un nuovo tipo di sperimentalismo istituzionale. Esso aiuterebbe-starei per dire: obbligherebbe tutti i livelli (europeo, nazionale, regionale, locale) a ristrutturarsi. Nelle politiche europee ci troviamo sempre più di fronte a degli strani contratti scritti tra i partner europei e nazionali, fatti da un numero indefinito di attori: “contratti” tra virgolette, appunto. Rispetto alla tradizione giuridica, politica ed economica che pensa a contratti “a due”(nel diritto civile) o “uno a 1. P.Perulli, Il dio Contratto, Einaudi, Torino 2012.

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L’idea della conoscenza è tutto sommato innovativa: essa è più una possibilità, un’eventualità che non una dotazione, è largamente frutto del processo, è piuttosto esplorazione di potenzialità da sviluppare che messa in pratica di doti di conoscenza acquisita

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molti”(nel contratto sociale), questi sono contratti “molti a molti”, ove i “molti” entrano in campo durante il percorso nelle varie fasi del processo di definizione: essi entrano ed escono dall’arena contrattuale. Tutti questi attori sono consapevoli di non avere piena conoscenza della situazione, tanto meno di averne una conoscenza ‘completa’. A volte si è colpiti dall’impressione di sprovvedutezza che gli attori, ad esempio i partecipanti ai vertici europei, alle varie commissioni tecniche ecc., suscitano. La loro conoscenza è chiaramente parziale e frammentaria. E ciò nonostante, essi interagiscono, si muovono, intraprendono azioni e relazioni, pianificano strategicamente i propri comportamenti. In questo singolare tipo di contratti, l’idea della conoscenza è tutto sommato innovativa: essa è più una possibilità, un’eventualità che non una dotazione, è largamente frutto del processo, è piuttosto esplorazione di potenzialità da sviluppare che messa in pratica di doti di conoscenza acquisita. Quindi, conoscenza come possibilità e non come direzione necessaria dell’azione. In un simile contesto, che cosa fanno questi “molti a molti”? Per spiegarlo, è utile ricorrere al “Rapporto Barca”, scritto dall’attuale ministro della coesione territoriale nel 2009 per la Commissione europea, e dedicato alla riforma delle politiche europee di coesione. Esso mescola teorie del contratto, teorie della governance bilaterale e multilaterale, ed anche gestione gerarchica di un processo di policy. Tre aspetti tendenzialmente separati nell’elaborazione delle politiche e che nel Rapporto Barca, invece, si ritrovano insieme. Ma come funziona il tutto? I molti attori europei, nazionali, locali che si ritrovano nelle politiche europee partecipano ad uno sforzo innovativo, istituzionale e sociale, che prevede incentivi e finanziamenti condizionati (conditional grants): inoltre viene loro indicato quali sono i costi da sostenere per uscire dal processo, nel caso vogliano sganciarsene. I costi del fallimento virtuale del processo sono mostrati chiaramente. A tenere insieme questi attori è quindi una sostanza alquanto diversa da quella dei contratti tradizionali. Si può parlare a questo riguardo di reti di contratti interconnessi: networks as connected contracts. Reti di impegni “molti-a-molti”, in cui ci sia continua possibilità di verificare gli avanzamenti e gli scostamenti di percorso da parte di ciascun attore. Ma anche reti in cui i diversi partners siano in qualche


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misura obbligati a cooperare, anziché a scegliere in modo opportunistico e a creare per sé situazioni di rendita (rentseeking è quel processo attraverso cui gruppi di interesse monopolizzano la loro posizione e ne traggono vantaggio, imponendo costi improduttivi ai processi economici). La letteratura sul rent-seeking è fiorente. Essa è arrivata a stimare il costo improduttivo delle posizione di rendita in percentuale del prodotto nazionale, dal 3% dagli Stati Uniti al 15% di un paese come la Turchia. L’Italia sta certamente più vicina alla Turchia che agli Stati Uniti. Nell’idea di contratti tra molti livelli qui proposta, si ritrova la suggestione di un testo di Jacques Derrida sulla Torre di Babele in cui i costruttori della Torre ben presto si rendono conto che la loro impresa era impossibile, non sarebbero arrivati a toccare il cielo; e tuttavia i legami, le relazioni, gli scambi di conoscenza che si erano costruiti nel frattempo avevano finito col tenerli assieme in uno “strano contratto comunitario”. Esso è basato sull’incompletezza, anzi: sull’incompiutezza, sulla consapevolezza che la Città continuamente si trasforma in vista di generazioni future. Quindi l’incompletezza, l’incompiutezza non creano distacco tra gli uomini ma anzi obbligazioni reciproche. C’è una coincidenza, una chiara affinità elettiva tra questa riflessione filosofica e la ricerca contenuta nelle proposte di revisione delle politiche europee. Passando alle arene di questo contratto, ciò che rileva dal punto di vista degli attori che operano per lo sviluppo dei loro territori è la scoperta

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I costruttori della Torre ben presto si rendono conto che la loro impresa era impossibile, non sarebbero arrivati a toccare il cielo; e tuttavia i legami, le relazioni, gli scambi di conoscenza che si erano costruiti nel frattempo avevano finito col tenerli assieme in uno “strano contratto comunitario”

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Assemblaggi ed amalgama infatti sono bene individuati dalle recenti scienze sociali. Il mondo è presentato non più come un mosaico di Stati nazionali ma come oramai un assemblaggio di global city regions

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che questi territori non si possono definire a priori. Il Rapporto Barca dice in maniera esplicita che non vi sono confini predefiniti, tanto meno i confini amministrativi, mettendo così in crisi – con implicazioni politiche forti – tutto il discorso delle regioni amministrative come attori di un territorio i cui confini non sono definibili ex ante sul piano sostanziale. I confini sono definibili volta per volta, nel processo e dal processo, riferendosi alle diverse politiche e ai diversi attori. Sono confini totalmente mobili. Vi sono esempi europei di notevole interesse di combinazioni territoriali, di aggregati territoriali che potrebbero derivare da questa nuova cornice di riferimento. Tutto si sposterebbe dal rapporto gerarchico Unione europea-Stati-regioni ad un rapporto “molti a molti” il cui esito è la connessione tra nuovi attori territoriali che formerebbero nuovi assemblaggi, nuove combinazioni. Rendendo reali, realizzando quello che la teoria sociale ha solo prefigurato. Assemblaggi ed amalgama infatti sono bene individuati dalle recenti scienze sociali. Il mondo è presentato non più come un mosaico di Stati nazionali ma come oramai un assemblaggio di global city regions, nuovi amalgama territoriali che si distendono sulla superficie del pianeta. Questo è il campo verso cui orientarsi. L’auspicabile ruolo di un centro (globale, europeo, sempre meno nazionale) in questi processi è altamente problematico ma essenziale. Pena la pura anarchia del mondo. Ma il centro è ormai piuttosto un arbitro, anzi forse solo un play-maker: dovrebbe agire per fare giocare tra loro i territori in una relazione che contemperi coesione e competizione. Un ruolo ben diverso dalla vecchia pretesa dell’attore centrale di prendere le distanze per vedere meglio dall’alto, perché sappiamo ormai che il centro non vede affatto meglio degli altri. Sta piuttosto all’intelligenza delle istituzioni di capire che bisogna dare vita politica ad ogni parte dei territori. Allo scopo di creare una situazione in cui siano infinite le occasioni per i diversi attori, tutti partecipanti al gioco comunitario, di comprendere che essi stessi sono cittadini che hanno bisogno gli uni degli altri. Attori collettivi portatori ciascuno di un pezzo di conoscenza che possano mettere in gioco, anziché tenerla ciascuno per sé. L’intelligenza istituzionale sta nel creare infinite occasioni perché si sviluppi questa particolare “cooperazione interessata” in cui consiste in buona sostanza la democrazia.


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La casa nell'era del debito e della crisi finanziaria Lorenzo Bellicini

è direttore del CRESME

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he mortgage scam”, la truffa dei mutui di inizio millennio, secondo Stiglitz sta alla base della crisi finanziaria che stiamo vivendo. Una truffa, come ormai sappiamo da molte voci, basata su un rischio volutamente, “scientificamente” mal valutato, che avrebbe retto solo se il meccanismo euforico di continua rivalutazione del valore dell’abitazione non si fosse interrotto e se i tassi dei mutui fossero rimasti bassi. Ma se la bolla immobiliare è la “miccia” della crisi finanziaria del 2008, la questione vera che con il 2011 è venuta alla luce, sta nel crescente ruolo che ha assunto la speculazione finanziaria nel ciclo di accumulazione del capitale tra l’ultimo decennio del XX e il primo decennio del XXI. Se l’immobiliare e i mutui subprime sono stati la miccia della crisi, gli elementi di vulnerabilità – come ha sostenuto recentemente riconvertendosi anche Bernanke – hanno carattere strutturale e si trovano nelle fondamentali debolezze del sistema finanziario degli anni 2000: una leva finanziaria eccessiva; una eccessiva dipendenza da instabili finanziamenti a breve termine; valutazioni del rischio mal gestite; strumenti finanziari in grado di oscurare i livelli e le concentrazioni dei rischi . Non è la prima volta che il sistema economico mondiale entra in crisi così pesantemente e che si innescano drammatici fallimenti finanziari , e del resto, come ben sappiamo, sulla funzionalità della crisi nella riproduzione e rigenerazione del modello capitalistico parlano i classici dell’economia da Marx a Schumpeter. Quali equilibri si ristabiliscono è la vera questione da analizzare. Grazie agli studi di Braudel e Arrighi, sappiamo che nei cicli di accumulazione del capitale arriva, storicamente, una fase in cui la speculazione finanziaria prevale sui processi, e, sappiamo che ogni speculazione finanziaria necessita di una leva su cui appoggiarsi. Sappiamo anche che ci sono soprattutto, una componente tecnica, anzi potremmo dire tecnologica, e una 45


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Ci troviamo in una fase eccezionale di cambiamento , dove la crisi finanziaria e la debolezza economica delle economie avanzate e degli Stati Uniti sono indicatori dell’ingresso in una fase nuova dello sviluppo del capitale

componente normativa che determinano le dimensioni della leva. Ora l’eccezionalità della fase storica che stiamo vivendo sembra proprio essere nel combinato di innovazione tecnicomatematica degli strumenti di leva finanziaria, con politiche monetarie in grado di inondare di liquidità il mercato e produrre debito, e abbattere molte regole sull’assunzione delle responsabilità di rischio, applicato agli eccezionali processi di valorizzazione immobiliare degli anni 2000 nelle economie avanzate (e alle commodities e al petrolio e a molte altre tipologie di prodotti, compresi i tassi di interesse). Questo caratteristico modello ha prodotto un risultato che differenzia, oggettivamente, la crisi che stiamo vivendo dalla altre vissute sino ad oggi: la dimensione del debito che si è generato . Ma se la dimensione della crisi è certo un elemento di differenziazione rispetto al passato, la eccezionale fase finanziaria che l’economia mondo sta vivendo va inserita nell’ambito delle teorie che si occupano dei cicli storici di accumulazione del capitale. Giovanni Arrighi, riprendendo l’intuizione di Braudel secondo cui la fase di maturità e crisi di ciascun principale sviluppo dell’economia-mondo è preannunciata da un caratteristico passaggio da transazioni commerciali a transazioni finanziarie , ha descritto con eccezionale qualità la storia dei cicli sistemici di accumulazione che hanno caratterizzato l’economia occidentale dal “secolo dei genovesi” ai giorni nostri… La dimensione del conflitto finanziario In ogni caso, comunque la si voglia mettere, è evidente che ci troviamo in una fase eccezionale di cambiamento , dove la crisi finanziaria e la debolezza economica delle economie avanzate e degli Stati Uniti sono indicatori dell’ingresso in una fase nuova dello sviluppo del capitale. Una fase di transizione storica che, come tutte quelle che abbiamo vissuto produce un profondo innalzamento dei conflitti tra sistemi di potere vecchi e nuovi e una profonda selezione: sociale, territoriale, tipologica e imprenditoriale. La base di questo conflitto è in primo luogo finanziaria. I nuovi strumenti finanziari sviluppatesi nella seconda metà degli anni ’90, ma applicati su base mondiale negli anni 2000, nella sostanza, hanno avuto un obiettivo preciso: consentire ai crediti bancari, nella tradizione illiquidi di trasformarsi in attivi negoziabili E’ la cartolarizzazione dei crediti ( mutui ipotecari, crediti alle imprese, prestiti al consumo, scoperti delle carte di credito, ecc.) che così possono essere acquistati da fondi

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pensione, hedge founds , compagnie di assicurazioni, grandi imprese, enti locali e Stati, casse previdenziali, ecc. Si sviluppano così titoli costruiti sulle ipoteche (MBS – MortgageBacked Security) e titoli garantiti da crediti (CDO – Colletarised Debt Obbligations) “frullati” con altri strumenti finanziari. Ma il vero protagonista del nuovo mercato finanziario è il credit default swaps: CDS. Il CDS è, in breve, “un contratto il cui oggetto è rappresentato dalla protezione rispetto al rischio: l’acquirente cerca di premunirsi contro il default di un certo titolo, il venditore si impegna a risarcirlo della perdita subita, in cambio di un versamento periodico”. Nel 2007 MBS, CDO e CDS, valevano 65.800 miliardi di dollari. Più dell’intero mercato azionario mondiale, più del PIL mondiale che nel 2007 vale 55.000 miliardi di dollari. Nel 2000 questo insieme di strumenti finanziari non arrivava a 1.000 miliardi di dollari. I derivati scambiati pericolosamente, non solo come abbiamo visto con “le obbligazioni “collaterali”, hanno permesso al mercato immobiliare di trascinare sul fondo una pletora di investitori che avevano scommesso sui mutui subprime”, ma con i contratti di futures sulle materie prime, “fanno esplodere il prezzo del petrolio o scatenano emergenze umanitarie quando prendono di mira le commodities alimentari. Per farla breve, nel 1990 il giro d’affari dei derivati, che vengono definiti come scommesse in attesa di scadenza, era irrilevante, se non nullo; nel 1998 ammontava a 81.000 miliardi di dollari; alla fine del 2004, secondo la Banca per i regolamenti internazionali (BIS), ammontavano a 295 mila miliardi di dollari. Per avere una idea delle dimensioni con le quali ci stiamo confrontando, basterà ricordare che nel 2010 il PIL mondiale era stimato dal Fondo Monetario Internazionale in 62.900 miliardi di euro, e che nel 2008 era pari a 61.300 miliardi di euro. Nel 2007 tutto il valore del mercato borsistico mondiale ammontava a 65.000 miliardi di dollari (dopo la crisi era sceso a 30.000 miliardi di dollari). I crediti ipotecari negli Stati Uniti nel 2006 valevano 9.800 miliardi di dollari. Nel 2000 valevano 4.800 miliardi di dollari. Le perdite legate ai mutui subprime negli USA (valutati in 3.000 miliardi di dollari) sui 9.800 totali, nel 2008 sono state stimate, sempre da Orléan, in ‘solo’ 400 miliardi di dollari. Per Morris i mutui subprime insoluti ed altre insolvenze ad alto rischio ammontavano a 830 miliardi di euro. Da questo punto di vista 47


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La finanza guida oggi le sorti dell’economia mondiale nell’ambito di uno scenario che potremmo definire, per le economie avanzate, di “riduzione” e di profonda “riconfigurazione”

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l’effetto della “leva finanziaria sistemica” è stato fuori scala soprattutto nella fase negativa . La nuova ingegneria finanziaria non ha ridotto il rischio lo ha diffuso ingenerando incertezza, poi sfiducia e poi panico. E come se non bastasse, una nuova classe di arcani derivati creditizi , ben al di fuori del campo visivo dei regolatori, fa sì che quasi tutti i portafogli delle banche siano “tightly coupled”, come dicono gli ingegneri: un guasto in qualsiasi parte del sistema è destinato a propagarsi in un baleno in tutte le altre. Neanche un genio del male – scrive Morris – avrebbe potuto concepire una struttura più incline al collasso”. Ora non è noto quanta parte dei CDS-OTC sia a rischio, ma i caratteri e le dimensioni della speculazione finanziaria gettano una evidente luce nuova sulla fase di transizione che sta attraversando l’economia mondo, e sul rischio che la pesante piramide finanziaria rovesciata corre, a causa della possibile insolvenza delle singole partite di debito su cui poggia. Gli anni 2000 sono gli anni in cui gestione del rischio, intermediazione finanziaria, e leva sono stati i veri protagonisti della fase di mercato delle economie avanzate insieme ad una fase espansiva eccezionale del mercato immobiliare e del settore delle costruzioni. Le dimensioni sono quelle di “un ordine gigante”, di un fuori scala. Ma vi è una ultima considerazione da fare che incide sul tema dell’edilizia, del mercato immobiliare e dei processi di investimento insediativo: l’interesse all’equilibrio e ‘alla realtà’ degli investitori finanziari in questo scenario. “Lungi dall’aver giocato un qualsiasi ruolo regolatore, gli attori finanziari hanno partecipato attivamente all’euforia speculativa. Anzi, sarebbe più esatto dire che ne sono stati i principali promotori oltre che i principali beneficiari, arrivando in certi casi a spingere all’errore le famiglie che non chiedevano nient’altro che informazioni e consigli. Senza un credito facile da ottenere a bassi tassi di interesse ed emesso in grande quantità, la bolla immobiliare non avrebbe potuto raggiungere una tale ampiezza” . Una analisi questa che vede concordi i già citati Harvey, Stiglitz , Roubini, Mihn, Akerloff e Schiller, Morris, Orlèan. La finanza guida oggi le sorti dell’economia mondiale nell’ambito di uno scenario che potremmo definire, per le economie avanzate, di “riduzione” e di profonda “riconfigurazione”. La “spada di Damocle” di una speculazione finanziaria fuori scala evidenzia da un lato una eccezionale questione di debito e dall’altro di insolvenza che potremmo definire sistemiche, e rende le posizioni di chi è indebitato, per varie ragioni, molto deboli.


