Direzione artistica e coordinamento ROSA FERRO Schede filmiche e dibattiti ROSA FERRO ANTON GIULIO MANCINO PATRIZIA ROSELLI
Didattica Creativa dell’Immagine & Animazione Sociale
Incontri preparatori e laboratori di verifica finale ROSA FERRO ANTON GIULIO MANCINO Organizzazione VALENTINA VISITILLI Collaboratori KHALED FUAD ALLAM JOLANDA SPAGNO LUCA D’ADDARIO ROBERTO BASILI GIANLUCA SCIANNAMEO Si ringrazia Claudio Gubitosi (Direttore artistico Giffoni Film Festival) Centro Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano Centro Espressioni Cinematografiche di Udine Vincenzo Martino (Cinema Royal) Antonio Belvedere (Cinema Ambasciatori) The Finnish Film Foundation (Finlandia) Napis - Sottotitoli elettronici - Roma Istituto Luce Medusa BIM Cinematografica Warner Bros – Bari Daniel Torkan Paolo Tempesta Imagic I registi Francesca Elia e Gian Paolo Cugno Tutti i dirigenti scolastici, i docenti, gli alunni e loro famiglie che hanno aderito alla Rassegna.
Il Nuovo Fantarca Via Ospedale Di Venere 36, Bari – Carbonara Tel. 080.9909447 – 080.4673486 – 338.7746218 nuovofantarca@virgilio.it
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Rassegna Internazionale di Cinema per la Scuola
Cinema ed educazione al futuro La prassi nonviolenta “So bene che il futuro non sarà quasi mai bello come una fiaba. Ma non è questo che conta. Intanto, bisogna che il bambino faccia provvista di ottimismo e di fiducia, per sfidare la vita. E poi, non trascuriamo il valore educativo dell'utopia. Se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista?” (G. Rodari, Grammatica della fantasia)
La terra vista dalla luna è il titolo di un mediometraggio realizzato nel 1966 da Pier Paolo Pasolini, in cui, attraverso le vicende ironiche di due poveracci, l'autore invita ad essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dagli schematismi e dai conformismi sociali. Un invito che ci sembra ancora attuale e necessario, essendo alto il livello di passività sociale e psicologica nei confronti di una realtà non sempre comprensibile. Pigrizia culturale, molto foraggiata da un sistema politico ed economico che si esprime essenzialmente attraverso i network televisivi e il mercato, ormai da anni così invasivi, potenti e persuasori. E allora, partendo dalla nostra esperienza quotidiana che ci fa conoscere bambini e ragazzi che hanno voglia di essere informati e hanno voglia di esprimere il loro punto di vista e di conoscerne altri, solo se vengono loro dati gli spazi adeguati, crediamo sia necessario a livello educativo far sorgere domande sul nostro mondo e provare a staccarsi dalla visioni quotidiane e scontate per cominciare a riflettere sul “possibile” prima ancora che sul “fattibile”. Scriveva lo storico Carlo Ginzburg: “occorre porsi come stranieri nel proprio paese perché lo stesso procedimento della conoscenza implica l'elemento della distanza per riuscire a vedere le cose. Se sono troppo vicine non le vediamo più”. Il cinema, attraverso la modalità stessa del “proiettare” le storie su uno schermo posto di fronte allo sguardo, crea la distanza giusta per facilitare la conoscenza, l'osservazione, lo straniamento, la riflessione, il confronto e quindi l'empatia. La Rassegna di quest'anno propone sedici titoli provenienti da vari paesi e vari contesti culturali, ma con un unico elemento in comune: la prassi nonviolenta, senza la quale, ne siamo convinti, la conoscenza rischia di rimanere un bell'esercizio mentale. Le storie, i film che vi proponiamo sono uno straordinario spaccato sulle innumerevoli possibilità che abbiamo come persone e come cittadini, di ripensare al presente e quindi al futuro. Benvenuti sulla luna...anzi sulla terra! Rosa Ferro Direttore artistico
La Terra vista dalla Luna mi fa pensare alle tante possibilità che abbiamo, come spettatori e come cittadini, di guardare al mondo da angolazioni diverse per verificare concretamente che ogni prospettiva, anche la più visionaria, ha una sua verità. Quando Pasolini scelse questo titolo per il suo film avvertiva drammaticamente l’omologazione culturale che portava la nostra società, assoggettata ai codici di un nuovo potere, a non immaginare più di tanto. Con gli sviluppi degli ultimi decenni (sviluppi ma non progressi, per usare ancora una volta il vocabolario del poeta di Casarsa) oggi ha ancora più senso provare a vedere “la terra dalla luna” perché quell’appiattimento culturale è più che mai in atto. La Rassegna del Nuovo Fantarca - con i film che propone, i temi che intende affrontare e le sessioni di approfondimento in cui si articola - è uno spazio prezioso grazie al quale i bambini e i ragazzi della nostra provincia oltre a vedere opere cinematografiche di indubbio valore artistico (e spesso, ahimè, fuori dai circuiti rigidi del mercato) potranno svolgere un sano esercizio di democrazia e di poesia. E allora il sostegno all’iniziativa da parte mia e dell’Ente che rappresento è un modo concreto per essere partecipi insieme ai ragazzi e agli adulti di un percorso culturale che, mettendo in gioco emozioni, creatività e intelligenze, contribuisca alla costruzione di un futuro migliore.
Vittorino Curci Assessore alla Cultura - Provincia di Bari
Il titolo suggestivo
della rassegna di quest’anno, La Terra vista dalla Luna, apre lo sguardo verso prospettive diverse, insolite o anche sconosciute. Cosa ci può essere ancora di sconosciuto nel nostro tempo in cui tutto è globalizzato e tecnologizzato? La conoscenza stessa. Quella conoscenza che non si accontenta di ciò che ci viene dato, ma ricerca, confronta, mette insieme i pezzi mancanti, scruta ciò che rimane nell’ombra. Mi riferisco alle mille sfumature dell’animo umano, ai tanti diritti non ancora riconosciuti, al rapporto tra democrazia e regimi, più o meno camuffati. Mi riferisco anche a culture, religioni, filosofie di vita che non fanno parte della nostra quotidianità, che non sono visibili nel grande show mediatico, ma la cui lettura non può essere affidata unicamente ai codici occidentali. Guardare la Terra dalla Luna significa sentirsi parte di un ecosistema che prevede codici e linguaggi differenti che necessitano di sguardi a lungo raggio e che siano coraggiosi, fiduciosi, sconfinati e prima di tutto tolleranti e nonviolenti per immaginare il futuro. La Rassegna del Nuovo Fantarca si muove fra queste coordinate pedagogiche, tutt’affatto teoriche, ma praticate concretamente, con sessioni preparatorie, dibattiti, incontri con gli autori, laboratori, schede di analisi critica e visione di film anche in lingua originale e proiettati esclusivamente in Italia nell’ambito di questa iniziativa, come un regalo prezioso per il pubblico barese. Sapere che siete sempre numerosi a partecipare a questa iniziativa è un conforto e una risposta a quanti fanno fatica a guardare la terra dalla luna. Buona visione a tutti voi!
Nicola Laforgia Assessore alle Culture - Città di Bari
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OLIVER TWIST di Roman Polanski
Repubblica Ceca, 2005
VAI E VIVRAI di Radu Mihalineau
Israele, 2006
RACCONTAMI UNA STORIA di Francesca Elia Italia, 2006 MIO PADRE, RUA ALGUEM 5555 di Egidio Eronico Brasile, 2006 IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA di B. Davaa Mongolia, 2006 SENZA DESTINO di Lajos Koltai
Ungheria, 2006
I FRATELLI GRIMM di Terry Gilliam
Gran Bretagna, 2006
LA ROSA BIANCA – SOPHIE SCHOLL di Mark Rothemund Germania, 2006 SALVATORE – QUESTA È LA VITA di Gian Paolo Cugno Italia, 2006 INNAMORARSI A MANHATTAN di Mark Levin USA, 2006 PARADISE NOW di Hany Abu Assad
Palestina, 2006
CURIOSO COME GEORGE di Matthew O'Callaghan USA, 2006 CRASH – CONTATTO FISICO di Paul Haggis Germania/USA, 2006 VALO di Kaija Jurikkala
Finlandia, 2006
VIAGGIO ALLA MECCA di Isamel Ferroukhi
Marocco, 2005
LA STELLA DI LAURA di P. de Ricker e T. Rothkirch Belgio, 2005
(in memoria della Shoah) - 6ª edizione in collaborazione con: CDEC – Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Milano), Centro Espressioni Cinematografiche di Udine BROKEN SILENCE: International Documentary Series di Andrei Wajda, Luis Puenzo, Pavel Chukhraj, Janos Szasz, Vojtech Jasnj NOTTE E NEBBIA di Alain Resnais MEMORIA di Ruggero Gabbai BINARIO 21 di Diego Pucciai
Incontri preparatori ai film Laboratori di educazione all’immagine Laboratori di educazione alla nonviolenza Corsi di formazione
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“Non sapeva dove stesse andando, ma prese la prima strada che gli capitò e iniziò a correre” Charles Dickens da Le avventure di Oliver Twist
Londra, XIX Sec. Il piccolo Oliver Twist scappa dall'istituto per giovani orfani gestito dal perfido Sig. Bumble e viene cooptato da un gruppo di ladruncoli di strada che fanno capo al vecchio Fagin. Durante una delle loro scorribande, il gruppetto di furfanti deruba il ricco signor Brownlow, e Oliver, che ha assistito sorpreso e innocente, viene arrestato mentre gli altri ragazzi riescono a farla franca. Tuttavia, quella che potrebbe essere una disgrazia, si rivela per il piccolo orfano una svolta felice perché dopo la testimonianza in suo favore resa dal libraio, il facoltoso Sig. Brownlow lo accoglie nella sua bella e confortevole casa. Ma i guai per il piccolo Oliver non finiscono qui.
Dickens, ieri I film nascono spesso da molte suggestioni che si intrecciano: lo spunto può provenire dalla realtà circostante, ma anche da altre discipline, come la letteratura, e anche – come in questo caso – dalla pittura. All’origine di questo film di ambientazione ottocentesca, oltre ai riferimenti ai giorni nostri, che meritano di essere presi in esame, c’è una doppia ispirazione. La prima è di tipo pittorico. Infatti la triste e oscura bellezza figurativa di questo Oliver Twist, che il regista Roman Polanski ha realizzato pensando ai suoi figli piccoli come spettatori ideali, comincia e finisce con alcune celebri illustrazioni di Gustave Dorè. Dorè, noto anche per aver illustrato la Divina Commedia di Dante Alighieri (particolarmente sconvolgenti sono le tavole realizzate per l’Inferno), nelle sue incisioni rappresentò sempre una Londra brutta, brulicante di persone, scura per il fumo denso e la pioggia, incattivita dalla fame e dalla vicinanza brutale di persone molto ricche e molto povere. Una Londra, per l’appunto, non molto dissimile da un Inferno in Terra. La seconda fonte d’ispirazione, quella cioè letteraria, ci suggerisce invece una domanda molto semplice. Perché un regista come Polanski, dopo essersi
Regia: Roman Polanski. Soggetto: tratto dall’omonimo romanzo di Charles Dickens. Sceneggiatura: Ronald Harwood. Fotografia: Pawel Edelman Montaggio: Hervé de Luze. Musica: Rachel Portman. Scenografia: Allan Starski. Costumi: Anna B. Sheppard. Interpreti: Ben Kingsley (Fagin), Barney Clark (Oliver Twist), Jamie Foreman (Bill Sykes), Leanne Rowe (Nancy), Lewis Chase (Charley Bates), Edward Hardwicke (il signor Brownlow), Jeremy Swift (il signor Bumble), Mark Strong (Toby Crackit), Frances Cuka (lasignora Bedwin), Chris Overton (Noah Claypole), Michael Heath (il signor Sowerberry), Gillian Hanna (la signora Sowerberry). Origine: Francia, Gran Bretagna, Italia, Repubblica Ceca, 2005. Durata: 120 min.
occupato dello sterminio degli ebrei durante il nazismo ne Il pianista, ha scelto di portare sullo schermo uno dei più importanti romanzi di Charles Dickens? Stiamo parlando di un romanzo scritto quasi due secoli prima. Dickens pubblicò Oliver Twist, tra il 1837 e il 1839. Lo pubblicò a puntate. L’opera, attraverso le vicende del bambino trovatello finito nelle grinfie di una banda di malviventi, era un atto di denuncia delle gravissime condizioni in cui vivevano i poveri in Inghilterra durante l’Età Vittoriana (il lungo regno della regina Vittoria ebbe inizio proprio nel 1837). Nel libro venivano condannati sia gli abusi che la violenza, specialmente nei confronti dei minori e delle persone meno abbienti, aumentati proprio in un’epoca in cui la Rivoluzione Industriale, la crescita tecnologica e l’idea di progresso avrebbero dovuto portare miglioramenti nella società. Eppure quello che lo scrittore descrive nel suo libro è un mondo cupo e infelice, dove la vita nella capitale londinese è persino più insopportabile di quella nelle campagne, dove il lavoro in fabbrica è terribile, dove i poveri vivono sempre peggio, e dove i bambini vengono sfruttati con la scusa di essere aiutati e avviati ad una professione. A questo proposito, vengono molto criticate dallo scrittore le opere di carità volute dai più ricchi che invece rendevano più tremenda l’infanzia dei bambini orfani come Oliver, il cui cognome Twist viene scelto a caso, proprio a indicare l’indifferenza che il signor Bumble nutre nei suoi confronti. Le “workhouse” (cioè case [house] di lavoro [work]), che dovevano dare assistenza ai poveri, ai malati e a tutti i bisognosi, grandi e
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piccoli, diventarono con la legge di assistenza ai poveri del 1934 dei luoghi di punizione, vere e proprie prigioni, dove i diritti umani e civili dei più sventurati venivano ogni giorno calpestati da soprintendenti senza scrupoli e senza coscienza. Fu proprio grazie alle opere di Dickens che questa realtà drammatica venne alla luce e conosciuta dai lettori dell’epoca. Ma, tornando alla domanda iniziale, perché questa situazione così lontana ha spinto il regista del film ad occuparsene? La prima risposta, immediata, è che la vita nelle “workhouse” non era bella affatto, esattamente come quella nei campi di lavoro, concentramento e sterminio nazisti sparsi in tutta l’Europa continentale durante la Seconda Guerra Mondiale. E Polanski, avendo vissuto sulla sua pelle la tragedia della Shoah, ha ritrovato nelle pagine di Dickens la stessa
ricchi persino più ricchi. Evidentemente il regista del film, partendo dal romanzo originale, ha ritenuto che quel modello di società assomiglia molto alla nostra, dove nuovamente l’entusiasmo per il progresso tecnologico (con i passi da gigante compiuti dalla microtecnologia, dall’elettronica e dall’informatica) sta trascurando e anzi aggravando il divario sociale, all’interno della stessa società o tra Stati e società diverse, dove ancora numerosissimi e scandalosi sono gli esempi di infanzia negata in tutto il mondo, dove il lavoro e lo sfruttamento dei bambini sono troppo diffusi per essere dimenticati, e dove la vita degli esseri umani conta molto poco, a causa della diffusione generalizzata della violenza, delle guerre, delle limitazioni della libertà personale e delle dittature.
Polanski, oggi
tremenda esperienza vissuta dagli ebrei perseguitati e sterminati oltre mezzo secolo fa dal regime hitleriano. Ma la ragione più importante da comprendere, circa l’interesse di questo regista assai sensibile al rapporto tra il Bene e il Male nella nostra società, risiede proprio nella contraddizione tra una società e una nazione, come quella inglese dell’Ottocento, convinte di andare verso il progresso e la felicità da esso derivata, e le reali condizioni disumane in cui versavano gli strati bassi di quella stessa società e di quella stessa nazione. Cosa comportò allora la Rivoluzione Industriale? La modernizzazione, l’aumento del lavoro e l’allargamento del benessere materiale di tutti? Piuttosto significò, per la gente povera, la riduzione dell’uomo ad una cosa senza dignità. Le fabbriche trasformarono gli individui in oggetti intercambiabili, in ingranaggi di una macchina produttiva senza sentimenti e senza pietà. I principi di carità e solidarietà sociale che ispiravano apparentemente istituzioni come le “workhouse” diventavano la facciata insincera, ed effettivamente malvagia, di una società dove sempre più alto era il muro che separava i ricchi dai poveri, con i poveri condannati ad essere ancora più poveri e i
Insomma, come si è visto, Polanski, rileggendo Dickens, ci parla soprattutto dell’oggi, ci ammonisce, ci vuole offrire argomenti di riflessione utili. Proviamo ad analizzarli uno per uno. Accanto alla paura, alle atmosfere sinistre che si percepiscono nel film sin dalla prima inquadratura, si nota la tendenza a rappresentare con ironia gli esseri più sordidi, violenti o brutali (pensiamo ai responsabili della workhouse, la gente delle strade, il ladro Fagin e l’assassino che alla fine si impicca da solo mentre la folla lo guarda attonito e il cane ulula). Sì, in fondo sono personaggi terribili ma anche assurdi, tanto da far persino ridere (Fagin in particolare è più buffo di chiunque, anche se è un vecchio avido e infido). Perché mai? L’autore di questo film assume nei confronti del Male un atteggiamento di distacco. Si rende cioè conto di come il Male sia qualcosa di complesso e sfuggente. Sa benissimo che il Bene non è soltanto il contrario del Male. Il Bene non può essere separato dal Male. Infatti i malvagi di questo film, specialmente quelli poveri, sono a loro volta vittime dei loro simili. Prendiamo ad esempio la giovane Nancy, che prima rapisce Oliver e poi sacrifica la propria vita per restituirgli la libertà e la felicità che lei non ha mai conosciuto. Prendiamo ancora ad esempio il cane Bullo, che appare inizialmente feroce e implacabile, ma poi rischia di essere ucciso dallo stesso padrone assassino, e perciò fugge e lo consegna alla giustizia. Delitto e castigo appaiono in questo film ugualmente ingiusti e disumani. Gli uomini non hanno il diritto di decidere della vita di altri uomini. La spirale malsana della violenza sembra accomunare in modo trasversale sia gli individui più abietti che le istituzioni cosiddette umanitarie, dove i bambini lavorano duramente e vengono malnutriti, e le istituzioni giudiziarie, dove chiunque potrebbe essere più facilmente condannato che essere riconosciuto innocente. Sono insomma, chi più chi meno tutti inconsapevoli vittime della stessa società spietata che rischia di travolgere anche il piccolo Oliver. La forza di Oliver, che incarna l’ideale dello scrittore Dickens: “non essere mai gretto, falso e crudele”, consiste nel riuscire a sopravvivere e a restare buono in un mondo che buono non è: questo bambino è un essere innocente e profondamente generoso, tanto generoso che alla fine non riesce ad essere contento della sorte dell’ex carceriere
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e ladro Fagin. Va a trovarlo in carcere e prova compassione per lui. Chi ha conosciuto torti e ha subito gravi ingiustizie o ha rischiato la vita ama la vita più di chiunque altro. E rispetta gli altri come persone, pur giudicando negativamente le azioni nefaste. Oliver è così. E il regista sta dalla sua parte. Perciò nel finale, il pensiero della forca che attende Fagin lo rattrista. La vista della folla che vuole vendetta, la stessa folla che lo aveva consegnato alla polizia per il puro gusto di vederlo punire, gli ispira una profonda tristezza. Oliver e il suo nuovo e generoso tutore anziano si lasciano alle spalle la città “oscura” (come la “selva oscura” di Dante), dove la sete di violenza appare ancora , la sete di vendetta a tutti i costi, non risparmia nessuno, e dove persino i peggiori malfattori si sentono investiti dell’assurdo diritto di punire i ricercati o infierire contro i presunti delinquenti, spesso innocenti come Oliver. Ecco cos’è la compassione. Il povero Oliver che ha conosciuto la fame e sta per approdare con profondo dispiacere al benessere si rende ormai abbastanza conto che buoni e cattivi lo possono essere tutti all’interno della società, nonostante le divisioni o la diseguale distribuzione della ricchezza. Ma è proprio grazie a lui, che il Male viene progressivamente sconfitto, lasciando il posto al Bene: mentre all’inizio sembrano tutti molto cattivi con Oliver, gradualmente un numero sempre maggiore di persone positive si avvicinano a lui e cercano di aiutarlo, anche se spesso sono persone ambigue, pieni cioè di luci e ombre. Insomma, Oliver trova sulla sua strada sempre più persone migliori, seppur faticosamente. E per sottolineare questo messaggio, il regista compie una modifica rispetto al romanzo originale: Oliver nel film non è un aristocratico, uno “nato bene”, bensì un figlio del popolo. Perché la sua bontà non deve apparire come il frutto dell’estrazione sociale alta ma della volontà di perseguire la propria strada, di sopravvivere in un mondo che non offre scampo, proprio come fece il regista che, all’età di Oliver, riuscì a scampare alle atrocità del nazismo. A questo punto non dimentichiamo comunque il monito che il regista ci lancia: sembra volerci infatti dire che il Bene, una volta divenuto “maggioritario”, appare ugualmente falso, pericoloso, massificato e inquietante. Ed è non soltanto lo specchio della Londra vittoriana brutta,
sporca e incattivita, esasperata dalla brutale contiguità tra ricchissimi e poverissimi e immersa nella caligine piovigginosa, ma anche quello del mondo attuale, dove le divisioni tra Paesi poveri e Paesi ricchi appaiono molto marcate. Come lo sono all’interno dello stesso Paese o della stessa città, dove le periferie degradate assomigliano molto spesso allo spazio urbano rappresentato da Polanski in Oliver Twist.
• In quale periodo storico e in che tipo di ambiente si muovono i personaggi del film? • Fra i vari personaggi conosciuti nel film, scegline tre che ti hanno particolarmente colpito. Descrivili e spiega cosa ti ha colpito di loro. Confronta poi il tuo lavoro con quello del resto della classe. • Avrai notato che rispetto ai personaggi, il regista cerca di non definire mai nettamente il positivo e il negativo. Come mai? Sei d’accordo o preferisci vedere chiaramente il Bene e il Male? In base a quanto visto nel film, che definizione dai tu del Bene e del Male? • Come giudichi il gruppo di ragazzini amici di Oliver e come consideri Fagin? Come mai alla fine del film, nonostante tutto, Oliver resta dispiaciuto della sorte a cui è destinato Fagin e desidera a tutti i costi rivederlo? • Se hai letto il romanzo di Dickens, quali elementi trovi in comune con il film e quali diversi? • Cosa ha a che vedere questo film ambientato nella Londra del 1800 con la nostra società?
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Figlio di Ryszard Liebling, polacco di discendenza ebraica e Bula Katz, cattolica di origini russe, Roman viene alla luce nell'agosto 1933, nella città di Parigi. Due anni prima dell'avvento della Seconda Guerra Mondiale, la famiglia Polanski emigra dalla Francia, a causa del crescente antisemitismo che sta incombendo nel Paese. Fa così ritorno in Polonia. Giunti a Cracovia, viene però rinchiusa dai nazisti nel ghetto di Varsavia; nel 1941, la madre di Roman, prelevata dalle SS e deportata ad Auschwitz, viene uccisa nel campo di sterminio. Aiutato dal padre, il piccolo di appena sette anni, riesce a fuggire dalla terribile area di concentramento situata nella capitale polacca. Nonostante le tremende angherie subite da parte dei soldati tedeschi – come quella di divertirsi ad usarlo come bersaglio e a guardarlo saltellare terrorizzato, per evitare i colpi – il bimbo riesce a scappare, rifugiandosi presso famiglie cattoliche. Tra le premurose cure di due genitori adottivi, Roman può finalmente iniziare una nuova vita: si sviluppa in lui una certa vena artistica, orientata verso il mondo del cinema. Il conflitto è ormai al suo epilogo e il giovane Polanski ritrova il tanto amato padre, sano e salvo. Dopo aver dichiarato al papà la sua predilezione per il cinema, questo ambizioso ragazzo, nel 1953, ottiene una parte nel primo film. A soli 22 anni debutta dietro la macchina da presa. Tra i suoi film più noti ricordiamo l’horror comico Per favore non mordermi sul collo e l’horror Rosemary’s Baby, che crea la moda dei film sulla possessione diabolica, come L’esorcista. Dalla nota tragedia shakespeariana trae una intensa versione di Macbeth. Seguono il giallo Chinatown con Jack Nicholson, candidato a 11 premi Oscar. Nel 2002 riceve invece l’Oscar come miglior regista per Il pianista, dove finalmente Polanski riesce a rievocare gli anni tragici dello sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. E per i suoi figli, Morgane e Elvis, decide di girare Oliver Twist.
Come mai ha deciso di fare “Oliver Twist”? Dov'è Roman Polanski in questo film? In realtà volevo realizzare un film adatto ad un pubblico giovane, e con giovane intendo dai 9 ai 99 anni, però non volevo cadere nella trappola di fare il solito film per giovani pieno di effetti speciali visivi e sonori. Volevo dare ai ragazzi qualcosa che li facesse pensare e, allo stesso tempo, potesse fare appello al loro cuore. Ovviamente, oggi è difficile fare questo tipo di film, quindi mi sono attenuto ad un grande classico, adattandolo senza modificarne l'ambientazione e senza metterci elementi come il sesso. Nel film, il vecchio usuraio dice al bambino: "Continua su questa strada e sarai un eroe dei nostri tempi". Si riferisce forse a qualche vero eroe dei nostri tempi? La cosa bella di Charles Dickens è che ogni riga del suo romanzo è carica di ironia. E la presenza di questa capacità la troviamo in tutti i suoi libri, in quanto lui era un cronista di tribunale ed aveva ascoltato molti di quei racconti. Tra l'altro,
Oliver Twist lo scrisse da giovane, aveva solo 25 anni. Le scenografie del film lasciano pensare un po' all'horror classico. Come per i personaggi, Dickens descrive minuziosamente anche gli ambienti, la Londra di quel periodo. Altro autore che mi viene in mente, più o meno dello stesso periodo, che descrive con estremo interesse i luoghi in cui si verificano le scene è Emile Zola. Comunque, per quanto riguarda il film, abbiamo cercato di dargli questo feeling romantico, ma senza renderlo troppo espressionista, e lo scenografo ha capito molto bene ciò che veniva descritto e come realizzarlo. C a ra t t e r i s t i c a e s s e n z i a l e d e l personaggio di Oliver è l'innocenza. L'innocenza, la bontà, sono sentimenti di cui oggi si parla poco, forse per questo l'hanno colpita? Questa era la parte più importante del film, per questo abbiamo impiegato molto tempo a scegliere il bambino che avrebbe potuto interpretare Oliver: non volevamo un volto angelico, ma un bambino che apparisse reale e la cui innocenza risultasse convincente. E la cosa più importante per me, appunto, era mostrare questo sentimento.
Lo scrittore inglese Charles Dickens (1812-1870), nato da modesta famiglia (i genitori erano ex domestici), passa l’infanzia tra continue peregrinazioni, vere e proprie fughe motivate dall’abitudine paterna di lasciar debiti dovunque. Nel 1824, a Londra, il padre finisce in carcere, e la famiglia lo segue, sistemandosi nell’ala riservata ai familiari dei condannati, secondo l’uso del tempo. Charles, secondo di sei fratelli, all’età di 12 anni deve lasciare la scuola e va a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, dove incolla etichette sulle scatole. Un’improvvisa eredità gli permette di riprendere gli studi. In seguito trova posto di scrivano in uno studio legale. A 18 anni entra nella redazione del The True Sune più tardi in quella del Morning Chronicle, e si afferma come resocontista parlamentare. Nel 1833 pubblica il primo racconto, anonimo e senza compenso. Poi ne escono altri, sui giornali per cui lavora, con lo pseudonimo di Boz. A 25 anni si sposa. Intanto, uno dopo l’altro, scrive i romanzi che rendono famoso il suo nome, tutti pubblicati in dispense mensili e poi raccolti in volume. Nel 1836-37 esce Il circolo Pickwick, imperniato su un signore di mezz’età, calvo e panciuto, ottimista e credulone, attorno a cui si raccolgono bizzarri personaggi impegnati a fare periodici rendiconti delle proprie avventure. Delle 400 copie iniziali si passa alle 40.000 dell’ultima dispensa, assicurando all’autore la fama e una rendita. Nel 1838 esce Oliver Twist; nel 1839 Nicholas Nickleby, ancora un romanzo di formazione come Oliver Twist; nel 1841 La bottega dell’antiquario, che ha come protagonista una bambina che morirà precocemente. Nello stesso anno lo scrittore parte per l’America, dove tiene un ciclo di conferenze. Nel 1842 è in Italia, con la famiglia. Tornato in patria, nel 1843 pubblica il primo dei racconti natalizi, La canzone di Natale, e nel 1850 il capolavoro, David Copperfield, d’ispirazione autobiografica. Intanto fonda una propria testata giornalistica, Household Words, e si batte per il risanamento dei quartieri degradati londinesi e per le condizioni dell’infanzia operaia. Riprende i viaggi per l’Europa, leggendo in pubblico brani del suo capolavoro riscuotendo molti consensi. Muore nella sua villa di Gadshill, a 58 anni ed è sepolto nell’Abbazia di Westminster.
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«Le braccia della madre si aprono sul figlio, le mani si aggrappano a lui. Allora, un lamento sfugge, si amplifica, si alza. Un grido insieme di rivolta e di felicità.» (Radu Mihaileanu, Alain Dugrand, Vai e vivrai)
Durante la carestia che colpì l’Africa a metà degli anni ’80, gli ebrei etiopi ebbero la possibilità di raggiungere Israele aiutati, tra gli altri, anche dal governo statunitense. Per sfuggire ad una morte certa, la madre di Schlomo fa passare il figlio nero e cristiano, per un bambino ebreo e orfano e, una volta giunto a Tel-Aviv, il bimbo viene adottato da una famiglia di origine francese che non conosce il suo passato. Accompagnato dal ricordo della madre, Schlomo dovrà convivere con la paura che il suo segreto venga rivelato.
