NUMERO 1 AGOSTO 2011
democrazia, partiti, partecipazione .
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con inteventi di Fausto Anderlini Fabrizia Bagozzi Luciano Bardi Ferruccio Capelli Paolo Corsini Massimo D’Antoni Alfredo D’Attorre Miguel Gotor Roberto Gualtieri Alfio Mastropaolo Eugenio Mazzarella Marco Meloni Franco Monaco Filippo Pizzolato Michele Prospero Alfredo Reichlin Francesco Russo Giorgio Tonini Luciano Violante Roberto Zaccaria
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SOMMARIO NUMERO 1 - AGOSTO 2011
EDITORIALE
Stefano Di Traglia
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Direttore responsabile
Franco Monaco Direttore editoriale
Alfredo D'Attorre
Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini
E-MAIL redazione@tamtamdemocratico.it Tam Tam Democratico spazio di approfondimento del Partito Democratico
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COMUNICAZIONE progetto grafico/sito internet dol - www.dol.it
Le ragioni della democrazia costituzionale Filippo Pizzolato L’eufemismo populista Alfio Mastropaolo Il lato oscuro del potere Miguel Gotor Le strozzature dell’informazione in Italia Roberto Zaccaria .............................................................
La funzione nazionale dei partiti Alfredo Reichlin Dopo l’illusione della democrazia senza mediazione Alfredo D’Attorre
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Autonomi più che antagonisti: i movementi della new wave Fabrizia Bagozzi .............................................................
I partiti politici visti da Nord
Marco Almagisti
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PD e dintorni visti dall’Emilia
Fausto Anderlini
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Il mito del territorio e la politica in franchising visti dal Sud
Eugenio Mazzarella
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Un partito che ascolta Francesco Russo ............................................................. INFOGRAFICA
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Lavoro, fisco e democrazia Roberto Seghetti ............................................................. ALTRI CONTRIBUTI
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Per un democrazia governante Giorgio Tonini
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I sistemi di partito e il caso italiano Luciano Bardi
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Alla ricerca di un nuovo modello di partito Luciano Violante La distorsione del partito personale Michele Prospero
Un partito per la ricostruzione nazionale Marco Meloni
I partiti visti dal territorio
I partiti tra società e istituzioni
numero 1/2011 - revisione 1
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Le deformazioni della democrazia costituzionale
................................................................ SITO INTERNET www.tamtamdemocratico.it
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FOCUS
Coordinatore del Comitato editoriale
COMITATO EDITORIALE
La questione democratica in Italia Franco Monaco .............................................................
Contraddizioni e ritardi nella governance economica dell’Ue Roberto Gualtieri Pubblico e privato dopo i referendum Massimo D’Antoni I segreti della primavera milanese Ferruccio Capelli ............................................................. PAROLE DA GETTARE
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Gente Paolo Corsini
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EDITORIALE
democrazia, partiti, partecipazione
La questione democratica in Italia Franco Monaco senatore PD
Sgombriamo subito il campo da un approccio provinciale. Le democrazie contemporanee sono un po' tutte attraversate da crisi e tensioni. Movimenti e tendenze populiste, così come derive oligarchiche si manifestano ovunque
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N
on è il caso di indulgere nella stucchevole disputa giornalistica circa la formula da adottare per fissare la portata della questione democratica oggi in Italia. Se minacciata sia la democrazia e i suoi fondamenti ovvero la sua qualità e il suo respiro. Se la democrazia come tale o una concezione di essa, quella pluralistica e partecipativa. Ci preme la sostanza, non la formula per definirla. E la sostanza è quella di una vistosa torsione in senso populista ma anche oligarchico della nostra democrazia. Cui l'attualità non edificante della cronaca politica e giudiziaria ci suggerisce di aggiungere il verminaio (le “termiti”) che corrode dall'interno le nostre istituzioni. Sgombriamo subito il campo da un approccio provinciale. Le democrazie contemporanee sono un po' tutte attraversate da crisi e tensioni. Movimenti e tendenze populiste, così come derive oligarchiche si manifestano ovunque. Fenomeni di segno diverso ma accumunati da un depotenziamento della politica intesa come azione collettiva mirata a regolare e orientare la dinamica sociale e affidata al protagonismo responsabile dei cittadini singoli e associati. Una crisi che tuttavia, in Italia, assume caratteri e dimensioni singolarmente problematici. A una pur parziale rassegna di quei punti critici e di sofferenza della democrazia italiana intendiamo dedicare questo numero del nostro periodico. Eccone alcuni.
democrazia, partiti, partecipazione
EDITORIALE
Intanto le lesioni ai capisaldi di una ben intesa democrazia costituzionale. Costituzionalisti di scuole diverse (da Baldassare a Ferraioli a Elia) non esitano a parlare di “decostituzionalizzazione” del sistema politico, cioè di devitalizzazione della legge fondamentale, di contestazione più o meno esplicita della Costituzione quale fine e confine della battaglia politica. Con le pressioni e le tensioni che ne conseguono per i poteri terzi, per gli organi di garanzia cui spetta il compito di presidiare quelle regole e quei confini. Si fa presto – ed è giusto – deprecare l'esasperazione del conflitto politico, ma, se non si vuole cedere all'irenismo e alla banalizzazione, si deve pure considerare la circostanza che il dissenso sembra investire appunto i fondamenti costituzionali della nostra democrazia. C'è poi il tema dell'equilibrio tra rappresentanza e governabilità sul quale si regge ogni democrazia sana. Giustamente, nel recente passato, si è osservato che le democrazie possono deperire, che la loro legittimazione presso i cittadini può essere messa in discussione, allorquando esse si mostrano impotenti e inconcludenti. La decisione è parte integrante e comunque approdo naturale del processo democratico. E sarebbe sbagliato ignorare questo profilo, tuttora irrisolto, del problema. Ma l'esperienza nostrana ci avverte anche su due altri fronti: la domanda di governabilità che sale da società mobili e dinamiche non autorizza le scorciatoie autoritarie e populiste, la mortificazione della domanda di rappresentanza, la separazione dei poteri e gli istituti di garanzia; di più, quella scorciatoia in concreto imboccata non ha prodotto affatto decisioni, riforme, buon governo. Sul primo fronte, basterebbe evocare la mobilitazione di soggetti collettivi, di vecchi e nuovi movimenti della cittadinanza attiva: le donne, i giovani, i ricercatori e gli universitari, i precari. Sul secondo versante merita notare come la propensione populistica ad accarezzare il pelo di tutti e di ciascuno, la pretesa di non scontentare nessuno, la rinuncia a discernere e a scegliere (propria di chi riveste responsabilità di governo) tra interessi in conflitto, l'ossessione dei sondaggi, l'appiattimento dell'azione politica sul tempo breve, hanno prodotto un solo risultato: il nulla di vere riforme e dunque un paese fermo, ai margini dell'Europa. A dispetto della retorica decisionista, della millanteria del “governo del fare” e delle oggettive forzature su procedure e regole della democrazia parlamentare. 05
EDITORIALE
democrazia, partiti, partecipazione
Partiti, dunque, ma anche cittadini. A loro, come singoli e come comunità in senso plurale, e non al mito giacobino di un popolo cui si attribuisce una volontà generale che in realtà fa da copertura all'arbitrio di un capo, spetta la sovranità
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La nostra scommessa è quella di un rafforzamento contestuale degli istituti della democrazia della rappresentanza, a cominciare dal parlamento mai come oggi mortificato, e di quelli di una democrazia efficiente e governante. E' un problema di regole, ma anche e soprattutto di attori-soggetti della rappresentanza. In primis, di regola elettorale: la legge vigente per il parlamento nazionale riesce nell'impresa non facile di assommare il massimo delle contraddizioni e delle patologie e la sua rimozione è imperativo categorico e urgente. Ma, si diceva, è anche problema di soggetti della rappresentanza: cittadini, formazioni sociali, partiti politici. La questione dei partiti, per noi, era e resta questione cruciale. Lo testimonia la circostanza che il PD è la sola formazione politica che, nella sua stessa denominazione, esibisce la parola partito. Una sfida esplicita verso chi immagina di prescindere dallo strumento principe, ancorché non il solo, delle democrazie di massa contemporanee, ma, sia chiaro, una sfida anche a se stesso. Perché se è chiaro e programmatico il proposito di costruire un partito degno di questo nome e conforme all'impegnativo dettato dell'art. 49 della Costituzione, non meno ferma è l'intenzione di non ricalcare la forma partito novecentesca, i suoi vizi, il suo anacronismo. No al nuovismo tributario del mito fallace della democrazia immediata, ma no anche alla rimozione di una crisi dei partiti storici che ci ha investito e tuttora ci investe. Specie nella forma dell'arroccamento del ceto politico. Partiti, dunque, ma anche cittadini. A loro, come singoli e come comunità in senso plurale, e non al mito giacobino di un popolo cui si attribuisce una volontà generale che in realtà fa da copertura all'arbitrio di un capo, spetta la sovranità. Essa sì usurpata su più fronti cui intendiamo fare cenno. Di quello della elezione della rappresentanza parlamentare sostituita da una cooptazione nominativa dall'alto già si è detto. Merita aggiungere il tentato scippo dei referendum da parte del governo, un istituto certo da riformare e tuttavia da preservare e difendere contro chi strumentalmente si intesta la volontà di un popolo dal quale in realtà non vuole essere disturbato. Ancora: una sovranità da custodire restituendo i partiti ai cittadini che, non a caso, figurano quale incipit dell'art. 49, a significare che (i partiti politici) sono o dovrebbero essere associazioni di cittadini con finalità politica, cioè strumento di partecipazione in mano ad essi, come mezzo idoneo a perseguire un obiettivo
democrazia, partiti, partecipazione
EDITORIALE
forte quale quello di “concorrere a determinare la politica nazionale”. Lo si enuncia a chiare lettere nella lezione tenuta da Massimo Luciani al seminario primaverile del PD sui partiti. In essa si mette in luce altresì il nesso tra art. 49 e art. 3 della Costituzione, cioè l'idea che la sussistenza di veri partiti non solo concorre, in termini finalistici, al perseguimento dell'obiettivo politico dell'uguaglianza, ma già di per sé, in certo modo, la anticipa e la realizza, mettendo i cittadini comuni nelle condizioni di partecipare alle decisioni che riguardano la comunità su basi meno diseguali di quelle ereditate dalla lotteria della natura e del censo. In una parola, i partiti quale strumento che esalta il nesso tra due valori cardine della democrazia: l'uguaglianza e la partecipazione (osserviamo in parentesi che, in questa sottolineatura, trova conforto la nostra decisione di fare seguire al numero scorso sull'uguaglianza quello presente sulla democrazia partecipativa). Sull'orizzonte sta la scommessa che sia possibile disegnare e realizzare un partito politico, insieme, popolare e moderno. Senza ignorare la circostanza che l'Italia è lunga e plurale, anche nel modo di “fare partito” (di qui le tre sonde sul partito e più in genere sul rapporto politico al nord, al centro e al sud). Infine, nella piccola rassegna qui approntata, il protagonismo dei cittadini inteso quale condizione e lievito della democrazia non poteva sottacere un cenno alla questione dell'informazione (tasto dolente in Italia più che altrove, a motivo di un mercato chiuso e del macigno rappresentato dal conflitto di interessi) e a quello connesso della formazione del senso e del costume civico, che chiama in causa le agenzie educative e culturali. Non è necessario indulgere al pedagogismo per sottoscrivere la celebre formula di Toqueville secondo la quale la democrazia è il regime politico dei cittadini informati e consapevoli. Facile a dirsi, difficile a farsi dentro una temperie politico-culturale nella quale massime sono la propaganda e la mistificazione.
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Le deformazioni della democrazia costituzionale
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FOCUS
Le ragioni della democrazia costituzionale Filippo Pizzolato insegna Diritto pubblico all’Università di Milano-Bicocca
L’
essenza del costituzionalismo moderno è da molti rinvenuta nell'esigenza di porre un limite al potere di chi comanda. La stagione dei moti liberali – Sette e Ottocenteschi - aveva espresso, con la richiesta della costituzione, la volontà di limitare il potere di un'autorità non democraticamente legittimata. E tuttavia, con il procedere della democratizzazione dello Stato, attraverso i meccanismi delle elezioni e della rappresentanza politica, le istituzioni di governo sono diventate espressione di un consenso popolare, mediato o immediato, sicché si potrebbe essere tentati di revocare in dubbio la perdurante validità dell'istanza costituzionalistica. Perché mai infatti dovremmo preoccuparci di limitare un potere voluto dal popolo? Al di là che la questione venga o meno ricondotta ai suoi profili fondativi, il problema si pone nei fatti allorquando il detentore del potere politico, espressione della maggioranza dei consensi espressi nelle elezioni, si senta di poter pubblicamente esprimere, come è accaduto in Italia, la sua insofferenza per i limiti di cui la Costituzione circonda l'operato del Governo e per gli organi di equilibrio (Presidente della Repubblica, Magistratura, Corte costituzionale, …) da cui la Costituzione stessa lo vuole “circondato”. Il circuito maggioritario viene allora interpretato come se fosse la rappresentazione sintetica e, fors'anche, esauriente della democraticità dello Stato, mentre le ragioni della Costituzione sembrano esigere sempre una giustificazione. Emblematica di questa tendenza all'assorbimento delle ragioni della politica entro il circuito maggioritario dell'indirizzo politico è stata la pretesa, avanzata da più di una maggioranza di Governo, di perseguire processi di revisione costituzionale in modo autosufficiente, e cioè deliberatamente al di fuori di uno sforzo di mediazione con le componenti parlamentari di opposizione. 09
FOCUS
democrazia, partiti, partecipazione
La maggioranza si può formare solo entro processi che si svolgono in uno spazio pubblico di libera espressione, di confronto aperto e di competizione di idee
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Contro queste tendenze, l'idea della democrazia costituzionale ribadisce la piena validità dell'istanza di limitazione del potere, ancorché questo sia legittimato su base democratica, e, insieme, la convinzione che la Costituzione non solo non sia un limite al dispiegamento di una democrazia effettiva, ma ne costituisca una condizione indefettibile di esistenza. Sembra però che nell'attuale fase storica le proclamazioni non bastino, sicché occorre lo sforzo di rielaborare le solidissime, eppure accantonate, connessioni che avvincono la democrazia alla Costituzione. Si vuole argomentare la conclusione che non possa esservi autentica democrazia se non in un “ambiente” costituzionale. Quali le ragioni di una conclusione così netta? Anzi tutto, anche qualora non si voglia mettere in questione la correlazione tra decisione a maggioranza e democrazia, si deve riconoscere che la stessa legittimazione democratica della maggioranza non è un'ipotesi di partenza, ma un corollario del principio (costituzionale) di eguaglianza. Solo il riconoscimento della eguaglianza e della pari dignità sociale conduce a fondare tecniche decisionali che contino e non pesino i consensi espressi dai cittadini. L'eguaglianza viene dunque prima della maggioranza e a questa si impone come limite, almeno in una visione democratica. Ma c'è di più: la stessa maggioranza non può essere vista in prospettiva statica, come cioè se avesse un'esistenza in “natura” e una consistenza fissa, poiché essa è piuttosto uno svolgimento del processo democratico e non la sua sorgente. Si vuole cioè dire che la maggioranza si può formare solo entro processi che si svolgono in uno spazio pubblico di libera espressione, di confronto aperto e di competizione di idee. Il godimento e l'esercizio concreto di un quadro articolato di libertà (costituzionali) - e finanche di diritti sociali (perché solo la libertà dal condizionamento può garantire la libertà del consenso) - sono ingredienti essenziali di questo spazio pubblico di confronto. La formazione della maggioranza avviene cioè in uno spazio pubblico alimentato da diritti, individuali e collettivi, e di cui sono contenitori istituzioni il cui funzionamento è orientato al dialogo tra parti diverse. Non è difficile vedere come la pretesa di considerare la maggioranza come la regola “prima” della democrazia abbia stravolto le basi della democrazia stessa, mettendo in crisi la tenuta, anche culturale, del principio di eguaglianza (attraverso l'esaltazione della condizione preminente e dei privilegi del potere) e mortificando le
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FOCUS
istituzioni deputate al confronto, svilite a luogo di esercizio o di esibizione di un potere già cristallizzato. La dimensione costituzionale della democrazia non riguarda però solo le regole che sovrintendono al funzionamento dello spazio pubblico, bensì attiene, e forse soprattutto, all'ambito del rapporto tra la società e lo Stato, tra la sfera della libertà e quella dell'autorità. La democrazia costituzionale non vive solo dei processi che si consumano in arene immediatamente politico-istituzionali, ma reclama un equilibrato rapporto tra l'estensione dello spazio pubblico e l'autonomia individuale e sociale. La democrazia, quando e perché costituzionale, è infatti anche garanzia di protezione di una sfera di autonomia individuale e sociale dall'invadenza del potere politico. Si potrebbe obiettare che, così dicendo, si afferma un'istanza liberale di limitazione del potere, più che un'esigenza democratica di partecipazione allo stesso. E tuttavia le due prospettive non vanno contrapposte, perché la democrazia è anche auto-governo e questo ideale si realizza, più che con l'attivazione episodica dei cosiddetti istituti di democrazia diretta (referendum, petizione, ecc…), con una volontà e una pratica di autonomia che il corpo sociale, nelle sue fondamentali e strutturate articolazioni, sa esprimere. Un sistema politico democratico, in quanto tendente alla costruzione consensuale dell'ordine sociale, poggia sulle risorse civiche di auto-riflessione e auto-organizzazione dei rapporti sociali. L'idea di auto-governo si declina allora in due fondamentali direzioni: il rispetto di una zona di protezione dall'invadenza del politico sul sociale; il riconoscimento, sintetizzato dal principio di sussidiarietà, che il corpo sociale, in quanto capace di iniziativa per il bene comune, può e deve assumere responsabilità in ordine alla prospettiva politica dell'interesse generale. L'esercizio delle libertà, soprattutto collettive e nella dimensione sociale, diventa pertanto, in linea anche con la previsione costituzionale del diritto-dovere al lavoro, espressione di cooperazione al fine del bene comune. Tale diffusione della responsabilità politica appare indispensabile per mantenere la base consensuale su cui è edificato in democrazia l'ordine sociale. Il rilievo democratico della sussidiarietà si apprezza pienamente quando si rifletta in profondità su cosa sia il popolo cui la Costituzione attribuisce la sovranità. Chi ritenga che al popolo si possa attribuire una volontà semplificata, espressa dal circuito maggioritario dell'indirizzo 11
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democrazia, partiti, partecipazione
Il costituzionalismo democratico, arricchito dalla prospettiva della sussidiarietà, non permette pertanto all'indirizzo politico di occupare l'intera sfera pubblica e pretende anzi che siano lasciati aperti spazi di confronto e di partecipazione (nei mezzi di comunicazione, nelle autonomie scolastiche e universitarie, nel sindacato, ecc…), anche politica
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politico, non potrà che vedere un contrasto tra la sovranità popolare e il principio costituzionale di separazione dei poteri. Quando invece il popolo sia pensato nella sua dimensione intrinsecamente e irriducibilmente plurale, la separazione dei poteri diviene una garanzia della sovranità popolare, perché volta ad impedire a qualsiasi maggioranza di identificare ed esaurire dentro di sé la totalità del popolo stesso. La Costituzione italiana, anche sotto questo profilo, ci apre orizzonti assai significativi di riflessione, in quanto attribuisce la sovranità al popolo (art. 1), ma articola quest'ultimo secondo linee di un pluralismo strutturale, composto di formazioni sociali (art. 2), autonomie territoriali (art. 5), identità linguistiche (art. 6), confessioni religiose (artt. 7 e 8). In un popolo plurale l'unità si raggiunge non per successive neutralizzazioni, ma grazie a processi comunicativi di raccordo e di cooperazione tra parti che, pur rimanendo distinte, partecipano all'organizzazione sociale, economica e politica del Paese. L'unità elementare di un popolo siffatto è, non a caso, la persona, e cioè l'uomo strutturalmente in relazione, colto inoltre nella sua qualità essenziale di lavoratore, perché partecipe di un processo cooperativo di costruzione sociale. Entro un'unità politica così strutturata, che accoglie le dimensioni plurali del popolo (e perfino dei popoli, in forza degli articoli 10 e 11), lo spazio legittimamente rimesso all'indirizzo politico del Governo è de-limitato sia da altri indirizzi politici (infra- e sovra-statali), sia dagli spazi di autonomia e di partecipazione riconosciuti al corpo sociale. Il costituzionalismo democratico, arricchito dalla prospettiva della sussidiarietà, non permette pertanto all'indirizzo politico di occupare l'intera sfera pubblica e pretende anzi che siano lasciati aperti spazi di confronto e di partecipazione (nei mezzi di comunicazione, nelle autonomie scolastiche e universitarie, nel sindacato, ecc…), anche politica. La sovranità popolare guadagna così in radicamento e in diffusione, perché si alimenta a parecchi circuiti (la rappresentanza ai diversi livelli, gli strumenti di partecipazione politica, l'autonomia sociale, le libertà individuali e collettive), senza tuttavia consegnare integralmente le proprie sorti a nessuno di questi.
democrazia, partiti, partecipazione
FOCUS
L’eufemismo populista Alfio Mastropaolo insegna Scienza politica all’Università di Torino
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erché non bandire ogni eufemismo e chiamare le cose col loro nome? È tornata l’estrema destra. Dopo la stagione dell’antiparlamentarismo, culminata nell’affaire Dreyfus, dopo quella dei fascismi, in cui esplose la violenza e l’estremismo divenne regime, dopo l’opaca stagione del neofascismo (non senza episodi violenti (dall’Oas francese allo stragismo italiano), l’estrema destra sta vivendo in Europa (e negli Usa, grazie al Tea Party) una quarta florida stagione. Come si riconosce l’estrema destra? Il suo primo tratto è il rifiuto della democrazia. La sua concezione gerarchica dell’ordine sociale non tollera che il popolo si autogoverni, né che qualcuno governi in suo nome. La destra estrema è inoltre tradizionalista: coltiva i valori della comunità, della nazione, dello Stato etico, talora intrecciati con quelli religiosi. È pertanto razzista, intollerante e aggressiva verso l’esterno. Ma è soprattutto avversa ad ogni forma politica che riconosca il pluralismo: una è la collettività nazionale, artificiali e odiose sono le divisioni in essa suscitate da interessi e partiti, all’autorità spetta realizzare una sintesi assoluta: un’autorità, va da sé, carismatica. Dismettere del tutto il popolo sovrano, in tempi di politica di massa sarebbe troppo impopolare. Ma nulla vieta di fare del voto, specie se la scelta è secca, un rito d’acclamazione per un capo dotato di virtù eccezionali. Così fascismo e nazismo giunsero al potere. Non sempre le destre estreme sono state stataliste in economia. Lo erano quando l’intervento statale era di moda, ma il fascismo visse ad esempio un vivace esordio liberista. Infine, il seguito privilegiato delle destre estreme sono sempre state le classi medie. La conversione delle classi popolari al nazismo è una leggenda, sfatata dalla ricerca più avvertita. Le destre estreme hanno fatto leva piuttosto sulle frustrazioni delle classi medie. Salvo curare in primis gli interessi di classi superiori e ceti abbienti. Le varianti nazionali sono numerose, come quelle nel tempo, e altri tratti meriterebbero menzione. 13
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Ma ce n’è a sufficienza per argomentare il ritorno delle destre estreme, che è iniziato in Scandinavia a fine anni 60, eccitando una protesta antifiscale e anti-welfare importata d’oltre oceano. Di lì il contagio s’è esteso alle Fiandre, dov’e nato nel 1978 il Vlaams Blok, e alla Francia, dove il Front National ha riciclato i frammenti di una destra estrema antica e rigogliosa. Man mano nuovi partiti di destra estrema sono comparsi in tutt’Europa, o si sono ricollocati all’estrema partiti un tempo moderati come i Liberali austriaci e l’Unione di centro svizzera. Come l’Italia non sfiguri in quest’inattesa evoluzione non c’è bisogno di ricordarlo. Cosa contraddistingue tali partiti? Tutti evocano il popolo, in termini molto accesi, opponendolo alle élites partitiche, burocratiche e sindacali. Solo che il popolo che evocano è di gran lunga più ethnos che demos. Alla protesta antistatalista e antifiscale essi hanno presto aggiunto un nuovo tema, che è il rifiuto degli immigrati. Sconfessato il razzismo si appellano all’identità e al fabbisogno di sicurezza. E l’antisemitismo è stato sostituito dall’intolleranza verso gli islamici e i rom. Nel far ciò, le destre estreme si sono adattate alla democrazia. Non solo ne osservano le regole, ma non sdegnano neanche il linguaggio dei diritti: il diritto, ad esempio, a tutelare cultura e tradizioni insidiate dagli immigrati, dai processi di globalizzazione, dall’unificazione europea. In realtà, le nuove destre estreme hanno radicalmente reinterpretato le regole democratiche: alla democrazia “costituzionale”, dei diritti, della divisione dei poteri, delle restrizioni al principio di maggioranza, esse oppongono un modello di democrazia, talora definito “populista”, che pone in cima a tutto i pronunciamenti del popolo sovrano e la leadership da esso investita. Riposte le camice nere, brune, grigie e i manganelli, ove accortamente reinterpretate, le regole democratiche costano assai meno e permettono di conseguire comunque lo scopo. Quanto all’audience, rassodatasi solo nell’ultimo decennio, essa rimane costituita per lo più dalle classi medie: non quelle del settore pubblico, da tempo ricollocatesi a sinistra, ma anzitutto quelle indipendenti. Sarebbe di nuovo un errore sopravalutare la componente popolare del loro elettorato. In realtà, tutti i partiti moderati e conservatori annoverano un seguito consistente tra questi strati sociali ed è di qui che proviene anche il seguito popolare delle nuove destre estreme, che con le destre moderate intrattengono un fitto interscambio non solo d’elettori. Di contro, nessuna trasmigrazione di rilievo s’è registrata da sinistra. Qualche limitato smottamento in qualche area più colpita dalle ristrutturazioni industriali non 14
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consente generalizzazioni improprie. Mentre alle classi medie indipendenti i partiti in questione promettono due cose assai gradite (come lo sono a tutti i ceti abbienti): sgravi fiscali e decurtazioni alla spesa pubblica. Perché mai s’è deciso di chiamare eufemisticamente populismo questa tossica miscela? Non è la stessa cosa del fascismo o del neofascismo. Ma quali parentele la legano al populismo russo, a quello americano (che difendeva la provincia contro Wall Street), ai populismi sudamericani (Peròn introdusse le prime tutele per i lavoratori argentini e diede il voto alle donne) o terzomondisti, cui con qualche forzatura si è estesa l’etichetta? É un usurpazione bell’e buona. Se non che, se l’etichetta è impropria, i destinatari l’hanno ben accolta e ampiamente utilizzata, parlando di popolo a più non posso. Li hanno chiamati populisti, anziché con appellativi meno onorevoli? Maestri di mimetismo, lor signori ringraziano. Qualcuno, più insistente, obietterà che i pretesi populisti prediligono la demagogia. Ma chi in democrazia non pecca di overpromising? Qualche parola va spesa sulla variante italica. Che s’impernia su una ben riuscita divisione del lavoro tra Lega e Berlusconi. La prima ci mette il razzismo, il secondo il leaderismo (e se non è razzista, lui è di sicuro sessista). In coppia coltivano smanie sicuritarie e il più assoluto spregio per la democrazia costituzionale e offrono indecorosi vantaggi ai ceti possedenti a danno dei ceti deboli, del lavoro dipendente e delle regioni più svantaggiate. Tremonti ha provato ad aggiungervi qualche spezia tradizionalista. Avanzata un’impietosa critica della globalizzazione e dell’ortodossia liberale applicata dall’Ue, ha proposto di riscoprire sia l’intervento pubblico in economia, sia le pretese radici culturali giudaico-cristiane dell’Europa. Ma ha trovato poco ascolto, forse perché la destra estrema nostrana si contenta di alcune deprimenti, e opportunistiche, consonanze con talune gerarchie ecclesiastiche. Quali per concludere i moventi del fenomeno e del suo successo? Ogni interpretazione è discutibile, specie quando non v’è spazio per addurre troppe prove. Ma tre fattori paiono preminenti. Il primo sono le vacche divenute troppo magre. Dapprima sono stati colpiti i ceti popolari. Che hanno subito rassegnati le riduzioni del welfare, la caduta delle opportunità d’occupazione e il loro impoverimento crescente. Adesso che le vacche sono diventate anoressiche, la protesta è comparsa anche in forme molto acute (non è da sottovalutare quanto capita sulle piazze spagnole e greche). Ma le vacche si sono fatte anoressiche pure per le classi medie. A lungo risparmiate 15
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democrazia, partiti, partecipazione
Benché faticoso, il compito della democrazia era assumere il pluralismo, sociale e politico, e mediare tra i suoi soggetti. Ebbene, tale modello è stato soppiantato da un altro, solitamente definito maggioritario, la cui interpretazione e applicazione attuale prevede il ridimensionamento risoluto di mediazioni parlamentari e partitiche, il primato della leadership personale e la scelta diretta da parte degli elettori di chi governa
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dalle difficoltà economiche, da inizio millennio stanno scoprendo che il calo dei consumi provoca loro danni gravi, che il lavoro non è garantito neanche ai loro figli, che la speculazione divora pure i loro risparmi. L’estremismo di destra fa loro tante promesse e, in attesa d’un futuro più roseo restio ad arrivare, ne convoglia il malumore contro la politica e gli immigrati. Un secondo fattore è il disfacimento del blocco sociale pro-welfare sorto nel dopoguerra, ove confluivano classe operaia e ceti medi dipendenti. Si dirà che è stato travolto dalla globalizzazione. Ma forse si è disfatto pure per difetto di manutenzione da parte della sinistra, troppo condizionata dal neoliberismo. Ad ogni buon conto per questo blocco sociale democrazia e welfare facevano tutt’uno e esso era un solido bastione elettorale contro i partiti di destra, moderata e estrema che fossero, dotato anche di una capacità considerevole di mobilitazione collettiva. Non c’è più e se ne sente la mancanza. Metteremmo nel conto pure un terzo fattore. Come non capiremmo gli accadimenti dell’ultimo trentennio, in Italia e altrove, senza chiamare in causa il cambiamento occorso nel discorso economico – il mercato è divenuto suprema misura d’ogni cosa –, così è difficile intenderli senza metter a fuoco il cambiamento intervenuto nel discorso sulla democrazia. Il modello di democrazia prevalente in Europa, che resisterà grosso modo fino alla costituzione spagnola del 1978, prevedeva il regime parlamentare, il ruolo preminente dei partiti, una forte propensione al compromesso tra le forze politiche e tra le forze sociali organizzate. Benché faticoso, il compito della democrazia era assumere il pluralismo, sociale e politico, e mediare tra i suoi soggetti. Ebbene, tale modello è stato soppiantato da un altro, solitamente definito maggioritario, la cui interpretazione e applicazione attuale prevede il ridimensionamento risoluto di mediazioni parlamentari e partitiche, il primato della leadership personale e la scelta diretta da parte degli elettori di chi governa. Con la loro preferenza per la leadership personale e la competizione spettacolare i media sono stati un coadiuvante. In ogni caso il modello prescrive che un’enorme quantità di questioni siano sottratte alla politica partisan, con cura contingentando il pluralismo e, ben che vada, respingendolo verso la società. Non è la democrazia populista. Ma non ne sarà per caso, in una situazione di crisi come l’attuale, una rischiosa premessa?
