Goya
I Disastri della Guerra e le Pitture Nere
Carlo Salvato
Goya I Disastri della Guerra e le Pitture Nere
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO Dipartimento di Arti Visive Scuola di Grafica DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO
Tesi di diploma di STORIA DEL DISEGNO E DELLA GRAFICA
Goya: I disastri della guerra e le pitture nere
relatore Prof. Bruno Ceci
allievo Carlo Salvato
anno accademico 2012/2013 sessione straordinaria
INDICE - Capitolo I L’opera grafica
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- Capitolo II L’opera pittorica
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- Capitolo III I disastri della guerra e le pitture nere
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-Bibliografia
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Capitolo I
L’opera grafica
Francisco Goya è stato sicuramente uno dei grandi maestri dell’incisione europea, difatti la sua opera grafica è comprensiva di quasi trecento opere, molte delle quali divise in serie tematiche che affrontano alcune situazioni sociali e psicologiche che trovano origine negli angoli più bui e reconditi dell’animo umano. Senza ombra di dubbio ciò che ha avvicinato Goya a simili tematiche è stata la frequentazione della corte spagnola in veste di “pintor de camara del Rey”, facendogli cogliere ancor più il grande divario sociale e psicologico che esisteva fra coloro che frequentavano il palazzo e chi ne era al di fuori. Difatti fu proprio tramite i ritratti ufficiali dei regnanti che iniziò a studiare ciò che rende l’uomo vile, malvagio, superstizioso, a volte persino abietto ed ingordo ed espresse la sua angoscia al riguardo proprio tramite le sue incisioni. Le incisioni di Goya, infatti, vanno a scandagliare l’animo umano, facendone scaturire gli orrori che lo popolano e al contempo gli permettono di sfogare i suoi tormenti, le sue angosce e le sue paure; le sue incisioni sono una sorta di confessionale, riservato, intimo e ben più discreto delle grandi pitture per la corte. In queste opere non si scorge amore, affetto o felicità, ma solo un racconto tanto brutale quanto umiliante, nel quale vengono narrati i vizi, le ingiustizie, i soprusi e le bestialità di cui possono essere capaci gli uomini. L’inquietudine dimostrata in questa narrazione è inoltre strettamente legata allo stato d’animo dell’artista, che per lo più si dedicava all’incisione nei momenti di crisi, quando l’unico modo per risollevarsi dal fondo del baratro era sfogare le sue perplessità e la lastra incisa si rivelò un’amica 9
fondamentale in quei momenti bui. Nelle sue opere è possibile scorgere anche la natura dell’artista che, seppur avendo iniziato a rapportarsi con l’arte incisoria verso i trent’anni, dimostra nella sua ricerca stilistica la curiosità di un giovane che inizia a scoprire ciò che lo circonda, ma ne comprende l’essenza come solo un maestro potrebbe fare. Provenendo dal mondo della pittura ed in particolare dalla ritrattistica, Goya dimostrò di apprezzare in maniera particolare tecniche come l’acquatinta ed in seguito la litografia, le quali gli permisero di studiare a fondo gli effetti chiaroscurali dell’incisione. La tecnica dell’acquatinta venne divulgata in Francia nel 1769 e raggiunse la Spagna solo intorno al 1780, ovvero nel periodo in cui Goya realizzò le acqueforti d’après Velasquez, in alcune delle quali venne utilizzata proprio questa nuova tecnica. L’interesse per questa tecnica lo portò alla realizzazione di capolavori come“Il garrotato” ed “Il sonno della ragione genera mostri” , nelle quali il chiaroscuro pone il fruitore dell’opera di fronte ad ambienti bui, profondi e terrificanti proprio come i soggetti rappresentati. Il percorso di Goya nell’incisione ebbe inizio attorno al 1776, con alcune opere di soggetto sacro, le quali sono facilmente riconducibili all’opera di Tiepolo, fonte d’ispirazione per l’artista assieme a Mengs e Velasquez. La serie de “I Capricci” nacque sicuramente in coincidenza della sordità che afflisse Goya dal 1792. Da quel momento l’artista si ritrovò a fare i conti con una percezione diversa del mondo che lo circondava. Nel suo viaggio introspettivo Goya intravide la grettezza dell’animo umano, la sua ingordigia, la malvagità e le ingiustizie che queste mostruosità portano a compimento. Fu così che nel 1799 pubblicò la prima edizione de “Los Caprichos”, composta da ottanta tavole, ma nel clima sociopolitico di quel tempo non ebbero grande successo anche per le accuse contenute nell’opera, inoltre i suoi contemporanei riconobbero in alcune opere volti di persone della corte, costringendo l’autore a ritirarla dal mercato con la vendita di sole ventisette serie in quattro anni. 10
”Il garrotato” F. Goya, 1778-80,
acquaforte, bulino, 330 x 210 mm. 11
Così Goya decise di donare i libri rimasti al Re Carlo IV, assieme alle matrici, che furono conservate nella Regia Calcografia, chiedendo in cambio di sovvenzionare gli studi di suo figlio per un anno. La serie de “I Capricci” è divisa in due parti, entrambe introdotte con un autoritratto dell’artista; nella prima vengono presi di mira il popolo, l’aristocrazia ed il clero assieme ai loro vizi, le debolezze e la loro ignoranza, mentre la seconda affronta con sarcasmo la stupidità della superstizione e della stregoneria, che accompagnano queste credenze, dando vita a mostri, streghe e folletti, trascinandoci nel regno della notte, ove la ragione umana assopisce e l’inconscio prende il sopravvento sugli uomini. Ne “I Capricci” è possibile notare che l’attenzione dell’artista si è posata principalmente su un grande tema, che accomuna la maggior parte delle opere della serie, ovvero la facilità degli uomini a cedere all’ignoranza e di conseguenza alla schiavitù che ne deriva, rappresentata sotto forma di asini, che si cimentano in strane pose quasi umane ed uomini con la testa d’asino. Un esempio è la ventiquattresima tavola della serie, “No hubo remedio” (Non ci fu rimedio), nella quale è rappresentato un uomo schernito dalla società e messo in catene su un asino, obbligato a mostrare a tutti ciò che ha fatto, privo di ogni libertà di pensiero e giudizio. Dopotutto è sempre stato facile mettere alla gogna chi è diverso e in questo caso si può notare che coloro i quali scherniscono il protagonista sono brutti, grotteschi, mostruosi, ovviamente in netto contrasto con le sembianze totalmente umane del condannato. Il volto di quest’ultimo è sofferente, come di chi ha lottato e perso, ma è ben noto che spesso la ragione viene sconfitta dall’ignoranza, tanto stupida, quanto pericolosa. Altro eclatante esempio di questo tema è senz’altro la trentasettesima tavola della serie, “Si sabrá más el discípulo?” (Ne saprà più il discepolo?), nella quale vengono rappresentati due asini vestiti da maestro e allievo nel mezzo di una lezione sull’alfabeto, chiara metafora del fatto che l’ignoranza spesso viene tramandata da un individuo all’altro; gli asini vengono costretti in azioni umane proprio per evidenziare l’aspetto transitorio delle conoscenze e delle esperienze altrui, infatti a quel tempo la maggior parte delle informazioni venivano 12
“Non ci fu rimedio” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, 207 x 145 mm.
“Ne saprà più il discepolo?” F. Goya, acquaforte, acquatinta, bulino, 207 x 145 mm.
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“A caccia di denti� F.Goya, acquaforte, acquatinta brunita, bulino, 209 x 146 mm.