Contraddizioni Vai e vivrai è un film fatto di contraddizioni. Non nel senso che si contraddice lungo l’asse del racconto. Al contrario, è un film estremamente coerente, perché riesce dal principio alla fine a far emergere il bisogno dei protagonisti di comunità, il bisogno di stare assieme pacificamente e con uguali opportunità per tutti. Le contraddizioni riguardano invece ciascun personaggio, a partire dal protagonista Schlomo, e in generale i rapporti tra i singoli personaggi. Queste contraddizioni, presenti all’interno di gruppi familiari, gruppi religiosi, gruppi linguistici e nazionali, sono in pratica lo specchio di una realtà umana e planetaria molto complessa. Il film, che nasce da un romanzo scritto dallo stesso regista assieme al romanziere di professione Alain Dugrand, vuole dunque farci affrontare il tema della civile convivenza senza però regalarci troppe illusioni. E lo fa mettendoci di fronte ai problemi
Regia: Radu Mihaileanu; Soggetto: Radu Mihaileanu; Sceneggiatura: Radu Mihaileanu, Alain Dugrand; Fotografia: Remy Chevrin; Montaggio:Ludo Troch; Musica:Armand Amar; Scenografia: Eytan Levy; Costumi: Rona Doron; Interpreti: Roschdy Zem (Yoram), Yael Abecassis (Yael), Roni Adar (Sarah), Mimi Abonesh Kabebe (Hana), Raymonde Abecassis (Suzy), Moshe Agazai (Scholomo bambino), Moshe Abebe (Schlomo adolescente), Sirak Sabahat (Schlomo adulto), Meskie Shibru Sivan (madre di Scholomo); Origine: Belgio/Israele; Anno di produzione: 2005; Durata:140 minuti.
concreti, anche a livello storico e culturale: ci fa cioè comprendere che questa convivenza deve essere messa alla prova. La prova sono le difficoltà materiali, le contraddizioni evidenti. E’ un film che, a scopo educativo, predilige i problemi effettivi più che le soluzioni facili e immediate. Proviamo a vedere più da vicino queste contraddizioni e a far luce sui problemi. Innanzitutto c’è il protagonista, Schlomo, che conosciamo in tre momenti diversi, tre età, che sono anche le tappe essenziali di una crescita e di una maturità: il bambino Schlomo si trova, benché molto piccolo, a dover scegliere la strada della sopravvivenza e rinunciare alle proprie radici (religiose, geografiche e soprattutto affettive, perché la partenza per Israele comporta il distacco definitivo e precoce dalla madre). Per un bambino l’allontanamento dalla madre (che resta una presenza viva, ma irraggiungibile), diventa un motivo di forte instabilità. Infatti il capitolo a lui dedicato termina quando, in seno alla famiglia che l’ha adottato, riprende a mangiare e dunque a comunicare, dopo un lungo periodo di silenzio scontroso e di testarda inappetenza. Prima contraddizione di Schlomo: è sopravvissuto, ma ha perso l’unica persona che gli restava di una famiglia distrutta: sua madre. Durante l’adolescenza, Schlomo vive la seconda contraddizione: ci sono persone che lo amano profondamente, come l’intera famiglia che l’ha accolto, e in primo luogo la madre adottiva Yael e la sorellastra Suzy, il suo anziano precettore e la ragazza che da sempre lo ama, Sara, eppure attorno a sé percepisce l’indifferenza, l’emarginazione, la tiepida tolleranza riservata dagli ebrei bianchi ai “falascha”, gli ebrei di colore provenienti dall’Etiopia. Per un ragazzo che si sta sforzando di
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accettare il nuovo ambiente in cui suo malgrado deve vivere, è una contraddizione che pesa e complica tutto. La terza contraddizione, che è forse la più importante, sopraggiunge quando diventa adulto: Schlomo è israeliano ma non ebreo. E non potrebbe essere cittadino dello Stato di Israele senza essere ebreo. Infatti fino a quel momento, quasi in lotta contro tutto e tutti, si è finto ebreo per tanto tempo. Certo, la contraddizione è relativa perché dentro di sé Schlomo ormai si sente ebreo. E si rende conto che non può continuare ancora a mentire sulla propria identità: deve assolutamente rivelare alle persone care, perché solo così potrà recuperare l’equilibrio perduto da bambino. Insomma, pur non essendo ebreo, la sua formazione spirituale, linguistica e culturale è ebraica. Questo non vuol dire che la nazionalità israeliana gli spetti, perché in principio, per necessità, ha mentito.
religiosa di ebreo, maturata nel corso del tempo. Questa sua apparente contraddizione è in fondo la stessa della madre adottiva Yael, che gli confesserà più tardi di non essere stata lei a volerlo adottare a tutti i costi, ma il marito. Eppure è lei che, istintivamente, ha stabilito con Schlomo il rapporto più profondo e duraturo. Mentre il marito non fa che litigare con il ragazzo. Se questa giovane donna, che prima non voleva un figlio adottivo ma ha finito per amarlo come un figlio suo, perché Schlomo non potrebbe aver diritto a sentirsi nel profondo un ebreo, migliore, più preparato e più tollerante di molti ebrei praticanti, come si evince dalla disputa dottrinale pubblica dove “sbaraglia” il concorrente e riceve l’applauso? Ma questa stessa contraddizione non riguarda l’intero Stato israeliano, nato dal bisogno di un popolo senza patria di
La Legge del Ritorno A stabilire la nazionalità israeliana vi sono due leggi: la prima detta la Legge del Ritorno del 1950, la seconda sulla nazionalità del 1952. La Legge del Ritorno stabilisce per la nazionalità criteri simili a quelli vigenti in altri paesi, ed è inoltre estesa a tutti coloro che al momento dell’indipendenza dello Stato di Israele (cioè nel 1948) vi risiedevano. Tale Legge del 1950, emendata nel 1970, dispone che chiunque nel mondo desideri emigrare in Israele diviene subito cittadino, ove sia in grado di dimostrare di essere ebreo. Per l’emendamento del 1970, è ebreo chi sia nato da madre ebrea o chi sia convertito al giudaismo e non pratichi un’altra religione. Come si può vedere, sebbene ebreo praticante, ufficialmente Schlomo non è davvero ebreo (a causa della menzogna iniziale), però nel profondo lo è diventato nel corso degli anni trascorsi nella sua nuova patria. Come sciogliere questa contraddizione, che non è più giuridica (essendo già stato riconosciuto come ebreo e israeliano da tutti), ma individuale, interiore, psicologica? Il primo passo per lui è aprirsi agli altri, a quelli di cui si fida, come il precettore, la madre adottiva e la moglie. Talvolta scopre che alcune di queste persone (il precettore etiope) lo hanno sempre saputo e per questo lo hanno protetto. Ma scopre anche che Yael o Sara meritavano di conoscere prima questo segreto, proprio perché la fiducia deve essere reciproca e non a senso unico.
La Terra Promessa Le contraddizioni di Schlomo, se si presta attenzione all’impostazione del film, si allargano a macchia d’olio all’intero mondo circostante. Non conta infatti se questo bambino sfortunato sia ebreo o abbia scelto di esserlo appena giunto in Israele. Conta piuttosto la sua coscienza
ritrovare uno spazio comune, soprattutto dopo l’eccidio di massa della Seconda Guerra Mondiale? Infatti, se quello della Terra di Israele (“Eretz Israel”) è un ideale di Terra Promessa, come vuole il precetto biblico che si lega allo spirito dell’Alleanza, come è concepibile la discriminazione verso gli ebrei etiopi, i “falashà”? E come è possibile essere tanto severi nell’accogliere come concittadini i neri d’Etiopia sottoponendoli a così rigidi esami d’ammissione o renderli oggetto di una così spietata diffidenza, in pratica al razzismo diffuso come quello presente in tutto l’Occidente nei confronti dei neri, fino a creare in loro stessi disagio e incertezza a livello personale circa l’identità autentica? Non dovrebbe proprio Israele essere la Terra Promessa, capace quindi di accogliere (come desiderano fare le persone più aperte che incontriamo nel film, da Yael al poliziotto) anziché escludere (come vorrebbe il padre conservatore di Sara), se si batte da decenni, spesso anche con strumenti impropri come le armi e la sopraffazione, per essere accettato come Stato laico dentro il mondo arabo-islamico? Schlomo e in genere i “falashà” fanno emergere questa forte contraddizione di un’intera nazione, nata sulle ceneri terribili della Shoah. Una contraddizione che può essere superata solo recuperando il significato profondo dei testi sacri come la Torah, che non può essere espressione di esclusione. Il significato profondo di una religione o di uno spirito
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autenticamente religioso riguarda l’inclusione, la compresenza e la “realtà di tutti”, come ci ha insegnato Aldo Capitini. Torah letteralmente significa “insegnamento” e, per estensione, “legge”. La Torah viene spesso menzionata per indicare l’intera Scrittura ebraica, e infatti questa parola indica propriamente i cinque libri biblici del Pentateuco (cioè Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio). Quando Schlomo parla ad una platea di ebrei praticanti, e interpreta la Torah dimostrando che l’identità dell’ebreo non può essere condizionata dal colore della pelle, ci fa capire come le peggiori forme di intolleranza religiose non nascono dai l i b r i s a c r i , m a d a u n a e r ra t a interpretazione. Quando si cerca a tutti i costi la violenza, è facile trovarla. Anche
Radu Mihaileanu, ebreo rumeno, è nato nel 1958 a Bucarest, è figlio di Morderai Buchman, giornalista ebreo e comunista, che dopo l’internamento e la fuga dai lager nazisti, cambia il nome in Ion Mihaileanu. Radu comincia a lavorare in teatro e nel 1980 fugge dalla dittatura di Ceausescu e dopo un soggiorno in Israele finisce con l’installarsi in Francia. Montatore e poi assistente alla regia (fra gli altri di Marco Ferreri), scrive e dirige il suo primo lungometraggio nel 1993, Trahir. I riconoscimenti internazionali arrivano con Train de vie (1998), candidato all’Oscar come miglior film straniero.
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nei libri sacri. Ma questo non vuol dire che ci sia davvero. Ciò che invece Vai e vivrai ci insegna è che l’unico valore è quello della nascita. Essere semplicemente nati, senza differenze di cultura, specie, religione, lingua o colore della pelle, significa essersi aggiunti a quel patrimonio globale che è la compresenza universale, e che per l’appunto comprende tutti, persino i vivi e i morti. Perché quando si fa parte di una cosa davvero più grande, nemmeno la morte può estinguerla. Si può solo aumentare di numero, con la nascita. E il dono di Schlomo è l’essere nato, non di essere etiope, ebreo o nero, di avere una o più madri (prima Kedane, poi Hana, poi ancora Yael). Così come gli spiega anche l’anziano precettore, che ha perso tutta la sua famiglia tragicamente, durante l’attraversamento del Sudan, ma che ha conservato la Torah e la volontà di dedicarsi al prossimo, quindi di considerare Schlomo come se fosse figlio suo. In nome di quel valore che è la compresenza.
• In che senso questo film offre allo spettatore una serie di contraddizioni? E come si riflettono, ad esempio, queste contraddizioni sul personaggio di Schlomo? • Che idea ti sei fatto, vedendo questo film, sui rapporti tra una religione come l’ebraismo e la vita delle persone all’interno di una nazione come Israele? • Come ti spieghi che il protagonista Schlomo sente alla fine il bisogno di rivelare il suo segreto, dopo essere riuscito per così tanto tempo a conservarlo? • Come reagiscono i diversi personaggi del film che vengono a conoscenza dell’inconfessabile segreto di Schlomo? • Che significato attribuisci alla sequenza finale in cui Schlomo, divenuto un medico, riabbraccia la donna che sembra essere sua madre? • Puoi spiegare il valore e il significato della parola “compresenza” in relazione a questo film?
storia della sua comunità e la sua storia personale. Lui ha perso tutta la famiglia sulla strada tra l'Etiopia e il Sudan. Era solo al mondo. Non ho mai pianto tanto come quella sera. Come mai la più grande avventura del Radu Mihaileanu ventesimo secolo non è conosciuta per nulla? Solo perché sono neri, poveri non possono raccontare la loro storia? Non sapevo ancora che avrei fatto un film ma sono rientrato a Parigi e ho letto tutto ciò che ho trovato sull'argomento e poi sono partito per Israele e lì ho deciso di girare Come è venuto a conoscenza della storia degli un film che fosse un ponte tra gli Etiopi e la loro storia meravigliosa ebrei etiopi e perché ha scelto di raccontarla in e il pubblico di tutto il mondo. Volevo rendere giustizia a questa un film? grande epopea sconosciuta. Quando nel 1999 il mio film, Train de vie ha aperto il festival di cinema ebraico di Los Angeles ho avuto Ci sono state difficoltà a girare in Israele? la fortuna di essere seduto a tavola accanto ad un Devo dire di no anche se io me le aspettavo perché il film attacca signore nero che mi ha detto di essere ebreo, etiope gli estremisti religiosi. Pensavo per esempio che il giorno in cui e israeliano. Avevo dei ricordi molto vaghi avremmo girato la scena della grande manifestazione degli etiopi dell'operazione Mosé degli anni '84-'85. Abbiamo passato tutta la notte insieme, mi ha raccontato la ebrei di fronte al rabbinato di Gerusalemme, un fatto storico
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accaduto in quel luogo, gli estremisti avrebbero tentato di interrompere le riprese e invece non è successo. Nessuno ha manifestato contro il film nonostante il tema sia molto delicato. Ho passato cinque anni in ricerche, documentandomi su Israele, ho incontrato tante persone, etiopi ed israeliani, e ho raccolto le loro testimonianze. Non puoi farti un'idea di ciò che accade in Israele unicamente leggendo i giornali o guardando la televisione, perché spesso tutto è rappresentato attraverso cliché, attraverso immagini semplicistiche del conflitto coi palestinesi che raccontano di Israele come una potenza militare forte che va nei territori per uccidere i bambini. Il mio intento non era quello di fare un film di propaganda, ma riportare la realtà di Israele trattando l'aspetto umano. La società israeliana, come tutte le società del resto, non ha un unico punto di vista, non sono tutti razzisti ed estremisti o tutti buoni e solidali. Ci sono opinioni diverse su ogni cosa, come in qualsiasi altra società, ma bisogna ammettere che la maggior parte degli israeliani ha accolto gli etiopi a braccia aperte, a parte una piccola minoranza come i rabbini ortodossi, secondo i quali le persone di colore non potevano essere ebree. Penso inoltre che israeliani e palestinesi siano entrambi vittime che non riescono ad uscire da questo conflitto nel quale, in realtà, non riescono più a riconoscere un nemico. Forse tutti abbiamo l'idea che Israele sia un popolo di destra e che i palestinesi siano tutti di sinistra, ma non dobbiamo dimenticare che prima della guerra del Libano gli israeliani erano di sinistra. Ci sono opinioni estremiste sia da un lato che dall'altro. Ho voluto che la famiglia che nel film accoglie Schlomo fosse di sinistra perché così potevo esplicitare, attraverso le figure del padre e della madre, il conflitto interno alla società israeliana tra chi vuole lasciare il paese per evitare che i propri figli diventino soldati e chi vuole restare per non lasciare il potere in mano ai falchi che vogliono la guerra. Nel suo film è presente con forza la figura della madre, che in questo caso non è una sola, ma sono tutte le donne che si prendono cura di volta in volta del piccolo Schlomo. Il mio desiderio voleva essere fare un film sulle madri. Vai e vivrai è un po' una versione etiope di E.T. : Schlomo guarda la luna e vuole tornare a casa. E' un film su quattro madri che salvano il loro bambino, e tra queste includo anche la fidanzata di Schlomo che nel momento in cui gli darà un figlio diventerà un po' anche sua madre. Per me è una metafora del mondo in cui viviamo: se guardiamo la mappa geopolitica del nostro mondo vediamo tanti posti in guerra, dove le donne non contano nulla. Schlomo è il nostro mondo, che ha bisogno di essere accudito e salvato dal cuore grande delle madri.
Come nei suoi precedenti film e anche in Vai e vivrai ritroviamo il tema dell'impostura, cioè della menzogna a fin di bene. Essenzialmente per due motivi. Il pubblico mi conosce col cognome Mihaileanu, ma in realtà il mio vero cognome è Buchman. Mio padre fu costretto a cambiarlo durante la guerra, per sfuggire ai campi nazisti. Io ho vissuto positivamente tutto questo, tuttavia persiste in me un conflitto tra queste due identità e in tutto quello che faccio c'è un punto di vista duplice: fuori sono Mihaileanu, ma dentro resto Buchman. Il secondo motivo èlegato al fatto che sono dovuto fuggire dalla Romania durante la dittatura di Ceausescu e mi sono rifugiato in Francia, ma lì mi considerano uno straniero perché ho l'accento rumeno, e d'altra parte in Romania mi dicono che sono francese perché ormai abito a Parigi e hoacquistato l'accento francese. Oggi la mia unica casa sono i miei bambini.
Sembra quasi che questo suo sentimento di "non appartenenza" le permetta di essere più internazionale quando racconta certe storie. Mi sono accorto di aver fatto film su storie specifiche, ma con un linguaggio universale. Questo forse è legato al fatto che al centro dei miei film c'è sempre il tema dell'identità che è specifico della cultura ebraica, ma al tempo stesso appartiene a molti di noi, a tutte quelle persone costrette ad abbandonare il proprio paese portando dentro tanta sofferenza, ma anche quell'umorismo essenziale per superare i momenti difficili. Viviamo in un mondo che ci bombarda di immagini, ma a me interessa raccontare una storia solo quando penso che sia veramente buona. Mi piace parlare di cose che mi stimolano e che mi portano a conoscere altre persone. Cosa vuol dire per lei oggi patria? Odio la parola patria perché mi ricorda troppe guerre, troppi morti in suo nome. La patria è una cosa astratta e io preferisco ragionare in termini di esseri umani. Non sono legato ad alcuna patria, ma alla Francia, a Parigi, dove ci sono tutte le persone che amo, all'Italia, dove mi sento a mio agio, all'Africa, dove sono entrato in contatto con tante persone che mi hanno toccato profondamente, e poi ancora al Sud America e all'Asia, anche se non le conosco moltissimo. Per me l'ideologia è una prigione, ed io preferisco tenere aperte porte e finestre, per arricchire ed essere arricchito dagli altri, in un continuo scambio.
11 Tu non sei piú vicina a Dio di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende benedette le mani. nascono chiare a te dal manto, luminoso contorno: io sono la rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta. Rainer Maria Rilke (Annunciazione dal Libro delle immagini)
Siamo alla vigilia delle festività natalizie. Ricky, dieci anni, frequenta la quinta elementare in un istituto privato e non mostra particolare interesse per il clima di festa perché ha intuito che qualcosa non va nel rapporto tra i suoi genitori. Nonostante i due facciano di tutto per non coinvolgerlo nella loro crisi, il bambino non può fare a meno di provare un profondo malessere, al punto di desiderare che il Natale passi più in fretta possibile. Un giorno, trovato in un’aula un computer acceso, ne approfitta per scrivere sulla tastiera un messaggio d’aiuto, sperando che possa giungere direttamente agli angeli del Paradiso. Poco tempo dopo, a bordo della sua moto rombante, giunge a scuola uno studente universitario di nome Gabriele, che guarda caso ha le sembianze del supereroe preferito di Ricky: Trashcrash, un personaggio di fantasia molto amato dai bambini. Il compito di Gabriele è quello di preparare i ragazzi alla comprensione del significato del Natale attraverso l'allestimento di uno spettacolo di pupazzi ispirato alle vicende della Natività. La recita e il supporto di Gabriele aiutano Ricky a capire qualcosa in più del rapporto fra i suoi genitori e a vedere il Natale e la sua famiglia con occhi diversi.
Spettatori o protagonisti?
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Il film si apre con scene in cui vediamo un bambino, Ricky, che gioca in un parco in compagnia di sua madre mentre viene ripreso con una telecamera (lo capiamo dall’immagine più sgranata rispetto a quella della pellicola). Subito dopo scopriamo che quelle immagini sono trasmesse da un televisore davanti al quale c‘è proprio il bambino Ricky, solo. Queste due sequenze con cui si apre il film raccontano molto del nostro protagonista: il fatto che Ricky sia solo mentre rivede le immagini piacevoli in compagnia dei suoi
Regia: Francesca Elia: Sceneggiatura: Francesca Elia, Paolo Lelli; Direttore di produzione: Mauro Venditti; Fotografia: Roberto de Nigris; Musiche: Franco Befani; Costumi: Stefania Corsetti; Montaggio: Roberto Martucci, Pietro Morona; Attori principali: Elenoire Casalegno (madre di Ricky); Simone Faucci (Ricky), Patrizio Colombo, Davide Gemmani, Liliana Oricchio Vallasciani, Antonella D’Arcangelo, Remo Masini, Andrea Mugnai, Tony Rucco; Produzione: Mauro Colombo e Firminio Pasquali; Origine: Italia; Anno: 2006; Durata: 84 minuti.
genitori ci dice che la felicità per lui è qualcosa che appartiene al passato ed è qualcosa di cui oggi è spettatore più che protagonista. La felicità di Ricky è talmente occasionale che vale la pena riprenderla e conservarla (con la telecamera in questo caso), che è poi l’unica maniera per non perderla definitivamente. Lo stato d’animo di Ricky raccontato in queste prime due sequenze viene rafforzato subito dopo dalle scene ambientate a scuola, in cui Ricky appare come un bambino un po’assente, poco partecipe, abbastanza annoiato anche dall’idea di prendere parte alla recita scolastica natalizia, che sente estranea e distante da ciò che sta vivendo. E’ come se ancora una volta Ricky avvertisse il rischio di subire gli eventi, senza avere diritto di parola: a casa subisce la crisi del rapporto fra i suoi genitori, a scuola subisce una recita sempre uguale a se stessa per la quale i ruoli sono scelti dall’insegnante. In nessuno dei due casi è Ricky a scegliere. E’ come se a suoi occhi si trattasse di due copioni da accettare così come sono, senza alcun coinvolgimento diretto da parte sua. E allora se le cose stanno così perché Ricky dovrebbe essere felice? E’ a questo punto che arriva la sua domanda di aiuto, affidata ad un computer e diretta al suo eroe preferito Trashcrash. Perché Ricky chiede aiuto a una creatura della fantasia e non a persone in carne e ossa come i suoi genitori? Semplicemente perché la “lingua” che parlano i suoi genitori è a lui incomprensibile! Ricky non riesce a capire intanto cosa sta succedendo fra i due, anche
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perché i suoi genitori cercano di non far arrivare a l b a m b i n o l e l o ro incomprensioni per evitargli una certa sofferenza ma in realtà il loro malessere arriva ugualmente a Ricky perché le emozioni, i corpi, gli sguardi a volte dicono molto di più delle parole. Questa incomprensione crea una forma di straniamento che in Ricky si traduce in silenzi e ricorso all’immaginazione. E’ come se non stando bene a casa sua, cercasse altri luoghi e altri personaggi con cui sentirsi a suo agio. In altri bambini questo straniamento può tradursi in modo diverso: maggiore aggressività, svogliatezza, autopunizione, ecc...Non è che Trashcrash dia a Ricky la felicità di cui ha bisogno ma sicuramente gli fa compagnia, con lui può parlare, comunicare limitando così la sua solitudine. Ma se Ricky, da solo, capisce che fra i suoi genitori ci sono dei problemi allora perché non se ne parla in famiglia? A che serve nasconderli? La madre dice che non parlarne a Ricky, quindi non coinvolgerlo, significa evitargli la sofferenza. In realtà questo è un gioco di finta, è una specie di recita nella recita quella dei suoi genitori. Allora tanto vale, parlarne con il bambino. Comunicare le proprie paure, le proprie difficoltà non è un atto di debolezza ma al contrario è un atto di coraggio e di rispetto nei confronti di ogni componente della famiglia. Ecco quello che manca nella famiglia di Ricky è questo atto di coraggio, il dirsi la verità, il comunicarsi a vicenda il malessere che si sta provando e quindi i desideri di felicità. E’ troppo semplice nascondersi dietro delle maschere, dei ruoli. E’ come essere degli attori a vita. E’ come se i genitori di Ricky vestissero i panni di personaggi che recitano un copione uguale a se stesso. Il che vuol dire essere spettatori della propria vita! E dove sono finiti i protagonisti?
L’ Annunciazione di una nuova maternità. Il film è solo apparentemente incentrato sulla festività del Natale, in realtà punta molto su un evento che precede di nove mesi la nascita di Gesù e cioè l’Annunciazione. La visita dell’Arcangelo Gabriele, come si legge in San Luca, che annuncia a Maria (o Miriam, secondo la tradizione ebraica) l’essere stata scelta Madre del figlio di Dio è un passaggio importante nella storia del film. Infatti il giovane Gabriele, che è visto inizialmente da Ricky, come la copia perfetta del suo supereroe Trashcrash alla fine si scopre che potrebbe essere l’Arcangelo Gabriele della preziosa pala d’altare custodita a scuola, per via di quel bracciale che Ricky regala a Gabriele e che quasi per magia appare al polso del Gabriele dipinto nella pala. Cosa vuol dire tutto questo? E’ solo un simpatico gioco di richiami che la regista si è divertita a disseminare nel film? Potrebbe anche essere ma, volendo andare un po’ oltre possiamo
notare che il personaggio dell’animatore Gabriele, nella fantasia di Ricky, tiene insieme due mondi decisamente molto lontani: quello dei supereroi e quello delle sacre scritture. Da una parte un mondo in cui prevalgono i muscoli, la forza fisica, i mezzi tecnologici, i nomi all’americana, l’aspetto aggressivo e dall’altra un mondo in cui prevale la delicatezza, l’attesa, la forza dell’animo e della parola. Il primo mondo, quello dei supereroi serve a Ricky per darsi quell’energia fisica per rompere la gabbia in cui vive psicologicamente con la sua famiglia (a questo proposito da notare la postura fisica, il modo di parlare di Ricky nella prima parte del film). Il secondo mondo gli serve per imparare a porsi domande, ad andare con più fiducia verso gli altri, ad avere speranza. Dalla recita di Natale, così come la presenta e la sviluppa Gabriele, è come se Ricky rinascesse accompagnato da una visione diversa dei suoi genitori. A tal proposito è efficace la scena finale in cui Ricky sbircia attraverso il sipario del teatro e scopre in platea i suoi genitori finalmente insieme e sorridenti.
Beniamino che dorme La figura del pastorello Beniamino è stata recuperata dalla regista nell’ antica tradizione partenopea dei presepi. Una figura sempre presente che rappresenta colui che durante l’evento più importante dell’umanità, la nascita di Gesù, dorme beatamente e non si accorge di nulla. Quindi la messa in scena di Gabriele punta sul farsi domande e sul risveglio di sé. Se abbiamo un atteggiamento di dormienti nella nostra vita sarà difficile che riusciremo a vedere e a vivere a pieno certi eventi e comunque, restando sul tema della natalità, ogni bambino che nasce è un evento straordinario che meriterebbe tutta l’attenzione del mondo, perché in quanto essere umano è prezioso e nessuna vita può essere trascurata o ignorata. Questo riguarda, ancora una volta, anche lo stato d’animo di Ricky del cui malessere a casa nessuno si accorge perché i suoi genitori sono troppo presi da se stessi. Se siamo troppo concentrati su di noi e non riusciamo ad entrare in empatia con chi ci sta accanto, diventiamo un po’ ciechi con il rischio di lasciarci
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Appunti di viaggio prendere ed imbrogliare da personaggi oscuri ma
eleganti come l’Emissario presente nel film che è una specie di “demonio”. Spiega la regista “Il demonio di Raccontami una storia è stato trattato in maniera apparentemente leggera, come una sorta di emissario “commerciale” che offre il benessere materiale in cambio dell’innocenza”. Quanta parte di umanità giace nella posizione di dormiente? Quanti Ricky produce questa parte di umanità? La messinscena di Gabriele accende un faro sulla solitudine del bambino e la fa contaminare dal gruppo, dalle energie positive di quest’ultimo. Un gruppo che riesce a far ballare piccoli e grandi, perché le emozioni e le domande importanti sulla vita riguardano tutti, bambini e adulti, poveri e ricchi.
Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Firenze in Scenografia, Francesca Elia ha esordito professionalmente come scenografa e costumista. A teatro ha lavorato, tra l’altro, ne La Clizia di Machiavelli e ne Il Girifalco dell’Harem per la regia di Giorgio Albertazzi. Come assistente costumista ha lavorato per i film Caino e Caino, Cari fottutissimi amici, E adesso sesso, Andata e ritorno, Memoria imperfetta. Come sceneggiatrice ha firmato L’amore non è un osso, Il linguaggio dell’amore. E’ inoltre autrice di soggetti per lungometraggi come Domani? Sarà un altro giorno!, Ali di farfalla, Le quattro stagioni della vita, Quando si dice l’amore!, Il volo della poiana, Il piacere dell’essere – I want a hero, i miei ragazzi, storia di ragazzi che combatterono la Prima guerra mondiale. Ha inoltre insegnato Arti Figurative presso la Scuola Elem. San Giovanni Battista di Firenze, ha realizzato i costumi per Compagnie di Attori Indipendenti. Come regista ha diretto Un caso particolare, cortometraggio che affronta il tragico e scottante tema della pedofilia, premiato al terzo Festival Internazionale Cortometraggi Melescorto 2002. Raccontami una storia segna il suo debutto di regista di lungometraggi. Il film è stato realizzato con il finanziamento del Ministero dei Beni Culturali che lo ha classificato come Film d’interesse culturale nazionale.
“L’idea del film nasce da una necessità: non sono per niente soddisfatta dei film per bambini e famiglie che da anni girano nelle sale cinematografiche italiane, specie nel periodo natalizio. Intanto sono tutti film stranieri, per lo più americani che quindi non sono consoni alla nostra tradizione e che, prendendo a pretesto il Natale, propongono trame spesso insulse. Io sentivo il bisogno di raccontare una storia , che attraverso il genere fantastico, fosse in grado di proporre il significato più autentico della ricorrenza: l’avvento dell’amore vero sulla Terra, rappresentato attraverso la nascita di Gesù.”
• Scegli tre sequenze del film che ti hanno particolarmente colpito. Descrivile o disegnale. Cosa rappresentano? Cosa raccontano di Ricky? Quelle tre scene contengono qualcosa che riguarda anche te? Confronta il tuo lavoro con quello del resto della classe. • Fai un ritratto di Ricky. Come appare nelle prime sequenze del film, come parla, cosa fa durante la giornata, dove vive, ecc...Disegna poi su un foglio una specie di sole al centro del quale scrivi il nome di Ricky. Ogni raggio rappresenta le persone con cui lui viene in relazione. Le relazioni positive colorale in rosso, quelle negative in nero e quelle incerte in grigio. Quale situazione ne emerge? Fai lo stesso gioco scrivendo al centro del sole il tuo nome e quindi colorando le tue relazioni. • Quale espediente usa Ricky per chiedere aiuto? Tu solitamente che modalità usi? Funziona? • Cosa rappresenta il personaggio di Gabriele? • Cosa rappresenta il personaggio dell’Emissario? E quello del Beniamino dormiente? • Cosa significato dà Ricky al Natale, all’inizio del film? Cosa impara dal lavoro fatto con Gabriele? E per te cosa rappresenta il Natale? • In che modo Ricky aiuta suo padre e sua madre per tornare a stare meglio? • Confronta il Ricky conosciuto all’inizio del film con quello che vediamo in chiusura della storia. Ci sono delle differenze? Prova a descriverle o a disegnarle indicando anche con una parola qual è stato il passaggio che ha prodotto il cambiamento. • Dopo aver visto il film, su un foglio scrivi le prime tre parole che ti vengono in mente a proposito della famiglia. Confronta poi il tuo lavoro con quello del resto della classe, mettendo in evidenza elementi in comune e differenze. • Cosa ha a che fare il Natale con l’idea di famiglia che hai espresso? • Nel film si parla di una preziosa pala antica che riporta la scena dell’Annunciazione. L’Annunciazione è stata dipinta nel corso della Storia molte volte cambiando prospettive, piani, colori a seconda del periodo storico in cui veniva concepita. Potrebbe essere interessante, con il supporto del professore di artistica, fare una ricerca su questo per capirne ad esempio cosa ha rappresentato l’Annunciazione nelle varie epoche. Prova tu a disegnare la tua idea di Annunciazione e magari potreste fare una bella mostra a scuola.......
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Brasile, 1977. Hermann, tedesco, 35 anni, decide di andare a cercare suo padre, che non ha mai conosciuto, nella baraccopoli di Belem, città brasiliana, dove questi pare si sia rifugiato. Il desiderio di Hermann è più che altro quello di guardare in faccia un uomo che è sì suo padre, ma un padre molto, troppo scomodo trattandosi del Signor Josef Mengele, criminale nazista, meglio noto come l’Angelo della morte. Hermann riesce a trovare la baracca in cui l’anziano padre vive, e apre con lui un confronto duro, aperto, difficile attraverso il quale il figlio vuole scoprire altre verità oltre quelle raccontate nei libri di Storia ma anche liberarsi di colpe che lo perseguitano da quando è nato e che lui non ha, se non la “colpa” di essere figlio di un mostro nazista. Ma, inaspettatamente Hermann trova davanti a se un uomo rigido, lucido, per niente pentito e abbastanza convinto di aver fatto solamente il proprio “dovere”. Nel frattempo fuori dall’albergo in cui alloggia Hermann, una folla inferocita di ebrei e sopravvissuti ai campi nazisti chiedono giustizia.