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Il lato oscuro del potere Miguel Gotor insegna Storia moderna all’Università di Torino
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esistenza di centri di influenza occulti in grado di condizionare il governo e di sopravvivere all’esaurimento stesso dei cicli politici costituisce un tratto radicato e di lungo periodo delle dinamiche di funzionamento del sistema di potere nazionale che appare caratterizzato dall’intreccio personalistico ed endemico tra dimensione privata e funzione pubblica, cricca e libero mercato. Un problema antico, di ordine politico, culturale, civile, religioso, antropologico, quello dell’organizzazione del potere nel nostro Paese che Antonio Gramsci, nei Quaderni dal carcere, quando dal chiuso di una prigione rifletteva sulle forme di organizzazione e di consenso dello Stato fascista e sulle cause che avevano prodotto lo schianto liberale, sintetizzò con parole impegnative, ma ancora attuali: «il “sovversivismo” popolare è correlativo al “sovversivismo” dall’alto, cioè al non essere mai esistito un “dominio della legge”, ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo». Soltanto negli ultimi due anni, quando la crisi della leadership di Silvio Berlusconi è divenuta sempre più manifesta insieme con l'erosione del suo consenso popolare, sono emersi all'attenzione della magistratura e dell'opinione pubblica italiana una serie di centri di potere invisibili come le cosiddette «P3» e «P4». Si tratta di formule e sigle di indubbia efficacia giornalistica soprattutto perché ricordano un dato che altrimenti rischierebbe di essere dimenticato, quello della continuità di nomi e di metodi di queste reti di relazioni con la loggia P2, scoperta dalla magistratura nel 1981. Il fatto che Berlusconi sia stato iscritto all'organizzazione massonica deviata insieme con alcuni esponenti politici nazionali e locali del suo schieramento e che Licio Gelli abbia manifestato in numerose occasioni il proprio pubblico compiacimento per avere visto inseriti nei programmi di governo del Cavaliere i punti centrali del suo «Piano di rinascita democratica», mette in luce un perdurare di rapporti e di contatti che sarebbe ingenuo trascurare. Non bisogna, però, commettere l’errore di relativizzare il potere destabilizzante e il potenziale sovversivo rivelato dalla P2. Certo, quando saltarono fuori le liste di Castiglion Fibocchi si ebbe una
Soltanto negli ultimi due anni, quando la crisi della leadership di Silvio Berlusconi è divenuta sempre più manifesta insieme con l'erosione del suo consenso popolare, sono emersi all'attenzione della magistratura e dell'opinione pubblica italiana una serie di centri di potere invisibili come le cosiddette «P3» e «P4»
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fase di ripiegamento e poi di arretramento dell'organizzazione anche perché il suo segretario Gelli fu coinvolto in numerosi processi penali. Ciò avvenne anche grazie all’azione del nuovo governo guidato per la prima volta da un laico come il repubblicano Giovanni Spadolini, alla determinazione del presidente della Repubblica Sandro Pertini e all’attività della Commissione d’inchiesta parlamentare presieduta dalla democristiana Tina Anselmi. Ma i legami piduisti non si sciolsero: si ritirarono come un’onda per poi riemergere con un vigore nuovo, tornando a infrangersi lungo la battigia italiana. Sotto questo profilo Berlusconi può essere considerato sia l’espressione politica della riorganizzazione di quel gruppo di potere, sia come l’erede di una continuità di governo lungo l’asse Andreotti-Craxi per come si cementò nel luglio 1990 in occasione dell'approvazione della cosiddetta «legge Mammì». In quella circostanza, proprio nell’ambito della proprietà dei mezzi di comunicazione di massa e del controllo del mercato pubblicitario, avvenne un brusco cambiamento dei rapporti di forza nel sistema di potere italiano che sarebbe stato gravido di conseguenze. Infatti, con il determinante sostegno del Psi di Craxi, il quale impose il voto di fiducia al governo Andreotti, fu approvato il provvedimento che disciplinava il sistema radiotelevisivo pubblico e privato incaricandosi di fotografare de iure il monopolio di fatto dell’imprenditore Berlusconi in ambito televisivo, nella fondamentale sfera della raccolta pubblicitaria e stabilendo che le sue tre reti private, in un regime di duopolio con la Rai, avrebbero dovuto dotarsi di appositi telegiornali. Il 27 luglio 1990, per protestare contro l’approvazione di quella legge, ben cinque ministri democristiani appartenenti all'ala sinistra del partito (Carlo Fracanzani alle Partecipazioni Statali, Riccardo Misasi al Mezzogiorno, Sergio Mattarella alla Pubblica Istruzione, Calogero Mannino all’Agricoltura e Mino Martinazzoli alla Difesa) si dimisero dal governo, ma vennero avvicendati senza colpo ferire dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Questa è la data di inizio della carambola italiana 1990-1993, in cui si definirono assetti di potere, conflitti di interesse e alleanze politiche di lunga durata di cui Berlusconi si trovò a essere originale e dinamico interprete con la sua «discesa in campo» nel gennaio 1994. Tuttavia, l’influenza di queste consorterie non è emersa solo grazie all’appannamento del carisma di Berlusconi o al perdurare strutturale di rapporti di potere e di reti di relazione nel corso degli ultimi vent’anni. No, l’affermazione di questi gruppi, con il loro impasto di favoritismi, legami personali e corporativi, ricatti e segreti, con la loro renitenza a stabilire il dominio della legge e a farsi Stato, è stata favorita anche dalla torsione plebiscitaria e populistica imposta dal Cavaliere alla sua azione di governo. Infatti, 18
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se si ha la pretesa di stabilire un legame diretto e semplificato tra capo e popolo, che dunque si costituisce in modo delegato, verticistico e plebiscitario, si produce inevitabilmente un progressivo aumento del potere di condizionamento e di minaccia delle cricche. Salta completamente la mediazione del partito e quella della rappresentanza pubblica e manifesta degli interessi. Ciò non deve stupire in quanto esiste un sottile, ma solido nesso tra il populismo della politica e l’«oscurismo» dei poteri: quanto più il popolo è in maniera informe, acritica e indiretta portato al centro dell'azione del capo, tanto più i gangli del potere tendono a organizzarsi in maniera opaca e ristretta. In questo modo aumenta lo spazio della non visibilità dell’azione politica che ha per effetto l’impoverimento della qualità stessa della democrazia, un obiettivo implicito di ogni strategia populistica che tende programmaticamente all’oligarchia. In questo caso siamo davanti a un’ulteriore conseguenza negativa della crisi della forma partito, la cui funzione politica e civile è un bene che sia rivitalizzata anche per tale motivo. Per comprendere l'aumento del potere delle cricche nell'Italia berlusconiana, ma anche la ragione della loro pubblica rivelazione negli ultimi tempi, bisogna considerare che gli elementi di continuità sono stati maggiori rispetto a quelli di rottura, l’esaltazione dei quali è proseguita in modo superficiale o interessato fin quando non si è inceppata la macchina populistica del Cavaliere. Da una parte, c'è stata la filiazione piduista invisibile che si è riorganizzata dopo la crisi del 1981, dall'altra, l'eredità politica manifesta del cosiddetto «Caf». In realtà, i fattori di continuità tra il vecchio e il nuovo, come del resto è spesso accaduto nel nostro Paese, hanno finito per prevalere, ma si è affermata una lettura «rivoluzionaria» della crisi della Prima repubblica, a destra come a sinistra, volta a marcare soltanto gli aspetti di discontinuità che si sarebbero manifestati con il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario e con il ruolo salvifico e di supplenza della magistratura. Si è avuta un’enfasi eccessiva, che spesso ha corrisposto a una volontà di propaganda, tesa a nascondere dinamiche conservative ben più solide e incisive. Ancora una volta è prevalso un istinto gattopardesco in cui esibite posture radicaleggianti sono servite a occultare concreti riposizionamenti affinché nulla cambiasse, ossia rimanesse invariato il rapporto tra poteri forti e corporativi e una politica che si vorrebbe sempre più debole e screditata. La legge elettorale voluta da Berlusconi e Bossi è la logica conclusione di questo processo storico che punta a svilire il Parlamento e la qualità della rappresentanza democratica perché le cricche prosperano laddove la politica muore.
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Per comprendere l'aumento del potere delle cricche nell'Italia berlusconiana, ma anche la ragione della loro pubblica rivelazione negli ultimi tempi, bisogna considerare che gli elementi di continuità sono stati maggiori rispetto a quelli di rottura, l’esaltazione dei quali è proseguita in modo superficiale o interessato fin quando non si è inceppata la macchina populistica del Cavaliere.
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Le strozzature
dell’informazione in Italia Roberto Zaccaria deputato PD
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i è parlato molto in questi ultimi anni, soprattutto in Italia, di crisi della democrazia e se ne è parlato con riferimento ai più diversi profili che la determinano. Crisi istituzionale, crisi politica ma soprattutto una crisi profonda nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati che incide in maniera diretta sullo snodo fondamentale del sistema democratico. Altri si occupano dei temi più direttamente politici o istituzionali, io mi soffermerò su alcune delle questioni che agiscono più a monte o più in profondità se si vuole e cioè su quei profili del sistema informativo che condizionano, a volte in maniera invisibile, a volte in maniera clamorosa e plateale il corretto svolgimento del circuito democratico. Non è un caso che la nostra Corte costituzionale in una delle sue prime sentenze in materia di libertà di espressione abbia definito l’articolo 21 della Costituzione e le norme simili che si trovano in tutti i testi costituzionali contemporanei come la “pietra angolare del sistema democratico”. Se questo è vero dobbiamo valutare quali sono gli indici che devono essere tenuti sotto controllo per valutare le ricadute sul sistema democratico della disciplina o comunque del funzionamento del sistema dell’informazione. La questione di gran lunga prevalente è quella legata al conflitto d'interessi e all'impossibilita in tutti questi anni di approvare una legge significativa capace di porre sotto controllo un fenomeno di gravissima commistione tra interessi privati e interessi pubblici. È vero che il conflitto d’interessi è problema che in 21
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La fragilità delle regole e l’arbitrio in questo campo è un lusso che nessun sistema democratico è in grado di permettersi
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larga misura esorbita la dimensione dell’informazione (i conflitti di questa natura possono riguardare svariatissimi campi), ma è vero che quando questo tocca il campo dell’informazione, della stampa o ancor più il campo della televisione, la miscela diventa esplosiva perché l'informazione è legata a doppio filo con i temi del consenso elettorale e un conflitto in questo campo si ripercuote immediatamente sui risultati elettorali ed il conflitto determina un vantaggio incolmabile con gli altri competitori. È noto il dibattito che ha attraversato soprattutto la sinistra sull’incapacità di aver saputo prevenire o comunque contenere questo problema ed aver lasciato un’autostrada all'affermazione prima e al consolidamento dopo del regime berlusconiano. Certo errori di sottovalutazione ne sono stati commessi tanti, prima per non aver applicato una norma elementare come quella che ne sanciva l’ineleggibilità e poi per non aver approvato durante la XIII legislatura una legge sul conflitto d’interessi, sia pur con tutte le difficoltà connesse agli esigui numeri parlamentari; ma oggi è inutile piangere sul latte versato e bisogna dire con chiarezza che questo punto costituirà la premessa di ogni pur sintetico programma elettorale. Questa solenne affermazione costituirebbe già una significativa e caratterizzante presa di posizione. Tanto più che costituisce serio elemento di preoccupazione il fatto che la pur fragilissima Legge Frattini che il centrodestra ha approvato nella XIV legislatura (2004) contiene una disposizione sul “sostegno privilegiato” (intendendosi quello che possono effettuare le aziende legate al Presidente del Consiglio durante le campagne elettorali) che finora l’Autorità per le comunicazioni si è guardata bene dall’applicare. Il problema è dunque estremamente serio perché la fragilità delle regole e l’arbitrio in questo campo è un lusso che nessun sistema democratico è in grado di permettersi. Del resto non sarà certo un caso che una tale disinvoltura su questo tema resta una peculiarità tutta italiana. La dimostrazione della fragilità delle posizioni su questo versante è dato dal rischio costante di frattura che presenta la legge sulla par condicio. Questa legge è stata approvata tra contrasti enormi nel 2000 ma dopo ben quattro anni di travagliato iter parlamentare (iniziato nel 1996 con il decreto Gambino, durante il Governo Dini, e conclusosi dopo la trasformazione in disegno di legge durante il Governo Prodi e infine diventato legge quasi al termine della legislatura). Ebbene questa legge non ha mai avuto vita facile nel nostro paese, nonostante si fondi su una pronuncia di
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conformità della Corte costituzionale (n.155 del 2002) e si limiti ad affermare due principi sacrosanti: equilibrio tra le forze politiche in campagna elettorale e divieto di sondaggi e di spot in grado di avvantaggiare i più forti economicamente. Il centrodestra ha cercato costantemente di modificarla e quando ha potuto ha cercato di applicarla in modo illiberale (si pensi al divieto dei talk show in campagna elettorale fatto scaturire da un'interpretazione illegittima di un suo articolo). Da segnalare, invece, come dato incoraggiante, il fatto che durante la più recente campagna elettorale amministrativa e referendaria, l’Agcom, opportunamente sollecitata con ricorsi ed esposti da parte di esponenti delle opposizioni ha potuto sanzionare i più vistosi strappi al principio di equilibrio nell’informazione elettorale, comminando sanzioni pecuniarie molto elevate, le più elevate della sua storia ad alcune testate televisive decisamente partigiane (tg1, tg4, tg5). Ha fatto clamore in particolare una intervista parallela rilasciata dal Premier, nella stessa serata, a ben cinque TG (anche tg2 e Studio aperto) con caratteristiche editoriali che rendevano quelle comunicazioni simili ad un vero e proprio videomessaggio-spot. Un altro nodo irrisolto nel nostro paese è quello connesso alla legislazione antitrust in materia radiotelevisiva. Nonostante che la Corte costituzionale abbia pronunciato diverse sentenze a partire dal lontano 1976 nelle quali con forza crescente chiedeva che fosse adottata, in attuazione del principio pluralistico e del diritto all'informazione, una seria normativa anticoncentrazioni, il legislatore è stato sordo e, in epoca più recente, addirittura elusivo. Ormai da molti anni conviviamo con un regime basato sul duopolio e le recenti attenuazioni di questo principio ferreo sono derivate dall’ingresso sul mercato di un nuovo monopolista: Sky che ha progressivamente conquistato fette di mercato. Anche La 7 si è ritagliata uno spazio significativo, soprattutto nell’informazione: il suo telegiornale è ormai il quarto come ascolti e assai più importante quanto a credibilità. Ma nonostante questi fatti il mercato radiotelevisivo è assai lontano dall'essere caratterizzato da una fisiologica concorrenza: quando un programma come quello di Santoro, campione di incassi, è costretto a lasciare la Rai per problemi politici, stenta a trovare una collocazione su una rete concorrente. Nonostante il passaggio al digitale che avrebbe dovuto assicurare “reti per tutti” e cioè un più ampio pluralismo, le cose non sono cambiate, i soggetti egemoni sono rimasti gli stessi e la pubblicità continua ad essere sempre nelle stesse
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Il mercato radiotelevisivo è assai lontano dall'essere caratterizzato da una fisiologica concorrenza: quando un programma come quello di Santoro, campione di incassi, è costretto a lasciare la Rai per problemi politici, stenta a trovare una collocazione su una rete concorrente
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Indebolimento della struttura normativa e indebolimento della struttura economica sono state le mosse che hanno messo a dura prova l’indipendenza della concessionaria pubblica che si è così ritrovata a rivolgersi con il piattino in mano al Governo a dover chiedere sempre più frequenti aumenti di canone, anche perché la pubblicità non tirava più come una volta
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mani. Mediaset pur perdendo ascolti continua a detenere più del 60 per cento del mercato e l’Agcom ha potuto sostenere che quello della pubblicità non costituisce un autonomo mercato rilevante. Quindi la legge che continua a regolare il sistema antitrust è la legge Gasparri, trasfusa nel Testo Unico che fissa in questo campo il limite più alto d’Europa. Dal momento che il pluralismo è l’altra faccia del diritto all’informazione, sempre secondo le parole della Corte, la mancata attuazione del primo si ripercuote sull’attuazione del secondo ed un sistema informativo che non garantisce il diritto all'informazione è con tutta evidenza un sistema che non garantisce appieno la democrazia complessiva. L’ultima e forse più grave distorsione del sistema è comunque quella che si realizza nel servizio pubblico radiotelevisivo. La sua finalità strategica è quella di garantire in questo settore nevralgico l’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza sostanziale: l'art.3, secondo comma, della Costituzione che dovrebbe garantire la pienezza del diritto all’informazione ai cittadini che non possono esercitare per condizionamenti economici il diritto di manifestazione del pensiero. Ebbene in questi anni, a partire dalla Legge Gasparri del 2004, la vera controriforma della Rai, il servizio pubblico ha imboccato una strada di progressivo decadimento. Il legame con il Governo e la maggioranza è diventato organico e il conflitto di interessi non risolto ha offerto a Berlusconi, una volta vinte le elezioni di realizzare l’en plein nel sistema radiotelevisivo. Un controllo politico, economico e clientelare. Quello che emerge dalla lettura dei giornali di questi giorni sulla c.d. Struttura Delta, non è purtroppo che la conferma di un sistema di potere organico, incrociato e trasversale in grado di asservire il governo della televisione pubblica, non solo alle esigenze della politica, ma addirittura a quelle dell’azienda concorrente. È facile dire che tutto questo non era mai successo neppure nei momenti più bui della vita della Rai. Gasparri nel 2001, appena diventato Ministro, era riuscito a bloccare un contratto della Rai con gli americani per la realizzazione di un partenariato, al 49 per cento, sulla società degli impianti Rai Way, che avrebbe fruttato oltre 400 milioni di euro ed avrebbe dato alla Rai di giocare un ruolo egemone nel digitale terrestre. Indebolimento della struttura normativa e indebolimento della struttura economica sono state le mosse che hanno messo a dura prova l’indipendenza della concessionaria pubblica che si è così ritrovata a rivolgersi con il piattino in mano al Governo a dover chiedere sempre più frequenti aumenti di canone, anche perché la pubblicità non tirava più come una volta. E sempre
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più frequentemente i bilanci hanno cominciato a segnare verso il rosso. Fino a poco tempo addietro gli ascolti in qualche modo avevano tenuto, grazie anche al sostegno di alcuni programmi forti, ma con l'indebolimento di alcuni generi e soprattutto con il passaggio alla militanza dichiarata della testata leader della Rai. Il Tg1, affidato alla dissennata direzione di un vero e proprio fan di Berlusconi, è andata dissipandosi la tradizionale credibilità della testata che è precipitata negli ascolti, causando un danno di immagine alla Rai tutta intera. Sarà difficile far riprendere la Rai dallo stato in cui oggi si trova. Anche in questo caso pare indispensabile archiviare definitivamente l’impianto di “governance” della legge Gasparri e girare pagina con una legge che segni definitivamente il distacco dalla politica. Le proposte sono molte. Abbiamo ancora il disegno di legge Gentiloni della scorsa legislatura che ho ripresentato in questa. C’è una nuova proposta, a firma Bersani, che segna una nuova strada. A tutti io mi permetterei di fare una sola raccomandazione: evitiamo in ogni caso che l’organo deputato ad eleggere il vertice possa riprodurre in alcun modo la maggioranza politico parlamentare, perché se così fosse, non c’è maggioranza qualificata che tenga e rischieremmo di cadere dalla padella alla brace. La Rai e il paese non si possono permettere un nuovo errore.