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filtrate tramite gli insegnamenti ricevuti e dispensati nuovamente ed era privilegio di pochi poter studiare sui libri. Ciò accadeva in ambito scolastico, accademico, sociale e politico ed in molti casi è stato la causa della difficoltà del genere umano di liberarsi di alcune sciocche convinzioni, che, purtroppo, seppur in dose minore, influenzano tutt’ora le nostre esistenze. Questo aspetto dell’opera è un fattore tanto veritiero per quell’epoca, quanto attuale per la nostra; infatti mentre in quegli anni la ragione si stava destando da un sonno centenario grazie all’illuminismo, oggi il mondo sembra essere caratterizzato da una profonda crisi d’identità. Una crescente massificazione ed omologazione affligge le persone tramite qualsiasi mezzo d’informazione e social network, rendendole schiave di ciò che viene loro imposto come gradevole e giusto. Vi sono altri tre importanti temi che percorrono I Capricci: il primo è la satira sociale, che Goya utilizza per denunciare i vizi e le bestialità della società e dei singoli individui, spaziando dai politici fino ai cittadini, senza salvare il clero. Nella dodicesima tavola, “A caza de dientes” (A caccia di denti), è possibile notare l’ipocrisia della donna che estrae i denti d’oro da un cadavere, ben sapendo di compiere un gesto orribile e, dispiaciuta di ciò che fa, si copre il viso con un fazzoletto, per non assistere alla sua stessa atrocità. Le due figure sono immerse in un ambiente molto scuro, con un solo bagliore di luce ad illuminare l’innocenza del cadavere legato ed impiccato, mentre la donna è riparata dalla luce tramite il fazzoletto, come se volesse nascondersi da essa, perché si vergogna del suo gesto riprovevole. Il contrasto chiaroscurale è la chiave di questa incisione, in quanto mette su livelli diversi i due protagonisti e li caratterizza secondo la loro essenza. Un’altra tavola esemplare è la diciottesima, “Y se le quema la casa” (E gli si brucia la casa), in cui è ritratto un uomo che si veste, mentre la sua casa comincia a prendere fuoco. In questa incisione si dà importanza all’apparenza, difatti il protagonista vede che sta avendo luogo un piccolo incendio in casa, ma, anziché scappare e mettersi in salvo o tentare di estinguere la flebile emergenza, pensa a vestirsi per non uscire di casa nudo, mentre il fuoco divora l’edificio. La 15
superficialità e la necessità di apparire vengono dunque messe in primo piano rispetto ad incombenze ben più importanti ed è dimostrata ancora una volta la stupidità dell’uomo. Il volto dell’uomo è tranquillo, solcato da un largo sorriso, mentre pensa a come pavoneggiarsi della sua nuova disgrazia e la sedia che prende fuoco è posta dinanzi a lui, per accusare ed evidenziare la stoltezza dell’individuo che pensa solo alla sua immagine. Un’altra incisione significativa è inoltre la ventiseiesima, “Ya tienen asiento” (Già hanno il posto), nella quale sono ritratte due ragazze che portano due sedie capovolte sopra la testa ed entrambe vengono schernite dai passanti. Le persone che le deridono hanno volti simili a maschere teatrali, con occhi sottili e sorrisi disumani ed accentuati, mentre le ragazze sono stranamente sicure di sé, nonostante le burle. Esse sono la raffigurazione della lungimiranza, circondata dall’idiozia delle persone che non capiscono la necessità di prevenire i problemi, anziché risolverli in seguito. Il tratteggio delle figure mette in evidenza soprattutto le protagoniste ed accentua solo le espressioni dei passanti, mettendo così in risalto il vero centro focale dell’opera ed oscurando il superfluo, rendendo chiara ed immediata la satira contenuta nell’opera. Il secondo tema è la superstizione stregonesca, che tartassa l’uomo con i suoi demoni infernali, trascinandolo negli abissi più profondi dell’ignoranza collettiva. A partire da quest’aspetto si pensa che Goya abbia cominciato il suo percorso più significativo, il quale porterà alla realizzazione di opere come la serie de “Le Follie”. Un esempio di questa linea tematica è senz’altro una delle più celebri incisioni di Goya, “El sueño de la razòn produce monstuos” (Il sogno della ragione genera mostri), nella quale c’è un chiaro riferimento al mondo oscuro e tenebroso che si cela dentro ogni uomo; il personaggio rappresentato, addormentato sullo scrittoio, è lo stesso Goya, che da inizio alla seconda parte de “I Capricci” con un suo autoritratto. Ma il suo sonno, il sonno della ragione, è tormentato da fiere oscure di ogni sorta, che scaturiscono dal nero dello sfondo in acquatinta prendendo forma e tormentando l’artista. Anche in quest’opera il chiaroscuro è fondamentale per distinguere i demoni e l’uomo, che hanno sì forme 16
“Hanno già il posto” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, 205 x 148 mm.
“Il sonno della ragione genera mostri” F. Goya, acquaforte, acquatinta, 197 x 145 mm.
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“Quanto può fare un sarto!” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, puntasecca, bulino, 210 x 146 mm.
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diverse, ma che condividono lo stesso animo intriso di peccati e vizi. Essendo però egli stesso il simbolo della ragione, messo in luce rispetto al resto, Goya suggerisce che la retta via da seguire per abbandonare l’ignoranza e quindi la paura che ne deriva è destarsi dal sonno che viene imposto da chi è al potere per padroneggiare sulle masse, quindi di tentare di spiegare razionalmente ogni cosa senza cercare rifugio nella religione o nella superstizione, le quali sono sempre state fra le più spesse e robuste catene dell’intelletto umano. Caratteristica della superstizione è, inoltre, il suo simbolismo, chiave fondamentale della sua morsa sugli animi più deboli, infatti nella cinquantaduesima tavola, “Lo que puede un sastre!” (Quanto può fare un sarto!), delle persone in ginocchio sono terrorizzate da una mostruosa e gigantesca figura incappucciata, che incombe su di loro; non si rendono conto che è solo un lenzuolo indossato da un albero e nulla più. L’immagine mette in evidenza i punti chiave della superstizione, fra cui la proiezione delle ombre sul lenzuolo che forniscono un’aria tetra alla figura, la posizione aggressiva del manichino che induce il popolo a provare terrore per una bestia tanto feroce, infine le arpie e i demoni che si beffano degli uomini, il che sottintende la credenza che dietro ad ogni fatto fuori dall’ordinario ci sia la premeditazione di forze oscure. Si evince una denuncia verso la chiesa, la quale, anziché tentare di spiegare i fenomeni definiti sovrannaturali tramite la scienza e lo studio della natura, ha sempre preferito attribuire significati divini o demoniaci agli accadimenti terreni, fomentando così persecuzioni orrende come ad esempio le crociate, la caccia alle streghe e la vessazione di tutti coloro che tentavano di risollevare l’umanità dal baratro dell’ignoranza, come accaduto a Galileo Galilei. Questo messaggio viene esplicato in maniera molto chiara anche dalla quarantottesima incisione della serie, “Soplones” (Soffioni), in cui sono rappresentati dei demoni alati che cavalcano fiere inferocite in volo e soffiano nelle orecchie delle persone, instillando in esse paura e disperazione. Non è certo una novità che la chiesa abbia commesso atrocità e piegato alla propria volontà ogni suo oppositore, ed in questo caso i demoni sono proprio i chierici che insinuano il verbo della chiesa nelle menti del popolo: grazie al chiaroscuro è 19
possibile notare i soggetti convertiti e quelli in conversione, difatti le figure in ombra sono i bigotti che credono a qualunque cosa venga detta loro, mentre le figure in luce sono coloro che cercano di opporvisi. Il terzo ed ultimo tema è quello che riguarda la figura della donna: Goya riempie le sue matrici di donne lascive, di vecchie meretrici e di scambi illeciti. La figura della donna è stata spesso legata al peccato, come ad esempio Eva nella Bibbia o Pandora nella mitologia greca, volubili peccatrici che hanno riversato ogni male esistente sull’umanità. Quindi la donna è vista non solo come peccatrice, ma anche come portatrice del peccato in sé, disposta a tutto pur di avere ciò che desidera. Ed è proprio questo il soggetto rappresentato nella quattordicesima tavola della serie, “Que sacrificio!” (Che sacrificio!), nella quale una ragazza si concede ad un benestante, per ottenerne la ricchezza economica; ma l’uomo viene raffigurato come un mostro, più simile ad una lucertola che ad un essere umano, tanto viscido e meschino, quanto ben vestito. La ragazza è molto bella, giovane e non poco ripugnata da quell’essere, ma disposta ad essere sua, pur di avere ciò che egli possiede, mentre, dietro di lei, i suoi familiari sono dispiaciuti e tristi per il sacrificio che sta compiendo la donna, sebbene nessuno tenti di farla rinsavire. Così la figura femminile viene associata all’ingordigia e alla propensione al sacrificio in cambio di una ricchezza materiale. Nelle tavole cinque e sette, invece, vediamo come la protagonista eserciti il suo potere seduttivo sullo stesso uomo per ben due volte, ma mascherata nella prima e a volto scoperto nella seconda. La donna sfoggia le sue forme a tal punto da essere così seducente che l’uomo non la riconosce dopo il primo incontro e la corteggia nuovamente; il carattere lascivo della donna viene denunciato in queste incisioni, che però non sono prive di uno sguardo critico da parte dell’artista, che mette sullo sfondo della prima due vecchie comari in penombra, nascoste mentre sparlano di ciò che sta accadendo, e due ragazzine nella seconda che guardano la protagonista con occhi sognanti. Anche qui è il chiaroscuro a definire le posizioni ed il carattere dei personaggi, difatti le due comari pettegole sono delineate come parte integrante 20
“Che sacrificio!” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, puntasecca, 193 x 144 mm.
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dello sfondo molto scuro, per simboleggiare la malizia e le maldicenze di cui sono capaci le donne verso le loro simili, mentre nella seconda le ragazzine sono illuminate per accentuare le loro espressioni sognanti nel guardare la donna corteggiata e incarnano il sogno di ogni ragazza di trovare il vero amore. Nella seconda incisione della serie , “El sì pronuncian y la mano alargan al primero que llega” (Pronunciano il sì e poi porgono la mano al primo che arriva), Goya tratta un altro argomento molto spinoso, ovvero la disponibilità delle donne a concedersi a chiunque. Nella tavola viene rappresentata una donna che viene sposata senza un marito ed in seguito concessa ad una folla scalpitante; dallo sfondo cupo e profondo emergono così le figure vogliose dei suoi pretendenti affascinati dalla bellezza della ragazza e raffigurati alla stregua di bestie con i volti deformati, mentre in basso sono illuminati da una luce flebile, ma evidente, i parenti della sposa che si perdono in lacrime ed emozioni tipiche dei matrimoni. Dunque è ancora una volta il chiaroscuro a rendere la purezza delle intenzioni dei personaggi ed in quest’opera si passa dal nero più intenso al bianco più luminoso, a dimostrazione del contrasto fra la lussuria dei pretendenti e la sincerità della commozione degli spettatori. Quindi per Goya le donne sono le portatrici del male, streghe interessate solo al loro profitto e ai piaceri della carne, incuranti della purezza perduta delle loro anime. Il clima politico nel quale nacque, invece, la serie de “I disastri della guerra” (1810-1820) era ben diverso da quello de “I Capricci”; infatti nel 1799 Goya venne proclamato “Pintor de camara del Rey”, ma nel frattempo la Spagna stava cominciando a vivere la rivoluzione del 1808, seguita dalla guerra Napoleonica. Sebbene in questo clima molti artisti colsero il carattere romantico della guerra, esaltando l’una o l’altra fazione, Goya decise di non spalleggiare nessuna delle parti, ma di riportare nella sua cruda disumanità i disastri provocati dalla guerra. Così mentre molti artisti rendevano epiche le gesta di questo o quel condottiero, egli si concentrava sulla devastazione e la tragedia, rappresentando il dolore provocato dai soldati, sia spagnoli che francesi, dalla povertà e dalle perdite. 22
“Pronunciano il sì e poi porgono la mano al primo che arriva” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, 210 x 145 mm.
