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Tutte le buone ragioni per “portare”. I retroscena 1
Tutte le buone ragioni per “portare”. I retroscena. Tutte le buone ragioni per “portare”. I retroscena
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Contatto e protezione
Il bisogno di contatto e la paura di viziarli
“Non so perché, ma da un po’ di tempo non si addormenta più da solo. Proprio ora che finalmente ha una camera tranquilla, tutta per sé”. Nelle parole dei genitori avvertiamo una traccia di stupore, mista a delusione e incomprensione. Il contesto abitativo precedente non comprendeva una camera dedicata al bambino. Per il riposino di mezzogiorno, il bimbo veniva messo nella sdraietta sulla panca in cucina, e malgrado tutti gli sforzi non c’era mai molto silenzio. Eppure, il più delle volte si addormentava quasi subito. Mentre oggi, nella cameretta tutta nuova, così amorevolmente arredata, fa fatica ad addormentarsi. Si tratta semplicemente di capricci?
Per un adulto, uno spazio silenzioso e isolato sembra sempre essere la soluzione migliore. Ma un neonato ha altri bisogni. La pace assoluta in ogni caso non è mai il miglior presupposto per addormentarsi facilmente. Pensate al neonato, che sul petto del papà, fa un bel pisolino, mentre la combriccola familiare al tavolo di cucina conversa animatamente; o pensate alla scena in cui il piccolo si accuccia nella fascia cullato dal- la madre, mentre i fratelli si rincorrono l’uno con l’altro.
Per il bambino, non è importante la pace assoluta, bensì la percezione rassicurante della presenza di persone che gli offrono protezione, e questo non riguarda solamente la fase dell’addormentamento.“Non puoi andare via un minuto dalla stanza, senza che non cominci a piangere o ad agitarsi. È proprio viziato!”. Diverse madri hanno già sentito più volte questo genere di commenti da parte delle vecchie generazioni. La rappresentazione di un neonato egoista, a cui si dovrebbero insegnare da subito le buone maniere, così che nella vita sappia sempre cavarsela da solo, sembra essere proprio inestirpabile. Questo genere di osservazioni per prima cosa impediscono ai genitori di seguire il loro istinto, che sarebbe quello di prendere in braccio il bambino, assecondando le capacità genitoriali in modo intuitivo. D’altro canto queste voci impediscono anche ai genitori di offrire al loro piccolo una presenza rassicurante. E questo significa che rischiano di non rispondere a uno dei suoi bisogni fondamentali.
La vicinanza dei genitori trasmette a un bambino protezione, sicurezza e calma; anche al di là del periodo della prima infanzia. Il contatto con persone di fiducia, anche negli anni successivi, per il bimbo è la prima condizione fondamentale per potersi approcciare al suo ambiente in modo equilibrato e con il giusto interesse. Ovviamente, con il passare del tempo, il suo spazio di azione si fa sempre più ampio. Ad un certo punto, basterà avere la percezione che i genitori sono vicini. Il bimbo potrà allontanarsi e corrergli di nuovo incontro, per rassicurarsi di nuovo della loro presenza. Nelle situazioni di insicurezza, tuttavia, il contatto corporeo torna ad essere necessario, con una sorta di regressione all’età del neonato.
Il concetto appena menzionato dimostra che nella richiesta di “vicinanza” di una persona di fiducia la biologia riveste un ruolo molto importante. La predisposizione comportamentale del neonato si basa sul bisogno di avere vicino una persona che si occupa di lui. Un neonato, in realtà, non è conscio che è in un ambiente protetto e senza pericoli. Anche quando riposa solo nel suo lettino, non sa di essere al riparo dagli appetiti degli orsi o di altre belve primitive. Possiamo rigirarla come vogliamo: la nostra predisposizione genetica comportamentale è la stessa dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori, di quell’era che lentamente si dissolse soltanto 10 mila anni fa con i primi insediamenti del neolitico. Naturalmente, nel nostro sviluppo individuale le cose oggi sono cambiate. Ma questa capacità di apprendimento è rimasta ancorata alla nostra predisposizione genetica che, così come oggi è stato dimostrato, ha reso l’uomo il “modello evolutivo di maggior successo”. Questa creatività intellettuale ha permesso all’essere umano di poter modulare la propria reazione secondo le diverse e mutevoli condizioni di vita. Allo stesso tempo, però, quanto più piccolo è un essere vivente, tanto più forte è il legame con le componenti innate della sua predisposizione comportamentale e dovrà quindi orientarsi in modo più rigido all’ambiente. Questa predisposizione originaria dice al bambino: “Guarda bene che le persone siano sempre attorno a te, e che ti proteggano da tutte le insidie e i pericoli del mondo. Solo loro si prenderanno cura di te con tutto ciò che è necessario, solo loro rappresentano per te la sicurezza, e ti garantiranno la sopravvivenza, tenendo lontani lupi e altri predatori”.