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Le autonomie locali e la Ue Fabrizio Di Mascio

è dottore di ricerca in Scienza Politica presso l'Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze

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egli ultimi decenni il decentramento di competenze, funzioni e risorse dal centro alla periferia ha rappresentato una delle tendenze di riforma più pronunciate nei paesi europei. Ciò ha suscitato l’interesse degli studiosi dell’europeizzazione dei processi di governo i quali non hanno potuto non affrontare lo sviluppo di relazioni di mutua dipendenza tra livelli europeo e locale, soprattutto 49


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I processi di europeizzazione tenderebbero addirittura a scalzare la supremazia del governo centrale agevolando l’instaurarsi di relazioni di ascolto e scambio diretto tra istituzioni comunitarie e autonomie locali

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nell’ambito delle politiche di coesione, e il crescente impatto dei processi decisionali comunitari sulle autonomie territoriali, considerato che in media circa il 7080% delle politiche formulate a livello comunitario necessita di implementazione a livello locale. Per i fautori della multi-level governance i processi di europeizzazione tenderebbero addirittura a scalzare la supremazia del governo centrale agevolando l’instaurarsi di relazioni di ascolto e scambio diretto tra istituzioni comunitarie e autonomie locali. Larga parte degli studi condotti sul tema, però, ha evidenziato come la partecipazione degli enti locali ai processi decisionali comunitari continui a essere incastonata all’interno di relazioni istituzionali multi-livello andatesi consolidando nel corso del tempo in cui i governi centrali fungono ancora da snodo e filtro dei processi decisionali che coinvolgono i livelli comunitario e locale. In linea con quanto ipotizzato da questa tradizione di studi, in Italia è stato il livello di governo centrale a regolare i profili relativi alla formazione del diritto comunitario (c.d. fase ascendente) e al recepimento della normativa comunitaria (c.d. fase discendente) affrontando il tema della scansione procedurale della partecipazione degli enti locali al processo normativo comunitario con alcune previsioni contenute nella Legge 11/2005 (c.d. Legge Buttiglione). L’allestimento di molteplici canali di partecipazione da parte della Legge Buttiglione, però, non è stato sufficiente ad attivare l’iniziativa delle autonomie locali. Non solo in fase ascendente, ma anche in fase discendente, alle associazioni rappresentative delle autonomie, infatti, manca quella capacità di esame e approfondimento delle implicazioni di proposte e atti comunitari necessaria per alimentare la governance multilivello che la legge Buttiglione ha imperniato attorno al sistema delle Conferenze. Inoltre, le associazioni rappresentative delle autonomie non hanno sviluppato strumenti per l’informazione e la sensibilizzazione degli enti locali ai temi e agli oggetti dell’agenda normativa comunitaria né tantomeno promosso attività di consultazione delle autonomie sulle iniziative di policy dell’Unione Europea. Allo scarso protagonismo delle realtà associative va ad aggiungersi la carenza di risorse di cui soffre il Comitato Interministeriale per gli Affari Comunitari Europei (CIACE)


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presso il Dipartimento per le Politiche Comunitarie, cui la legge Buttiglione ha affidato le attività di impulso nella definizione della posizione italiana relativamente alle proposte di atti normativi di fonte europea. Infine, a causa del deficit di approfondimento tecnico esibito dalle attività di valutazione dei Ministeri, il Governo non appare in grado di fornire alle Camere un’adeguata informazione sui contenuti relativi alle proposte di atti comunitari. Il deficit di attuazione della Legge Buttiglione induce inevitabilmente a guardare oltre i confini nazionali alla ricerca di soluzioni che possano ispirare una nuova riforma in Italia. In Olanda, ad esempio, l’organismo associativo delle autonomie locali (VNG) e Ministero dell’Interno hanno stabilito un patto di collaborazione che ha portato all’istituzione di Europadecentraal quale centro studi che offre agli enti locali consulenza giuridica, iniziative di formazione e occasioni di dibattito sulle principali questioni inserite nell’agenda comunitaria. Anche nel Regno Unito l’organismo associativo degli enti locali (LGA) ha esibito un certo attivismo tanto da dotarsi di una apposita struttura, la LGA European and International Unit, che offre alle autonomie una ampia gamma di informazioni su stato dell’arte e prospettive di riforma della normativa comunitaria. I dipartimenti di settore della LGA conducono anche una attività di studio delle implicazioni a livello locale delle norme comunitarie, animando una rete composta da dirigenti locali che offrono ritorno informativo rispetto alle proposte comunitarie partecipando a surveys di opinione oppure a case studies quale approfondimento qualitativo delle ripercussioni del diritto comunitario, A distinguere il caso inglese non è solo il protagonismo delle autonomie locali ma anche l’attenzione prestata dal governo centrale all’introduzione di uno strumento come l’analisi di impatto quale strumento di scrutinio preventivo delle proposte normative, finalizzato a valutarne costi e benefici sotto una pluralità di aspetti. In particolare, con l’avvento del governo di coalizione guidato da Cameron il rafforzamento del legame tra Impact Assessment e processo legislativo comunitario è stato posto al centro della nuova agenda inglese di better regulation tanto che progetti di atti e norme emanati dal livello comunitario

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Un patto di collaborazione che ha portato all’istituzione di Europadecentraal quale centro studi che offre agli enti locali consulenza giuridica, iniziative di formazione e occasioni di dibattito sulle principali questioni inserite nell’agenda comunitaria

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Il Governo Cameron ha introdotto l’obbligo di abbinare alla norma di recepimento uno “statutory duty for Ministerial Review” che impone ai Ministeri l’obbligo di svolgere entro cinque anni una postimplementation review chiamata a identificare almeno il grado di raggiungimento degli esiti attesi dalla norma

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sono oggetto di impact assessment sia in fase ascendente che in fase discendente. In fase ascendente, però, alle proposte normative della Commissione Europea si applicano analisi di impatto la cui bassa profondità analitica è strettamente proporzionale alla incertezza degli esiti dei negoziati e ai limiti di tempo ed evidenze empiriche che caratterizzano l’elaborazione domestica delle ipotesi di provvedimento comunitarie. In fase discendente, invece, il Governo Cameron ha introdotto l’obbligo di abbinare alla norma di recepimento uno “statutory duty for Ministerial Review” che impone ai Ministeri l’obbligo di svolgere entro cinque anni una postimplementation review chiamata a identificare almeno il grado di raggiungimento degli esiti attesi dalla norma e la comparsa di eventuali effetti inattesi/perversi. I Ministeri sono tenuti a pubblicare e a depositare in Parlamento un report sulla review che costituisca la base di evidenza empirica per l’elaborazione della posizione negoziale in Europa. Lo scrutinio di tali reports non fa che rafforzare il controllo parlamentare sull’elaborazione del diritto comunitario che nel Regno Unito trova istituzionalizzazione in alcune specifiche commissioni che operano tanto in fase ascendente (European Scrutiny Committee presso la Camera dei Comuni e European Union Committee presso la Camera dei Lord) quanto in fase discendente (Joint Committee on Statutory Instruments e House of Lords Merits of Statutory Instruments Committee). Nel Regno Unito, però, il ricorso a uno strumento come l’Impact Assessment non ha contribuito a razionalizzare le relazioni tra livelli di governo nel processo legislativo comunitario risultando affetto da limiti di tempestività e articolazione dei costi rispetto ai livelli di governo. L’esperienza inglese suggerisce pertanto di far ricorso a uno strumento di analisi dei costi associati alle proposte comunitarie più flessibile rispetto all’analisi d’impatto. L’esempio più significativo di analisi dei costi flessibile è offerto dagli Stati Uniti che hanno sviluppato la tecnica dell’ “Unfunded Mandates” per governare le relazioni tra livelli di governo. Si tratta di una tecnica tesa a individuare i costi di un provvedimento rispetto alle competenze dei diversi soggetti destinatari. Offrendo un quadro efficace della ripartizione dei costi, tale attività di valutazione stimola la


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comunicazione tra livelli di governo e consente di individuare opzioni per la riduzione dei costi imposti ai livelli subnazionali. In conclusione, nonostante i limiti dello strumento di better regulation adottato, dal caso inglese vengono offerti spunti di sicuro interesse per il caso italiano quali: l’esigenza di irrobustire, soprattutto tecnicamente, lo scrutinio parlamentare; la necessità, evidenziata ulteriormente dall’esperienza olandese, di sprigionare l’attivismo degli organismi associativi degli enti locali; l’opportunità di condurre revisioni ex-post dell’attuazione delle proposte normative comunitarie. L’esperienza inglese, però, insegna che senza la definizione di un assetto di governance che distribuisca compiti di indirizzo, controllo e sostegno metodologico, definendo al contempo una cornice per l’interazione tra Governo, Parlamento e organismi associativi, i progetti di cambiamento sono destinati a rimanere annunciati a livello normativo, come già accaduto con la legge Buttiglione. È dunque dalla definizione dei perni organizzativi della riforma e del patto tra governo ed enti locali che qualsiasi iniziativa di cambiamento credibile è destinata a prendere avvio in Italia.

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È dunque dalla definizione dei perni organizzativi della riforma e del patto tra governo ed enti locali che qualsiasi iniziativa di cambiamento credibile è destinata a prendere avvio in Italia

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Città e museo Andrea Emiliani

è storico dell’arte, già Soprintendente per il patrimonio storico e artistico dell’Emilia Romagna e direttore della Pinacoteca nazionale

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a città, e cioè la più straordinaria opera che l’arte italiana ha creato negli ultimi duemila anni, è anche la sola che per secoli e secoli ha mostrato di poter nutrire nelle sue proporzioni così materiali che culturali una comunità socialmente “equilibrata”. Dalla perfetta misura degli insediamenti, della loro osmosi con la campagna circostante, della straordinaria umanità contenuta nel rapporto tra individuo e città, si vengono smarrendo, oggi, non solo la cultura ma anche l’esatta citazione. Un gigantismo falsamente economico ha stravolto spesso, con l’aria del protagonista salvatore d’ogni società (e invece con il peso della condanna irreversibile), questo destino così italiano, così miracoloso, da apparirci – specialmente oggi – irripetibile. La misura della città italiana è argomento fondamentale che l’urbanistica ha forse riconosciuto (penso a Giedion, a Lucio Gambi, a P.Luigi Cervellati ) ma non più studiato a fondo; e che oggi si viene perdendo sotto l’istigazione prima, dell’urbanistica industriale; e più tardi sotto il peso della destituzione di una cultura progettuale, e meglio ancora nel pieno dramma della caduta di un modello italiano del vivere. Da dieci anni almeno, anche il modello sociale ha infatti perso per strada la guida possibile di un’idea del vivere; così come, analogamente, smarrita la possibile difficile ancora dell’idea della cultura, su questa strada si è perso anche un riconoscibile concetto di bene culturale ed artistico. Che un forte liberismo abbia giovato a disconnettere tracciati e steccati tradizionali è forse vero anche se – insieme a Gailbraith – siamo dell’opinione che una cattiva gestione del “sociale” è capace di inquinare anche ogni liberta di iniziativa. Tra i frantumi, tuttavia, della modellistica ideologica antica e recente, in questo ultimo decennio poco giacobino e molto reazionario quanto a dibattito sulla cultura, ha

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brillato più intensamente una capacità che forse è nuova, comunque diversa. Ed è la capacità ormai effettiva di dare veste economica ad alcune, a molte imprese dell’arte e della cultura. Non c’è nulla di miracoloso, d’accordo: il benessere più diffuso ha creato spazi consistenti per nuove esigenze, più dilatate rispetto al passato. La dinamica del turismo di massa ha assunto davvero delle proporzioni che gli anni ’60 avevano solo pronosticato come una dinamica di “occupazione”. Dietro le massicce proporzioni del fenomeno, nuovi servizi e vecchie sostanze vengono riprendendo il ruolo che già avevano rivestito nella prima loro individuazione, nel XVIII secolo. Tutta l’Europa nasce, del resto, nel XVIII secolo, e proprio allora la sua cultura , l’architettura e l’arte vengono accuratamente registrate e organizzate. La vita e l’opera duttile, curiosa e sensibile degli innumerevoli viaggiatori è una costante presa d’atto dello sforzo operato dalla società italiana – tra Rinascimento e quel Barocco che Braudel chiamerà, per questo, seconda Rinascenza – per “piegare” la natura ad una costruzione minuziosa, millimetrica, quale gli artisti e gli architetti la desideravano e la realizzarono. Questo è il capolavoro che ci è stato consegnato, quasi sempre perfetto: e dentro questa misura e quelle proporzioni è necessario travasare vita moderna e socialità positiva. Fino ad oggi, a partire dal dibattito post-unitario di più di cento anni fa, è stata l’estetica a difendere noi e le “belle pietre” dell’Italia dall’invadenza dei distruttori, da quella dei

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Dalla perfetta misura degli insediamenti, della loro osmosi con la campagna circostante, della straordinaria umanità contenuta nel rapporto tra individuo e città, si vengono smarrendo, oggi, non solo la cultura ma anche l’esatta citazione

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È importante restaurare, è utile recuperare, è necessario salvare la qualità

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ricostruttori, come pure dalla violenza degli stessi reazionari. I risultati non sono altissimi, ma è miracoloso constatare che molte parole d’ordine che sono volate alte sulle barricate della difesa, e che sono filtrate silenziosamente tra le pieghe dei piani regolatori, sono parole antiche, ispirate alla straordinaria qualità della bellezza. Eternità del neoplatonismo greco-latino-cristiano! La nostra difesa è stata ancora per decenni e decenni, nonostante l’ormai lungo percorso della secolarizzazione, la soglia del bello. Oggi non più: chiunque accetta, infatti, di assolvere agli imperativi estetici. La trincea del bello viene colmata da imprenditori e da intellettuali, da proprietari e da funzionari delle belle arti. È importante restaurare, è utile recuperare, è necessario salvare la qualità: è indispensabile che l’oggetto di questa ansietà comune e collettiva (che continua a chiamarsi venustà e bellezza) giunta fino ai nostri passi in buone condizioni, e che, almeno in superfice, proprio il già aborrito metodo del restauro ne possa salvare la faccia… ed ammentare il prezzo. La bellezza si paga, e anzi soltanto chi la paga può impossessarsene, possederla, goderla. È proprio attraverso questo possesso che transita il nuovo tradimento, lo stravolgimento delle finalità e dei regimi spietati di quegli antichi equilibri di cui dicevamo all’inizio. Chiunque accetta ora di vivere entro le forme restaurate, recuperate all’uso, di un edificio storico ammirevole. Tutti nutriamo, ora, l’ambizione di vivere in un quartiere di perfetta forma urbanistica storica. La tragedia conservativa di città come Napoli o come Palermo sembra paleo-storica, ed essa certamente appartiene ad un’economia che l’Europa non conosce più. Laggiù, sopravvive lo sfascio e la distruzione dell’importante spessore artistico e d’abbandono del centro della città è il premio per chi si avvia a vivere nelle spaventevoli periferie che saranno il vero obiettivo d’ogni ragionevole restauro urbanistico. Questa, invece, è la trincea dalla quale difendere la sopravvivenza di centri ben conservati, di porzioni urbane perfino agghindate e per questo ormai esanimi. Costituite da pareti e pareti di agenzie, banche, negozi filiali, da uffici di rappresentanze, mostre, hotel oppure residence; abitate da luci serali, da spettrali week-end balordi, da micidiali festività prive d’ogni soccorso fosse anche solo quello di un bar , l’abbeveratoio industrioso del terziario maturo e


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del quaternario avanzato. Questa trincea è l’esame puntiglioso del fine d’uso, delle finalità per le quali se non è nata, certo è sopravvissuta fino a noi questa città, e come lei queste strade, questi quartieri congelati: questo museo Grèvin dell’antica fantomatica città italiana. Ostinatamente bellissima. È dentro questo panorama spettrale, d’altronde tipico di tutte le città “specializzate” e ricche, che può prendere forma piena, volume sbalzato, una moderna “economia della cultura”. La domanda che si impone subito è antica: può, questa città congelata e violenta, essere rianimata da motori culturali? La gestione effettivamente attiva, producente, di musei, e di biblioteche, librerie, teatri archivi; la trama suadente dei modelli storici di organizzazione, dalla chiesa al grande convento, dal palazzo nobiliare al giardino e alla prospettiva; potranno riattivare un flusso sociale ed economico che ha attraversato un tempo queste stesse strade come inquilino e che ora pretende di ripercorrerle come padrone? In ogni caso, è il modello di vita, è l’idea di cultura che occorre riprendere a discutere ancora. Ma non vorremmo sembrare innovatori assoluti con questa storia della necessità di dare alla città nuovi “motori” capaci di sviluppare opportune energie urbanistiche. Credo che chiunque abbia messo qualche attenzione alla storia, avrà facilmente rilevato – magari nel corso di una gita scolastica ai Fori Imperiali di Roma, sbadigliando insieme con gli scolastici colleghi – di quali funzioni simboliche si caricasse già la città romana. La città italiana storica rappresenta la misura perfetta d’ogni possibile vita associata. Occorre recuperarla alla vita e alla attività, procedendo poi al vero restauro di correzione di confuse periferie e insieme cessare dal corrompere il territorio agricolo. E cessare in tal modo il fenomeno impressionante dello ‘spreco’ del territorio.