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I partiti tra societĂ e istituzioni
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La funzione nazionale dei partiti Alfredo Reichlin presidente del Centro studi di politiche economiche
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iò a cui stiamo assistendo è la più grande mutazione del mondo mai avvenuta nella storia moderna. Parto da qui, perché è vero che il mondo è sempre cambiato ma questo è molto di più di un cambiamento: è la fine della occidentalizzazione del mondo. L’Europa cessa di essere il luogo dove si è formato il pensiero moderno: dai diritti della persona, allo Stato, la scienza, l’illuminismo, Carlo Marx e Adamo Smith, la libertà di opinione. Dove quindi si è formata anche la sinistra, si è pensata l’emancipazione sociale, si è creata la civiltà del lavoro. Dico queste ovvietà per avere almeno il senso del problema che ci sfida. E, dopotutto, questa è anche la ragione che ci ha spinto a pensare la necessità di un partito davvero nuovo e non l’assemblaggio di vecchi Stati maggiori. So bene che i partiti non s’inventano. Si affermano se sono storicamente necessari. E allora perché noi oggi saremmo necessari? A fronte di quale problema che non sia solo la gestione del potere? Una cosa mi sembra ormai abbastanza chiara: il nostro ruolo è fermare il declino della nazione che è già cominciato. È da 10 anni che non cresciamo per cui anno dopo anno ci stiamo già impoverendo rispetto al resto d’Europa (il nostro reddito pro-capite è già 10 punti sotto la media). E qui sta la ragione fondamentale della sfiducia dei mercati. Non basterà cacciare Berlusconi. Bisognerà ricostituire il tessuto lacerato dello Stato e della nazione e dare ad essa un governo degno di questo nome. Insomma: riprogettare l’Italia, e le ragioni della sua unità. Io sono fiducioso perché vedo i segni di una riscossa possibile. Gli ultimi risultati elettorali questo ci hanno detto. È una nuova generazione che sta prendendo la parola. Non è poco. E nel voto io non ho visto solo la condanna politica e morale di Berlusconi, ma, insieme a questa, un fenomeno più profondo: il bisogno della gente di riappropriarsi della propria vita. Una riscossa civica dice Bersani. È vero, ma insieme al rifiuto delle vergogne del “bunga-bunga”, in quel voto io ho 27
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Non bastano i movimenti, la protesta e la propaganda, occorre riorganizzare le volontà collettive, un cervello collettivo e una forza organizzata. Non è facile
Un grande partito si afferma e occupa la scena se interpreta non il conflitto di ieri ma quello di oggi, quello dominante, e quindi se è chiaro dove si colloca. Con chi e contro chi
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visto anche una condanna del degrado della politica: questa politica senza finalità, senza analisi, né programmi, alla ricerca solo di un consenso a breve, subalterna al potere economico. Io parto da qui, perché è questo mutamento più profondo già in atto nel rapporto tra la politica l’economia e la società che chiede una forza davvero nuova, più credibile agli occhi delle nuove generazioni. Non più la somma di vecchie storie ma un partito più aperto e più inclusivo e che sia sentito come il motore di un movimento riformatore molto vasto. Un partito il quale sia sorretto da una cultura in grado di rileggere i problemi italiani alla luce del fatto che ovunque stanno cambiando le mappe sociali e il rapporto tra il denaro e la ricchezza reale. Chi comanda? A che cosa si riduce la democrazia moderna in un mondo in cui si allarga sempre più il divario tra la potenza di un’economia a dominanza finanziaria che è globalizzata e muove le ricchezze del mondo secondo logiche che riguardano sempre meno i bisogni umani e il potere della politica. Una politica priva dei vecchi strumenti del comando, lo Stato nazionale e i grandi partiti. Con la conseguente incapacità del cittadino di partecipare a decisioni che riguardano la sua vita e il suo destino. Se non parliamo di questo, cioè della crisi della democrazia, di che parliamo quando pensiamo a nuovi partiti? Non bastano i movimenti, la protesta e la propaganda, occorre riorganizzare le volontà collettive, un cervello collettivo e una forza organizzata. Non è facile. La condizione è cominciare dal definire la cosa più semplice, ed essenziale, che è questa: un grande partito si afferma e occupa la scena se interpreta non il conflitto di ieri ma quello di oggi, quello dominante, e quindi se è chiaro dove si colloca. Con chi e contro chi. Con chi e contro chi? Questa è la condizione necessaria per dare un’anima al Partito. Non dimentichiamo che il socialismo occupò in Europa la scena nel Novecento quando non solo difese gli operai nel nuovo conflitto industriale (profitto contro salario) ma inventò armi sconosciute per allora e straordinarie come il suffragio universale, il sindacato, il partito di massa, i diritti sociali. E così impose un compromesso democratico al capitale. In modi molto diversi. Oggi questo tema si ripropone dal momento che il modello liberista ha fatto fallimento. Ma pesa il vuoto di un nuovo pensiero capace di misurarsi con una domanda cruciale: il mondo può essere governato sulla base di un così grande squilibrio tra la potenza dell’economia globalizzata, non sottoposta ad alcune regole e il potere della politica intesa come libertà delle comunità di decidere del proprio destino? Per molti segni questa contraddizione sta cominciando a manifestarsi. Guardiamo al sommovimento che sta scuotendo il mondo arabo. Venendo a noi, guardiamo ai movimenti delle
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donne. Emerge con forza il bisogno di nuovi ruoli e nuovi diritti. E fondamentale tra questi il diritto al lavoro. Il lavoro inteso come creatività e libertà e realizzazione di sé della persona. È una grande questione politica, non sindacale. La quale s’intreccia con altre grandi questioni come l’uguaglianza di fronte alla legge, così come con quell’altra questione di cui la vecchia sinistra non si è mai occupata e che è il futuro dell’impresa. Parlo del luogo dove si fanno le cose e non si fa il denaro speculando sul denaro, e sui debiti. Parlo dell’ impresa come il luogo dove, attraverso la collaborazione di forze diverse, si fa l’innovazione e si crea l’economia reale. Attenzione. Sono queste le ragioni per cui è in gioco il fondamento della democrazia. Perché su che cosa si regge una democrazia e su che cosa si basa la vitalità delle istituzioni se (dico la cosa più semplice) un giovane sa in partenza che la sua vita e il suo destino saranno solo una successione di lavori precari? D’accordo, il lavoro non è tutto. Ma come quel giovane potrà costruire la sua persona e farsi carico dell’interesse pubblico? Cosa diventa una comunità quando i ricchi diventano sempre più ricchi e sopratutto quando la ricchezza privata si nutre della miseria pubblica? Guardiamo solo per un momento al senso di questa crisi economica in nome della quale si stanno imponendo ai meno abbienti sacrifici fino alla miseria. Al fondo essa nasce dall’avidità di guadagno del sistema finanziario mondiale il quale per arricchirsi ha spinto al massimo i consumi privati attraverso le carte di credito e i debiti facili, sacrificando così gli investimenti pubblici, e quelli nella produzione. Poi quando è scoppiata la bolla speculativa e si è arrivati al fallimento, è avvenuto qualcosa di paradossale. I governi si sono indebitati per migliaia di miliardi di dollari per salvare le banche. Con l’effetto che il debito privato è stato trasformato in debito pubblico. E chi paga il debito pubblico? Lo pagano i servizi sociali e i salari. Lo pagano i tagli agli investimenti produttivi e quelli per l’occupazione e lo sviluppo. Risultato: la ricchezza privata si è nutrita della miseria pubblica. Ecco perché io sento molto il bisogno di spingere il riformismo a uscire dal pensiero debole di questi anni. Ma, attenzione, non per nostalgia di “sinistrismo” oppure in nome di non so quale nuova “narrazione” fantastica alla Vendola ma come risposta al modo come nel tessuto democratico occidentale ha fatto irruzione questa forma nuova di economia e di potere che obbedisce non solo a logiche di profitto (non ci sarebbe in ciò nulla di strano) ma tali da distruggere il legame sociale, a rompere quei compromessi e quei valori che sono il necessario presupposto dei regimi democratici. So che questo tema è molto ostico al pensiero “liberal” di questi anni. Ma gli effetti sono stati catastrofici. E non solo quelli economici (la bolla speculativa) ma quelli morali e perfino antropologici: un sistema 29
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La società non può ridursi a società di mercato, senza disgregarsi. L’individuo lasciato solo non può fare appello a quelle sue straordinarie capacità creative che non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall’intelligenza accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umane. Lo sviluppo umano. Dopotutto è questo l’obiettivo e il segno identitario del partito democratico, la sua missione originale
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basato sull’azzardo morale, sul debito e sul denaro che produce denaro, non può che condurre alla devastazione delle risorse naturali e all’impoverimento dei ceti laboriosi. Ecco perché la grande questione con la quale dobbiamo tornare a misurarci è il destino e il ruolo del lavoro umano. Non solo il lavoro operaio ma, certamente, anche quello dell’imprenditore, del produttore, dell’intellettuale, dell’artigiano. Una cosa diversa rispetto al lavoro dei tempi di Di Vittorio. Ma una cosa altrettanto forte. Si tratta di un’idea di giustizia e di solidarietà, capace di coinvolgere i ceti più moderni e creativi, riconoscendo i meriti oltre che i bisogni e dando la parola a una nuova generazione che è insofferente delle vecchie bordate. Sono sempre stato convinto che non si può formare un grande partito senza una visione di lungo periodo. Ma in cosa consiste oggi questa visione se non nell’emancipazione sociale intesa come un fenomeno che non cancella i contrasti di classe, ma non si riduce a questi. Tutta la storia è andata avanti grazie al progressivo affrancamento dell’individuo dalle vecchie barriere in cui si era andata via via organizzando la società: dai vincoli feudali al ruolo dei sessi, fino alle contrapposizioni sociali su basi ideologiche. Ed è per questo che non sono accettabili le logiche di un’oligarchia finanziaria che tende a invadere –anche attraverso il controllo dell’informazione e degli strumenti che producono il “senso comune”- tutti gli ambiti della vita. La società non può ridursi a società di mercato, senza disgregarsi. L’individuo lasciato solo non può fare appello a quelle sue straordinarie capacità creative che non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall’intelligenza accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umane. Lo sviluppo umano. Dopotutto è questo l’obiettivo e il segno identitario del partito democratico, la sua missione originale. Che cos’è nel mondo di oggi un partito? Come è possibile organizzarlo e farlo vivere in una società non più di classe ma degli individui? Dopotutto i grandi partiti sono esistiti perché erano, chi più chi meno, “nomenclatura delle classi” e traevano la loro forza dalle fratture e dalle contraddizioni di una società divisa in blocchi sociali. Io penso che sia vano discutere sulla costituente di un nuovo partito se non si affronta questa questione cruciale: che cos’è e a cosa serve un partito nella società individualista di oggi. È assolutamente vero che il tempo di quello che si è chiamato lo Stato dei partiti è finito e che non si governa più solo in nome di un blocco sociale rappresentato dal partito e dal sindacato. In più governare significa sempre più dettare regole, arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici). Significa tener conto della dimensione e del condizionamento internazionale dei problemi. Comporta l’uso di agenzie e di
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strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Allora non servono più i partiti? Io risponderei che non è così perché la grande novità è che per garantire il “governo lungo” della società più che mai ci vogliono organismi ai quali spetta rendere chiara e mettere in campo un’agenda politica più vasta. Questo è il punto. Il partito come “padrone” del governo recede, ma come fattore guida della comunità avanza più di prima sulla scena. In altri termini ci appare meno utile come strumento di potere, mentre c’è bisogno più che mai di partiti che si pongono come guida etico-politica e come riformatori della società, perché capaci di mobilitare forze, intelligenze e passioni. Insomma i grandi partiti si fanno con le grandi idee e anche con i grandi sentimenti. Il mondo, così com’è, non va bene. In vaste zone del mondo si assiste ormai alla dissoluzione di ogni potere statale per cui grandi masse umane non solo sono povere ma non conoscono leggi, diritti, strumenti e servizi pubblici elementari. Non sanno più chi sono. E basta guardare i volti disperati dei miserabili che sbarcano sulle nostre coste e gli sguardi dei loro bambini per rendersi conto di quanto odio stiamo seminando e di quali spazi enormi si aprono per la violenza, per i traffici di droga e di armi, per la corruzione e la distruzione dei beni ambientali, per guerre civili endemiche. Le donne e gli uomini del Partito democratico devono sentire tutta la responsabilità che si assumono e la grandezza del messaggio che mandano.
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Dopo l'illusione della democrazia senza mediazione Alfredo D'Attorre insegna Diritti dell'uomo all’Università di Salerno ed è responsabile del Coordinamento dell'iniziativa politica PD
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Tornare a ragionare, certo in una chiave rinnovata, sul ruolo dei partiti non appare oggi più come un attardamento nostalgico nel Novecento, ma come un passaggio obbligato per progettare il futuro della nostra democrazia dopo il ventennio berlusconiano
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n Italia la crisi del sistema politico della cosiddetta 'prima repubblica' si è intrecciata in maniera abbastanza peculiare con la nuova chiave di lettura del rapporto tra politica, mercato ed economia, imposta in tutto l'Occidente dall'egemonia neo-liberale a partire dagli anni ottanta. Ne è derivata una fase abbastanza lunga, ormai circa un ventennio, in cui è parso che la funzione dei soggetti collettivi di partecipazione e di organizzazione degli interessi fosse il retaggio di un passato, quello della società industriale novecentesca, destinato ormai a estinguersi, e che si fosse felicemente proiettati verso una sorta di democrazia diretta del cittadino-consumatore, fondata sul rapporto immediato tra leader e individuo-elettore e sul progressivo superamento di tutti i corpi intermedi della società. Nel nostro Paese si è manifestata così con particolare evidenza una sorta di segreta affinità elettiva tra svolta neoconservatrice sul terreno politico-sociale e affermarsi di una visione 'direttista' sul piano politico-istituzionale. Entrambi gli indirizzi hanno mirato a liquidare ogni struttura intermedia di rappresentanza, sulla base dell'assunto ideologico che la presunta razionalità intrinseca del mercato economico ed elettorale avrebbe assicurato la piena sovranità del singolo consumatore-elettore. Secondo questa rappresentazione ideale (per lungo tempo spacciata come l'unico senso comune ammissibile), il ruolo dei corpi intermedi tra cittadini e istituzioni è stato concepito come un ostacolo al dispiegarsi di una pretesa armonica razionalità del mercato e della possibilità di una distribuzione ottimale delle preferenze individuali, sia sul terreno economico che su quello elettorale, al riparo da interferenze e condizionamenti. Dopo lo spartiacque culturale della crisi economica
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globale e dopo l'ormai evidente fallimento in Italia delle promesse di decisione ed efficienza di questo modello di democrazia senza mediazione, il carattere illusorio e mistificante di questa rappresentazione ideologica non può più essere occultato. La conseguenza è che tornare a ragionare, certo in una chiave rinnovata, sul ruolo dei partiti non appare oggi più come un attardamento nostalgico nel Novecento, ma come un passaggio obbligato per progettare il futuro della nostra democrazia dopo il ventennio berlusconiano, che va interpretato come la forma del tutto peculiare che il ciclo dell'egemonia neo-liberale e neo-conservatrice in Occidente ha assunto nel nostro Paese. Se guardiamo indietro, ai primi decenni della nostra vicenda repubblicana, i grandi partiti hanno svolto una imponente funzione non solo di integrazione delle masse popolari nelle vita delle istituzioni democratiche, ma anche di costruzione della coscienza e dell'identità nazionale. Una funzione storicamente decisiva, se si pensa all'eredità che l'Italia liberale post-unitaria e il fascismo avevano lasciato nel rapporto tra cittadini e Stato. Non è esagerato affermare che i partiti di massa siano stati uno degli elementi cruciali in quel processo di nation building che la democrazia repubblicana ha dovuto affrontare nel secondo dopoguerra. Negli ultimi decenni, questo dato è stato sottovalutato o perfino negato da una pubblicistica di ispirazione 'anti-partitocratica', che, muovendo dalla degenerazioni del sistema partitico nella seconda fase della 'prima repubblica', ha finito con l'affermare un paradigma interpretativo opposto e fuorviante, per il quale la forza dei partiti sarebbe stata in Italia il principale ostacolo alla costruzione di una identità nazionale e civica condivisa e di una statualità più robusta. Basta peraltro osservare l'esito dell'ultimo ventennio, segnato dal drastico indebolimento del radicamento e della capacità di mobilitazione dei partiti, per rendersi conto della debolezza di questa chiave interpretativa. È vero però che la crisi del sistema partitico italiano ha una genealogia più lunga e complessa di quella che di solito viene rappresentata con lo schema del passaggio alla cosiddetta 'seconda repubblica'. Già alla fine degli anni sessanta iniziano a manifestarsi i segni di una difficoltà delle formazioni politiche uscite dall'esperienza della guerra e della Resistenza ad assorbire le spinte individualizzanti e libertarie che si coagulano attorno al movimento del Sessantotto. Dopo il fallimento del compromesso storico, l'ultimo grande tentativo strategico di adeguare la democrazia italiana a uno scenario in rapida trasformazione sia sul piano interno che internazionale, i partiti perdono progressivamente la capacità di dare risposta a istanze
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Il ripensamento di un modello parlamentare, con gli aggiornamenti e le correzioni che le trasformazioni degli ultimi decenni rendono necessari, appare come la via più adeguata alle peculiarità del nostro Paese per riformare il sistema democratico, restituendogli vitalità e capacità integrativa
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Il ripensamento di un modello parlamentare, con gli aggiornamenti e le correzioni che le trasformazioni degli ultimi decenni rendono necessari, appare come la via più adeguata alle peculiarità del nostro Paese per riformare il sistema democratico, restituendogli vitalità e capacità integrativa
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di partecipazione, dinamismo e libertà che si sviluppano nella società. Sorge così il tema di una società civile che, diversamente dal modo in cui essa è stata concepita nella tradizione del pensiero politico moderno, viene rappresentata come distinta e contrapposta rispetto alla società politica. Questa istanza di riconoscimento politico diretto della società civile, non mediato dai partiti, si è saldata con i temi della governabilità e della decisione, in contrapposizione esplicita agli elementi della rappresentanza e alla mediazione. Il modello di una democrazia decidente, bipolare e maggioritaria è apparso, a destra come a sinistra, come la via d'uscita obbligata rispetto alle degenerazione in senso consociativo del sistema dei partiti. L'esito involutivo che ci consegna la parabola dell'ultimo ventennio è però quella di una rinuncia alla rappresentanza che non ha prodotto governabilità e di uno scivolamento verso l'investitura plebiscitaria del capo che non ha assicurato alcuna forza di decisione. Si tratta allora di ragionare su come superare questa scissione tra governabilità e rappresentanza, che alla fine non ha garantito né l'una né l'altra. Il ripensamento di un modello parlamentare, con gli aggiornamenti e le correzioni che le trasformazioni degli ultimi decenni rendono necessari, appare come la via più adeguata alle peculiarità del nostro Paese per riformare il sistema democratico, restituendogli vitalità e capacità integrativa. Il modello neo-parlamentare implica la salvaguardia della funzione di garanzia di alcuni istituzioni fondamentali (in primo luogo, il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale), di cui proprio le degenerazioni del bipolarismo nostrano, in un contesto di perdurante debolezza della statualità italiana, hanno portano alla luce l'importanza cruciale. D'altra parte, il radicamento del bipolarismo multipartitico italiano non va cercato nell'artificialità forzata di un meccanismo elettorale o istituzionale ma in una conformazione di lungo periodo della geografia elettorale italiana, che da un certo punto di vista ha attraversato lo stessa cesura del '92-93. Si tratta di un bipolarismo che prima di quel passaggio non poteva produrre alternanza per ragioni internazionali, pur in presenza di una funzione unificante saldamente assicurata dalla Costituzione. Il problema di fronte a cui siamo non è perciò quello di ingessare attraverso congegni elettorali un bipolarismo che, come spesso sottolinea Bersani, nella società italiana esiste 'in natura', ma quello di dare ad esso una forma politica e istituzionale che consenta di superare la curvatura plebiscitaria, l'indebolirsi di un idem sentire costituzionale e la sostanziale
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paralisi decisionale che ha progressivamente segnato l'esperienza degli ultimi anni. L'inaridimento dei tradizionali canali della rappresentanza e l'avanzare di fenomeni di personalizzazione e verticalizzazione della leadership non sono certo fenomeni solo italiani. È indubbio, però, che rispetto agli altri paesi occidentali questi fenomeni siano venuti assumendo nel nostro Paese un'intensità e una configurazione del tutto peculiari, tali da mettere in discussione le stessa fondamenta dell'edificio costituzionale. Dopo le illusioni e i fallimenti della democrazia senza mediazione, il compito (in Italia ancora più urgente che altrove) è quello di ripensare la funzione dei partiti come snodo cruciale, anche se non più esclusivo, del rapporto fra cittadini, interessi economici e istituzioni politiche. Partiti che (data l'evidente impossibilità del ritorno al partito-apparato di massa del secondo dopoguerra) abbiano ed esercitino la consapevolezza del limite della proprio ruolo, sia rispetto agli altri soggetti della società sia rispetto alle istituzioni, ma che siano all'altezza della funzione specialistica che essi devono svolgere affinché anche le altre forme di protagonismo politico diretto della società possano avere un'interlocuzione e uno sbocco efficaci. Formazione e selezione della classe dirigente, coordinamento e verifica dell'azione degli eletti nelle istituzioni elettive, capacità di confronto e mediazione con gli interessi materiali e ideali che si vogliono rappresentare, costruzione di un autonomo punto di vista culturale e politico sulla realtà, in grado di reggere all'urto di campagne mediatiche, di interessi di corto respiro e di ondate emotive: la lunga e irrisolta transizione italiana ci dice che, al di là di ogni possibile ingegneria istituzionale o elettorale, se il sistema democratico non si regge su soggetti politici in grado di assicurare queste 'prestazioni essenziali', ciò che si indebolisce fino a un punto critico non è solo la vitalità della rappresentanza, ma anzitutto la forza della decisione politica.
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Per una democrazia governante Giorgio Tonini senatore PD
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no dei padri fondatori del Partito democratico, Alfredo Reichlin, ama ripetere, assai opportunamente, che l'identità di un partito non è definibile in astratto, ma può essere ricavata induttivamente da un'analisi della sua funzione storica: dimmi a cosa servi, o almeno a cosa vorresti servire, e ti dirò chi sei. Quel che vale per l'identità, vale a maggior ragione per la forma organizzativa di un partito politico: non se ne può discutere in generale, quasi si trattasse di un a priori, ma se ne deve ragionare in relazione agli obiettivi politici che si intendono raggiungere, o meglio ancora (e di nuovo), alla funzione storica che si nutre l'ambizione di esercitare. La funzione storico-politica che il PD si propone di svolgere è molto ambiziosa: organizzare le idee e le forze necessarie ad avanzare al paese una proposta di governo, per usare le parole di Giorgio Napolitano, "credibile, affidabile, praticabile", al punto da risultare all'altezza dell'obiettivo storico di salvare e rilanciare l'Italia nel più ampio contesto europeo. Uso la parola "salvare" non a caso: la crisi politica che da più di un anno affligge la maggioranza di governo e che le ha nei fatti impedito di affrontare con la necessaria lucidità e fermezza la più grave crisi economica del dopoguerra, sta in questi giorni minacciando di degenerare in una vera e propria emergenza finanziaria, che potrebbe mettere a repentaglio la tenuta dello Stato italiano e, a causa del peso demografico, economico e politico dell'Italia, lo stesso progetto europeo, a cominciare dall'Unione monetaria. La responsabilità del PD si fa quindi, se possibile, più gravosa e più urgente. La prima condizione per mettere in sicurezza l'Italia e rilanciare le sue prospettive di sviluppo è avere chiara la consapevolezza che il superamento del berlusconismo ne costituisce la condizione necessaria, ma tutt'altro che sufficiente. Il berlusconismo non è infatti, come è ormai evidente ad una larga maggioranza degli italiani, la soluzione; 36
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ma non è neppure la causa (piuttosto ne è un sintomo aggravante), del problema di fondo col quale, sin dalla sua nascita, deve fare i conti la nostra democrazia: la sua incapacità strutturale di fare sintesi, di prendere decisioni, nel segno dell'interesse generale, oltre la tirannia degli interessi particolari, settoriali, territoriali. Il debito pubblico altro non è, in definitiva, che la traduzione in numeri, sempre più grandi e insostenibili, di questa prevalenza dei vested interests, degli interessi corporativi "corazzati" e del loro predominio sulla spesa pubblica, in barba a qualunque criterio sia di efficienza che di giustizia, complice una politica debole e corriva, quando non corrotta, non solo incapace di imporre il primato dell'interesse generale, a cominciare dall'equilibrio dei conti dello Stato, ma spesso attivamente impegnata a trasformare le risorse collettive in benefici privati, più o meno estesi, anziché in beni pubblici. Il fulmineo, ma non per questo meno istruttivo, dibattito parlamentare sulla manovra finanziaria 2012-2014, con le rivolte parallele di avvocati e notai da una parte e parlamentari e amministratori provinciali dall'altra, entrambe andate a segno, ne è stata l'ultima, eloquente conferma. Si tratta di un'analisi non nuova. In termini non molto diversi, fu proposta, per ultimo anche da chi scrive, vent'anni fa, nel pieno della crisi della cosiddetta Prima Repubblica e della ricerca di un passaggio oltre la crisi stessa, verso un nuovo sistema istituzionale, segnato dal maggioritario e dalla legittimazione diretta degli esecutivi, a cominciare dai sindaci, e da un nuovo sistema politico, caratterizzato da partiti nuovi, post-ideologici, pluralisti, programmatici, organizzati in coalizioni pre- e non più post-elettorali. La constatazione che il problema di fondo della politica italiana, la sua incapacità di organizzare il consenso attorno ad obiettivi di interesse generale, anziché attorno alla spartizione corporativa delle risorse, è alla radice della crisi della Seconda Repubblica, come fu di quella della Prima, propone due conclusioni difficilmente contestabili: la prima è che la Seconda Repubblica, la Repubblica del maggioritario e degli esecutivi legittimati in via diretta dal corpo elettorale, la Repubblica del bipolarismo fondato su coalizioni vaste e partiti deboli e cangianti, la Repubblica del berlusconismo e dell'antiberlusconismo, non ha mantenuto le sue promesse, ma è andata incontro ad un sostanziale fallimento; la seconda è che non c'è nessuna Prima Repubblica da rimpiangere, non solo perché la storia non si fa coi rimpianti (sono più costruttivi perfino i rimorsi), ma soprattutto perché quella stagione politica, che pure ha prodotto risultati storici di straordinario 37
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rilievo (basti pensare alla sapiente gestione della questione comunista) aveva a sua volta già fallito proprio sul terreno della frammentazione corporativa degli interessi e della loro irriducibilità a sintesi virtuose, rispettose del primato del bene comune. Le radici di questo storico fallimento, di un'esperienza per altri aspetti di successo come la Prima Repubblica, sono molto profonde. Sul piano istituzionale, affondano in quello che Giuseppe Dossetti, nella celebre lunga intervista rilasciata (insieme a Lazzati) a Elia e Scoppola (e pubblicata in un volumetto dall'editrice "Il Mulino" nel 2003) definì "il carattere eccessivamente garantista della [seconda parte della] Costituzione": una torsione iper-liberale dell'impianto istituzionale della Repubblica, frutto "dell'eccesso di paura dell'altro", che influenzò sia De Gasperi che Togliatti, in stridente contraddizione con il carattere marcatamente democratico della prima parte della Carta, quella che assegna alla Repubblica, col secondo comma dell'articolo 3, il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale" all'uguaglianza sostanziale tra i cittadini. Alle radici istituzionali della debolezza della Prima Repubblica, aggravata dalla legge elettorale più proporzionalistica del mondo, si sommano quelle prodotte dal sistema politico. Già nel 1970, nella voce "Forme di governo" della Enciclopedia del Diritto, Leopoldo Elia sosteneva che, nella storia politica dell'Italia del dopoguerra, si deve distinguere “tra un periodo 1948-1953 (o di parlamentarismo all'inglese), nel quale la leadership degasperiana risultava assai simile a quella accettata nel sistema britannico; e un periodo successivo nel quale il funzionamento delle istituzioni politiche si sarebbe avvicinato sempre più ai moduli della Quarta Repubblica francese. Ma è chiaro che rispetto al periodo 19481953 quello successivo assai più lungo fa figura di regola in confronto all'eccezione e, soprattutto, riesce impossibile limitare l'instabilità governativa a fasi transitorie”. In altre parole, con l'uscita di scena di De Gasperi, che col suo carisma personale compensava i limiti del sistema politico-istituzionale, l'instabilità dei governi e la debolezza della leadership di governo diventano la regola della politica italiana. Un destino che l'Italia ha pagato caro. Certo, i governi deboli hanno evitato una più dura contrapposizione tra comunisti e anti-comunisti, scongiurando all'Italia uno scenario non impossibile di guerra civile: la stessa minaccia del terrorismo, che ha insanguinato il Paese negli anni Settanta e Ottanta, è stata sconfitta grazie alla tenuta del patto costituzionale tra le grandi forze politiche. Ma l'altra faccia di 38
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questa medaglia è stata la cattiva qualità del governo. Come scrive ancora Elia, “l'incapacità della Democrazia cristiana di conferire uno status degasperiano a chi ha tentato con maggiori o minori titoli di raccoglierne la successione” ha impedito “quella accumulazione di autorità personale che è indispensabile (al di là di ogni discorso sulla personalizzazione del potere) per governare con efficacia in uno Stato contemporaneo”. Lo "status degasperiano" di cui parla Elia è la coincidenza tra premiership e leadership del partito vincitore delle elezioni, nell'ambito di un sistema politico fondato su due grandi partiti "a vocazione maggioritaria", ossia impegnati nella competizione per il primato elettorale e quindi per la guida del governo, e su alcune forze intermedie. La Prima Repubblica non è più riuscita a riconquistare l'equilibrio del periodo 1948-53: un equilibrio che lo stesso De Gasperi aveva giudicato precario, come dimostra il suo sfortunato tentativo di riforma elettorale. Non c'è quindi alcuna "età dell'oro" da rimpiangere o da restaurare. Ma è ugualmente vero che la Seconda Repubblica non è riuscita là dove la Prima aveva fallito. C'è stata, è vero, la coincidenza di leadership e premiership, nella persona di Silvio Berlusconi, e per un periodo doppio rispetto all'età degasperiana. E c'è stata la riforma elettorale, che ha
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modificato in senso maggioritario il sistema politico italiano. Ma non solo non si è riusciti a completare la transizione sul terreno istituzionale, con le necessarie modifiche alla seconda parte della Costituzione: rafforzamento dell'esecutivo, statuto dell'opposizione, superamento del bicameralismo perfetto. Anche sul terreno politico, il "presidenzialismo di fatto" imposto da Berlusconi, in carenza di una equilibrata riorganizzazione del circuito governo-parlamento, e in presenza di una frammentazione esasperata del sistema dei partiti, organizzato in coalizioni eterogenee e disordinate, ha prodotto una torsione plebiscitaria e populista del rapporto governopaese, che ha finito per allontanare, anziché avvicinare, l'approdo del sistema politico italiano ad una compiuta democrazia dell'alternanza. Non esiste dunque altra strada che quella di andare avanti, di cercare ancora, nell'innovazione istituzionale e politica, quel sistema di incentivi ai pur presenti e diffusi comportamenti virtuosi, attenti all'interesse generale, che oggi se non manca del tutto, è certamente del tutto inadeguato. Dell'innovazione istituzionale si è detto e scritto tante volte e si è già tornati qui sopra sui punti essenziali di una circoscritta e incisiva revisione costituzionale, sia sul versante del rapporto governo-parlamento che su quello del superamento del bicameralismo perfetto. Un cenno è d'obbligo sulla legge elettorale, solo per dire che il ritorno al collegio uninominale maggioritario resta l'unica possibile quadratura del cerchio che consente, da un lato, di mantenere lo scettro della decisione sul governo in mano al cittadino-elettore, evitando la rozzezza del premio di maggioranza nazionale; dall'altro di ripristinare, attraverso la mediazione della rappresentanza territoriale, la relazione oggi spezzata tra elettori ed eletti, senza riproporre i guasti legati al voto di preferenza. Resta aperto il nodo di come evitare che il soggetto prevalente, nel collegio uninominale, sia la coalizione (modello Unione, per intenderci), con ciò che essa si porta dietro, in termini di indeterminatezza politico-programmatica e di degenerazione oligarchica nella selezione del ceto parlamentare, anziché il partito "a vocazione maggioritaria", o per dirla con Claudio Petruccioli, il "partito alfa", il partito dominante, per quantità di consensi e qualità di leadership, nella sua eventuale, compatta coalizione con una o al massimo due forze intermedie. Una spinta in questa direzione può venire dal doppio turno alla francese, o da un sistema di collegi uninominali alla tedesca, ma in piccole circoscrizioni alla spagnola, secondo il 40
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suggestivo e, dal mio punto di vista, persuasivo modello elaborato alla fine della scorsa legislatura da Salvatore Vassallo. Al di là dei tecnicismi, ciò che conta è affiancare alla costruzione di un sistema istituzionale coerente, la messa in campo di un grande partito, per ognuno dei campi del bipolarismo, che si pensi e si viva come un soggetto fondamentale della democrazia maggioritaria. Quel che ci ha insegnato il travaglio della Seconda Republica è infatti che non può darsi vera democrazia maggioritaria senza partiti a vocazione maggioritaria. Neppure l'uninominale all'inglese è in grado di produrre una vera democrazia maggioritaria, "modello Westminster", senza partiti coerenti con questo obiettivo: partiti pochi e grandi, mai più di quelli che si possono contare con le dita di una sola mano; due e solo due tra questi che svolgano la funzione di "partiti alfa", anche perché, per dirla con Elia, godono entrambi dello "status degasperiano", ovvero della regola, scritta o non scritta, ma comunque ferrea, della coincidenza tra leadership e (candidatura alla) premiership, con tutto ciò che questo comporta; contendibilità della leadership, sia nazionale che regionale e locale, come causa e conseguenza insieme dell'apertura dei partiti alla partecipazione attiva dei militanti e dei cittadini-elettori, nella selezione della classe dirigente. Il Partito democratico è nato sulla base di questa intuizione, riflessione, convinzione: solo un partito "nuovo", per identità culturale, certo, "ulteriore" rispetto alle culture politiche del Novecento, ma anche per forma organizzativa, compiutamente democratica, maggioritaria, competitiva, che non si riduca ad essere, banalmente, l'ennesimo nuovo partito, può rappresentare la via d'uscita dal labirinto nel quale si è smarrita la Seconda Repubblica. Un partito nuovo è comunque un partito. E un partito è un'organizzazione, non un'improvvisazione. Il PD è ancora un prototipo, una concept car, in attesa di ingegnerizzazione. La traduzione organizzativa del modello innovativo rappresentato dal PD deve essere per l'appunto una traduzione e non un tradimento. Ma la traduzione organizzativa ci deve essere. E deve essere innovativa e coraggiosa. In coerenza con la forte spinta che viene dal paese, il PD deve contribuire al ridimensionamento del nucleo, oggi troppo esteso, del ceto politico permanente: una quota di professionismo politico è una risorsa insostituibile in un sistema democratico, ma arriva il momento nel quale la crescita quantitativa diventa mutamento qualitativo e una democrazia rischia di diventare il suo opposto, un regime oligarchico, castale, fondato su una rendita troppo estesa del potere di 41
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nomina, che finisce per inibire lo stesso potere di indirizzo e di decisione, da parte della politica stessa. All'opposto, va invece rimotivato e rilanciato, e coltivato e formato, il volontariato politico: la più ampia cerchia dei militanti politici, che oggi si va restringendo, secondo una dinamica inversa rispetto a quella del professionismo politico. Questa intermedia rappresenta la fascia cruciale per il successo della scommessa del PD: dalla sua ripresa quantitativa e dal suo rilancio qualitativo dipendono le sorti del partito nuovo, il suo radicamento nella società italiana e la sua capacità di pensare e di produrre cambiamento, sostenendo le necessarie e spesso difficili riforme di cui il paese ha bisogno. Ma anche il volontariato politico ha bisogno, per non ridursi ad una minoranza separata dalla società, tendenzialmente settaria, di misurarsi con una cerchia più ampia, quella degli elettori attivi, che non hanno intenzione, interesse, possibilità di impegno nel volontariato attivo stabile, ma che non per questo rinunciano a chiedere di poter partecipare alle decisioni importanti: quelle che riguardano la scelta delle persone (primarie per le cariche istituzionali monocratiche, per i candidati nei collegi uninominali, per le stesse principali cariche di partito), ma anche la determinazione di orientamenti programmatici, mediante referendum interni, o anche la sperimentazione, ancora troppo poco diffusa tra i democratici italiani, di pratiche e tecniche innovative di democrazia deliberativa. Si tratta di tre direzioni di impegno (il ridimensionamento e la riqualificazione del ceto politico professionale, il rilancio e il potenziamento del volontariato politico e la costruzione di canali innovativi di partecipazione dell'elettorato attivo), che devono articolarsi secondo modalità diverse nei differenti contesti territoriali (fare il PD in Calabria non è la stessa cosa che farlo in Lombardia o in Toscana) o sociali: una cosa è mantenere il primato tra i ceti medi intellettuali impiegatizi, altra cosa è porsi l'obiettivo ineludibile di riconquistare il primato tra i ceti produttivi, dagli operai, ai contadini, agli artigiani, agli imprenditori. Senza considerare la necessità di fare i conti con l'evoluzione dei mass-media, dai giornali alla televisione alla rete, e il condizionamento esterno che essi determinano sulle menti e i cuori di elettori, militanti e perfino dirigenti di partito. Si tratta, come è evidente, di una sfida grande. Una sfida decisiva per la funzione storico-politica del PD e dunque per gli stessi destini del paese.