Una scomoda eredità Da bambino Hermann ha sempre saputo che suo padre era disperso in Russia e la sua figura l’ha conosciuta solamente attraverso i ricordi accorati della famiglia. Poi a quindici anni scopre la tragica verità. Nel film non lo si sente mai chiamare per nome, ma tutti sanno di chi si sta parlando. La cosa vale per lui, il padre, così come vale per il figlio e per altri componenti della famiglia. C'è una scena, in particolare, che riguarda proprio il figlio: lo si vede da bambino sui banchi di scuola, dove nessuno osa pronunciare quel cognome. Il cognome del padre. Ma una inquadratura successiva
Regia: Egidio Eronico; Sceneggiatura: Egidio Eronico, Antonella Grassi Fabio Carpi, Peter Schneider; Soggetto: Egidio Eronico Antonella Grassi Fabio Carpi Peter Schneider; Montaggio: Raimondo Aiello; Fotografia: János Kende; Scenografia: Ettore Guerrieri; Costumi: Maria Beatriz Salgado; Musica: Riccardo Giagni; Personaggi e interpreti principali: Charlton Heston, Thomas Kretschmann, F. Murray Abraham Camillo Bevilacqua Thomas Heinze RoberT; Origine:Italia / Brasile / Ungheria; Anno di produzione:2006; Durata: 100 min.
mostra il dito di un insegnante, che scorre sul registro di classe, fino a sfiorare un cognome, di cui si intravedono poche lettere che compongono la parola “Mengele”. Sì, proprio Mengele. Come deve essersi sentito il giovane Hermann quando ha scoperto chi è davvero suo padre e come poteva sostenere il peso di quel cognome divenuto sinonimo delle atrocità e delle infamie senza limiti, compiute da costui nei lager nazisti? Come ci si deve sentire a crescere in un ambiente familiare dove per anni tutti sembrano adoperarsi a ricordare ossequiosamente la figura del padre assente e a proteggerne la latitanza con la loro omertà? Si può sopportare il peso di un'eredità così scomoda senza venire meno alla propria integrità morale? Il film di Egidio Eronico cerca di dare delle risposte scavando nel profondo dell’animo del giovane Hermann partendo da un libro “Papà” scritto dal tedesco Peter Schneider che si è occupato della famiglia Mengele per diversi anni e ha registrato varie interviste al figlio di Mengele, che nella vita si chiama Rolf, soprattutto in riferimento al loro incontro avvenuto nel 1977. Mengele è colui che fece dell'igiene razziale la sua unica ragione di vita e la ragione della morte di molti. Certezze e convinzioni che riuscì a concretizzare come medico delle SS ad Auschwitz. Tra il 1943 e il 1945 fu responsabile della morte di centinaia di migliaia di persone da lui "selezionate" a scopi scientifici, soprattutto gemelli, nani e donne incinte. Entrato in clandestinità alla fine della guerra, nel 1949 lasciò la Germania e fuggì in America Latina (Argentina, Paraguay e Brasile, dove morì in circostanze mai definitivamente chiarite nel 1979). Il film non
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racconta la vita di Mengele, salvo evocarlo attraverso gli incubi del figlio e pochi ma sufficienti fotogrammi in bianco/nero. E’ piuttosto il racconto dell’incontro/scontro generazionale tra due epoche tedesche: quella della follia di Stato rappresentata dal nazismo e quella del rimorso rappresentata dalle generazioni nate dopo la fine del nazismo. Il risultato è un incontro/scontro a somma zero perché Eronico conduce tutto il film evitando di dire chi ha ragione e chi ha torto ma usando l’approccio più difficile e cioè quello di mostrare le infinite contraddizioni dell’animo umano. Quelle contraddizioni che possono mettere in crisi le nostre coscienze, facendoci fare cose diverse da quelle che desideriamo o che consideriamo eticamente ingiuste. E così, nonostante Hermann fosse partito alla ricerca del padre mostro per restituirlo finalmente alla giustizia, per liberarsi del proprio senso di colpa e per venire incontro alle richieste di Paul Minski, avvocato del gruppo di superstiti alle strage di Auschwitz, alla fine Hermann fa il contrario di ciò che si era proposto. Hermann infatti non restituisce suo padre alla giustizia, sarebbe stata anche una forma di comprensibile vendetta personale considerata tutta la sofferenza che ha provato da bambino a causa di quel padre. Hermann lo lascia al proprio destino, prendendosi tutta l’ira violenta del gruppo di ebrei che lo aspettano fuori dall’albergo e che ha letto nella scelta di Hermann una forma di collaborazione, di complicità con suo padre. Perché Hermann rinuncia a condannarlo definitivamente? Forse semplicemente perché è suo padre? Forse perché Mengele è ormai un vecchio signore pieno di acciacchi e non è più capace di fare del male? Il film non dà risposte chiare a queste domande, ma è certo che il regista abbia voluto porre la coscienza del figlio, avvocato e cittadino Hermann, di fronte ad un uomo fiero di sé, ancora convinto della bontà e dell’utilità scientifica dei suoi esperimenti, come se tutto fosse stato normale, terribilmente normale. Di fronte a questa “normalità” Hermann scappa e non sa più da che parte stare. Una soluzione narrativa che probabilmente lascia spiazzato il pubblico che avrebbe voluto un finale in cui il Bene avesse vinto sul Male, un finale in cui il Mostro fosse stato definitivamente eliminato, così anche noi (come pubblico) ne usciamo più rassicurati e convinti che il Male sia stato sconfitto. Ma forse il Male non può essere circoscritto a un periodo storico o a un uomo, è semmai una comodità che non possiamo permetterci.
La banalità del male Il regista non ha voluto quindi fare un film per ricordarci quanto è stato mostruoso il personaggio di Mengele, ma quanto “il mostro” non sia una persona così diversa, diabolica e facilmente identificabile. Il mostro è anche la nostra incapacità ad assumerci precise responsabilità, specie in determinati contesti .“Il Mostro – scrisse la filosofa Hannah Arendt parlando dei nazisti - è una persona
terribilmente normale e di conseguenza il Male stesso appare banale ma proprio per questo ancora più terribile: perché i suoi, più o meno consapevoli, servitori, altro non sono che dei piccoli, grigi burocrati simili in tutto e per tutto al nostro vicino di casa. E’ inutile e pericoloso, aspettarsi dei “demoni”: i macellai del nostro secolo sono tra noi, in tutto simili a noi.” E infatti ciò che colpisce Hermann è vedere quel signore di mezza età non fare altro che prodigarsi in favore degli abitanti di una favelas ai margini della metropoli brasiliana, in cui è amato e protetto. A nessuna delle famiglie che abitano in Rua Alguem verrebbe da pensare che dietro alle spoglie di quel mite signore si cela uno dei più sanguinari stragisti del Terzo Reich. Josef Mengele si mostra al figlio come un enigma vivente. Come far coincidere l'immagine di un vecchietto arzillo, che scherza amabilmente guardando i
film di Charlie Chaplin insieme ai bambini delle favelas, con quella dell'aguzzino che ad Auschwitz seviziava gemelli e donne incinte per scopi, a suo dire scientifici? L'agghiacciante serenità con cui l'uomo, a distanza di anni dai suoi crimini, continua a difendere certe teorie evoluzionistiche riferite con leggerezza e cinismo all'umanità fa rabbrividire. L’importanza del film, secondo lo storico Marcello Pezzetti, «è quella di mostrare che dietro un personaggio circondato per anni da un’aura di grandezza negativa, c’è in realtà un piccolo uomo, inviato ad Auschwitz dal «Kaiser Wilhelm Institut» dove lavorava col sostegno dell’industria farmaceutica tedesca. Ma le sue crudeltà e i suoi cosiddetti esperimenti sull’ereditarietà, oltre a fare centinaia di vittime e a provocare immensi dolori, non potevano servire a nulla, perché non era stato ancora scoperto il dna. Mengele è stato aiutato da un incredibile catena di complicità, da quella della società tedesca a quella del Vaticano, fino a quella del governo brasiliano e dello stesso figlio che, dopo averlo
incontrato non lo ha denunciato. Pare che il servizio segreto israeliano fosse riuscito a individuare Mengele in America Latina grazie a una sua agente che ne diventò l’amante segnalandone i movimenti. Mengele, accortosi della trappola, l’avrebbe uccisa pochi anni prima di annegare in mare.” Parlando dei nazisti e di come abbia potuto realizzarsi la soluzione finale degli ebrei, lo psichiatra Bruno Bettelheim ha trovato la sua spiegazione nella nostra incapacità a comprendere appieno come l’organizzazione sociale e la tecnologia moderna, nelle mani del totalitarismo, possano conferire ad un uomo mediocre, normale il potere di svolgere ruoli così decisivi nello sterminio di milioni di ebrei. E’ la stessa cosa che ha sostenuto Hanna Arendt che pur riconoscendo ai nazisti tutta la responsabilità delle loro terribile azioni, ritiene comunque che in un sistema totalitario l’uomo diventa un ingranaggio nella complessa macchina della gestione del potere. E questo non significa ridurre le responsabilità di un uomo come Mengele ma puntare l’attenzione più che sui singoli uomini, sull’intero sistema di potere per riconoscerlo e combatterlo. E se Mengele ha fatto cose disumane, le ha potuto fare perchè circondato da una
serie di persone compresi alcuni illustri professori medici della Germania del tempo che davano la loro approvazione ufficiale agli esperimenti di Mengele, come si capisce dal testo riportato nel paragrafo “Un ottimo ufficiale...” qui riportato. Allora non deve stupire che Hermann si trovi di fronte non una persona cattiva, psicopatica ma un signore dolce e amato dai vicini. E non deve neanche stupirci il fatto che Hermann rinunci a denunciarlo. Al di là di ogni nostro giudizio morale sui personaggi, l’invito che il film ci rivolge è quello di considerare quanto i sistemi politici ed economici in cui viviamo possano indurci facilmente ad accettare le regole da loro imposte, perché ognuno ha poi un suo interesse e tornaconto e quanto più mediocri siamo noi come persone tanto più facile sarà per noi lasciarci coinvolgere. Quando si accettano le regole del potere diventa più difficile criticarlo e restarne fuori. E questo vale anche per l’oggi, non solo per il passato.
Chi era Josef Mengele Josef Mengele nacque il 16 marzo 1911 a Günzburg. Sin da giovanissimo, nel 1927, aderì alla Lega Pangermanica della Gioventù e nel 1931 alle formazioni giovanili dello "Stalhelm" l'organizzazione revanscista tedesca. Dal 1930 aveva deciso di studiare medicina ed aveva iniziato gli studi a Monaco proseguendoli a Monaco e a Vienna. Si laureò nel 1935 con una strana tesi dal titolo "Ricerca morfologico-razziale sul settore anteriore della mandibola in quattro gruppi di razze". Il suo relatore, il professor Mollison, era un antropologo convinto della disparità tra le razze. Ad Auschwitz Mengele per prima cosa si circondò di una équipe di medici prigionieri che lo aiutassero nel suo lavoro. Scovò nel campo circa 15 dottori provenienti da tutta Europa, infermieri professionali ed una disegnatrice con il compito di fare ritratti dei pazienti. Il primo obiettivo consisteva nello studio dei gemelli. Mengele eseguì ogni sorta di sperimentazione e di misurazione, tentò trasfusioni incrociate, cercò di cambiare il colore degli occhi delle sue vittime, studiò il "Noma" una malattia dovuta alla profonda denutrizione. Collezionò gemelli arrivando a studiare e a torturare sino alla morte 3.000 persone per lo più bambini e adolescenti.
Aveva organizzato ad Auschwitz un vero e proprio centro studi, una parodia di un istituto scientifico tedesco: i medici prigionieri erano costretti ad ascoltare le sue conferenze. Il 1° settembre 1944 li intrattenne con una giornata di studio che intitolò "Esempi di analisi antropologica e di ereditarietà genetica effettuati nel campo di concentramento di Auschwitz". Mengele inviava al suo maestro Verschuer gli occhi, gli organi interni, le ossa, il sangue dei gemelli affinché gli studi venissero approfonditi. Il 17 gennaio 1945 Mengele abbandonò Auschwitz portandosi dietro il materiale raccolto. Si presentò al campo di concentramento di Gross-Rosen dove per un breve periodo dette il suo contributo negli esperimenti batteriologici compiuti su prigionieri russi. Anche da Gross-Rosen fuggì prima che vi arrivassero i russi.
Un ottimo ufficiale.... Il comandante medico del campo di Auschwitz, il dottor Eduard Wirths così valutò il suo sottoposto Mengele: "Il dottor Mengele, durante il suo periodo di servizio nel campo di concentramento di Auschwitz, ha messo le sue conoscenze teoriche e pratiche al servizio della lotta contro gravi forme di epidemia. Tutti i compiti che gli sono stati affidati li ha assolti con assiduità ed energia, dimostrandosi all’altezza di ogni situazione e soddisfacendo appieno, nonostante le difficili circostanze, le aspettative dei suoi superiori . Ha inoltre sfruttato ogni attimo libero da impegni di servizio per continuare i suoi studi di antropologia, nel cui campo ha raggiunto straordinari risultati, sfruttando il materiale scientifico a sua disposizione grazie alla sua posizione di servizio. Assolvendo scrupolosamente il suo dovere di medico per combattere epidemie, si è ammalato lui stesso di tifo petecchiale. Per la sua eccellente opera è stato premiato con la croce all’onor militare di seconda classe con spade. Oltre alle conoscenze mediche, possiede una particolare preparazione in campo antropologico, risultando pertanto indicato per qualsiasi altro incarico, anche più elevato".
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Ha detto il regista....
Sono un appassionato di Storia perciò ho letto il libro di Schneider nel 1989. Il romanzo mi aveva molto colpito per due motivi: conoscevo le gesta di Mengele e avevo appena perso mio padre. Mi immedesimai non per il rapporto tra i due. Io andavo molto d'accordo con lui, ma mi chiesi cosa avrei fatto io al posto di Rolf Mengele. Avrei denunciato mio padre una volta saputo dove si trovava? Ecco volevo che lo spettatore si ponesse lo stesso dilemma. Lo scrittore, a causa del suo romanzo, «ha subito due processi, subendo ricatti morali ed economici da parte della famiglia Mengele, che in Germania ha un’importanza paragonabile a quella degli Agnelli».
americana. Fu allora che mi chiamò Heston. Il suo agente gli aveva fatto leggere il copione e lui ne era entusiasta. 'Sarebbe un onore concludere la mia carriera con questo ruolo' mi disse. Ma sono io che devo ringraziarlo: a 78 anni ha rinunciato agli agi degli studios per stare sotto al sole brasiliano con 43 gradi all'ombra e il 93% di umidità.»
«Nel nostro piccolo abbiamo fatto qualcosa di spregevole anche noi italiani. Con le spedizioni coloniali, 500 mila morti in Africa. Per decenni si è fatto finta che non fosse accaduto. E oggi? Abbiamo assistito alla pulizia etnica nell’ex-Jugoslavia. E’ inaudito ciò che è successo nel generale, inquietante silenzio e immobilità. Il mondo è tristemente ripetitivo. Quello che cambia è solo il modo con cui si finge di stupirsi».
• Il film è diviso in tre diverse scansioni temporali. Indica quali sono e a cosa si riferiscono. • Come mai Hermann decide di andare alla ricerca di suo padre? A quale scopo? • Dal film e dalla scheda qui riportata che idea ti sei fatto di Mengele nazista?
«Per quanto riguarda l’attore che interpreta Mengele quello che sapevo per certo era che volevo un attore di lingua tedesca. Mi sarebbe piaciuto Maximilian Schell ma per impegni di lavoro, prima, e problemi di salute poi, non è stato possibile lavorare insieme. Così ho pensato a Anthony Hopkins che pur avendo trovato il ruolo molto interessante non poteva aderire al progetto perché vincolato da un contratto con una major
• Che tipo di uomo incontra Hermann quando arriva in Brasile? Racconta l’incontro tra padre e figlio mettendo in evidenza i momenti che ti hanno maggiormente colpito. • Che idea ti sei fatto tu dell’uomo Mengele? • Cosa pensi della scelta del figlio di non denunciarlo più? • Nel film ci sono due posizioni diverse rispetto alle responsabilità dello sterminio degli ebrei: una sostenuta da Hermann che vede tutto nella responsabilità personale di ogni nazista e l’altra sostenuta dall’avvocato degli ebrei Paul Minski che invece fa rilevare come il sistema di potere in cui si è sviluppato il nazismo abbia favorito certe azioni. Tu cosa ne pensi a riguardo? Confrontati con il resto della classe. • Ai giorni nostri ci sono sistemi di potere totalitari? Quali e dove sono? Quali sono i loro effetti?
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Madre: - Apri la mano, Nansa, e cerca di morderti il palmo. Nansa: - Non ci riesco... Madre: - Avanti, prova ancora, cerca di morderlo. Nansa: - Ma non ci riesco, mamma, non ci riesco. Madre: - Ce l’hai sotto il naso eppure non ce la fai a morderlo. Non puoi avere tutto quello che vedi!
Negli sconfinati spazi del paesaggio mongolo, una famiglia nomade conduce una vita lontana dalla civilizzazione. Secondo l’antica tradizione vive dell’allevamento delle pecore, in piena armonia con la natura. Durante una delle sue passeggiate, Nansa, che ha sei anni, trova in una caverna un piccolo cane, con macchie bianche e nere, a cui dà il nome di Zochor (macchia) e che porta con sé a casa. Invece di abbandonarlo di nuovo, così come vorrebbe il padre, il cane diventa il fedele e inseparabile compagno della bambina. Un giorno tuttavia, Nansa ne perde le tracce nella steppa – e durante la ricerca incontra un’anziana nomade, che le racconta la commovente leggenda del cane giallo della Mongolia.
Il testo della favola Tanto tempo fa, su questa terra viveva una ricca famiglia. Aveva una figlia bellissima. Un giorno però ella si ammalò gravemente. Non c’era medicina che potesse guarirla. Così il padre decise di chiedere il parere di un saggio. Il saggio disse: “Avete un cane giallo. E’ adirato, dovete portarlo via”. Allora il padre chiese: “Ma perché? Esso protegge noi e il nostro gregge”. Il vecchio rispose: “Io ho detto ciò che dovevo dire, e tu hai saputo ciò che hai chiesto”. Il padre non ebbe il coraggio di uccidere il cane giallo. Ma per il bene della figlia doveva pur fare qualcosa. Così lo nascose in una caverna, dalla quale nessun animale a quattro zampe sarebbe riuscito a uscire. Ogni giorno gli portava da mangiare, tuttavia un giorno il cane scomparve. La figlia tornò davvero a stare bene. Il motivo reale però era che si era innamorata di un giovane. E quando il cane giallo non ci fu più, i due poterono incontrarsi liberamente.
La favola del cane giallo Per la popolazione mongola le fiabe e le canzoni hanno una grande
Regia e Sceneggiatura: Byambasuren Davaa. Fotografia: Daniel Schonauer. Montaggio:Sarah Clara Weber.Musica: Gampurev Dagvan. Suono: Ansgar Frerich. Interpreti: Urjindorj Batchulun (il padre), Buyandulam Daramdadi Batchuluun (la madre), Nansal Batchuluun (la figlia maggiore), Nansalmaa Batchuluun (la figlia minore), Batbayar batchuluun (il figlio), Teserepuntsag Ish (la donna anziana). Produzione: Schesch Filmproduktion. Origine: Mongolia/Germania, 2006. Durata: 94 minuti.
importanza: molte delle storie spiegano la natura e il mondo nomade in modo semplice e piacevole. Numerosi sono i nomi e i personaggi dell’antica tradizione, soprattutto orale, presenti nella cultura, nei rituali o nella toponomastica. Anche la caverna del cane giallo esiste veramente. Si trova al centro di un parco naturale ai piedi del vulcano Khorgo, spento ormai da circa 8.000 anni, pieno di caverne. La più grande di queste è stata battezzata dalla popolazione “caverna del cane giallo”. Da qui nasce la leggenda a cui fa riferimento il film. Nel film Il cane giallo della Mongolia e parallelamente nella favola a cui fa riferimento ci sono almeno tre elementi che troviamo interessanti perché sono propri della cultura mongola: - il viaggio spirituale che compie la bambina; - il rapporto tra tradizione e modernità; - il rapporto tra la vita e la morte o meglio la reincarnazione. Il tutto può essere sintetizzato in questa maniera: Nansa accompagna lo spettatore in un viaggio verso le sue radici spirituali. Come nelle favole, la piccola Nansa deve abbandonare il piccolo Macchia. Cercando di farlo, dimentica la strada. Si perde. Quando da lontano sente la melodia di un canto, la segue. Incontra un’anziana donna che canta a squarciagola verso la valle sconfinata. Nansa viene accolta dall’anziana nella sua tenda. Il tempo al suo interno sembra essersi fermato...qui ha luogo un incontro davvero speciale: l’antico e il nuovo ritrovano il loro punto di contatto nella favola del cane giallo, che nel film rappresenta il vertice del viaggio esistenziale della piccola Nansa. Macchia, il cucciolo della protagonista, diventa il cane giallo. Il livello dell’azione vera e propria si fonde con la dimensione metaforica: Nansa conosce così la sua origine culturale
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e spirituale. Perché è così importante far conoscere a Nansa le sue origini? Perché Nansa rischia di perderle. Infatti per andare a scuola, la bambina è costretta a lasciare la sua famiglia e a trasferirsi a casa di qualche parente dove resta per tutto il tempo del periodo scolastico. Le scuole in Mongolia, sono solamente nei grandi villaggi. Il passaggio alla città, rischia con le sue luci e i suoi richiami alla modernità, di smarrire il senso spirituale della tradizione su cui buona parte della cultura mongola ancora oggi si regge. E questo senso spirituale nella pratica si traduce innanzitutto in un rapporto molto stretto con la natura. Spiega la regista: “I nomadi nel rimettersi in cammino ringraziano il pezzo di terra su cui hanno potuto trascorrere l’estate, e chiedono scusa per i cosiddetti “timbri”, come vengono chiamati nella nostra lingua, i segni lasciati sull’erba dalle loro due tende: ci si sente in colpa perché in qualche maniera si è fatto del male alla Madre Terra. Questo spirito di
di riso. “Vedi – dice la signora anziana a Nansa – quand’è che un chicco di riso si ferma sulla punta dell’ago?” e Nansa le fa osservare che “Non può fermarsi sulla punta dell’ago”. E la signora anziana aggiunge: “Vedi piccola mia, rinascere persona è come per un chicco di riso fermarsi sulla punta dell’ago. Per questo la vita umana è così preziosa”. Facendo riferimento alla nonviolenza, il rispetto dell’altra persona è fondamentale ma ancora di più lo è la compresenza, cioè la presenza contemporanea di diverse anime, la persona, la natura, l’animale in un rapporto di perfetta interdipendenza, senza sopraffazione dell’uno sull’altro. Nel film, per la spiritualità e la cultura che esprime, si nota molto bene l’interdipendenza dell’ecosistema in cui viviamo e la scena cinematografica è sempre piena di tutte le componenti (umana, animale, terra, cielo, vento, acqua, ecc...).
Tradizione e modernità
immedesimazione si manifesta non solo nei confronti dell’erba, ma anche degli animali e degli altri esseri umani. E’ alla base del vivere comune: ci si sottomette volentieri alla natura.” Se facciamo riferimento al buddismo, che è la principale fonte spirituale del paese, questo sentirsi un tutt’uno con la natura richiama direttamente il principio della reincarnazione raccontato in due passaggi del film: all’inizio quando il padre di Nansa seppellisce il cane, la bambina gli chiede: “Papà perché gli metti la coda sotto la testa?” e il padre le risponde “Così rinasce uomo con la treccia e non cane con la coda.” – “Come rinasce?” - chiede ancora Nansa. E il padre risponde: “ Tutti muoiono, ma in realtà non muore nessuno”, volendo significare con queste parole il principio per cui ogni anima non muore mai ma rivive in altre creature viventi, come ad esempio l’anima di un uomo che rivive in un cane. L’altro passaggio del film in cui viene fatto riferimento a questo è quando la signora anziana che dà ospitalità a Nansa prende un grosso ago e fa scivolare su di esso dei granelli
Nell’incontro di Nansa con l’anziana signora c’è tutta la preoccupazione della regista di far dialogare la tradizione con la modernità, il passato con il futuro prossimo. Il film è ricco di scene e di particolari in cui vengono mostrati gesti quotidiani della tradizione come ad esempio il ciclo di lavorazione del latte: vediamo come viene munta una mucca; come viene utilizzata una ruota di carro a mo’ di torchio per spremere l’acqua del formaggio; come, usando uno spago, il formaggio viene tagliato a strisce; infine come le fette di formaggio vengono appese ad asciugare al vento. Nel film è anche documentata la demolizione di una tipica tenda da nomadi che ha lo scopo non solo di mostrare quanta arte e quanta scienza c’è nel costruire e smontare una tenda – casa, ma quella scena (e qui veniamo alla modernità) ha anche lo scopo di mostrare molto bene quanto i nomadi siano poco attaccati alle cose e quanto per loro contino poco i beni materiali. Dice a proposito la regista: “Ai miei occhi tutto ciò rappresenta il simbolo della demolizione di un’intera cultura. Volevo catturare ancora una volta questa cultura, finché esiste ancora”. E anche alla fine del film si scontrano di nuovo due epoche: l’antica, rappresentata dalla carovana dei nomadi, e la nuova, simboleggiata dall’automobile della propaganda elettorale dal cui altoparlante si sente dire:”Speriamo che facciate la scelta giusta!”. La frase non si riferisce solo alle elezioni per il parlamento, bensì al fatto che la famiglia di nomadi vive già una lacerazione, quelle per la scelta tra la propria cultura tradizionale e la civilizzazione moderna.
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La regista Byambasuren Davaa è nata in Mongolia nel 1971. Dal 1989 al 1994 ha lavorato come assistente alla regia nella tv pubblica del suo paese e in contemporanea ha studiato due anni giurisprudenza all’università di Ulna-Bator, sua città natale. Nel 1998 ha iniziato un secondo corso di studi all’istituto per il cinema. Nel 2000 si è trasferita in Germania, per proseguire gli studi. La storia del cammello che piange, realizzato insieme al regista italiano Luigi Falorni è stato il suo secondo film, ottenendo la nomination all’ Oscar 2005 come miglior documentario.
Intervista alla regista Come è nata l’idea del film? Da tempo mi occupo del cambiamento attualmente in corso in Mongolia: l’urbanizzazione e la conseguente questione dei nomadi. All’inizio però non avevo idea di come elaborare cinematograficamente questo tema – fino a che nel settembre 2003 sono stata alla prima de La storia del cammello che piange nella mia città natale, Ulan – Bator, e durante il soggiorno mi sono imbattuta per caso in un racconto di Gantuya lhagva: la storia di un cucciolo di cane che viene abbandonato durante lo spostamento di una famiglia nomade e che salva dagli avvoltoi la bambina più piccola. Questa vicenda mi ha molto commosso. Quanto c’è della tua infanzia nella storia che hai raccontato? In linea generale, molto di ciò che succede nel film l’ ho appreso da mia nonna. Ad esempio quell’insegnamento di vita che nel prologo del film il padre dà alla figlia durante la sepoltura del cane: “Ognuno muore, ma nessuno è morto”. Secondo la credenza nell’eterna ruota della reincarnazione diffusa in Mongolia, l’anima vaga da un corpo all’altro, fino a diventare un cane e poi un essere umano. Per questo motivo secondo la tradizione del mio paese esiste un legame particolarmente stretto tra il cane e l’essere umano. Inoltre, è stata mia nonna a raccontarmi la favola del cane giallo quando ero bambina. In modo altrettanto giocoso, per così dire casuale, da piccola ho imparato da mia nonna il rispetto del rapporto con la natura. Il cane giallo della Mongolia dà l’impressione che i bambini nomadi si assumano grandi responsabilità già molto presto... Infatti è così. Da noi in Mongolia si dice: “Se un bambino viene viziato troppo, diventa un bambino di vetro”. Per questo i genitori del film in fondo non erano contrari al fatto che persino il bambino di un anno fosse presente ovunque e partecipasse anche alle azioni più pericolose: secondo loro, ogni bambino deve fare personalmente le proprie esperienze. Non per niente, come si vede nel film, i bambini in Mongolia giocano in maniera diversa rispetto ai bambini occidentali. Normalmente, già da molto piccoli, i nomadi imparano a rapportarsi con i cavalli; sanno cavalcare quasi prima di camminare. Inoltre, già molto presto, gli viene insegnato a occuparsi del gregge. Alcuni conoscono gli animali persino meglio dei genitori: i bambini nomadi spesso sono in grado di distinguere senza problemi un intero gregge.Gli basta uno sguardo molto attento agli animali per dire: “Ne mancano due”. E si scopre che hanno ragione! Qual è la situazione de i nomadi oggi in Mongolia? La loro cultura è da più punti di vista compromessa: da un lato, in Mongolia il numero dei nomadi è rapidamente calato. A causa dei cambiamenti climatici degli ultimi anni, molti hanno puntualmente visto morire il proprio gregge, perdendo così la base della propria esistenza ed essendo costretti a cercare fortuna
in città. A ciò si aggiunge il fatto che, nel passaggio alla sedentarietà, molti abbandonano i propri cani nella steppa; ciò fa sì che questi animali tornino a essere selvatici, si uniscano ai branchi di lupi e decimino i greggi dei nomadi rimasti. La questione naturalmente ha anche una dimensione politica: prima della svolta politica del 1989 i Mongoli non potevano scegliere personalmente il proprio luogo di residenza, ma era lo stato a regolare la situazione in base all’economia. Gli uomini non avevano la libertà, ma la sicurezza. Oggi avviene il contrario: gli individui possono scegliere liberamente dove abitare: hanno la libertà, ma non la sicurezza. Questa è solo una delle cause della trasformazione in atto da alcuni anni nella società mongola. Fino a che punto? La cultura nomade in senso classico si mescola alla moderna civilizzazione: ha fatto il suo ingresso la televisione, al pari dei cucchiai di plastica verde chiaro o degli animali di peluche rosa così come si vedono nel mio film. Sarebbe ingenuo credere di poter fermare questo tipo di evoluzione. Nella mia patria la televisione, ad esempio, non viene demonizzata, ma è vista come una conquista: finalmente anche le persone che abitano nelle regioni più remote sanno qualcosa del mondo, si dice da noi. E tu come giudichi questa evoluzione? Penso che l’arrivo della modernità faccia perdere molte cose: la quiete, l’innocenza, l’originalità della vita. Ma vedo anche tutti i vantaggi della modernizzazione, come ad esempio una buona istruzione per i bambini. E io non voglio dire a nessuno come deve vivere: desidero solo mostrare l’evoluzione, non giudicarla. Vedendo il mio film ogni spettatore deve trarre le proprie conclusioni. (l’intervista è tratta dal press-book del film, a cura della BIM)
• Descrivi la famiglia protagonista del film, mettendo in evidenza le loro abitudini, la loro abitazione, i loro vestiti, ecc... • Quali grandi differenze trovi tra il loro modo di vivere e il nostro e tra il modo di giocare dei bambini mongoli e i nostri? • Che ruolo ha la natura e il mondo animale nella vita delle persone viste nel film? Fai un paragone con la nostra cultura. • Qual è il senso della favola del cane giallo? Quanto ha a che fare con la storia di Nansa? • Quali sono gli elementi (oggetti soprattutto) nel film che introducono la modernità nella vita dei nomadi? Che significato ha la loro presenza? • Cosa perderebbero e cosa guadagnerebbero i nomadi mongoli accettando la modernità? • Disegna la scena che ricordi maggiormente. Che importanza ha per te? • Che tipo di inquadrature (campi lunghi, primi piani, ecc...) utilizza in maniera particolare la regista? E che tipo di montaggio usa (lento, veloce, a ritmo normale, ricco o povero di effetti speciali)? Qual è il loro significato?
21 «Se esiste un destino, allora la libertà non è possibile; se però la libertà esiste, allora non esiste un destino, il che significa che noi stessi siamo il destino» (Imre Kertész, Essere senza destino)
Un ragazzino ebreo ungherese di appena quattordici anni, Gyuri Koves, dopo aver visto suo padre andarsene per destinazione ignota nei campi di concentramento nazisti, vi finisce a sua volta come altri compagni di sventura. Trasferito di volta in volta da un campo all’altro, da Auschwitz a Buchenwald, scampando allo sterminio immediato, ma sopportando condizioni di lavoro, di malnutrizione e di trattamento disumane, si sottrae miracolosamente ad una morte certa. Rientrato nella sua città natale, la capitale Budapest, tenta di fare i conti con il suo tragico passato. Ha indosso ancora la terribile uniforme a strisce che indossava nel campo. E percepisce l’indifferenza, l’impossibilità di capire davvero o addirittura l’ostilità della gente. I vicini di casa e gli amici insistono perché dimentichi l’orribile esperienza che lo ha visto protagonista e costretto ad abituarsi a ogni tipo di abiezione pur di sopravvivere e si lasci così il passato alle spalle. C’è persino chi definisce i campi di concentramento “il più infimo girone infernale”, ma per il ragazzino scampato all’orrore della Storia non rimane che meditare da solo e valutare il significato di quella terribile esperienza.