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Chiunque abbia messo qualche attenzione alla storia, avrà facilmente rilevato di quali funzioni simboliche si caricasse già la città romana. La città italiana storica rappresenta la misura perfetta d’ogni possibile vita associata

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Città d'arte, il caso pisano Paolo Fontanelli

è deputato del Partito Democratico, già Sindaco di Pisa

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i è stato chiesto di parlare delle città d’arte muovendo dalla mia esperienza di Sindaco di Pisa dal 1998 al 2008. Indubbiamente il tema delle città rappresenta un punto centrale della riflessione sulla convivenza e sul senso civico del tempo che viviamo, e allo stesso tempo costituisce il terreno principale su cui rilanciare l’idea di uno sviluppo sostenibile. Soprattutto per un Paese come l’Italia che ha un patrimonio artistico, monumentale, architettonico e paesaggistico unico, senza confronto nel mondo. E le città italiane, che sono quasi tutte città d’arte perché hanno storia e la portano con sé, sono una parte rilevantissima di questo patrimonio. Purtroppo la consapevolezza di questa enorme ricchezza culturale, con le sue potenzialità e con le sue

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esigenze di tutela, non è così forte come dovrebbe, tra i cittadini come nelle amministrazioni pubbliche. La capacità di attrazione turistica e culturale del nostro Paese è alta, ma ha evidenti carenze sul piano qualitativo sia sul piano dell’offerta che soffre di concentrazione e, talvolta, di congestionamento, e sia sul piano dei servizi. Si fa fatica a valorizzare la diffusa e articolata sul territorio di un’ampia presenza di beni culturali. Tanto che, con apparente sorpresa, l’Italia ha perso posizioni nelle graduatorie del turismo internazionale. Nel caso di Pisa, certamente una delle città più conosciute nel mondo grazie alla celebre Torre pendente e alla Piazza dei Miracoli, la “forza” di questi suoi monumenti ha oscurato del tutto, per lungo tempo, l’importanza e l’originalità di molti aspetti della storia medievale, dalle mura alle case-torre, fino alle opere d’arte del Museo Nazionale di S.Matteo. E ha fatto sì che i percorsi di fruizione turistica si concentrassero solo su una parte della città, quasi isolando la medievale Piazza dei Miracoli dal resto del centro storico, come se non ci fosse alcuna relazione. Nel contempo il centro cittadino si era organizzato in funzione della città universitaria, attraverso una notevole espansione degli spazi ad uso delle facoltà e una ampia utilizzazione del patrimonio immobiliare da parte del mondo universitario. Tanto che all’inizio del nuovo millennio la metà degli edifici residenziali del centro storico risultava abitata da studenti fuori sede. Queste due realtà, quella dei turisti e quella degli studi, vivevano – e in parte tutt’ora vivono – in totale separazione, ed entrambe in netto distacco dalla realtà dei cittadini pisani. Qualcuno ha definito questa realtà come “tre città in una e lontane fra loro”, con l’aspetto paradossale di uno scollamento così grande tra la cultura dell’arte e quella della formazione. Certamente vi sono sovrapposizioni e intrecci che le fanno convivere, sulla base di specifiche convenienze economiche, ma ciò che manca è una ricomposizione storica della città, in grado di rendere leggibile l’insieme del tessuto urbano, la sua evoluzione e le sue connessioni paesaggistiche e ambientali (l’Arno, il mare, il parco di San Rossore). Ed è per questa ragione che alla fine degli anni novanta ci siamo posti il problema di elaborare e definire un’idea di città da proporre ai pisani e sulla quale indirizzare le scelte e gli atti del governo comunale, puntando anche ad una corresponsabilizzazione degli altri Enti della città e del

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Due realtà, quella dei turisti e quella degli studi, vivevano – e in parte tutt’ora vivono – in totale separazione, ed entrambe in netto distacco dalla realtà dei cittadini pisani

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Partendo da questa esigenza furono individuati gli Arsenali Medicei lungo l’Arno e si pensò subito alla possibilità di riconvertire, nelle vicinanze, gli spazi occupati da strutture militari per riorganizzare i servizi e le strutture di accesso dei flussi turistici alla città

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territorio. Questo obiettivo è stato reso più forte dalla straordinaria scoperta archeologica dell’antico porto, con i resti di diverse imbarcazioni di epoca romana cariche di materiali, seppellito sotto otto metri di terra a poca distanza dalle mura. Una “Pompei del mare”, la definì allora il Ministro dei Beni Culturali Giovanna Melandri. Una scoperta che portò ad uno sviluppo di quella idea di città che si fondava sulla ricerca di asse portante su cui costruire un processo di trasformazione e di riunificazione della città e della sua identità. Fu necessario pensare subito ad un luogo adatto per l’esposizione museale e ad un disegno che la rendesse funzionale con la città. Partendo da questa esigenza furono individuati gli Arsenali Medicei lungo l’Arno e si pensò subito alla possibilità di riconvertire, nelle vicinanze, gli spazi occupati da strutture militari per riorganizzare i servizi e le strutture di accesso dei flussi turistici alla città. Da lì nacque l’Accordo di Programma sottoscritto dal Comune con il Governo e i Ministeri della Difesa, dei Beni Culturali e delle Finanze. Accordo che conteneva le previsioni e l’impegno per la realizzazione, al fine della liberazione degli spazi citati, di due nuove caserme per il Battaglione Logistico e per la Guardia di Finanza. Contestualmente il Comune portò avanti l’intesa con la Regione per la costruzione di tutto il nuovo polo ospedaliero pisano a Cisanello, fuori dal centro storico e ai margini del quartiere più recente della città, liberando così anche l’area del vecchio ospedale S.Chiara che è contigua alla Piazza dei Miracoli. A seguire è stato realizzato un concorso internazionale per il recupero del S.Chiara vinto dall’architetto David Chipperfield, pensato in un’ottica di riordino e di integrazione tra le diverse funzioni della città, a cominciare dal collegamento con il sistema museale dei Lungarni che ha preso corpo con la scelta delle “navi romane” agli Arsenali. In sostanza l’idea di città è diventata un disegno di trasformazione urbana che si muove sul reimpiego e sulla ristrutturazione di grandi spazi pubblici: Arsenali Medicei, tre caserme dell’esercito collocate in città, il comando provinciale della finanza, il vecchio ospedale S.Chiara. Spazi connessi tra loro attraverso un’idea che ha al centro la proposta di percorsi culturali e turistici, collegati da un lungo asse pedonale, in armonia e in equilibrio con i valori storici, architettonici e monumentali della città.


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Questo disegno, che ha portato ad una compiuta predisposizione degli strumenti urbanistici, sta procedendo con le positive implementazioni attuate dalla nuova Amministrazione in questi ultimi anni, attraverso importanti investimenti di riqualificazione urbana. Tuttavia non mancano problemi e difficoltà, dovuti soprattutto alle lentezze e ai ritardi con cui si muovono i Ministeri interessati. Talvolta viene da dubitare sul fatto se siano o no consapevoli del danno che certi ritardi provocano alla valorizzazione dei beni pubblici di loro competenza, oltre che alla economia nazionale. Sta di fatto che per rendere fruibile e “mettere a frutto” una scoperta archeologica di grande valore da noi, in Italia, ci vogliono più di dodici anni. E forse ancora di più per arrivare ad una decisione definitiva sul progetto della nuova caserma da parte degli uffici del Ministero della Difesa. Eppure oggi per rilanciare il Paese avremmo bisogno di una politica creativa sul recupero del territorio e degli spazi proprio a cominciare dalle città e dalla loro storia. Un importante urbanista come Leonardo Benevolo ha scritto che le città sono allo stesso tempo un motore per andare verso il futuro e un’ancora per non perdere il legame con il passato. È un concetto giusto, che non si esaurisce nel ragionare di urbanistica e di progetti per le città, ma che richiama anche l’esigenza di guardare ai processi civici e sociali che investono le nostre comunità. Ho accennato in precedenza a una “idea di città” per Pisa collegata al recupero di identità. Non era solo in ragione delle “separatezze” che la caratterizzano. È anche, in primo luogo, in relazione alle difficoltà e alle frammentazioni che segnano la realtà sociale dei nostri grandi centri urbani. I segni del disagio e del malessere sono molti, e non sono solo il traffico o il disordine che genera degrado. Crescono le intolleranze e i conflitti di giorno e di notte, tra e con i residenti. I rumori e i locali notturni sono motivo di protesta in quasi tutte le città. Per non parlare della percezione di insicurezza. Tutto ciò è presente a Pisa in forma assai marcata. Una città di novantamila abitanti, con circa ventimila studenti fuori sede, con un pendolarismo che porta ogni giorni a centocinquantamila presenze, e caratterizzata da una forte mobilità residenziale. Con in più l’individualismo esasperato dell’ultimo ventennio. È evidente che per tenerla insieme, per determinare le

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Per rendere fruibile e “mettere a frutto” una scoperta archeologica di grande valore da noi, in Italia, ci vogliono più di dodici anni

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Creare le condizioni per uno sviluppo capace di promuovere occupazione e reddito, che faccia leva sulle risorse del proprio territorio, che non sono nel consumo del suolo ma nella valorizzazione delle proprie risorse culturali

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condizioni di una convivenza accettabile, è necessario un discorso sul senso civico e sul valore di una comunità che parli anche di storia e di futuro. I monumenti, i musei, la cultura, possono creare nuove opportunità di lavoro e di occupazione, purchè non si perda di vista il senso dell’equilibrio. Bisogna affrontare anche i problemi che riguardano le possibilità di sviluppo guardando senza false ipocrisie alle “convenienze”. Quasi sempre sono queste a determinare concretamente i processi. Penso, a Pisa, all’abbandono del centro storico da parte di moltissimi nuclei familiari. Il fattore principale è senza dubbio la convenienza della rendita. Il mercato degli affitti agli studenti è molto redditizio, così come spesso appare più conveniente lasciare appartamenti vuoti anziché affittarli a famiglie. Per questo sarebbero necessari adeguati e efficaci strumenti d’intervento nelle mani dei Comuni. C’era la possibilità. Era quella di far diventare una competenza e una responsabilità piena dei Comuni la gestione del Catasto e della tassazione sugli immobili. Vera riforma federalista. In questo modo diventerebbe possibile una seria politica di gestione del territorio finalizzata al riuso e al recupero, perché sarebbe possibile ridurre le convenienze per la rendita immobiliare penalizzando l’inutilizzato e favorendo il pieno impiego del costruito e del recuperato. Ma per ora un centralismo miope, accompagnato da un localismo accecato e distorto dalla mancanza di risorse, hanno reso impossibile un ragionamento costruttivo su questo tema. Tuttavia non ci possiamo fermare. Allora bisogna parlare delle “convenienze” possibili per una comunità, che sono quelle che guardano al futuro. È qui che sta il valore di una idea, di un “progetto di città” che mira a creare le condizioni per uno sviluppo capace di promuovere occupazione e reddito, che faccia leva sulle risorse del proprio territorio, che non sono nel consumo del suolo ma nella valorizzazione delle proprie risorse culturali.


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Fare politica in città,

dopo la sezione Alessandro Coppola

è ricercatore presso il Politecnico di Milano

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ccorre fare un ragionamento sui soggetti di una nuova stagione politica urbana, sugli attori territoriali che dovrebbero rappresentarli e infine sull’agenda urbana che ne dovrebbe discendere. Mi soffermerò esclusivamente sui primi due punti. Per quanto riguarda il terzo, mi riferisco all’impianto analitico di un contributo di Walter Tocci e pubblicato di recente su Dialoghi Internazionali: dall’incapacità della sinistra di intervenire sui meccanismi dell’economia della rendita e della sua politica e?disceso il fallimento della sua azione riformatrice a livello nazionale.

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Una delle funzioni fondamentali delle forze progressiste nella storia anche italiana e?stata l’inclusione politica a l’ampliamento del potere dei gruppi sociali subalterni

Ancor di più, nella politica locale, la scelta – e anche la non scelta – dei soggetti, attori e dell’agenda urbana è stata condizionata da quel fallimento. Si tratta di un fallimento particolarmente doloroso: in un quadro di forte espansione del settore immobiliare, una regolazione più adeguata del mercato avrebbe potuto infatti creare vantaggi collettivi assolutamente rilevanti, avvicinando le nostre aree urbane agli standard europei. Ma veniamo ad alcuni temi relativi ai primi due punti: soggetti e attori. Il problema della democrazia Il primo è quello della democrazia urbana e del suo allargamento. Una delle funzioni fondamentali delle forze progressiste nella storia anche italiana è stata l’inclusione politica a l’ampliamento del potere dei gruppi sociali subalterni. Un processo che per molti versi è avvenuto al cuore delle società urbane: basti pensare alle stagioni del socialismo municipale prima e quella delle amministrazioni di sinistra fra gli anni 70 e 80 dello scorso secolo. In entrambi i casi la sinistra si è fatta veicolo del protagonismo di gruppi subalterni. Un vero capolavoro Negli ultimi vent’anni, nonostante ci si sia trovati di fronte a imponenti trasformazioni sociali e demografiche, la sinistra non ha messo a tema l’allargamento delle nostre democrazie urbane, limitandosi a contendere il consenso dei soggetti già politicamente inclusi. Lungi da me pensare che questi differenti contesti storici siano fra loro paragonabili: il ceto politico della sinistra, per tutti quei cambiamenti strutturali che conosciamo, è da quasi un trentennio orfano di forze che nella società spingano per il suo rinnovamento. Nonostante questo, la colpevole timidezza con cu è stato trattato il tema dei diritti politici e civici delle popolazioni immigrate si è rivelato un errore strategico di prima grandezza. È come se il Pci romano degli anni 60 avesse rinunciato alla battaglia sulla libertà di residenza per i protagonisti dell’immigrazione interna rinunciando di fatto alla sua politica di radicamento strategico fra le masse immigrate che in quegli anni gonfiavano la popolazione della capitale: con il timore di impaurire i propri referenti sociali tradizionali, la sinistra ha rinunciato al tentativo di allargare la torta del consenso urbano.

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Si è così realizzato il capolavoro politico perfetto: il carattere indistinto della sua offerta politica ha contribuito contestualmente al declino della sua presa elettorale sui referenti tradizionali, impedendo un investimento sull’emergere di nuovi referenti sociali di cui promuovere l’inclusione politica. E il discorso, seppure su un piano molto diverso, vale anche per altre soggettività emergenti nelle nostre arene urbane: l’incapacità per esempio di investire sull’estensione dei diritti civili ha senza dubbio indebolito il rapporto fra la sinistra e i soggetti che di questo allargamento si sarebbero avvantaggiati. Complessivamente, in un’epoca di grandi trasformazioni urbane, la sinistra ha abdicato al suo compito di generare nuovi diritti che incrementassero il potere di soggetti sociali emergenti: questi soggetti sono rimasti così nell’ombra – oggetto e mai soggetto della politica urbana, come nel caso degli immigrati – oppure hanno voltato le spalle alla sinistra. Al di là di qualche guizzo edonista e cosmopolita dei modelli Roma e Torino, la sinistra urbana si è rivelata molto conservativa nella sua visione della composizione della società urbana. Il secondo tema rimanda alla capacità di riconoscere le asimmetrie di potere. Anche in questo caso, l’idea che non si potessero cercare nella società forze con le quali determinare un esito del confronto con i grandi interessi organizzati – a partire da quelli che dominano il ciclo immobiliare – più favorevole all’interesse pubblico discendeva dall’indifferentismo sociale dei gruppi dirigenti. Più complessivamente, fondata è l’impressione che nell’arena urbana siano cresciute non solo le asimmetrie di potere ma anche la marginalizzazione politica dei gruppi sociali subalterni: se anche nel recente passato la città si è rivelata un formidabile strumento di inclusione collettiva, la situazione oggi è profondamente cambiata. Si afferma un modello individualistico di inclusione, mentre declina l’ipotesi dell’integrazione collettiva dei gruppi subalterni e quindi anche l’idea che possa essere l’azione collettiva il mezzo legittimo per perseguire obiettivi di promozione sociale del soggetto. La stessa stagione della democrazia partecipativa e delle politiche urbane ad essa collegate – ignorata, come prevedibile, dalla gran parte delle amministrazioni in cui la sinistra era presente – non ha affrontato adeguatamente questo problema: è certo lodevole

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La sinistra ha abdicato al suo compito di generare nuovi diritti che incrementassero il potere di soggetti sociali emergenti: questi soggetti sono rimasti cosi? nell’ombra – oggetto e mai soggetto della politica urbana, come nel caso degli immigrati – oppure hanno voltato le spalle alla sinistra

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inaugurare nuove arene pubbliche di trattazione dei problemi e di deliberazione collettiva. Ma occorre essere coscienti di come questo non sia sufficiente: bisogna anche includere nei modelli analitici da cui queste muovono quelle asimmetrie di potere che caratterizzano le popolazioni coinvolte. Qualcosa che la stessa cultura della pianificazione, permeata da modelli anglosassoni del tutto inadeguati a trattare le realtà mediterranee, non ha saputo fare. La ricerca internazionale dimostra come molti dei percorsi di democrazia partecipativa abbiano visto la paradossale riproduzione degli equilibri di potere precedenti. Lo si vede oggi nella politica di quartiere: nella borgata di Torre Maura, come nel nuovo complesso del Parco Ravizza a Milano, quando si aprono opportunità di protagonismo locale a decidere è chi il potere già ce l’ha. La sussidiarietà aumenta questa tendenza con asimmetrie che si strutturano attorno a cleavage generazionali, etnici, sociali e culturali. La partecipazione collettiva tende come non mai a restare nelle mani di chi ha il capitale culturale sufficiente per controllarne i codici. Questo problema costituisce un’occasione non per buttare a mare le idee della democrazia partecipativa e di una pratica democratica di sussidiarietà, ma per riflettere su quali strategie vadano perseguite per rafforzare il potere dei soggetti più deboli nell’ambito delle arene locali. Da Dewey a Dewey La terza questione è quella del come costruire nuovo capitale sociale e politico a livello locale. La presenza territoriale della sinistra si è oggettivamente estinta in gran parte del nostro paese: non basta avere sezioni e Camere del lavoro, se queste sono meri contenitori cetuali e non più vitali terminali territoriali. Il concetto di capitale sociale è scientificamente assai controverso, esso si presta tuttavia ad un uso molto efficace per la sua auto-evidenza quando si parla di società e politica locali. John Dewey sottolineava all’inizio dello scorso secolo come l’urbanizzazione si stesse risolvendo in una monumentale distruzione di capitale sociale ereditato quello in via di rarefazione nella Chicago e nella New York della fine dell’800 era un capitale sociale largamente “obsolescente” che occorreva sostituire con del capitale sociale adatto ai tempi. 66


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Passato e presente Anche nelle nostre concentrazioni urbane le trasformazioni si stanno risolvendo in una colossale distruzione di capitale sociale e politico ereditato. Non è di questo che occorre preoccuparsi, ma del fatto che poco o nulla sembra prenderne il posto, soprattutto in campo progressista. Non ci si può limitare certo a piangerne la scomparsa e il logoramento: viceversa, con una certa dose di volontarismo occorre pensare strategicamente alla costruzione di nuovo capitale sociale che sia all’altezza dei tempi. Il punto di partenza deve però essere chiaro: il funzionamento ordinario di partiti, sindacati e associazioni ha cessato da tempo di essere generativo di nuovo radicamento; occorre passare ad un nuovo paradigma, quello dei “progetti territoriali per così dire straordinari”. Da questo punto di vista possiamo attingere ad un vasto campo di tecniche e di tradizioni: da quelle del community organizing di matrice nordamericana – che hanno avuto un ruolo significativo nell’allargamento del Partito democratico americano anche per mezzo della realizzazione di alcuni interessanti esperimenti sindacali fra i soggetti più marginali – a quelle dello sviluppo di comunità sperimentati ormai in un lontano passato nel nostro paese. I lacerti della presenza territoriale della sinistra si stanno scomponendo a grande velocità: occorre intervenire ora e strategicamente per costruire su quanto si può salvare del passato la presenza territoriale del futuro.