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In questa opera molto più che in altre Goya mostra la sua capacità di rappresentazione emotiva e drammatica, ma approfondirò questa particolare serie di incisioni nel terzo capitolo, analizzandone a fondo ogni componente. La terza serie di incisioni di Goya è quella dedicata ad una delle sue passioni, ovvero la “Tauromachia”. È una serie molto cara all’artista, lontana da tutte le denunce e drammaticità delle altre sue composizioni e viene prodotta come una serie a sé stante, formata da 38 tavole iniziali, alle quali furono aggiunte in seguito altre incisioni isolate. Nelle prime dodici tavole tratta momenti storici legati alla corrida spagnola, ma in seguito, sentendosi troppo vincolato da questa sua decisione, comincia a creare incisioni slegate dalla storia; in questo frangente l’artista prende anche la decisione di tentare l’illustrazione della “Lettera storica sulle origini della corrida in Spagna”, scritta da Nicolas Fernandez Morratìn nel 1777. Alcune forme di corrida sono ancora oggi in uso in alcune parti del mondo, come la Spagna, l’America latina, il Portogallo ed il sud della Francia, ma essa ha origini antichissime, risalenti all’antica Grecia, quando la tauromachia era un evento in cui i contendenti si impegnavano a schivare le incornate dei tori senza ferire le bestie, ma stancandole fino a sfinirle. Con l’evolversi di questa circostanza si è arrivati infine alla corrida spagnola, caratterizzata da una certa dose di violenza nei confronti dell’animale, che finisce quasi sempre ucciso e macellato all’interno della stessa arena, sebbene in alcuni casi anche il possente bovino si ritrova ad avere la meglio sull’uomo. Lo stesso Goya pare che abbia partecipato diverse volte alla corrida, dimostrando buone capacità atletiche e fisiche. Nel 1876 le lastre di rame delle acqueforti arrivarono in Francia, dove l’editore Loizelet di Parigi le pubblicò in una nuova edizione, aggiungendovi anche le lastre scartate dall’artista. In queste incisioni non ritroviamo il Goya de “I Capricci” o de “I disastri della guerra”, bensì scopriamo un lato più ottimista dell’artista, grazie al quale cerca di esaltare all’estremo l’abilità fisica del toreador e la potenza del toro, immortalandoli 24
alcune volte con una tale accuratezza tecnica, dovuta ad un uso eccessivo dell’acquatinta, da rendere le opere quasi statiche. Inoltre non troviamo la stessa passione per la satira che esprimeva in altre composizioni, né la sua necessità di denunciare atrocità o disgrazie della società. L’unico scopo di queste incisioni era sicuramente rendere onore all’arte della corrida, che lo stesso artista aveva amato durante la sua vita. Fra le serie de Le Follie e quella de I disastri della guerra, è probabile che Goya incise “Il Colosso”, un misterioso mezzotinto raffigurante un Gigante che si volta seduto all’orizzonte sotto il chiaro di luna. Il chiaroscuro di questa incisione è molto profondo, difatti la figura del titano è molto scura, quasi una sagoma della quale vediamo solo alcuni lineamenti del volto e la schiena illuminati dalla luna in controluce. Quasi sicuramente possiamo affermare che il gigante sia il simbolo delle forze del male che entrano in azione quando l’umanità è in crisi, facilmente ricollegabile a Il sogno della ragione genera mostri, infatti in entrambi i casi una falla nella lucidità dell’uomo porta all’evocazione di fiere infernali e oscuri presagi. Purtroppo di questa incisione ci sono solo una decina di esemplari, in quanto pare che la matrice si sia irrimediabilmente rovinata dopo solo poche prove di stampa. L’ultimo grande ciclo incisorio di Goya fu quello de “Los Disparates”, tradotto nella nostra lingua come “I Proverbi” o “Le Follie”. Questa è l’ultima grande serie di incisioni dell’artista, che dimostrò una sorta di incertezza durante questo lavoro, difatti il nome dell’opera non è certo: inizialmente la chiamò Sogni, mentre su altre tavole troviamo il nome Disparates, ovvero Follie, ma infine pubblicate col nome di Proverbi. L’opera comprende solo ventidue incisioni ed è probabilmente incompleta, dato che Goya è morto durante la sua lavorazione. Iniziata verso i suoi settant’anni, è caratterizzata da una particolare ricerca fantastica, che per alcune tematiche rasenta quasi l’assurdo. I temi riprodotti nella serie riguardano spesso fantasmi, 25
parvenze illusorie e demoni, riportando una certa somiglianza con i temi superstiziosi e stregoneschi precedentemente trattati ne “I Capricci” e in questo frangente l’operato di Goya presenta alcune affinità con il lavoro di William Blake, in quanto entrambi vertono sulla dimensione onirica del mondo. Un esempio di ciò è sicuramente “Disparate de bobo” (Follia della stupidità), in cui l’artista rappresenta un uomo enorme, con il volto deformato in un ghigno malefico mentre balla e suona delle nacchere, spaventando una coppia davanti a lui. Si nota immediatamente l’oscurità in cui la scena è rappresentata e l’espressione del mostro illuminato dal basso verso l’alto, per accentuarne il carattere terrorizzante e folle, difatti l’unica fonte di luce nell’opera sembra essere irrazionale, proveniente probabilmente dal petto della creatura. Una vecchia, sulla sinistra, si ripara dal mostro facendosi scudo con il corpo della figlia, sicuramente più impavida di lei, che osserva attentamente l’essere che ha di fronte. Inoltre dietro alla bestia si materializzando due volti, come due fantasmi scaturiti dalla nebbia, evocazioni demoniache richiamate dalla danza e dalla musica di quell’essere diabolico. Tutta la serie è disseminata di figure evanescenti ed illusorie, proprio come questi volti fluttuanti, i quali possono essere facilmente ricollegati ad un concetto di transitorietà della vita umana, che può passare dal peccato alla redenzione. L’incisione che tratta meglio questo aspetto è sicuramente “Disparate desordenado” (Follia disordinata), in cui la protagonista è una donna con due corpi attaccati, uno scuro e demoniaco e l’altro più umano e tormentato. Questa figura, che ricorda gli androgini della mitologia, è divisa soprattutto dal chiaroscuro, la parte malvagia è caratterizzata da un tratteggio molto intenso, mentre quella umana è molto luminosa. Il tutto avviene in un’ambientazione priva di luce, lo sfondo è nero e le ombre prevalgono su tutto il resto, comprese le donne deformi terrorizzate dal mostro. Questa ambivalenza della situazione umana è data anche dal contrasto compositivo fra le donne sulla sinistra e le belve in penombra sulla destra. Una delle tavole in cui si avverte un rimando a “I disastri 26
“Follia della stupidità” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, bulino, puntasecca, 247 x 359 mm.
“Follia disordinata” F. Goya, acquaforte, acquatinta, puntasecca, 247 x 359 mm.
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“Follia della paura” F. Goya, dettaglio.
“Follia della paura” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, 245 x 357 mm.
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della guerra” è invece “Disparate de miedo” (Follia della paura). Vi è rappresentato un tristo mietitore impegnato a giudicare i cadaveri su un campo di battaglia. I cadaveri alla sua visione sembrano destarsi, terrorizzati da ciò che sta per affliggerli, al punto che alcuni di essi prendono a fuggire, pur di non essere presi. Anche in questo caso l’ambientazione è oscura, notturna, una situazione nella quale di solito si dorme, ma il riposo dei soldati deceduti viene interrotto, il sonno più sacro fra tutti viene infranto come uno specchio. Il terrore è certamente la chiave di lettura di quest’opera ed è sicuramente il primo sentimento suscitato nel fruitore alla visione di quella figura incappucciata e tragicamente inesorabile nella sua stessa esistenza. Lo spettatore viene messo di fronte alla paura più grande che affligge l’essere umano da millenni, ovvero quella di non sapere cosa accade dopo la morte, l’incubo di non essere certi di avere ancora uno scopo nell’universo e Goya fuga ogni dubbio, mettendoci in condizione di fare i conti con quel mostro, senza scampo alcuno. Infine la tavola “Modo de volar” (Modo di volare) ci mette di fronte non solo alla follia, ma anche al genio creativo, due aspetti del pensiero umano che vengono spesso accomunati sia per complessità, che per estro creativo. In questa incisione vediamo qualcosa che ricorda i progetti sul volo umano di Leonardo Da Vinci, sebbene quelli di quest’ultimo fossero estremamente più tecnici, ma l’artista ci mostra quanto sia sottile il confine, quanto la nostra mente possa spingersi oltre ad esso, per poter toccare con mano. Le figure rappresentate sono vestite come uccelli e volano nel cielo atteggiandosi come tali in una posizione molto buffa e sicuramente poco ortodossa, ma allo stesso tempo geniale, al punto che solo un folle avrebbe osato provarla. Le follie rappresentate in questa serie sono le follie che gli uomini possono compiere contro se stessi e contri gli altri, una sorta di denuncia verso i mali derivanti dalla pazzia che affligge il mondo a causa di chi non sa controllare le proprie pulsioni e precipita tutto in un baratro oscuro. L’opera grafica di Goya si concluse con le sue litografie, a cui si dedicò negli ultimi anni di vita. 29
La litografia, inventata da Senefelder alla fine del XVIII secolo, arrivò in Spagna circa vent’anni dopo, attorno al 1819, grazie ad un amico dello stesso inventore che aprì uno studio litografico a Madrid. Proprio in quel laboratorio Goya collaudò le potenzialità della nuova tecnica, ne fu così entusiasta al punto di creare la sua prima litografia lo stesso anno, “La vecchia filatrice”. Goya decise di approfondire lo studio di questa tecnica in Francia, a Bordeaux e si dedicò ad essa con estrema passione, scoprendo le sue capacità cromatiche; pare che Goya disegnasse sulle pietre poggiandole sul cavalletto, come fossero tele da dipingere, mentre le matite si tramutavano in pennelli. In queste opere, che si rifanno alla Tauromachia, si perde la drammaticità del suo precedente operato, lasciando spazio all’epicità e alla grandezza dell’antica lotta che avveniva nelle arene della corrida.