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I sistemi di partito e il caso italiano Luciano Bardi insegna Scienza politica all’Università di Pisa
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a qualità dei sistemi democratici è spesso associata a quella dei partiti. I partiti infatti svolgono essenziali funzioni di collegamento tra i cittadini e le istituzioni, come la strutturazione del voto, l’articolazione e l’aggregazione degli interessi e la produzione di politiche rispondenti alle domande degli elettori. Meno diffusa è invece la consapevolezza dell’importanza dei sistemi di partito, spesso confusi con l’insieme delle loro componenti, i partiti stessi. I sistemi di partito hanno una struttura data dal numero dei partiti e dalla distanza ideologica tra i due poli estremi dell’aggregazione partitica nel sistema. Queste caratteristiche influenzano poi la direzione della competizione inter-partitica che può essere centripeta o centrifuga. Un numero limitato di partiti e di poli, con ridotta distanza ideologica e competizione centripeta, favorisce la rappresentanza, la stabilità e la capacità di risposta politica dei governi. Un elevato numero di partiti e di poli, unito a un’elevata distanza ideologica e competizione centrifuga, porta invece a un deficit di rappresentanza, all’instabilità e all’inefficacia governativa. Le condizioni strutturali dei sistemi di partito quindi condizionano la capacità dei partiti di svolgere le loro funzioni: molto più delle loro componenti sono importanti nel determinare le caratteristiche delle democrazie contemporanee. Il quadro è però complicato dal fatto che i partiti competono in una molteplicità di arene: oltre che in quella elettorale anche nell’arena parlamentare e nell’arena governativa. Perché un sistema democratico funzioni in maniera armonica la competizione interpartitica deve presentare strutture omogenee nelle varie arene. Solo così l’efficacia e la stabilità dell’azione di governo e la rappresentanza dei cittadini possono essere garantite. Come vedremo, indipendentemente dall’identità dei partiti e delle coalizioni, le disarmonie del sistema partitico nelle varie arene costituiscono un limite grave della democrazia italiana. Nei principali paesi europei i sistemi di partito presentano caratteristiche virtuose. In Francia, Germania e 43
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Gran Bretagna essi si sono consolidati attraverso processi coerenti e rispettosi delle caratteristiche delle rispettive società. Tralasciando la Gran Bretagna, per l’irripetibilità e la conseguente incomparabilità delle condizioni che hanno consentito il graduale e parallelo consolidamento di quella democrazia e del suo sistema partitico, esamineremo Francia e Germania, paesi che come l’Italia hanno rifondato le proprie democrazie. Ambedue i paesi hanno sistemi di partito con un numero limitato di partiti e con dinamiche centripete di competizione che garantiscono la rappresentanza dei cittadini e la stabilità dei governi, nonché l’alternanza al governo di maggioranze partitiche diverse. In Francia il sistema partitico della Quinta Repubblica segue un disegno istituzionale coerente e rigoroso, volto a rafforzare l’esecutivo senza mortificare la capacità di rappresentanza dei partiti. I suoi aggiustamenti successivi, come il progressivo innalzamento della soglia da superare per l’ammissione al secondo turno di voto per l’elezione dell’Assemblea nazionale, hanno consentito l’eliminazione pressoché totale dei difetti residui ereditati dal sistema partitico, frammentato e creatore d’instabilità, della Quarta Repubblica. Questa strategia ha consentito di contenere le residue tendenze alla frammentazione e di produrre una “quadriglia bipolare” di partiti capace di rappresentare i cittadini e dare stabilità all’esecutivo. Inoltre, la recente decisione di far praticamente coincidere il mandato presidenziale con quello parlamentare ha finora scongiurato, e potrebbe scongiurare definitivamente, il ripetersi della coabitazione, ovvero di una disomogeneità tra le condizioni competitive nell’arena parlamentare e in quella governativa. Rappresentanza dei cittadini e efficacia governativa ne risultano rafforzate. Altrettanto solido appare il progetto istituzionale tedesco. Anche in questo caso il sistema partitico non ha sofferto le soluzioni adottate per la creazione di un esecutivo efficace, la cui stabilità è in primis garantita dalla presenza della sfiducia costruttiva. Tale meccanismo ha da solo il potenziale di eliminare le tendenze centrifughe nell’arena parlamentare, indipendentemente dalla frammentazione del sistema partitico. Questa è stata limitata dalla soglia di sbarramento del 5 per cento, dimostratasi capace di escludere piccoli partiti potenzialmente destabilizzanti ma anche di consentire l’emergere di forze rilevanti, come i Verdi, nati da una nuova frattura della società tedesca, o della Linke, erede del passato comunista della parte Est del paese. SPD e Verdi da un lato e CDU/CSU e FDP dall’altro costituiscono una quadriglia virtuosa quanto quella francese. Proprio con la Linke, l’unificazione ha introdotto nel sistema partitico un elemento 44
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potenzialmente destabilizzante ma necessario per la rappresentanza di una parte importante della società. Ma il superamento del periodo della Grosse Koalition e il ritorno con il governo di centro-destra a dinamiche partitiche abituali indicano una persistente solidità del sistema. L’origine del sistema partitico italiano ebbe invece luogo al di fuori di un disegno istituzionale coerente. L’adozione di una legge fortemente proporzionale per le elezioni della Costituente fu forse inevitabile, dato il ruolo svolto da partiti anche piccoli nella Resistenza, ma produsse un sistema di pluralismo partitico poi polarizzatosi a causa di fattori interni e internazionali. Il pluralismo polarizzato è caratterizzato da una molteplicità di poli, da una distanza ideologica massima tra i due poli estremi e da una direzione centrifuga della competizione. I difetti di un sistema siffatto sono ben noti: mancanza di alternanza di governo; limitazione della rappresentanza degli elettori dei partiti di opposizione; instabilità dei governi. Nel caso della Seconda Repubblica italiana la loro correzione non avvenne attraverso una riforma istituzionale completa e coerente, alla francese, ma fu affrontata solo parzialmente con il referendum elettorale. Tale soluzione ha contribuito a una trasformazione quasi completa dell’offerta partitica e ha permesso l’alternanza di governo, verificatasi ad ogni elezione dal 1994 in poi; ma per la sua mancanza di una visione riformista strategica non ha migliorato in maniera decisiva il sistema partitico e la qualità della democrazia. La legge scaturita dal referendum, la cui logica maggioritaria è stata confermata dal premio di maggioranza associato alla nuova legge proporzionale in vigore dal 2006, ha modificato soltanto la struttura del sistema nell’arena elettorale, riducendone il numero dei partiti e rendendone centripeta la competizione, ma non la struttura del sistema parlamentare. Anche nell’arena parlamentare il sistema partitico ha visto un ricambio pressoché totale dei partiti, ma si è strutturato in maniera simile a quella del passato, sia per il numero dei partiti, con otto gruppi parlamentari alla Camera e al Senato, sia per la direzione della competizione, che rimane essenzialmente centrifuga e generatrice di potenziale instabilità. È vero che dal 1994 in poi si è registrata una maggiore stabilità dei governi, ma questo vale soprattutto per quelli di centrodestra, durati in media 27 mesi a fronte dei 15 degli altri. Considerando anche che su cinque legislature della Seconda Repubblica due si sono concluse con elezioni anticipate, si è autorizzati a pensare che la maggiore stabilità sia dovuta più a caratteristiche particolari della coalizione di centro-destra (e soprattutto della sua leadership attuale) che a migliorate
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L’origine del sistema partitico italiano ebbe luogo al di fuori di un disegno istituzionale coerente. L’adozione di una legge fortemente proporzionale per le elezioni della Costituente fu forse inevitabile, dato il ruolo svolto da partiti anche piccoli nella Resistenza, ma produsse un sistema di pluralismo partitico poi polarizzatosi a causa di fattori interni e internazionali
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condizioni strutturali del sistema. Inoltre la durata formale dei governi è stata pagata con un aumento dei decreti legge e dei voti di fiducia, prassi che riflettono malessere a non certo salute della democrazia. L’attuale sistema partitico italiano presenta almeno nell’arena elettorale caratteristiche strutturali più favorevoli ai processi democratici di quello che lo ha preceduto. Ma un suo risanamento più completo è necessario ai fini di un effettivo miglioramento della democrazia italiana. Questo non può essere infatti limitato a cambiamenti nei singoli partiti o a ristrutturazioni operate attraverso riforme elettorali efficaci in una sola delle arene nelle quali i partiti competono. Armonizzare le condizioni strutturali del sistema nelle varie arene è possibile attraverso soluzioni istituzionali comprensive e coerenti: i sistemi di Francia e Germania ne sono la dimostrazione.
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Alla ricerca di un nuovo modello di partito Luciano Violante presidente del Forum PD Riforma dello Stato
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a vittima più illustre delle elezioni amministrative e dei referendum è stato il partito carismatico. Nel PdL e nella Lega si è aperto, dopo la sconfitta, il tema della successione che non esisteva sino a quindici giorni prima. La sconfitta, quindi, è stata vissuta, forse anche inconsapevolmente, come sconfitta dei capi ed è per questo che si discute della loro sostituzione. Nel PdL la nomina di un segretario del partito che intenderebbe gestire con autonomia le funzioni che gli sono state affidate e la insistita proposta di quest’ultimo di ricorrere alle primarie segnano una radicale inversione di marcia rispetto al recente passato. Nella Lega la inedita disobbedienza di circa metà degli elettori al consiglio di disertare i referendum, lo scontro interno per l’elezione del capogruppo alla Camera, il palese conflitto tra la parte del partito più vicina al Ministro dell’Interno e il cosiddetto cerchio magico, più vicino a Umberto Bossi, danno vita a turbolenze impensabili sino a un recente passato. Per entrambi i partiti è chiaro il porto dal quale si stanno allontanando, ma non è chiaro l’approdo cui arriveranno, forse neanche agli attuali dirigenti. È comunque un percorso che va seguito con interesse e rispetto perché riguarda forze politiche che hanno ricoperto e ricoprono responsabilità di governo e che rappresentano circa il 40% degli elettori. Anche il PD ha in corso una riflessione sui propri caratteri che sarà operativa e sfocerà quindi in decisioni e cambiamenti. Ci spinge una motivazione, per fortuna diversa. Siamo un partito che ha solo tre anni di vita e sentiamo l’esigenza di darci in modo ponderato un assetto affidabile. Inoltre, non bisogna fare l’errore del PDS e dei Popolari durante Tangentopoli, quando i due partiti pensarono che la crisi del sistema politico riguardasse solo gli altri e vennero severamente puniti dagli elettori. 47
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Occorrono nuovi modelli di partito politico capaci di contrapporsi ai modelli di partito carismatico e di “partito personale”, entrambi privi di stabilità strutturale 48
Se i tre maggiori partiti italiani, per ragioni diverse, stanno riflettendo su sé stessi è probabile che oggi vi sia un bisogno generale di un nuovo modello di partito, che, partendo da un’analisi realista della situazione, possa guidare l’azione politica in modo credibile e mobilitante. L’antico assetto dei partiti politici finisce più di trent’anni con l’assassinio di Aldo Moro. Lo statista cattolico cercava di ridare un ruolo ai tradizionali grandi partiti italiani dopo la crisi delle esperienze politiche precedenti. Il suo omicidio pose fine a quel tentativo e chiuse la stagione del cosiddetto arco costituzionale. Seguì un decennio convulso in parte dominato dalla figura di Bettino Craxi, in parte sconvolto dalla fine del bipolarismo internazionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Quel crollo fece precipitare in una crisi di legittimazione tutto il sistema politico italiano. I partiti che avevano governato sino a quel momento perdevano la grande funzione storica di argine al comunismo, visto che il comunismo era finito. Il PCI era costretto ad affrontare un processo di rigenerazione profonda e dagli esiti incerti. La politica, insomma, non aveva in quella fase più nulla da dire agli italiani. Furono l’economia e il mercato a presentare una proposta che il Paese accolse con favore. La candidatura di Silvio Berlusconi nel 1994 costituì il primo caso nella storia italiana ed europea di una personalità del mondo economico, priva di qualsiasi precedente esperienza politica, che costruiva un partito e diventava presidente del consiglio. Quella personalità ha cambiato il sistema politico, le regole, i comportamenti, persino la lingua e i metodi della comunicazione politica. Bene o male la vicenda italiana degli ultimi diciassette anni è stata fortemente condizionata da quel modello. Oggi la sua crisi diventa ragione ulteriore per ripensare a fondo e con rapidità i modelli di partito e i caratteri del sistema politico. Le incertezze su partiti politici destinati comunque ad essere il baricentro del governo del paese possono infatti diventare un handicap per il paese stesso. Una gran parte delle decisioni che riguardano i cittadini dei paesi europei sono prese in sedi sovranazionali dove i singoli paesi sono solo formalmente uguali e contano invece la solidità dei bilanci, la crescita economica e, soprattutto, la credibilità dei leaders e dei singoli sistemi politici. È difficile che appaia credibile, e quindi capace di difendere vittoriosamente le ragioni del proprio Paese, chi sia privo di credibilità e debba fare i conti con un sistema politico traballante. Occorrono perciò nuovi modelli di partito politico capaci di contrapporsi ai modelli di partito carismatico e di “partito personale”, entrambi privi di stabilità strutturale. Un
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obiettivo polemico di quest’opera dovrebbe rivolgersi contro quella che Cesare Pinelli chiama “partitocrazia senza partiti”, vale a dire contro le forme di occupazione del potere e di spoils system da parte di apparati e comitati di affari politicoelettorali che hanno perduto legittimazione e capacità di indirizzo politico. In positivo, il nuovo modello di partito dovrebbe offrire ai suoi iscritti e simpatizzanti forme concrete e innovative di integrazione e di partecipazione. Il successo delle diverse primarie, il numero di elettori che hanno votato ai referendum, le forme innovative di partecipazione alle campagne elettorali, i nuovi movimenti come il “se non ora quando” segnalano la presenza fra i cittadini potenzialmente attivi di una estesa domanda di partecipazione e di decisione. La nuova funzione integrativa del partito politico sembra dover prevedere soprattutto modalità di partecipazione in senso deliberativo alle scelte di politica pubblica che il partito concorre a determinare. In particolare un partito come il nostro, che si qualifica come democratico sin dalla propria ragione sociale, deve differenziarsi per le forme con le quali i suoi iscritti e i suoi elettori partecipano alla elaborazione e discussione delle sue posizioni politiche, attuando attraverso questo forma il principio costituzionale del “metodo democratico”. In questo modo si evitano i due rischi che abbiamo davanti: la giuridificazione esasperata della nostra vita interna e la consegna della partecipazione alle sole “primarie” . L’ispirazione di fondo del nostro dibattito non può che venire dallo spirito della Costituzione, dai suoi valori e dai suoi principi. L’articolo 49 della Legge fondamentale garantisce a tutti i cittadini il diritto di “associarsi liberamente in partiti” per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È stato recentemente messo in luce da Massimo Luciani il carattere impegnativo di questa finalità specie se comparata con il compito che la Costituzione assegna al Presidente del Consiglio dei Ministri: “dirigere la politica generale del governo”. Proprio da questa finalità emerge la differenza tra il partito politico ed ogni altro tipo di associazione. Le finalità del partito politico vanno al di là degli interessi dei singoli; il partito disegnato nella Costituzione serve più al Paese che al partito stesso, più a coloro che ne sono fuori che a coloro che ne sono iscritti. Se il partito politico di cui parla la Costituzione deve concorrere a determinare la politica nazionale, ne deriva schematicamente che: a) deve avere una visione nazionale e
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Un partito come il nostro, che si qualifica come democratico sin dalla propria ragione sociale, deve differenziarsi per le forme con le quali i suoi iscritti e i suoi elettori partecipano alla elaborazione e discussione delle sue posizioni politiche, attuando attraverso questo forma il principio costituzionale del “metodo democratico”
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Il progetto politico di un partito democratico dev’essere capace di fare propria la “battaglia del merito per l’uguaglianza”
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quindi deve pensare a sé stesso come dotato di un ruolo nazionale; b) quel “concorrere” significa tra l’altro che nessun partito e nessuna istituzione detiene tutte le soluzioni, ambizioni che invece erano tipiche dei partiti–verità; c) deve contribuire a svolgere una funzione di formazione civile e repubblicana intorno ai concetti di interesse nazionale, di democrazia e intorno ai valori della Costituzione; d) a differenza del partito ideologico non sovrappone una propria verità a quelle degli altri, ma sviluppa secondo il proprio specifico punto di vista i valori costituzionali, alla luce dei principi di democrazia (“spirito democratico della Repubblica”), laicità, riconoscimento del diritto al dissenso interno, separazione dei poteri, funzioni pubbliche esercitate con disciplina e onore; e) un partito di questo tipo deve essere organizzato su basi democratiche e cioè con una chiara determinazione delle responsabilità, individuazione dei livelli di governo interno, controllabilità delle decisioni assunte, selezione dei candidati, verificabilità dei risultati ottenuti. Il metodo democratico comporta anche la distinzione tra diritti degli iscritti e diritti degli elettori. In particolare, per la elezione delle cariche interne dovrebbero esercitare i diritti di elettorato attivo e passivo soltanto gli iscritti, altrimenti gli eletti alla guida del partito sarebbero scelti anche dagli elettori e da chi si proclama tale e quindi sarebbero privi di responsabilità politica nei confronti dello stesso corpo del partito. Nella società italiana la crisi ha creato una fascia sociale interclassista di “soggetti deboli”, composta dai giovani, dai precari, le famiglie monoreddito, anche quelle che anni fa erano ceto medio. Improvvisamente milioni di persone, soprattutto i giovani e le loro famiglie, sono diventate portatrici di un’angoscia sociale aggravata dall’incertezza dell’avvenire e dal timore di un declassamento sociale. Il progetto politico di un partito democratico dev’essere capace di fare propria la “battaglia del merito per l’uguaglianza” proprio per queste persone e rendere più agevole per loro la possibilità di costruirsi un futuro indipendente. La globalizzazione e lo sfaldamento delle tradizionali classi sociali hanno svuotato l’efficacia interpretativa dell’antico modello dello scontro tra classi sociali; lo scontro di oggi è tra il lavoro produttivo (dipendente, autonomo, indipendente) e la speculazione finanziaria (non il sistema finanziario, ma l’uso predatorio del sistema finanziario). Un partito democratico deve definirsi in relazione a questo conflitto: difendere il lavoro, di ogni tipo, e combattere l’uso predatorio delle risorse finanziarie.