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Occorre pensare strategicamente alla costruzione di nuovo capitale sociale che sia all’altezza dei tempi. Il punto di partenza deve però essere chiaro: il funzionamento ordinario di partiti, sindacati e associazioni ha cessato da tempo di essere generativo di nuovo radicamento

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Il governo urbano: i casi di Roma, Torino, Milano, Bologna, Napoli, Palermo Davide Zoggia

è Responsabile Enti Locali del Partito Democratico, già Presidente della Provincia di Venezia

“I

l primo motivo per il quale non mi sono mai impegnato direttamente in favore di un sindaco, è che fino ad oggi i sindaci venivano scelti dai partiti e non dai cittadini”. Norberto Bobbio, 1993, alla manifestazione di sostegno per Valentino Castellani sindaco di Torino. La portata rivoluzionaria della legge 81 del 1993, che introdusse l’elezione diretta dei sindaci, è tutta qui: prima solo l’1% degli organi di governo locale riusciva a raggiungere la scadenza fisiologica della legislatura. Da allora più stabilità, più certezza di programmi, più durata delle coalizioni, hanno caratterizzato il governo delle città italiane, grandi e medie. Si guardi alla tabella qui sotto riportata: ROMA: 93 – 2001 Rutelli, 2001– 08 Veltroni, 2008 Alemanno MILANO: 93 – 97 Formentini, 97 – 2006 Albertini, 2006 – 11 Moratti, 2011 Pisapia TORINO: 93 – 2001 Castellani, 2001 – 2011 Chiamparino, 2011 Fassino VENEZIA: 93 – 2000 Cacciari, 2001 – 05 Costa, 2005 – 11 Cacciari, 2011 Orsoni BOLOGNA: 93 – 99 Vitali, 99 – 2004 Guazzaloca, 2004 – 09 Cofferati, 2009 – 10 Delbono, 2011 Merola FIRENZE: 95 – 99 Primicerio, 99 – 09 Dominici, 2009 Renzi PALERMO: 93 – 2000 Orlando, 2001 – 12 Cammarata NAPOLI: 93 – 2001 Bassolino, 2001 – 11 Jervolino, 2011 De Magistris GENOVA: 93 – 97 Sansa, 97 – 2007 Pericu, 2007 – Vincenzi

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La legge nasceva al culmine della crisi della prima repubblica e nell’ambito di una crescente centralità del ruolo delle città, intese sempre più come luoghi di attrazione di risorse intellettuali, centri di attività economiche innovative, vere e proprie terre di frontiera delle sfide della società contemporanea, dall’integrazione delle comunità immigrate alle diverse declinazioni del disagio e della povertà. Il sindaco eletto direttamente dai cittadini, chiamato a svolgere una pluralità di funzioni – ufficiale di governo, vertice dell’amministrazione locale e capo di una maggioranza politica – diviene la figura centrale dell’amministrazione. E come tale si pone sia rispetto ai soggetti politici e al Consiglio comunale, sia nei confronti della città. I sindaci si identificano sempre più con la propria comunità: c’è un desiderio forte di farsi carico dei suoi problemi e delle sue esigenze. Ma si scontrano subito con il problema finanziamenti: i soldi sono pochi, l’Italia è appena uscita da una crisi economica epocale (1992) e ai comuni viene chiesto di farsi carico di tutte le nuove esigenze del vivere quotidiano. Per questo scelgono come vie di fuga, grandi occasioni di rilancio: è il caso delle Olimpiadi di Torino, del G7 di Napoli, del Giubileo del 2000 per Roma, e poi in tempi più recenti dell’Expo di Milano. Ognuno declina a suo modo come far crescere il proprio territorio, coglierne le potenzialità, sfruttare gli interessi, interni ed esterni. Comincia Valentino Castellani che, riformista convinto sconfigge un ex sindaco della città operaia Diego Novelli. E quella vena riformista in una Torino che vede stravolgere la sua natura – nel decennio 80’- 90’ Torino perde 100 mila posti di lavoro – trova piena continuità nell’opera di Sergio Chiamparino che diventa candidato “per caso” dopo la morte improvvisa di Carpanini, una vita dedicata alla politica e il sogno di diventare sindaco. La sfida delle Olimpiadi prima e delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia diventano l’occasione per cercare una nuova vocazione che le consenta di uscire dalla crisi: far convivere la città industriale con un centro moderno di terziario e servizi. Rutelli con un martello pneumatico impegnato nei lavori per il Giubileo – fino a 1000 cantieri aperti contemporaneamente in città – diventa protagonista della migliore satira televisiva di quegli anni. Una Roma uscita

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La legge nasceva al culmine della crisi della prima repubblica e nell’ambito di una crescente centralità del ruolo delle città, intese sempre più come luoghi di attrazione di risorse intellettuali, centri di attività economiche innovative, vere e proprie terre di frontiera delle sfide della società contemporanea

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finalmente dagli anni del “sacco” e degli speculatori, accoglie quasi due milioni di pellegrini, senza stravolgimenti e anzi con qualche apprezzabile vantaggio. Ne raccoglie l’eredità Veltroni, che punta soprattutto alla vocazione internazionale di Roma capitale: non solo grandi eventi, ma sguardo rivolto a mondo (summit dei Premi Nobel, Festival del Cinema, notti bianche, grandi mostre) e partecipazione (primo piano regolatore della solidarietà). È un messaggio che la città accoglie e rilancia, ma non apprezza la staffetta con Rutelli: la città è un’entità viva con i suoi umori, malesseri e difficoltà, premia e boccia papi e governi. La candidatura di Rutelli viene vissuta come una scelta “di casta” e punita severamente. Oltre settanta imprese, tremila operai all'opera, appalti a tempo di record e contratti all'insegna della trasparenza. I lavori per il restyling in vista del G7 di luglio inaugurano a Napoli l'era post-Tangentopoli. Bassolino ha rimesso in moto la macchina dei lavori pubblici, ma la musica è cambiata. Il rinascimento parte da qui: sembra una stagione destinata a durare perché il patto stretto tra Bassolino e i suoi concittadini poteva sconfiggere il malaffare e il brutto (le Vele di Scampia e l’area ex Bagnoli). L’idea di chiudere con la Napoli dei Lauro e dei Cirino Pomicino, ma anche col populismo nero di Alessandra

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Mussolini, ha dato speranza alla città. Ma il percorso è impervio e tutti i problemi che Bassolino non riesce a superare con volontà e carisma passano a Rosa Russo Jervolino. Otto anni di assedi e polemiche, si chiudono con una brutta pagina per la democrazia: l’annullamento delle primarie per sospette infiltrazioni. Non è andata meglio a Palermo dove era nata la Primavera di Orlando: chiudere con i Ciancimino e gli assessori all’urbanistica “non vedenti” (nel vero senso della parola). La “spinta propulsiva” si interrompe davanti alle difficoltà economiche e sociali del capoluogo siciliano, alle promesse e alle false speranze riversate dalla destra dopo il 61 a 0 sei seggi conquistati nelle Politiche del 2001. È bastata una faccia nuova e ben introdotta come quella di Cammarata per spazzare via la Primavera e i cento fiori. A fine anni ’90 c’è già aria nuova, a sud come a nord. A Bologna il mito della "città rossa", durato 54 anni, si dissolve in una notte d'inizio estate: il 27 giugno del 1999 Giorgio Guazzaloca, l' ex macellaio adottato dal Polo, affonda la diessina Silvia Bartolini e, con lei, l' intera corazzata rossa. È un colpo terribile per l' intera sinistra, una mazzata che va ben oltre i confini bolognesi. È la fine di un ciclo, la necessità di ripensare il modello emiliano, forse di farlo uscire dai confini dei migliori esempi delle amministrazioni socialdemocratiche del nord Europa . È la sfida che viene affidata e vinta da Sergio Cofferati, e oggi affidata a Vincenzo Merola: uomini di partito che hanno sempre guardato oltre gli schemi. E poi c’è Milano. Stravolta da tangentopoli, la capitale morale ha bisogno di una fase di “ripulitura” leghista. Sceglie forse il più posato dei leghisti: Marco Formentini. Mette insieme una maggioranza litigiosa e poco coesa che ne segna anche la fine e la riscossa di Albertini e Moratti. È quest’ultima che scopre il valore dei grandi appuntamenti e punta tutto sull’Expo del 2015. Ma al di là degli impegni per ottenere la scelta – in questo sostenuta dal governo Prodi – la gestione è stata disastrosa e causa della sua mancata rielezione. Sta ora a Pisapia coniugare trasformazione urbana e sviluppo sostenibile. A diciotto anni di distanza, la “stagione dei sindaci” ci lascia il tentativo, in alcuni casi riuscito di innescare dal basso un circuito virtuoso, rendere i comuni efficaci palestre per le future leadership nazionali, determinare una dinamica di

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Gli elettori troveranno la lista del Pd; in molti altri il partito ha svolto uno ruolo aggregatore, dando vita a liste civiche legate ad esperienze politiche o amministrative locali. Un po’ ovunque invece troveranno un centrodestra che ha portato il paese al disastro e che ora è diviso o confuso

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voto genuinamente basata sulla piattaforma programmatica e sui risultati conseguiti. In alcuni casi lo sterile binomio berlusconismo – antiberlusconismo ha finito per travolgere e polarizzare anche il voto amministrativo, mentre la competizione sul governo concreto ha troppo spesso lasciato il passo alla consueta propaganda fine a se stessa. Ora quello che a noi interessa capire è come quella stagione si sia evoluta e che cosa abbia veramente prodotto. Ha sicuramente avuto il merito di creare una classe dirigente capace di rispondere direttamente del proprio operato, di non avere più alibi di coalizioni e imposizioni di partito, di essere in genere prodotto di un area geografica definita. Questo ha dato molto potere ai sindaci, ma anche agli assessori e ai consiglieri comunali, che a un certo punto hanno pensato di poter dare vita a una rivoluzione dal basso: fu la stagione del partito dei sindaci. Il tentativo fallì per una resistenza centralistica, ma aveva alle sue origini motivazioni buone e serie. Fallì per un eccessiva personalizzazione che si faceva scudo della debolezza dei partiti. Le molte liste civiche divennero più partito del sindaco che partito della città. Insomma alla fine rimane il dubbio se la forza dei sindaci possa essere un antidoto o un effetto dell’antipolitica. Ancora di più al sud, dove le maggiori difficoltà dei partiti hanno prodotto un ottimo ambiente per sindaci-condottieri, uomini capaci ma pur sempre contenuti e limitati dal quotidiano e dagli scarsi strumenti, dalle poche risorse. Per le prossime amministrative in molti comuni gli elettori troveranno la lista del Pd; in molti altri il partito ha svolto uno ruolo aggregatore, dando vita a liste civiche legate ad esperienze politiche o amministrative locali. Un po’ ovunque invece troveranno un centrodestra che ha portato il paese al disastro e che ora è diviso o confuso, e non solo non è stato in grado di rinnovare l’alleanza Pdl-Lega, ma non è riuscito neanche ad individuare candidati comuni.


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Roma,

il governo urbano dopo gli anni novanta Roberto Morassut

è deputato del Partito Democratico, già assessore all’Urbanistica del Comune di Roma

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ra il 1993 ed il 2008 si è sviluppato il più lungo ciclo politico di governo della Capitale da parte di una coalizione di forze politiche riformiste dalla proclamazione di Roma Capitale in poi.Nel corso di questo quindicennio, spesso richiamato con la simbolica espressione di “modello romano”, la Capitale ha conosciuto una trasformazione significativa non solo sul piano politico ma soprattutto economico e sociale. In modo altrettanto sintetico si può dire che in quegli anni Roma ha vissuto sempre più intensamente la sua trasformazione in “metropoli”, superando progressivamente la dimensione di “città”. Il termine “metropoli” deve, per quanto vago ed insufficiente, riferirsi ad aspetti più estesi e generali al solo concetto territoriale e relativi alla crescente dimensione multietnica, alla internazionalizzazione della città, ad aspetti di costume, stili di vita, modalità della fruizione urbana, all’ingresso di nuovi protagonisti economici e finanziari nelle gerarchie dell’agone metropolitano. Uomini come Ennio Flaiano o Alberto Moravia, pur con le loro diverse sensibilità e caratteristiche letterarie, definivano ancora Roma – a cavallo tra gli anni 70 e 80 – una “grande città di provincia”. Moravia, in particolare, sottolineò come la crescita territoriale di Roma verso la provincia non avesse comportato una estensione del carattere di “Capitale” ai nuovi territori urbanizzati nel tempo bensì il contrario, un assorbimento di Roma da parte della provincia. Il contenuto fondamentale dell’azione del centrosinistra 73


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La riforma del sistema politico ed elettorale che dal 1993 dette stabilità all’istituzione comunale – a Roma come in tutti i grandi Comuni – e tempi certi di durata del mandato elettorale e di attuazione del programma

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romano alla guida del Campidoglio tra il 1993 ed il 2008, prima con Rutelli e poi con Veltroni, si può dunque riassumere nel tentativo – solo in parte riuscito – di invertire questa tendenza secolare e collocare Roma in una nuova dimensione più internazionale e moderna. Le due parole chiave dell’esperienza politicoamministrativa del cosiddetto “modello romano” si possono risolvere in “modernizzazione” e “solidarietà”. A distanza ormai di qualche anno dalla conclusione di quel ciclo politico si può svolgere qualche considerazione più libera dal dibattito politico e dire che seppur parzialmente, l’obiettivo di una modernizzazione di sistema dell’area romana e anche di una crescita economica fu raggiunto – anche se la successiva esperienza di governo con Alemanno sindaco ha compromesso molti risultati – grazie a tre fattori essenziali. In primo luogo le risorse disponibili per sostenere gli oneri di Capitale della Repubblica derivanti dalla approvazione nel 1990 della legge 396/90. In secondo luogo la riforma del sistema politico ed elettorale che dal 1993 dette stabilità all’istituzione comunale – a Roma come in tutti i grandi Comuni – e tempi certi di durata del mandato elettorale e di attuazione del programma. Infine l’affermazione di una nuova classe dirigente che si fece spazio nel naufragio del precedente sistema politico dedicandosi con passione ed umiltà al miglioramento della città e al tentativo di restituire fiducia ai romani, dopo il terremoto di Tangentopoli che spazzò via in pochi mesi decine di amministratori e dirigenti politici di governo. Il ciclo operativo della legge per Roma Capitale coincise fatalmente con il periodo di governo del centrosinistra romano, dal momento che i primi fondi furono erogati a partire dal 1992 per essere poi azzerati nel 2006 con il terzo governo Berlusconi ed avere un ultimo rifinanziamento nel 2007 con Prodi. A queste risorse vanno aggiunti inoltre i circa 1500 miliardi di lire di cui la Capitale beneficiò grazie alla legge per lo svolgimento del Giubileo del 2000 – la 651 del 1996 – . Tali risorse furono impiegate per portare a compimento opere importantissime ed attese da tempo nel campo delle infrastrutture, del recupero urbano, degli interventi sulle aree archeologiche, della valorizzazione ambientale, del risanamento di ampi settori di periferia urbana e della realizzazione di numerose opere pubbliche tra le quali: il nuovo complesso dell’Ara Pacis, il nuovo Centro Congressi,


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la nuova Stazione Tiburtina, la ristrutturazione del Palazzo delle Esposizioni, il recupero dell’ex Mattatoio di Testaccio, la riqualificazione delle aree basilicali, il sottopasso di Castel S’Angelo solo per ricordare una piccola parte delle realizzazioni. Con la legge 81 del 1993, inoltre, e con la elezione diretta del Sindaco e del Consiglio comunale attraverso il doppio turno con ballottaggio, si legò saldamente e per la prima volta il primo cittadino agli elettori e alla sua maggioranza. Oggi tutto questo sembra normale ma allora non era così perché questa novità rovesciò completamente le modalità di funzionamento delle istituzioni comunali e dette stabilità al mandato elettorale consentendo per la prima volta alla politica di generare progettualità e contare su tempi adeguati e certi per attuare programmi e realizzazioni Il rinnovamento della classe dirigente fu il terzo fattore decisivo di quella stagione. Fu a Roma che, va ricordato, si generarono per la prima volta in Italia le condizioni per uno schieramento di alleanze che raccoglieva gli eredi della sinistra storica di tradizione comunista e socialista – il PDS, Rifondazione Comunista e le frazioni socialiste rimaste operanti – i Verdi e successivamente il Partito popolare e che fu anticipatore dell’Ulivo.