Se guardiamo alle abitudini dei nostri antenati possiamo osservare che la vita quotidiana prevedeva una permanente mobilità dell’intero gruppo, basata sulla caccia e la raccolta di piante spontanee. In definitiva, abbiamo alle spalle una lunga epoca di circa 5 milioni di anni – contro l’ultima e breve fase di 10 mila anni – in cui gli uomini sono diventati lentamente sedentari.
L’intera progenie, nel corso della storia del genere umano, si è per lungo tempo adattata al fatto di essere portata durante tutta la giornata e ad essere allattata a brevi intervalli di tempo. I nostri parenti più prossimi, come le madri degli scimpanzé, continuano a rappresentare questa scena ancora oggi davanti ai nostri occhi. Anche i nostri bambini sono conseguentemen-
La genitorialità innata e intuitiva
I genitori, così come ogni altra persona adulta sensibile ai segnali del bambino, percepiscono inconsciamente lo stato emotivo del neonato e reagiscono intuitivamente ai suoi segnali, coerentemente alla situazione, adattandosi in base alle loro capacità. Anche senza esperienza, questa genitorialità innata consente ad ogni bambino di rendere ogni persona che si trova di fronte a lui un sostegno su cui appoggiarsi. Il prerequisito essenziale, tuttavia, è che queste capacità genitoriali intuitive non vengano oscurate da fattori di disturbo o di stress. Sebbene questo istinto genitoriale sia biologicamente innato, esso potrebbe subire delle interferenze: potrebbe cioè non essere in grado di imporsi di fronte alle circostanze ed essere sopraffatto soprattutto dall’ansia. Il comportamento genitoriale intuitivo si mostra ad esempio quando i genitori utilizzano automaticamente toni di voce alti, lenti e particolarmente enfatici con il loro bambino, venendo incontro alle loro capacità di comprensione con la ripetizione e il ritmo della parola. Questo linguaggio da levatrice (o “baby talk”) è accompagnato da espressioni facciali enfatizzate e lente. Le reazioni ai segnali infantili sono calibrate sul bambino, così come la distanza della nostra faccia. I bambini, infatti, nascono miopi, e il campo visivo ottimale è sui 20- 25 cm. I genitori ne sono inconsciamente consapevoli e si mettono sempre nella giusta posizione per attirare la sua attenzione e mantenere il contatto.
te programmati secondo questo modello istintuale.
Il fatto di essere lasciato da qualche parte da solo, secondo questa predisposizione biologica, per il bambino significa sentirsi trascurato dalle persone che si dovrebbero prendere cura di lui. Ma si sente anche abbandonato, in una condizione di forte pericolo. Da questo background genetico, si può facilmente capire perché un neonato, che dorme nel suo lettino separato o che viene lasciato da solo nella sua camera, inizi subito ad agitarsi 2 . Per questo motivo, quando alle sue richieste di contatto di base non segue risposta, prova con tutte le sue forze a reclamare la presenza di una persona in grado di dargli protezione. E per farlo ha solo pochi mezzi a disposizione. Scoppiare a piangere in modo turbolento è il metodo più efficace, che generalmente riesce a raggiungere lo scopo. Anche delle persone estranee finiscono per allarmarsi di fronte al pianto disperato di un neonato e sentono il bisogno di doversi occupare del “povero” bambino, prenderlo in braccio, cullarlo e consolarlo. Questo è il caso in cui la biologia comportamentale trova piena espressione, riuscendo a coinvolgere anche altri adulti non genitori. In definitiva, si potrebbe affermare che il programma innato della genitorialità non è solo limitato agli stessi genitori.
La nostra storia genetica di per sé esclude l’argomento del “viziare i bambini”, fermo restando che parliamo comunque dell’età neonatale.
Chi non vuole confrontarsi con le leggi dell’evoluzione, dovrebbe prendere in considerazione anche un altro argomento importante: i limiti delle capacità cognitive del bambino in questa fase di crescita.