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La distorsione del partito personale Michele Prospero insegna Scienza politica e Filosofia del diritto all’Università di Roma “La Sapienza”
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ell’accanimento ammirevole con cui Bersani insiste sul tema del partito si incrociano due grandi questioni. La prima è di tipo culturale, relativa cioè alla rottura esplicita con i paradigmi politici da tempo dominanti in Italia. La seconda attiene alla realistica diagnosi critica della condizione del paese e alla individuazione della terapia necessaria per cercare di invertire il collasso storico visibilmente in atto. Quando il segretario del Pd prende di petto l’ossessione di leader grandi e piccini di edificare un loro partito personale con tanto di nome inserito nel simbolo coglie uno degli aspetti perduranti della malattia italiana. La personalizzazione della politica è un tratto che accompagna da decenni le democrazie ed è un fenomeno inevitabile. Weber lo descriveva come una condizione della politica di massa e lo faceva risalire alla comparsa in Inghilterra, ai tempi di Gladstone, del primo parlamento con dentro i partiti dagli aurorali tratti moderni. La personalizzazione è per certi versi fisiologica e, se sorvegliata e se non assume bizzarri tratti caricaturali, non contrasta con le esigenze funzionali di una politica organizzata. Il partito personale rientra invece in un’altra tipologia dell'agire politico, che non va confusa con il bisogno dei partiti di proporre un leader quale momento di sintesi, di proposta, di visibilità e anche di decisione. Il partito personale indica lo stato più avanzato di decomposizione di un organismo politico-rappresentativo. Rinvia cioè ad una ineffabile ripresa di una politica dal tratto neopatrimonialistico profondamente regressiva nei suoi connotati. Il partito personale è la forma postmoderna della politica ridotta a “cosa” privata di una persona e quindi sprovvista di regole, forme, routine, procedure, idealità, elaborazione culturale collettiva. Quando nelle pubbliche adunate risuonano le note di “meno male che Silvio c’è” traspare con evidenza una imbarazzante epifania del partito-persona. Ma questo virus, che nella destra assume coloriture pittoresche e tonalità ridicole, 51
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Un’altra narrazione per reagire al collasso storico dell'Italia berlusconiana? Scappare dal reale diventa la strategia prediletta di ogni narrazione che procede con metafore, lunghe fughe fantastiche, ricorrenti deviazioni semantiche
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opera nel profondo e infetta persino la sinistra che se ne lascia contagiare e l’assume anzi come il contrassegno della sua raggiunta modernità. In nessuno dei partiti del ‘900 si ritrovavano immagini che riproducessero i segretari ancora in vita. Quando nella tessera di Sel del 2011 campeggia ben impressa la faccia di Vendola, il processo di smembramento dei principi cardine di una cultura politica sobria pare inarrestabile. Oggi nelle tessere compare il corpo mistico di un capo che fa di se stesso il surrogato del partito assente. E in nome del tocco carismatico, che ritiene di incarnare, il leader demolisce l'idea di partito che per lui è solo un participio passato o un osso di seppia. Su queste basi di ipertrofia del proprio io, il capo può prescindere dalle regole formali di una organizzazione complessa. Spruzzando in giro il sapore dolce del carisma di un eroico e disarmato politico-poeta, il leader contrappone la sua grazia profetica ai dirigenti di partito raffigurati come dei grigi amministratori di condominio e dei ruvidi prosatori del professionismo politico. Un’altra narrazione per reagire al collasso storico dell'Italia berlusconiana? Scappare dal reale diventa la strategia prediletta di ogni narrazione che procede con metafore, lunghe fughe fantastiche, ricorrenti deviazioni semantiche. La sonorità e ritmicità della frase sovente soppiantano la proiezione alla fondatezza analitica, alla sostenibilità delle proposte di governo. Con la narrazione e il trascinamento carismatico, il partitopersona, anche nelle sue vesti radicali, è dentro questi tempi di immane decadenza del politico, non ne è affatto una alternativa critica. È per certi versi la prosecuzione della favola incantata con altri espedienti di incantamento. Il capo, la narrazione, il carisma, il partito-persona: pessimi ritrovati spacciati per nuovi e coperti come scelte inevitabili, dati i tempi che altro non consentirebbero. La colpa dei cedimenti e delle cattive tentazioni però non è mai dello spirito del tempo, cui si può comunque sempre reagire. E proprio prendendo di petto questa deriva anzitutto culturale che conduce al partito-persona, Bersani sfida il perverso senso comune dell'oggi e indica un percorso alternativo a quello suggerito dai media amici(?). La battaglia culturale per il partito si congiunge così alla diagnosi realistica di come reagire ai malanni cronici della condizione italiana presente. Il partito come laboratorio di cultura politica oggi serve come un bene prezioso, non la narrazione di un leader che celebra i suoi desideri, esplicita la sua novella favola. Ricostruire il partito è il solo antidoto efficace alla mesta decadenza da tempo avviata. Con il partito-persona, l’Italia è precipitata fuori dal campo storico del moderno. Ci sono delle regolarità della
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politica che non si possono sfidare impunemente. Tra queste regolarità, d’impronta storica, c’è senza dubbio il partito come istituzione distintiva della politica chiamata a mediare, in forme sempre aggiornate, tra lo Stato e la società. Non la persona ma il partito è la forma moderna della mediazione tra l’agire economico, la trama degli interessi e la decisione pubblica, il bene collettivo. Se questo canale di mediazione tra bisogni e norme è ostruito, il sistema diventa ingovernabile e quindi la politica, da fattore di innovazione e luogo privilegiato di osservazione del tempo lungo, diviene un meccanismo opaco che sprigiona effetti disfunzionali e gestisce pratiche di potere del tutto irrazionali, non sintonizzate con le esigenze della innovazione. Esiste questo tratto sistemico del fallimento del berlusconismo che occorre decifrare e correggere, altrimenti si resta impigliati nella catastrofe dell’agire politico. È proprio cogliendo questa curvatura di sistema implicita nell'esperienza negativa degli ultimi vent’anni, che Bersani fa del partito il primo tassello della sua agenda politica alternativa. Questa è la sua grande scommessa politica, dalla fondatezza della analisi (nesso ineludibile tra crisi di rendimento del governo politico e distruzione del partito) deriverà anche il suo personale destino di leader. Come andrà a finire è ancora presto per pronosticarlo. Ma il successo che il Pd ha riscosso nelle ultime elezioni amministrative è dentro le felici scelte compiute negli ultimi mesi. Il voto è stato anche il riconoscimento dell'efficacia di alcune mosse adottate (a cominciare dalla decisiva proposta del governo di transizione lanciata dopo la rottura di Fini con il Pdl). La correzione che Bersani ha indicato, rispetto all'originario progetto del Pd dipinto come partito liquido-presidenzializzato, prevede un paziente lavoro di manutenzione della forma-partito, una messa in sicurezza delle primarie, che sono uno strumento come altri per la selezione della classe politica, e non possono certo essere enfatizzate come la radice identitaria di un soggetto politico. Nel definire il percorso del partito ancora oggi possibile occorre coniugare ambizione e realismo. Ambizione perché senza un’idea forza mobilitante non si esce dal pantano dell'immediato che cattura nel contingente assoluto. Realismo perché non si possono spacciare come esemplari di partito a portata di mano dei grandi ed esaltanti modelli di mobilitazione storicamente divenuti 53
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anacronistici. Contro l’inganno dell'empiria e le trappole della nostalgia occorre disegnare il partito ancora possibile. Un partito che aspira a coinvolgere milioni di persone con le primarie, commetterebbe un non senso se rinunciasse alla forma del partito di iscritti. Dotarsi (o rafforzare) di sedi, strutture, canali durevoli di partecipazione e discussione nel territorio è un compito essenziale e difficile ma irrinunciabile. Un partito che esprime sindaci, assessori etc. incorrerebbe in errori prospettici seri se non ricavasse anche da queste esperienze di governo una nuova classe dirigente. Trovare un equilibrio tra centro e periferie, amministrazione e politica, iscritti e elettori, è indispensabile tanto più che la politica andrebbe ripensata nel suo complesso proprio in rapporto alle nuove articolazioni della forma-Stato (federale). Sul piano dell’identità, che è poi quello più scottante per un partito come il Pd nato dalla confluenza di diverse tradizioni, si deve andare oltre la cautela alla Wittgenstein, cioè proiettarsi al di là del cauto atteggiamento per cui di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Il problema dell'identità non può a lungo essere rimosso. Nel suo atto di nascita il Pd cercò un amalgama sul terreno scivoloso del riformismo d'impronta neoliberale (contendibilità della leadership, leggi elettorali maggioritarie, innovazione, mercato etc.). Non è questo però il campo più fertile per progettare una convergenza tra due grandi tradizioni culturali legate a enormi fenomeni di massa. In Italia, come in altri paesi europei del resto, c’è stato un movimento operaio, e in senso lato popolare, di matrice socialcomunista e cattolico, non però liberale. Ciò significa che l'amalgama possibile tra i soggetti fondatori del Pd, senza certo rinunciare alla sensibilità per i diritti e i desideri dell'individuo, si rinviene soltanto cercando un punto di intersezione tra il lavoro, come categoria centrale nella cultura del movimento socialista, e la dignità della persona celebrata dalle culture solidaristiche di radice cristiana. Sul terreno della dignità sociale del lavoro, più che sui meccanismi elettorali, un partito nuovo dovrebbe scavare per scrivere la propria funzione durevole nelle pieghe della tarda modernità e dei suoi sempre inediti disagi. Trovare un serio incontro tra la persona-lavoro socialista e la persona-valore cattolica non dovrebbe essere così arduo.
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Un partito per la ricostruzione nazionale Marco Meloni responsabile PD Riforma dello Stato, PA, Università e ricerca
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agionare, oggi, con serenità sulle prospettive della democrazia italiana non è facile. La crisi politica della destra sta conducendo il Paese sull'orlo del baratro e cresce il pericolo che le istituzioni democratiche siano scosse da proteste popolari, vista anche la drammatica iniquità della manovra approvata dalla maggioranza pochi giorni fa. Un film già visto, che nel 1994 ebbe come esito l'ascesa al potere di Berlusconi. Anche per questo è utile partire da una riflessione sul biennio 1992-1994. Allora si tiravano le somme del primo quarantennio repubblicano: la “Repubblica dei partiti” ci aveva condotto, dall’arretratezza e dal disfacimento civile e democratico del ventennio fascista, a diventare una delle più grandi economie del mondo, seppur con un rendimento decrescente, segnato dall’alta inflazione, dalle svalutazioni competitive e dall'abnorme debito pubblico. Caduto il Muro, il sistema democratico appariva stremato, la cultura delle regole in crisi, la fiducia nella politica annientata. L’Italia era scossa da scandali e pesanti interventi di risanamento. Come reagì allora il Paese? I cittadini organizzarono la partecipazione della società civile, promuovendo il cambiamento: dal voto di delega ai partiti si passò all'elezione diretta dei vertici degli esecutivi; da una democrazia che affidava alla dialettica parlamentare (e ai partiti) la formazione dei governi alla scelta maggioritaria, che mirava a “far scegliere il governo agli elettori”; dal consociativismo al bipolarismo muscolare, anche in seguito alla fine dell'unità politica dei cattolici. La nuova strada fu intrapresa in modo certo approssimativo, sotto la pressione di sentimenti talvolta irrazionali e, in seguito, all'azione di soggetti che si erano – più o meno temporaneamente – sostituiti ai partiti politici, implosi sotto il peso delle indagini della magistratura e dei risultati elettorali. Azzardiamo un bilancio: quel biennio fu una prova di 55
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vitalità della nostra democrazia, che superava la crisi ristabilendo il circuito della rappresentanza e la relazione tra delega, responsabilità e consenso, annegata nell’autoreferenzialità di soggetti che chiedevano consenso per esercitare potere e, da tale esercizio, generavano il consenso. Si è realizzata, effettivamente, una democrazia dell’alternanza, pur con enormi disfunzioni determinate, anzitutto, dai condizionamenti al pluralismo dell'informazione. Allo stesso tempo, però, si sono verificati alcuni fenomeni molto negativi: primo, il sistema si è retto su strutture politicopartitiche assai deboli, con partiti personali e “non democratici”; secondo, la durezza del bipolarismo ha annientato la capacità di costruire valori condivisi, anche perché, a destra, le coalizioni “personali” hanno operato una costante negazione dei principi dello stato di diritto e della divisione dei poteri; terzo, a roboanti promesse in termini di efficienza il governo ha risposto con una totale incapacità nel concreto. Non si sono fatte né le riforme bipartisan, né si è avuta, da parte degli esecutivi (con l'eccezione del primo Ulivo) la forza di realizzare le promesse elettorali. Ecco l'origine del “decennio perduto” italiano, così come della crisi della democrazia, amplificata dal mai troppo vituperato Porcellum, che sposta interamente verso i partiti, sempre più autoreferenziali e leaderistici, la scelta dei parlamentari, conducendo al discredito generalizzato verso la “Casta”. Oggi i partiti riscuotono tassi bassissimi di fiducia da parte dei cittadini: appena il 7,7%, un tasso più basso di qualsiasi altra istituzione (dati Demos&Pi). Ragionare del partito non significa, dunque, pensare solo al futuro del nostro. Significa parlare di democrazia e crescita e collocarci all'altezza delle responsabilità che la drammatica situazione del Paese ci affida. Significa pensare a come ricostruire il tessuto democratico e lavorare per una prospettiva di crescita. Come indirizzare queste scelte? Provo a esprimere alcune idee in proposito. Dobbiamo essere presenti nella società e accompagnare l'evoluzione della nuova forma di Stato. Questo si traduce in un partito territoriale, capace di dotarsi di strumenti di coordinamento e unità, rispettoso delle diversità regionali. Un partito di rete e nella rete. 56
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Per arrivare a questo, è fondamentale, però, chiarire la funzione del partito nella democrazia odierna: non un “principe moderno”, ma un soggetto integrato, che si confronta con una realtà plurale e una molteplicità di attori sociali. Il rapporto tra politica e società va orientato al principio di sussidiarietà orizzontale: questione che riguarda il ruolo dei cittadini nelle scelte dei partiti, il protagonismo degli elettori attraverso le “primarie” e i meccanismi di vera partecipazione deliberativa, così come il ruolo delle realtà associative nella costruzione delle proposte e nella formazione politica. Dobbiamo costruire un partito volto all’interesse dell’Italia, contribuendo al definitivo superamento della nostra difficoltà ad affrontare il tema dell'interesse collettivo o generale (nelle espressioni di Andreatta e Mattioli). Vista la crisi della forma statuale nel nostro Paese, è ingenuo credere che il nostro deficit istituzionale possa essere superato attraverso un rinnovato patriottismo dei partiti. L’idea del partito come soggetto metafisico e “destinale” non è diversa dalla posizione che colloca i problemi dell'Italia in mali atavici e insuperabili, affidandosi a un determinismo che chiude ogni possibilità di ripresa. In un cammino di rinnovato patto nazionale e necessaria capacità di stare nel mondo, dobbiamo chiarire le priorità del Paese: riprendere a crescere, costruire un mercato regolato per esercitare le libertà di impresa, combattere la disuguaglianza galoppante che impedisce la realizzazione della persona. Riprendere a crescere è la condizione affinché il lavoro possa trovare un senso effettivo, in un nuovo patto di equità sociale, generazionale e territoriale. Per realizzare queste ambizioni occorrono cambiamenti radicali, progetti di governo ambiziosi, persone all'altezza del compito. La nostra visione istituzionale e la costruzione della struttura del nostro partito devono mirare a questi obiettivi. Sotto il primo aspetto, è necessario stabilizzare il bipolarismo, tratto fondante dell'esperienza del PD, partito delle opportunità che mira a conquistare il centro vitale della politica, lo spazio dove si incontrano i bisogni della maggioranza degli italiani. I meccanismi elettorali devono accompagnare questo processo, con l'obiettivo di rendere 57
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efficiente il circuito “coalizioni di governo-legislativoesecutivo”. Dobbiamo far pace col concetto di leadership, liberandolo dall'ossessione di Berlusconi. La leadership non è mera personalizzazione della politica ma fa parte del rapporto moderno tra cittadini ed elettori. Ora è necessario “integrare” le scelte dei leader, a livello politico e istituzionale, nei meccanismi di selezione della classe dirigente del partito. È questa la via per superare il conflitto, più o meno latente, tra “partiti e presidenti” e per tentare di risolvere la vera involuzione della nostra democrazia, fatta sempre più di partiti personali con leadership personali – o collettive, più raramente – inamovibili. Per questo è fondamentale la circolazione delle classi dirigenti. Un partito all'altezza dei bisogni del Paese deve esprimere una classe dirigente di grande qualità e noi dobbiamo fare la nostra parte, migliorando la funzionalità del partito dal punto di vista del capitale umano, delle strategie organizzative e della comunicazione. Il partito deve riuscire a mettere insieme realismo e progettualità, per comprendere la società e attrarre i migliori talenti. È decisivo, per l’autonomia e la forza della politica, che le sue classi dirigenti siano generalmente considerate capaci di svolgere altre funzioni sociali al medesimo livello. Sono necessari apertura, qualità, rappresentatività della classe dirigente, che si ottengono con meccanismi di reale competizione, con la contendibilità delle cariche e con verifiche elettorali costanti. In questo senso deve intendersi anche il superamento del modello funzionariale, giustamente ribadito da Bersani nell’ultima Direzione. I migliori talenti espressi dalla nostra società dovrebbero avere l’opportunità di impiegare parte della propria vita dentro un partito politico e nelle istituzioni, per poi dedicarsi ad altro. Sarebbe un passo fondamentale per riportare quella fiducia e quella credibilità che oggi, drammaticamente, mancano.
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Autonomi più che antagonisti:
i movimenti della new wave Fabrizia Bagozzi giornalista, quotidiano Europa
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l big bang lo hanno scatenato le donne il 13 febbraio con tutte quelle piazze stracolme da Torino a Ragusa. Ragazze e ragazzi, maschi e femmine. Spesso con nipoti e figli al seguito. Di sinistra ma anche no. Alla fine il pallottoliere si è fermato a quota un milione. Era da un bel po’ che non capitava di vedere questi numeri, dopo l'insuperato 15 febbraio 2003 – evidentemente febbraio è un mese che porta bene alle mobilitazioni – quando contro la guerra in Iraq i pacifisti italiani fecero arrivare a Roma tre milioni di persone e il New York Times parlò del pacifismo come della seconda potenza mondiale. Prima c'era stato Cofferati al Circo Massimo – ma di sindacato e non di movimenti si trattava – contro la riforma dell'articolo 18. E se i germi dell’aria nuova covavano da tempo nel corpo della società italiana, spetta proprio alle donne del comitato Se non ora quando il merito di averli coagulati, connessi e resi evidenti con una mobilitazione nella sostanza trasversale e di popolo. Una mobilitazione che, nata sull’onda del Rubygate, scansando il rischio di contrapporre olgettine e dottorande, avendo cura di non essere nelle parole d'ordine frontalmente anticavaliere, ha dato però la spallata definitiva alla già declinante estetica berlusconiana: al suo modo di vedere l'universo femminile con tutti gli annessi. Canalizzando la noia e la stanchezza dell’élite degli smagati e l'indignazione dei più per le note vicende e la eccessiva incidenza del tacco 16, del silicone e del botox nella selezione della classe dirigente ma anche mettendo al centro più che la politica le policies (il lavoro, gli asili, la maternità di un paese davvero amico delle donne), il 13 febbraio sancisce la fine di un'epoca. Culturalmente prima che politicamente. E, con un certo anticipo sul ciclo delle stagioni, dà il via alla primavera italiana. A quella che Ilvo Diamanti definisce la «svolta mite» degli italiani che riscoprono la voglia di partecipare dopo un lunga fase di torpore. Che ha preso 59
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Il desiderio di esserci, di contribuire direttamente a un processo che tocca la vita e i problemi della quotidianità – che non fanno perdere il senso dell'orizzonte ideale, ma lo incarnano nelle policies del day by day – è centrale
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forma nelle elezioni amministrative e nel vero e proprio «pullulare» – la definizione è del presidente di Swg Roberto Weber – dei comitati che nelle città hanno sostenuto i candidati ed elaborato dettagliatissime proposte per il cambiamento. E che è esplosa con la tornata referendaria. In entrambi i casi una certa differenza nella moltiplicazione del coinvolgimento l'hanno fatta i giovani e giovanissimi con la loro capacità di usare il web come appendice fisica, le donne ma anche gli over 50 attraverso il proprio sistema di relazioni di prossimità: il vicino, l'amico, il parente. A volte con un semplice porta-a-porta. E, al netto del classico radicamento a sinistra della mobilitazione, nei referendum, esattamente come il 13 febbraio, il processo è stato trasversale, tendenzialmente fuori dalle logiche di schieramento. Spiega Paolo Natale, docente di sociologia politica alla Statale di Milano, che quest'onda che sta attraversando il paese «esprime il bisogno di una politica che sappia parlare alla gente, che si occupi delle cose concrete, della qualità della vita, di ciò che riguarda direttamente le persone che anche per questo si sono messe in gioco». Alle amministrative, per esempio, «è emersa con chiarezza una gran voglia di riprendersi la città, e con una qualità della partecipazione che non si vedeva da tempo». A Cagliari i sostenitori di Zedda non solo mettevano e invitavano a mettere striscioni alle finestre di casa, ma si riunivano per elaborare proposte precise per modificare il piano regolatore. E così pure è successo a Trieste, spiega Weber. Con gruppi di studio a ragionare sulla progettazione dell'assetto urbanistico «e una notevole capacità di elaborazione». Il desiderio di esserci, di contribuire direttamente a un processo che tocca la vita e i problemi della quotidianità – che non fanno perdere il senso dell'orizzonte ideale, ma lo incarnano nelle policies del day by day – è centrale. Racconta il presidente di Swg che, in una recente indagine su come gli agricoltori (tutti, non solo i soci) percepiscono una loro importante associazione di categoria, emergono come fattori di attrazione e tratti prevalenti la prossimità, il coinvolgimento, la capacità di far partecipare e di elaborare progetti economici sostenibili. «Solo tre anni fa sarebbero venuti fuori elementi diversi. Ed è un segnale che ha molto a che fare con il cambio di clima», commenta. Alla base del processo che si snoda lungo le linee della partecipazione, della relazione – virtuale o reale – e sulla
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concretezza dell’oggetto, c’è il capolinea di un modello. Quello della politica spettacolo, della politica che evoca il sogno e vellica il desiderio lasciando i contenuti sullo sfondo. E, nota Natale, «spettacolarizza la contrapposizione o si modella sulle battaglie interne per la leadership». Sull’urlo che nasconde il vuoto di progetto o che, anche quando c'è, lo fa passare in secondo piano. «Si percepisce l’esigenza di recupero di normalità. Quel che conta è la pratica, con il definitivo abbandono dell’ideologia», contrappunta Weber. E questo vale in particolare per i ragazzi che, sottolinea il presidente di Swg, «sono pragmatici, lucidi, preparati in modo meticoloso. Totalmente avulsi da vecchie dinamiche divisive o trappole ideologiche. E con un forte senso della responsabilità individuale rispetto alle cose di tutti, al bene comune.». Un’altra indagine Swg su come gli italiani vedono la prevenzione, sui soggetti a cui attribuiscono la responsabilità della prevenzione – dai disastri ambientali in avanti – fa emergere netto questo tratto: «La fascia di età sopra i 30 anni pensa che sia della società, quella fra i 18 e i 30 degli individui». Fare politica, allora, viene letta come un’assunzione di responsabilità soggettiva decisiva. «Ho la sensazione – commenta Weber – che questa tornata di giovani saprà sorprenderci». Anche perché «sono molto target oriented, sanno arrivare dritti al punto affrontandolo fuori dalla polemica e cercando soluzioni praticabili. E con una grande attenzione a che niente e nessuno sia messo nelle condizioni di manipolarli, di strumentalizzarli». È questo, per esperti e osservatori, uno dei tratti più evidenti della new wave dei movimenti post 13 febbraio e da cui va escluso quello No Tav che molti e diversi fattori, anche storici e locali, contribuiscono a rendere un caso a sé nel suo strutturale antagonismo. Come nota Natale «non sono chiusi al dialogo con i partiti, non c'è pregiudizio antipartitico». Il tratto che attraversa il grillismo e che ha caratterizzato il Popolo Viola qui scolora fino a rendersi (per ora) poco percepibile. «Il canale di comunicazione è aperto e, a volte, si instaura un rapporto strumentale sul piano della logistica». I palchi, le strutture per le mobilitazioni. Ma, appunto, i sensori sono nettamente allertati sull'autonomia dai partiti, ritenuta un valore irrinunciabile, con molta più consapevolezza rispetto al passato. In questo senso va forse letta la micropolemica con Rosy Bindi (e con la finiana Flavia Perina sulla legge elettorale) di alcune delle ragazze degli Stati Generali di Siena. Bindi ha fatto un 61
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Oggi saltano agli occhi proprio questi tre fattori: poca ideologia, trasversalità il più possibile (per lo meno nell'interlocuzione), renitenza alla strumentalizzazione
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riferimento al suo ruolo nel partito e al ruolo del suo partito per dire che il Pd – come del resto Bersani ha più volte avuto modo di rimarcare – si mette a fianco del movimento delle donne (al quale peraltro aderiscono molte dem, inclusa la responsabile della conferenza delle donne Pd Roberta Agostini). Prima qualche fischio, poi gli applausi quando Bindi ha specificato: «Nessuno metterà il cappello su di voi. Conserverete la vostra autonomia. Sono qui per ringraziarvi di aver fatto cambiare il vento». E se in questi movimenti c’è una qualche differenza con la Seattle italiana, con il vasto arcipelago che affrontò il G8 di Genova – al netto della «macelleria messicana» – è forse proprio questa. Lo fa notare Maurizio Gubbiotti, coordinatore nazionale di Legambiente, esperto di mobilitazioni associative che da insider ha visto in questi dieci anni crescere e anche cambiare: anche allora c'era parecchia elaborazione, c'erano proposte. Ma oggi saltano agli occhi proprio questi tre fattori: ben più di allora poca ideologia, trasversalità il più possibile (per lo meno nell'interlocuzione), renitenza alla strumentalizzazione. Una cosa, quest’ultima, all'epoca molto dibattuta, data la presenza di Rifondazione comunista nel movimento. Una presenza che, anche se l’allora leader Bertinotti la pensava come motore del cambiamento della sua sinistra (la permeabilità con i movimenti, i vasi comunicanti), si trasformò alla fine in uno scontro su chi egemonizzava il movimento e contro l’idea stessa che qualcuno potesse farlo. Pragmatismo, trasversalità, limiti all’ingerenza dei partiti. Fattori che oggi valgono oltre alle donne dello Snoq, in particolare per il Forum sull’acqua, che è quello che più si avvicina per caratteristiche e soggetti coinvolti – dai cattolici delle parrocchie ai cattolici radicali come Alex Zanotelli, dagli antagonisti ai centri sociali – al movimento formatosi a Genova, cresciuto nella battaglia pacifista e poi via via scolorito. «Sulle ragioni del referendum sull’acqua c’è stato un livello di consapevolezza altissimo. Fuori da un certa fisiologia, non ho visto riflessi ideologici, anzi ho osservato attenzione a evitarli. In compenso c’era informazione, approfondimento, capillarità di comunicazione. Parroci compresi», nota Gubbiotti. E, certo, anche un parlare con i partiti, «perché in questo in qualche modo i movimenti sono maturati». Incluso il niet a chi attenta all'anima del rivitalizzato spirito civico. Che rilancia passione, concretezza e anche dialogo con le formazioni classiche della politica. Ma sull’autonomia si assesta su una condizione di massima allerta.