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Capitolo II
L’opera pittorica
Il primo contatto di Francisco Goya con la corte spagnola avvenne nel 1744, quando gli furono commissionati dei cartoni di scene di caccia per l’Arazzeria Reale di Santa Barbara, sia grazie al suo talento sia all’influenza di suo cognato Francisco Bayeu. Già in altre due occasioni tentò di avvicinarsi a Madrid cercando di entrare all’Accademia Reale di Belle Arti di San Fernando, ma fallì entrambe le volte, sebbene in futuro sarebbe diventato sia docente che direttore della stessa Accademia. La commissione per i cartoni fu dunque la sua occasione per farsi un nome al di fuori dell’ambito locale: Madrid era all’epoca la più importante città spagnola e la sua Accademia era strettamente legata all’ambiente di corte, ulteriore trampolino di lancio verso la fama. Ma fu proprio in questo tipo di ambiente che Goya maturò la sua visione del mondo afflitto da svariati mali e tragedie perpetrati tramite l’arroganza, l’ignoranza e la brutalità di cui era capace l’essere umano. Ma i cartoni che realizzò per l’erede al trono non furono affetti da questo suo pessimismo cosmico, ma creati secondo le pure esigenze del suo committente. Gli arazzi che vennero realizzati erano destinati al Prado e a San Lorenzo del Escorial, due palazzi fuori Madrid nei quali la corte e la famiglia reale trascorrevano gran parte dei mesi autunnali e invernali. Secondo la tradizione i temi scelti per gli arazzi erano legati alla mitologia greca o romana, ma Goya ed altri artisti decisero di rinnovare questo tipo di composizioni con scene ambientate nella spagna contemporanea. 31
Uno degli arazzi commissionati è “La caza de la codorniz” (La caccia alla quaglia), nel quale si nota il cambio di rotta proposto dagli artisti. I personaggi rappresentati sono cacciatori vestiti secondo le mode dell’epoca corrente, nobili a cavallo e segugi intenti a stanare le prede dei loro padroni. Ma la moglie del principe di Asturia, Maria Luisa di Parma, desiderava cartoni raffiguranti il popolo dedito ai piaceri, che la corte spagnola le vietava, inoltre questo desiderio della regina di circondarsi di scene gioiose e di vita quotidiana assecondava un’usanza in atto nei teatri di Madrid, nei quali venivano rappresentate, fra i vari atti, alcune scene comiche di vita popolare. Questa richiesta della principessa italiana permise all’artista di concentrarsi su quella che sarebbe divenuta la sua poetica, ovvero la rappresentazione dei modi e degli svaghi del popolo, che si sarebbero trasformati con il tempo nello studio e nella denuncia delle sue bestialità. Uno dei nuovi cartoni è “La novillada” (Corrida di torelli), nel quale si presume che Goya abbia ritratto se stesso come toreador. Questo non è un autoritratto ufficiale, ma, come già detto in precedenza, l’artista prese parte a più di una corrida nella sua giovinezza, dimostrando una certa abilità. È rappresentata una corrida non violenta e l’artista si è ritratto nelle vesti del toreador vicino ad alcuni uomini ed al toro, ma in queste composizioni l’intento di Goya è ancora vincolato al gusto della committenza e non rivela le sue intuizioni sull’animo umano, come inizierà a fare in seguito con i majos e le majas. Queste due figure erano popolani del rango più basso della società e si distinguevano dal resto della popolazione sia per il loro particolare modo di vestire sia per il loro carattere e i loro modi di fare. Il majo era il tipico ragazzotto rissoso e pieno d’orgoglio, che si offendeva in fretta ed altrettanto in fretta era pronto a sguainare il coltello, fiero del suo stravagante modo di vestire e riluttante verso qualsiasi forma di lavoro. Questa particolare inclinazione è nata dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, in quanto le nuove colonie inviavano oro al re e quest’ultimo redistribuiva le sue nuove ricchezze fra i suoi favoriti ed i cortigiani. Sebbene questa proficua epoca fosse conclusa da molto 32
“Caccia alla quaglia”, 1775 F. Goya, olio su tela, 290 x 226 cm, Madrid, Museo del Prado.
“Corrida di torelli”, 1780 c. F. Goya, olio su tela, 259 x 136 cm, Madrid, Museo del Prado.
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“Il parasole”, 1776-78 F. Goya, olio su tela, 104 x 152 cm, Madrid, Museo del Prado.
“Il chitarrista cieco”, 1778 F. Goya, olio su tela, 260 x 311 cm, Madrid, Museo del Prado.
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tempo, questa usanza era rimasta viva nel modo di vivere dei giovani uomini. La maja invece era una donna dal carattere forte, dai modi rudi, che si divertiva a provocare gli uomini, solitamente impiegata nella vendita di arance o castagne nelle case dei nobili. A differenza del majo però, era una gran lavoratrice, soprattutto perché doveva mantenere e vestire il suo uomo. Entrambi erano soliti raccogliere i capelli in una sorta di rete ed i loro abiti erano sempre di colori sgargianti, infatti ben presto l’alta società iniziò ad emulare questa moda, trasformata in una sorta di costume nazionale. In sostanza queste due figure incarnavano una buona parte dei vizi della società, fra cui la necessità di apparire, l’indolenza verso il lavoro o lo sfruttamento dello stesso e l’arroganza, ma nelle sue composizioni l’artista era ancora lontano dal suo vero intento, infatti i volti non erano né grotteschi né deformi, ma si attenevano al gusto della principessa committente. Uno dei cartoni più popolari è senz’altro “El quitasol” (Il parasole), nel quale è rappresentata una giovane donna che scruta il suo osservatore, mentre un giovane che veste secondo la moda dei majos le fa ombra con un parasole verde. Però mentre lo sguardo del servitore è vuoto, quasi inconsistente, quello della donna è pesante, quasi grottesco, grazie alla luce che proviene dal basso, donando al suo viso un’aura agghiacciante. Il cartone più famoso ed importante della produzione di Goya per l’arazzeria Reale è “El ciego de la guitarra” (Il chitarrista cieco). Questo cartone venne realizzato nel 1778 e in un primo momento non fu accettato dai tessitori per la complessità della sua composizione, ma è qui che Goya per la prima volta comincia a mostrare il suo interesse per i disagiati e disgraziati, come è appunto il chitarrista protagonista dell’opera. Il musicista è caratterizzato da tratti grotteschi e leggermente deformi ed in tal modo si distingue completamente dai suoi spettatori, che si accalcano attorno a lui per ascoltarlo. Queste caratteristiche faranno in modo, in futuro, che 35
l’operato di Goya di distacchi completamente da quello dei suoi contemporanei e dal gusto comune del popolo, che in genere non amava vedere i propri vizi messi a nudo. Negli anni successivi i temi delle composizioni di Goya non rimasero legati solo all’ambiente della corte o alla vivacità del popolo, bensì approfondì i disagi di quest’ultimo, creando opere come “La nevada” (La tempesta di neve), nella quale mostra con estrema freddezza quali sono le fatiche che la povera gente è costretta ad affrontare per sopravvivere, in questo caso alcuni contadini che affrontano una bufera. Come già accennato nel capitolo precedente, questa sua premura verso i mali che affliggono il popolo scaturisce probabilmente dal divario che esiste fra la corte e la strada, la prima sfarzosa ed imponente, la seconda povera e dismessa. I ritratti di soggetti piacevoli ormai erano solo quelli realizzati per la corte, mentre la produzione personale dell’artista lo introdusse alla riflessione interiore, che avrebbe trovato esito nelle sue incisioni ed in alcuni dipinti. Altre scene di degrado e sofferenza possono essere quelle mostrate ne “Il muratore ferito”, con cui Goya offre alla corte spagnola uno sguardo più realistico della vita fuori dal palazzo. Non ci sono più le scampagnate dei majos o le amenità de “Il parasole”, ma solo un operaio feritosi cadendo da un’impalcatura e due compagni che lo portano in braccio; i loro sguardi sono colmi di mestizia, rassegnazione, e lo stesso suggerisce l’ambientazione, scura e desolata, senza alberi verdi o prati, ma solo terra arida e arbusti rinsecchiti. Gli abiti dei protagonisti sono laceri e sporchi a differenza di quelli delle precedenti opere. In realtà la prima versione di quest’opera voleva rappresentare un muratore ubriaco, ma un’opera del genere non avrebbe mai trovato posto a corte e quindi venne convertita, trasformando il protagonista in un ferito. Sebbene neanche il ritratto di un operaio ferito fosse adatto ad un palazzo reale, in quel periodo il re emanò un decreto secondo il quale i lavoratori infortunati avrebbero avuto diritto ad un risarcimento, così l’incidente rappresentato potrebbe essere interpretato come un elogio alla benevolenza di re Carlo IV.
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“Il muratore ferito�, 1786-87 F. Goya, olio su tela, 268 x 210 cm, Madrid, Museo del Prado.