Un neonato vive nel qui e ora; e almeno in questa fase, tutti gli oggetti che lo circondano, incluse le persone, sono davvero presenti solo nel momento in cui rimangono direttamente percepibili.
Solo all’età di circa nove mesi per il bambino esistono cose, e dunque persone, anche nel momento in cui non sono immediatamente visibili, udibili o percepibili mediante il contatto.
I neonati iniziano a disporre dei primi indizi
di questa permanenza dell’oggetto attorno al quinto-sesto mese, ma solo tre o quattro mesi dopo cercano attivamente un oggetto che non compare nel campo visivo 3 . E così un neonato nei primi mesi di vita non può nemmeno essere sicuro della permanenza dei propri genitori e del loro accudimento, nel momento in cui scompaiono dalla sua vista.
Per questo motivo anche dal background delle facoltà percettive dei bambini, si deduce in modo assolutamente coerente, che, quando un bambino viene sistemato in una camera da solo, non potrà addormentarsi facilmente. Anche a noi adulti, in genere, capita di non riuscire a prendere sonno quando siamo afflitti da preoccupazioni o in preda a un qualche tipo di ansia. Il mondo interiore del neonato non è affatto sereno quando i genitori, che dovrebbero offrirgli protezione e tranquillità, sono assenti, o se comunque non riesce a percepire in alcun modo la loro presenza. In questo caso, la reazione consiste in uno stress generato dalla paura.
Generalmente addormentarsi da solo, anche per un bimbo più grande non è una cosa facile. È un’abilità che bisogna ancora acquisire. Non è ragionevole chiedere a un neonato di fare una cosa che anche gli adulti trovano difficile: ovvero di rilassarsi in una situazione di tensione.
Non dovrebbe nemmeno sorprendere il fatto che nel momento prima di addormentarsi, il bisogno di protezione sia particolarmente ac-
centuato. E al contrario, si può dire che un bimbo che viene messo nella fascia si addormenta quasi immediatamente, così come hanno rilevato alcune madri dalle prime esperienze con il portare. “A questa ora non aveva mai dormito” dicono. Per i bambini non c’è una migliore premessa per calmarsi e iniziare un sonnellino che accoccolarsi infagottati tra mamma e papà, soprattutto durante una passeggiata, quando ad ogni passo si sentono cullati. Un breve excursus sul “cucciolo portato”
Le culle tradizionali non rappresentano altro che una simulazione del movimento dei genitori. Il fatto che ancora oggi il cullare si dimostri un buon calmante naturale per il bambino, si può ricondurre alle condizioni di vita delle nostre origini. Come già accennato, proprio a causa dello stile di vita nomadico dei nostri antenati, la prole doveva essere portata dagli adulti.
Durante i lunghi spostamenti per la ricerca del cibo stagionale, i bambini trascorrevano la prima parte della loro vita soprattutto “portati” sul corpo della madre o di una persona di fiducia. Tuttavia, se all’interno della nostra evoluzione umana ci si limita a prendere in esame solo il periodo del cacciatore-raccoglitore, non si coglie la vera importanza di questo adattamento genetico. Un motivo è legato al fatto che le culture tradizionali esistono ancora oggi e che, conducendo uno stile di vita analogo a quello dei cacciatori-raccoglitori, possono offrirci uno spaccato sullo stile di vita dei nostri antenati. Ma possono essere presi come esempio anche i primati da cui discendiamo e che camminano in posizione eretta come l’Australopithecus. In effetti, già nella preistoria, per necessità la prole veniva portata dalle madri costantemente a contatto del proprio corpo. Quindi si può tranquillamente parlare di una tradizione del portare che risale a circa quattrosei milioni di anni fa, determinata dalla nostra storia ancestrale (gli scienziati si stanno ancora interrogando sull’esatta datazione dei primi ritrovamenti relativi agli antenati degli esseri umani). I bambini di oggi, riguardo ai loro bisogni attuali, sono stati “predisposti” sin dall’inizio della storia del genere umano ad essere costantemente a diretto contatto con una delle persone che si potevano prendere cura di loro nella prima fase di vita, il che vuol dire che i bambini si “aspettavano” di essere portati da queste persone. Se in questo studio includiamo anche i primati da cui discendiamo e guardiamo senza esitazione a specie animali a noi vicine (come le varie specie di scimmie e umanoidi, che mostrano comportamenti simili al portare), allora possiamo rintracciare questa predisposizione genetica all’essere portati sino a 55 milioni di anni fa (per saperne di più a pag. 24 e seguenti) 4 .