I partiti visti dal territorio
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I partiti politici visti dal Nord
Marco Almagisti insegna Scienza politica all’Università di Padova
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e in democrazia i partiti sono inevitabili, si può aggiungere, parafrasando un celebre detto di Orwell, che in certi sistemi politici i partiti sono più inevitabili che in altri. In alcuni casi, la filogenesi del sistema politico ha riservato ai partiti non solo il ruolo di soggetti cardine della rappresentanza, bensì anche quello di agenzie di socializzazione alla politica democratica e di produttori o convertitori del capitale sociale necessario per il funzionamento della democrazia. I processi di transizione e consolidamento democratico hanno evidenziato l’importanza di alcune “ancore” che consentono la socializzazione alla democrazia, in particolare se l’instaurazione del sistema democratico avviene quando nella società civile non è ancora presente una legittimità diffusa verso le nuove istituzioni. Nel caso del sistema politico italiano, tale ruolo di ancoraggio della società civile ai valori e alle prassi della democrazia è stato svolto proprio dai partiti: in presenza di forti differenze territoriali e di identità antagoniste rispetto al centro nazionale, i due principali partiti del primo periodo repubblicano, la DC e il PCI, hanno connesso le società locali con il sistema politico. Pur con luci e ombre tali partiti sono riusciti a espandere le dotazioni di capitale sociale estendendone il raggio oltre le chiuse del particolarismo e del campanilismo più esasperato, filtrando e aggregando le domande sociali in termini gestibili dal sistema politico. Proprio il processo di disancoraggio partitico – sintetizzabile nella metafora dell’allontanamento quando non della contrapposizione della società civile rispetto ai partiti – avviato alla fine degli anni Settanta è all’origine della “lunga transizione” 64
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avviata negli anni Novanta e tuttora irrisolta. Se la disaffezione nei confronti dei partiti figura quale fenomeno relativamente generalizzato nelle democrazie contemporanee, nel sistema politico italiano questa tendenza assume tratti specifici. Infatti, l’Italia è l’unico paese occidentale nel quale un intero sistema partitico è crollato, e l’unico paese occidentale in cui si è affermato elettoralmente un partito di tipo completamente inedito, Forza Italia, nato come emanazione diretta di un impero finanziario e mediatico e il cui leader, divenuto capo del governo, continua a esserne il proprietario, senza risolvere seriamente il pesantissimo conflitto d’interessi. Non è casuale che il leader del centrodestra esprima costantemente la propria contrarietà rispetto alla sopravvivenza, nello schieramento avverso, di un modello di partito alternativo in cui ancora si riverberano i riflessi della trascorsa stagione: lo stretto rapporto fra politica, società e territorio, l’organizzazione diffusa, il partito quale referente di relazioni personali significative. Risulta più sorprendente la difficoltà del centrosinistra di elaborare chiaramente un’alternativa rispetto al partito mediale di Berlusconi. La stessa Lega ha dovuto differenziarsi dall’irriproducibile modello berlusconiano. L’errore di molti osservatori spesso è stato quello di ridurre il leghismo a solo folklore. Non accorgendosi che, a modo suo, la Lega tematizzava e rappresentava il frutto del disancoraggio partitico. Infatti, i valori della Lega sono principalmente riconducibili al localismo antistatalista, ossia all’esaltazione della società locale in contrapposizione a ciò che è più ampio, avvertito come potenzialmente perturbante. Tali valori possono facilmente intercettare elementi di lungo periodo sedimentati nella cultura politica diffusa di una vasta area presente nell’Italia settentrionale, soprattutto nelle province nordorientali. Non esiste alcuna “legge ferrea” che determini il successo di una determinata offerta politica. Anzi, più volte ho sostenuto che i tratti di lungo periodo di una cultura politica diffusa sono fortemente influenzati dalle scelte compiute, consapevolmente o meno, dai principali soggetti presenti sulla ribalta politica, in determinate giunture critiche. Detto altrimenti, le fasi storiche in cui gli equilibri di una società sono posti sotto pressione dischiudono spazi ad innumerevoli insidie (l’anomia, l’insicurezza, la possibile distruzione del capitale sociale), ma
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Non esiste alcuna “legge ferrea” che determini il successo di una determinata offerta politica. I tratti di lungo periodo di una cultura politica diffusa sono fortemente influenzati dalle scelte compiute, consapevolmente o meno, dai principali soggetti presenti sulla ribalta politica, in determinate giunture critiche
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possono anche presentare opportunità inedite per i soggetti in grado di interpretare meglio la nuova situazione: i corpi intermedi possono riposizionarsi, ridefinire i reciproci rapporti di forza, ridisegnare i sistemi di relazione con individui e istituzioni, diffondendo nuovi costrutti simbolici e narrativi. Anche il processo di disancoraggio partitico vissuto dal nostro paese al termine degli anni Settanta e il conseguente collasso della c.d. “Prima Repubblica” negli anni Novanta rientrano appieno nel novero tali giunture critiche. Pertanto, vale la pena di ribadire che non v’era – e non v’è – alcun elemento “a priori” che indicasse in una neo-formazione partitica quale la Lega la miglior interprete di tale mutata condizione. Invece, si può affermare che il fraintendimento, se non la rimozione, dei suoi elementi innovativi da parte degli altri partiti ne ha favorito a lungo la crescita elettorale e il radicamento sociale. Comprendere realmente la portata della sfida leghista significa confrontarsi con alcuni elementi di fondo che caratterizzano il sistema politico italiano. In primo luogo, riconoscendo la peculiarità dei rapporti centro-periferia, la cui problematicità è un dato costitutivo della politica e della società italiane. Infatti, in Italia il capitale sociale è storicamente collegato alle vicende di lungo periodo di società locali dai profili molto spiccati, quali il Veneto largo (il Nordest) e l’Italia centrale innervata dall’esperienza del municipalismo socialista. In secondo luogo, è necessario diradare la coltre prodotta da troppe fumisterie revisioniste e riconoscere quale indubbio successo della classe politica uscita dalla Resistenza l’aver saputo costruire relazioni fra queste società locali e lo Stato nazionale, radicando nei contesti locali i principali serbatoi di consenso per i maggiori partiti dell'Italia repubblicana (la DC e il PCI), autentiche ancore che hanno consentito il difficile consolidamento della democrazia italiana. Infine, è necessario riconoscere che negli anni Settanta la crisi di detti partiti e della loro funzione di mediazione ha trasformato radicalmente il contesto italiano, in particolare i rapporti fra istituzioni e società (locali) e che questo processo non è avvenuto tanto per l’atavica refrattarietà delle periferie alla partecipazione politica all'interno dello Stato democratico, quanto per il mancato recepimento da parte dei partiti delle crescenti domande di modernizzazione e di efficienza che da tali periferie cominciavano ad emergere con insistenza. Tanto che negli anni 66
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Novanta lo scenario politico italiano è cambiato completamente quando parte della neo-borghesia di piccola e media impresa del Nord ha deciso di ritirare la delega alla DC per premiare una neoformazione partitica quale la Lega che faceva del riferimento immediato alla società locale il proprio stendardo. Le difficoltà di adattamento del ceto politico proveniente dalla c.d. “Prima repubblica” a questo importante processo di trasformazione hanno amplificato un disagio della società locale, anche nei termini eclatanti, spesso ripresi dai media, che pure esisteva anche prima della comparsa della Lega sulla ribalta politica. Utilizzatore finale di tale scontento, Berlusconi ha proposto un modello politico nuovo, fondato sulla centralità della figura del leader mediatico, ma ha trovato nel proprio alleato un concorrente formidabile. Infatti, la Lega impiega esplicitamente la propria robustezza organizzativa e il proprio radicamento territoriale quali risorse politiche. Militanti e simpatizzanti della Lega sono presenti sul territorio, cercano di alimentare l’esistenza di corpi intermedi connessi con il partito, organizzano incontri e feste anche nei comuni più piccoli (soprattutto nella campagna urbanizzata del Veneto), mantengono un rapporto prossemico con i cittadini dei ceti meno elevati e, pertanto, più esposti ai rischi dell'anomia e dell'insicurezza. In tal senso, la Lega, rielabora a modo suo l’eredità dei partiti fondatori della Repubblica, da cui si distacca per due rilevanti differenze. In primo luogo, il leader, Umberto Bossi, non è solo il sacerdote della liturgia, bensì il demiurgo del partito, il simbolo vivente, come Berlusconi nel PDL. Inoltre, alla somiglianza organizzativa con i partiti storici, non corrisponde un’analogia ideologica. Infatti le parole d’ordine della Lega fanno sempre riferimento immediato alle peculiarità delle società locali, mentre manca il richiamo alla dimensione universalista che la DC e il PCI, pur con numerose ambiguità, seppero riprodurre. Anche per questo “tenere unito il Paese” e “fare gli italiani” sono compiti più difficili oggi rispetto a trent’anni fa. Oggi la Lega paga un pegno pesantissimo all'alleanza di governo con Berlusconi che, nel breve volgere di qualche anno – e di alcuni scandali – si è trasformato da valore aggiunto a problema principale del centrodestra. Tuttavia, è il caso di sottolineare come l’unica regione nella quale la Lega riesce a contenere la propria ingente flessione elettorale risulta
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Berlusconi ha proposto un modello politico nuovo, fondato sulla centralità della figura del leader mediatico, ma ha trovato nel proprio alleato un concorrente formidabile
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il Veneto, in cui il centrodestra può attingere ai sedimenti di una cultura politica ampiamente diffidente rispetto all’offerta politica della sinistra, ma in cui soprattutto la Lega massimamente ha curato il proprio radicamento, potendo contare su circa 150.000 iscritti-militanti. L’attuale crisi del centrodestra può contribuire alla riflessione sul futuro dello stesso centrosinistra. In primo luogo, essendo sprovvisto di leader demiurghi (e proprietari) il PD dovrà percorrere strade originali per ripristinare quel collegamento fra capitale sociale e politica da troppo tempo interrotto, favorendo la partecipazione di ampi settori sociali. Infatti, ciò che “tiene assieme” quella vasta porzione di opinione pubblica che guarda con fiducia a questo partito è “una certa idea dell’Italia”, che emerge soprattutto dai governi locali delle regioni tradizionalmente orientate verso il centrosinistra, e l’attitudine alla partecipazione quale elemento positivo della politica. È pertanto opportuno ricordare che la definizione di un preciso profilo programmatico e di un ruolo incisivo nelle vicende del Paese non può che considerare quale elemento essenziale la partecipazione diffusa e il coinvolgimento di ampi strati della società civile. In secondo luogo, il duplice appuntamento delle amministrative e dei referendum ha evidenziato come la riattivazione di segmenti rilevanti della società abbia stimolato gli stessi partiti del centrosinistra sollecitandone l’adesione a proposte rivelatesi in seguito gradite alla maggioranza dei cittadini. È parso affiorare un embrione di divisione del lavoro che potrebbe risultare essenziale per il centrosinistra, in cui diversi corpi intermedi stimolano i partiti avanzando richieste di partecipazione e sollevano domande rimaste latenti, mentre i partiti si impegnano a garantire continuità a tali espressioni incanalandole in forme istituzionali. Si tratta di un processo ancora in divenire, in cui non mancheranno difficoltà e incomprensioni, ma che risulta necessario intraprendere con coraggio e coerenza se si vuole indicare una vera alternativa al berlusconismo declinante.
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PD e dintorni visti dall’Emilia Fausto Anderlini sociologo
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he cosa è il Pd in Emilia-Romagna ? Poco meno di 100.000 iscritti al 2010, peraltro con un calo di quasi 30.000 rispetto al 2008, quando le primarie per l’elezione del segretario-premier furono sfruttate, in loco, supplendo alla vacanza del “centro”, per distribuire una tessera del “fondatore” al modico prezzo di cinque euro. Un partito semi-leggero, si direbbe. Ancora abbastanza organizzato per regredirlo a mero partito élitario d’opinione, ma certo insostenibilmente volatile rispetto alle matrici di provenienza. Un ibridus fra i corpi mutanti di derivazione comunista e cattolico liberale. I Ds, quali evoluti nei ‘90, erano un partito unitario basato sugli iscritti – peraltro ridotti, al termine, a circa 130.000 ma con i dirigenti frazionati in correnti. I Dl avevano un imprinting “leggero”, anni luce dal modello clientelare di massa della Dc. Un partito di ceti dirigenti attorniati da una base associativa assai fluida, stimabile in circa 20.000 aderenti distribuiti in una miriade di micro-circoli. A parte l’età anagrafica (dalla quale si evince una scarsa consistenza delle coorti giovani) mancano informazioni sull’identità sociale degli iscritti, né è possibile farsi un’idea di quanti siano transitati dai defunti Ds e Dl. I siti del partito, sia nazionali che locali, sono assai parchi di informazioni, e malgrado lo zelo eroico dei pochi responsabili rimasti a presidiare la “mitica” organizzazione, è difficile per il curioso sottrarsi a una vaga sensazione di sciattezza. Indizi, tuttavia, per nulla casuali. Il rito dell'iscrizione ha perso totalmente l'aura del passato, quando certificava l’attenzione del partito alla “cura delle anime”. Il partito di massa si basava sull'attivismo di un vasto gruppo militante, che aveva nel tesseramento (sorta di visita pastorale periodica) l’elemento vitale della prassi collettiva. Confermare le deleghe, fare proseliti, ritirare quote, distribuire il giornale e la propaganda, organizzare feste. Un rito ciclico nel quale era celata la stessa identità del 69
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Per certi aspetti il Pd potrebbe essere interpretato, oltre che come “semileggero”, anche come un partito “paradossale”, che mira in ogni momento al superamento di sé. Una Aufhebung in progress
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partito. La cui base di iscritti, peraltro, come la più gran parte dei militanti, era composta da lavoratori manuali (ancora alla fine degli ‘80, cioè sulla soglia del cambio di ragione sociale, il Pci aveva quasi 400.000 iscritti, per la più parte operai e pensionati di estrazione operaia e contadina). Essi avevano un senso necessariamente “concreto”, oggettuale, dell’organizzazione. Fare organizzazione, la “propria”, dava un senso congruo a ideali e interessi. Elemento cruciale per persone costrette a subire, nella vita sociale, la sottomissione all’organizzazione economica dei ceti proprietari. In quel “partito di massa” – una socialdemocrazia atipica, evoluta secondo il ceppo nordico anziché mediterraneo - erano interconnessi due saperi: quello narrativo, una comunicazione basata sul contatto fisico e la trasmissione orale, e quello organizzativo. La pratica organizzativa metteva gli aderenti su un piano di eguaglianza sopprimendo la differenziazione sociale. Questo modello inizia a decomporsi quando entrano nel partito nuovi ceti medi urbani legati alla transizione urbano-terziaria. Sostanzialmente dalla metà dei ‘70, proprio all’apogeo del partito come organizzazione modellata sull’industria. Ciò comporta anche una penetrazione di valori e comportamenti più centrati sull'individuo e l'autovalorizzazione personale. Tutti gli anni ‘80 sono vissuti dal Pci, non solo sotto la pressione di una insinuante interrogazione politica e identitaria, ma anche nel segno di un allentamento e di una crescente insoddisfazione verso le pratiche organizzative. È in quegli anni, infatti, che si apre un vasto dibattito sulla “crisi di rappresentanza” e sui deficit dei modelli di razionalità a base “formale”, o “pesante”, o “sinottica”. In effetti è da allora (cioè un’età quasi giurassica) che data la tematica del “partito leggero”, disincarnato dal burocratismo, socialmente sradicato dal 'blocco storico' e aperto agli influssi dei movimenti all’agenda post-materialista maslowiana. Oggi, a compimento di quella lunga deriva, di quell’antica religione residuano solo alcune formalità secolari. Per certi aspetti il Pd potrebbe essere interpretato, oltre che come “semileggero”, anche come un partito “paradossale”, che mira in ogni momento al superamento di sé. Una Aufhebung in progress. Per quanto ridimensionati iscritti e militanti restano importanti, ma soprattutto per allestire l’infrastruttura delle primarie, cioè per far decidere in loro vece i non iscritti. In questo facendo ricorso a quella tolleranza alla frustrazione che era una delle tante virtù del vecchio repertorio. Le primarie sono divenute il nuovo culto identitario, depositarie del carattere “democratico” del partito, in un modello contendibile, “agonistico”, di leadership e selezione degli incarichi. Gli incentivi simbolici, ovvero le modalità di distribuzione dell'onore, sono stati
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sostituiti dagli incentivi strumentali e dalla ricerca di metodologie oggettive atte a certificarne la distribuzione. In effetti una enfatica ideologia meritocratica, che può arrivare ad accenti “mandarini”, declinata a tambur battente con il ricambio generazionale e di genere, ha preso il posto dell’egualitarismo sociale, sovvertendo in radice quel ribaltamento dei valori sociali che il comunismo aveva in comune con il cristianesimo delle origini. Non è che il passato fosse sospeso nell’aere del puro spirito. Anche allora gli incarichi contavano Ma diversa era la legittimazione. Agli incarichi si accedeva per “chiamata” e la prima retribuzione era la stima del/nel partito. Adesso gli incarichi sono ambiti come strumento della politica e/o come posta personalizzata, a riconoscimento del merito (cioè del capitale cultura incorporato nell'individuo), in una cornice etica che rinvia semmai a dimensioni più sublimate: il bene comune, l’interesse pubblico, la posterità, la trasparenza ecc. Non per caso il gruppo più numeroso nella classe amministrante diffusa è costituito (come indicano le poche indagini empiriche) da giovani laureati alle prime armi nelle professioni liberali. La politica resta l’investimento migliore per allargare il giro relazionale. Più in generale le classi medie urbane hanno preso il primo posto nel popolo elettorale della sinistra. Partito post-ideologico e maggioritario. Con uno sguardo sociale a 360 gradi, anche a costo di mettere in ombra legami un tempo preferenziali. Non solo sono andate consunte le vecchie cinghie di trasmissione, ma l’intero mondo sociale organizzato (costitutivo, nella sua virtuosa estensione, del modello emiliano) si è riconvertito all’allevamento brado. Gli autonomi, ad esempio, si muovono come lobbies indifferenti ai diversi campi politici. Un’altra parte (si pensi alla Cgil, in Emilia particolarmente potente) ha accentuato in guisa autonoma una propria politicità. Un’altra infine vive in una sorta di qui pro quo, cioè di “falsa coscienza”. Come le cooperative, che continuano ad essere percepite (ed amate) dalla gente come veicolo identitario ed espressione di un’economia alternativa, malgrado i capi dei kombinat cooperativi si sforzino in ogni modo di assomigliare, per ideologia e retribuzione, a managers privati. Rispetto a questo vasto mondo il Pd funziona non più come sintesi e integrazione, bensì come riferimento elettorale. Potendo comunque contare sull'inerzia di importanti flussi fiduciari. Lo Spi, per esempio, il potentissimo sindacato dei pensionati della Cgil, con i suoi 460.000 iscritti (stesso numero, e non è un caso, degli affiliati Pci dei ‘70), è una fonte di sostegno di grande rispetto. In effetti chi si ponesse il compito di “rintracciare” i vecchi iscritti del Pci è nelle leghe territoriali dello Spi che dovrebbe recarsi. Indagini di campo dimostrano 71
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Il Pd dell'EmiliaRomagna si è trovato esposto, sin dalla nascita, a due dinamiche avverse: la retroazione dei territori marginali e periferici in genere, con un ritorno in forze della Lega; l'insorgenza di competitori nelle aree urbane (dapprima l'Idv, poi i Grillini, ora Sel). Un effetto a tenaglia, prodotto da forze antitetiche
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che nessun iscritto allo Spi ha votato la Lega (pur aderendo a qualche adagio del welfare sciovinism), bensì, e in massa, per il Pd. Con un poco di fantasia lo Spi è una sorta di ectoplasma del Pci che dall'esterno (se non dall'al di là, comunque di propria sponte) sostiene un Pd quasi ignaro dell'esistenza di così santo patrono. Tutto quanto richiamato non è ascrivibile, a scanso di equivoci, a una degenerazione. E' piuttosto il risultato di una evoluzione naturale, e per altro verso di scelte modernizzatici che in Emilia-Romagna hanno assecondato con puntualità le trasformazioni post-moderne della società regionale. Il risultato è un Pd che ha nelle classi medie urbane e nelle culture ivi imperanti il soggetto-guida della dinamica elettorale, ma che continua anche a godere, senza neppure troppo sforzo, del sostegno ambientale spontaneo dei residui della società storicamente organizzata nel socialismo popolare (dai pensionati Spi ai soci-consumatori Coop). Il Pd dell'Emilia-Romagna si è trovato esposto, sin dalla nascita, a due dinamiche avverse: la retroazione dei territori marginali e periferici in genere, con un ritorno in forze della Lega; l'insorgenza di competitori nelle aree urbane (dapprima l'Idv, poi i Grillini, ora Sel). Un effetto a tenaglia, prodotto da forze antitetiche. Ceti del lavoro manuale da una parte, non più integrati sub-culturalmente, e ceti urbani intellettualizzati dall'altra. Un Pd percepito dalle periferie come troppo calato sugli interessi urbani centrali, ma anche un Pd incalzato nei crogiuoli urbani dalla radicalizzazione di una parte dei ceti riflessivi. Una difficoltà per certi aspetti intrinseca a un partito con vasto dominio elettorale e perciò alle prese con compiti ardui di sintesi e mediazione, che non toccano le forze mono-tematiche. Ma una difficoltà generata dallo stesso inoltramento del Pd sul sentiero della modernizzazione urbana. Un sentiero già esplorato nell'esperienza dei Ds, ma praticato con un salto di velocità per l'innesto della rappresentanza di matrice Dl. L'Asinello prima, nella concitata 'competition' prodiana di fine '90, e la Margherita poi si sono proposti come funzione ideologica delle criticità urbane, raccogliendo anche una parte della diaspora della sinistra. Soggetti, come tali, decisamente alieni al vecchio insediamento della Dc presso i piccoli produttori della montagna. Alla fine di questo percorso ne è conseguita una profonda mutazione dei referenti sociali e delle affinità ideologiche. Come richiamato l'egemonia del Pd emilianoromagnolo continua ad essere tributaria degli aggregati popolari sedimentati dalla storia politica agraria e poi industriale. Un capitale fisso, uno 'zoccolo' via via più molle, sicuramente incanutito, ma cruciale per garantire il livello di stock dei votanti. Ma è altresì vero che tutto il 'valore aggiunto' è stato assegnato alle classi medie urbane: ceti
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impiegatizi, posizioni dirigenti, manageriali o professionali, ceti “cognitivi” cresciuti al seguito dei producer services e dell’industria culturale, persone dotate di capitale-cultura in genere. Cioè il mondo della post-modernità urbana. Ceti ormai dotati di consistenza perciò in grado di farsi valere come “massa elettorale”. Ma soprattutto ceti vocati alla leadership, sia dal punto di vista delle funzioni amministranti che del telos programmatico e del linguaggio valoriale. Di tali posizioni la regione è particolarmente ricca, per la configurazione affluente e diffusa della rete urbana (una “materia grigia” distribuita su tutto l’asse della Via Emilia con una intensità che non ha paragoni), quanto per la rilevanza del sistema della governance nella community territoriale: vasto, complesso, ramificato. Lo stesso boom Cinque Stelle è una peculiarità essenzialmente emiliana, e non è azzardato interpretarla come un effetto contro-intuitivo proprio della modernizzazione operata dal Pd e scavata con largo anticipo dall’Ulivo. Perché più in Emilia che altrove, infatti ? Non difettando di certo altre realtà dove l'anatema contro la “casta” sarebbe ben più motivato. Si possono azzardare varie spiegazioni. Innanzitutto il richiamato carattere distribuito dell’armatura urbana emiliana e le modalità della sua articolazione post-moderna: peso del welfare, dei consumi culturali, delle attività quaternarie, della regolazione politica. In tali ambienti il grillismo trova elementi socioculturali più suscettivi che altrove, specie nelle giovani coorti del blog people. In sintesi città più moderne e perciò più aperte alle novità più sofisticate del merchandiser politico. In secondo luogo Cinque stelle non è un movimento antisistema, com’erano i partitini della sinistra extra-istituzionale, bensì “anti-cartello” che incentra la sua azione nella radicalizzazione dei temi della legalità, della partecipazione e dell'ambiente. In Emilia la stessa densità, durata e complessità della governance di partito conferisce a queste tematiche una pregnanza altrove sconosciuta. Ma il grillismo, soprattutto, spigola nel campo arato dal Pd con la sua pretesa di instaurare una democrazia-deliberativa basata sulla partecipazione diretta della “gente”. È elemento intrinseco della partecipazione diretta anche la “sfiducia preventiva” verso i decisori. Lo stesso florido comitatismo (rionale e di paese) di cui i grillini si propongono come esponenziale politico non avrebbe assunto le dimensioni del caso senza una assidua disponibilità all’ascolto della “voice” da parte delle istituzioni locali nell'implementazione delle decisioni. Tutto ciò a dimostrare che non si è mai abbastanza “democratici”, come in passato non s’era mai abbastanza rivoluzionari. Più prosaicamente, che dove la Chiesa conta c’è anche più materia per l’eresia.
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Lo stesso boom Cinque Stelle è una peculiarità essenzialmente emiliana, e non è azzardato interpretarla come un effetto controintuitivo proprio della modernizzazione operata dal Pd e scavata con largo anticipo dall’Ulivo
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Il mito del territorio
e la politica in franchising visti dal Sud Eugenio Mazzarella
deputato PD
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ue mantra hanno accompagnato l'inconcludenza con cui la politica italiana da Tangentopoli in poi ha affrontato il nodo decisivo di un nuovo equilibrio tra rappresentanza e governabilità: leaderismo e federalismo. Al netto della “personalizzazione” della politica nella figura del leader, propria alla deriva mediatica contemporanea del tema del “carisma”, è un fatto che il primo mantra è risuonato a vuoto. Il leaderismo ha più coperto che risolto una crisi di sistema, divenendo parte del problema. Più che garantire “decisionismo” ed effettività di governo, l'affidarsi al “capo” ha da un lato garantito al sistema politico l’esonero dall’assunzione di più diffuse e costose, per il ceto politico, responsabilità di autoriforma; dall’altro ha fornito, alla sopravvivenza del sistema, anche la via di fuga del capro espiatorio – a copertura di un sottobosco di interessi particolari e spesso puramente personali allignanti in un sistema della rappresentanza nel giudizio generale ipertrofico e inconcludente. Un’ipertrofia e un’inconcludenza cui, nonostante recenti richiami della Banca d’Italia sulle dinamiche della spesa pubblica e sulla perdita di efficienza del sistema dagli anni di attuazione delle regioni a statuto ordinario, si risponde per lo più con un “discorso misto” di vuota retorica e (pochi) punti di verità: da “Roma ladrona” ai tagli ai privilegi dei parlamentari, dallo scandalo del porcellum alla rimitologizzazione del rapporto della politica con il territorio. E non se ne affrontano i nodi reali. Ipertrofia e inefficienza, soprattutto al Sud, ma non solo al Sud, del reticolo politico-amministrativo locale a tutti i livelli sono la vera fonte – insieme con il chiacchiereccio su riforme istituzionali mai fatte – di delegittimazione della politica e di sua disistima sui territori, che data da ormai vent’anni, dallo svolazzo di banconote da una finestra di un 74
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condominio di Milano, ben da prima del famigerato listino bloccato dei parlamentari. A parte la notazione contro intuitiva, rispetto anche alla retorica dell'espropriazione della scelta politica ai cittadini indotta dalla pur sbagliata legge elettorale nazionale, che la partecipazione elettorale scema percentualmente in modo drastico passando dal livello politico a quello amministrativo (come campionatura ricordo che a Napoli si è passati dal 74% alle ultime politiche a poco più del 50% che ha eletto l’ultimo sindaco, dopo essersi assestati al 57% sull'orgia della preferenza indotta da circa 8.000 candidati al primo turno); il che almeno vuol dire che quando c’è una proposta politica affidata ad un leader o ad un marchio di partito, listino o non listino, si vota e si partecipa di più, cioè si disistima di meno il sistema, si ritiene meno inutile andare a votare. Diminuire i parlamentari, differenziare il ruolo delle Camere, una ammordernata e coerente cornice istituzionale, un ritorno al collegio uninominale, che eviti eccessi di franchigia a personale politico sempiterno, limitando il numero dei mandati per legge, sono tutte cose necessarie, ma serviranno a poco se non si mira al “bersaglio grosso” del sistema, alla patologia del suo corpaccione malato, che è tale dalle Alpi a Capo Passero. Mi spiego con una metafora pasticciera. Se assumiamo la torta, immaginiamo una cassata, del complesso della rappresentanza politico-amministrativa italiana come equivalente a 4 kg, lo strato “nazionale” di questo sistema, la struttura della rappresentanza parlamentare, la glassa bianca che si vede e riluce, pesa più o meno 50 grammi, che possono anche essere tolti tutti, lasciando solo il mandarino apicale (più o meno quello che chiedeva Berlusconi ad inizio legislatura, dichiarando l'inutilità del Parlamento), ma la torta continuerà a pesare 3 kg e novecentocinquanta grammi, il che per il metabolismo del Paese continuerà ad essere insostenibile. Se questa torta, al netto delle riforme “romane”, non peserà la metà, è ben probabile il fallimento dell'altro mantra pseudosolutivo della politica italiana: il federalismo. Per restare alla metafora pasticciera, senza contestare la ricetta, il federalismo, per cui magari qualche ragione si troverebbe, è necessario almeno porre attenzione a che non siano sbagliate quantità e qualità degli ingredienti. E qualche domanda sulle condizioni a contorno, e di contesto, della sua attuazione, è necessaria: non solo sui suoi “costi”, ma sulla qualità dei soggetti “attuatori” del federalismo, cioè del ceto politico che lo dovrebbe porre in essere. Si tratta di porre rimedio a due mali strutturali della rappresentanza politica in Italia: l’ipertrofia e la
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Quando c’è una proposta politica affidata ad un leader o ad un marchio di partito, listino o non listino, si vota e si partecipa di più, cioè si disistima di meno il sistema, si ritiene meno inutile andare a votare
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C’è un ceto politico professionale o paraprofessionale abnorme, che nella crisi dei partiti di massa ormai coincide pericolosamente con la stessa militanza politica, inducendo un'incapacitaÌ di autoriforma del sistema, che ha pochi precedenti.