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Nell’opera “Pulele” (Il fantoccio), lo sguardo dell’artista diventa più critico e si avvicina a quello de “I Capricci”, infatti viene rappresentata la forza che le donne esercitano sull’uomo. Una visione molto drastica per l’epoca, con la quale Goya denunciava il potere di manipolare gli uomini che possiedono le donne, qui rappresentate mentre fanno volare per aria un fantoccio di paglia vestito secondo una tradizione del carnevale spagnolo. In due disegni la testa del fantoccio è orientata verso l’alto, simboleggiando una sorta di divertimento per la vittima, ma in un cartone essa viene rappresentata cadente, mostrando invece come l’uomo sia inerme e sofferente nelle mani delle giovani. Goya raggiunse la fama con i ritratti che fece a palazzo in veste di primo pittore di corte, titolo conferitogli nel 1799. L’ ascesa portò all’artista cospicui compensi per le sue opere, garantendogli una certa stabilità finanziaria, che fino al momento era sempre venuta a mancare, in quanto la creazione di cartoni non era molto ben retribuita. Anche in alcuni di questi ritratti l’artista decise di inserirsi nella composizione, ma non più come protagonista, bensì come comparsa, come si può vedere nella sua prima opera a corte, “El conde de Floridablanca”, nel quale è raffigurato mentre mostra il dipinto finito al suo committente. Ma proprio in questi ritratti si scorge la prima avvisaglia di ciò che caratterizzerà a fondo l’opera incisoria dell’artista: nella maggior parte dei ritratti gli sfondi sono scuri e cupi, dipinti con varie tonalità di grigio e marrone, mentre i soggetti ritratti sono in luce, esaltati appunto dalla penombra nella quale sono immersi. Gli sguardi dei soggetti in posa sono quasi terrorizzanti, soprattutto nei bambini; sguardi accusatori forse o probabilmente consci del fatto che nell’animo dell’artista è in corso una mutazione. Questo aspetto si palesa nel ritratto di “Don Manuel Osorio Manrique de Zùñiga”, nel quale è rappresentato un bambino vestito di rosso che gioca con una gazza ladra legata con un fil di spago, ma sullo sfondo, nell’oscurità della penombra, alcuni gatti scrutano l’uccello con occhi famelici, pronti ad avventarsi sulla loro preda. Gli animali raffigurati ricordano le fiere bestiali ed i demoni che 38
“Don Manuel Osorio Manrique de Zùñiga”, 1788 F. Goya, olio su tela, 127 x 101 cm, New York, Metropolitan Museum of Art.
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“Il recinto dei pazzi”, 1794 F. Goya, olio su latta, 43,8 x 32,7 cm, Dallas, Meadows Museum.
“Incendio notturno”, 1793-94 F. Goya, olio su latta, 50 x 32 cm, Madrid, Banco Inversion-Agepasa.
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infesteranno le opere future dell’artista, fonte di tormento per gli stolti uomini che li creano con la loro follia. Con la realizzazione dei Capricci e con la sordità Goya decise di non creare più solo opere su commissione, ma cominciò a dare libero sfogo alla sua personale visione del mondo: un esempio è “Il recinto dei pazzi”, nel quale l’artista rappresenta il cortile di un carcere in cui i prigionieri ridono follemente in faccia allo spettatore, mentre si azzuffano fra loro. Il colore è molto scuro, quasi privo di luce, se non fosse per la luce del sole che fa capolino da sopra le mura, ma non raggiunge comunque i folli prigionieri che restano in ombra. Ogni personaggio rivela la propria personalità, e la esprime dando sfogo alla follia che cela dentro al suo animo. Così vediamo un ometto ghignante rannicchiato al suolo ed un altro prigioniero che urla con le braccia conserte. Un’altra opera che l’artista produsse durante la sua convalescenza fu “Incendio Notturno”, nel quale prendiamo coscienza del fatto che il mondo di Goya è completamente diverso da quello che dipingeva fino a poco tempo prima sui cartoni per i reali, non c’è più gioia nelle sue composizioni, ma solo terrore, paura e vittime. Il tema della caducità si fa avanti soprattutto in questo periodo: causa la sordità, l’artista si è ritrovato in un mondo diverso, senza suoni ne risate; nel silenzio dei suoi pensieri si sono schiuse le orrende riflessioni che lo hanno portato ad indagare infine ciò che rende bieco l’uomo. In questo dipinto l’unica luce proviene dall’incendio che divampa vicino ai protagonisti, mietendo vittime come un demone inferocito che brama sangue. La luce che vediamo non ci dà speranza, ma solo un forte senso di terrore e rassegnazione, le due sole possibilità sono bruciare o essere inghiottiti dall’oscurità. Fu con i Capricci che presero vita le streghe ed i demoni, e la stessa duchessa de Osuna chiese a Goya di comporre scene riguardanti la superstizione e la stregoneria. Sebbene la duchessa appartenesse all’elité delle menti illuminate del suo tempo, chiese all’artista sei dipinti di piccolo formato come “Volo di stregoni”, in cui sono raffigurate tre streghe intente a stillare sangue da alcuni cadaveri, mentre un uomo coperto da un lenzuolo fa alcune strane danze per scacciarle. 41
Scene simili sono rappresentati nella tavola dei Capricci “Quanto può fare un sarto!”, già presa in esame nel precedente capitolo. Ne “Les Vielles” (Le vecchie), del 1810-12, Goya riprende alcune delle tematiche appartenenti ai Capricci, in questo caso le vecchie donne. Esse sono vestite con abiti sfarzosi, ma sono ridotte quasi a scheletri che rivolgono domande al loro specchio sulla loro condizione, mentre il dio Chronos, crudele signore del tempo, spiega le sue orride ali sulle due megere, condannandole a vedere la loro antica bellezza scorrere via. Una di esse porta una freccia di cupido nei capelli, come usava fare la stessa regina Maria Luisa, simbolo probabilmente di un amore perduto e mai più ritrovato. Le due megere sono il simbolo della futilità delle apparenze, consumate dal desiderio di apparire sempre bellissime, anche se non potranno esserlo mai più. La crudele condanna inflitta loro da Chronos, inoltre ci mette in relazione con il tema della caducità umana: la morte può arrivare in qualunque momento, liberandoci dai mali dell’esistenza, ma, al contempo, può condannarci ad una fine ben peggiore se decide di ritardare la sua venuta. Goya decise di continuare a trattare i temi del disagio e del terrore, e lo fece in maniera molto cruda e critica ne “I disastri della guerra”. Questa serie di composizioni tratta gli orrori portati al mondo dalla guerra, in particolare dall’occupazione napoleonica della Spagna. In questi dipinti Goya non mostra soltanto la disperazione e l’angoscia che i soldati di entrambe le fazioni si lasciano alle spalle.
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“Les Vielles”, 1810-12 F. Goya, olio su tela, 181 x 125 cm, Lilla, Palais des Beaux-Arts.
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Capitolo III
I disastri della guerra e le Pitture nere
“I disastri della guerra” è una delle serie di incisioni più famose e complete fra quelle realizzate da Francisco Goya e composta da ottantatré tavole nella sua edizione definitiva. L’opera nasce in un periodo storico e politico molto delicato per la Spagna, segnata dalla rivoluzione e a seguire dall’ occupazione napoleonica. Nell’aria si avvertivano le prime avvisaglie dei disastri che sarebbero accaduti di lì a poco e Goya li percepì meglio di chiunque altro. La prima tavola della serie è infatti “Tristes presentimientos de lo que ha de acontecer” (Triste presentimento di ciò che sta per accadere), nella quale l’autore ritrae il protagonista in ginocchio, a petto nudo e con le braccia aperte verso il basso; il suo sguardo è rivolto al cielo che si addensa di cupe nubi temporalesche, oscuro presagio della tragedia che sta per nascere. Il chiaroscuro è una componente essenziale dell’opera, come già visto nelle tavole de “I Capricci”, in quanto pone l’attenzione sulla rilevanza degli oggetti raffigurati nell’opera: il protagonista, rassegnato, è quasi completamente bianco, in forte contrasto con il nero denso e tenebroso dello sfondo. Solo il suo braccio si perde nell’oscurità, inghiottito dalle tenebre che si stagliano sul mondo, seminando il caos al loro passaggio. L’uomo si rifugia dunque nella preghiera, unico scampo rimasto all’oblio della barbarie che lo sta reclamando, come fece Cristo sul monte degli Olivi. In quest’opera dunque Goya ci mette di fronte ad un quesito vecchio come il mondo stesso, chiedendosi “Che ne sarà di noi?”. Questa domanda esistenziale fa comprendere quanto possa divenire incerto il proprio futuro dinanzi ad una strage imminente e quanto sia irrisoria la forza vitale di un uomo 44
“Tristi presentimenti di ciò che sta per accadere” F. Goya, acquaforte, bulino, puntasecca, brunitoio, 175 x 220 mm.
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“Con o senza ragione� F. Goya, acquaforte, lavis, bulino, puntasecca, brunitoio, 155 x 205 mm.
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lasciato in balia del proprio destino. Questa tematica apre la serie di incisioni con un tuffo nel vuoto per il fruitore dell’opera, che non sa cosa lo attenderà, e lo stesso tema chiuderà il ciclo incisorio con una tavola simile, ma opposta a questa nel significato, nella quale l’uomo riprenderà in mano le redini del proprio futuro, per plasmarlo a suo piacimento, senza doverne più subire la fatalità. In questo clima socio-politico altamente instabile la Spagna si trovò a fronteggiare una crisi esistenziale simile a quella descritta nella prima incisione, non riuscendo a mettere a fuoco il suo stesso futuro, quindi anche molti artisti dell’epoca furono messi di fronte all’ardua scelta di decidere su quale fazione puntare, scegliendo di elogiare l’una o l’altra nelle proprie opere, ma non Goya, che decise di stare al di sopra delle parti. Sulla scia dei Capricci decise di denunciare imparzialmente tutti gli orrori che i conflitti portano con sé, fra questi la povertà, il dolore, l’indolenza e la bestialità. Questo è lo scenario della seconda tavola della serie, “Con razon o sin ella” (Con o senza ragione). Qui viene rappresentata la prima fase del conflitto, quella in cui gli invasori, armati ed addestrati a dovere, obbediscono all’ordine di uccidere il nemico, che altri non è che il popolo, armato di coltelli e bastoni e vestito di stracci, destinato a soccombere senza scampo al miglior equipaggiamento e all’addestramento militare dei propri carnefici. Tutta la tavola è divisa in maniera simmetrica, da un lato gli straccioni, dall’altro i soldati, ma i personaggi non vengono distinti solo dalla loro posizione, ma anche dal segno dal quale sono costituiti: il disegno dei soldati è preciso, calcolato e ben studiato, addirittura freddo e composto, allo stesso modo in cui viene imposto loro di agire, mentre quello del popolo è veloce, vago e quasi feroce, come la brutalità che dimostrano avventandosi sul nemico, come fossero belve assetate di sangue pronte a sbranare la preda o farsi sbranare a loro volta. In tutto ciò l’unica cosa che accomuna le varie figure sono il sangue versato e le ombre che proiettano al suolo, ultimi resti della loro umanità perduta.