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Occorreva definire un nuovo quadro di regole senza bloccare tuttavia la trasformazione urbana e l’economia cittadina. Da qui nasce la famosa definizione di “pianificar facendo”, che tanto ha fatto discutere negli anni più recenti e che spesso è stata travisata da alcuni frettolosi osservatori

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Rutelli e Veltroni interpretarono pienamente nel sentimento popolare questo cambiamento. In questo quadro anche la politica urbanistica potè aprirsi ad una nuova fase e pensare in grande. Dopo tanti anni si decise finalmente di affrontare il problema di fondo che Roma si trascinava ormai da molto tempo: quello di superare un Piano regolatore ormai obsoleto e ampiamente tradito, nella sua originaria ispirazione, forse addirittura fino dall’atto di nascita nel lontano 1962. Non era facile. Occorreva definire un nuovo quadro di regole senza bloccare tuttavia la trasformazione urbana e l’economia cittadina. Da qui nasce la famosa definizione di “pianificar facendo”, che tanto ha fatto discutere negli anni più recenti e che spesso è stata travisata da alcuni frettolosi osservatori, come un approccio debole alla pianificazione urbana. È vero il contrario: mentre si definivano le nuove regole della trasformazione urbana – in un percorso progressivo che avrebbe richiesto alcuni anni - il Comune adeguava le vecchie previsioni ormai superate variandole, attraverso accordi di programma, al nuovo disegno. Il passato aveva lasciato in eredità oltre 120 milioni di metri cubi di previsioni edificatorie prevalentemente residenziali e non ancora attuate, un drammatico deficit di dotazioni infrastrutturali, in particolare per il trasporto di massa e le metropolitane, una città abusiva enorme con centinaia di migliaia di romani senza piani particolareggiati ed opere di urbanizzazione primaria e secondaria, solo per ricordare le questioni principali. Il Nuovo Piano Regolatore Generale, che sarebbe stato approvato nel 2008 con Veltroni, fu la conclusione, quindi di un lungo percorso di elaborazione e di azione politica ispirato ad alcuni obiettivi di fondo. Primo: ridurre il dimensionamento residuo eccessivo, compatibile con una città di 5 milioni di abitanti mentre Roma, ancora oggi, non supera i 3 milioni. Secondo: riequilibrare le destinazioni d’uso, accrescendo le previsioni per servizi ed attività e riducendo quelle residenziali private incompatibili con il mercato medio basso, vera emergenza per la casa. Terzo: rendere coerenti le nuove previsioni edificatorie con lo sviluppo del sistema della mobilità subordinando il rilascio delle concessioni edilizie alla realizzazione delle infrastrutture ed al contributo dei privati alla loro realizzazione. Quarto: spostare in periferia funzioni


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di sviluppo e servizi pubblici e privati di rango, creando nuove centralità urbane e nuovi quartieri misti e non monofunzionali – dormitori o solo di uffici - e sollevando il centro storico da un eccessivo carico di funzioni terziarie. Quinto: attuare un progressivo programma di risanamento della periferia ex abusiva completando i piani particolareggiati ancora sospesi e perimetrando i nuclei di più recente generazione. Sesto: valorizzare l’eredità storica archeologica, paesaggistica e monumentale di Roma e della sua area metropolitana. Lungo queste direttrici furono dunque cancellati oltre 65 milioni metri cubi di vecchie previsioni edificatorie, riconvertiti a nuove destinazioni d’uso e ricollocati con compensazioni oltre 6 milioni di metri cubi, rimodellata la rete del trasporto urbano prevedendo circa 550 km di infrastrutture tra metropolitane, ferrovie concesse e regionali, corridoi del trasporto pubblico, definite 18 nuove centralità di sviluppo urbano misto in periferia, perimetrati oltre 80 nuclei ex abusivi, tutelato a verde pubblico o a suolo agricolo i due terzi del territorio romano – 88 mila ettari su un totale di 129 mila – e definite 15 aree di tutela ambientale tra Parchi regionali e Riserve naturali e salvaguardato un immenso patrimonio agricolo, esteso il concetto di “Città storica” a 7000 ettari di territorio, varcando il perimetro delle Mura Aureliane pari a 1700 ettari e ampliando l’orizzonte temporale della tutela al Novecento con un autonomo sistema di classificazione dei beni chiamato “Carta della Qualità” che va ben oltre i vincoli di Stato e aiuta l’azione delle Sopraintendenze. Questo processo non mancò di incontrare ostacoli e anche di conflitti politici e sociali ma d’altro canto le riforme, quando sono vere, non sono passeggiate. A distanza ormai di qualche tempo si deve ricordare che per una piena efficacia delle previsioni scaturite da quella stagione mancarono – e mancano ancora – alcuni elementi assai importanti. Una più moderna legislazione urbanistica e di governo del territorio nazionale ed in particolare regionale, avendo il Lazio una delle leggi urbanistiche più arretrate d’Italia ed un quadro di poteri del Campidoglio più chiaro e definito rispetto ad un normale Comune in virtù della funzione di Capitale che Roma onora. Questi limiti hanno reso, in quegli anni, molto faticosa l’azione di riforma suggellata dall’approvazione del Nuovo PRG anche se i risultati raggiunti sono preziosi e non

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Attuare un progressivo programma di risanamento della periferia ex abusiva completando i piani particolareggiati ancora sospesi e perimetrando i nuclei di più recente generazione

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Nel frattempo i quattro anni di gestione capitolina di Roma da parte della destra e di Alemanno hanno prodotto guasti gravissimi i cui effetti sono ancora da valutare nella loro portata complessiva. Il centro sinistra può riproporsi efficacemente nel 2013? Penso di si e lo spero con ogni energia

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vanno dispersi. Recentemente, con l’approvazione da parte del Governo Monti di nuove misure per Roma Capitale, sembra muoversi qualcosa per quanto riguarda le prerogative del Campidoglio mentre ancora incerto è il destino della Città Metropolitana, la nuova dimensione istituzionale che dovrebbe unire, in qualche modo, il Comune di Roma e la Provincia di Roma. Nel frattempo i quattro anni di gestione capitolina di Roma da parte della destra e di Alemanno hanno prodotto guasti gravissimi i cui effetti sono ancora da valutare nella loro portata complessiva. Il centro sinistra può riproporsi efficacemente nel 2013? Penso di si e lo spero con ogni energia. Ma a due condizioni che poi sono la stessa cosa. Innovare la propria idea di città ed aprirla a nuove energie civiche – come fece nel 1993 e nel 2001 – ma traendo da quella stagione le tante energie che essa ancora conserva, non fosse altro per il fatto che molte delle opere finanziate, progettate ed avviate tra il 2001 ed il 2008 e abbandonate da Alemanno, saranno inaugurate da quello che sarà il futuro Sindaco di Roma dopo il 2013.


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Torino

tra crisi e metamorfosi Sergio Chiamparino già Sindaco di Torino

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ll'inizio degli anni '90 Mirafiori, lo storico stabilimento Fiat di Torino, impiegava ancora circa 50 mila dipendenti; oggi ve ne sono circa 12 mila includendo i cosiddetti "terzisti", cioè persone che lavorano a Mirafiori dipendendo da altre aziende. Sempre in quel periodo a Torino il turismo era pressoché sconosciuto mentre oggi raggiunge circa 3 milioni di presenze annue, e nelle ultime vacanze invernali Torino è risultata la città più prenotata dopo Roma. 79


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Investimenti significativi sulla trasformazione urbana che, utilizzando credo sapientemente alcuni grandi eventi , ad iniziare dalle Olimpiadi invernali 2006, ha affermato una sorta di keynesismo strutturale che ha stimolato l'economia attraverso investimenti in opere pubbliche che hanno cambiato l'aspetto della città

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Questi due insieme di dati sono, al tempo stesso, indicativi di una traiettoria che la città ha compiuto ed ingannevoli sul futuro della medesima. Sono indicativi perché segnalano l'ormai irreversibile superamento di quello che era stato per decenni lunghi quasi un secolo il modello di crescita della città, quella "one company town" che, sia sotto il profilo economico sociale e sia su quello culturale e spesso anche politico postulava una dipendenza del territorio dalle vicende della " casa madre" Fiat. Se, come si diceva allora, quel che era bene per Fiat era bene per l'Italia, per Torino era ancora meglio! Soprattutto, se poi consideriamo che nel corso di quest'ultimo ventennio, è la struttura industriale torinese che si è diversificata, sia dal punto di vista dei settori merceologici, per esempio con la crescita di un tessuto significativo di circa 5 mila imprese, prevalentemente piccole, che nel campo della information communication technology, hanno recuperato, almeno parzialmente, lo sciagurato dissolvimento non tanto distante da Torino, ad Ivrea, di quell' Olivetti che era stata solo fino ad un decennio prima leader mondiale nell'informatica. O come il settore aerospaziale, che ha arricchito il patrimonio storico che la città aveva nel campo aeronautico. Diversificazione forse ancora più significativa è poi avvenuta sul piano del mercato, in particolare per l'automotive, che da propaggine del gruppo Fiat ha saputo trasformarsi in un player globale ed in alcuni casi è divenuto parte integrante di altri grandi gruppi automobilistici. A ben vedere è stato questo il processo che più di ogni altro ha permesso di assorbire la forza lavoro che veniva espulsa dal ciclo Fiat. Oggi, naturalmente, la crisi sta sottoponendo a dura prova questo assetto industriale, che, come un po’ ovunque, tiene bene in quei campi dove la produzione è fortemente orientata all' export, mentre, viceversa, segna il passo laddove è ancora troppo domestica, italiana ed europea. Se la città complessivamente ha retto e sta reggendo durante un ventennio in cui i periodi di crisi sono forse stati più ampi di quelli di crescita, ciò è dovuto oltre ai percorsi di diversificazione industriale ancora fragile accennati prima, ad investimenti significativi sulla trasformazione urbana che, utilizzando credo sapientemente alcuni grandi eventi, ad iniziare dalle Olimpiadi invernali 2006, ha affermato una sorta di keynesismo strutturale che ha stimolato l'economia attraverso investimenti in opere pubbliche che hanno


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cambiato l'aspetto della città, dalla metropolitana al passante ferroviario, dal recupero dei vuoti urbani al raddoppio di Politecnico ed Università al potenziamento del sistema museale alla riqualificazione delle principali piazze cittadine, alla edilizia sociale ed universitaria sviluppata con la trasformazione dei villaggi costruiti per i giochi olimpici. Certo tutto ciò è costato, si è incrementato l'indebitamento ma si è trattato di un debito per investimenti che restano nel tempo e che non solo è inevitabile ma è anche giusto finanziare a debito, in quanto si tratta di realizzazioni che utilizzeranno maggiormente proprio le generazioni future. Ho definito prima queste tendenze significative del cammino che la città sta compiendo ma anche ingannevoli sul suo futuro. Per la semplice ragione che sbaglieremmo se pensassimo che la trasformazione sia già avvenuta, sbaglieremmo se pensassimo che il grado di diversificazione/modernizzazione dell'industria sia sufficiente, consolidata e competitiva, sbaglieremmo se pensassimo che il traino dell'industria dell'intrattenimento possa sostituirsi in qualche modo a quello della modernizzazione manifatturiera. Ciò significa che Torino deve continuare ad investire su quei fattori che possono concorrere a creare un ambiente più attrattivo nei confronti degli investimenti industriali. Per queste ragioni è strategica un’opera come la Tav , non certo perché può ridurre di qualche tempo il viaggio fra Torino e Lione, ma perché, completando una rete europea di trasporto moderno per merci e persone mette Torino in condizioni di attrarre investimenti oltre che di consolidare quelli esistenti. Analogamente ovviamente vale per il potenziamento della ricerca e della formazione ed in generale per tutte quelle politiche di sostegno all'innovazione su cui le autorità locali hanno un minimo di margine di intervento. Ma il cambiamento forse più significativo che è avvenuto nel ventennio trascorso è quello nello spirito pubblico della nostra comunità. Con una sintesi si potrebbe dire che siamo passati dalla comunità del lamento a quella dell'orgoglio. Da quelli che si piangono addosso perché tutto è stato inventato a Torino e tutto è andato via a quelli orgogliosi di appartenere ad una comunità consapevole di avere grandi risorse da investire nella sfida della modernità e della globalizzazione e fiduciosa di poterlo fare in modo

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È strategica un’opera come la Tav , non certo perché può ridurre di qualche tempo il viaggio fra Torino e Lione, ma perché, completando una rete europea di trasporto moderno per merci e persone mette Torino in condizioni di attrarre investimenti oltre che di consolidare quelli esistenti

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Proprio a Torino, con le elezioni del ' 93, nasce la prima esperienza politica di governo basata sull'incontro e, contemporaneamente, sulla scomposizione, di forze della sinistra di formazione comunista e socialista con forze del centro liberale e cattolico

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vincente. Volendo andare un po’ più a fondo in questo che mi pare un punto cruciale, si potrebbe dire che processi che in altre realtà hanno appiattito lo spirito comunitario (si pensi ad esempio a Detroit), qui non hanno intaccato le radici di solidarietà sociale e di solidità culturale eredità di una storia in cui le reinvenzioni del futuro non sono mai avvenute azzerando il passato. La profondità e la pesantezza della trasformazione economica e sociale non hanno distrutto quegli elementi di comunità che resistono solidi, sia nella cultura laica che in quella cattolica a ricordare il primato della persona sulle cose. Gli stessi grandi eventi non si sono ridotti ad una spettacolarizzazione separata dal contesto sociale e non si sono esauriti in se stessi proprio perché hanno saputo innervarsi materialmente nel funzionamento della società, traendo da essa risorse per la loro realizzazione e lasciando ad essa risorse preziose per andare avanti. L'esempio delle Olimpiadi, del loro svolgimento e del loro lascito materiale e immateriale è da questo punto di vista significativo. C'è qualcosa di più profondo, su cui vale la pena riflettere, di quelle che pure sono state delle buone gestioni amministrative della nostra città. Alla base vi era e vi è una visione del futuro della città che non è appartenuta e che non appartiene a questa o quella amministrazione, ma che è nata da un confronto che fin dall'inizio ha attraversato non solo i diversi campi politici ma anche le diverse forze economiche e sociali. Quella visione di una città capace di guardare oltre la "one company town", di andare oltre la Fiat con la Fiat per usare una felice semplificazione, nasce, a ben vedere, negli anni difficili immediatamente successivi alle vicende degli anni '80 con la sconfitta del movimento sindacale davanti ai cancelli di Mirafiori, in cui esponenti del mondo imprenditoriale, della cultura, del sindacato e della politica hanno il coraggio di provare a dialogare e di costruire quasi sempre con quell’informalità che permetteva di guardare al di la dei rispettivi recinti di appartenenza, ipotesi che sono divenute, passo dopo passo, patrimonio comune di larga parte delle principali forze politiche economiche e sociali della città, gestite poi al governo cittadino da quelle componenti che hanno saputo esprimere le persone più credibili per attuarle. Una visione insomma che non si afferma come patrimonio di una parte politica che la proietta sulla città, ma


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che, al contrario, nasce per assimilazioni successive dalla città per poi diventare patrimonio comune gestito da quelle forze che riescono a renderlo credibile ai cittadini. Non è casuale, credo, che proprio a Torino, con le elezioni del ' 93 , nasca la prima esperienza politica di governo basata sull'incontro e, contemporaneamente, sulla scomposizione, di forze della sinistra di formazione comunista e socialista con forze del centro liberale e cattolico, ognuna delle quali si divide al proprio interno e trova ragioni di nuove alleanze esattamente sul progetto amministrativo per la città. Una visione che con i passaggi politici ed amministrativi diventa progetto che si incardina in atti di governo decisivi come sono stati il Piano Regolatore del '95 ed il Piano strategico del '99 aggiornato poi con la seconda edizione nel 2006, in cui trovano operatività le trasformazioni urbane di cui si è sommariamente parlato all'inizio. Un progetto amministrativo di governo che comincia concretamente a realizzarsi alla fine degli anni '90 e che sta andando avanti. È capitato spesso di riconoscere nella capacità di cooperazione istituzionale una delle chiavi di successo delle esperienze amministrative torinesi. A ben vedere la base di ciò non risiede soltanto e forse nemmeno principalmente nella soggettività di chi ha governato ma in quel retroterra di condivisione di un percorso che si è affermato come il solo credibile per traghettare la città nel futuro. Certo, contano le modalità di gestione di un processo di tale complessità. L'ascolto, il coinvolgimento dei cittadini e delle forze protagoniste della vita cittadina, la responsabilità delle decisioni da assumere che non possono essere delegate ad un confronto infinito. Ma vi è da chiedersi se questo esercizio di leadership collettiva sarebbe stato possibile senza quello sforzo iniziale con cui forze e persone diverse hanno avuto la voglia e la capacità di contaminarsi, di andare oltre alle loro appartenenze, di inoltrarsi in territori per certi aspetti poco conosciuti , che apparivano densi di insidie. Vi è da domandarsi, in altri termini, se il cambiamento non sia sempre e non possa che essere prodotto dalla rottura di quelle certezze tranquillizzanti che le appartenenze culturali e politiche garantiscono. Da questo punto di vista l’esperienza torinese forse può rappresentare qualcosa di più di un semplice racconto locale sul passato.