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frammentazione, e in questo scenario alla personalizzazione clientelare della scelta dei rappresentanti. Un territorio non puoÌ esprimere, in un semicono di piombo che pesa sulla stessa “base” di elettori, un manipolo di consiglieri circoscrizionali, qualche consigliere comunale, un consigliere provinciale, nel caso un rappresentante delle comunitaÌ montane, un deputato, un senatore, e tutti i livelli amministrativi che vi sono connessi, con tutte le pertinenze parapubbliche che ne vengono indotte. Ne deriva, da questo nodo irrisolto, un ceto politico professionale o paraprofessionale abnorme, che nella crisi dei partiti di massa ormai coincide pericolosamente con la stessa militanza politica, inducendo un'incapacitaÌ di autoriforma del sistema, che ha pochi precedenti. La “professione” come esercizio di un “credo” di servizio al bene comune, nella sua declinazione come “amministrazione” spicciola, ma non di spiccioli, si eÌ ormai immeschinita ad “impiego” routinario ed autoreferenziale di un ceto politico, il cui capitale sociale per stare sul mercato della politica eÌ spesso solo una micro o macroclientela di interessi organizzati. La trasmigrazione trasformistica di migliaia di “operatori” politici sul territorio, che con il loro book di “contatti”, spesso malversato, si riposizionano continuamente in base alle opportunitaÌ del momento sul mercato politico, inserendosi nei network che si agglutinano in vista di quella o questa performance rappresentativa non ha piuÌ niente di “politico”, ma il tono tragico di un concorso di massa alla dismissione morale dell'azienda base di un Paese evoluto: la democrazia. Come giudicare altrimenti il trasformismo ormai al dettaglio – aiutato da sistemi elettorali che favoriscono la frammentazione della rappresentanza – di una politica in franchising svolta da singoli e da gruppi che si aggregano opportunisticamente sotto quella o questa sigla politica, e quando non c’è ne registrano una nuova sul mercato? Ormai i partiti politici hanno tratti cospicui di catene di negozi locali in franchising, dove l’aggregazione è fondamentalmente orientata a tenersi sul mercato o ad ampliarvi il proprio spazio. I leader appaiono spesso costretti – qualcuno magari malvolentieri, qualcuno ne ha proprio la vocazione – ad assoldare per questa o quella battaglia, anche buona e talvolta del tutto degna, capitani di ventura al cui soldo sul territorio non mancano spesso veri e propri lanzichenecchi. In genere sul piano ideologico comunicativo molte di queste “truppe”, in servizio permanente effettivo, buone per ogni battaglia, si proteggono dal disdoro sociale conclamato – con poca
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fortuna a dire il vero, considerata l’opinione prevalente sui “politici” – con la mistica dei territori o il concetto una volta nobile di militanza. Il trasformismo in parlamento di questa situazione è solo lo specchio, e la cassa di risonanza, non la genesi, e non sarà l'abolizione del listino a creargli problemi più di tanto. In aggiunta alle riforme “romane”, che certo garantiranno qualche peone in meno, è necessario chiudere la fase della letteratura di studio, ed urgente proporre una sostanziale rastremazione degli addetti alla rappresentanza, inducendo altresiÌ significative soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza stessa giaÌ al livello basico delle elezioni comunali, e espungere ad ogni livello possibile il voto di preferenza, applicando in modo diffuso il collegio uninominale. Prendendo atto che l'unica azienda che certamente ha bisogno in Italia di un rilancio che passa per una ristrutturazione al ribasso, per tagli agli addetti, insieme lineari e selettivi, eÌ l'azienda politico-rappresentativa. Solo così ci eviteremo il paradosso sociologico delle ultime elezioni amministrative a Napoli dove la “crisi” della politica ha tuttavia trovato ben 8000 “vocazioni” disposte a impegnarsi direttamente per il “bene comune”. Un mistero che non si spiega se non con la capacità di mobilitazione, nella loro frammentazione, delle reti micro e macropersonali di interessi legati all’esercizio politico consolidato; e che però più che allargare la partecipazione attiva alla politica non del “candidato”, che si trova sempre, ma dell'elettore, l’ha demotivata ulteriormente nel gesto una tantum sempre più raro dell'espressione del voto. Il risultato è stato la presunta vittoria “travolgente” di un nuovo leader maximo, il cui consenso in valori assoluti rapportato al corpo elettorale è stimabile intorno al 27%, a fronte del 65% formalmente uscito dalle urne al ballottaggio, con il corollario di una maggioranza assoluta consiliare espressione del 16% del 57% degli elettori che ha votato al primo turno. Il che parla piuttosto di un collasso, per discredito, del voto organizzato e di appartenenza, che di consolidamento del voto d’opinione e del voto riferito al leader. Con il che materia per riflettere ce n’è in abbondanza, a cominciare dal fatto che magari il “vecchio” se n’è andato, ma il “nuovo”, ammesso sia in questa forma ciò di cui abbiamo bisogno, non ha basi sufficienti per impedirne il ritorno.
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L’unica azienda che certamente ha bisogno in Italia di un rilancio che passa per una ristrutturazione al ribasso, per tagli agli addetti, insieme lineari e selettivi, eÌ l'azienda politicorappresentativa
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Un partito che ascolta Francesco Russo segretario provinciale del PD di Trieste, insegna Politiche della formazione all’Università di Udine
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ieci-quindici cittadini individuati al di fuori dei classici canali di partito, una sede neutra e accogliente, un “facillitatore” che detta i tempi e fa rispettare le regole d’ingaggio, ed infine un politico, per una volta non protagonista diretto, costretto (come un novello Ulisse legato all’albero della sua nave pur di ascoltare le sirene) ad una inedita e quasi shoccante dimensione di uditore passivo e silenzioso. Stiamo descrivendo un esperimento di cittadinanza partecipativa, la scommessa di importare all’interno dell’attività di un partito strumenti e metodi (i focus group) caratteristici della ricerca sociale. Una scena (visualizzabile anche in una serie di filmati ora disponibili sul web: http://www.youtube.com/appuntamenti) che si è ripetuta con crescente successo nella scorsa campagna elettorale amministrativa grazie ad un’idea maturata all’interno del Partito Democratico di Trieste ma arricchita dalla creatività e dalla contaminazione con alcune professionalità del modo della consulenza aziendale e dell’animazione sociale. Gli Appunt[A]menti - Dialoghi per costruire la città, sono stati (e continuano ad essere anche dopo le elezioni), a partire dalla scelta del nome, l’espressione di un desiderio e di un bisogno, quelli di riannodare i fili della relazione diretta con parti di cittadinanza e di elettorato che i partiti di oggi fanno più fatica a raggiungere e, al tempo stesso, di proporre una “pedagogia” positiva anche ai militanti del Pd attraverso la prevalente dimensione dell’ascolto. La premessa L’analisi di partenza è quella che in molte sedi ci siamo più volte più volte ripetuti. Le forme di partecipazione politica sono ormai in crisi evidente non solo in Italia, ed è impossibile aspettarsi un’inversione di tendenza senza offrire segnali di cambiamento rispetto al ruolo dei partiti, percepiti sempre 78
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meno credibili anche perché più distanti ed autoreferenziali rispetto al reale vissuto dei cittadini. È un problema di temi (pensiamo in queste settimane ai costi della politica…) ma non solo. Se, infatti, le forme organizzate della politica ricalcano ancora modelli e strutture del ‘900 e utilizzano strumenti (la “fidelizzazione” attraverso il tesseramento, il circolo/sezione di base, le assemblee, il comizio…) che sembrano avere sempre meno a che fare con i tempi ed i modi di una società “liquida”, possiamo ben dire che anche il problema dei contenitori diventa sostanza politica. In un tempo in cui (soprattutto in alcune aree del Paese) le appartenenze sono meno stabili e gli impegni di partecipazione pubblica più legati a singole issue, ad obiettivi precisi ed a più limitati orizzonti temporali, vediamo che tutto ciò ha portato ad un progressivo svuotamento delle strutture dei partiti; rimasti apparentemente simili a quelli dei decenni passati, essi sono di fatto divenuti l’ambito di azione di un ristretto gruppo di persone, in cui l’effettivo spazio di militanza è quasi esclusivamente limitato ai dirigenti di partito/amministratori pubblici. “Aprirsi nuovamente alla partecipazione dei cittadini”, “tornare sul territorio ed incontrare la gente” sono, dunque buone intenzioni temi ricorrenti all’interno dei partiti contemporanei, spesso senza che tali buone intenzioni abbiano portato alla realizzazione di modalità più moderne attraverso le quali costruire percorsi rinnovati di coinvolgimento e protagonismo di una stragrande maggioranza di cittadini abituati ad un rapporto solo televisivo con la politica e, forse anche per questo, progressivamente scivolati verso forme di apatia se non di aperta ostilità verso la “casta” dei partiti. Per ovviare a tutto ciò e riannodare un rapporto di fiducia con i cittadini, è sembrato utile ritornare, seppure con modalità innovative e più accattivanti, alla logica dell’incontro e del coinvolgimento personale, in piccoli gruppi, su temi specifici o di approccio più generale alle sfide dell’impegno per il bene comune, caratterizzati prevalentemente dall’idea di un partito strutturato ma “aperto” e da una rinnovata capacità di ascolto da parte della politica.
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Per riannodare un rapporto di fiducia con i cittadini, è sembrato utile ritornare, seppure con modalità innovative e più accattivanti, alla logica dell’incontro e del coinvolgimento personale, in piccoli gruppi, su temi specifici o di approccio più generale alle sfide dell’impegno per il bene comune, caratterizzati prevalentemente dall’idea di un partito strutturato ma “aperto”
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Il metodo Ma come funzionano concretamente gli Appunt[A]menti? La metodologia (forse semplice e banale come l’uovo di Colombo…) utilizza alcuni degli strumenti dei Circoli di ascolto organizzativo un luogo e un metodo di incontro messi a punto nel 2007 da Dof Consulting con organizzazioni pubbliche e private su progetti di facilitazione sociale e sviluppo dei talenti. Partendo da una sperimentazione ministeriale su vasta scala il sistema è stato utilizzato in alcune decine di realtà della Pubblica Amministrazione in tutta Italia e in organizzazioni private, dando a persone appartenenti allo stesso settore lavorativo o provenienti da ambiti e funzioni diverse l’occasione di condividere esperienze, analisi, ipotesi di miglioramento, progetti di sviluppo, allo scopo di far aumentare il livello di partecipazione di tutta l’organizzazione rispetto a una nuova visione relazionale del lavoro. La trasposizione in ambito politico ha prodotto Appunt[A]menti, aggiungendo alla metodologia base poche ma fondamentali regole. Primo presupposto: gli invitati (al massimo una quindicina, come abbiamo visto), per quanto possibile, non sono iscritti al Pd, militanti, o persone già coinvolte in attività o iniziative politiche. L’obiettivo è quello di riavvicinare ad un dialogo “caldo” e partecipato con la politica chi ha ormai cancellato dal proprio orizzonte la possibilità di partecipare ad un classico evento di partito. Chi organizza uno degli Appunt[A]menti sa, dunque, che deve in primo luogo sforzarsi di allargare l’invito ad amici, colleghi, vicini di casa, meri conoscenti occasionali, persone con le quali solitamente si potrebbe avere “pudore” ad approcciare il tema della politica. Secondo: il politico c’è ma non parla! L’esca per l’invito, ovviamente, è quella di un incontro ravvicinato con un personaggio pubblico e noto ai più, ma per convincere le persone che stanno partecipando a qualcosa di nuovo e diverso è necessario offrire un segno tangibile di discontinuità rispetto agli stereotipi che tutti hanno. E cosa è meglio di un politico silenzioso che rinuncia al suo “comizio” per dare spazio agli interventi dei cittadini “qualunque” che senza rete possono svolgere le proprie riflessioni, anche “sparare sul pianista” mentre il segretario del partito (il parlamentare, il consigliere, l’assessore…) prende nota diligentemente sul suo block notes…? Lo spazio per il feedback ci sarà ovviamente alla fine, ma l’esperienza ha insegnato che dopo un’iniziale diffidenza, lo stupore per questa inaspettata disponibilità all’ascolto da parte della politica diventa disponibilità al confronto, motivo di grande apertura, e perfino empatia. Terzo: servono nuove figure e nuove competenze. Il meccanismo, di per sé semplice, ha bisogno di un know how 80
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specifico che implementi l’organizzazione classica del partito. Il cuore del progetto è rappresentato, quindi, da un team di facilitatori che animano gli incontri, hanno il compito di introdurli spiegandone obiettivi e modalità, gestiscono i tempi limitando gli eccessi verbali di alcuni e le eventuali ritrosie ad esprimersi di altri, sintetizzano i temi principali del dibattito mantenendone, per quanto possibile la coerenza, raccolgono infine le domande ed i contributi dei partecipanti affinché il politico possa rispondere in maniera più esauriente e concreta possibile agli stimoli emersi. Questo gruppo di persone, inizialmente proveniente dalla struttura di consulenza che ha affiancato il progetto, è ora composto, (dopo uno specifico percorso di formazione) prevalentemente da giovani del partito che sono stati contenti di arricchire il loro “kit di competenze” con strumenti innovativi e adeguati alle nuove forme di militanza e di organizzazione politica. Quarto: la credibilità è data dalla capacità di feedback e dalla messa in rete delle energie positive che si sprigionano nelle circa due ore in cui si svolge ciascuno degli Appunt[A]menti. Per fare questo sono utili strumenti innovativi di presenza sulla Rete e di social networking (il sito dedicato, la pagina Facebook che, in alcuni casi raccoglie in tempo reale gli interventi e rende possibile l’intervento anche di partecipanti esterni attraverso il web), ma anche la capacità più “tradizionale” di dare risposte a quesiti puntuali dei cittadini, ad esempio attraverso l’interessamento di qualche amministratore pubblico che, raccolta una segnalazione, la verifichi e ricontatti la persona interessata dimostrando una capacità di ascolto che sa tradursi in azione concreta. In poche settimane si è riusciti a passare dall’idea progettuale attraverso la costruzione di un modello originale, la costituzione del gruppo di supporto, e la formazione dei facilitatori alla realizzazione degli incontri sul territorio. I risultati si sono visti nella positiva messa in discussione del modello organizzativo, nel coinvolgimento di persone che non sarebbero mai transitate per i canali tradizionali della propaganda di partito, nella straordinaria curiosità e attenzione dei media per una proposta innovativa proveniente da un mondo considerato poco creativo come quello della politica. Tutte cose che hanno probabilmente influito nel risultato storico di eleggere per la prima volta un Sindaco democratico e fare del Pd il primo partito in una città “ostica” come Trieste. Se la politica è “costruire insieme la città dell’uomo” l’esperienza triestina conferma che il desiderio di condividere speranze e difficoltà rimane presente in moltissimi e che è sufficiente creare modalità nuove e “calde” per far esprimere e raccogliere attraverso l’esperienza del Pd le energie positive e l’aspirazione a relazioni “buone” che continuano, nonostante tutto, a manifestarsi nella nostra società.
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Se la politica è “costruire insieme la città dell’uomo” l’esperienza triestina conferma che il desiderio di condividere speranze e difficoltà rimane presente in moltissimi e che è sufficiente creare modalità nuove e “calde” per far esprimere e raccogliere attraverso l’esperienza del Pd le energie positive e l’aspirazione a relazioni “buone”
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INFOGRAFICA
Lavoro,
fisco e democrazia Roberto Seghetti capo Ufficio stampa PD
1980 AMMONTARE DEL REDDITO AMMONTARE COMPLESSIVO DEI REDDITI DEI LAVORATORI DIPENDENTI RISPETTO AL VALORE AGGIUNTO DEL PAESE
TRATTENUTE FISCALI PESO DELLE TRATTENUTE FISCALI SUI REDDITI DEI LAVORATORI DIPENDENTI RISPETTO AL TOTALE DELLE IMPOSTE DIRETTE
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66% 40%
INFOGRAFICA Come si può vedere dai grafici, dal 1980 ad oggi il reddito complessivo dei lavoratori dipendenti ha perso peso rispetto al valore aggiunto del paese, ma l'ammontare delle imposte trattenute sulle retribuzioni è cresciuto in modo determinante rispetto al totale delle imposte dirette. Una redistribuzione del reddito evidente e che ha accompagnato una fortissima divaricazione sociale. In particolare, nel 1980 l'ammontare complessivo dei redditi dei lavoratori dipendenti equivaleva al 66 per cento dell'intero valore aggiunto del paese e il peso delle trattenute sui redditi dei lavoratori dipendenti era pari al 40 per cento circa delle entrate totali per le imposte dirette. Oggi la quota dei redditi da lavoro dipendente sul valore aggiunto del paese è di circa il 53 per cento ma il peso delle trattenute fiscali sui redditi dei lavoratori dipendenti rispetto al totale delle imposte dirette si aggira intorno al 52 per cento.
2011 53% 52%
AMMONTARE DEL REDDITO AMMONTARE COMPLESSIVO DEI REDDITI DEI LAVORATORI DIPENDENTI RISPETTO AL VALORE AGGIUNTO DEL PAESE
TRATTENUTE FISCALI PESO DELLE TRATTENUTE FISCALI SUI REDDITI DEI LAVORATORI DIPENDENTI RISPETTO AL TOTALE DELLE IMPOSTE DIRETTE
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ALTRI CONTRIBUTI
Contraddizioni e ritardi nella governance economica della Ue Roberto Gualtieri europarlamentare PD
L
a tempesta speculativa che si è abbattuta sull’Italia ha fatto giustamente mettere in evidenza l’incongruenza e l’inadeguatezza della politica economica del governo, e tuttavia sarebbe semplicistico e riduttivo attribuire l’improvviso aumento degli spread sui titoli di stato e l’andamento negativo della borsa unicamente (e persino principalmente) alla surreale vicenda della manovra. Certo, l’esecutivo ha dato prova di un particolare dilettantismo. Prima l’assunzione unilaterale di un impegno superiore a quello richiesto dall’Ue e scarsamente realistico, e cioè il raggiungimento in soli tre anni dell’Obiettivo di medio termine dello 0,5% di deficit (il cosiddetto pareggio strutturale di bilancio, comprensivo cioè della spesa per interessi), che ha indotto il Consiglio, nella sua opinione sul programma di stabilità dell’Italia 2011-2014 approvata lo scorso 20 giugno, ad osservare che “lo sforzo fiscale medio annuale pianificato nel periodo 2010-2012 è superiore allo 0,5% del Pil raccomandato dal Consiglio, e il ritmo di aggiustamento indicato dopo il 2012 è molto al di sopra delle indicazioni contenute nel Patto di stabilità di crescita”. Poi l’opinabile quantificazione di tale sforzo a 40 miliardi, visto che, come ha dimostrato l’VIII rapporto Nens, il raggiungimento del pareggio richiederebbe in realtà una manovra superiore ai 50 miliardi. Quindi l’incredibile scoperta che la manovra ammontava in realtà a soli 25 miliardi e il pasticciato rimedio di una singolare delega fiscale e sull’assistenza (valutata prima 15 e poi 20 miliardi) che se effettivamente attuata avrebbe come conseguenze da un lato un forte aumento della pressione fiscale concentrato prevalentemente sui redditi medio-bassi e dall’altro il sostanziale azzeramento di una delle dimensioni più 84
ALTRI CONTRIBUTI socialmente delicate del già zoppicante welfare italiano. Il tutto con una calendarizzazione degli sforzi che scarica gran parte degli oneri al 2014 e senza alcun intervento di natura strutturale capace di incidere effettivamente sugli sprechi e di favorire la crescita. E tuttavia, se questi fattori, uniti alla fragilità ed alle contraddizioni della maggioranza, hanno sicuramente contribuito al nervosismo dei mercati, per comprendere l’improvvisa vulnerabilità dell’Italia manifestatasi negli ultimi giorni occorre collocare i problemi del nostro paese nel più generale quadro europeo. Esaminando le cause strutturali di quella che è in realtà una crisi sistemica dell’eurozona e non la semplice somma dei problemi di alcuni paesi poco “virtuosi”, superabile con una rigida austerità delle loro politiche fiscali. I nodi di fondo sono sostanzialmente tre. Il primo riguarda gli squilibri macroeconomici interni all’area dell’euro. Con l’unione monetaria infatti i paesi periferici dell’area si sono ritrovati con dei tassi di interesse reali più bassi di quelli dei paesi centrali. Ciò ha determinato un flusso di capitali dai secondi ai primi che, invece di aumentarne il potenziale produttivo, ha generato un indiscriminato aumento dei debiti pubblici e privati verso l'estero che è andato a finanziare le esportazioni (soprattutto tedesche), accentuando il gap di competitività a vantaggio dei paesi forti. In sostanza, lo squilibrio determinato da un’unione monetaria priva di una politica economica comune ha accresciuto le asimmetrie tra i paesi dell’eurozona favorendo un deficit strutturale della bilancia commerciale dei paesi più fragili. Secondo molti autorevoli osservatori è tale deficit che costituisce il vero fattore scatenante della crisi dei debiti sovrani dei cosiddetti Pigs (ben più del livello del debito pubblico), fungendo da principale parametro per i mercati nel calcolo di un fattore di rischio che fa scontare al valore dei titoli di stato la possibilità di un’uscita del paese che li emette dall’unione monetaria come conseguenza della necessità di riequilibrare, attraverso la svalutazione, la propria bilancia commerciale. Questo problema è a sua volta collegato al secondo elemento di fragilità strutturale dell’Unione europea, che espressamente vieta (con l’articolo 125 del Tfue) all’Ue e agli Stati membri di rispondere e farsi carico dei debiti di un paese dell’Unione o di un governo regionale o locale. Anche in questo caso, nonostante i titoli di debito pubblico dell’eurozona siano tutti denominati in euro, 85
ALTRI CONTRIBUTI i Trattati vietano i trasferimenti interni in base al principio, scarsamente compatibile con la logica di un’unione economica e monetaria, che ognun fa per se. Infine, il terzo nodo irrisolto alla base della fragilità dell’eurozona riguarda il rapporto con i mercati finanziari. Come ha osservato Guido Tabellini sul “Sole 24 Ore”, in questi anni si è affermata in Europa “l’idea sbagliata […] che, per indurre i paesi dell’area dell’euro a tenere i conti in ordine, sia utile anche ricorrere alla disciplina imposta dai mercati”, utilizzandola come un surrogato di una vera politica fiscale europea e di un effettiva regolamentazione e controllo a livello dell’Ue del sistema finanziario (a cominciare dalle banche). E così proprio mentre si attribuiva un ruolo improprio ai mercati finanziari, non si interveniva per riformarne le regole, accettando subalternamente un assetto incentrato sulle grandi banche di affari americane, sul primato ed il monopolio delle agenzie di rating (anch’esse statunitensi), sul crescente peso del mercato dei derivati e in generale su un modello consapevolmente fondato sul duplice primato degli investimenti speculativi a breve rispetto a quelli a lungo termine e dell’intreccio, produttivo e valutario, tra Stati Uniti e Cina rispetto agli interessi dell’Europa. Con l’esplosione della crisi greca nel maggio del 2010 l’Ue ha per la prima volta affrontato tutti e tre i nodi sopra esaminati. Sul fronte della governance economica è stato avviato un procedimento legislativo, non ancora concluso, che punta a introdurre dei meccanismi più stringenti e dei parametri più rigidi di sorveglianza, prevenzione e correzione degli squilibri fiscali e macroeconomici. Sul fronte del debito è stato enunciato il principio politico della difesa dei paesi dell’euro, sostanziandolo prima con la creazione di due “fondi salva-stati” (uno comunitario, l’Efsm, ed uno, più grande, intergovernativo: l’Efsf) sulla base dell’articolo 122.2 Tfue (che consente di fornire assistenza finanziaria a uno stato “seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di […] circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”), e poi avviando una riforma dell’articolo 136 Tfue per fornire una più solida base giuridica all’istituzione di un meccanismo di stabilità permanente (Esm). Parallelamente, la Bce ha avviato la pratica del sostegno ai titoli dei paesi sotto attacco speculativo. Infine, sono state costituite tre autorità europee sulle banche, le assicurazioni ed i mercati e sono stati avviati degli “stress test” per le banche europee. Si tratta di innovazioni importanti, e tuttavia 86
ALTRI CONTRIBUTI insufficienti. Non solo per i tempi troppo lunghi della loro attivazione (contrariamente a quanto molti in Italia sembrano ritenere, il “pacchetto governance” non è ancora stato approvato; il sostegno alla Grecia e la creazione dell’Efsm e dell’Efsf hanno dovuto aspettare lo svolgimento delle elezioni regionali in Nord Reno Westfalia; l’Esm sarà operativo solo nel 2013 dopo un’elaborata procedura di ratifica della riforma del trattato; gli stress test sono appena iniziati). In realtà, le riforme avviate dall’Ue sono al tempo stesso troppo poco incisive sul piano del trasferimento di sovranità a livello europeo e troppo condizionate da un orientamento politico-culturale di tipo neoliberale del tutto inadeguato ad affrontare le contraddizioni strutturali sopra esaminate. Per quanto riguarda il primo aspetto, se sul versante della governance economica il Consiglio si oppone alla richiesta del Parlamento di una maggiore automaticità delle sanzioni e di un ruolo più forte della Commissione, su quello del meccanismo di stabilità non solo ha attribuito all’Esm un carattere intergovernativo, ma ha respinto la possibilità dell’acquisto di titoli di stato dei paesi in difficoltà sul mercato secondario, che avrebbe aperto la strada alla trasformazione dell’Esm in una vera e propria agenzia del debito europea e alla sostituzione di una quota dei debiti sovrani con un debito comune europeo finanziato dall’emissione di eurobond (un veto, quello ad operazioni sul mercato secondario che ha innescato un conflitto sotterraneo con la Bce, la quale di fronte alla mancata volontà dei governi ha di fatto sospeso i suoi interventi sul mercato secondario). Per di più, le resistenze tedesche, che hanno impedito l’accordo sul varo della nuova tranche di prestiti dell’Efsf alla Grecia oltre alla irrisolta querelle sulle modalità della partecipazione dei privati, hanno chiaramente trasmesso ai mercati segnali contraddittori rispetto al ribadito impegno politico alla difesa dell’euro, che hanno sicuramente avuto un ruolo non secondario nell’innescare l’ultima ondata speculativa (a sua volta alimentata dalla speculazione sui debiti nazionali nel mercato dei derivati attraverso i credit default swap). Infine, sul fronte del mercato finanziario è stato finora eluso il problema di un controllo delle agenzie di rating (o dell’istituzione di una agenzia europea), nonostante i loro legami tutt’altro che trasparenti con gli operatori del mercato dei derivati, e si è finora evitato di mettere seriamente mano ai problemi delle banche. Alla base di queste evidenti inadempienze vi sono resistenze di natura
Le riforme avviate dall’Ue sono al tempo stesso troppo poco incisive sul piano del trasferimento di sovranità a livello europeo e troppo condizionate da un orientamento politico-culturale di tipo neoliberale del tutto inadeguato ad affrontare le contraddizioni strutturali
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ALTRI CONTRIBUTI squisitamente politica, che esprimono un’ostinata difesa della propria sovranità da parte dei principali paesi dell’Unione, a cominciare dalla Germania e dalla Francia (per non parlare del Regno Unito, che comunque non fa parte dell’eurozona anche se appare determinato ad ostacolare con ogni mezzo un suo effettivo rafforzamento). Sono resistenze comprensibili, visti gli evidenti problemi e incognite di un effettivo passaggio del nocciolo della sovranità ad un organismo come l’Ue, i cui assetti istituzionali sono ancora regolati da un Trattato assai perfettibile come quello di Lisbona e il cui processo di piena legittimazione democratica agli occhi di un vero “demos” europeo è tutt’altro che compiuto. E tuttavia risulta evidente che l’equilibrio attuale è troppo fragile e che senza dei significativi passi avanti verso l’Europa politica le contraddizioni e le debolezze dell’eurozona non potranno essere risolte. Di fronte al precipitare dell’ondata speculativa sui mercati e ai timori di una sua estensione anche all’Italia, il 21 luglio un vertice straordinario dei capi di stato e di governo dell’eurozona ha finalmente varato la nuova tranche di aiuti alla Grecia e ha concordato un significativo ampliamento dei compiti dei meccanismi di stabilità (l’Efsf e, successivamente, l’Esm), oltre a prevedere un parziale e ad hoc “default selettivo” attraverso una limitata partecipazione dei creditori privati alla ristrutturazione del debito di Atene (in realtà finanziata anche’essa in gran parte con risorse dei contribuenti attraverso prestiti dell’Efsf alle banche greche per 35 miliardi). Contraddicendo i termini del trattato istitutivo dell’Esm (che era stato solennemente firmato pochi giorni prima dopo mesi di negoziati), i leader dell’eurozona hanno infatti deciso di consentire ai due fondi salva-stati di acquistare titoli dei paesi in difficoltà anche sul mercato secondario e di operare in modo “precauzionale” sui mercati (cioè per prevenire nuove crisi). Si tratta di due innovazioni di estrema importanza, che potenzialmente potrebbero trasformare l’Esm in una vera agenzia europea del debito finanziata con l’emissione di eurobond, anche se dal comunicato conclusivo del vertice del 21 non appare chiaro se e in che misura il capitale dei due fondi verrà incrementato per consentir loro di far fronte a tali nuovi compiti. Sull’orlo del baratro dunque l’Unione europea ha avuto un sussulto di autoconservazione ed ha compiuto un passo avanti che potrebbe avere implicazioni di portata storica: un passo che potrà però dare i suoi frutti solo se verrà concepito non 88
ALTRI CONTRIBUTI come un espediente per calmare i mercati ma come una tappa verso una effettiva gestione comune del proprio debito e come un ponte verso una piena “comunitarizzazione” di procedure ed organismi che non potranno mantenere a lungo un carattere intergovernativo. Ma i problemi dell’economia europea non dipendono solo da un deficit di “comunitarizzazione” delle politiche dell’Ue, bensì sono strettamente legati al loro attuale indirizzo conservatore. La teoria secondo cui politiche fiscali fortemente restrittive avrebbero effetti espansivi in quanto “libererebbero risorse” per l’economia privata sta infatti avendo il duplice effetto di attivare una pericolosa spirale di recessione e aumento del debito e di aumentare, invece di ridurre, i divari di competitività tra i paesi forti e quelli periferici. Inoltre, dovrebbe essere evidente che le politiche di austerità, accentuando la difficoltà delle imprese appesantiscono anche la situazione delle banche creditrici, rendendole a loro volta, come è probabilmente accaduto in Italia, più caute nella sottoscrizione dei titoli di stato ed innescando la reazione dei mercati nei confronti dell’andamento delle aste. Senza robusti investimenti per lo sviluppo a livello dell’Ue, senza un’effettiva correzione degli squilibri macroeconomici che non si limiti a sanzionare i paesi in deficit commerciale, senza una riforma dei mercati finanziari che favorisca gli investimenti a lungo termine, senza un rafforzamento degli interventi a sostegno della coesione territoriale e di quella sociale l’Europa non potrà superare la crisi e affrontare la competizione globale. Serve insomma più Europa, e al tempo stesso un’Europa diversa, ed è questo il terreno su cui occorre rifondare l’unità politica e sociale delle forze progressiste continentali e definire il profilo del Pd. Superando definitivamente, sul piano culturale ancora prima che su quello politico, ogni subalternità per un indirizzo, al tempo stesso neoliberale e anacronisticamente nazionalistico, che si è rivelato del tutto inadeguato di fronte alle sfide del nuovo secolo.