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Nella terza tavola, “Lo mismo” (Stesso soggetto), ci viene mostrato il rovescio della medaglia, ovvero il popolo che massacra un gruppo di soldati presi in un’imboscata. Per sopperire all’esperienza e alla forza della milizia i patrioti usano l’astuzia e la sorpresa come armi per la loro liberazione. Quindi mentre nel primo caso è il popolo ad essere sacrificato senza motivo, qui i soldati subiscono la stessa sorte, dimostrando così l’imparzialità di Goya nel ritrarre questi orrori. La serie può essere divisa a grandi linee in due particolari gruppi tematici: le opere sopra citate fanno parte del primo, quello che tratta la violenza da parte del popolo o della milizia verso la fazione opposta, mentre il secondo comprende quelle che si presume siano rappresentazioni di fatti realmente accaduti. La settima incisione, “Qué valor!” (Che coraggio!), è l’unica di cui si ha la certezza che sia legata ad un avvenimento riguardante l’assedio di Saragozza del 1° luglio1808. Quel giorno infatti una vivandiera, Agustina Zaragoza y Domenech, si trovò a distribuire provviste sul campo di battaglia, proprio mentre l’ultimo artigliere della batteria di cannoni spagnola veniva abbattuto. Si dice che essa prese il posto di quest’ultimo, accendendo la miccia del cannone e sparando un colpo che diede nuovamente coraggio alle truppe spagnole, che stavano per essere sopraffatte dagli invasori. In suo onore venne eretta una statua nel luogo esatto in cui avvenne il fatto. Nell’opera si nota immediatamente il magistrale uso dell’acquatinta, utilizzato dall’artista per conferire un ordine di importanza agli elementi che compongono l’incisione; la luce è focalizzata sulla bocca del cannone, sulla miccia e sul mucchio di cadaveri ai piedi della donna, mentre il volto di quest’ultima è obliato dall’oscurità grazie alla puntasecca, che conferisce un alone di mistero alla sua figura. Sebbene il suo volto non sia in luce, l’ombra che lo ricopre assume grande importanza rispetto ad ogni altro elemento, essendo evidenziato da questa sorta di cesura. Anche in altre incisioni troviamo donne come protagoniste, 48
“Stesso soggetto” F. Goya, acquaforte, lavis, puntasecca, bulino, brunitoio, 160 x 220 mm.
“Che coraggio!” F. Goya, acquaforte, acquatinta, bulino, puntasecca, brunitoio, 155 x 210 mm.
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a volte vengono rappresentate come portatrici di sventura, come accadeva ne “I Capricci”, altre volte come oggetto di abusi o espressione del dolore. Esemplare del primo caso è la sesta tavola, “Y son fieras” (E sono delle belve), in cui viene mostrata la bestialità derivante dalla necessità di difendersi delle donne. Una giace moribonda al suolo, mentre stringe il pugnale che non è servito a difenderla, una seconda cerca di spaccare la testa di un soldato, lanciandogli addosso un grosso sasso ed infine una madre tenta di salvare il suo bambino dalle grinfie dei miliziani, che l’hanno assalita impalando brutalmente uno di essi con una picca. Anche qui il chiaroscuro pone un ordine alle figure della composizione, ordinandole a seconda della loro ferocia in battaglia; in primo piano si distingue la madre che si trasforma in demonio sanguinario, pur di salvare la pelle del suo pargolo ed al suo fianco la sua vittima, mentre in secondo piano la popolana che prende di mira la guardia all’estrema destra con la sua pietra. Quindi le donne vengono ritratte proprio come gli uomini delle prime tavole, mostrando in questo modo che la bestialità umana non fa distinzione di sesso o di età, riguarda tutti allo stesso modo. Per il secondo caso, invece, vediamo dei soldati abusare di alcune povere popolane in un trittico composto dalla nona, decima ed undicesima incisione, rispettivamente intitolate “No quieren” (Non vogliono), “Tampoco” (Nemmeno) e “Ni por eas” (Né queste altre). Nella prima la donna viene assalita da un soldato intento a violentarla, ma essa si dimena perché non vuole subire una cosa simile. Tuttavia una vecchia, probabilmente sua madre, cerca di pugnalare a morte l’assalitore, dando un barlume di speranza alla giovane e prodigandosi per lei, sebbene non abbia da temere che l’uomo abusi di lei. Nella seconda tavola la speranza non esiste “Nemmeno”, perché anche se queste altre donne non vogliano essere abusate, vi sono costrette e nulla potrà salvarle dalla bestialità degli uomini. Nell’ultima invece la situazione sfocia nella violenza nuda e cruda: una madre vede la sua bambina gettata violentemente al suolo, mentre suo marito legato è costretto a guardare 50
“Non vogliono” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, bulino, puntasecca, brunitoio, 155 x 210 mm.
“Nemmeno” F. Goya, acquaforte, bulino, 150 x 215 mm.
“Né queste altre” F. Goya, acquaforte, lavis, bulino, puntasecca, 160 x 210 mm.
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“Il passo è duro!” F. Goya, acquaforte, lavis brunito, bulino, puntasecca, 155 x 165 mm.
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le violenze attuate dai soldati su di lei. Anche in questa tavola la speranza cede il passo, lasciando posto solo alla rassegnazione. In questo trittico, quindi, vediamo un crescendo dell’intensità narrativa, che passa da una situazione con una via di scampo ad una inesorabile ed intollerabile; però con l’intensità della narrazione prende corpo anche il nero pece dello sfondo, che passa da una sottile velatura ad un pozzo d’oblio. Le figure vengono imprigionate dallo sfondo man mano che la crudeltà dell’azione rappresentata aumenta e lo stesso accade ai volti degli assalitori, che da nitidi e visibili diventano scuri ed anonimi, chiaro simbolo del fatto che la crudeltà non ha volto, mentre il dolore degli assaliti è sempre più vivo e tangibile. Un altro tema che Goya tratta nella sua opera riguarda le punizioni inflitte ai condannati, come accade nella quindicesima incisione della serie, “Duro es el paso!” (Il passo è duro!), nella quale un uomo viene issato sulla scala di una forca, dalla quale pendono altri due cadaveri smossi dal vento. La composizione si divide in tre parti fondamentali: all’estrema sinistra si scorgono i cadaveri che sono già stati giustiziati, neri e anonimi, premonitori del destino che di lì a poco avrebbe accolto anche il loro compagno. Al centro, in primo piano, il condannato rassegnato alla sua triste sorte, con le mani legate vicine, come fossero giunte in preghiera ed il prete che confessa il malcapitato prima del tragico epilogo della vicenda. Infine a destra c’è una donna che piange per il suo uomo, circondata da una folla furente e feroce, che incita gli aguzzini ad impiccare il condannato. La scena ha, quindi, un ordine cronologico ciclico all’interno di se stessa, che può essere ripetuto all’infinito; il presagio della morte porta la rassegnazione sul volto del condannato, mentre la sua donna distrutta dal dolore non osa guardare il suo amato raggiungere gli altri corpi appesi, riportando lo sguardo all’inizio dell’opera, per ricominciare nuovamente il giro con il prossimo prigioniero. Goya ci ripropone un’immagine simile nella quindicesima tavola, “Y non hai remedio” (E non c’è rimedio), ma questa volta 53
l’esecuzione viene messa in atto dai militari invece che dal popolo. In questa scena l’enfasi drammatica dell’artista raggiunge livelli altissimi, sia a livello compositivo sia a livello tecnico. La profondità del nero sulla destra che avanza verso i condannati, eliminando ogni fonte di luce e speranza, è un simbolo del futuro che viene loro precluso, infatti è un nero denso come quello del sangue che sgorga dalla testa fracassata dell’uomo a terra. Anche in quest’opera c’è una sorta di ciclicità della narrazione, infatti si comincia dal protagonista in primo piano, con le canne dei fucili puntate su di lui, per passare ai condannati che vengono fucilati in secondo piano e tornare infine al cadavere, che funge sia da epilogo dell’intera azione, che da elemento premonitore della sorte che attende i malcapitati. Anche la ventiseiesima tavola dei disastri, “No se puede mirar” (Non si può vedere), riprende una scena riguardante la fucilazione, ma stavolta i bersagli non sono i guerriglieri, bensì dei semplici contadini inermi ed innocenti. Anche in questa incisione troviamo similitudini compositive con la precedente, sebbene non vi sia ciclicità narrativa; troviamo lo stesso ambiente cupo e nero che inghiotte le figure, rendendole schiave del proprio destino. Le canne dei fucili sulla destra suscitano ansia nel fruitore, che si trova a guardare una scena di grande dolore e disperazione, senza mai vederne la fine. Infatti l’azione non ha luogo, le canne sono immobili e non fanno fuoco, ma i condannati si contorcono su se stessi, per l’angoscia di ciò che sta per avvenire. L’epilogo di questa rappresentazione la ritroviamo invece nella sedicesima incisione, “Se aprovechan” (Se ne approfittano,), in cui vediamo gli esecutori all’opera sui cadaveri delle loro vittime, mentre li spogliano di ogni loro bene per impossessarsene; la crudeltà di questo atto moralmente inguardabile, viene enfatizzata dall’artista, mettendo in risalto la maniera in cui vengono malmenati i corpi dai soldati durante l’operazione. Goya rappresenta la foga e la violenza dell’atto in maniera impeccabile, rendendolo disgustoso ed intollerabile per lo spettatore. In guerra, si sa, non c’è mai abbondanza di viveri, soldati e 54