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Questo esercizio di leadership collettiva sarebbe stato possibile senza quello sforzo iniziale con cui forze e persone diverse hanno avuto la voglia e la capacità di contaminarsi, di andare oltre alle loro appartenenze, di inoltrarsi in territori per certi aspetti poco conosciuti, che apparivano densi di insidie?

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Milano,

dilatare la cittadinanza Maria Grazia Guida è Vicesindaco di Milano

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nterrogarsi oggi sulla questione della città significa affrontare una visione di città nel contesto dei processi di globalizzazione. Secondo i dati diffusi dall'Onu, una persona su due, cioè circa 3,3 miliardi di persone, (in previsione 4 miliardi nel 2020), oggi vive nelle città. È evidente dunque che dire città significa affrontare una questione di rilevante complessità. Anche per chi come me sta collaborando a governare una città in profonda trasformazione, avverte subito che ci sono difficoltà connesse alla crisi che stiamo vivendo, ma anche alla debolezza del pensiero culturale e programmatorio che deve caratterizzare una città moderna e globalizzata come può essere Milano che si appresta a vivere l’Expo 2015.

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Culture diverse Milano per tanti anni è stata una città amministrata male, affidata a una cultura e a un linguaggio politico debole e in contrasto con una visione della città globale. Basti pensare a come finora si è creduto di affrontare la realtà dell’immigrazione con stereotipi di rifiuto e di chiusura. Certamente amministrare una città significa affrontare la questione della sostenibilità delle scelte e misurarsi con una difficoltà di far convergere dinamiche partecipative e aspettative crescenti con i limiti del possibile politico che non mortifichi, ma valorizzi comunque la spinta che (diciamo in termini sloganistici) nasce dal “basso”. Milano oggi vive questa stagione partecipativa che ha imposto di voltare pagina. Tutto questo rende ancor più urgente elaborare una cultura e un’amministrazione della città che possa mantenere la memoria e la tradizione di chi vi ha abitato e vi abita, ma che al contempo si confronti con chi proviene da altri Paesi con il loro grande bagaglio di culture, oppure semplicemente usa e “consuma “ la città perché vi lavora pur non abitandovi.

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Il fenomeno migratorio non è una questione da affrontare nel capitolo emergenze o in quello dell’assistenza, ma è un fenomeno strutturale che cambia e innova la qualità della vita della città

Il fenomeno migratorio Emerge in tutta la sua gravità l’assenza di una politica da area metropolitana sempre più urgente. È evidente che il fenomeno migratorio non è una questione da affrontare nel capitolo emergenze o in quello dell’assistenza, ma è un fenomeno strutturale che cambia e innova la qualità della vita della città. La popolazione straniera a Milano (secondo la statistica 2010) era ormai di 220.000 unità con la nazionalità filippina come maggiore presenza fra le dieci prevalenti, prima di quella egiziana, cinese, peruviana, equadoregna, dello Sri Lanka, della Romania, del Marocco, dell’Ucraina e dell’Albania. L'Italia è il quarto Paese europeo dopo Germania, Spagna e Regno Unito per numero assoluto di residenti stranieri. Bastano questi dati per rendere evidente l'immigrazione come fenomeno non esterno alla visione di città, ma strutturalmente presente. Ecco perché diventa centrale il dibattito attorno alla cittadinanza. Il sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall nel 1950 ha avuto il grande merito di mettere al centro dell'analisi della cittadinanza (vista sino ad allora soltanto come status giuridico-politico) il suo carattere multidimensionale, espresso dai diversi sistemi di diritti, oltre a quello civile e a quello politico esiste anche 85


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Il valore della cittadinanza come elemento propulsivo per una qualità del vivere urbano diventa allora sempre più decisivo

quello sociale. Si tratta cioè non soltanto di riconoscere una cittadinanza di natura formale, ma di esprimere la dinamica partecipativa, quella dei diritti sociali che promuove e valorizza pratiche sociali, mette in moto socialità e legami. Il valore della cittadinanza Una città non può essere senza legami, senza sentimento diffuso di appartenenza. Ecco perché la centralità delle questioni sociali, delle relazioni tra le persone diventa strategica anche come priorità nelle scelte e nella costruzione delle esigenze primarie. Quindi dire città significa partire dalla cittadinanza e da lì alimentare lo sviluppo economico, urbanistico, culturale e spirituale. È un concetto necessariamente multidimensionale, che esprime contemporaneamente uno status, un’attività, un’identità che si traduce non solo nell’avere il passaporto, ma nell’acquisizione dei diritti sociali. Il valore della cittadinanza come elemento propulsivo per una qualità del vivere urbano diventa allora sempre più decisivo. Questa è la grande sfida che anche l'amministrazione della nostra città deve portare avanti voltando pagina anche sul piano della decisionalità non più affidata a logiche spartitorie. È una Giunta, la nostra, scelta dal sindaco che propone un'autonomia del governo della città che valorizza e si arricchisce del contributo determinante dei partiti che sostengono la maggioranza, ma che si rivolge a tutta la città e che vorrebbe avere anche il contributo di chi non si vorrebbe facesse solo opposizione ostruzionistica, come purtroppo stiamo constatando. Amministrare una metropoli richiederebbe un modo di pensare e operare politicamente che non riproduca in termini pedissequi lo scontro tra partiti di maggioranza e opposizione. Il paradosso da noi è che mentre parrebbe attutirsi a livello nazionale con il cosiddetto governo tecnico questa conflittualità schematica e pregiudiziale, assistiamo nella città di Milano a un’opposizione strumentale e ostruzionistica che non è all’altezza delle sfide e dei tempi di azione che una città dovrebbe avere. Il “rovescio della città” Certamente il vivere urbano è un vivere complesso dove abitano plurali identità che modificano radicalmente le forme della convivenza sino ad ora conosciute. Si tratta di tener sempre presente quello che alcuni studiosi chiamano” il

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rovescio della città”. La questione stessa della sicurezza non è solo legata alle necessarie misure di polizia o al decoro urbano da salvaguardare, ma è legata soprattutto all'integrazione o se si preferisce alla convivenza. E qui allora la questione del multiculturalismo diventa importante. Il multiculturalismo spesso visto come problema è comunque un veicolo di una richiesta di inclusione e di partecipazione alla piena realizzazione sostanziale dei principi di uguaglianza e di equità e mette spesso in discussione le regole della convivenza. È un principio dinamico che rende la città non un luogo asettico, ma un laboratorio vivo di cambiamento. Quanto sto proponendo, anche come Assessore all’Istruzione, rispetto alle scuole dell’infanzia: l’impegno a coinvolgere tutta la città nell’attenzione ai bimbi da zero a sei anni evidenzia questa visione dinamica, di futuro nel guardare alla città. Una città senza futuro è una città chiusa. A maggior ragione questa scelta va fatta nella nostra città che ha più di 400.000 anziani over 65 e più di 220.000 stranieri su un totale di 1milione e 200.000 abitanti.

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Si pensi che a Milano sono oltre 18.000 le imprese gestite con grande senso di imprenditorialità dagli extracomunitari

Il compito della scuola Ecco allora che emergono in relazione agli aspetti culturali sociali umani del vivere in città il compito della scuola, delle istituzioni impegnate nella formazione che diventano sempre più fondamentali. Vorrei qui ricordare quanto il cardinal Martini ha voluto consegnando alla città quella Fondazione che chiamò Casa della Carità che ho avuto la gioia e la fortuna di dirigere fin dagli inizi con don Virginio Colmegna. Il cardinale ha voluto, partendo dall’ospitalità e gratuità, che la Casa diventasse un laboratorio culturale da dove guardare alla città con uno sguardo nuovo. Ecco perché quello che sta succedendo a Milano anche con l'apertura di un dialogo con le comunità religiose presenti sul territorio sta portando a un superamento di visioni miopi di chiusura. Queste scelte strategiche riguardano anche lo sviluppo economico. Si pensi che a Milano sono oltre 18.000 le imprese gestite con grande senso di imprenditorialità dagli extracomunitari. Si chiede dunque un'immissione di capacità culturale, formativa, di strategie partecipative. È quanto abbiamo avvertito crescere a Milano, uno straordinario movimento che si sta vivendo nella nostra città.

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Come fare grande Napoli Maria Fortuna Incostante

è senatrice del Partito Democratico, già assessore alle politiche sociali del Comune di Napoli

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apoli sembra attraversare una delle sue fasi di declino, trascinata dalle difficoltà economiche e sociali dall’ aumentato peso delle attività criminali in campo economico, da mancate politiche di sviluppo del mezzogiorno. Come guardare al futuro, come governare oggi da Napoli puntando al suo sviluppo? Occorre partire da qui, dalle sue contraddizioni, dalle sue difficoltà ma anche dalle sue potenzialità. Napoli soffre di un mancato governo metropolitano, assorbe in modo massiccio le disfunzionalità di un area di oltre 3 milioni di abitanti le cui contraddizioni si scaricano sul capoluogo. Per questo occorre un forte impulso istituzionale e politico per la costruzione della città metropolitana e, comunque,

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iniziare a stringere accordi con i comuni periferici per la gestione di servizi di area vasta che possono rappresentare, se razionalizzati e resi efficienti, asset produttivi di un certo interesse. Napoli deve progettare il suo futuro come capitale del sud, capitale economica e direzionale, altrimenti non realizzerà mai il risanamento del suo tessuto urbano; deve ripensarsi come la “Grande Napoli” fuori e oltre il suo spazio di governo. Pensarsi come “Grande Napoli” fuori di Napoli, come Governo della grande metropoli, solo a questa dimensione esistono spazi fisici, risorse umane, infrastrutture presenti e potenziali in grado di generare/attrarre un flusso di nuova ricchezza. Napoli metropoli di quasi quattro milioni di abitanti fornisce le risorse “direzionali” indispensabili per crescere. Città metropolitana “porta” di accesso al Mezzogiorno, ai Balcani e alla costa Nord Africana e all’Oriente, che concentra in sé le funzioni finanziarie, logistiche e culturali per innervare l’intera zona di libero scambio nel Mediterraneo, cogliendo le opportunità del suo progressivo ritorno nella dimensione del mercato globale. Dentro questa impostazione c’è l’idea di una città moderna, funzionale e civile; una città che si muove per rendere produttive le sue principali risorse individuando le priorità e capace di attrarre risorse esterne determinando una relazione positiva tra pubblico e privato. Fondamentale è liberare tutte le energie e le risorse della città, rompendo steccati e spinte conservatrici, contrastando tentazioni di scambio politico elettorale tra pezzi di mondo politico e settori del mondo economico. Il passaggio dalla presente crisi di “vocazione” della città al futuro di Capitale del Sud non si disegna a tavolino, il futuro di una grande comunità deve essere il risultato del libero interagire di forze economiche, sociali e culturali, dentro un contesto fornito dalla politica, cui spetta l’onere di individuare una meta condivisa, attivando processi e dando corpo ad organizzazioni capaci di favorirne il conseguimento. Napoli da sola non è in grado di farcela, è necessario perciò attrarre capitali e competenze è indispensabile cambiare modello culturale e di riferimento e dunque orientare le scelte secondo valutazioni di vantaggio competitivo rispetto a realtà concorrenti, valutare i progetti in funzione della loro capacità di cambiare profondamente sia l’identità sia la percezione della città rispetto ai cittadini e agli interlocutori esterni, agire

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Napoli metropoli di quasi quattro milioni di abitanti fornisce le risorse “direzionali” indispensabili per crescere. Città metropolitana “porta” di accesso al Mezzogiorno, ai Balcani e alla costa Nord Africana e all’Oriente, che concentra in sé le funzioni finanziarie, logistiche e culturali per innervare l’intera zona di libero scambio nel Mediterraneo

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Può essere uno dei più grandi centri del mediterraneo per lo scambio culturale, sia a livello congressuale che di leisure. Può affermarsi come un luogo di eccellenza europea e internazionale di sperimentazione e produzione di arte e cultura legate anche alle nuove tecnologie e ai nuovi media

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secondo traiettorie in grado di modificare equilibri consolidati che invece ingessano il tessuto socio economico cittadino. Napoli può giovarsi di alcune opportunità o trend di sviluppo globali: lo spostamento verso est degli assi di sviluppo sia per l’ imporsi della Cina e dell’ India sulla scena del commercio mondiale, sia per l’allargamento della Unione Europea; una posizione preferenziale per il rapporto con i paesi della sponda del mediterraneo desiderosi di nuovi protagonismi; il cambiamento dei modelli e dei flussi turistici dall’est europeo e dall’ oriente; gli interessi di numerosi operatori economici (nazionali e internazionali) a realizzare (purché si determinino migliorate condizioni di contesto) i loro investimenti. Napoli ha dei suoi punti di forza, può contare su alcuni asset strategici: gli spazi fisici di grandi dimensioni interessati attualmente o potenzialmente da trasformazioni urbane di grande portata; le grandi infrastrutture di mobilità dell’area metropolitana (che prevedono una capacità di trasporto su ferro, nel 2015, superiore a quella di Parigi), la connessione dell’alta velocità che associa Napoli-Roma in un continuum senza pari di potenzialità culturali economiche e turistiche, l’aeroporto cittadino e un sistema portuale di eccezionali dimensioni capace di gestire collegamenti di rete dal “sistema golfo” al mediterraneo e oltre; centri di eccellenza e di competenze, centri di ricerca, 5 università, teatri di livello internazionale, centro di produzione RAI, conservatorio, accademie e istituzioni di notevole prestigio; un capitale umano con elevati tassi di scolarizzazione e elevati tassi di disoccupazione. Napoli dovrebbe sviluppare strategie specifiche per il posizionamento della città, le opportunità su scala globale e i punti di forza consentono di aspirare a quattro posizionamenti competitivi e tra loro complementari e contestuali. Napoli può imporsi definitivamente come uno dei principali terminal crocieristici del mediterraneo proponendosi come hub per gli operatori internazionali. Può essere uno dei più grandi centri del mediterraneo per lo scambio culturale, sia a livello congressuale che di leisure. Può affermarsi come un luogo di eccellenza europea e internazionale di sperimentazione e produzione di arte e cultura legate anche alle nuove tecnologie e ai nuovi media. Può dimensionarsi a livello sovranazionale come polo di ricerca in alcuni settori strategici per il futuro (la biologia molecolare, la tecnologia dei materiali, l’ICT…); un’area che accoglie cervelli soprattutto dai paesi emergenti. Occorre scegliere quindi un modello di sviluppo aperto


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verso l’ esterno con idee chiare, semplici e coerenti, ben comunicabili e scandite nel tempo per attrarre grandi investitori (che esigono certezze e garanzie) e per realizzare accordi interistituzionali capaci di rimuovere in modo tempestivo gli ostacoli e agire con trasparenza ed efficienza. Il Comune può diventare un centro motore di attivazione di risorse, di sinergie, di composizione di interessi, di regolazione secondo i criteri propri di una pubblica amministrazione che persegue il prioritario interesse della città. Napoli deve essere “Città Matrice di sviluppo”. Le istituzioni devono operare per liberare le energie dell’economia sana, determinare le condizioni per nuovi investimenti: questo è quello che il Comune può fare per contribuire a creare nuove opportunità di lavoro. insieme a un quadro di norme e di regole capaci di dare certezza e sistema agli investitori. Occorre sfuggire alla forte pressione sociale del bisogno e alle pratiche di avviamento al lavoro condizionate dalla violenza di gruppi organizzati, e tantomeno rendere improduttivi ed inefficienti strumenti o asset pubblici per rispondere a domande di assistenza mascherata. Occorre separare nettamente le politiche attive del lavoro dall’assistenza. Occorre puntare per Napoli ad un Comune regolatore e non imprenditore, contro ogni possibile suggestione di neostatalismo municipale. Le partnership pubblico/private possono costituire anche a Napoli, in linea con le migliori esperienze europee, realtà gestionali di servizi pubblici ove sia coniugato l’interesse ed il controllo pubblico con l’efficienza, la trasparenza e il rispetto regole. È fondamentale agire secondo una traiettoria in grado di modificare equilibri consolidati che rischiano di ingessare il tessuto cittadino. Per far questo debbono essere superate, con vigile apertura alla innovazione, la tentazione e la pratica iperpubblicista sin qui dominanti a Napoli, collegandosi con l’orientamento prevalente registrato nelle stesse significative città governate dal centrosinistra, da Bologna a Torino per citare solo alcuni casi. Orientamento seguito con successo in altre grandi città europee, come Barcellona, che hanno saputo assurgere a esempio internazionale puntando sulla propria trasformazione. Napoli può puntare sulla sua trasformazione urbana sulle potenzialità che queste rappresentano per le sinergie con altre azioni che queste potenzialità possono determinare si può fare di tutto questo un’ occasione di sviluppo, per riposizionarsi nel quadro nazionale e internazionale.