D’altra parte, abbiamo avuto un fase di circa 10 mila anni durante la quale una buona parte dell’umanità ha cominciato a essere stanziale e a costituirsi in comunità nelle quali era possibile sistemare i bambini in luoghi sicuri e riparati.
Ma si tratta di un lasso di tempo troppo breve per permettere al comportamento del bambino di adattarsi ad un ambiente sicuro. Oltre
a queste teorie ci sono vari fattori comportamentali, biologici, anatomici e fisiologici, che dimostrano la predisposizione del bambino all’essere portato. A partire dal riflesso di prensione palmare o plantare, passando per la reazione delle gambine che si ritirano a ranocchietta, sino alla prevenzione della displasia dell’anca (maggiori informazioni a partire da pag. 42). Per coloro che desiderano trattare questi argomenti in modo più approfondito, i capitoli successivi forniscono informazioni e risposte dettagliate.
A questo punto, vorrei ribadire ancora una volta i seguenti aspetti: un neonato oggi, così come nel passato, nasce con la predisposizione naturale all’essere portato, esattamente come il suo piccolo antenato Australopiteco. E così co
Nell’età neonatale, il desiderio di prossimità e di un contatto corporeo è un bisogno fondamentale. Solo all’età di circa 9 mesi il bambino riesce a concepire l’esistenza di cose e persone che non si possono immediatamente vedere, afferrare o sentire. E solo da questa fase in poi, ci sono i presupposti cognitivi per permettere a un bambino di comprendere il fatto che sono comunque accuditi, anche nei momenti di assenza dei genitori.
me nel passato, i suoi bisogni essenziali sono focalizzati su questa predisposizione e il neonato è ancora, di fatto, “un cucciolo portato”, descrizione che prende in considerazione il suo comportamento nel primo anno di vita. Questa definizione racchiude in sé tutti i diversi tratti comportamentali di un neonato, compresi i suoi bisogni emozionali, che devono essere visti come importanti risultati di adattamento. Nella preistoria, infatti, hanno garantito la sopravvivenza dei cuccioli e, quindi, quella della stessa specie umana.
Questo excursus filogenetico chiarisce perché il portare i nostri figli abbia un tale effetto “calmante” su di loro e mostra quanto la storia dei nostri antenati possa risultare interessante e ancora attuale. Essa ci fornisce un’importante panoramica sulla conoscenza delle abitudini di vita dei nostri primi antenati e ci può aiutare a comprendere molti dei comportamenti più misteriosi dei neonati. Una conoscenza che contribuisce a creare l’ambiente migliore per il vostro bambino.
Culture tradizionali: una finestra sul passato
Le culture tradizionali sono delle comunità che vivono perlopiù in piccoli gruppi, a contatto con la natura, e poco influenzate (se non addirittura incontaminate) dagli usi e costumi del mondo cosiddetto tecnologico/“civilizzato”. Esse possono essere considerate il modello di rappresentazione per lo studio dei cacciatori-raccoglitori dell’età della pietra o dei primi coltivatori del neolitico, i quali per la produzione degli utensili hanno utilizzato solo pietra, ossa, legno, e rappresentano i primi gradini dello sviluppo culturale umano. Tra gli esempi di società di cacciatori-raccoglitori possiamo annoverare le tribù Kung nel sud dell’Africa o gli Hazda nell’Africa orientale. Esse ci offrono uno spaccato sullo stile di vita e sulle relazioni sociali nell’era preistorica. Da questo stadio evolutivo abbiamo ereditato la maggior parte dei modelli di comportamento che oggi consideriamo come condizionati geneticamente. Circa 10 mila anni fa, l’uomo ha iniziato ad abbandonare la vita di cacciatore per diventare stanziale. Questo lasso di tempo relativamente breve non ha, tuttavia, permesso di attivare un adattamento genetico alle mutate condizioni di vita. D’altra parte, anche l’uomo contemporaneo mostra una predisposizione a una vita comunitaria fatta di piccoli gruppi, che comprendono dalle 40 alle 150 persone, e sono strutturati in nuclei familiari più ristretti. Abbiamo cominciato soltanto 6000 anni fa a disgregare queste piccole comunità, per andare a formare società grandi e complesse 5 .
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