La Shoah, una questione aperta Ogni volta che si vede un film o un servizio in tv, si legge un libro o un articolo di giornale sulla Shoah, ovvero sul tentativo di distruzione del popolo ebraico (il termine “olocausto”, che significa “sacrificio”, è meno appropriato di “shoah” che infatti significa “distruzione”), compiuto dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, si ha sempre l’impressione di apprendere qualcosa di nuovo. Di guardare o pensare a questo tremendo evento da una prospettiva diversa. Come se fino a quel momento non si sapeva tutto o non si sapeva abbastanza. Sembra assurdo ma è così. Le ragioni sono tante, e le comprendiamo meglio soffermandoci a
Regia: Regia:Lajos Koltai Soggetto:dal romanzo «Essere senza destino» di Imre Kertész (edito da Feltrinelli). Sceneggiatura:Imre Kertész. Fotografia: Gyula Pados. Montaggio: Hajnal Sellõ. Musica:Ennio Morricone. Scenografia: Tibor Lázár. Costumi: Györgyi Szakács. Interpreti: Marcell Nagy (Gyuri Köves), Béla Dóra (Fumatore), Bálint Péntek (il bel ragazzo), Endre Arkanyi (il vecchio Kollmann), Áron Dimény (Bandi Citrom), Zsolt Dér (Rozi), András M. Kecskés (Finn), Dani Szabó (Moskovich), Tibor Mertz (Fodor), Péter Vida (Lénárt). Produzione: Péter Barbalics, András Hámori, Ildiko Kemeny, Jonathan Olsberg per EuroArts Entertainment, H2O Motion Pictures, Hungarian Motion Picture Ltd., Magic Media Inc., Renegade Films. Origine: Ungheria/Gran Bretagna/Germania, 2005. Durata: 132 minuti.
riflettere sul film che abbiamo visto, Senza destino, diretto da Lajos Koltai e scritto da Imre Kertész, vincitore del premio Nobel per la Letteratura nel 2002 e autore del romanzo omonimo e quasi autobiografico Essere senza destino, pubblicato per la prima volta nel 1975. La verità è che il genocidio degli ebrei europei ad opera del regime hitleriano non è semplicemente – e tragicamente – un evento storico, lontano nel tempo e nello spazio, ma un problema di coscienza. Ogni volta che le innumerevoli e sconvolgenti vicende di ebrei morti o sopravvissuti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale ci vengono riproposte, specialmente in un film di finzione, dove sono immagini nuove a parlare e non solo le parole o le immagini già note, ecco che ci interroghiamo sul significato di “essere umano”. Cos’è esattamente un “essere umano”? La domanda assume un doppio valore, proprio in riferimento alla Shoah. Ci chiediamo cioè: 1) Come hanno potuto degli esseri umani fare cose così ignobili ad altri esseri umani? 2) Come possono degli esseri umani (gli ebrei perseguitati) accettare condizioni così “disumane” e talvolta sopravvivere, come accade al quattordicenne Gyuri del film e del romanzo originale di cui ci stiamo occupando? Quello che noi chiamiamo “essere umano”, e che immediatamente ci porta a pensare al “genere umano”, ovvero a tutti gli esseri umani, senza distinzioni di razza, cultura, lingua o nazionalità, resta un mistero. Sì, un mistero, un rebus, se torniamo indietro e ci interroghiamo su cosa davvero è accaduto in Europa durante il nazismo.
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La prima domanda, al di là del film La prima delle due domande, ossia come hanno potuto fare questo agli ebrei o come ha potuto aver luogo questo orrore sotto gli occhi di tutti, resta spesso senza risposta. Perché sorge immediatamente una contraddizione: la Shoah è stata una cosa indegna di esseri che si vogliono definire “umani”. Il termine “disumano” nega per l’appunto valore di “umanità” ad un atto. La “natura umana” non può concepire qualcosa che contribuisce a distruggere l’umanità stessa. E’ questa la contraddizione. Gli psicologi hanno cercato di spiegarci come hanno potuto agire in questo modo sia i nazisti che la gente comune che sapeva ma non ha fatto niente affinché certe nefandezze su larga scala (sei milioni di
gli uomini (alcuni uomini, certo, ma pur sempre “esseri umani”) hanno potuto fare questo, possiamo fidarci dell’Uomo? Possiamo cioè dire che l’essere umano è un contenitore di bontà? Si tratta di una domanda, come si diceva poc’anzi, destinata a non trovare risposte. Per questo, ogni volta che si vede un film serio o si legge un libro serio sulla Shoah, si ha la sensazione di imparare, di ricominciare daccapo il ragionamento che tuttavia ci porterà a fare i conti con noi stessi, su quel che siamo o siamo stati non come singoli individui, ma come esseri umani nei decenni e secoli passati e in quelli futuri.
La seconda domanda, dentro il film
morti in così pochi anni) non fossero compiute. Ci hanno spiegato che per uccidere così tante persone in così poco tempo, è bastato imitare gli altri, cioè comportarsi come facevano tutti gli altri: commettendo atrocità direttamente o facendo finta di niente. Oppure ci hanno spiegato che il Male, quello nazista che ha funestato oltre mezzo secolo fa principalmente l’Europa e il popolo ebraico ivi residente, ha assunto un aspetto così “normale”, addirittura “banale”, come se si trattasse di un lavoro, di un mestiere, di una pratica quotidiana, che si è potuto svolgere con tranquillità relativa, con calma e metodo. Ci è stato quindi fatto capire che la Shoah, specialmente nella sua fase più terribile (la cosiddetta “soluzione finale” che ha incrementato lo sterminio di massa) è stata organizzata come un sistema produttivo, come l’attività di una gigantesca fabbrica: una fabbrica che produceva Morte a ritmo crescente. Solo così ha potuto mietere tante vite umane senza grosse difficoltà. Queste sono le spiegazioni “tecniche” o “psicologiche” di cui disponiamo. Spiegazioni che tuttavia non ci impediscono di porci ugualmente il problema della “natura umana”. Se
La seconda domanda riguarda invece gli ebrei. Ovviamente non coloro i quali sono morti allora, bambini, uomini, donne o anziani. I morti non possono più parlare. Il loro destino si è compiuto in modo mostruoso. Parliamo degli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio e di concentramento. Se guardando film o documentari o leggendo libri diamo per scontato che ci siano dei testimoni a informarci dei fatti atroci, la domanda che spesso dimentichiamo di rivolgere a loro o a noi stessi è più complessa: come sono riusciti a sopravvivere? E’ possibile sopravvivere quando si sa di essere considerati e trattati non come persone, ma come “cose” da distruggere nel modo più sbrigativo o sadico, “cose” viventi private quindi di un destino (come ci ricorda il titolo del film e del romanzo, inizialmente intitolato “Senza destino” e poi rititolato “Essere senza destino”)? Questo film ha un grande e coraggioso merito: non si concentra tanto sulla malvagità dei nazisti o degli stessi collaboratori dei nazisti (nell’Ungheria occupata, o negli stessi campi di concentramento o sterminio, dove gli stessi ebrei, con il grado di “kapò” fanno violenza ad altri ebrei), ma sulla capacità assurda di resistere, di sopravvivere, di farsi forza e di non lasciarsi andare che un condannato a morte, ovvero un ebreo, ha dimostrato quasi suo malgrado in quelle circostanze. La storia di Gyuri, che in gran parte riflette l’esperienza dello scrittore, ma è anche l’emblema di un intero popolo condannato a non avere un destino, ci offre lo spunto per capire meglio le possibilità nascoste che un essere umano, specialmente se forte e giovane (dentro più che fuori), scopre in circostanze straordinarie e spaventose. Di fronte all’orrore e alla matematica certezza di un ebreo di non poter scampare alla morte, in milioni sono morti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. L’essere stati privati prima dei diritti civili e della dignità
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umana, poi delle libertà elementari e del diritto alla vita, ha comportato in molti ebrei una rinuncia preventiva alla vita. L’impossibilità fisica di sopravvivere ha fatto di solito il resto. Ma prima molte di queste persone sono state uccise dentro, moralmente e psicologicamente (nel film si dice anche che gli stessi ebrei, specialmente i bambini e i più giovani, non comprendendo la persecuzione, si sono sentiti in colpa del solo fatto di essere ebrei o addirittura hanno provato ripugnanza per gli ebrei). Eppure,
corre alla felicità. Sì, alla felicità. Come si può anche lontanamente pensare alla felicità di fronte alla morte (quasi) certa? Come si può essere (stati) felici dentro l’Inferno? Gyuri non crede più all’Inferno dopo aver conosciuto i lager, perché l’Inferno è frutto dell’immaginazione – spiega – mentre i lager sono reali. Invece, la felicità di essere (ancora) vivi, di poter (ancora) vivere per un giorno, per un’ora, per un minuto è una maniera per riaffermare il principio assoluto della libertà,
come per assurdo, molti altri sono sopravvissuti, imparando a considerare quella negazione stessa della vita come una forma di vita possibile. Sono cioè riusciti, grazie anche alla fortuna e alle possibilità fisiche, ad accettare l’idea profonda della libertà individuale, da cui unicamente dipende il destino. Coloro i quali sono sopravvissuti, ovvero quelli che hanno conservato il rispetto dei propri simili (come nel caso di Gyuri), e non quelli che hanno scelto la via della sopraffazione dei propri compagni di sventura (come i kapò o il deportato che “vende” il cibo a Gyuri e agli altri ebrei), ci sono riusciti perché hanno creduto nella propria libertà, nel libero arbitrio. Certo, il film, come il libro non intende essere troppo ottimista, se pensiamo alla sorte dell’amico ungherese, Bandi Citrom, che maggiormente è convinto di salvarsi e probabilmente non tornerà più a casa.
anche quando questa sembra impossibile (e spesso lo è anche stata). E non di morte, né di orrore, ma di felicità ci parla appunto Gyuri nell’ultima sequenza del film, attraverso la sua voce fuori campo mentre lo vediamo allontanare in una via di Budapest. Le sue parole, riportate nel film, provengono direttamente dal romanzo, dove è lo scrittore a esprimere i pensieri del protagonista, con cui chiaramente si identifica: «Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità che mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini [le ciminiere dei forni crematori, per l’esattezza], nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l’avrò dimenticata». Ciò non toglie che questa felicità nasce da un paradosso: quello di essere riusciti – miracolosamente, è il caso di dire – a uscire vivi e a poter raccontare ciò che era possibile raccontare. Non a caso, alla domanda rivolta a Gyuri da un uomo che vorrebbe negare, a guerra finita, l’esistenza stessa delle camere a gas, il ragazzo risponde praticamente di non averle viste dall’interno, perché altrimenti non
La felicità paradossale Eppure, come ci spiega il personaggio nel finale, sfidando il bisogno degli “altri” di capire e di interpretare nel bene o nel male la Shoah, più che altro per farsene una ragione, il pensiero di chi ha conosciuto l’Inferno ma è sopravvissuto,
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avrebbe potuto star lì a parlarne. Da un lato si intravede il pericolo costituito da chi vorrebbe nascondere e rimuovere il passato, che è poi il rischio delle giovani generazioni attuali. Dall’altro la situazione paradossale in cui ci troviamo quando cerchiamo di avere risposte sui morti dai vivi, che non hanno potuto sperimentare la morte, ma soltanto essere ad essa sfuggiti. Per caso o per necessità, come lo stesso Gyuri che arriva ad un certo punto a tenersi accanto un ragazzino della sua età, morto da giorni, pur di avere una doppia razione di cibo.
Gli ebrei ungheresi durante la seconda guerra mondiale Maggio 1938: L’atto XV del 1938 sull’Equilibrio della vita sociale ed economica viene trasformato in legge. La cosiddetta “Prima legge ebraica” prevede che non più del 20% dei membri degli ordini professionali dei giornalisti, medici, avvocati e ingegneri possano essere di fede ebraica. maggio 1939: L’atto IV del 1939 “sui limiti imposti agli ebrei nella vita pubblica e nell’economia” viene trasformato in legge. La cosiddetta “seconda legge ebraica” prevede una distinzione razziale e non più religiosa tra i cittadini ungheresi. Qualunque individuo che abbia almeno un genitore o due nonni di origine ebraica viene considerato ebreo. Gli individui di origine ebraica non possono più ottenere la cittadinanza. Al Ministero degli Interni viene riconosciuto il diritto di privare i cittadini ungheresi della loro cittadinanza se questa è stata acquisita dopo il 1 luglio 1914. Gli individui di origine ebraica non possono essere assunti in agenzie statali o in istituzioni pubbliche e non possono rappresentare più del 12% sul totale degli impiegati nelle società private. Gli individui di origine ebraica non possono essere né redattori né editori e non più del 6% dei membri degli ordini dei giornalisti, avvocati, medici, ingegneri, attori di teatro o di cinema possono essere di origine ebraica. Gli individui di origine ebraica non possono dirigere cinema o teatri. La legge dichiara anche che le percentuali indicate devono essere raggiunte entro e non
oltre il 31 dicembre 1942. Marzo 1944: Le truppe della Germania nazista occupano l’Ungheria. Marzo 1944: La promulgazione dei Decreti governativi 1200, 1210, 1220, 1230 e 1240/1944 che impediscono agli individui di origine ebraica di assumere persone di origine ebraica presso le proprie case; gli individui di origine ebraica non possono più far parte degli ordini professionali dei giornalisti, attori di teatro e di cinema; infine gli individui di origine ebraica devono farsi riconoscere indossando una stella gialla sugli abiti. Maggio 1944: In tutta l’Ungheria, gli individui registrati come Ebrei cominciano ad essere raccolti nei ghetti e ad essere deportati nei campi di concentramento (soprattutto a Auschwitz). Il reggente Miklós Horthy, ordina la deportazione degli ebrei di Budapest a giugno. Giugno 1944: Comincia la distruzione ufficiale dei cosiddetti “libri ebrei”, volumi scritti da artisti e studiosi di origine ebraica. Ottobre 1944: Viene formato un governo guidato dalla Croce Uncinata, formato da Ferenc Szálasi, che si dichiara “Leader della Nazione.” Dopo la presa del potere da parte della Croce Uncinata, i pochi ebrei ancora rimasti in Ungheria vengono perseguitati in maniera sistematica e il regno del terrore istauratosi contro di loro raggiunge le conseguenze più estreme. Ottobre 1944: Il governo della Croce Uncinata fonda l’Ufficio Nazionale dell’Inquisizione, il cui compito é perseguitare gli oppositori del regime. 3 novembre 1944: Il governo di Szálasi emana il decreto 3840/1944, che dichiara che le proprietà degli ebrei devono essere trasferite allo stato. dicembre 1944: Il Ministro degli Interni della Croce Uncinata Gábor Vajna ordina che gli Ebrei di Budapest vengano trasferiti nel ghetto. Moltissime persone continuano ad essere caricate sui treni. Nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, circa 600.000 ebrei ungheresi sono stati uccisi nei campi di concentramento ed in Ungheria. febbraio 1945: Le truppe provenienti dal Secondo Fronte Ucraino cacciano i Nazisti e la Croce Uncinata da Budapest. Grazie all’arrivo delle truppe, molti ebrei di Budapest riescono a fuggire.
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Intervista con il regista Lajos Koltai Mentre lavoravate alla sceneggiatura, avete parlato solo della sua visione oppure avete anche discusso di altri film o generi cinematografici? Abbiamo cercato soprattutto di non cadere nell’errore commesso in altri film che hanno raccontato l’Olocausto. Per noi era fondamentale che tutto quello che avremmo mostrato di quel mondo fosse eccezionalmente preciso e opportuno. Ormai sono pochi i sopravvissuti all’Olocausto ancora in vita, purtroppo e noi volevamo evitare che i loro eredi, avessero un’impressione sbagliata o falsa di quella che era stata la storia dei loro cari. Se non avevamo abbastanza informazioni su una determinata scena o personaggio, preferivamo non metterlo per niente piuttosto che creare dei contrasti con quella che era la realtà. Fortunatamente le descrizioni di Kertész erano molto precise e questo è stato sempre un ottimo punto di partenza. Ma la cosa curiosa è che c’erano delle persone che avevano vissuto insieme a Kertész in una tenda all’epoca dei fatti, che ricordavano le cose in maniera diversa. Uno di loro ha insistito molto su un fatto che secondo lui si era svolto in maniera diversa da come l’aveva raccontata Imre, ma poi due settimane dopo mi ha telefonato e mi ha detto che era Imre ad avere ragione al riguardo. Tutto ciò che sappiamo oggi viene dagli archivi fotografici poiché nei campi di concentramento non c’erano tante macchine da presa e quindi non esistono dei filmati, dei documentari sulla vita dei prigionieri nei campi di concentramento. Tuttavia, gli studiosi che si sono occupati dell’argomento sono convinti dell’esistenza di materiale filmato. Sostengono che le condizioni di vita nei campi siano state filmate in realtà ma che quelle bobine siano andate distrutte. Di conseguenza, l’unico materiale sul quale potevamo basarci erano delle fotografie in bianco e nero, e abbiamo cercato di restare il più possibile fedeli a quelle immagini in tutto il film. Le immagini si dissolvono mano a mano che l’azione prosegue perché nell’immaginario collettivo l’Olocausto è avvenuto in bianco e nero, o almeno senza troppi colori vivaci. Dopo la liberazione, invece i Russi e gli Americani fecero delle riprese a colori ma si trattava già di un altro mondo perché raccontavano la vita dopo i campi. Il nostro obiettivo principale, nel realizzare questo film è stato cercare di raffigurare al meglio i cambiamenti personali, fisici e mentali delle persone oltre al voler ritrarre un mondo che fosse il più accurato possibile. Nella maggior parte dei film sull’Olocausto, generalmente tra l’inizio e la fine della storia passa almeno un anno ma negli attori non si notano mai cambiamenti fisici. Senza destino è un film umorale che racconta al tempo stesso una storia di spossatezza e sofferenza. Nella fattispecie, il film segue visivamente la macilenza, l’estrema magrezza del personaggio principale, Gyuri Köves, ma al tempo stesso si interessa anche dei destini paralleli dei personaggi che lo accompagnano, che poi scompaiono uno alla volta e che in alcuni casi muoiono.
La visione finale del film corrisponde alla visione che aveva immaginato leggendo il romanzo per la prima volta? Sì. La maggior virtù del film è che è composto da sequenze molto chiare e lucide e risponde chiaramente alla domanda per la quale in realtà non esiste una risposta: “Come è potuto accadere tutto questo?” Il film racconta una storia che fa cenno ad una sorta di impossibilità, nella fattispecie vuole dire che nel mondo moderno può succedere qualunque cosa, da un momento all’altro, a chiunque: ognuno di noi può essere tirato giù da un autobus, ognuno di noi può essere costretto ad avere paura del prossimo: è questo il messaggio del film. FATELESS non vuole dire nulla di più di questo ma vuole semplicemente prepararci al peggio perché le cose che possono capitarci in questo mondo potrebbero non essere positive. Non abbiamo fatto un film sull’Olocausto ma abbiamo semplicemente raccontato la storia di un ragazzino. Abbiamo iniziato a seguire Gyuri Köves perché è una persona interessante, con la quale è facile identificarsi e perché siamo curiosi di sapere cosa gli succederà. Abbiamo seguito l’anima di un ragazzino, come se si trattasse di un
documentario, mentre entra in un mondo del quale non vorrebbe far parte. Il nostro scopo non era certamente quello di far commuovere il pubblico, di farlo piangere raccontandogli una storia strappalacrime e commovente ma al tempo stesso se qualcuno avrà voglia di piangere, che lo faccia. Non vogliamo stuzzicare il pubblico girando il coltello nella piaga, non andiamo in cerca delle lacrime del pubblico ma se il pubblico, nel suo intimo, si identificherà con il ragazzino al punto da lasciarsi coinvolgere emotivamente, siamo certi che scoppierà a piangere. La cosa interessante da notare è che ogni volta che rivedo il film, non riesco a prenderne le distanze come mi è sempre capitato con i precedenti; ma al contrario, più lo guardo e più me lo sento vicino.
• Di fronte a questa nuova vicenda di un ebreo sopravvissuto allo sterminio nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, torna a riproporsi la questione della natura umana. E’ difficile credere che degli esseri umani abbiano potuto fare cose così atroci ad altri esseri umani. Qual è la tua opinione al riguardo, specie dopo aver visto questo film? • L’altra grande questione, a proposito della Shoah, riguarda lo spirito di sopravvivenza che ha consentito ad alcuni deportati come Gyuri di salvarsi. In cosa consiste secondo te il dramma di un ebreo sopravvissuto, anche dopo essere stato liberato da un campo di concentramento? • Perché alla fine del film il protagonista parla addirittura di “felicità” dentro i campi di concentramento? • Il tema del destino, secondo quanto scrive l’autore del romanzo, si intreccia con quello della libertà. Potresti spiegare in che modo? • Qual è l’atteggiamento, o per meglio dire: gli atteggiamenti, della società civile di fronte ai sopravvissuto Gyuri?
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«Le storie esistono solo nelle storie, mentre la vita scorre nel corso del tempo senza il bisogno di sfornare storie» (Lo stato delle cose di Wim Wenders)
Germania, primo Ottocento. I fratelli Wilhelm e Jacob attraversano le terre dell’Impero Napoleonico in cerca di soldi facili con la promessa di cacciare demoni e mostri. Quando le autorità francesi, che diffidano della fantasia e delle credenze popolari, scoprono la loro truffa, i due fratelli vengono mandati in una foresta incantata, dove dovranno affrontare un vero maleficio riguardante la misteriosa scomparsa di bambine. In un epico scontro tra fantasia e realtà, i Grimm vedranno materializzarsi una ad una le loro fantasie: regine, torri, streghe, lupi mannari, alberi che si muovono da soli...
Dietro le quinte delle favole Si commette spesso l’errore di considerare quello delle favole come un mondo compatto, unico, dove l’unica regola che conta è la fantasia. Le favole, innanzitutto, appartengono agli autori che le scrivono, diversi autori. E questi diversi autori traggono ispirazione dal mondo in cui vivono. Spesso le favole che essi scrivono provengono dai racconti orali, le hanno cioè ascoltate. E appartengono alla tradizione e all’immaginazione popolare. Dunque le favole sono un po’ di tutti. Sono patrimonio dell’umanità. Ma le differenze esistono. Differenze storiche, geografiche. Differenze di stile, di contenuti, di messaggi. Infatti chi sceglie di scriverle, ci mette qualcosa di suo. E dell’epoca storica in cui vive. Ad esempio, le favole del francese Charles Perrault, vissuto nel 1600, sono diverse da quelle del danese Hans Christian Andersen, vissuto nel 1800. Ma anche quelle di Andersen sono diverse da quelle dei
Regia: Terry Gilliam. Soggetto: tratto dalle fiabe dei Fratelli Grimm. Sceneggiatura: Ehren Kruger. Fotografia: Newton Thomas Sigel. Montaggio: Lesley Walker. Musica: Dario Marianelli. Scenografia: Guy Dyas. Costumi: Gabriella Pescucci, Carlo Poggioli. Interpreti: Petr Ratimec (Wilhelm [Will] bambino), Barbora Lukesová (mamma Grimm), Jeremy Robson (Jacob bambino), Matt Damon (Wilhelm [Will] adulto), Heath Ledger (Jacob adulto), Peter Stormare (Cavaldi), Jonathan Pryce (Delatombe), Denisa Vokurkova (Greta), Laura Greenwood (Sasha), Lena Headey (Angelika adulta), Denisa Malinovska (Angelika bambina), Monica Bellucci (la Regina Strega). Origine: Inghilterra, Francia, Germania, Italia, 2005. Durata: 90 minuti.
quasi contemporanei fratelli tedeschi Jacob e Wilhelm Grimm, vissuti tra il 1700 e il 1800. Questo film, intitolato appunto I fratelli Grimm (nella versione italiana invece diventa I fratelli Grimm e l’incantevole strega), vuole farci conoscere il mondo che sta dietro le favole. Vuole anche farci conoscere l’epoca. E soprattutto vuole farci conoscere coloro i quali le inventano, se le inventano completamente, o che le scrivono o soltanto le trascrivono dopo averle ascoltate da qualcuno, mettendoci dentro qualcosa di proprio e di originale. Non possiamo cioè capire le favole dei Grimm, particolarmente realistiche e impressionanti, sembra dirci questo film, senza conoscere prima i Grimm. Solo così possiamo capire i messaggi contenuti nelle favole. Lo scopo di questo film dalle mille invenzioni, dalle mille sorprese, dalle mille complicazioni, è quello di farci entrare nella bottega dei due artisti, per scoprire i segreti della loro fantasia, per capire come hanno fatto a concepire quelle storie. Conoscendo i Grimm, come personaggi delle loro stesse favole, possiamo capire dove finisce la realtà e dove comincia la fantasia. Ma impariamo anche ad accorgerci non soltanto che la fantasia nasce dalla realtà, vive dentro la realtà. Può infatti accadere il contrario: ossia che la realtà nasce a sua volta dalla fantasia. Che una cosa soltanto immaginata diventa per una persona o per più persone talmente importante da trasformarsi in realtà. Si può
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fa che rimproverarglielo. Eppure, una volta giunto nel bosco dove succedono cose che sfuggono alla ragione, dovrà ricredersi sul fratello Wilhelm: sarà proprio quest’ultimo a cavarsela meglio e ad affrontare la strega e i suoi sortilegi. Wilhelm, attraverso la fantasia, comprende gli assurdi eventi che stanno sconvolgendo l’intero villaggio: alberi che si muovono e imprigionano con i loro rami gli “intrusi”, bambini che scompaiono e vengono rapiti da creature misteriose, troll, lupi mannari, regine defunte da secoli che vogliono diventare belle ed immortali. La ragione di fronte a tutti questi prodigi si arrende. Mentre la fantasia ha carta bianca. E può agire nel bene dell’intera comunità minacciata dalla strega.
Dal confronto all’incontro
infatti immaginare un mondo per poi renderlo reale. La fantasia non è soltanto il contrario della realtà, non è una fuga dalla realtà, non è una facoltà che accompagna i più piccoli, e scompare pian piano con il sopraggiungere dell’età adulta. La fantasia può essere un modo di guardare alla realtà, per cambiarla, per metterla in discussione, per migliorarla, per arricchirla. Questo film ce lo spiega molto bene.
Realtà e fantasia, come due fratelli Abbiamo parlato di “realtà” e “fantasia”. Due semplici parole. Anzi, più che due semplici parole, sono due concetti. Bene, si sarà chiesto il regista Terry Gilliam a questo punto: che cosa accadrebbe, se invece di due concetti, immaginassimo la realtà e la fantasia come due persone in carne e ossa come noi? Insomma, persone con caratteri e sentimenti. Con un volto, con certezze e problemi, dubbi e contraddizioni. Per questo ha scelto, tra i tanti scrittori di fiabe, di occuparsi proprio dei fratelli Grimm. Perché sono due. E perché sono fratelli. Fratelli di sangue, cioè figli della stessa madre, come la realtà e la fantasia. Anche la realtà e la fantasia hanno una origine comune: il mondo in cui viviamo, la Natura da un lato, la Storia dall’altro. Pur scontrandosi come due fratelli molto diversi tra loro e molto litigiosi, la realtà e la fantasia appartengono a questo mondo. Perciò Jacob e Wilhelm non possono fare a meno l’uno dell’altro come la realtà non può fare a meno della fantasia e la fantasia non può fare a meno della realtà. Jacob, il maggiore dei due fratelli, rappresenta la realtà. Wilhelm, il minore, rappresenta invece la fantasia. Il primo insiste troppo sulla realtà, dipende troppo dalla realtà, crede solo nella realtà. Il secondo vive esclusivamente dentro la sua fantasia, non conosce altre regole se non quelle che la sua fantasia gli suggerisce, crede alla fantasia sin da quando, da piccolo, ha comprato una manciata di fagioli da uno sconosciuto illudendosi che fossero magici e potessero guarire la sorellina malata. Jacob nel film non
Ma siamo poi così sicuri che la vera minaccia sia la strega? Chi ci fa più paura in questo film: una megera che vorrebbe essere sempre la più bella del Reame (come la regina di Biancaneve, favola nota soprattutto grazie ai fratelli Grimm) oppure l’esercito francese che non crede a niente e a nessuno e pretende con arroganza e disprezzo della Natura di bruciare il bosco intero, i fratelli Grimm e il libro con le favole? I veri “nemici” in questo film sono i soldati francesi dell’impero napoleonico. Sono i nemici della gente comune, che crede alle leggende del bosco e alle creature incredibili che lo abitano. L’esercito napoleonico rappresenta il lato peggiore della ragione umana: la freddezza, la mancanza di compassione e di rispetto per la cultura altrui. Napoleone in quegli anni con le sue truppe ha occupato l’intera Europa, compresa la Germania dei fratelli Grimm. E pretende di imporre a nazioni con culture e tradizioni differenti lo stesso modo di pensare, fatto di realtà e di ragione. Viene dunque messa al bando la fantasia, vengono condannati a morte due scrittori di fiabe come i Grimm, e con essi i sentimenti che legano un popolo al suo patrimonio di racconti, miti e personaggi straordinari. L’impero Napoleonico, in nome di un progresso imposto ai popoli con la forza, l’occupazione militare e le armi, fu infatti il risultato più sinistro e opprimente della Rivoluzione Francese, che accanto agli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, aveva innalzato la ragione come unica grande qualità umana. Eppure una ragione, costretta a credere soltanto alla realtà e alle cose che si vedono, è incapace di comprendere la fantasia che guarda a una realtà diversa, quella dei sentimenti, dei sogni, dei desideri segreti. Ragione e realtà da una parte, cuore e fantasia dall’altra, i militari francesi da una parte, il popolo tedesco dall’altra, Jacob da una parte, Wilhelm dall’altra: da che parte stare? Contrapporre queste
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concezioni del mondo è impossibile e sbagliato. Allo stesso modo negli anni in cui i fratelli Grimm scrivono o trascrivono le loro favole più celebri (Biancaneve, Hänsel e Gretel, Cappuccetto Rosso, tutte presenti all’interno del film) due concezioni del mondo, due filosofie si stanno scontrando: l’Illuminismo, che ripone tutta la sua fede nella ragione umana, e il Romanticismo, che invece confida nella fantasia, nelle passioni, nei sentimenti altrettanto umani. Eppure non si può dire che l’Illuminismo sia più importante del Romanticismo o viceversa. Sarebbe come parteggiare per Jacob o per Wihlelm senza accorgersi che sono due facce della stessa medaglia, come la realtà e la fantasia, la ragione e il sentimento. Anche le nazioni hanno bisogno – sembra spiegarci questo film – di stare tutte assieme, di avere prospettive che vadano oltre i confini territoriali ma nello stesso tempo devono conservare ciascuna la propria identità, il proprio carattere e le proprie differenze. Come gli individui che devono poter andare d’accordo senza sopraffarsi a vicenda, conservando però la propria personalità. Come Jacob e Wilhelm. Ancora una volta, il tema centrale del film è la compresenza, l’atteggiamento nonviolento che consente alla diversità di essere valorizzata come un qualcosa in più, che “aggiunge” e non toglie, “arricchisce” e non impoverisce. Sbaglia Wilhelm ad essere troppo credulone, a non ragionare, a non sapersi difendere dagli inganni dei malvagi (sin da quando ha creduto ai fagioli magici), ma sbaglia anche Jacob a credere solo nel denaro, nell’amore senza sentimenti, nelle cose che unicamente sono vere perché si possono vedere e toccare. Il bosco incantato è a suo modo una realtà che va compresa. Gli alberi che impediscono agli estranei malintenzionati di giungere alla torre o di poter fuggire, in fondo sono i custodi di una Natura
che non dovrebbe mai essere violata o distrutta, come pretende di fare il terribile ufficiale francese Delatombe (“de-latombe” vuol dire morte, morte della fantasia, morte delle tradizioni e delle credenze popolari, morte della Natura) bruciando il bosco. I bambini rapiti che la strega vorrebbe sacrificare per riavere la sua bellezza rappresentano la fine della fanciullezza, il passaggio cioè dall’età infantile all’età adulta. In questo film la crescita torna continuamente come filo conduttore di tutte le storie e di tutti i personaggi. Anche Wilhelm, con la sua inesauribile fantasia e la sua inesauribile fiducia negli altri, è un po’ come un bambino che non vuole crescere ma deve farlo e imparare così a difendersi dalle insidie e i pericoli. Mentre Jacob è l’adulto che, crescendo, ha disimparato a credere al proprio cuore, ai sentimenti e alle passioni segrete. Assieme rappresentano l’individuo completo, equilibrato, con i pregi del bambino e quelli dell’adulto. Anche quando li vediamo all’inizio ingannare gli abitanti di un villaggio con i trucchi, pur di intascare il denaro, certo fanno
una cosa sbagliata. Ma in fondo, anche approfittando disonestamente dell’ignoranza di quella povera gente, riescono a conservare intatte credenze e fantasie popolari che cementano l’intera comunità. Ancora una volta questo è possibile perché Jacob, con la sua ragione disinvolta da bambino dispettoso e monello concepisce solo la frode e il profitto, ma nel frattempo Wilhelm, pur accettando di essere suo complice, dentro di sé ci crede e prende tutto molto sul serio. Come un bambino a suo modo giudizioso. La stessa strega con il suo terribile progetto egoistico non è che una bambina disperatamente ostinata a non voler crescere: non vuole accettare il tempo che passa, vede il tempo e l’età che avanzano come una disgrazia e non come un’opportunità. Vorrebbe restare giovane in eterno, perciò si rinserra nella sua torre. Ma il tempo, la Storia, il progresso non sono demoni, così come non possono essere considerate negative, arretrate, immature le favole e le leggende popolari tramandate di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonna in nipote. E che Wilhelm attentamente registra nel suo libro, per consegnarci un patrimonio inestimabile di fantasia, messaggi, insegnamenti esemplari. Le fiabe altro non sono, da sempre, che un grande tesoro di saggezza in cui tutto è simbolico e serve a farci capire come siamo fatti dentro, quali sono i nostri desideri e pensieri nascosti. Ci parlano della crescita, ci insegnano a crescere, ci mettono di fronte alle nostre paure, spiegandocele. Distruggere tutto ciò significa cancellare l’umanità, negare quanto di più particolare gli individui custodiscono nel proprio cuore, cancellare il profondo equilibrio e il rispetto secolare che legano l’Uomo alla Natura, che con i suoi segreti diventa un territorio dalle infinite sorprese. Un teatro meraviglioso per avventure senza tempo, senza età. Come le storie di questo film che si avvicendano, si accavallano, si sovrappongono, generandosi una dentro l’altra, scaturendo l’una dall’altra. Liberamente. Senza regole, come prescrive la fantasia quando per l’appunto è sinonimo di libertà. Libertà interiore e collettiva, perché non ci può essere armonia tra gli individui se ogni individuo non la raggiunge dentro di sé, con quei pensieri inconfessabili di cui spesso non è nemmeno cosciente (quello che Sigmund Freud ha chiamato “inconscio”). E fuori di sé, con la Natura da cui tutti dipendiamo e di cui tutti facciamo parte.