carità, quindi Goya decise di inserire alcune tavole dedicate proprio a questo particolare soggetto. La prima incisione che tratta questo tema è la ventesima, “Curarlos y a otra” (Medicarli e via di nuovo), in cui sono rappresentati gli ospedali da campo delle retrovie dove i soldati vengono “rattoppati”, per essere rigettati nel conflitto fino alla morte. Qui non si spreca nulla, il motto ricorrente in tempi di guerra è sempre stato “finché si muove può ancora combattere”, infatti il soldato in primo piano, menomato di un braccio, si affretta a tornare a combattere con gli arti rimanenti, sperando di strappare qualche altra vita prima di morire. Anche l’aria che si respira sembra soffocante, il protagonista monco del braccio in primo piano sembra quasi senza fiato, abbandonato al richiamo della morte che lo sta chiamando, sebbene i suoi compagni tentino di strapparlo via alle sue grinfie. Una situazione simile è raffigurata nella tavola ventiquattro, “Aùn podràn servir” (Potranno ancora servire), in cui sono i contadini a salvare i soldati spagnoli feriti, portandoli via e nascondendoli nelle loro case, per medicarli e rigettarli ancora sul campo proprio come nella precedente opera. In questa incisione, ancor più che nella prima, viene resa l’idea del riciclo umano del campo di battaglia, infatti nel gesto dei popolani non c’è carità, ma solo l’egoistico pensiero di rimettere in sesto i fantocci, per poter tirare a campare un po’ più a lungo. Ma alla fine la morte, a volte tanto dolce quanto crudele, arriva anche per i poveri “rattoppati”, che nella tavola ventisette, “Caridad” (Carità), ricevono il permesso di riposare in pace nel nero pece di una sozza fossa comune. È questa, dunque, l’unica carità che riceveranno, saranno seppelliti nudi insieme ad amici e nemici, senza alcuna distinzione. Si sa dopotutto che la morte, quando arriva, non guarda in faccia a nessuno, falcia indiscriminatamente le sue prede e miete le loro anime senza distinzione, che siano cristiani, spagnoli, francesi o di qualsiasi rango sociale, essa li prende con se senza pregiudizio, cancellandone ogni ricordo. Goya sottolinea questo aspetto tramite il chiaroscuro, mostrandoci quanto possa essere profonda ed oscura la fossa dell’oblio, la stessa in cui vengono precipitati i cadaveri inermi, che non 55
“Carità” F. Goya, acquaforte, lavis, bulino, puntasecca, brunitoio, 160 x 235 mm.
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ricevono nemmeno la grazia di essere adagiati nel terreno, ma vengono lanciati con immensa brutalità. Purtroppo la carità di ricevere una sepoltura non spetta a tutti, alcuni non lo meritano, come ci mostra l’artista nella ventottesima incisione, “Populacho” (Gentaglia). Il popolo prende in mano le redini ancora una volta e dall’alto della sua stoltezza decide di investirsi giudice e boia assieme, trascinando il cadavere di un soldato per le strade della città, mentre viene brutalmente preso a bastonate dalla folla. Goya ci mostra ancora una volta che spesso non serve immaginare fiere infernali per rappresentare la bestialità, ma è sufficiente ritrarre l’uomo nei suoi momenti di idiozia più sfrenata; una simile rabbia furiosa abbassa l’uomo al livello di un animale, anzi, ancora più in basso. Purtroppo per quanto possa essere matura una persona, la folla invece resterà sempre un animale stupido e pauroso in preda agli istinti più feroci ed ignobili. Quando la morte non è una punizione sufficiente in guerra si è sempre fatto ricorso alla tortura e Goya mostra questa nuova bestialità umana nella trentasettesima tavola della serie, “Esto es peor” (Questo è peggio). In primo piano veniamo subito colti dalla presenza di un cadavere mutilato ed impalato su un albero, morto anch’esso, poi lo sguardo passa oltre e ci porta a notare una sfilza di cadaveri destinati alla sorte del primo. L’espressione del corpo in primo piano è agghiacciante, sembra ancora urlare per il dolore dopo essere morto, ma il suo resta un urlo soffocato in gola, un grido che non vedrà mai la luce e la sua presenza scaccerà gli invasori, terrorizzandoli. Simili pratiche venivano attuate sia come monito, sia come divertimento, da alcuni soldati, che, resi bestie dal fervore della guerra in corso, si lasciano trasportare da piaceri crudeli e truculenti. Una tematica identica si riscontra nella trentanovesima incisione, “Grande hazaña! Con muertos!” (Gran bravura! Con dei morti!), nella quale un albero viene trasformato in una sanguinosa insegna; i cadaveri mutilati ed appesi sui suoi rami sono nuovamente un monito per i rivoltosi. Questo atto 57
“Straziante pietà!” F. Goya, acquaforte, lavis brunito, bulino, brunitoio, 155 x 205 mm.
“Infelie madre!” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, puntasecca, 155 x 205 mm.
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però mostra la codardia del carnefice, che ha atteso la morte delle sue vittime per mutilarle e continuare a riversare la sua furia su di loro, certo di non incorrere in alcuna reazione. Goya, intitolando l’opera con queste esclamazioni, vuole rendere ancora più evidente la vigliaccheria insita nel gesto e lo denuncia apertamente. Con queste atrocità si conclude una parte sostanziosa de “I disastri della guerra” dedicata alle bestialità commesse dai militari, mentre nella seconda si darà più importanza alle condizioni del popolo, costretto a subire la guerra. La seconda parte dei Disastri si apre con scene riguardanti le conseguenze del conflitto, ovvero povertà, disagi e dolore. Una delle incisioni che rappresenta al meglio la situazione di povertà sofferta dal popolo, soprattutto durante il terribile “anno della fame”, è sicuramente la quarantottesima tavola intitolata “Cruel làstima!” (Straziante pietà!). Vi sono raffigurati i pochi sopravvissuti di una piccola famiglia: una madre che stringe il figlio che gli si è addormentato in grembo, cercando di non guardare quello che giace già morto a pochi passi da lei, mentre suo marito ridotto quasi ad uno scheletro espone il cappello, chiedendo l’elemosina in una solitaria landa desolata. Dinanzi a loro ci sono ancora i cadaveri degli altri familiari vinti dalla fame, immagine straziante e commovente che suscita un profondo sentimento di pietà. È proprio in questa parte dell’opera, infatti, che Goya mostra tutta la sua capacità di immedesimazione drammatica, come possiamo vedere anche nella cinquantesima incisione, “Madre infeliz!” (Madre infelice!). Tre uomini sono impegnati a portare via il cadavere di una donna appena accasciatasi al suolo, strappandola alla sua bambina piangente. L’abitudine degli uomini a vedere e vivere scene di immensa crudeltà a causa della guerra, li rende insensibili al desiderio della piccina di stare con la sua mamma, anche se essa è ormai solo un freddo cadavere. L’artista ha voluto enfatizzare il già grande potere drammatico dell’opera, immergendo questa piccola creatura innocente in uno scenario nero e oscuro come un baratro di dolore senza fine; guardando la scena sembra quasi di poter udire i singhiozzi della bambina, il cui volto è solcato dalle lacrime. 59
Altra disgrazia della guerra è l’egoismo. Le battaglie più cruente della storia del mondo sono state combattute per la volontà di uno o di un altro di possedere qualcosa che non gli appartiene, sacrificando alla sua immensa brama centinaia di migliaia di vite. La stessa cosa accade nella cinquantaquattresima tavola dei Disastri, “Clamores en vano” (Inutili lamenti). Un ufficiale francese, ricco e ben vestito, passa vicino ad un gruppo di scheletrici mendicanti, prossimi alla morte ed intenti ad attirarne l’attenzione con Inutili lamenti. La ricchezza però ha reso l’uomo insensibile alle disgrazie altrui, tanto che sembra quasi non sentire i loro flebili lamenti, quindi passa oltre, facendo finta di niente, ma il suo egoismo è solo una conseguenza della paura maturata nei confronti di situazioni spiacevoli e del pensiero di finirci coinvolto. Anche questa volta Goya sembra separare i due gruppi di persone, mettendo in luce il ricco ufficiale e lasciando invece i poveri moribondi ad annaspare all’ombra di una cascina. Nella sessantunesima incisione, “Si son del otro linaje” (Come se fossero di un’altra stirpe), viene trattato lo stesso tema, enfatizzandolo in maniera ancora maggiore: il mendicante tende la mano ai ricconi sulla destra, ma essi gli rivolgono solo amari sorrisi di scherno, come a voler dimostrare la loro superficialità, dettata solo dalle loro facoltose condizioni economiche. Goya punta spesso l’attenzione su questo divario sociale e lo denuncia in maniera sia critica che satirica, mostrando la grettezza umana in tutta la sua tracotanza. La sessantanovesima incisione, “Nada. Ello dirà” (Niente. Questo dirà) è senz’altro la più tetra, misteriosa e famosa della serie. In quest’ultima parte della serie Goya sembra avvicinarsi molto ai temi de “I Capricci” e a quelli che tratterà nelle “Follie”, riempiendo le sue incisioni di figure mostruose e terrificanti. In questa particolare opera è rappresentato un cadavere uscito dalla tomba per scrivere su un foglio la parola “Nada”, ovvero Niente; dietro il corpo secco e scheletrico spuntano 60
“Niente: questo dirà” F. Goya, acquaforte, acquatinta brunita, lavis, bulino, puntasecca, 155 x 200 mm.