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È fondamentale agire secondo una traiettoria in grado di modificare equilibri consolidati che rischiano di ingessare il tessuto cittadino. Per far questo debbono essere superate, con vigile apertura alla innovazione, la tentazione e la pratica iperpubblicista sin qui dominanti a Napoli

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Palermo

tra locale e globale Gianfranco Marrone

insegna Semiotica nell'Università di Palermo

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etropoli, megalopoli, sprawl urbano, schiuma metropolitana, città fantasma, città panico, città creative, città morte, città di quarzo, slums, favelas, fine delle città…E Palermo? Non rientra in nessuna di queste categorie, né può essere eletto a caso di studio per discuterle, interpretarle, decostruirle. Sta sotto il livello di percezione. E, a parte la ciclica eco mediatica per questo e quel malaffare mafioso, magari condito con tanto sangue atroce e qualche tonnellata di spazzatura per le strade, perché dovremmo occuparcene? Perché forse – digeriti, o almeno aggirati, gli stereotipi che l’assillano – Palermo si avvia a diventare una città normale, in cui le stabilità e le variazioni vengono dettate da istanze che trascendono le piccole realtà politiche e amministrative, pur coinvolgendole; istanze che sono di carattere economico e culturale, antropologico forse. Oggi Palermo conosce una serie di trasformazioni, sia su grande sia su piccola scala, le quali molto probabilmente non dipendono esattamente o soltanto da speculazioni o da volontà politiche, ma da una logica altra, da flussi semiotici, discorsivi, da forme di contagio, da processi di imitazione di altri centri urbani, da quella dialettica insomma fra locale e globale che in una città come questa, forse, si manifesta in modo più interessante ed evidente che in altre. È questa logica altra, tanto profonda quanto inconsapevole, che vorrei provare qui a esplicare. Per farlo, ripercorriamo quattro tappe evidenti nella recente trasformazione storica della città di Palermo. Per comodità, le indicheremo con le sigle Pa1, Pa2, Pa3, Pa4. Pa1 è la città antica tradizionale, quella che emerge nella dialettica fra memoria e narrazione, fra mitologia e 93


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C’è tutto un mitismo in questo racconto delle origini naturali dell’insediamento urbano: il mare, le montagne, la terra a poco a poco conquistata dall’uomo, assoggettata ai suoi bisogni, le sue necessità, i suoi capricci

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documentazione. È la Palermo panormus, tutto-porto, la grande insenatura naturale circondata dai monti che costituisce quella che è stata chiamata Conca d’oro. C’è tutto un mitismo in questo racconto delle origini naturali dell’insediamento urbano: il mare, le montagne, la terra a poco a poco conquistata dall’uomo, assoggettata ai suoi bisogni, le sue necessità, i suoi capricci. Da cui gli agrumeti dei giardini arabi, e poi lo sfarzo del barocco spagnolo, le civiltà che si accavallano, le dominazioni straniere che si succedono, la meta d’obbligo nel grand tour dei viaggiatori esotizzanti, la terra dove fiorisce il limone, in un odiamato tourbillon che – si dice – istituisce l’identità ferrea della città, la sua memoria storica, il suo irredimibile immaginario. Giù giù sino alle più recenti narrazioni mitologiche di una fiorente industria d’inizio Novecento, sorta di ritrovata età dell’oro, epoca bella e, manco a dirlo, sparita ed eternamente rimpianta. Pa2 è la città moderna, quella posteriore alla seconda guerra mondiale, in cui l’ideologia consumistica del modernismo rapace e avventuriero, in uno con le smanie della speculazione edilizia e le violenze della mafia rampante, ha provocato il noto dissesto della Conca d’oro, invasa dal cemento, e il conseguente abbandono dell’immenso centro storico. Dagli anni 50 in poi Palermo è diventata una città in cui, a differenza delle aree urbane – grandi e piccole – europee, il centro tradizionale non è né zona residenziale né luogo degli affari, degli uffici o del commercio ma, progressivamente con un ritmo sempre maggiore, luogo degradato: affidato alle incurie obbligatorie delle classi meno abbienti (prima) e alla cura pietosa degli stranieri immigrati (dopo). Esso diviene zona di studenti fuorisede e disperati extracomunitari che, abitando le dimore nobiliari d’un tempo, le preservano da una fatidica rovina. Palermo si sposta e si ingrandisce, ma ha perduto la propria identità, quella che nel bene o nel male era inscritta nei suoi monumenti storici, nel suo lungomare, nei suoi luoghi di culto e di pellegrinaggio. La Palermo moderna è una città senz’anima, se non quella dura e nera delle violenze, delle guerre e delle stragi mafiose, che nessun governo sa o vuole combattere. Pa3 è il passo successivo, che chiameremo ‘postmoderno’. Palermo postmoderna significa molte cose, non del tutto coerenti fra loro: significa – ingenua e irritante estetica per le rovine del centro storico (“struggente” è aggettivo che i turisti esotizzanti e i rampolli illuminati della nuova borghesia usano per descrivere la città decaduta); dalla quale discende una serie di operazioni artistiche compiute fra le macerie delle case


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crollate per il degrado, e poi il sorgere di qualche locale alla moda (gallerie, pub, ristoranti), qualche timida rassegna di spettacoli e concerti, pochi tentativi di recupero urbanistico. Agli immigrati di varie nazionalità che ormai abitano il centro storico, rivitalizzando i suoi mercati arabi, si mescolano così nuove frotte di parvenus che, sfruttando le prime speculazioni edilizie di ritorno, usano gli appartamenti restaurati alla meno peggio per esibire la loro sedicente jeunesse dorée. Il centro storico è adesso très chic, come colgono benissimo immobiliaristi e costruttori, e come pagano sulla loro pelle gli stranieri, progressivamente cacciati dagli edifici decaduti barocchi per raggiungere forzatamente il ghetto delle periferie più tristi e tradizionali. Così, Pa3 conosce l’arrivo sghembo di quello sviluppo che Pa2 non aveva saputo pensare altrimenti, di quella affrettata ricostruzione che il modernismo aveva soffocato in tutti i modi possibili, assassinî compresi. Pa4 è la Palermo che verrà – se vorrà – quando le mode passeranno di moda, quando gli entusiasmi dovranno cedere il passo a una politica urbanistica globale e condivisa, a una pianificazione razionale che si faccia carico delle istanze sociali e culturali più diverse, quali possono esistere in una città che, senza essere né metropoli né paese, è comunque ampia e variegata al suo interno. Se Pa3 è il futuro anteriore, Pa4 è una massa di segni e di flussi dati ancora a livello virtuale, che i luoghi da noi analizzati esprimono in modo più o meno surrettizio, più o meno evidente. È la spiaggia di Mondello che, dopo cent’anni esatti (19092009) di concessione a una società a capitale parzialmente estero, deve pensare e ripensare alla propria identità, dandosi una qualche destinazione funzionale e simbolica. È il Santuario di Santa Rosalia a Monte Pellegrino, dove masse di immigrati esibiscono i loro pantheon politeisti, in cui la patrona della città trova pacifico posto accanto a dèi ben più antichi e parzialmente nomadi. È il prato del Foro Italico, unica operazione urbanistica progettata a monte, a partire comunque da pratiche non regolamentate, e nel continuo incubo di un nuovo degrado. È la recente apparizione dei grandi mall in periferia, che ridistribuiscono non solo la mappa degli esercizi commerciali ma anche i flussi e le forme della socialità. È la scommessa del web, che deve riuscire a indirizzare la potenza delle sue nuove tecnologie di comunicazione verso dei contenuti che non rinvanghino sempre e soltanto un neoetnicismo di ritorno, tanto più pericoloso quanto più si nasconde dietro le maschere di una critica sociale da senso

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Il centro storico è adesso très chic, come colgono benissimo immobiliaristi e costruttori, e come pagano sulla loro pelle gli stranieri, progressivamente cacciati

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La Palermo attuale non è, e non ha, ancora un tessuto urbano, nel senso di un testo coerente e leggibile, ma soltanto un mosaico di zone felici senza alcun collegamento fra loro

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comune blandamente mediatico. Forse, la Palermo attuale – fra Pa3 e Pa4 – non è, e non ha, ancora un tessuto urbano, nel senso di un testo coerente e leggibile, ma soltanto un mosaico di zone felici senza alcun collegamento fra loro, ognuna delle quali dà adito a forme diverse di socializzazione, e con moltissime tessere mancanti: aree vuote e prive di significati, zone densissime ma senza identità, spazi aperti verso il nulla, forme di socializzazione degradate e violente che mal si mescolano con atteggiamenti regressivi e una cultura provinciale che dalle periferie e dai paesi dell’interno in abbandono si urbanizza come sa e come può. A metà fra tendenze globali e logiche semiotiche sta certamente un fenomeno curioso. Contrariamente a quanto si dice e si pratica in altre zone del Nord d’Italia e d’Europa, la massiccia presenza di diverse etnie d’immigrati non sta portando a una perdita dell’identità locale ma a una sua riacquisizione, a una sua risemantizzazione, ma una sua ripresa forse per certi versi anche ironica. Ironia della storia. Laddove molte note tendenze federaliste o autonomiste che hanno la meglio nel Nord d’Italia, usano gli immigrati come forza lavoro ma non riconoscono loro alcun diritto civile e alcuno spazio funzionale e simbolico di sussistenza, a Palermo, e in molte altre zone della Sicilia a dir il vero, il regime di deregulation lascia a essi molta più autonomia. Sarà per una migliore tolleranza verso lo straniero che destini storici millenari avrebbero regalato alla psicologia locale, sarà – come molti pure sostengono – perché la debolezza politica è funzione del dominio mafioso sulla società, sarà per entrambe le cose insieme, in ogni caso è abbastanza palese come gli immigrati, a Palermo, siano portatori di identità etnica: non la loro, si badi, né una ibrida e bastarda, ma proprio l’identità palermitana, dinamica, cangiante, eteroclita, certo, ma pur sempre palermitana. A ridare identità a Palermo, fra Pa 3 e Pa4, non sono né la grandeur da archistar né strategie da città creativa, né espansioni imperialistiche e globalizzanti né ritorni religiosi più o meno fondamentalisti. Sono gli immigrati. Gli stranieri non hanno confuso le identità, formandone una plurale, ma hanno fatto ritrovare ai palermitani la loro, ovviamente in modo diverso dal passato. A dirlo, a ripeterlo, a sbandierarlo, sono i luoghi di socializzazione della città, o quanto meno alcuni dei suoi siti e le pratiche che in essi, per essi, si svolgono. Lo dice il centro storico, i cui edifici barocchi e vicoli tortuosi hanno finalmente abbandonato le mitiche


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euforie tardo-gattopardesche per farsi alloggi, commerci e percorsi di etnie diverse, nel senso di portatrici di differenza, di molteplicità di valori, di pluralità di forme di vita. Grazie all’occupazione forzosa e fortunata del centro storico da parte degli stranieri non solo molti edifici, non più abbandonati, hanno meglio resistito al degrado, ma in generale tutta l’area ha sottolineato la sua abitabilità, il suo senso, la sua memoria. In esso, fra l’altro, stanno tornando a rifiorire i vecchi mercati arabi, che arabi sono tornati a essere per inconsapevole astuzia della storia. Ma lo dicono luoghi a prima vista meno sensibili come il Foro Italico e il suo prato, giardino in riva al mare che, usandolo come tale, gruppi diversi di immigrati hanno indirettamente designato come ‘normale’ sito per la socializzazione e il tempo libero. Per non parlare di un’altra grande area verde cittadina come la Favorita, che grazie agli stranieri potrebbe progressivamente diventare non più oscuro e informe confine fra la città e la spiaggia, mèta di loschi affari e

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L’intrusione degli immigrati nella società palermitana, nei suoi spazi urbani, nei suoi luoghi topici, è stata al tempo stesso un po’ meno e un po’ di più di un’agognata integrazione sociale

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sport dilettanteschi, ma un vasto parco dove improvvisare picnic domenicali, far correre i bimbi, riunirsi con gli amici, giocare al pallone. E lo ripete a gran voce il Monte Pellegrino che la grossa comunità di Tamil sta trasformando da icona visiva della città in spazio frequentabile, luogo di culto soprattutto, restituendo all’ormai dimenticato Santuario di Santa Rosalia tutto il suo valore sacrale. Così, per caso, ma forse per necessità storica e tendenza globale, l’intrusione degli immigrati nella società palermitana, nei suoi spazi urbani, nei suoi luoghi topici, è stata al tempo stesso un po’ meno e un po’ di più di un’agognata integrazione sociale. Di meno: perché il conflitto etnico permane, e nemmeno così surrettiziamente: come mostra per esempio l’assenza pressoché totale di stranieri da luoghi come la spiaggia di Mondello (da essi frequentata solo come luogo di lavoro saltuario e ambulante) o il centro cittadino di piazza Politeama (vissuta, soprattutto il sabato pomeriggio, ancora come spazio socializzante degli indigeni adolescenti). Ma anche di più: perché gli immigrati, a Palermo, non si sono limitati a imporre la loro presenza, esigendo una rinegoziazione degli spazi urbani, e, con essa, della identità cittadina locale. Diversamente, rivitalizzando determinati siti della città e rifacendone luoghi attivi di socialità, essi hanno ripreso le tradizioni, gli usi, i riti, i valori della città storica e hanno ridato loro un’importanza, un peso, un significato.


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La rinascita di Berlino, una città tra due secoli Gianluca Bocchi

insegna Filosofia della scienza presso l'Università di Bergamo

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u di un muro del quartiere berlinese di Kreuzberg è affissa una lapide. Essa indica che in quell’edificio, nel 1941, Konrad Zuse aveva costruito il primo computer al mondo. Il muro è diroccato, perché l’edificio venne distrutto alla fine della guerra, da uno fra i tanti bombardamenti che devastarono la capitale tedesca. Konrad Zuse sopravvisse alla guerra, ed ebbe anche successivamente fortuna come produttore di strumenti di alta tecnologia (computer compresi) nella Germania occidentale. Ma il fronte avanzato della ricerca era ormai diventato appannaggio della comunità scientifica e tecnologica statunitense, che a sua volta aveva indipendentemente creato il computer, per poi perfezionarlo e commercializzarlo. Questa storia esprime l’indissolubile groviglio di creazione e di distruzione nella Berlino del novecento, a sua volta un microcosmo emblematico del groviglio di creazione e di distruzione del novecento in Europa e nel mondo. Da un lato, a Berlino hanno avuto luogo tanti episodi decisivi della prima e della seconda guerra mondiale, di quei tornadi storici che portarono l’Europa ad un passo dalla sua cancellazione dalla faccia della Terra. E da Berlino, nell’età oscura del nazismo, partirono gli ordini della 99


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Berlino, nel corso del novecento, aveva sperimentato nel suo tessuto urbano le ondate di una quadruplice distruzione che hanno alterato e scosso alle radici i suoi fondamenti non solo materiali, ma anche identitari

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guerra di annientamento contro l’Unione Sovietica e subito dopo dell’Olocausto, che segnarono un’escalation di una barbarie inaudita in un secolo già cosparso di tante barbarie. D’altra parte, Berlino ha vissuto anche un’escalation di tutt’altro tipo, assolutamente pacifica, la notte in cui la caduta del muro è stata la svolta decisiva verso un nuovo ordine mondiale. E, oltre al computer, qui hanno avuto origine tante altre invenzioni e idee decisive nel mondo moderno: la televisione, il treno elettrico, la teoria dei quanti, la relatività generale, il design, l’urbanistica, il marxismo… Che “quel mucchio di macerie vicino a Potsdam”, come Bertolt Brecht definì Berlino nel 1949, sia tornata a essere una metropoli vitale e pulsante, capace di esercitare un potere d’attrazione su vasta scala, non è stato un processo scontato e indolore. Anzi, nei decenni di un duro dopoguerra questa rinascita poteva apparire sommamente improbabile. Berlino, nel corso del novecento, aveva sperimentato nel suo tessuto urbano le ondate di una quadruplice distruzione che hanno alterato e scosso alle radici i suoi fondamenti non solo materiali, ma anche identitari. La prima è la devastazione conseguente alla seconda guerra mondiale, sotto l’azione combinata dei bombardamenti occidentali e della successiva irruzione dell’esercito sovietico. La seconda è la divisione imposta dall’edificazione del muro, una lunga ferita che per decenni ha reso spopolate e inedificabili aree fra le più centrali e strategiche della città. La terza è una de-industrializzazione estrema, che ha scosso il tessuto economico di quello che era stato il centro indiscusso dell’Europa della seconda rivoluzione industriale. La quarta è dovuta all’impoverimento culturale allorché l’avvento del nazismo, nel 1933, impose l’emigrazione forzata di coloro che avevano reso Berlino una capitale mondiale della scienza, del cinema e delle arti. Dopo il crollo del muro una “nuova Berlino” è venuta in essere e si è evoluta, grazie a una particolare mescolanza di tre componenti che il più delle volte, negli sviluppi urbani, erano stati separati o addirittura contrapposti, e di cui soltanto ora si inizia a comprendere la loro indissolubilità e complementarità. Il primo è la memoria: l’impossibilità di passare sotto silenzio quello che è stato, nel bene e nel male, continua a generare opinioni, visioni, controversie del presente e per il


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futuro. Così il continuo richiamo degli orrori del passato impone uno spirito di vigilanza, in grado a sua volta di alimentare democrazia e tolleranza. D’altro lato la persistenza dei focolai culturali e dei tessuti architettonici materialmente scomparsi ispira e orienta, in maniera controversa ma feconda, la progettualità del presente. Non è in gioco un’impossibile ricostruzione letterale, bensì una selezione di ciò che rimane vivo in un’eredità spesso dispersa. Il secondo è l’innovazione. Oggi gli architetti di tutto il mondo arricchiscono Berlino delle loro proposte e dei loro interventi, e molti giovani in fase di apprendistato la pongono come propria sede elettiva. Ciò, a dire il vero, è stato reso possibile dalla lungimiranza dei decisori della Berlino ovest del dopoguerra i quali, nello stato d’assedio conseguente dalla costruzione del muro, avevano compreso che una delle chances a disposizione della città agonizzante poteva essere una sua reinvenzione quale vero e proprio museo all’aria aperta dell’innovazione urbana. Di tale intuizione fu espressione l’esposizione architettonica (IBA) degli anni ottanta, che produsse in diverse aree soluzioni originali ed eterogenee al tema dell’abitazione privata in un’ambiente di qualità. E lo fu anche e soprattutto l’idea del Kulturforum: nella fascia desolata immediatamente prospiciente al muro vennero insediati edifici ad alto valore architettonico e culturale (la Filarmonia, la Biblioteca di Stato, la Galleria Nazionale dedicata alle mostre dell’arte novecentesca), nella prospettiva di una città futura sperabilmente riunificata, e nuovamente ricca di flussi e di transiti. Oggi, allorché una tale prospettiva è diventata reale, il Kulturforum si salda, in un paesaggio del tutto inaspettato, con i nuovi edifici di Potsdamer Platz che nella città riunificata hanno avuto il compito di battistrada per sanare la ferita del muro, per riconnettere le città divise. Il terzo è il riuso, e la conseguente risignificazione. Le intrecciate vicende della guerra, della divisione e della deindustrializzazione hanno reso disponibili aree dall’immensa estensione, anche in zone centrali del tessuto urbano. Esse non ospitavano soltanto edifici non più ricostruiti dopo le vicende belliche e post-belliche, ma anche fabbriche, macelli, panifici, centrali elettriche, torri dell’acqua, stazioni, depositi ferroviari, scali merci, porti fluviali e persino due aeroporti (Tempelhof e, a partire dal prossimo giugno, anche Tegel).