Terry Gilliam, regista britannico dotato di enorme talento fantastico, ha sempre prediletto storie dove succedono cose straordinarie. La sua smisurata immaginazione però è sempre al servizio di messaggi civili e libertari, come si comprende dai suoi film più celebri: Brazil che ci parla di un regime totalitario, Le avventure del Barone di Munchausen che è un inno alla creatività dell’uomo, La leggenda del Re Pescatore che ipotizza l’incontro tra una cinica star radiofonica e un barbone dotato di immensa inventiva e fiducia nel prossimo, L’esercito delle dodici scimmie che ci parla ancora di libertà negate e di un mondo che rischia di auto-distruggersi.
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Intervista al regista Qual è la sua opinione sul genere cosiddetto “fantasy” legato al mondo delle favole ambientate in mondi fatati e meravigliosi, tornato di moda al cinema grazie anche al successo di “Harry Potter” e de “Le cronache di Narnia”? Non mi piace l'idea di far parte di una categoria. Se tutti fanno film fantasy allora io deciderò di cambiare genere. Una delle cose che mi sembrava ci fosse bisogno era di portare il mondo del fantasy ad un livello più basso, più piccolo e semplice, così come le favole. I film di pura fantasia, come quelli di fantascienza, non mi piacciono. Con I fratelli Grimm ho voluto raggiungere un livello più intimo della narrazione, perché le favole che leggevo da bambino riguardavano le persone. Si trattava di piccole storie e non de “il palazzo più grande del mondo” o della “montagna più alta”. Erano storie legate ai personaggi e non all'ambiente in cui si muovevano. Personalmente preferisco concentrarmi sul dettaglio per esplorare un mondo che abbia un vero significato e cui il pubblico possa rispondere in maniera emotiva. Oggi il digitale consente di fare tutto al cinema, ma il fatto che sia possibile farlo non obbliga nessuno a fare davvero tutto. Così ho voluto creare un mondo più vicino a quello delle favole così come sono state scritte. Non amo i film che perdono del tutto il contatto con la realtà. E non mi appassionano neanche le pellicole che si prendono troppo sul serio. Le peggiori sono quella d’azione. Tutte uguali, quando vedo i trailer penso che stiano facendo la pubblicità a un vecchio film, sempre lo stesso. Botte, salti, esplosioni…Ma voi non avete questa impressione?
a che fare con dei veri incantesimi. Era divertente potere creare una favola su dei creatori di fiabe... I personaggi sono molto interessanti, uno pragmatico e cinico, e l'altro romantico e idealista. Due mondi opposti, due differenti visioni della vita. Sono molti i riferimenti a favole celebri nel suo film. Sì, assolutamente le più famose dei fratelli Grimm: Raperonzolo, Hansel & Gretel e Cappuccetto rosso. Ovviamente ce ne sono altre centinaia meno note, ma noi abbiamo preferito - soprattutto - tenerci molto vicini a quelle maggiormente presenti nell'immaginario collettivo del pubblico. Di che tipo di fantasia ha bisogno l'uomo moderno? Non saprei. Posso raccontare le mie fantasie, le cose che mi ispirano. In un mondo pieno di numeri e calcoli sembra che ci sia poco spazio per il sogno, e a me piace girare film che ispirano le persone a ritrovare la propria immaginazione. Io posso solo mostrare le mie di fantasie. Al giorno d'oggi il sogno e la fantasia hanno pochissimo spazio. A me piace sostenere coloro che, nel mondo, sono strani, o folli, perché guardando il mio film penseranno: "Beh, almeno siamo in due!" Amo i bambini per la loro mente aperta, per la capacità di vedere un'altra realtà dietro ogni cosa. Non hanno perduto la loro capacità di sognare e di immaginare un presente diverso con una mente aperta. Credo che il mio cinema, alle volte, serva a rompere il guscio in cui l'età imprigiona i bambini nascosti dentro le persone.
Al bando gli effetti speciali, dunque? Per I Fratelli Grimm ho dovuto ricorrere all’animazione digitale. Solo i marziani ne fanno a meno. Ma non ho potuto esimermi dal rovinare quotidianamente il lavoro dei tecnici. Sarebbe venuto perfetto, troppo bello, ma privo di legami col mondo reale. Cosa le piace delle favole? E' il mio mondo: straordinario e fantastico. Quello in cui sono cresciuto e in cui - sfortunatamente - ogni tanto credo ancora di vivere. Ma la vita non è una favola, vero? Ad ogni modo è un film che ho accettato di fare perché il produttore mi ha mandato questa sceneggiatura. Mi ha subito colpito l'idea di due imbroglioni che si trovavano ad avere
I fratelli Grimm I fratelli Grimm nacquero nel 1785 (Jacob) e nel 1786 (Wilhelm) ad Hanau, vicino a Francoforte. Frequentarono il Friedrichs Gymnasium di Kassel e poi studiarono legge all'università di Marburg. Dal 1837 al 1841, si unirono a cinque colleghi professori dell'università di Göttingen per protestare contro l'abrogazione della costituzione liberale dello stato di Hannover da parte del re Ernesto Augusto I. Questo gruppo divenne celebre in tutta la Germania col nome “I sette di Göttingen”. In seguito alla protesta, tutti e sette i professori furono licenziati dai loro incarichi universitari e alcuni di loro furono persino deportati. L'opinione pubblica e l'accademia tedesche, tuttavia, si schierarono decisamente a favori dei Grimm e dei loro colleghi. Wilhelm morì nel 1859; suo fratello maggiore Jakob nel 1863. I Grimm contribuirono a formare un'opinione pubblica democratica in Germania e sono considerati progenitori del movimento democratico tedesco, la cui rivolta fu in seguito soppressa nel sangue dal regno di Prussia nel 1848. I fratelli Grimm sono celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca; l'idea fu di Jacob, professore di lettere e bibliotecario. Nei loro volumi pubblicarono tuttavia anche fiabe francesi, che i Grimm conobbero attraverso un autore ugonotto che costituiva una delle loro principali fonti. Le loro storie non erano concepite per i bambini; oggi, molte delle loro fiabe sono ricordate soprattutto in una forma edulcorata e depurata dei particolari più cruenti, che risale alle traduzioni inglesi della settima edizione delle loro raccolte (1857). Le storie dei fratelli Grimm hanno spesso un'ambientazione oscura e tenebrosa, fatta di fitte foreste popolate da streghe, goblin, troll e lupi in cui accadono terribili fatti di sangue, così come voleva la tradizione popolare. L'unica opera di depurazione che sembra essere stata messa scientemente in atto dai Grimm riguarda i contenuti sessualmente espliciti, piuttosto comuni nelle fiabe del tempo e ampiamente ridimensionati nella narrazione dei fratelli tedeschi. Lo psicologo infantile Bruno Bettelheim, nel suo libro Il mondo incantato, sostiene che le fiabe dei Grimm siano rappresentazione delle figure mitiche legate al nostro inconscio, così come li ha descritti e spiegati il padre della psicanalisi, Sigmund Freud.
• Qual è il valore delle favole che questo film cerca di insegnarci, assistendo a continui prodigi? E perché, anziché raccontarcele soltanto, insiste su chi – come i Grimm – le scrive? • Perché, tra tanti autori di raccolte di favole, il regista si è concentrato proprio sui fratelli Grimm? Cosa rappresentano nel film? • Due mondi, sotto diversi aspetti, si scontrano in questo film: due concezioni filosofiche e politiche, due dimensioni che appartengono comunque all’essere umano. Potresti spiegare in che modo e a quali mondi si fa riferimento? • Perché il tema della crescita è un filo conduttore per situazioni, vicende e personaggi? Prova a spiegare come questo avviene attraverso una serie di esempi. • Chi sono i veri “buoni” e i veri “cattivi” di questo film? Perché il regista è persino indulgente con la regina-strega e i suoi sortilegi mentre non lo è con l’ufficiale napoleonico Delatombe? • Prova a individuare tutti i riferimenti, quelli più espliciti e quelli meno espliciti, alle fiabe più note dei fratelli Grimm, spiegandone il significato. • Anche in questo film si fa appello alla compresenza, alle tecniche nonviolente, all’incontro tra posizioni e caratteri all’apparenza inconciliabili. Riesci a motivare queste scelte?
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"Lo Sato è un organismo vivente: in verità non può essere costruito come si vuole ! Chi non tiene conto di ciò lo rovina. Chi vuole impadronirsene lo perde. L'uomo nobile evita l'eccesso, evita la superbia, evita la sopraffazione" (Lao-Tze)
Germania, Monaco, 1943. La guerra di Hitler sta devastando l’Europa diffondendo un clima di terrore e morte in nome della salvaguardia della razza pura. Alcuni coraggiosi studenti universitari, non si piegano al clima dominante e anzi decidono di ribellarsi al nazismo organizzandosi in un gruppo clandestino che si dà il nome de La rosa bianca. Obiettivo del gruppo è quello di fare controinformazione cioè far sapere a quanta più gente possibile ciò che il nazismo non dice: la morte assurda di migliaia di giovani tedeschi ai fronti, i campi di concentramento, la perdita totale di libertà dello stesso popolo tedesco a favore di una cultura di morte. Di questo piccolo movimento di resistenza nonviolenta fa parte Sophie Scholl, studentessa, una ragazza come tante ma audace ed impegnata. Il 18 febbraio del 1943, Sophie ed il fratello Hans vengono scoperti ed arrestati mentre distribuiscono volantini all’università. Nei giorni a seguire, l’interrogatorio di Sophie da parte di Mohr, ufficiale della Gestapo, si trasforma in uno strenuo duello psicologico. La ragazza mente e nega, ricorre a strategie e provocazioni, sembra cedere e si riprende con forza, arrivando a disarmare il suo avversario. Colpito dal suo straordinario coraggio, Mohr le offre una via di uscita, ma ad un costo: tradire i suoi alleati.
La Rosa Bianca La Rosa Bianca è il nome assunto da un gruppo di studenti che formò un movimento di resistenza nonviolenta nella Germania nazista. (“Resistenza nonviolenta” significa opporsi a un sistema che non si condivide proponendo cambiamenti e assumendo mezzi e fini che non prevedono l’uso della violenza). La Rosa Bianca fu attiva dal giugno 1942 al febbraio 1943 e aveva come base la città di Monaco. Il gruppo scrisse e diffuse sei volantini che sollecitavano il popolo tedesco a ribellarsi al nazismo, attraverso forme di resistenza nonviolenta. Un settimo fascicolo, che potrebbe essere stato preparato, non venne mai distribuito perché il gruppo cadde nelle mani della Gestapo. Il gruppo era composto da cinque studenti: Hans Scholl, sua sorella Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander
Regia: Marc Rothemund; Sceneggiatura: Fred Breinersdorfer; Fotografia: Martin Langer; Musiche: Reinhold Heil Johnny Klimek; Montaggio: Hans Funck; Interpreti principali: Julia Jentsch (Sophie Magdalena Scholl), Fabian Hinrichs (Hans Scholl), Gerald Alexander Held (Robert Mohr), Johanna Gastdorf (Else Gebel), André Hennicke (il dottor Roland Freisler), Florina Stetter (Christoph Probst), Johanns Suhm (Alexander Schmorell), Maximilian Bruckner (Willi Graf), Jorg Hube (Robert Scholl), Petra Kelling (Magdalena Scholl); Scenografia: Jana Karen – Brey; Costumi: Natascha Curtius-Noss; Origine: Germania; Anno di produzione: 2005; Durata: 117 minuti.
Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. Ad essi si unì un professore, Kurt Huber che stese gli ultimi due volantini. I membri della Rosa Bianca erano tutti studenti all’Università di Monaco di Baviera, e allo stesso tempo avevano partecipato alla guerra sul fronte francese e su quello russo, dove furono testimoni delle atrocità commesse contro gli ebrei e dove capirono che le sofferenze patite dall’esercito tedesco a Stalingrado avrebbero portato alla sconfitta della Germania. Essi rigettavano il militarismo di Adolf Hitler e credevano in un’Europa federale che aderisse ai principi cristiani di tolleranza e giustizia. Citando apertamente la Bibbia, Lao Tzu, Aristotele, Novalis, Goethe e Schiller, quei cinque studenti si appellarono a quella che consideravano l’intellighenzia tedesca, credendo che questa si sarebbe opposta al Nazismo. In un primo momento, i volantini vennero spediti verso diverse città della Baviera e dell’Austria, dopo il luglio 1942 la Rosa Bianca prese una posizione più vigorosa contro Hitler e nel febbraio 1943 oltre a distribuire gli ultimi due volantini, scrisse anche slogan anti hitleriani sui muri di Monaco e sui cancelli universitari. Il sesto volantino venne distribuito all’Università, il 18 febbraio 1943 in coincidenza
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potere imposto dal nazismo. La loro presenza interrompe, seppur per breve tempo, le linee rette e immobili del regime che li vede come anarchici incoscienti, ma che in realtà sono l’essenza del diritto di libertà dell’uomo. La loro presenza e le loro azioni (le loro parole sono anche azioni) sono attimi di respiro in un corpo sociale morto rappresentato dal regime e da tutti quelli che subiscono il regime pur non aderendovi apertamente. “Se un'ondata di ribellione si estende attraverso il paese, se questo "si sente nell'aria", se in molti vi contribuiscono, allora si potrà rovesciare questo sistema con un estremo poderoso sforzo. Una fine orrenda è sempre meglio di un orrore senza fine” - recita un passo del secondo volantino della Rosa Bianca.
Senz’armi di fronte a Hitler la resistenza nonviolenta con la fine delle lezioni. E’ da questo punto che parte il film, il 18 febbraio del ’43 quando Sophie e suo fratello Hans nel distribuire i volantini all’università furono visti da un bidello della stessa università nonché militante nazista, che non esitò a denunciare i due ragazzi.
Staticità e movimento: regime e libertà Tutto il film è caratterizzato da una scenografia e fotografia dalle linee diagonali, dritte, rigide, fisse. Pensiamo alle strade che i ragazzi devono quasi clandestinamente attraversare, all’atrio dell’università, alle grandi svastiche onnipresenti, alla stanza dell’interrogatorio e alla postura dei personaggi durante l’interrogatorio, alla cella, alla stanza del processo, alla ghigliottina. Non ci sono inoltre nel film scene d’azione particolarmente movimentate tanto che i personaggi sono quasi sempre seduti e il loro alzarsi e sedersi dipende da un ordine che stanno ricevendo. Eppure ci sono momenti in questo film in cui alcuni piccoli movimenti ripercuotono l’intera pellicola come una pietra quando viene lanciata nell’acqua che crea un movimento lungo e concentrico tanto da interessare una vasta superficie di liquido. Questi momenti sono ad esempio, la canzone in lingua inglese cantata da Sophie insieme all’amica Else davanti alla radio all’inizio del film, i volantini gettati da Sophie dalla balaustra del secondo piano dell’Università, lo sguardo di Sophie verso la finestra della cella o della stanza dell’interrogatorio per guardare un pezzetto di cielo con le sue nuvole in cammino, ancora lo sguardo lieve ma intenso di Sophie verso il crocifisso al momento della sua condanna a morte e poi la voce di Hans che ostinatamente rompe il silenzio nella sala del processo per raccontare al mondo la disfatta militare e morale della Germania e infine ancora la voce di Hans che squarcia il silenzio dell’atto della morte e del nero dell’immagine finale con il suo grido “Libertà!”, quella stessa parola (Freiheit che in tedesco vuol dire libertà) che Sophie scrive su un biglietto lasciato sul tavolino della sua cella. Sophie e Hans con la loro compostezza e con la forza immensa delle loro parole ( “Bisogna avere un cuore tenero e uno spirito duro” dice Hans a sua sorella) rompono continuamente l’ordine della messa in scena e l’Ordine del
Il film considerando gli ultimi cinque giorni di vita di Sophie Scholl e di suo fratello, non mostra tutti gli aspetti della lotta nonviolenta della Rosa Bianca. In particolare il film mette molto bene in evidenza il contrasto tra l’ottusità del regime, preoccupato di soffocare ogni tentativo di pensiero e azione individuale, e la difesa della verità e della libertà da parte di Sophie e Hans attraverso l’uso della parola, della testimonianza che passa dall’assunzione di responsabilità individuale di fronte alla realtà. Ma per arrivare a credere nella propria responsabilità e considerarla come l’arma più efficace contro ogni forma di sopraffazione umana, bisogna amare profondamente la vita. Colpisce ad esempio vedere nel film Sophie ed Hans quasi sempre sorridenti, i loro sguardi sono teneri, sereni, complici, fieri fino alla morte. “Non preoccupatevi per me, rifarei esattamente ciò che ho fatto” dice Sophie ai suoi genitori prima di morire. Questa forza interiore è propria di chi si ribella per amore della vita e della libertà dell’uomo. Le parole di Sophie non cedono mai all’odio pur trovandosi di fronte al suo aguzzino, anche nei passaggi più duri dell’interrogatorio e non cede al ricatto della denuncia dei suoi compagni. Sophie conosce talmente bene il valore della libertà che non vuole barattare in nessun modo la sua, cosa questa che mette in imbarazzo lo stesso Mohr, non abituato a tanto sacrificio personale. Sophie rifiuta così un potere che richiede come prova di fedeltà il tradimento del fratello, un potere che vuole recidere ogni legame dell’individuo con un altro, perché chiede che l’individuo sia legato solo a sé. Ogni altro legame, in quanto legame, è sovversivo per quel tipo di potere. E perciò va reciso, eliminato. Dice ancora Sophie: “Anche se non capisco molto di politica, e non ho nemmeno l’ambizione di capirla, tuttavia possiedo un pochino il senso di cosa è giusto e di che cosa è ingiusto, perché questo non ha nulla a che fare con la politica e la nazionalità. E mi viene da piangere, per come sono crudeli gli uomini nella grande politica, come tradiscono i loro
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f r a t e l l i s o l o p e r a v e r n e u n v a n t a g g i o ”. Per arrivare ad amare la libertà bisogna combattere contro tutto quello che può minarla, come ad esempio l’indifferenza, più terribile di qualsiasi forma di regime perchè è l’indifferenza della massa che crea i regimi. Così scrive Sophie al fidanzato: “Basta che tu non diventi un tenente arrogante e indifferente (Scusami!). Ma il pericolo di diventare indifferenti è grande. E se potessi, continuerei sempre più a pungolarti contro l’indifferenza che potrebbe assalirti, e vorrei che i pensieri rivolti a me fossero una spina costante contro l’indifferenza.” Questo è quello che viene fuori in maniera forte nel film, ma se andiamo a leggere i sei volantini scritti e diffusi da La Rosa Bianca, vi troviamo elencate “le tecniche”, i mezzi nonviolenti consigliati alla popolazione per opporsi al regime e minarlo dalle fondamenta, cioé cominciando a togliergli consenso. Riportiamo qui sotto alcuni passaggi contenuti nel secondo, terzo e quarto volantino: “Molti, forse la maggior parte dei lettori di questi volantini, non sanno con esattezza in che modo potrebbero fare resistenza. Non ne vedono alcuna possibilità. Cercheremo di dimostrare loro che ciascuno può contribuire alla caduta di questo regime. Non sarà certo possibile preparare il terreno per il rovesciamento di questo "governo" , mediante una resistenza individuale, da solitari amareggiati, e tantomeno si potrà in tal modo affrettarne la caduta. Si può riuscire solo con la collaborazione di molti uomini convinti ed attivi; uomini concordi circa i mezzi con i quali potranno raggiungere il loro scopo. Non abbiamo grandi possibilità di scelta. Disponiamo di un mezzo solo: la resistenza passiva . Il senso e il fine della resistenza passiva consistono nel far cadere il regime nazionalsocialista. In questa lotta non dobbiamo esitare davanti a nessuna strada, a nessuna azione; in qualunque campo si trovino. Sabotaggio quindi nell'industria bellica e nelle fabbriche importanti per la guerra; sabotaggio di ogni adunata, manifestazione, festività, organizzazioni nate ad opera del partito nazionalsocialista. Occorre impedire il regolare funzionamento della macchina bellica (una macchina che lavora per la guerra che esclusivamente si svolge per la salvezza e la conservazione del partito nazionalsocialista e la sua dittatura). Sabotaggio in tutti quei settori scientifici e culturali che svolgono attività per la continuazione della presente guerra: sia nelle università che nelle scuole superiori, nei laboratori, negli istituti di ricerca, negli uffici tecnici. Sabotaggio in tutte le manifestazioni culturali che possono aumentare il prestigio dei fascisti di fronte al popolo. Sabotaggio in tutti i rami delle arti figurative che abbiano anche un minimo rapporto con il nazionalsocialismo e che ad esso servono. Sabotaggio di tutte le pubblicazioni, di tutti i giornali che
siano al soldo del "governo", e che lottano per le sue idee e per la diffusione della menzogna bruna. Non date un centesimo nelle collette stradali, anche quando esse vengano fatte sotto il mantello di un'opera di beneficenza; questa è soltanto una mimetizzazione: in realtà il ricavato non va né alla Croce Rossa né ai bisognosi. Non date nulla per le raccolte di metalli, tessuti o altro. Cercate di convincere tutti i conoscenti, anche quelli delle classi meno elevate, della inutilità di continuare questa guerra, della sua mancanza di ogni prospettiva, della schiavitù spirituale e materiale determinata dal nazionalsocialismo , della distruzione di tutti i valori morali e religiosi, e di persuaderli alla resistenza passiva. Si tratta della lotta di ognuno di noi per il nostro futuro, per la nostra libertà ed il nostro onore, in uno stato che sia consapevole della sua responsabilità morale.“ Come si vede nei testi dei volantini, ciò che la Rosa Bianca chiede è quello di indebolire il regime colpendolo nei suoi interessi vitali: l’economia e il consenso cioè l’appoggio dei cittadini. Per questo il processo e la condanna a morte dei tre ragazzi è così spettacolare, teatrale nel film, come d’altronde lo è stato nella realtà. Il regime condannando i tre giovani alla ghigliottina dimostrava a voce alta a tutti i giovani della nazione tedesca, ancora una volta la sua superiorità e la sua arroganza che distrugge sul nascere i tentativi di critica, di non ubbidienza al potere, ridicolizzandoli prima e poi assassinandoli. Sophie, Hans e gli altri compagni sapevano che le cose potevano andare così? Si, lo sapevano. Hanno rischiato consapevolmente. Ma in loro il bisogno di svegliare la gente, gli altri giovani universitari di fronte ad una catastrofe mondiale di cui “vergognarsi per il resto della vita del mondo” ha prevalso su ogni possibilità di salvare materialmente se stessi.
Il regista Marc Rothemund è nato nel 1968 e inizia la sua carriera professionale come assistente all regia di Helmut Dietl (per Rossini), Bernd Eichwiger (per Das Madchen Rosemarie), Dominik Graf (per Sperling) e di Gerard Corbiau (per Farinelli). Nel 1998 riceve il Bavarian Film Prize come Miglior Regista Esordiente per il suo primo film Scene d’amore sul pianeta terra. Accolto da un vastissimo pubblico, il suo secondo lungometraggio Harte Jungs è stato uno dei film di maggior successo nel 1999. Il giallo per la televisione dal titolo Das Duo Der Liebhaber! ha ricevuto il VFF TV Movie Award nel 2003. Con La Rosa Bianca – Sophie Scholl vince il Festival di Berlino, 2005 e viene candidato agli Oscar come Miglior Film Straniero.
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Intervista al regista (tratta da filmfilm.it) Cos’è cambiato in sessanta anni da consentire alla nuova generazione di registi di affrontare le tematiche del nazismo e della seconda guerra mondiale? Non dobbiamo dimenticare tre importantissimi film tedeschi che parlano del nazismo: Die Burke del 1950, Il tamburo di latta del 1979 che ha vinto un oscar e La rosa bianca del 1981. Quest’ultimo descrive le vicende del gruppo e termina con il loro arresto. Dopo la seconda guerra mondiale i tedeschi sono stati molto occupati con la ricostruzione. Nel 1981 il governo era fortemente contrario alla diffusione del film che riapriva problematiche che in quel momento la Germania voleva lasciare alle proprie spalle. All’epoca il regista Michael Verhoeven è andato comunque avanti con il suo progetto ed ha realizzato il film. Ora abbiamo una nuova generazione di cineasti interessati alle storie dei loro nonni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale non hanno parlato di queste cose, ma adesso, la nostra generazione, pone delle questioni, essendo gli ultimi che possono porre domande dirette a testimoni dell’epoca. Nel 2004 abbiamo ricevuto un grande supporto per realizzare questo film. Noi registi nuovi non abbiamo nessun senso di colpa nei confronti della storia, ma abbiamo la volontà di fare film emozionali che stimolino la riflessione. Spero che anche le prossime generazioni affrontino il tema, traendo, come possono fare gli italiani, lezioni dal passato, applicabili nel futuro. Quanto pesa il passato della Seconda Guerra e cosa ne pensa dell’ipotesi di santificazione di Sophie Scholl? Un passato che significa cinquanta milioni di morti, è molto difficile da superare. Il gruppo della Rosa bianca è quello più importante della resistenza tedesca. Ci sono centonovanta scuole che portano questo nome. Quando hanno commemorato i sessanta anni dalla morte di Sophie Scholl, ho saputo che c’erano dei verbali inediti che raccontavano gli ultimi giorni della ragazza quasi minuto per minuto. Da questi scopriamo la sua umanità, il suo combattere per la vita e il suo progressivo convincimento nei confronti della resistenza. Per quanto riguarda la santificazione, preferisco rappresentarla come una donna civilmente impegnata con un carattere molto forte e determinata a resistere. Come mai in Italia pochissimi conoscono la Rosa bianca, e in che contesto si inserisce questo gruppo nella resistenza generale? Per otto mesi ho accompagnato questo film in giro per il mondo. Ho saputo dagli studenti che c’è così tanto da dire sui crimini efferati, su Hitler e altri gerarchi che non rimane tempo per approfondire i temi della resistenza. A sessantanni dalla fine della guerra, è ora che all’estero sappiano che anche dei tedeschi hanno resistito perdendo la vita. Per me questo è la formula di resistenza più importante perché è partita dai giovani. Ci furono altri tipi di resistenza, religiosa, militare, ma in questa dei giovani, i ragazzi hanno lottato per i diritti umani. Monaco fu bombardata dagli alleati nell’agosto 1942. Nel gennaio 1943 il governo ha riconosciuto che il fronte orientale era perso. I componenti del gruppo pensavano che la fine della guerra si stesse avvicinando. Credevano che anche gli altri studenti potessero condividere questa speranza. Invece negli studentati quantunque la guerra andasse male, invitavano le ragazze a fare figli per la patria, piuttosto che studiare. Il gruppo della Rosa Bianca assunse i rischi nella speranza di accelerare la fine della guerra, non potevano sapere che sarebbe durata ancora molto.
Il linguaggio dei volantini ricorda quello delle madri-coraggio che chiedono il ritiro dall’Iraq. presenti nei volantini, sono le richieste di libera informazione ed espressione, la dignità della persona. gruppo è emozionale, per aprire gli occhi alle persone facendo leva sui sentimenti. I membri del gruppo avevano delle grandi speranze. Non immaginavano che la guerra si sarebbe protratta così a lungo e che le persone, per esempio il bidello dell’università, gli sarebbero andati contro, denunciando la loro distribuzione di volantini. Pe r q u a n t o riguarda me, non ho fatto il film per il popolo tedesco ma per assecondare la mia curiosità per il lato umano di eroi della resistenza, giovani impegnati per cambiare il mondo. In seguito alla riunificazione i problemi economici sono aumentati. I gruppi vicini alla destra estrema, che rialimenta idee naziste sono vicini al quindici per cento tra i giovani. Sophie Scholl è stato un grande successo della passata stagione in Germania. Il film non invita solo a fare un confronto storico, ma pone delle domande ai giovani di oggi a proposito della loro capacità di reagire nei confronti del potere. E’ sicuro che il suo sia un cinema emozionale, sembra molto politico? Negli anni settanta ottanta era più facile raggiungere le persone attraverso gli slogan politici, oggi abbiamo bisogno di trasmettere emozioni per poter arrivare alle nuove generazioni. Prima eravamo anche più legati al periodo della guerra, mentre ora che ne siamo più discosti, l’emozione può colmare questa distanza. Nel film dell’ottantuno, all’attrice fu espressamente vietato di versare una lacrima, mentre nel nostro la protagonista piange. La differenza mi sembra emblematica del passaggio del tempo.