“Niente: questo dirà” F. Goya, particolare.
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figure simili a demoni e fantasmi tornati a tormentarlo anche fuori dalla tomba, il tutto ovviamente inghiottito dall’oscurità. Al di là di ogni illusione, Goya vuole dirci che nell’aldilà non ci attende nulla, né inferno né paradiso, solo oblio. Nella prima versione della lastra era raffigurata sulla sinistra l’incarnazione della Giustizia, la quale illuminata da una luce divina leggeva da un libro e giudicava il morto con la sua bilancia, ma in seguito anche questa parte fu coperta con l’acquatinta e rimpiazzata da altre figure mostruose. Ma quel “Niente” probabilmente è riferito ai tanti disastri, alle perdite e al dolore causati senza alcun motivo dalla guerra. A concludere la serie troviamo tre incisioni di particolare bellezza: la prima è “Muriò la Verdad” (La Verità è morta). Una giovane donna, da cui emana una luce divina, giace al suolo e dietro di lei, nell’ombra, sua sorella (la Giustizia), piange, brandendo una bilancia. Un vescovo al centro della composizione ordina ai preti vicini di seppellire il cadavere della ragazza, mentre una folla si accalca per vedere la scena: fra questi si riconoscono alcuni dotti professori che rappresentano le Ideologie. La Guerra è stata la scintilla che ha scatenato la reazione violenta che ha ucciso la Verità. La seconda è “Si resuscitarà?” (E se resuscitasse?), diretta conseguenza della prima, dove troviamo la Verità semisepolta e ancora raggiante mentre viene coperta di altra terra e bastonata da demoni e mostri. Ma se nella prima incisione si poteva incolpare la Chiesa della tragica situazione, in questa immagine la colpevole è la politica, che brandisce ogni arma a sua disposizione, affinché la verità non torni mai in superficie. L’ultima tavola, “Esto es lo verdadero” (Il vero è questo), riassume la morale della serie e vediamo la Pace che abbraccia il Lavoro ed indica l’orizzonte prospero e luminoso. Questa metafora vuole insegnare che se l’uomo è dotato di ragione dovrebbe sfruttarla per costruire un futuro in nome della pace, dell’onestà e della solerzia; solo così il futuro sarà ricco di frutti e di ricchezze per tutta l’umanità. Quest’ultima incisione è strettamente legata alla prima della serie dal tema del futuro, infatti se nella prima c’era 62
“E se resuscitasse?” F. Goya, acquaforte, brunitoio, 175 x 220 mm.
“Il vero è questo” F. Goya, acquaforte, acquatinta, bulino, puntasecca, brunitoio, 175 x 220 mm.
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“La sepoltura della sardina�, 1812-19 F. Goya, tavola, 82,5 x 52 cm, Madrid, Museo de la Real Academia de San Fernando.
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un presagio di morte e devastazione, in questa troviamo un presagio ben più rassicurante, che promette prosperità e felicità a chiunque si sforzi di compiere un piccolo sforzo, per evitare di commettere le brutalità scatenate dalla terribile guerra appena passata, ricostruendo il mondo dalle ceneri di un disastro. Alla fine della guerra contro la Francia la Spagna fu afflitta da una nuova guerra civile, che vedeva schierati da una parte il re Ferdinando assieme alla Chiesa e dall’altra i rivoluzionari che desideravano una costituzione. Tutto questo portò nella nazione una ventata di caos e disordini pubblici che condusse Goya a vedere ancora una volta la brutalità delle persone riversarsi nelle strade. Fu così che nacquero le “Pinturas negras”, ovvero le Pitture nere, quattordici pitture a olio su muro (oggi tutte a Madrid, Museo del Prado) che l’artista eseguì nella “Quinta del sordo” (Casa del sordo), acquistata nel 1819 nei pressi di Madrid. Il clima di pericolo percepito da Goya si riversò inevitabilmente anche sul suo operato, sebbene non in maniera esplicita come accadeva nei Disastri, portandolo ad immaginare nuovi mostri e fiere demoniache. Nacque così “La sepoltura della sardina”, dipinto riguardante la fine del carnevale madrileno proprio durante il mercoledì delle ceneri. Qui sono rappresentate maschere di demoni e figure stregonesche impegnate in una sorta di sabba. Le danze e le maschere instillano terrore nell’animo di Goya, facendo presumere uno spiacevole epilogo degli eventi degli ultimi anni. Gli alberi sono neri e hanno le sembianze di nubi minacciose che convergono a coprire l’azzurro del cielo, soffocandolo fra le spente fronde, mentre una massa indistinta di persone con fattezze demoniache vengono rigurgitate dall’orizzonte in una danza infernale. Vessilli neri e nefasti, dipinti con volti mostruosi e simboli terrificanti, troneggiano sulla folla, mascherata di malvagità ed inganni di ogni sorta agli occhi dell’artista. Nello stesso periodo Goya dipinse il “Tribunale dell’Inquisizione”, con il quale denuncia il terrore diffuso dalla chiesa. I condannati erano costretti a confessare la loro eresia 65
durante un auto da fe (atto di fede), per potersi riconciliare con la chiesa. La pena per la mancata confessione era la scomunica ed il rogo. Nel dipinto si nota immediatamente la mole del pubblico durante i processi e l’espressione dei condannati, costretti a volte confessare peccati di cui non erano colpevoli, pur di scampare al rogo. In seguito a Goya fu commissionato un dipinto di carattere religioso dalle Escuelas Pias de San Anton, così realizzò “L’ultima comunione di san Giuseppe Calasanzio” nel 1819. L’opera, destinata a diventare uno dei più celebri quadri a sfondo religioso del XIX secolo, ritrae il santo mentre riceve l’ultima comunione prima di morire. In questo genere di dipinti si è soliti trovare angeli, la Vergine ed il Cristo, ma in questo dipinto mancano del tutto; solo il santo ha una piccola aureola illuminata da un fascio di luce che proviene probabilmente da una finestra. L’elemento divino, quindi, lascia spazio al calore umano dei bambini e dei frati raggruppati in preghiera, dandoci modo di comprendere che non tutte le manifestazioni umane sono guidate dall’inganno e dalla cupidigia. Oltre a questo Goya dona alle Scuole Pie una tavoletta con “Cristo nell’orto degli ulivi”, una scena particolare, l’unica in cui Gesù pensa di essere stato abbandonato dal padre. Molto probabilmente l’artista ha scelto questo soggetto perché egli stesso ha perso la fede in Dio e negli uomini, che oramai sono soltanto veicoli di malvagità e delirio. Un dipinto di immensa bellezza e tristezza è certamente “Il cane”, nel quale è ritratta la testa di un cane che fa capolino fra le dune, mentre sta sprofondando nelle sabbie mobili. La testa del cane occupa a malapena l’uno per cento di tutta la superfice del dipinto, lasciando il resto dello spazio solo ad una distesa di colore. Nessun pittore, prima di quest’immagine, aveva osato tanto, nessuna pittura era stata così innovativa ed unica. Vedere la testa della povera bestiola in cerca di aiuto senza ricevere risposta è un’immagine toccante, il colore fine a se stesso lascia spazio alla riflessione del fruitore dell’opera e lo mette in relazione con il profondo senso di solitudine del povero animale, condannato così ad una fine lenta ed 66
“Il cane”, 1820-23 F. Goya, olio su tela, 134 x 80 cm, Madrid, Museo del Prado.
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inesorabile. “Saturno” è sicuramente una delle opere più famosa della produzione di Francisco Goya. In questo dipinto più, che negli altri si capisce l’efficacia delle zone di colore e delle espressioni disperate sui volti delle figure mostruose. Saturno nel dipinto non è raffigurato secondo la tradizione mitologica, ma ha le sembianze di un gigante umanoide intento a divorare un figlio morso dopo morso. L’atmosfera buia, caratterizzata da un nero denso e senza spazio, rende la scena ancora più angosciante, accentuando la pazzia insita negli occhi del mostro. Il corpo sanguina copiosamente mentre viene divorato diversamente da tutte le precedenti versioni dello stesso soggetto, in cui i corpi erano interi e senza tracce di sangue. Ma la cornice nera è stretta, i soggetti entrano a malapena nella tela, rendendo la composizione claustrofobica e alienante. La mostruosità rappresentata in questo dipinto incarna infine tutte le forme di malignità umana rappresentate da Goya nell’arco della sua vita, come la stregoneria, le perversioni, l’ignoranza, la violenza e la crudeltà.
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“Saturno”, 1820-23 F. Goya, olio su tela, 164 x 83 cm, Madrid, Museo del Prado.
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BIBLIOGRAFIA
- Goya. Opera grafica, Arensi Flavio, Silvana Editoriale, Milano, 2006 - Goya, Rose-Marie e Rainer Hagen, Taschen, Milano, 2003 - Goya. I disastri della guerra, Paolo Leccaldano, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1975 - Storia dell’incisione moderna, Paolo Bellini, Minerva Italica, 1985
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Il lato oscuro di Francisco Goya
Francisco Goya, uno dei più grandi maestri dell’incisione e della pittura, ci ha narrato i disagi e le atrocità di un periodo storico flagellato da guerre e rivoluzioni. Dalla Rivoluzione del 1808 all’occupazione Napoleonica. L’artista ci ha trasmesso non solo una cronaca sociale di ciò che accadeva, ma anche una profonda introspezione del suo stesso animo in relazione a quegli avvenimenti, il suo “lato oscuro”. Con questa opera analizzerò le perturbazioni emotive e la grande sensibilità sociale che hanno spinto Goya a crare alcune delle sue opere più profonde e oniriche.
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