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L’impossibilità di passare sotto silenzio quello che è stato, nel bene e nel male, continua a generare opinioni, visioni, controversie del presente e per il futuro. Così il continuo richiamo degli orrori del passato impone uno spirito di vigilanza, in grado a sua volta di alimentare democrazia e tolleranza

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La cultura non è separata dalle professioni, giacché queste stesse aree ospitano studi di design o di architettura, sedi di istituti di alta istruzione e incubatori tecnologici: l’aeroporto di Tegel oggi in fase di dismissione si vuole porre come il più importante centro europeo in tema di green economy

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Queste aree in genere non sono completamente vuote, e spesso sono anzi dotate di edifici di un notevole valore estetico, in buona parte agevolmente riadattabili a nuove funzioni, una volta sottratti ad anni o a decenni di degrado. Due strategie convergenti hanno reso queste aree una vera e propria ricchezza. La prima ha reso una parte di esse il nucleo di nuovi parchi, in una città già molto ricca di verde, animati da impianti sportivi, bar, caffè, attrezzature per bimbi, mercatini, addirittura spiagge per la stagione estiva. La seconda ha insediato in aree ancora più ampie teatri, cinema, luoghi di mostre e di eventi culturali, esposizioni permanenti, discoteche e soprattutto atelier per artisti. D’altra parte la cultura non è separata dalle professioni, giacché queste stesse aree ospitano studi di design o di architettura, sedi di istituti di alta istruzione e incubatori tecnologici: l’aeroporto di Tegel oggi in fase di dismissione si vuole porre come il più importante centro europeo in tema di green economy. Il fatto che il più delle volte le tipologie siano miste, le rende aree ricche di relazioni sociali, certamente una risorsa assai importante nella nostra società della conoscenza. Negli ultimi anni Berlino è sede di una scommessa economica e sociale, difficile e nello stesso tempo esemplare di un mondo in transizione. Come reinventare un’economia post-industriale vivibile in una metropoli di punta dell’età industriale? Si tratta di fare di necessità virtù, creando nuovi sviluppi economici dalla qualità e dall’eccellenza di tutti gli aspetti trainanti della società post-industriale, e dalle loro possibili combinazioni. Si tratta così della politica e dell’indotto della politica, giornalismo, televisioni e conferenze internazionali. Berlino è poi la città del cinema, dei telefilm, della musica, dei musei, dei trasporti, dei teatri, degli artisti impegnati socialmente, dei progettisti dei giardini, degli scrittori migranti, degli scienziati, degli ingegneri, delle fiere, dei traduttori, delle grandi manifestazioni sportive, della multiculturalità, delle coppie di nazionalità miste, di una nuova ondata di natalità che porta alla proliferazione di nuove asili, di un turismo che vuole essere selettivo senza essere elitario. Tutto questo forse non basta all’autosufficienza sul piano delle nude cifre economiche, né basta a compensare vari disagi sociali, nonché quel senso di emarginazione che aveva colpito molti cittadini della disciolta DDR all’indomani della caduta del muro. E tuttavia la parola


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d’ordine degli anni venti, “tenere una valigia a Berlino”, è tornata d’attualità. Per molti cittadini dell’Europa d’oggi Berlino è divenuta una città alla quale ci si affaccia e si fa ricorso spesso, per esplorare le novità del tempo e arricchire le proprie esperienze personali e professionali. Non solo i visitatori più o meno transitori, ma anche gli abitanti stessi percepiscono spesso Berlino come un’oasi di scarso controllo sociale in un mondo in cui il controllo sociale continua a essere pesante. Per questo è divenuta un palcoscenico dell’innovazione sociale, in cui viene proclamato il diritto di ognuno di cercare di vivere a modo suo, senza per questo rinunciare a integrazioni e a supporti comunitari. La posta in gioco di questo palcoscenico è la stessa scommessa sociale e ambientale che tutti noi, cittadini d’Europa e del mondo, siamo spinti ad affrontare in questa difficile età: svincolare la qualità della vita associata da imperativi di profitto troppo rigidi e unilaterali. Speriamo che un nuovo intreccio fra politica e cultura possa delineare una prospettiva di sviluppo umano in grado di dettare nuove regole a un’economia che ha bisogno di una sua compiuta rigenerazione.

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La parola d’ordine degli anni venti, “tenere una valigia a Berlino”, è tornata d’attualità. Per molti cittadini dell’Europa d’oggi Berlino è divenuta una città alla quale ci si affaccia e si fa ricorso spesso, per esplorare le novità del tempo e arricchire le proprie esperienze personali e professionali

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La Citta’ ideaLe tra Luoghi e NoN Luoghi Marc Augè

è etnologo e antropologo tratto da Futuro, Bollati Boringhieri, in uscita

Il linguaggio corrente ci riserva sorprese. Spesso si usa oggi il privativo «senza». Parliamo dei «senza fissa dimora» o dei «senza documenti»; e poiché sappiamo senza alcun dubbio che la loro situazione è molto problematica siamo indirettamente invitati a credere, come se fosse una cosa ovvia, che avere un domicilio fisso e dei documenti sia la condizione sufficiente della felicità. Altri esempi ci potrebbero facilmente convincere del contrario. I più ricchi di questo mondo accumulano domicili. Hanno residenze secondarie in diversi continenti, yacht, soggiornano negli alberghi di lusso di tutto il mondo. Hanno ovviamente dei documenti, ma sono così sicuri di sé e della loro identità che si rendono conto a malapena di mostrarli se devono farlo. Potrete dirmi che in effetti accumulano i vantaggi: i domicili fissi, le prove d’identità e le carte di 106

credito. Avrete ragione, ma mi permetterei di insistere: il cumulo delle residenze e la sicurezza di sé dei più agiati provano che l’ideale della vita individuale non è necessariamente l’attaccarsi a un luogo fisso, come la cozza alla sua roccia, e neppure il fatto di poter declinare le proprie generalità su richiesta, mostrando i documenti, ma, al contrario, risiede nella libertà effettiva di circolare e di restare relativamente anonimi. L’attrazione che esercitavano le città nel XIX secolo su coloro che abbandonavano le campagne e che esercitano oggi le grandi città del nord sui migranti venuti dal sud, è nata dalla stessa rappresentazione. Il suo carattere nettamente illusorio è certo, ma per chi si interroga sull’ideale della vita urbana ai nostri giorni è essenziale prenderla in considerazione. La città

continua ad allargarsi. Una maggioranza della popolazione mondiale vive in città e questa tendenza è irreversibile. Ma di che città si tratta? Ho proposto alcuni concetti per descrivere quella che potremo chiamare l’urbanizzazione del pianeta, che corrisponde più o meno a quella che chiamiamo globalizzazione per designare la generalizzazione del mercato, l’interdipendenza economica e finanziaria, l’estensione delle vie di circolazione e di sviluppo dei mezzi di comunicazione elettronica. Da questo punto di vista si potrebbe dire che il mondo è come un’immensa città. Paul Virilio ha utilizzato a questo proposito l’espressione «métacité virtuale». Il «mondo città», come lo ho chiamato, è caratterizzato dalla mobilità e dall’uniformizzazione. Da un altro lato le grandi metropoli si estendono e vi troviamo


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ogni tipo di diversità (etnica, religiosa, sociale, economica) ma anche ogni tipo di barriera. Così possiamo contrapporre la «città mondo», le sue divisioni, i suoi punti di riferimento e i suoi contrasti al «mondo città» che ne costituisce il contesto globale e che appone in modo spettacolare su alcuni punti forti del paesaggio il suo marchio estetico e funzionale: torri, aeroporti, centri commerciali o parchi dei divertimenti. Più la grande città si estende, più si «decentra». I «centri storici» diventano musei visitati dai turisti venuti da altrove e luoghi scelti di

consumi di ogni genere. I prezzi sono alti e il centro delle città è sempre più abitato da una popolazione agiata, spesso di origine straniera. L’attività produttrice si sposta «extra muros». I trasporti sono il problema principale dell’agglomerato urbano. Le distanze sono spesso considerevoli tra il luogo di abitazione e il luogo di lavoro. Il tessuto urbano si estende lungo le vie di circolazione, i fiumi e le coste. In Europa le «periferie» urbane si costeggiano tra loro, si saldano, si confondono e può nascere la sensazione che con la generalizzazione dell’«urbano» stiamo perdendo la «città».

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Torno un istante alla contrapposizione, che avevo fatto tempo fa, tra luogo e non-luogo. Si basa su una definizione teorica; un luogo è uno spazio dove si possono decriptare le relazioni sociali che vi sono iscritte (per esempio, in alcuni villaggi tradizionali, a partire dalla divisione in quartieri, dalle regole di residenza e dalla collocazione dei simboli visibili della storia e della cultura condivise); un nonluogo è uno spazio in cui questo decriptaggio è impossibile. Empiricamente non c’è mai un luogo o un non-luogo nel senso assoluto del termine, ma si può caratterizzare il mondo

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globale attuale attraverso la moltiplicazione degli spazi di circolazione, di consumo e di comunicazione, «luoghi di passaggio» in cui questo decriptaggio è generalmente meno evidente, non-luoghi in questo contesto. Ora il luogo non si contrappone al non-luogo, come il bene al male o il ben vivere al mal vivere. Il luogo assoluto sarebbe uno spazio in cui ognuno sarebbe confinato in funzione dell’età, del sesso, del suo posto nella filiazione e delle regole del contratto matrimoniale: uno spazio in cui il senso sociale, inteso come l’insieme delle relazioni sociali autorizzate o vietate, sarebbe al suo apice, la solitudine impossibile e la libertà individuale impensabile. Il non-luogo assoluto sarebbe uno spazio senza regole né vincoli collettivi di sorta: uno spazio senza alterità, uno spazio di solitudine infinita. L’assoluto del luogo è totalitario, l’assoluto del non luogo è la morte. Evocare questi due estremi significa definire allo stesso tempo il funzionamento di ogni politica democratica: come salvare il senso (sociale) senza uccidere la libertà (individuale) e viceversa? Nel mondo globale la risposta deve essere data in termini spaziali: ripensare il locale. Nonostante le illusioni 108

diffuse dalle tecnologie della comunicazione, dalla televisione a Internet, viviamo lì dove viviamo. L’ubiquità e l’istantaneità restano metafore. L’importante con i mezzi di comunicazione è di prenderli per quello che sono: mezzi che possono semplificare la vita ma non sostituirsi a questa. Da questo punto di vista il compito da svolgere è immenso. Si tratta di evitare che la sovrabbondanza di immagini e di messaggi porti a nuove forme di isolamento. Per frenare questa deriva che già ora notiamo, le soluzioni saranno necessariamente spaziali, locali e, addirittura, nel senso lato del termine, politiche. Come conciliare nello spazio urbano il senso del luogo e la libertà del nonluogo? È possibile ripensare la città nel suo insieme e l’alloggio nei suoi dettagli? Una città non è un arcipelago. L’illusione creata da Le Corbusier di una vita centrata sull’alloggio e sull’unità di abitazione collettiva ha avuto come conseguenza le «sbarre» delle nostre periferie, ben presto disertate dai commerci e dai servizi, che dovevano renderle vivibili al massimo. Si è trascurata la necessità della relazione sociale e del contatto con l’esterno; ed è così che lo interpretano a loro modo i «giovani di periferia» quando, per esempio

nell’agglomerato parigino, si spostano regolarmente dal fondo dei loro quartieri verso i quartieri che sono ad un tempo il cuore della città storica e dei simboli della società dei consumi: gli Champs Elysées o il quartiere di Châtelet-Les Halles. Che cosa nelle città reali evoca qualcosa di quello che potremmo considerare la città ideale? Mi tornano a mente due esempi. Certamente li idealizzo, ma è proprio questo che vogliamo fare: scoprire le tracce dell’ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città di media grandezza dell’Italia del nord, come Parma o Modena. Al centro di queste città la vita è intensa, la piazza pubblica rimane un luogo di incontro, si circola in bicicletta, si passa accanto ai luoghi eccelsi della storia. Il visitatore di passaggio ha l’impressione che ci si potrebbe introdurre nell’intimità di questo mondo gentile senza farsi notare, stabilire delle relazioni senza esservi obbligato e passare da una città all’altra per il semplice piacere degli occhi. Ma, si potrà obbiettare, bisogna proprio chiuderli gli occhi, per ignorare tutto quello che si oppone a questa visione del turista miope: la povertà, la migrazione, i comportamenti di rifiuto… Ancora una volta, mi limito


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all’ideale, che esige, infatti, una forma di miopia. Un altro esempio: la vita di quartiere in un municipio parigino; si potrebbero citare molti altri esempi e sappiamo bene che nelle più grandi metropoli del mondo (Messico, Chicago) sono estremamente attive le forme di vita locale. La vita di quartiere, è quella che possiamo osservare in strada, dai commercianti, nei caffè… A Parigi, città in cui da vari anni la vita è più difficile, vediamo che è proprio a livello molto piccolo che ci sono dei

diversi tipi di riflessione: una riflessione di un urbanista sulle frontiere e gli equilibri interni del corpo di una città; una riflessione di un architetto sulle continuità e le rotture di stile; una riflessione antropologica sull’alloggio di oggi, che deve conciliare la necessità di molteplici aperture verso l’esterno e il bisogno di intimità privata. Vasto cantiere di «ripresa» (nel senso in cui le sarte, un tempo e le «rammagliatrici» riprendevano i vestiti strappati e le calze smagliate). Si dovrebbe, ovviamente per

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ma a parte il fatto che questo obbligo è spesso aggirato, molto spesso accade che si produca un effetto di stigmatizzazione attraverso lo stile e il materiale. Ancora uno sforzo verso l’ideale… Questo ideale dovrebbe ritrovarsi nella disposizione interna degli appartamenti più modesti dove dovrebbero riunirsi su piccola scala le tre dimensioni essenziali della vita umana: il privato individuale, eventualmente il pubblico ( in questo caso familiare) e la relazione con l’esterno. Così

NoNostaNte Le iLLusioNi diffuse daLLe teCNoLogie deLLa ComuNiCazioNe, daLLa teLevisioNe a iNterNet, viviamo La’ dove viviamo. L’ubiquita’à e L’istaNtaNeita’ restaNo metafore legami fragili che resistono al disincanto: le conversazioni al bancone di zinco del “bistro”, le battute scambiate tra una persona anziana e la giovane cassiera del supermercato, le chiacchiere dal droghiere tunisino: tutte forme modeste di resistenza all’isolamento che sembrerebbero provare che l’esclusione, il rinchiudersi in sé stessi e il rifiuto dell’immaginazione non sono una fatalità. Ma che cosa possiamo concludere praticamente da questi segnali frammentati? Che ogni programma d’insieme e ogni progetto di dettaglio dovrebbero associare

quanto possibile, ridisegnare delle frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e le periferie. Frontiere, cioè soglie , passaggi, porte ufficiali, per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implicita. Si deve ridare la parola al paesaggio. Potremmo assegnarci a lungo termine il compito di rimodellare un paesaggio urbano moderno, nel senso di Baudelaire, dove gli stili e le epoche si mescolerebbero in modo cosciente, come le classi sociali – i comuni e i municipi delle città in Francia hanno l’obbligo di una certa percentuale di «alloggi sociali»,

formulato l’ideale è utopico e non è evidentemente di sola competenza dell’architettura. Ma la materia dell’ideale o dell’utopia è già presente. Questo mi porta a concludere come la sarta e la rammagliatrice. Non è esclusiva dei grandi progetti che possono offrire bellezza in tutti i sensi e neppure “remodelage” dei grandi paesaggi dove ciascuno si può perdere e ritrovare. Vuol solamente ricordare che tutto comincia e tutto finisce con l’individuo più modesto e che le più grandi imprese sono vane se non lo riguardano almeno un po’. 109



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