• Che cos’è stato La Rosa Bianca? • In che contesto storico è nato? Qual era il suo scopo? • Come mai Sophie fa cadere i volantini nell’atrio dell’Università col rischio di essere scoperta? • Quali sono le fasi essenziali dell’interrogatorio di Sophie? Come si difende? Cosa chiede alla fine il nazista Mohr per darle una possibilità di salvarsi? • Perché Sophie rifiuta l’offerta di Mohr? • Attraverso l’interrogatorio, il processo e in altre parti del film, Sophie e suo fratello Hans dicono cose che rivolgono direttamente al popolo tedesco più che agli uomini della Gestapo. Cosa ricordi in particolare delle loro parole? Cosa ti ha colpito maggiormente del loro modo di pensare e di fare? • Nel film si parla di resistenza passiva o nonviolenta. Che idea ti sei fatto? Ti sembra utile o controproducente? Attraverso quali azioni si manifesta la resistenza passiva proposta da La Rosa Bianca? Conosci altri esempi della storia anche recente in cui siano state messe in atto azioni di lotta di questo tipo? Confrontati con i tuoi compagni. • Quale scena del film ti ha particolarmente emozionato? Descrivila e poi parla liberamente delle emozioni che hai provato. Confrontati poi con il resto della classe.
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Noi siamo il presente, la nostra voce è il futuro (dalla Dichiarazione del Movimento Mondiale dei Bambini Lavoratori)
Marco Brioni è un giovane maestro di scuola elementare che lavora e vive a Roma. Accetta di trasferirsi per un anno in un paesino della Sicilia per insegnare nella scuola locale. Qui conosce il piccolo Salvatore, un bambino che, a causa di problemi familiari, non può frequentare la scuola. Orfano di entrambi i genitori, Salvatore vive infatti in una piccola casa in riva al mare con la nonna e la sorellina e provvede al loro sostentamento lavorando nella serra di pomodori che fu del padre e pescando nel mare davanti casa. Il maestro prende a cuore la sua situazione e cerca di aiutarlo, facendogli lezioni a domicilio. In poco tempo, i due diventano inseparabili.
Salvatore, tra fiaba e realtà Il film si ispira a una storia realmente accaduta. Eppure è anche una fiaba. Una fiaba, potremmo dire, che prende spunto dalla realtà. Perché non è difficile nel Sud d’Italia incontrare ragazzini come Salvatore. Di quale ragazzini stiamo parlando? Di quelli che rinunciano alla scuola sin dalla tenera età per lavorare qua e là per guadagnare quel poco che serve a sopravvivere. Da una delle ultime indagini (che risale al 2004) realizzate dai sindacati in Italia risulta che il numero dei minorenni che lavorano e non frequentano la scuola o la frequentano saltuariamente è di circa 114.000 unità. Una buona parte di questi numeri riguardano minori stranieri (provenienti in particolare dall’Europa dell’Est o Rom). Questi minori sono concentrati soprattutto al Centro e nel Nord d’Italia, ma un’altra buona parte riguarda bambini italiani, che a loro volta vivono in condizioni sociali ed economiche molto precarie. Questi ultimi sono concentrati soprattutto nel Sud d’Italia. Il caso di Salvatore rientra proprio in queste ultime statistiche. L’essere orfano spinge Salvatore, che è l’unico maschio di casa, a rimboccarsi le
Regia e Soggetto: Gian Paolo Cugno; Sceneggiatura: Gian Paolo Cugno e Paolo Di Reda con la collaborazione di Paul Zonderland; Scenografia: Paolo Innocenzi; Fotografia: Gino Sgreva; Montaggio: Ugo De Rossi; Musiche: Paolo Vivaldi, la canzone dei titoli di coda “Come il sole all’improvviso” di Gino Paolo e Zucchero è cantata da Laura Pausini; Attori e interpreti principali: Enrico Lo Verso (Marco Brioni, il maestro), Galatea Ranzi (Laura Valvo – l’assistente sociale), Giancarlo Giannini (Timpaliscia – il grossista di ortofrutta), Gabriele Lavia (direttore scuola), Lucia Sardo (la nonna Maria), Alessandro Mailla (Salvatore), Ernesto Mahieux (il bidello), Maurizio Nicolosi (il padre); Origine: Italia, 2006; Durata: 90 minuti.
maniche e a fare qualsiasi tipo di lavoro: l’importante è dare da mangiare a chi rimane a casa. Potremmo dire che Salvatore, tutto sommato, si trova a suo agio in quello che fa, perché anche il lavoro è una scuola di vita. Salvatore si sente infatti, come dice il suo stesso nome, la persona destinata a “salvare” la famiglia lavorando. Perciò è di quelli che crede che sia meglio imparare un mestiere piuttosto che andare a scuola e magari prendersi qualche sospensione (come sostengono molti genitori). Questi sono discorsi che si fanno solamente guardando all’emergenza del problema. Cioè, se nella famiglia di Salvatore non c’è neanche il cibo per sopravvivere, è persino “normale” che lui vada a lavorare anziché a scuola. Ciò che non è normale però è il fatto che Salvatore sia costretto ad andare a lavorare, che non abbia altra scelta. A Salvatore, come per molti bambini, anche in Italia dove c’è una delle migliori legislazioni a favore dell’infanzia, manca una rete di protezione che gli dia la possibilità di vivere (e non di sopravvivere), che gli dia la possibilità di godere dei suoi diritti (Salvatore ha diritto a giocare, a divertirsi, a studiare), che gli dia la possibilità domani di scegliere se continuare a studiare o andare a lavorare. Invece il Salvatore che conosciamo nel film, e i mille Salvatore che conosciamo fuori dalla sala cinematografica, è già predisposto e rassegnato a vivere una vita abbastanza sacrificata. Una vita dove la persona diventa una specie di oggetto, perdendo così parte della propria umanità: diventa cioè una macchina fatta soltanto per produrre e per stare alle dipendenze
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del padrone di turno. Da questo punto di vista la scena in cui vediamo un bianco cavalluccio di legno arenato sulla spiaggia siciliana rappresenta un'infanzia andata alla deriva e abbandonata al proprio destino.
Da Danilo Dolci a Marco Brioni: maestri di vita Ci sono situazioni nel nostro Paese in cui l’infanzia e l’adolescenza sono considerate fasi in cui è necessaria ancora la sottomissione, come se i bambini, i ragazzini non fossero in grado di pensare, di provare emozioni, di desiderare una vita diversa. Un ambiente socio-culturale come questo produce bambini e adolescenti che, anche in fase adulta, non sono in grado di esprimere effettivamente i propri bisogni e non sono in grado di esprimere desideri o tanto meno di realizzare sogni personali. Sono coloro che, più di tutti gli altri, finiscono per dipendere dalle mode (da oggetti, dall’abbigliamento e in generale dai prodotti destinati al consumo) spesso con la frustrazione di non poterli avere non essendoci adeguate disponibilità economiche. La mancanza di diritti e la mancanza di figure di adulti di riferimento, che aiutino certi bambini e ragazzini a prendere coscienza di se stessi, sono il terreno fertile per l’ignoranza e la dipendenza, e quindi creano persone non libere. Questo l’aveva capito molto bene Danilo Dolci, il grande pedagogo e maestro di nonviolenza, che dalla sua città natale, Sesana in provincia di Treviso, negli anni ’50 si era trasferito nella provincia palermitana, prima a Trappeto, poi a Partinico, dove ha vissuto fino alla sua morte. Dolci scopre che esiste una Sicilia poverissima in cui la gente è stata tenuta nella più buia ignoranza affinché non sapesse leggere e scrivere e non prendesse coscienza dei propri diritti e doveri di persona e cittadino. L’atteggiamento che ha avuto Dolci nei confronti dei bambini, degli adolescenti, delle donne e degli anziani della zona era stato proprio quello di dar
loro la possibilità di uno spazio collettivo di confronto grazie al quale potessero per la prima volta scoprire la libertà individuale e cominciare a chiedere alle Istituzioni servizi di cui avevano pieno diritto e invece non venivano loro offerti. Ed è quello che farà molti anni dopo anche Don Pino Puglisi a Brancaccio, quartiere alla periferia di Palermo, quando comincia a parlare ai bambini e ai ragazzi invitandoli ad interrogarsi sulle loro precarie e inaccettabili condizioni di non-vita e ignoranza. In un certo senso il maestro del film, Marco Brioni, si pone su questa scia: anche se la sua non è una missione sociale vera e propria, ma le sue azioni sono mosse da un sano istinto affettivo che lo porta a cogliere l’assurdità di ciò che vede. Il suo cognome esprime molto bene il senso delle sue azioni: è una persona che ha “brio” e perciò è in grado di dare “brio”. Come nel film Diario di un maestro, tratto dal romanzo Un anno a Pietralata di Albino Bernardi, dove il maestro riporta personalmente a scuola i ragazzi del quartiere Tiburtino di Roma, o come nel film Non uno di meno, in cui la giovanissima maestra di uno sperduto villaggio cinese va a cercare fino nella grande città dove era costretto a lavorare l’unico bambino che le mancava in classe. Così il maestro Marco Brioni non si dà pace sapendo Salvatore assente in classe e costretto a lavorare. La sua coscienza di maestro e di cittadino lo porta a rivedere i suoi tempi e i suoi obblighi burocratici. Anzi va oltre ciò che il suo ruolo gli impone: fa quello che avrebbe fatto Don Milani. Va oltre i suoi doveri burocratici per seguire i suoi doveri etici. Ascolta ciò che gli chiede la sua coscienza e il suo senso di responsabilità. Così Marco va a fare il maestro lì dove si trova Salvatore. Quindi trasforma la sua stessa aula scolastica, la allarga oltre i confini murari della scuola fino a comprendere la casa di Salvatore, dove a fine lavoro va a dargli qualche lezione. La testardaggine di Marco non è un atto eroico o un incosciente abuso che può mettere a rischio il suo stesso posto di lavoro, come viene fuori dal confronto con l’assistente sociale. E’ invece la conseguenza pratica del sentirsi persona prima ancora che insegnante: un educatore a tempo pieno, che va oltre l’orario scolastico. Se della sua classe fa parte anche Salvatore, e se Salvatore non va a scuola, tocca alla scuola andare da Salvatore, almeno per tentare di capire cosa è possibile fare. Nessun bambino o ragazzino, specie in età di obbligo scolastico, può essere abbandonato a se stesso. Anche perché un bambino non è in grado di scegliere serenamente cosa fare della propria vita. Le sue scelte sono sempre fortemente condizionate
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dall’ambiente in cui vive. Allora è giusto e necessario prospettargli altre possibilità, altre scelte. Se la scuola e lo Stato non si rendono veramente disponibili in questo senso, di figli continuerà a perderne tanti senza neanche più porsi il problema. Marco Brioni si trova di fronte a una realtà che va al di là di ogni sua aspettativa. Avrebbe potuto lasciar perdere, perché tanto un giorno sarebbe ritornato nella sua città, e invece si tuffa nella nuova realtà, attraverso la figura di Salvatore. Così ci fa scoprire che di fronte a certe questioni, vale sempre la pena di non fermarsi alle leggi e alla burocrazia. Che la nostra coscienza e il nostro sguardo possono molto di più, senza per questo avere la pretesa di salvare nessuno (solo Salvatore può “salvare” se stesso e non solo la sua famiglia, se imparerà, grazie all’aiuto anche di un maestro come Marco, a porsi le domande giuste e agire di conseguenza). Il compito, da educatore, di Marco è quello di stimolare in Salvatore domande nuove. A Salvatore e in generale a chi, senza nemmeno rendersene conto, ha sacrificato la propria infanzia e con essa la libertà più intima. A questo riguardo occorre ricordare quanto scrisse Danilo Dolci: “Un cambiamento non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni”.
“Questa storia rappresentava per me una sorta di ossessione. Dovevo iniziare le riprese di un thriller, soltanto che – ad un certo punto – queste sono state rimandate, come accade spesso, all’ultimo momento. Io, nel frattempo, ho deciso di scrivere la storia di Salvatore. Non pensavo sarebbe mai diventato un film ma – in quel momento – sapevo di doverlo fare. Non per gli altri. Per me. Così ho buttato giù la sceneggiatura. Chiunque la leggesse ne rimaneva molto colpito. A quel punto ho iniziato a pensare che sarebbe potuto diventare un film interessante.” “Alessandro Mailla, il bambino che interpreta Salvatore, ha una famiglia che lo adora e che lo segue, va a scuola e vive una vita come tutti i bambini della sua età. Al tempo stesso, però, aiuta la famiglia con piccoli lavoretti che gli hanno consentito di acquisire quella manualità naturale che nessuno potrà mai imparare per un film. Quando dovevamo girare la scena del cimitero in cui Salvatore scappa dall’assistente sociale per andare sulla tomba dei genitori, Alessandro mi ha chiesto se potevamo utilizzare la tomba di suo nonno cui era legatissimo e che è scomparso non molto tempo fa. È lui che oggi si occupa di pulire la tomba, cambiare i fiori e controllare che tutto sia apposto. Così mi ha chiesto di cambiare la location della ripresa. Fortunatamente il punto dove era situata ci consentiva di effettuare la ripresa così come l’avevamo immaginata nello script. La sua interpretazione è decisamente magnifica, perché credo che emotivamente sia riuscito a identificarsi in maniera molto forte con Salvatore.”
Gian Paolo Cugno ha pubblicato due romanzi, Passi nel buio (1994) e La donna di nessuno (1997), prima di passare dietro la macchina da presa. Ha realizzato vari documentari sulle città d'arte italiane, è stato assistente alla regia di numerosi film girati in Sicilia ed ha ideato e diretto, nel 2001 e 2002, il Festival Internazionale del Cinema di Frontiera. Nel 2003, ha diretto il cortometraggio Il volto di mia madre.
• Il film, tratto da una storia vera, ha anche elementi fiabeschi. Prova ad indicare quali sono gli elementi e i personaggi strettamente realistici e quali sono quelli che invece ti sono sembrati più fiabeschi. • Fai un ritratto di Salvatore indicando carattere, modi di fare, persone con cui vive, l’ambiente in cui si muove, le cose che sa fare. Poi fai la stessa cosa parlando di te. Ci sono elementi in comune o siete totalmente diversi? • Descrivi l’incontro e il rapporto tra Marco Brioni e Salvatore. Cosa ti ha colpito maggiormente della loro storia? • In cosa l’assistente sociale non concorda rispetto all’operato di Marco? Tu sei d’accordo con quanto sostiene l’assistente sociale o ti senti più vicino all’insegnante Marco? • Cosa vuole Marco da Salvatore? E cosa ne guadagna alla fine Salvatore dall’incontro con Marco? • Indica gli altri personaggi del film (dalla sorella, al direttore della scuola, a Timpaliscia, al bidello, ecc...) che importanza hanno nella vita di Salvatore e che funzione hanno nella storia? • Che immagine della Sicilia viene fuori da questo film? E’ quella che conoscevi già o ti ha dato impressioni nuove? • Ci sono nella tua classe o nella tua scuola alunni che oltre a venire a scuola lavorano o che a scuola non vengono per lavorare? Se la risposta è positiva potrebbe essere interessante ascoltarli un pò. • Lo sapevi che nel 1996 a Kandapur in India è nato il Movimento Mondiale dei Bambini Lavoratori, oggi costituito da 115 rappresentanti tra gli 8 e i 16 anni, provenienti soprattutto dall’Africa, dall’Asia centrale e dall’America Latina? Questo Movimento si incontra ogni due anni in varie città europee, ha pubblicato una Carta dei Diritti dei Bambini Lavoratori e promuove un sacco di iniziative interessanti. Se vuoi sapere qualcosa di più puoi consultare il sito italiano www.italianats.org
“Il mio film parla di una Sicilia molto attuale, ma al tempo stesso anche antica. Un luogo in cui tradizione e modernità coesistono, dove si ripetono gesti che appartengono a secoli fa e – al tempo stesso – si utilizza in maniera intensiva la tecnologia di Internet e il wireless”.
...l’attore Enrico Lo Verso (il maestro di Salvatore) “Quella dove abbiamo girato è una Sicilia molto particolare: il punto più a Sud dell’intera Europa, l’incontro tra i due mari, il punto di sintesi tra la cultura greca e quella araba...un luogo magico, misterioso che con le sue atmosfere, i suoi colori, i suoi odori e i suoi sapori ricorda un’idea di India con le sue suggestioni e la sua grandissima forza evocativa. Per tutto il tempo delle riprese, il regista teneva molto a che questi colori, odori, sapori arrivassero anche al pubblico.”
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Dio mio cosa mi sta accadendo? Cos’è questo strano dolore che mi prende lo stomaco? Chi è questa meravigliosa creatura che mi sta di fronte? (battuta di Gabe, nel film)
Gabe è un ragazzo di 11 anni che vive nell’Upper West Side di Manhattan con il padre Adam e la madre Leslie. I due genitori sono separati da un anno e mezzo ma condividono ancora la stessa casa. A Gabe hanno concesso di poter giocare nel quartiere, rimanendo però in un raggio di nove isolati e al ragazzo piace andare in giro con gli amici. Tutti loro credono che chiunque venga toccato da una ragazza finirà per prendere i pidocchi. Ma la vita di Gabe cambia quando incontra al corso di karate Rosemary, una bambina con la quale andava all’asilo. Adesso lei è più alta di lui, molto graziosa e molto brava con il karate. Gabe si ritrova con il cuore in tumulto, sempre sudato e incapace di parlare. Non gli resta che cercare di starle il più vicino possibile allenandosi insieme a lei.
Lo sguardo trasformato Cosa vuol dire innamorarsi per la prima volta? A undici anni? Il regista Mark Levin più che dare delle risposte, recupera nel suo personale passato quella che è stata la sua prima esperienza di innamoramento e ce la mostra in questo film, che è anche il suo primo lungometraggio. Ciò che ci fa vedere in particolare è come le cose cambiano ai nostri occhi se solo siamo innamorati, come accade al piccolo Gabe che fino a un certo punto sembra tranquillo, per quanto a tratti annoiato ma comunque ben protetto, nel suo tran tran quotidiano fatto di scuola, giri per il quartiere con il monopattino, videogiochi, tv, chiacchierate con i compagni rigorosamente di sesso maschile perché “le ragazze hanno i pidocchi e sono esseri ripugnanti da tenere a distanza”. E poi, all’improvviso, un giorno quelle stesse ragazze diventano le creature più adorabili della terra, senza le quali la giornata sarebbe invivibile. Questa straordinaria trasformazione dello sguardo è accompagnata da una serie di “fenomeni” che sorprendono Gabe, come una eccessiva sudorazione alle mani, l’ansia per l’attesa di una telefonata da parte di Rosemary, la gelosia per il nuovo compagno di karate, la felicità per l’invito a casa, il batticuore e il “solletico” allo stomaco per il
Regia: Mark Levin; Sceneggiatura: Jennifer Flackett; Direttore della fotografia: Tim Orr; Montaggio: Alan Edward Bell; Scenografia: Stuart Wurtzel; Costumi: Kasia Walicka Maimone; Musica: Chad Fisher; Attori e interpreti principali: Josh Hutcherson (Gabe), Charlie Ray (Rosemary), Bradley Whitford (Adam), Cynthia Nixon (Leslie), Willie Garson (Ralph); Produzione: Twenty Century Fox; Origine: U.S.A.; Anno: 2006; Durata: 84 minuti.
primo bacio, la tristezza per la sua partenza. Parallelamente è tutta la vita di Gabe che si scompone: improvvisamente gli amici diventano noiosi, i genitori opprimenti, i calci di precisione meno interessanti. Gabe vive per le lezioni di karate, dove fa coppia con Rosemary, e per gli allenamenti che fa con lei, che gli consentono di avere con la ragazzina un contatto fisico. Innamorarsi è come ritrovarsi sotto l’effetto di un incantesimo: il mondo è pieno di cose meravigliose, che non erano mai state notate; è come se fosse sempre primavera, con il cielo azzurro e il sole ben alto e caldo. La stessa città, il quartiere in cui Gabe è vissuto fino ad allora, appaiono diversi ai suoi occhi: non più il luogo in cui scivolare velocemente sul monopattino ma un sentiero in cui cercare sguardi, odori, colori che in qualche modo possano condurlo alla persona amata. Gabe cambia il modo di vestire, di pettinarsi, il modo di vivere la propria casa, che non è più il luogo in cui rifugiarsi a guardare il televisore sopportando a malapena i suoi genitori, ma la tana in cui imparare ad ascoltarsi. Insomma...innamorarsi, dice Gabe, è entrare in una relazione nuova con il mondo, a qualsiasi età. Una relazione che accentua la nostra sensibilità e ci fa sentire in forte comunicazione con un’altra persona per la quale siamo disponibili a fare qualsiasi cosa pur di averla accanto a noi. Certo ci sono anche i risvolti negativi, ci dice ancora
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la realtà lo usassimo più spesso. Quante cose non daremmo più per scontate, quanto saremmo meno passivi e più partecipi della vita, sempre nei limiti del rispetto degli altri ovviamente! L’innamoramento che seguiamo nel film non è altro che una unità di misura, quella che ci viene forse più facile da capire e accettare, delle possibilità che abbiamo di amare. Dove “amare” significa essenzialmente rompere degli schemi rigidi, vecchi, ripetitivi per ampliare la propria umanità e arricchirla di sfumature emotive. E’ interessante che il regista abbia scelto dell’amore proprio la fase dell’innamoramento, che è poi quella che generalmente resta più a lungo nei nostri ricordi proprio perché è sinonimo di scoperta, conoscenza, sconfinamento, è l’arte dell’avvicinamento all’altro, anzi alla bellezza dell’altro mettendo in gioco il meglio di noi stessi. L’innamoramento coincide con una fase di passaggio nella vita di una persona, piccola o grande che sia, come se fosse simbolicamente l’inizio di una nuova vita. L’innamoramento è una fase segnata dal mutamento, è uno slancio verso il futuro e nel film è vissuto anche simbolicamente, cioè come la possibilità che ci diamo di essere felici.
Voci fuori campo Gabe, come ad esempio, la scoperta un giorno, che la persona amata non ci ama più o che si sta allontanando da noi. Ma questa è un’altra storia. Forse da grande Gabe non ricorderà più quell'estate, gli amici con cui giocava a basket, ma per sempre, finché vivrà, ricorderà la prima persona che gli ha fatto scoprire le meraviglie del batticuore e delle farfalle nello stomaco.
Il presente illuminato Innamorarsi a Manhattan come abbiamo già detto, è un film sull’innamoramento quindi su cosa ci succede, fisicamente ed emotivamente quando scopriamo che siamo fortemente attratti da un’altra persona e soprattutto sulla possibilità che ognuno di noi ha di trasformare, cambiare la realtà se la guardiamo con sentimenti forti come l’amore. Cosa vuol dire trasformare la realtà? Il film, in maniera molto semplice ci mostra ad esempio come cambiano le abitudini di Gabe, i suoi interessi, il suo modo di vedere i propri genitori. Tutte queste piccole trasformazioni avvengono non perché cambia la realtà delle cose (che resta perfettamente la stessa) ma perché cambia il nostro modo di guardare la realtà e quindi di sentirla e di viverla. E’ come dire che in fondo la realtà oggettiva non esiste ma esiste la realtà che ognuno di noi vede e vive. Questo è straordinario perché vuol dire che ognuno di noi può fare molto per cambiare abitudini, comportamenti, situazioni che non ci piacciono. Gabe dimostra che non è il bambino un po’ passivo e sottomesso che vediamo qua e là nel film ma una giovane persona in grado di dare voce ai propri sentimenti. Dare voce alle proprie emozioni significa entrare in una relazione vera con altre persone, significa sentire l’umanità dell’altro (positiva o negativa questo non è importante), significa sentire sempre il proprio battito e quello di chi ci sta vicino. Insomma significa essere vivi. Immaginiamo se questo straordinario potere di cambiare
Possiamo individuare tre “voci fuori campo” nel film. La prima è quella di Gabe che sentiamo scandire e sottolineare i vari passaggi della sua storia come se stesse leggendo il suo diario. E come in ogni diario, prevale il tono sentimentale. La seconda voce fuori campo (nel senso improprio del termine perché nel film non è utilizzata tecnicamente come voce fuori campo) è quella dei genitori di Gabe. Diciamo “fuori campo” perché sembra che vivano una realtà diversa e distante da quella che vive Gabe, quindi come se fossero voci fuori dai bisogni del loro piccolo. I suoi genitori infatti sono ormai separati, tanto che la madre ha un altro compagno di vita, ma per la legge americana
finché la separazione non è definitivamente formalizzata, i genitori devono vivere nella stessa casa. Il rapporto distante fra i due genitori è ben evidenziato nelle sequenze che mostrano il cibo nel frigorifero con tanto di etichette su cui è riportato il nome di ognuno, sottolineando la mancanza di condivisione fra i due. Ed è bello scoprire che in Gabe non sta crescendo un certo rifiuto o disillusione della dimensione famigliare ma al contrario la sua giovane età, la sua piena apertura verso il mondo e il futuro lo porta
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a vedere il punto critico del rapporto fra i suoi genitori e a individuarne anche una soluzione. Gabe infatti, grazie al fatto che sta imparando ad ascoltarsi, intuisce che i suoi hanno smesso di parlarsi con il cuore ormai da anni e che questi loro silenzi, portati avanti per abitudine e per mancanza di coraggio, sono diventati muri. Gabe scopre la bellezza della parola d’amore detta, comunicata, condivisa. Che può essere anche una parola di dolore ma se le parole restano dentro rischiano di diventare pietre, se invece sono condivise arricchiscono la vita delle persone. Gabe riesce, con la sua voglia di assaporare la vita, a dare voce anche a suo padre, a spingerlo ad avere una comunicazione vera con la sua ex moglie ma non per tornare ad essere marito e moglie ma per darsi la libertà di essere se stesso e di recuperare la sua umanità. Esprimere i propri sentimenti è infatti una grande forma di libertà e di rispetto verso se stessi innanzitutto e chi impara a rispettare se stesso, rispetta solitamente anche gli altri. La terza voce fuori campo presente nel film è l’elemento scenografico, cioè la città di Manhattan, che è il cuore di New York. Il regista ci mostra una città bella, luccicante, pulita, serena non solo perché così la vede Gabe ma anche perché così vorrebbe conservarla il regista nella sua memoria. A Manhattan Mark Levin si è innamorato per la prima volta quando era ancora un bambino e la sceneggiatura di questo film l’ ha scritta insieme a sua moglie, Jennifer Flackett. In più a Manhattan sono stati girati diversi film che sono grandi storie d’amore. Se la città di New York rappresenta gli Stati Uniti d’America e Manhattan rappresenta l’amore, è chiaro che il richiamo che fa il regista è quello che questa parte di mondo possa tenere e sviluppare dentro di sé proprio tutto quel tumulto emotivo che ha provato in piccolo Gabe, per essere una città veramente aperta e che va verso l’altro senza pregiudizio, con la voglia di “conquistare” l’altro nel senso di amarlo. Aldo Capitini, che è stato un grande maestro della nonviolenza, chiamerebbe tutto questo “l’apertura al tu” che è la capacità creativa di sorridere all’altro, di includerlo anziché escluderlo. Esattamente come si fa quando si è innamorati.
Innamorarsi a Manhattan è il primo lungometraggio di Mark Levin che precedentemente ha lavorato come produttore e sceneggiatore per la TV americana e per il cinema.
• Prova a riassumere il film, mettendo in evidenza i passaggi più importanti. • Fai un breve ritratto di Gabe, descrivendo il suo carattere, e quelli che per te sono i suoi lati positivi e negativi. Fai poi la stessa cosa per Rosemary. Chi dei due ti assomiglia di più? In cosa? • Descrivi il rapporto tra la mamma e il papà di Gabe. Come lo vive Gabe? Tu cosa ne pensi? • Con un’immagine di fantasia prova a descrivere come cambia il mondo agli occhi di Gabe man mano che si accorge di essersi innamorato. • Che idea aveva Gabe delle ragazze, prima di conoscere Rosemary? Che ne pensi? • Su un foglio scrivi velocemente tutto quello che ti viene in mente rispetto alla parola “innamoramento” (puoi scrivere nomi, cose, colori, sentimenti, emozioni, frasi, versi di canzoni, ecc...). Confronta poi il tuo lavoro con quello dei tuoi compagni di classe. Successivamente fate un confronto con quanto ha espresso il regista nel film. • Cosa consiglia a un certo punto Gabe a suo padre per vivere diversamente il suo rapporto con la ex moglie? Sei d’accordo con quello che suggerisce Gabe? E tu esprimi facilmente i tuoi pensieri? Comunichi solitamente le tue emozioni? • C’è una frase o un gesto o uno sguardo o una sequenza del film che ti ha particolarmente colpito? Scrivila o disegnala o mettila in scena. Che sensazioni provi? • Come mai nel film viene usata la voce fuori campo? Qual è la sua funzione? • Dalla storia che hai visto, quali comportamenti definiresti nonviolenti? Confrontati con i tuoi compagni di classe.
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Saïd: «Il martirio ci porterà in Paradiso» Suha: «Il Paradiso non esiste, esiste solo nella tua testa» Saïd: «Meglio un Paradiso nella testa che l'inferno di quaggiù» (dialogo tratto dal film)
Nablus, Palestina, oggi. Khaled e Saïd sono amici da quando avevano otto anni, ma ora sono adulti e sono stati scelti per un attentato kamikaze in Israele come risposta all'occupazione israeliana. Il padre di Saïd è stato ucciso quando il ragazzo aveva solo dieci anni, accusato di aver collaborato con la controparte israeliana. Suha, figlia di un eroe della resistenza palestinese della generazione precedente, torna a Nablus. E' stata via per due mesi e per prima cosa va al garage dove lavoravano i due ragazzi: è chiaramente attratta da Saïd, anche se non lo dà a vedere, e da pacifista convinta cercherà di fargli cambiare idea. Il giorno previsto per la missione è pieno di dubbi e imprevisti.
Tre regole elementari Ad un film chiediamo essenzialmente tre cose. In primo luogo che dia spazio sullo schermo agli esseri viventi. Usiamo l’espressione “esseri viventi” anziché “esseri umani” per porre l’accento sul concetto di “vivente”. E dunque sul concetto di vita, come valore assoluto e principio attivo della condizione umana. Come seconda cosa chiediamo che ogni inquadratura sia in grado di contenere un messaggio coerente e dunque che possa durare quanto basta affinché questo messaggio sia compreso dallo spettatore. Lo stesso ritmo del film, dato dal succedersi di più inquadrature di senso compiuto, dovrà obbedire a questa esigenza di comprensione. La terza cosa riguarda invece la posizione che lo spettatore deve assumere rispetto alla vicenda rappresentata: il film deve metterci nella migliore posizione possibile. Deve cioè farci stare dalla parte più giusta.
Regia: Hany Abu-Assad. Soggetto e sceneggiatura: Bero Beyer, Hany Abu-Assad. Fotografia: Antoine Heberlè. Montaggio: Sander Vos. Musica: Jina Sumedi. Scenografia: Olivier Meidinger. Costumi: Walid Maw'Ed. Interpreti:Kais Nashef (Saïd), Ali Suleiman (Khaled), Lubna Azabal (Suha), Amer Hlehel (Jamal), Ashraf Barhoum (AbuKarem), Mohammad Bustami (Abu-Salim), Olivier Meidinger (AbuShabaab), Mohammad Kosa (il fotografo), Hiam Abbass (la madre di Saïd). Produzione: Augustus Film, Razor Film, Lumen Film. Origine: Francia, Germania, Olanda, 2005. Durata: 90 minuti.