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ALTRI CONTRIBUTI
Pubblico e privato dopo i referendum Massimo D'Antoni insegna Scienza delle finanze all’Università di Siena
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giudicare dal successo dei due Sì nei referendum sull'acqua, qualcosa deve essere cambiato nell'orientamento degli elettori rispetto al coinvolgimento dei privati nella gestione dei servizi pubblici; si tratta di un dato in discontinuità rispetto a quello che sembrava essere il comune sentire fino a pochi anni fa, quando prevaleva una visione ottimistica del ruolo del privato a garanzia di una fornitura efficiente di tali servizi. Diciamo subito che, quanto ci sembrava unilaterale la posizione di chi vedeva nell'affidamento al mercato sempre e comunque la soluzione da preferire, tanto ci preoccupa una possibile semplificazione di segno opposto, quale sarebbe l'idea che responsabilità pubblica debba necessariamente coincidere con gestione diretta pubblica. Non sarebbe ragionevole tornare indietro rispetto ad un'acquisizione importante della cultura economico-politica della sinistra negli anni 1980 e 1990: l'idea che la responsabilità pubblica nella fornitura di un certo bene o servizio, anche essenziale, non coincide necessariamente con l'organizzazione diretta pubblica della sua produzione ed erogazione. Questa può infatti essere affidata a privati, e il pubblico può svolgere il proprio ruolo di regolatore fissando i paletti, determinando le tariffe e controllando la qualità del servizio. Vale dunque la pena di fissare qualche punto, che ci aiuti ad uscire da una contrapposizione che rischia di risultare sterile e puramente ideologica. Occorre innanzi tutto distinguere tra privatizzazione e liberalizzazione. La prima riguarda la struttura proprietaria del soggetto che fornisce un servizio, la seconda il grado di apertura concorrenziale del mercato in cui tale soggetto opera. Se è opinione comune tra studiosi e analisti che la 90
ALTRI CONTRIBUTI privatizzazione funzioni laddove si procede anche alla liberalizzazione, è molto più controverso il caso della privatizzazione di mercati che, per ragioni strutturali, non possono essere aperti alla concorrenza o in cui la concorrenza non produrrebbe effetti desiderabili. È il caso dei cosiddetti monopoli naturali, come buona parte dei servizi di pubblica utilità (tra cui appunto il servizio idrico), caratterizzati da una prevalenza dei costi fissi. Nei mercati monopolistici, l'assenza della disciplina concorrenziale rende insostituibile il ruolo regolatorio del pubblico a tutela dei consumatori/utenti, che si troverebbero altrimenti in balia di un monopolio privato. Non è possibile stabilire a priori la maggiore efficienza di un monopolio privato regolamentato rispetto ad un monopolio pubblico. L'efficienza, intesa in senso corretto e non come mera minimizzazione dei costi di gestione, è determinata da fattori quali la natura e la ripartizione dei rischi tra i soggetti coinvolti, la capacità di garantire qualità e altri obiettivi spesso difficilmente quantificabili. La riduzione dei costi operata con la privatizzazione potrebbe infatti non già l'effetto di una migliore gestione, bensì il mero risultato di una minore qualità (intesa in senso lato) o di condizioni di lavoro più gravose per i lavoratori. D'altra parte, laddove il "contratto" tra pubblico e privato è sufficientemente definito nei suoi termini, così che il rischio di opportunismo delle parti è contenuto, la delega al privato può aumentare la qualità del servizio offerto e ridurre i costi. La preferenza per il pubblico o il privato va dunque affrontata e argomentata caso per caso, in modo pragmatico, valutando l'insieme degli effetti che una scelta o l'altra comporta. La raccolta dei rifiuti, la manutenzione delle strade, un servizio di trasporti locali, non sono la stessa cosa. In effetti, alcune delle posizioni espresse dai promotori dei referendum sull'acqua mostrano un tratto contraddittorio: fiducia nel pubblico quale fornitore del servizio, e insieme diffidenza nella sua capacità di svolgere in modo efficace il ruolo di regolatore e controllore nei confronti di un fornitore privato. Eppure, è difficile pensare che un cattivo regolatore possa essere un buon fornitore diretto dei servizi, e viceversa. Per lo stesso motivo non convince neanche la posizione speculare di chi cita l'inefficienza e magari la corruzione del pubblico come motivo per spingere verso la privatizzazione; come se nel ruolo di privatizzatore prima e regolatore poi non ci fossero 91
ALTRI CONTRIBUTI occasioni per creare e sfruttare posizioni di rendita altrettanto ghiotte. La verità è che una privatizzazione di successo richiede un soggetto pubblico affidabile e attento. Un pubblico che funziona male sarà un cattivo gestore, ma risulterà un altrettanto cattivo regolatore, incapace di contenere gli interessi di un gestore privato. Bisogna infine aver chiaro quali siano gli obiettivi della privatizzazione, e quindi rispetto a quale dimensione essa debba essere valutata. È stato detto che uno dei motivi per cui nel recente referendum si è manifestata avversione verso l'affidamento del servizio idrico ai privati è la difficoltà a riconoscere nelle privatizzazioni effettuate nel nostro paese un vantaggio visibile per i consumatori. Un problema è stato che, per molte delle privatizzazioni realizzate negli anni '90, rispetto all'obiettivo di miglioramento del servizio a vantaggio di utenti/consumatori, ha prevalso l'esigenza di fare cassa, di contribuire al risanamento del bilancio pubblico. Tra i due obiettivi c'è effettivamente un potenziale conflitto. Schematizzando un po', possiamo immaginare la privatizzazione come la vendita ad un investitore privato di un flusso di profitti futuri: l'utile da qui in avanti dalla gestione del servizio a condizioni fissate dal regolatore. È chiaro innanzi tutto che, nel caso in cui la privatizzazione non modificasse né la profittabilità dell'impresa né i prezzi/tariffe da essa applicati (né ovviamente la qualità degli stessi), si tratterebbe di un mero scambio tra un guadagno attuale e la rinuncia ad un flusso futuro di entrate di pari valore, una operazione puramente contabile. La privatizzazione risulta socialmente vantaggiosa in due casi: quando riduce i prezzi futuri per i consumatori (pari profittabilità a prezzi più bassi) oppure quando, pur non traducendosi in minori prezzi, aumenta la profittabilità dell'impresa, e tale maggiore profittabilità viene capitalizzata nel prezzo di vendita all'atto della privatizzazione. In questo secondo caso abbiamo un beneficio per il bilancio pubblico; se usiamo i proventi della privatizzazione per ridurre il debito pubblico siamo riducendo l'onere degli interessi futuri per i contribuenti. Ma, sia chiaro, stiamo ottenendo tale beneficio a spese dei consumatori del servizio privatizzato: è la mancata riduzione dei prezzi, con conseguente aumento dei profitti per l'impresa, che determina il guadagno all'atto della vendita. Spingendo un passo oltre questa logica, la tentazione di un 92
ALTRI CONTRIBUTI governo messo alle strette potrebbe essere quella di utilizzare la privatizzazione per incassare immediatamente l'aumento futuro di prezzi e tariffe di un servizio, anche quando tale aumento è l'effetto non già di aumenti di efficienza, bensì di una regolamentazione debole o compiacente. In assenza di un quadro regolatorio definito e rigoroso, la privatizzazione può diventare una forma poco trasparente di tassazione sui consumatori/utenti, i cui vantaggi dal punto di vista sociale sono quantomeno discutibili. In sintesi: la privatizzazione di un monopolio pubblico non va demonizzata; è un'operazione che può determinare un vantaggio per utenti e consumatori. Purché si abbia consapevolezza che essa non è la soluzione dei problemi del cattivo funzionamento della politica o della burocrazia pubblica, dal momento che è essa stessa soggetta al rischio di comportamento opportunistico da parte di chi privatizza. La regola aurea dovrebbe essere quella di concentrarsi sulla definizione del quadro regolatorio credibile, in cui il pubblico rappresenti una controparte autorevole del gestore privato, resistendo alla tentazione di utilizzare le privatizzazioni con finalità di bilancio, per mettere al centro l'interesse di consumatori/utenti.
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ALTRI CONTRIBUTI
I segreti della primavera milanese Ferruccio Capelli direttore della Casa della cultura di Milano
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n molti nei giorni scorsi hanno parlato di “primavera milanese”: perfino il cardinale vi ha fatto riferimento. In effetti tante cose interessanti, perfino sorprendenti, sono accadute a Milano. Vi è stata la vittoria di Pisapia e la sconfitta elettorale, dopo diciassette anni, della destra; vi sono stati anche un clima e un'atmosfera inconsueti, elettrizzanti, densi di emozioni collettive e di protagonismo diffuso dei cittadini. In effetti quel risultato elettorale, di alto valore simbolico e con profonde conseguenze politiche, è stato preparato e reso possibile dalla convergenza di molteplici fattori: vi hanno concorso scelte politiche, processi sociali, tendenze culturali, veri e propri umori, che stanno attraversando l'Italia, e non solo l'Italia. Insomma, questa “primavera” milanese è stato un fenomeno affascinante e complesso: essa suggerisce riflessioni e solleva problemi di grande portata. Le scelte politiche, innanzitutto: nell'insieme si sono rivelate azzeccate. La prima mossa viene fatta da Sinistra e Libertà, con il lancio a fine giugno, inizio di luglio dello scorso anno della candidatura di Giuliano Pisapia. Segue durante l'estate la scelta del PD e di altri partiti della coalizione di accettare le primarie per la scelta del candidato della coalizione: è un passaggio decisivo perché innesca un partecipato, appassionato, confronto pubblico. A settembre si definiscono le tre candidature per le primarie: accanto a Pisapia concorrono anche Stefano Boeri, scelto dal PD, e il Presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida. La qualità della candidature e del confronto politico – programmatico tra i candidati contribuisce a diffondere nell'opinione pubblica la sensazione che sta accadendo qualcosa di nuovo e di importante. Le primarie, come noto, si concluderanno con un risultato da molti letto come clamoroso: prevale Giuliano Pisapia anche perché all'incirca la metà degli elettori di area PD non segue le indicazioni del 94
ALTRI CONTRIBUTI partito. Il PD però a questo punto ha il merito di una scelta coerente e netta: esso conferma senza esitazioni il patto delle primarie e si schiera in modo compatto a sostegno del candidato che ha prevalso. Pisapia può così affrontare le elezioni con il sostegno di una coalizione di centrosinistra unita. Da questo momento in avanti tutti i partiti del centrosinistra condurranno la lunga campagna elettorale senza recriminazioni e senza colpi bassi tra di loro: tutte le energie polemiche sono indirizzate verso il centrodestra e verso il sindaco uscente Letizia Moratti. In queste condizioni Pisapia può valorizzare al meglio i tratti poliedrici della sua figura politica e professionale. In quanto uomo di sinistra richiama e motiva alla partecipazione e al voto anche le parti più critiche e radicali dell'elettorato di sinistra: l'astensionismo di sinistra viene questa volta largamente riassorbito. In quanto stimato professionista, saldamente inserito nell'establishement cittadino, può però aprire varchi anche nell'elettorato moderato. Il suo garantismo, coerentemente praticato nell'attività politica e in quella professionale, smonta anche molta aggressività polemica della destra. Gli errori e le polemiche infelici di Letizia Moratti chiudono il cerchio: Pisapia occupa saldamente il centro della scena politica. Egli vince perché è al tempo stesso il rinnovamento radicale e il garante di un certo stile e di una certa cultura della Milano del lavoro, delle professioni e dell'impresa. All'incirca in coincidenza con le primarie inizia a riscaldarsi anche il clima sociale della città. Il primo segno lo si ha in occasione della presentazione pubblica della candidatura di Pisapia cui partecipa anche Nichi Vendola: il teatro Dal Verme trabocca di folla e migliaia di cittadini sono costretti a restare fuori, in piazza, a seguire l'evento dagli altoparlanti collocati all'esterno. Da allora è un crescendo: le iniziative elettorali richiamo folle che non si vedevano da tanto, tanto tempo. Più di mille cittadini partecipano alle “officine di Pisapia” per discutere e stendere il programma del candidato sindaco. Alle iniziative elettorali dei partiti e della coalizione si affianca un crescendo di iniziative diffuse: migliaia di cittadini si mettono in moto, danno vita ai Comitati per Pisapia, promuovono incontri in case private e in sale pubbliche, organizzano presidi nei mercati, incontri e feste nei parchi e nelle piazze cittadini. Man mano che la campagna entra nel vivo si presentano sulla scena anche i “giovani per Pisapia”. Nelle Università, proprio come nei giorni più caldi dell' “Onda”, si radunano centinaia di giovani: questa volta per ascoltare i comizi improvvisati, con un megafono in mano, del candidato sindaco. La Rete viene
La Rete viene usata con intelligenza e efficacia, da giovani e meno giovani: l'ironia e la creatività si rivelano un'arma efficacissima per smontare in tempo reale le insinuazioni e gli allarmi della destra
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ALTRI CONTRIBUTI
Bisognerà riflettere a lungo su cosa ha spinto e messo in movimento migliaia di milanesi. Vi è la condanna di uno stile amministrativo, di una sindaca algida e lontana, di un vicesindaco che ha gestito con un crescendo delirante e perfino caricaturale le campagne securitarie. Probabilmente però vi è anche qualcosa di più: la critica liberatoria a un ritmo di vita duro e stressante, a una condizione urbana che porta il segno crescente dell'isolamento e della solitudine sociale
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usata con intelligenza e efficacia, da giovani e meno giovani: l'ironia e la creatività si rivelano un'arma efficacissima per smontare in tempo reale le insinuazioni e gli allarmi della destra. E' un crescendo di iniziative, on line e off line: una città da trent'anni apripista dell'individualismo più aggressivo riscopre il piacere dell'incontro, della discussione pubblica, dell'iniziativa sociale. Bisognerà riflettere a lungo su cosa ha spinto e messo in movimento migliaia di milanesi. Vi è la condanna di uno stile amministrativo, di una sindaca algida e lontana, di un vicesindaco che ha gestito con un crescendo delirante e perfino caricaturale le campagne securitarie. Probabilmente però vi è anche qualcosa di più: la critica liberatoria a un ritmo di vita duro e stressante, a una condizione urbana che porta il segno crescente dell'isolamento e della solitudine sociale. Milano è una città economicamente robusta, che vanta da sempre efficienza e civiltà nei servizi, ma negli anni, lentamente e inesorabilmente, qualcosa di profondo si è spezzato nel suo tessuto urbano: tanti, troppi cittadini sono stati condannati alla “solitudine involontaria”. In un momento di crisi economica, di stretta dei consumi, di incertezza del futuro questa condizione di vita suscita disagio e apprensione, alimenta interrogativi inquietanti, spinge alla ricerca di nuove risposte. Nella partecipazione diffusa di tanti milanesi al confronto elettorale si è intravista la domanda di nuovi legami sociali, di solidarietà umana e civile, di città come comunità. Le tante feste e le biciclettate ci hanno segnalato un bisogno acuto, diffuso, profondo di convivialità, di socialità, di ricerca e di sperimentazione di nuovi stili di vita. La lunga campagna elettorale si è conclusa, in un crescendo di partecipazione e di entusiamo, con tre grandi feste in Piazza del Duomo: il venerdi prima del voto del primo turno, il venerdi prima del ballottaggio e poi il lunedi della vittoria. In quelle serate, in quella piazza, era palpabile e lampante la domanda di una Milano più gentile, più vivibile, più umana. Un messaggio analogo a quello che quindici giorni dopo ci consegneranno i referendum. Per completare il quadro serve però uno sguardo attento all'umore che da qualche tempo si sta formando e coagulando in Italia, e non solo in Italia. C'è disagio, inquietudine, irritazione diffusa: c'è anche, perfino, indignazione. La miccia che qui da noi ha innescato questo brusco cambio di clima dell'opinione pubblica è ben nota: le notizie sempre più imbarazzanti sulle abitudini private e pubbliche del Presidente del Consiglio e della sua “corte”. Le rivelazioni sulle notti di Arcore hanno squadernato brutalmente dinnanzi a milioni di italiani arroganza,
ALTRI CONTRIBUTI disprezzo delle normali regoli di vita civile, insensibilità per l'opinione pubblica. E la reazione non si è fatta attendere. Il primo segnale è venuto dalle donne: le manifestazioni del 13 febbraio, la parola d'ordine “Se non ora, quando?”, sono state uno spartiacque. Il grosso del paese ha cominciato a prendere le distanza da quel ceto politico che da tanti anni, dalla “discesa in campo”, occupa rumorosamente e impunemente la scena. Profondità e durata della mobilitazione elettorale di Milano trovano qui molte spiegazioni: il voto nel capoluogo lombardo era un'occasione imperdibile, sovraccarica di elementi simbolici, per spezzare la continuità del potere berlusconiano. Il Presidente del Consiglio ha sempre esibito il suo legame con la città: punirlo a Milano significava colpirlo al cuore, indebolirlo gravemente e spingerlo finalmente verso la fuoriuscita dalla vita pubblica. Tante energie si sono messe in movimento anche e proprio per questo: per tanti questa campagna elettorale di Milano era l'occasione da tanto tempo attesa per punire Berlusconi e la destra. L'umore aspro dell'opinione pubblica ha però anche altre radici. Esso sta attraversando tutta l'Europa. In Francia si vendono montagne di copie del pamphlet di un'anziano partigiano dal titolo “Indignatevi”. In Portogallo e in Spagna folle di giovani e meno giovani occupano per giorni e giorni le piazze più importanti con quella stessa parola d'ordine. In Grecia la mobilitazione popolare assume perfino tratti drammatici. Paesi diversi, situazioni economiche e politiche diverse: eppure dappertutto monta il disagio, l'irritazione e la rabbia per una crisi economica che non finisce e che comincia a scaricarsi pesantemente sui più deboli. Nel voto di Milano c'è stato anche questo: la paura della crisi, l'incertezza del futuro, la percezione di un'ingiustizia grave, la ricerca di interlocutori forti e autorevoli che possano allontanare le minacce che incombono sulla testa. La “primavera milanese” trova la sua spiegazione nell'intreccio e nella sovrapposizione di questi fattori. Le scelte politiche del centrosinistra e il candidato sindaco Giuliano Pisapia hanno saputo incontrarsi con le domande pressanti di socialità e di solidarietà ed essi in questa occasione sono apparsi anche come un ancoraggio rispetto a incertezze e paure che stanno montando nel paese e in Europa. Si è trattato di un punto di incontro fecondo, di un equilibrio felice. Consolidare questo equilibrio, rispondere alle tante domande e al sovraccarico di aspettative che si è messo in moto sarà però un compito duro, impegnativo, di lunga lena. Ma questi sono interrogativi per il prossimo futuro: per il momento il nuovo sindaco, dopo una lunga e dura campagna elettorale durata quasi un anno, può godersi la meritata “luna di miele” con la città di Milano.
Le scelte politiche del centrosinistra e il candidato sindaco Giuliano Pisapia hanno saputo incontrarsi con le domande pressanti di socialità e di solidarietà ed essi in questa occasione sono apparsi anche come un ancoraggio rispetto a incertezze e paure che stanno montando nel paese e in Europa
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PAROLE DA GETTARE
Gente Paolo Corsini deputato PD
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a gruppo parentale, nell'originaria accezione latina (gens), ad insieme imprecisato, anonimo, indistinto, tanto magmatico quanto pulviscolare, di soggetti – non dunque la “nostra gente” -, a denominazione qualificabile solo attraverso un genitivo, una specificazione – ad esempio “gente di montagna”-, la “gente” altro non è che moltitudine, massa indifferenziata. Si potrebbe dire “volgo disperso che nome non ha”, dunque, “piazza”. E neppure la gente è “folla solitaria”, allusione critica a quel processo di spersonalizzazione spogliativa del soggetto che la sociologia da tempo ha segnalato come irreversibile, proprio della modernità contemporanea. Insomma un succedaneo inespressivo del vecchio “popolo” oggi ormai praticamente ridotto ad audience, a sondaggio, a improvvisata creatura del telecomando o altrimenti evocato come rassicurazione identitaria, come palliativo securitario nel tempo del disincanto, della demagificazione, della insignificanza generalizzata. Venuto meno il popolo, implosa la classe, sempre più intersecati i ceti, e negletti nelle pratiche governative i corpi intermedi, sopravvive, come referente del politico, di una politica ormai atopica, la “gente” il cui luogo di elezione è il “territorio”, là dove si segnalano, sempre più numerosi, gli spaesati di un paesaggio irriconoscibile dolente ed offeso, gli stressati dalla dinamica competitiva del mercato, dal capitalismo molecolare, i naufraghi di una rappresentanza politica misconosciuta, senza presa ed estranea, i secolarizzati,
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PAROLE DA GETTARE agnostici senza fede, senza credo e passione e ideologia che non sia una mixitè di individualismo acquisitivo, di egoismo anomico e proprietario. Per altro, oltre al territorio, anche la città è ormai habitat privilegiato della “gente”, uno spazio di contrasti, un contenitore di conflitti, luogo di contesa degli ambiti fisici e simbolici, laddove rattrappito è il contatto con l'”altro”, debole e scoraggiato il rapporto conviviale diretto, affannosamente ricercata la protezione nella dimora-rifugio e ghettizzate sono le differenze. Là dove trionfa, esulta, vocia la “gente” scompare la cittadinanza e non resta al cittadino che l'esilio in una sorta di emigrazione interiore. Insomma la “gente” evocata come interlocutore privilegiato, scaturigine di legittimazione da parte di un populismo che la raffigura come un tutto unico ed omogeneo, alla fine esclude la partecipazione diretta o mediata che sia, ed inventa – proprio nel senso di trovare – sempre qualcuno che ne interpreta lo “spirito”, incarnandolo nella propria persona, proprio perché la “gente” è equivoca, contraddittoria, avida ed appetitiva di tutto e del suo contrario. Un fenomeno degenerativo causa e sintomo delle molteplici patologie della politica, patologie di cui la “gente”, la sua volontà contradditoria, le sue pulsioni non costituiscono certo la terapia, in quanto negazione della prassi democratica rappresentativa, fattore di disorientamento, di perdita delle stesse coordinate che presiedono alla distinzione, alla scissione tra Destra e Sinistra. Ed è allora l'apogeo dei demagoghi, il dominio della propaganda, lo sprigionamento degli spiriti più inconsulti in una deriva fatta di irrazionalismo, di incivile regressione, senza fine, senza rimedio. Una deriva in cui le rappresentanze democratiche cedono il primato a soggetti extra politici quali interessi economici, società di consumo, imprese finanziare, identità etnico-religiose, a incantatori e pifferai detentori del potere di informazione. Quindi la “gente” che non esiste, che è frutto di artificiosa costruzione, è straordinariamente produttiva di effetti politici. Pericolosi e distruttivi, perchè il potere della “gente” non può essere oggetto di discussione pubblica in quanto riflette una volontà che “ ha sempre ragione” e alla quale si finisce per attribuire una valenza mitica, narrante, fondativa, legittimante, persino in grado di centrifugare, catalizzandolo, il significato storico delle rivoluzioni moderne. Infatti: se la società civile si riduce, si identifica con la “gente”, l'”ordine politico” non si differenzia in alcun modo da una qualsiasi associazione che persegue i propri fini 99
PAROLE DA GETTARE e non riesce più ad incorporare una purchessia possibilità di trascendenza del particolare in vista di una risalita verso il generale, di una connessione tra molteplicità ed unità. Non c'è, tuttavia, solo la politica. C'è anche l'etica. Anzi una nuova alfabetizzazione etica cui la “gente” fa da ostacolo, erigendo invisibili barriere. Per dirla con Oscar Wilde, “la gente conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla”. Da tendenzialmente vociante può diventare silente pubblico che predilige l'avvento dell'uniformità, la standardizzazione dei gusti, l'azzeramento delle differenze, l'opacità dei comportamenti, l'omologazione delle pratiche di vita. Non c'è rapporto alcuno tra “gente” e valore. Il valore, la cui radice sta nel riconoscimento della persona, della sua inviolabilità, della sua responsabile autoappartenenza e dignità. La “gente” è per antonomasia il disconoscimento dell'”altro”, del volto e del nome come epifania personalizzata. L'essere viene pensato ed agito sotto forma dell'interesse per cui l'assolutizzazione dell'”essenza” costituisce la trasposizione logica del primato esistenziale dell'interesse: l'egoismo come conatus essendi, sino all'interdizione dell'”altro” che – questa la lezione di E. Levinas – costituisce, invece, un'apertura originaria del “senso”, una giustificazione dell'esistenza fuori di se stessa, perché è solo rispondendo all'invocazione di un volto, alla “chiamata” che il soggetto si carica di significato, oltre la propria identità. Un orizzonte di senso, dunque, tra significazione e giustizia che la “gente” rimuove, occlude, nega.
Riferimenti bibliografici F. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962 E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981 G. Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, Longanesi, 1992 R. Sennet, La coscienza dell'occhio. Progetto e vita sociale in città, Milano, Feltrinelli, 1992 M. Isnenghi, L'Italia in piazza, Milano, Mondadori, 1994 E. Levinas, Il tempo e l'altro, Genova, Il Melangolo, 1997 P. Corsini, Produzione della norma, governo della città, Brescia, Grafo, 1999 A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, Milano, Feltrinelli, 2008 P. Prodi, Lessico per un'Italia civile (a cura di P. Venturelli), Reggio Emilia, Diabasis, 2008 D. Riesman, La folla solitaria, Bologna, Il Mulino, 2009 G. Preterossi, La politica negata, Roma – Bari, Laterza, 2011
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