I protagonisti come esseri “viventi” Proviamo a vedere in che modo Paradise Now, proprio perché affronta una questione drammatica e complessa come quella del conflitto israeliano-palestinese, offre una risposta adeguata a queste tre richieste. A prima vista può sembrare equivoca e non condivisibile la scelta di concentrarsi su due personaggi precisi: due aspiranti “martiri” palestinesi, decisi a sacrificare la propria vita per distruggerne altre in territorio israeliano credendo che questo apra loro le porte del Paradiso. Ma è corretto dire che l’autore del film in questo modo ci fa conoscere solo il punto di vista palestinese del conflitto in atto. Ecco allora che la risposta alla prima delle tre richieste ci aiuta a capire meglio il senso di questa scelta. Il regista, anche sceneggiatore del film, non ci fa stare da una parte politica, ma dalla parte di due persone comuni. Due esseri umani. O, per usare l’espressione prima indicata, due esseri viventi. Di Khaled e Saïd sappiamo ben poco all’inizio. Possiedono soltanto la loro vita. Non è una vita entusiasmante, questo è certo. Grava su di loro, come su molti giovani palestinesi, un senso di scoraggiamento e di sconfitta, di dignità offesa, di mancanza di prospettive dovuto all’occupazione armata israeliana. Un’occupazione che mette in crisi chi sta cercando un’identità individuale. Un’identità che deriva a sua volta dall’identità nazionale. In altre parole, possiamo dire che l’orgoglio di questi giovani si intreccia con l’orgoglio della nazione intera. E la pressione esercitata dai militari israeliani nei territori occupati viene sentita dai palestinesi,
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specialmente dai più giovani, come una forma di oppressione personale. tanto più insopportabile. Perché i giovani per primi amano sentirsi liberi, autonomi ed indipendenti. Non è un caso, come dimostra purtroppo la cronaca, che i casi di kamikaze palestinesi in territorio israeliano, a fronte di una disperazione sempre crescente e diffusa tra i giovani, è aumentato proprio da quando è andata sempre più complicandosi la prospettiva di uno Stato Palestinese libero dall’ingerenza israeliana. Cioè da quando hanno cominciato ad affievolirsi le speranze di libertà, dignità, di nazionalità riconosciuta nate in seguito agli storici accordi di pace sottoscritti a Washington il 13 settembre1993: questa è la data della nota ”Dichiarazione di principio su accordi transitori di autonomia” o “Dichiarazione di principi israeliano-palestinese”, firmata congiuntamente da Itzhak Rabin e Shimon Peres, per lo Stato di Israele, e da Mahmoud Abbas e Yasser Arafat per l’Olp (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nata nel 1964). «La Dichiarazione – si legge nel libro Storia del conflitto israeliano palestinese – Tra dialoghi di pace e monologhi di guerra di Giovanni Codovini –conteneva infatti principi e modalità che le due parti avevano concordato per realizzare in tempi determinati il previsto autogoverno palestinese ad interim, quale fase transitoria che precede il negoziato sulla sistemazione definitiva». Cosa è successo dopo il 1993? Cosa è successo cioè dopo che le città palestinesi erano state sgomberate dagli israeliani, che era possibile esibire ufficialmente le bandiere palestinesi e usare le uniformi palestinesi? Si era diffusa un’euforia e una fierezza, destinata però ad una più cocente delusione, come ci spiega Christopher Reuter, autore del libro La mia vita è un’arma – Storia e psicologia del terrorismo suicida: «Poi però questa fierezza si era sbiadita, il governo autonomo di Arafat si era rivelato corrotto e antidemocratico, le città palestinesi erano state ridotte a isole separate tra le quali viaggiare era più difficile di prima, la costruzione degli insediamenti israeliani era continuata e oggi sembra non solo inattuato, ma anche inattuabile ciò che avevano sperato». Dunque, soffermandosi con inquadrature prolungate e dense sui due protagonisti, sui loro familiari e amici, pedinandoli, inseguendoli con la macchina da presa, raccogliendo le loro parole e vigilando sui loro silenzi, il regista di Paradise Now prova a capire l’importanza di quelle vite schiacciate da un senso di disagio più grande. Vite che per kamikaze votati alla morte appaiono come un bene transitorio, sacrificabile per una causa più alta non rendendosi conto che non esiste una causa più alta della vita stessa. Il regista si concentra su queste due persone, senza giudicarle, ma osservandole con apprensione nel corso delle ventiquattro ore che separano la vita dalla morte (la loro di vita, ma anche quelle di innocenti vittime e ignare israeliane). Vi insiste. E ottiene
un risultato importante per noi spettatori: l’immedesimazione a livello umano e non politico.
L’immedesimazione a livello umano I due protagonisti sono scontrosi, perché, lavorando svogliatamente in un’officina meccanica, vediamo come reagiscono con violenza alle pretese di un cliente. Ma questo fa parte del loro carattere. Khaled sembra addirittura più irascibile di Saïd. Eppure è Saïd il primo nel film a farsi fotografare, senza sorridere, in vista dell’arruolamento nel commando suicida. Da questo momento però quell’unico bene di cui disponevano, la vita, viene offerto per una causa che è una causa di morte, prima ancora di essere una causa religiosa o politica. Le loro vite stanno per essere trasformate in oggetti. Oggetti mortali: la morte, attraverso Khaled e Saïd, compirà un doppio misfatto, ovvero agirà contro i cosiddetti “martiri” e nel contempo contro gli innocenti cittadini, militari o civili israeliani. Eppure lo spettatore non può condividere questa prospettiva, proprio perché il film non ci ha mostrato da subito i due protagonisti nella veste
di kamikaze, ma come persone, dentro una vita e dentro nuclei familiari che ancora appartengono a loro e hanno un valore, pur nella sofferenza, nello sconforto, nel malessere di un intero popolo e di un’intera nazione. Passiamo ora alla seconda domanda: per ottenere il risultato di farci immedesimare con i due protagonisti il film fa in modo che le singole inquadrature a loro dedicate, spesso silenziose e prive di spiegazioni, durino a lungo. Lo scopo è quello di dare a noi il tempo necessario per condividere lo spazio vitale dei protagonisti. E consentire a loro di varcare la soglia della nostra coscienza. Attenzione: abbiamo appena parlato di “immedesimazione”. Ma immedesimarsi non significa condividere le loro intenzioni omicide e suicide, bensì percepire costoro come persone vive e reali (non soltanto personaggi): quindi simili a noi e parte integrante dell’umanità, ciò che la nonviolenza chiama empatia. La particolarità di Paradise Now l’ha spiegata molto bene ad esempio Mike Corradi, che è il responsabile del settore mediorientale per Amnesty International: «Abbiamo deciso di patrocinare il film perché è un vivo esempio di come sia importante la sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul grave problema dei diritti umani. Il connubio con il cinema è importantissimo, perché il cinema ha la capacità di mostrarci casi particolari di una situazione che noi conosciamo a grandi linee dai giornali e dalle tv, ma penetra questi fatti, e ci mostrano la vita quotidiana».
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Dalla parte della vita Dalla corretta applicazione delle prime due regole deriva l’importanza che in questo film assume soprattutto la terza regola. Che vuol dire stare dalla parte giusta in questa storia incentrata su due kamikaze palestinesi? Vuol dire comprendere la complessità del problema affrontato. Vuol dire non stare dalla parte degli uni (i palestinesi unici protagonisti del film) o degli altri (gli israeliani assenti, ma ugualmente percepiti come esseri viventi). Vuol dire rendersi conto che la storia del conflitto tra israeliani e palestinesi ha origini lontane e non può essere ridotta ad un confronto-scontro tra ragioni che stanno tutte da una parte e torti tutti dall’altra. Ci sono torti (la violenza, a qualsiasi livello) e ragioni (il bisogno di un posto in cui vivere) su ciascun fronte. A questo riguardo si è espresso con estrema chiarezza lo scrittore israeliano Amos Oz nel libro Contro il fanatismo: «I palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la patria, l’unica patria del popolo palestinese. Allo stesso modo in cui l’Olanda è la patria degli olandesi, o la Svezia degli svedesi. Gli ebrei israeliani sono in Israele perché non esiste altro paese al mondo che gli ebrei, in quanto popolo, in quanto nazione, abbiano mai potuto chiamare “casa”. In quanto individui sì, ma non come popolo, come nazione. I palestinesi hanno loro malgrado cercato di vivere in altri paesi arabi. Sono stati respinti, talvolta persino umiliati e perseguitati dalla cosiddetta “famiglia araba”. Nel modo più doloroso, sono diventati consapevoli della loro “palestinità”: sono stati malvoluti come libanesi, siriani, egiziani, iracheni. Hanno imparato brutalmente che sono palestinesi e che questo è l’unico paese sul quale possono contare. Stranamente, il popolo ebraico è come se avesse un’esperienza storica parallela a quella del popolo palestinese. Gli ebrei sono stati espulsi dall’Europa. Così come i palestinesi sono stati cacciati dapprima dalla Palestina e poi da tutti i paesi arabi, o quasi. Alcuni conflitti sono molto reali, sono ben peggio di un malinteso. Temo che non ci sia alcun malinteso di base, fra arabi palestinesi e israeliani ebrei. I palestinesi vogliono la terra che chiamano Palestina. La vogliono per delle ragioni stringenti. Gli ebrei israeliani vogliono esattamente la stessa terra esattamente per le stesse ragioni, il che garantisce una perfetta comprensione fra le parti, e dà la misura di una terribile tragedia». Dunque che può fare un semplice film come Paradise Now di fronte a questo problema storico e di difficile soluzione, cui solo il tempo e la comprensione reciproca potrà provvedere? Può scegliere di stare dalla parte migliore, date le circostanze. E fare stare noi da questa parte migliore, ossia dalla parte della vita. La vita di tutti. La vita che contiene le ragioni di tutti. Noi stessi, come spettatori, guardando il film, ci auguriamo in continuazione che avvenga qualcosa di imprevisto che impedisca il corretto e letale svolgimento del progetto suicida e omicida. E se questo accade è perché anche il film si sforza di
cercare una terza soluzione, un’altra via d’uscita rispetto al muro contro muro, di cui i due giovani kamikaze Khaled e Saïd del film sono espressione. Il film trova in Suha, figlia a sua volta di un martire palestinese, la principale interprete di questa profonda esigenza di vita, di comprensione e di dialogo. Anche lei soffre per la condizione del suo popolo, ma ripudia la violenza. Ama la vita, perché è segretamente innamorata di Saïd, e sente che suo padre, per quanto considerato da tutti un eroe, le manca profondamente. E nessuna causa, politica o religiosa che sia, potrà restituirgliela. Specie quando il presunto martirio o atto terroristico diventa uno spettacolo crudele, dove i “martiri” sono costretti a recitare più d’una volta il proprio doloroso testamento, affinché poi le videocassette con questi messaggi di morte giungano e vadano a ruba sul mercato di commercianti senza scrupoli, che ci speculano.
Intervista al regista In che condizioni finanziare è stato prodotto il film? Il film è stato prodotto da capitali europei, e il budget non è certamente elevatissimo. Abbiamo chiesto anche agli israeliani di investire nel film, ma hanno rifiutato. C'è anche un produttore israeliano, che ci è stato indispensabile soprattutto dal punto di vista logistico, e che ringrazio tantissimo, ma dal punto di vista finanziario non ci è arrivato nulla. Ma la storia non è stata affatto condizionata dal budget. Volevo costruire una storia realistica, e quello ho fatto. Un thriller che avesse in sè situazione, tempo e luoghi reali. Ragionando sul fenomeno dei kamikaze, che si è molto inasprito in questi ultimi tempi, le risulta che ci siano più morti palestinesi per mano palestinese o per mano ebrea? Io sono l'ultimo a dire che ora come ora in Palestina ci sia una situazione serena. Ma d'altra parte non c'è una situazione sana. Israele però non fa nulla per aiutare i palestinesi, nulla per aiutarci a crescere, progredire. Il popolo palestinese, in particolar modo nella striscia di Gaza, vive sotto occupazione. Ora nel mio film non mi sembra di parlare di questi aspetti in maniera politica, il mio è un film sul cinema, non sulla politica. Delle due visioni della lotta che lei riporta nel film, in quale si riconosce? Come è stato accolto il film dai movimenti che lottano per una liberazione della Palestina? C'è stato in effetti uno dei movimenti, lì in Palestina, che mi ha criticato molto. Gli altri, convinti che comunque il mio film parlasse del tentativo di liberazione della nostra terra, mi hanno lasciato fare liberamente. In generale c'è stata molta condiscendenza. La Palestina è una società plurale, io sono sicuramente fra coloro che sostengono che i kamikaze ci mettono allo stesso livello degli occupanti. La necessità, l'urgenza di raccontare questa storia è un modo per perpetrare la memoria, per assicurare la sopravvivenza a un popolo.
• Quali sono le tre regole indicate in questa scheda cui un film dovrebbe obbedire per stabilire con lo spettatore un rapporto di proficuo dialogo educativo? • Come può essere interpretata la prima regola all’interno di questo film? Che idea ti sei fatto, guardando il film e leggendo la scheda, della personalità di un kamikaze? • La seconda regola invece ci consente di conoscere più a fondo, umanamente e non politicamente, i protagonisti. Puoi spiegare come? • La terza regola, mettendoci dalla parte della vita come valore assoluto, in che misura ci dà anche la possibilità di comprendere la complessità del conflitto tra israeliani e palestinesi? • Quale personaggio e perché si fa interprete del punto di vista al di sopra delle parti assunto dal film? • Attorno alla pratica rituale del “martirio” terroristico si sviluppa anche un commercio legato alle immagini. Puoi spiegare come funziona, riflettendo anche su come oggi nelle attuali guerre il mercato delle immagini abbia preso il sopravvento? Un suggerimento: prova a fare un collegamento tra i video-testamenti dei kamikaze e le esecuzioni “in diretta” che i rapitori di Al-Qaeida diffondono sui mass media.
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Durante la notte a Los Angeles, il detective di colore Graham Waters scopre un cadavere al lato della strada. Non sarà un omicidio qualsiasi, come si scoprirà alla fine. In precedenza c’erano stati vari avvenimenti: 1) il furto dell’automobile del procuratore distrettuale, da parte di due balordi neri. Mentre il procuratore, è principalmente preoccupato di non alienarsi il voto della comunità afroamericana, sua moglie, dopo l’episodio, dà voce a tutto il suo razzismo, complicando il rapporto coniugale. 2) Un commerciante iraniano acquista una pistola per far fronte ai tentativi di rapina nel suo negozio, che però viene svaligiato. Quando l’assicurazione si rifiuta di rimborsarlo, dà la colpa al fabbro latinoamericano che gli ha sostituito la serratura. 3) Un poliziotto di pattuglia bianco vorrebbe più attenzioni per il padre malato, dall’assistenza sanitaria. Non ricevendole, sfoga il rancore su una coppia di facoltosi afroamericani, fermati dopo il furto del veicolo del procuratore: minaccia l’uomo, un regista di successo ma succube della politica razzista dello studio, e abusa della moglie, che rimprovera al marito di averlo lasciato fare. Queste e altre storie simili, di quotidiana intolleranza o disparità razziale, intrecciandosi e raggiungendo il limite massimo della tensione interna, finiranno per esplodere.
Porte che si chiudono e si aprono Se ci facciamo caso, in questo film accade spesso che per una porta che si chiude in una inquadratura, se ne apre un'altra nella successiva. Questa trovata visiva, quest’idea di montaggio molto semplice riassume un modo di raccontare le storie che si intrecciano. Ed è anche un modo di indagare la realtà complessa dove persone diverse, etnie diverse, uomini e donne convivono. Il film si svolge in una città precisa: Los Angeles. Ma Los Angeles vuol dire l’America tutta. O forse addirittura il mondo intero, dove la convivenza tra popoli, culture, razze, religioni e nazioni rappresenta la principale sfida per il futuro. I conflitti, le guerre, le tensioni dovute alle diversità (diversità di tutti i tipi) rappresentano oggi una triste realtà. Il film vorrebbe, con molta chiarezza e con dolente consapevolezza mostrarci la possibilità concreta di questa convivenza, ma non si fa illusioni sulle difficoltà altrettanto concrete di attuarla. Il film ci mostra dunque un modello di società (losangelina,
Regia: Paul Haggis. Soggetto: Paul Haggis. Sceneggiatura: Paul Haggis, Bobby Moresco. Fotografia: James Muro. Montaggio: Hughes Winborne. Musica: Mark Isham. Scenografia: Laurence Bennett. Costumi: Linda M. Bass. Interpreti: Don Cheadle (il detective Graham Waters), Matt Dillon (l’agente Ryan), Brendan Fraser (il procuratore distrettuale Rick Cabot), Sandra Bullock (Jean Cabot), Thandie Newton (Christina Thayer), Ryan Philippe (l’agente Tommy Hanson), Jennifer Esposito (Ria), William Fichtner (Jake Flanagan), Terrence Dashon Howard (Cameron Thayer), Lucadris (Anthony), Larenz Tate (Peter Waters), Karina Arroyave (Elizabeth), Dato Bakhtadze (Lucien), Sean Cory (il poliziotto in motocicletta), Tony Danza (Fred), Keith David (il tenente Dixon), Eddie Fernandez (l’agente Gomez), Howard Fong (il proprietario del negozio), Billy Gallo (l’agente Hill), Ken Garito (Bruce), Nona Gaye (Karen; Origine: Stati Uniti, Germania, 2005. Durata: 113 minuti.
statunitense o mondiale) e ne sottolinea le disfunzioni. Sembra cioè che andare d’accordo sia impossibile, perché tutti per ragioni personali o per ragioni effettive sono arrabbiati, risentiti e pronti allo scontro frontale. Il “crash” del titolo, ha un doppio significato: si riferisce all’impatto fisico negativo dell’incidente (il “crash”), ma anche all’occasione di incontro che può derivarne. Stranamente e tragicamente i personaggi del film stabiliscono rapporti, alcuni casuali altri obbligatori. Ci sono una casalinga e il marito procuratore, un iraniano proprietario di un negozio aperto 24 ore su 24, due detective della polizia, anche amanti occasionali, il direttore nero di un canale televisivo e la moglie, un fabbro latinoamericano, due ladri di automobili, un poliziotto con il padre ammalato e la giovane recluta con cui fa servizio di pattuglia, una coppia coreana di mezza età. Ma tutti questi rapporti, questa rete di relazioni, risulta nel bene e nel male coerente. Coerente come può essere un gioco di vasi comunicanti, di porte che si aprono e si chiudono simultaneamente: insomma di “contatti fisici” tra individui che non rappresentano solo se stessi, ma sono emblematici di una condizione etnica, sociale e psicologica: occidentali, asiatici, mediorientali, afroamericani, ma anche adulti e bambini, ricchi e poveri, uomini e donne, persone colte e persone ignoranti, persone arrabbiate e persone di buon senso, persone violente e persone non violente, genitori e figli, fratelli e sorelle, amici e amiche, datori di lavoro e dipendenti. Costoro, presi uno
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per uno, scatenano reazioni a catena destinate a produrre effetti di breve, media e lunga durata. Fortunatamente, il più delle volte positivi. Già perché l’autore del film, Paul Haggis, che firma anche la sceneggiatura, non si limita a mostrare lo schema di questi svariati contatti che si moltiplicano, si sovrappongono. L’intreccio che Haggis costruisce contiene anche una prospettiva precisa. Avrebbe potuto dare un indirizzo in prevalenza negativo ai risultati della serie di incontri e scontri. Invece, nonostante l’omicidio involontario che apre e chiude il film, la maggior parte di questi personaggi legati dalle circostanze più impensabili di incontro-scontro trova un accordo. Un accordo che può apparire anche come una semplice tregua. I conflitti infatti non si appianano, ma almeno superano la loro fase più acuta e preoccupante. Per una pistola che spara e che uccide, molte altre miracolosamente non sortiscono lo stesso micidiale effetto (pensiamo a quella del commerciante iraniano che rischia di sparare e uccidere la figlia del fabbro latinoamericano). Questo vuol dire scegliere e dunque credere in una svolta lenta ma incoraggiante. Il film sembrerebbe essere molto pessimista. Invece avviene proprio il contrario, come ci dimostrano le porte che si aprono immediatamente dopo quelle che si chiudono, saldando così una sequenza all’altra: quando il pessimismo generalizzato in materia di rapporti di forza all’interno del conclamato e improbabile crogiuolo di razze (gli Stati Uniti si definiscono appunto un melting pot ovvero un “crogiuolo di razze”) si trasforma in uno schema fisso a livello di scrittura e di montaggio cinematografici è inevitabile che dietro ci sia l’ottimismo: l’illusione cioè che il congegno ad orologeria in grado di regolare le interferenze e le interazioni culturali possa essere altrettanto generoso e provvidenziale quanto una solida sceneggiatura assecondata da un montaggio altrettanto puntuale.
La forma del contenuto Questa tecnica di montaggio, che abbiamo riassunto nelle ricorrenti porte che si chiudono in una sequenza e si aprono immediatamente dopo nell’altra, in gergo tecnico si chiama “montaggio incrociato”. Viceversa, si chiama “montaggio parallelo” l’altra tecnica di montaggio con cui si apre il film. Il montaggio parallelo serve a combinare o a mettere in relazione tempi diversi. Abbiamo il montaggio parallelo quando scatta il lungo flashback del film dopo
la prima sequenza dove il poliziotto di colore Graham Waters giunge sulla scena del delitto. Lui sa bene chi è la persona uccisa e ne rimane profondamente addolorato. Si tratta di suo fratello, il fratello più inquieto e balordo. Ma noi spettatori non sappiamo all’inizio chi sia stato ucciso, né come e perché. Non lo sappiamo perché non conosciamo la storia, anzi le storie, che ci sono dietro. Perciò il film ha bisogno di un lungo resoconto. Perciò il racconto fa marcia indietro: il lungo flashback serve a noi a sapere come è potuto accadere il fatto increscioso cui stiamo assistendo assieme al poliziotto. A renderci conto cioè della complessità del quadro generale che ha prodotto quel tragico effetto particolare. Abbiamo dunque parlato di montaggio. Di montaggio “incrociato” e di montaggio “parallelo”. Ma, a pensarci bene, non si tratta solo di terminologia cinematografica specialistica. I concetti di “incrociato” e “parallelo” in questo film assumono un’importanza enorme a livello umano. Cosa si intende per “incrociato” e cosa si intende per “parallelo”? L’esempio più immediato possiamo derivarlo dalla geometria: due rette si definiscono parallele quando non si incontrano mai; diversamente si dice che si incrociano in un determinato punto. Applichiamo questa considerazione al film Crash: i personaggi che non possono né incontrarsi o scontrarsi sono destinati a non comunicare mai, e questo è terribile. Chi invece ha la fortuna o la sfortuna di fare un incontro, bello o brutto, ha qualche possibilità di uscire dal proprio isolamento. Non è detto che la cosa possa funzionare, ma almeno esiste una remota possibilità di superamento delle barriere. Quando il film comincia il delitto è stato già compiuto, la morte ha avuto il sopravvento. E niente o nessuno può provvedere più. Ecco perché il regista decide di servirsi del montaggio parallelo, attraverso il flashback, per farci sapere ciò che serve sapere, comunque nella consapevolezza di non poter modificare il destino tragico toccato alla vittima, alla persona uccisa. Il regista in altre parole mette l’uno accanto all’altro due tempi (il presente e il passato) nella triste convinzione di non poterli far più dialogare. Se il presente avesse potuto agire sul passato, il delitto non si sarebbe consumato. Ma ora è tardi: il presente (quello che noi chiamiamo “il senno di poi”) non può più agire, beneficamente, sul passato. Occorre dunque risalire alla causa. O, seguendo lo schema che il film propone, alle cause. Non esiste infatti una sola causa. Le cause sono tante e concomitanti, persino in contraddizione tra loro. Come i popoli, le situazioni, le persone, le culture, le idee. Il film vuole perciò che di questo possiamo renderci conto: della complessità, del quadro d’insieme, dei singoli
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Appunti di viaggio dentro la comunità mista, conflittuale e turbolenta. Perciò, da quando ha inizio il lungo flashback, ecco che la tecnica con cui vengono saldate le singole sequenze (ciascuna contenente una porzione specifica di società) è quella del montaggio incrociato, che offre ai protagonisti e anche agli spettatori più chances di soluzioni concrete e condivise. Il flashback, pur introducendoci in una dimensione anteriore, cioè la dimensione del passato, non ci sembra più un flashback dopo che le singole sequenze si susseguono. Ci dimentichiamo presto che stiamo assistendo a un lungo flashback. Tutto diventa presente e perciò può essere cambiato, migliorato, grazie a questa serie di intrecci, incroci, contatti, imprevisti, coincidenze. Riassumendo, in questo film il montaggio incrociato delinea quindi il gioco delle possibilità. Mentre quello parallelo sigla l’impossibilità di ottenere risultati proficui. Bisogna vivere – ci dice l’autore – i rapporti umani come momenti di un lungo, laborioso e proficuo presente. Guardarsi alle spalle e riconoscere gli errori può anche essere utile e importante, ma re s t a u n ’ e s p e r i e n z a spiacevole. Tutti i personaggi in questo film potrebbero o avrebbero potuto fare meglio di ciò che scelgono lì per lì di fare o hanno ormai già fatto. La sfortuna può decretare la morte di qualcuno (il fratello balordo del poliziotto) o la salvezza di qualcun altro (la bambina latinomericana figlia del fabbro o la ragazza afroamericana che rimane intrappolata nell’automobile che sta per esplodere dopo l’incidente). Ma non deve essere questione di fortuna o sfortuna, sebbene nel film però la fortuna superi la sfortuna (ed è una precisa posizione dell’autore in fondo molto ottimista). Se il problema è l’intolleranza tra soggetti o gruppi diversi o l’incomprensione reciproca a qualsiasi livello che produce gli “incidenti”, ovvero i “crash”, la soluzione al problema è contenuta proprio in questi stessi “crash” che possono riservare sorprese inaspettate: il poliziotto arrabbiato che aiuta, a rischio della vita, istintivamente la ragazza che aveva profondamente umiliato, la ragazza stessa che accetta di fidarsi di costui nel momento del bisogno. Sempre di incidenti si tratta, ma dagli esiti migliori possibili. Questo film in sostanza ci parla di un mondo sconvolto da divisioni, violenze, pregiudizi, soprusi e incomunicabilità. Eppure affida tutte le sue s p e ra n z e a questa varietà irriducibile. Ci parla di difficile compresenza, di somma infinita di
soggetti che stentano a trovare un accordo o al più un buon compromesso. Ma non nega loro una possibilità di raggiungerlo, persino nelle circostanze più impensabili. Sta dalla parte più “giusta”. Quella della apertura all’altro. Sta dalla parte delle persone chiuse nel proprio dolore che però riescono, all’improvviso, una volta tanto, tra mille contraddizioni, a riconoscersi negli altri. Sta dalla parte dell’io, di ogni singolo io che impara a dare del tu. Ma ci avverte anche che la disponibilità verso gli altri non basta, non può essere sopravvalutata o considerata di per sé una soluzione certa. Non a caso è proprio il poliziotto bianco, giovane, buono e tollerante a sparare e ad uccidere, involontariamente fino a un certo punto perché anche lui in fondo ha obbedito al pregiudizio verso il ragazzo di colore cui ha dato il passaggio in piena notte. Anche lui ha creduto che potesse essere un criminale,
quale infatti era. Ma non ha capito che il semplice gesto di prendere qualcosa in tasca, persino da parte di un criminale sciocco e inoffensivo, poteva non contenere necessariamente una minaccia. Questo poliziotto si è comportato sempre molto bene, ma ha commesso per un istante – fatale – l’errore di cedere all’istinto violento, offensivo, pregiudiziale. Questi sono i casi della vita, i “crash” appunto, che offrono però molte buone opportunità. Sapendole cogliere. Sapendole gestire, in nome di un’apertura verso l’altro, di una persuasione che vede nella compresenza multiculturale un valore da saper apprezzare nella giusta e prudente misura e non una minaccia da cui difendersi sempre e comunque. Tutto dipende dalle persone. Dalla loro intelligenza, forza interiore, pazienza. Insomma dalle ragioni profonde della nonviolenza che alle volte trovano più spazio nell’individuo più che nelle convenzioni imposte dalla società: il rimorso, lo stesso male di vivere, la rassegnazione, il senso di colpa, la coesistenza breve e occasionale riescono laddove la società ha fallito e sembra impegnarsi a fallire in continuazione. I rapporti interpersonali e diretti hanno quindi migliori opportunità risolutive del sistema stesso. Questo, sembra sottolineare il film, nonostante qualche eccezione spiacevole e fallimentare, che serve a confermare la regola dell’amore. La quadratura del cerchio è impresa ardua ma necessaria e soprattutto utile.
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Come nasce l'idea del film? La mia macchina è stata rubata nel 1991 ed io ho cominciato a pensare ai due uomini che l'avevano rubata. Mi tornava in mente questa storia continuamente e alla fine, dieci anni fa, ho pensato di scriverci sopra una sceneggiatura. Mi incuriosiva l'approccio che si ha con gli stranieri, spesso abbiamo di loro un impatto negativo senza sapere che tipo di vita conducono. Ho messo nel film me e mia moglie e tutto quello che ci era successo: quando alle due di notte abbiamo cambiato la serratura di casa per paura che ci entrassero questi sconosciuti. Seguendo questi personaggi sono rimasto affascinato dal fatto che entriamo in contatto con questo tipo di gente ma non li conosciamo affatto. Allora ho cominciato a chiedermi chi fossero i due che ci avevano rapinato, come vivessero, da
dove venivano e dove sarebbero andati. Ho seguito questi pensieri allargandoli con riflessioni sulle persone che incroci per caso, con cui ti capita di interagire solo qualche secondo che però hanno una vita e una storia alle spalle.
Paul Haggis, uno dei più prestigiosi e impegnati sceneggiatori di Hollywood, ha debuttato dietro la macchina da presa proprio con Crash, che gli è valso nel 2006 l’Oscar come miglior regista e per il miglior film. Precedentemente, ha scritto la sceneggiatura del film Million Dollar Baby di Clint Eastwood, anch’esso vincitore di molti Oscar nel 2005, tra cui quello per il miglior film. Ha scritto anche la sceneggiatura di Flags of Our Fathers che racconta la battaglia di Iwo Jima durante la Seconda Guerra Mondiale, sempre diretto da Clint Eastwood, dell’ultimo film della serie di 007, Casino Royale, e del rifacimento americano de L’ultimo bacio di Gabriele Muccino.
Le è mai capitato di subire delle discriminazioni come al personaggio del regista nel suo film? Il razzismo negli Stati Uniti è molto diverso rispetto a 50 anni fa, determinate cose non si dicono più ad alta voce, ma questo non toglie il fatto che molti ancora le pensino. Mi è capitato alcuni anni fa di incontrare dei produttori televisivi che parlando con un regista di colore raccontarono una barzelletta sui neri e sebbene il regista sorridesse con loro, il suo sguardo era amaro. Mi chiesi quante volte gli sarà capitata una cosa del genere? Dove va a finire la sua dignità? Nel mio film ho voluto raccontare cose che ci riguardano tutti, cose che viviamo nel quotidiano, non ho voluto dividere i buoni e i cattivi come capita spesso nei film, ho voluto mostrare le persone nella loro complessità. E' una cosa che amo molto: la complessità della natura umana, talmente grande e piena di contraddizioni! Ha scelto Los Angeles come set per questo film per qualche motivo particolare? Ho scelto questa città perché ci vivo da vent’anni, non voglio far pensare che sia una città più razzista delle altre, perché il mio discorso è assolutamente universale. Il mio discorso vale per tutte le grandi città, durante una giornata si è abituati ad imbatterci in tanti tipi e "razze" di persone diverse, ma quando si entra nel privato della propria vita il discorso è ben diverso. Il tema del razzismo sfuma in quello dell'intolleranza? In effetti Crash è un film sull'intolleranza, è un problema grandissimo, dall'intolleranza nasce la paura… Ma io mi definisco il più cinico fra gli ottimisti: appena arrivato a Los Angeles anni fa, nevicò, "la prima nevicata dopo tanto tanto tempo" mi dissero, perciò se può nevicare a Los Angeles, c'è ancora speranza!
• Perché lo schema narrativo del film è simboleggiato molto bene da porte che si chiudono in una scena e si aprono nell’altra? • Prova a delineare la mappa delle diversità rappresentate nel film (diversità in base al colore della pelle, alla condizione sociale, sessuale, culturale e religiosa). • Che differenza c’è tra il montaggio parallelo e quello incrociato? Il regista adotta tutte e due queste tecniche di montaggio, dove e con quale messaggio? • Perché questo film, anziché concentrarsi su una singola storia, ne sviluppa molte contemporaneamente? • La scelta della città di Los Angeles pensi che possa essere allargata alla realtà di molte altre città del mondo intero, compresa la tua? • Pensi che l’atteggiamento del regista in questo film rispetto alla realtà rappresentata sia più pessimista o più ottimista? • Prova a dare una tua definizione dell’intolleranza, del pregiudizio e dell’ingiustizia sociale. Da cosa nascono? Come potrebbero essere affrontate a livello individuale? Confronta le tue idee con quelle espresse nel film e con il resto della classe.
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“Quanto è bello questo tempio! Di più grande e di più bello esiste solo la dignità umana!” Maometto
Sentendosi forse prossimo alla morte, Mustapha, un anziano marocchino emigrato in Francia, si accinge a realizzare il sogno di un’intera esistenza: recarsi al pellegrinaggio alla Mecca, viaggio che ogni buon musulmano deve compiere almeno una volta nella vita. Non potendo contare su nessun altro, chiede al figlio Réda di accompagnarlo nel lungo viaggio. Réda, assai distante dalle tradizioni e non in buoni rapporti con il genitore, vorrebbe esimersi da questa incombenza, ma non può rifiutarsi. Strada facendo però, in automobile da Marsiglia a Istanbul, attraverso un’Europa sempre più vicina all’Islam, e poi da Damasco alla Mecca, Réda impara a conoscere e a condividere la prospettiva paterna. Ma alla Mecca l’uomo, dopo essersi recato in preghiera, non fa ritorno. E a Réda, mescolatosi alla folla dei pellegrini, non resta che cercarlo.
Il termine arabo rihla (viaggio) presente nel titolo originale del film, rimanda, nell’arabo letterario, a tutta una tradizione della letteratura araba medievale; rimanda anche alla nozione di conoscenza, nel senso di penetrazione di mondi sconosciuti, esteriori ed interiori. Il termine ha dunque anche una valenza filosofica. Sono famosi alcuni autori del medioevo arabo che scrissero dei loro viaggi: ad esempio Ibn Battuta, con la sua celebre Rihla in cui riferisce di un suo viaggio da Tangeri sino ai confini della Cina. Ma sono famosi anche alcuni racconti di viaggi interiori, come quello del poeta, filosofo e mistico andaluso Ibn Arabi, nato a Murcia e morto a Damasco nel 1240. Il film rappresenta una sorta di congiunzione tra questi due tipi di viaggio: lo spostamento fisico da un punto all’altro della terra e il viaggio interiore. Il viaggio che viene narrato è innanzitutto quello di un padre: un marocchino immigrato in Francia da oltre trent’anni, un padre molto osservante, dall’aspetto austero, che nasconde una profonda ricchezza interiore. Arrivato alle soglie
Titolo originale: Rihla al kubra Regia: Ismael Ferroukhi Fotografia: Katell Djian Montaggio: Tina Baz Musica: Fowzi Guerdjou Costumi: Christine Brottes Interpreti principali: Nicolas Cazalé (Réda), Mohamed Majid (il padre), Malia Mesrar El hadaoui (la madre), Jacky Nercessian (Mustapha), Ghina Ognianova (anziana signora); Origine: Francia/Marocco, 2006 Durata: 108 minuti.
della vecchiaia il padre, come ogni musulmano che ne abbia la possibilità fisica ed economica, decide di compiere il suo pellegrinaggio alla Mecca, che nella tradizione rappresenta uno dei cinque pilastri dell’islam: per un musulmano recarsi alla Mecca significa riattualizzare la memoria simbolica, poiché l’islam si è rivelato proprio in quella città. Ma mentre molti fedeli si recano ormai alla Mecca in aereo, il padre decide stranamente di raggiungerla in automobile, e dunque di affrontare un grande viaggio che lo porterà, partendo dalla Francia, ad attraversare l’Italia, la ex Jugoslavia, la Turchia, fino al deserto d’Arabia, esattamente come si faceva, a cavallo, nel Medioevo, quando i pellegrini musulmani partivano dalla Sicilia, dalla Spagna andalusa o da Sarajevo. Non sapendo lui guidare, doveva essere suo fratello a portarlo in automobile; ma qualche giorno prima della partenza, al fratello, anche lui immigrato in Francia, viene ritirata la patente perché sorpreso a guidare dopo aver bevuto una grande quantità di alcool. Il padre, dopo avervi pensato a lungo, chiederà al giovane figlio, non ancora ventenne, di sostituire lo zio e di assumere lui la guida e dunque la responsabilità di quel grande viaggio. Il ragazzo, di nome Reda, non capisce il perché del viaggio in automobile, dal momento che suo padre ha i mezzi per acquistare un biglietto aereo; il padre non risponde alla sua domanda, e si
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crea una situazione di tensione; ma in forza all’autorità tradizionalmente esercitata dai genitori nel mondo islamico, egli deve sottomettersi alla decisione del padre. Così i due partono da una piccola città della Francia. Il padre è, sin dall’inizio, immerso nell’atmosfera concentrata e silenziosa del pellegrinaggio: parla poco, ha lo sguardo fisso come se si concentrasse sui riti che dovrà compiere una volta giunto alla Mecca. Il figlio ventenne sembra vivere in tutt’altro mondo: pensa alla sua ragazza, attraversando città come Milano e Venezia chiede al padre di fermarsi per visitarle, ma il padre ha una sola idea: raggiungere la Mecca. A un certo punto il padre, infastidito dalle telefonate di Reda alla fidanzata sul cellulare, di notte mentre il giovane dorme getta l’apparecchio nella spazzatura. Il viaggio continua, ma con una tensione crescente: perché padre e figlio non parlano la stessa lingua, non comunicano. Fanno strani incontri nella ex Jugoslavia: una vecchia contadina, cui danno un passaggio, ripete sempre le stesse parole, è diventata pazza: probabilmente è un’immagine di quel paese durante la guerra civile. In Turchia, dopo un incontro amichevole e vari inviti, vengono derubati dei soldi; in particolare un personaggio che fa bere Reda e lo porta con sé nei locali notturni rappresenta le tentazioni nell’esistenza umana. Le peripezie continuano, ma tutto si svolge secondo un ritmo piuttosto lento, teso a evidenziare le due temporalità congiunte della nostra vita: quella del nostro esistere nella società e quella scandita di segni, di tappe interiori come pietre chilometriche nelle strade che si snodano nel deserto. Dopo la Turchia, i due giungono ai confini con la Siria, dove hanno difficoltà ad approvvigionarsi causa la mancanza di denaro: Reda grida a suo padre che vuole mangiare carne, non solo pane. Qui è messa in luce la dimensione del padre che ha superato gli istinti, mentre il ragazzo ne è del tutto dipendente. In Siria, in un villaggio sperduto, il padre scambia il suo apparecchio fotografico per un agnello: immagine dell’agnello sacrificale, che il padre è pronto a immolare per suo figlio, quasi a rinnovare la memoria di Abramo. Ma Reda si fa sfuggire l’animale che, salvandosi, forse salva anche l’anima del giovane. I due giungono in Giordania, al confine con l’Arabia Saudita: qui di nuovo Reda si perde nei locali notturni dove incontra una ballerina che porta in albergo. Il padre, vedendo la scena, si offende e decide di proseguire da solo per la Mecca. Il figlio lo rincorre per raggiungerlo, e gli chiede perdono: il padre non risponde, camminando a piedi con la sua valigia. Il figlio gli grida: “Ma non esiste il perdono nella tua religione?” Il padre allora sale in macchina, e attraversano il deserto che li condurrà alla Mecca. Lì, in mezzo al deserto, avverrà il vero incontro fra padre e figlio, con una sorta di rinascita di quest’ultimo. Non c’è acqua, dunque il padre fa le sue abluzioni con la
sabbia. Reda guarda il padre, sembra non capire, e gli chiede: “Papà, perché non hai preso l’aereo per andare alla Mecca?”. Il padre risponde: “Vedi, affrontare un pellegrinaggio così lungo in macchina significa capire il tempo e lo spazio. Ci si purifica quando si procede più lentamente, proprio come l’acqua dell’oceano quando evapora: quanto più vasto è l’oceano, tanto maggiore è la purezza dell’acqua evaporata.” Il figlio gli chiede perché compia quel pellegrinaggio, e lui risponde che è uno dei pilastri dell’Islam, e aggiunge: “Arriva il momento in cui l’uomo deve purificare la sua anima prima di morire; perché siamo solo degli invitati sulla terra.” Il figlio rimane in silenzio. Arrivano presto alla Mecca, dove incontrano dei pellegrini che avevano già incrociato durante il viaggio; ma durante uno dei riti il padre parte per il viaggio senza ritorno. Reda, quasi impazzito, cerca suo padre tra l’immensa folla, finchè alcuni poliziotti lo conducono nel sotterraneo di una moschea, dove vengono portati coloro che muoiono durante il pellegrinaggio e si recitano le preghiere per loro: l’imam solleva, uno a uno, i lenzuoli che coprono ogni defunto, finchè giunge al penultimo. Il figlio, riconoscendolo, scoppia in lacrime e si pone accovacciato, in posizione fetale, accanto a suo padre, mentre il suo pianto risuona nello spazio della moschea. Reda vende l’automobile, raggiunge l’aeroporto; qui vede una povera e le dà l’elemosina: un gesto che suo padre aveva fatto durante il pellegrinaggio verso una mendicante con una bambina, un’elemosina che il figlio aveva rifiutato di concedere con il pretesto che loro non avevano quasi più denaro per mangiare. La scena dell’elemosina è la chiave di lettura dell’intero film: perché, oltre a rappresentare un gesto di grande intensità, vuole significare che i genitori debbono trasmettere la memoria ai propri figli. Morendo, il padre ha trasmesso a Reda la propria memoria, come l’acqua necessaria nelle oasi alla vita delle palme, l’acqua senza cui l’universo - come i cuori degli uomini – inaridisce. Oltre a trasmettere i valori universali dell’educazione, questo film consente un approccio alla questione dell’Islam ben diverso da quello oggi corrente: mostra che esiste un Islam lontano dai tormenti e dalle guerre, un Islam rimasto puro perché autentico. Scheda a cura di Khaled Fouad Allam* * Khaled Fouad Allam è docente di sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste e di Urbino, collaboratore de la Repubblica, autore di numerosi saggi e dei libri “L’islam globale” edito da Rizzoli e “Lettera a un Kamikaze”, edito da Piccoli Saggi, Rizzoli, Milano.
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di Carlo Chatrian
Ismael Ferroukhi è nato a Kenitra in Marocco nel 1962 ed è cresciuto a Crest, nel Sud della Francia. Ha esordito nel cinema con il corto L’éxposé (1992), vincendo numerosi premi che gli hanno permesso di collaborare alle sceneggiature di alcuni film di Cédric Kahn, come Trop de bonheur (1994), Tous les garcons et les filles de leur age e Culpabilité zero (1996). Ferroukhi ha diretto il corto L’inconnu con Catherine Deneuve, all’interno della serie Court Toujours di Arte e Canal Plus, e i telefilm Un été aux hirondelles (1997) e Akim (1998) incentrati tutti sul tema dell’islam e dell’integrazione in occidente.
Pur essendo il tuo film d’esordio, Il grande viaggio è preceduto da una serie di esperienze, la collaborazione alle sceneggiature di Cédric Kahn, il lavoro per la televisione, ecc.. In che misura questo film partecipa di quei lavori? Il progetto del film Viaggio alla Mecca è nella mia mente da una decina di anni, epoca in cui lavoravo alla stesura del mio cortometraggio L’éxposé. In quel film raccontavo dell’infanzia di Réda, ciò che avviene prima del suo grande viaggio. Se dovessi stabilire un legame, direi che tutti i miei film trattano della stessa problematica: come comunicare con l’altro e accettarlo con la sua diversità? Per quanto riguarda invece la mia collaborazione con Cédric Kahn, che è innanzitutto un amico, risale al mio primo corto, di cui ho realizzato il montaggio. Dopo quest’esperienza abbiamo avuto voglia di scrivere insieme. E così è stato. Uno degli elementi di originalità del film risiede nel suo soggetto. Cosa ti ha spinto a trattare un pellegrinaggio? Quando ero giovane mio padre ha compiuto il suo pellegrinaggio in macchina, quel viaggio mi ha fatto sognare. In un certo senso ho fatto il film per dare forma a quel sogno. D’altra parte, esso mi è sembrato il contesto ideale per raccontare l’avventura e l’incontro tra i due personaggi.
“Réda e il padre appartengono ad una cultura ove il dialogo tra padre e figlio è difficile, se non impossibile. L’abisso che li s e p a ra ( g e n e ra z i o n a l e , c u l t u ra l e , linguistico…) è ancora più grande a causa del loro stato di esiliati in Francia. Ho fatto questo film per permettere quell’incontro che la promiscuità del viaggio rende inevitabile. Réda e il padre, chiusi nella loro automobile, in un faccia a faccia obbligato dove non esistono vie di fuga, attraversando spazi immensi costellati d’imprevisti ed incertezze, senza più punti di riferimento, sono costretti a rivolgersi l’uno all’altro. Si libereranno cos’ì anche dal loro stato di padre e figlio e si avvicineranno mano a mano che il viaggio si evolve. I dialoghi sono ridotti al minimo, ma è attraverso i loro silenzi che i due comunicano maggiormente. Nel corso del viaggio ed in incontri casuali, scopriranno ciò che più li separa e anche ciò che li unisce. “Il grande viaggio” ci mostra come Réda e il padre passano da un rapporto segnato dall’indifferenza e dall’ostilità al r i c o n o s c i m e n t o d e l l ’ a l t ro e a l l a riconciliazione.”
Il film offre una visione dell’islam diversa da quella che ogni giorno ci viene data dalla televisione. Insieme ai compagni di classe Il rapporto tra tradizione e modernità sta metti a confronto le due immagini, le due al centro di “Viaggio alla Mecca”. In questo realtà. Che idea ne viene fuori? Potreste quadro qual è il ruolo dei sogni? approfondire ulteriormente l’argomento non I sogni sopraggiungono ogni qualvolta Réda solo parlando direttamente con alcuni dei è inquieto nei confronti del padre. I sogni tanti musulmani presenti nel tuo territorio avvicinano il figlio all’universo del padre e lo ma anche vedendo altri film che affrontano aiutano a comprenderlo. lo stesso argomento come ad esempio Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano o leggendo alcuni testi interessanti e semplici sulla percezione che noi in Italia abbiamo dell’islam, come L’anti• Descrivi il rapporto tra Rèda e suo padre all’inizio del film. Come mai padre e figlio sono così distanti? Cosa li islamismo spiegato agli differenzia in particolar modo? Come mai è proprio Réda a dover accompagnare suo padre nel lungo viaggio? italiani – come smontare • Come si evolve il loro rapporto? Quali sono i conflitti più forti che scoppiano fra di loro? Quali sono le tappe o i principali pregiudizi gli episodi che determinano dei cambiamenti significativi? sull’islam di Sadi Marhaba • Che significato ha per Mustapha il viaggio alla Mecca? E che significato ha per Réda? e Karima Salama edito da • Durante l’intero viaggio, attraverso varie città del mondo, i due incontrano personaggi un po’ particolari come Erikson e L’islam spiegato l’anziana signora a cui danno un passaggio nella ex-Jugoslavia oppure il musulmano che ruba loro dei soldi, la ai nostri figli di Tahar Ben mendicante, ecc…Che significato hanno queste figure nella storia? Jelloun, Bompiani Editori. • Come mai Mustapha muore dopo aver raggiunto la Mecca? Che significato ha la sua morte nella storia? • Cosa credi abbia imparato Réda da suo padre e dal viaggio? • Cosa vuol dire l’ultima scena in cui Réda dà i suoi spiccioli ad una mendicante, cambiando completamente atteggiamento rispetto ad una scena precedente in cui si rifiuta categoricamente di offrirli? • Che tipo di emozioni ti ha offerto questo film? Fai un confronto con la tua esperienza personale, rispetto al rapporto che tu hai con tuo padre, rispetto all’idea che tu hai del viaggio e rispetto all’immagine che tu hai dell’Islam.
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“Il solo capitale dell’uomo è il tempo” Aleksanteri Ahola Valo
Inizi del ‘900. Valo, un bambino di nove anni, vive con il padre, uno spazzacamino in un villaggio nella regione russa dell’Ingria dove vive sotto il controllo costante dei gendarmi essendo considerato un ribelle e un rivoluzionario. Per questo anche Valo viene subito tenuto sotto controllo per le sue idee ritenute “eccessive” dal potere locale. Quando la maestra Marjia viene arrestata perché la sua educazione è ritenuta inadeguata, la scuola viene chiusa. Ma Valo non ci sta e insieme a Ville e Julia, suoi compagni, organizza una nuova scuola in cui gli insegnanti non sono altro che gli stessi bambini, a turno. Alcuni adulti del villaggio disapprovano il loro progetto. Altri pensano che per loro non sia necessario avere un’istruzione: se imparano a leggere e a scrivere potrebbe essere meno facile controllarli ed è meglio che vadano a lavorare. La scuola così viene chiusa di nuovo. Ma i bambini rifiutano di arrendersi e creano una scuola segreta.
Da David Copperfield a Valo Tutta la prima parte del film si concentra sullo sguardo limpido e attento di Valo, sguardo rivolto alla realtà in cui vive e che lui puntualmente ritrae attraverso i suoi disegni e i suoi diari. Com’è la realtà che vedono gli occhi di Valo? E’ fatta di uomini in divisa minacciosi, è fatta di cortei in cui si protesta contro il regime ma in cui si viene arrestati come accade a suo padre; la realtà che vede Valo è fatta di giorni in cui un cielo di bombe uccide il suo miglior amico, Matthie; è fatta di uomini vestiti di nero (l’ispettore della zona e il maestro Vassili) che detestano i bambini e credono di fare a loro ciò che gli fa più comodo per dimostrare chi ha il potere. La realtà che vede Valo sin dall’inizio è fatta di adulti che picchiano i bambini e che non hanno alcun rispetto per il futuro dei propri figli. Valo, come David Copperfield, è nato in un tempo in cui la dignità e i diritti del bambino erano impensabili, l’educazione riguardava solamente i figli dei ricchi e la scuola era considerata inutile perché i bambini erano destinati a fare lavori di ogni tipo ubbidendo ciecamente alla volontà degli adulti. L’atteggiamento
Regia: Kaija Juurikkala; Sceneggiatura: Markku Flink ispirata ai diari di Aleksanteri Ahola Valo; Fotografia: Harri Räty; Scenografie: Tarja Väätänen; Costumi: Riitta Röpelinen; Suono: Pekka Karjalainen; Musiche: Annbjorg Lien, Bjorn-Ole Rasch; Montaggio: Jukka Nykänen; Interpreti principali: Vili Jarvinen (Valo), Joni Kehusmaa (Ville), Sara-Maria Juntunen (Julia), Alina Sakko, Eveliina Uusitalo, Teijo Eloranta, Rea Mauranen, Olka Horila, Hannu Kivioja, Pentti Korhonen, Morten M. Faldaas, Janne Raudaskoski, Hannu Kangas, Liisa Toivonen; Origine: Finlandia, 2005; Durata: 84 minuti.
che i grandi avevano verso i piccoli corrispondeva esattamente al comportamento che i padroni (nel caso di Valo parliamo dello Zar di Russia e dei suoi sottoposti) avevano nei confronti della gente comune. Un cerchio di schiavitù difficile da rompere che genera violenza e ignoranza. In questo contesto ogni cosa (una protesta, un libro, una parola) che andasse in una direzione diversa da quella imposta, veniva considerata sovversiva e quindi andava punita pesantemente e pubblicamente, così che la punizione di uno potesse essere di lezione per tutti. E’ per questo che l’amata maestra Marija parla ai bambini di “segreto” quando comincia a leggere loro le prime pagine di David Copperfield di Charles Dickens, romanzo proibito intanto perché era inglese, quindi straniero (e gli Zar non amavano ciò che non apparteneva loro) e poi perché anche David Copperfiled è un bambino che ha vissuto sulla propria pelle le ingiustizie sociali imparando a proprie spese a prenderne coscienza. La maestra Marija legge ai bambini le prime righe del romanzo di Dickens: “Per iniziare la mia vita proprio dal principio, ricorderò che nacqui (così mi hanno informato e così credo) un venerdì, a mezzanotte. Si notò che il pendolo prese a battere e io a strillare, simultaneamente. Tenuto conto del giorno e dell’ora della mia nascita, la levatrice, e certe discrete comari del vicinato dichiararono – primo – ch’ero destinato nella mia vita alla sventura e, - secondo – che avevo la prerogativa di vedere fantasmi e spiriti.” Perché Marija legge proprio questi passaggi del romanzo, che sono gli stessi che leggerà Ville
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alla fine del film? Perché parlano della nascita di David. Cosa c’è a questo mondo più importante della nascita di un bambino? Dovrebbe essere un fatto meraviglioso e invece in molti casi diventa l’inizio di una vita difficile se non addirittura additata come sfortunata. Una vita
un coltivatore di anime”. Cosa vuol dire Valo con queste parole? Essenzialmente ciò che dice Marija quando entra per la prima volta a scuola e chiede ai bambini “Chi sa cosa vuol dire coltivare l’anima? Significa leggere. E’ qualcosa che dà piacere”. Marija è la prima persona adulta che ascolta i bambini, è la prima persona che parla di piacere. Una parola inesistente per la vita di quei bambini. E chi prova piacere nel leggere si apre al mondo, alla conoscenza. E chi si apre alla conoscenza diventa padrone di se stesso cioé è un uomo libero. Valo, grazie allo spirito ribelle di suo padre che indirettamente lo ha educato a riconoscere le ingiustizie e grazie anche a Marija si pone in questa prospettiva di apertura al mondo e porta avanti il suo progetto, difendendolo e pagando di persona. Come aveva giurato agli altri bambini. Come David Copperfield.
Una scuola per tutti i bambini
in cui non si impara ad esprimere se stessi ma a difendersi continuamente da qualcuno più forte. Marija nel leggere quelle pagine cerca di avvicinarsi ai bambini aiutandoli a prendere coscienza di se stessi, tanto che a un certo punto Valo le si avvicina e le chiede “Maestra, ma cosa le è successo?” E Marija aggiunge “Che vuol dire, cosa mi è successo?” e Valo risponde “Lei ci ascolta, ascolta i bambini!”. Marija non avrà più la possibilità di leggere ai piccoli la storia di David Copperfield perché i suoi insegnamenti saranno considerati “pericolosi”, “devianti” da chi nel villaggio esercita il potere e il controllo. Eppure la sua breve presenza lascia una traccia talmente profonda di diversità rispetto agli altri adulti che un bambino sensibile come Valo non si limita a guardare Marija che viene portata via. La storia di David Copperfield diventa un pò la sua storia e di fronte all’amico Ville che porta addosso i segni delle percosse del padre e si dice destinato a fare il soldato, Valo sale su un trampolino di legno e grida al cielo “Prometto che dedicherò tutta la vita a combattere il male”. “Sarai anche tu un soldato?” – gli chiede Ville. “No – risponde Valo. Io non vivrò per la spada. Sarò
Quello che fa Valo dal momento in cui la scuola viene chiusa e la maestra arrestata è un capolavoro di lotta nonviolenta che proprio nella cultura russa ha uno dei suoi padri più straordinari: Lev Tolstoj, scrittore famosissimo, che come Valo, creò una scuola per tutti i figli dei contadini, allora destinati all’ignoranza. Cosa fa esattamente Valo per combattere le ingiustizie fatte ai danni dei bambini? Innanzitutto non ha mai il timore di dire ciò che pensa e di denunciare le ingiustizie (come nella scena in cui scrive sulla lavagna: “I bambini non si picchiano!”); si dà da fare per creare una nuova scuola e per non rischiare che venga considerata illegale (e quindi richiusa) con l’aiuto di Katarina, una donna del villaggio, va da un avvocato che gli suggerisce il modo per far rientrare il tutto nella legalità; inoltre Valo crede molto nelle possibilità creative che ogni bambino possiede e chiede ad ognuno, a turno, di dare lezioni agli altri su ciò che conosce meglio. Questo significa responsabilizzare i singoli bambini e dare a tutti le stesse opportunità per evitare che ognuno possa sentirsi superiore ad un altro. I bambini diventano così tanto responsabili del loro progetto che vendono i loro disegni per raccogliere fondi e sostenere la scuola, senza aspettare invano che qualcun altro lo faccia per loro. Quando la scuola viene chiusa per la seconda volta, Valo chiede di fare scuola lì dove i bambini lavorano; guarda in faccia coloro che spadroneggiano nel villaggio e dice quello che pensa mettendoli in ridicolo (come nelle scene del teatrino) dimostrando che l’oppressore non è altro che un burattino nelle mani di un altro oppressore più potente. E ancora, quando Valo viene arrestato non cerca di scappare ma si fa prendere
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andando incontro alla punizione che gli è stata riservata: il carcere minorile, dove i bambini imparano ad essere violenti nei confronti di altri bambini e anche lì Valo non perde l’occasione per insegnare proprio a chi sta in quell’inferno, a leggere e a liberare lo spirito. E infine il processo, durante il quale Valo non si lascia intimorire dalla situazione ma prende la parola chiedendo al giudice se sa cos’è il Bene e cos’è il Male e spiega che ha solamente invitato i bambini a ribellarsi agli adulti che li picchiano. Questo vuol dire semplicemente combattere le ingiustizie. Le sue parole saranno rafforzate dall’arrivo di Ville che mostra al giudice i diari di Valo e testimonia a tutti la possibilità che egli ha dato a diversi bambini di imparare a leggere e a capire l’importanza dell’anima di una persona. E lo stesso Ville ne è un esempio importante dell’opera di Valo. La testimonianza di Ville e il suo radicale cambiamento nei confronti del padre e della vita dimostrano che l’esempio di Valo ha coinvolto più persone e questo costituisce una buona premessa perché le cose possano veramente cambiare. Non a caso il film si chiude sulle immagini di Ville che legge, a tutta la classe e in presenza del padre partecipe, le prime pagine di David Copperfield. Ci troviamo di fronte a una rivoluzione fatta da bambini per i bambini, da cui anche alcuni adulti trarranno beneficio perché le rivoluzioni nonviolente hanno la capacità di educare anche chi, a vario titolo, si pone come avversario.
Valo, una storia vera La storia raccontata dal film è contenuta nei diari scritti da un bambino realmente vissuto. Si chiamava Aleksanteri Ahola Valo, nato nel 1900 e morto nel 1997. Valo è stata una personalità straordinaria e geniale tanto da essere paragonato a Michelangelo. Era infatti un bravissimo pittore, ritrattista, scultore, architetto, traduttore. Come architetto è famoso il suo progetto di realizzare una vasta area di verde tutta intorno alla città di Mosca nell’idea che l’uomo e la natura dovessero sempre essere abbracciati. Ma quel progetto non è mai stato realizzato. Suo padre era stato veramente un rivoluzionario contro la politica degli Zar ma Valo pur capendo lo spirito di libertà e uguaglianza che animava l’azione di suo padre e dei suoi amici, non ha mai condiviso quel tipo di rivoluzione che causava anche delle perdite umane. Valo ha sempre creduto, fino all’ultimo giorno della sua vita, che non sono le rivoluzioni specie se armate, a cambiare il mondo ma è l’educazione il vero motore del cambiamento. Certe idee le pensava e le scriveva anche da piccolo, esattamente come si vede nel film. A questo proposito nel suo diario del 25 marzo 1911, Valo scriveva: “Mio padre ha detto che tutto cambierà quando ci sarà la rivoluzione perché questa renderà le persone uguali, non ci saranno più padroni e non ci saranno più schiavi. Ma io gli ho detto che gli uomini staranno meglio non facendo la rivoluzione ma quando capiranno cos’è la vita”. E poi ancora nel diario del 1 maggio 1911: “Ho discusso tutto il pomeriggio con mio padre su cosa potrebbe accadere nei prossimi anni. Mio padre crede nella rivoluzione e io invece ho cercato insistentemente di fargli capire che la rivoluzione non è
necessaria. Occorre invece portare l’educazione e la cultura tra i contadini perché è l’unica cosa che può dare le stesse opportunità a tutti e dare loro la possibilità di capire il senso della vita”.
La regista Nata nel 1959, Kaija Juurikkala ha lavorato come insegnante elementare dal 1980 al 1989. Nel 1990 intraprende i suoi studi al Dipartimento di Cinema e Televisione dell’Università di Arti Industriali e Design di Helsinki. Laureatasi nel 1997 in regia, già nel 1994, vince il Premio Risto Jarva al Festival di Tampere per il suo primo film: Rosa was here. Nel 2003 riceve il prestigioso Premio dello Stato perle sue produzioni cinematografiche per bambini. Attualmente Kaija lavora alla regia e alla sceneggiatura di film, telefilm e programmi televisivi peri più piccoli.
• Descrivi il personaggio di Valo mettendo in evidenza il suo carattere, le cose che gli piace fare, la maniera in cui coinvolge gli altri bambini. Attraverso quali passaggi, quali azioni importanti Valo riesce a vincere la propria battaglia. Di che battaglia si tratta? • Quando Valo parla di ingiustizie, a cosa si riferisce in particolare? • Quali sono i personaggi che nel film causano ingiustizie? E chi sono coloro che le subiscono? • Cosa vuole dimostrare Valo ai suoi compagni? Perché i bambini, anche uno particolarmente ribelle come Ville, seguono Valo nel suo progetto? • In cosa le azioni di Valo e di tutti i bambini possono essere considerate nonviolente? • Quale personaggio del film hai sentito più vicino a te? Come mai? In cosa ti assomiglia? E tu, cosa senti ingiusto per te? Cosa fai, nel tuo piccolo, per combattere ciò che senti ingiusto? Ci riesci? Con quali risultati? • Cosa ti dimostra la storia di Valo? • Come mai la maestra Marija viene arrestata? • Perché Marija legge ai bambini il romanzo David Copperfield di Charles Dickens? Cosa ha a che fare con la storia del film? • Come giudichi la scelta della regista di chiudere il film con il bambino Ville che legge David Copperfield? Cosa vuol dire? • Disegna o racconta la scena che ti ha particolarmente colpito. Poi confronta il tuo lavoro con quello del resto della classe. Cosa ne viene fuori? • Conosci altri film o altre storie, racconti in cui ci sono bambini che lottano per i bambini? • Raccontale e mettile a confronto con la storia di Valo.
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Le schede dei film Curioso come George e La Stella di Laura sono contenute nei fascicoli di approfondimento per le scuole elementari, insieme ai film Raccontami una storia e Il cane giallo della Mongolia. Indichiamo qui di seguito le trame dei due cartoni animati.
Durante una spedizione in Africa ad opera della direzione di un noto museo americano, Ted il responsabile della missione, si imbatte in un delizioso cucciolo di scimpanzé. Terminata la spedizione, il curioso scimmiotto seguirà il nuovo amico attraverso il viaggio di ritorno, fino ad introdursi furtivamente nella stiva della nave, che riporterà gli uomini in città. La metropoli risulterà agli occhi di George come una nuova e complessa giungla, decisamente pericolosa, in cui potrà comunque dare sfogo a tutta la sua fantasia.
Laura, sette anni, è costretta a cambiare casa con tutta la sua famiglia. Il distacco dai suoi luoghi abituali la fa sentire molto triste per cui affronta la nuova casa con distacco e ritrosia. Una sera, guardando il cielo dalla finestra della sua stanza, Laura vede una stella cadente che precipita proprio nel parco vicino a lei. Laura corre a prenderla e scopre che la stella ha un pezzetto mancante. Da quel momento la bambina si prenderà cura della sua stella fino a ritrovarle la parte mancante, a farla risplendere, e a farla andare via nel suo spazio naturale. Laura affronta così un altro importante distacco ma ne capisce l'importanza della libertà e dell'amicizia.
Didattica Creativa dell’Immagine & Animazione Sociale
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