A.GRAMSCI
DAL CEP AL VILLAGGIO LAGUNA
40 anni di storie immagini e voci
40 anni di storie immagini e voci
"Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità della nostra mente di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sè e del tutto, chi sente la relazione con gli altri esseri. Cosicchè essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia."
DAL CEP AL VILLAGGIO LAGUNA
L’associazione culturale no-profit BLOG - Territori & Paradossi si è costituita ad inizio 2006 a Campalto (VE). Fin dall’inizio la filosofia del gruppo si è orientata ad affrontare le contraddizioni ed i paradossi dei nostri tempi attraverso le espressioni dell’arte e della cultura. Le iniziative promosse in questi primi anni hanno prodotto lo sviluppo del tema della fotografia mediante l’organizzazione di mostre, concorsi, corsi e laboratori; la promozione di spettacoli teatrali, l’apertura a collaborazioni con altri gruppi ed Associazioni e con la locale Amministrazione. Queste iniziative hanno suscitato il consenso della cittadinanza ed attirato l’attenzione di numerosi giovani. Dalla fine del 2009 gestisce per l’Associazione “Auser Il gabbiano” il notiziario locale “La pagina di Campalto”. BLOG – Territori & Paradossi si propone alla collettività come associazione radicata nel territorio, come insieme di persone legate tra loro dalla passione per l’arte e dalla convinzione della forza formativa della cultura.
BLOG - Territori&Paradossi
associazione culturale Venezia
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Associazione Culturale “ Blog - Territori & Paradossi”
DAL CEP AL VILLAGGIO LAGUNA 40 anni di storie immagini e voci
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Associazione Culturale “ Blog - Territori&Paradossi� Via Passo 10 30173 Campalto (VE) www.territorieparadossi.it info@territorieparadossi.it Pubblicazione con il contributo di:
Autori: Giovanni Albertini, Giuliano Brandoli, Elena Brugnerotto, Francesca Delle Vedove, Chiara Foffano, Giorgio Sarto. Progetto Grafico: Carlo Albertini Fotografie: Giuliano Brandoli, Giovanni Coianiz, I fioi del CEP finito di stampare nel mese di Maggio 2010 presso Pixart (VE) 2
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Prefazione
“Solitamente i quartieri, i paesi, le città crescono alimentati dall’insediamento di nuovi abitanti e da nuove case che si aggiungono e si affiancano a quanto già esiste. A volte invece, nascono dal nulla o dal quasi nulla, da una pianificazione del territorio o da una pressante necessità di trovare un “posto” dove vivere e far crescere i figli. Mentre la vecchia Campalto lentamente cresceva il CEP è nato, dal nulla, in una zona adiacente. Tra la fine del 1970 e gli inizi del 1971 millecinquecento nuove persone provenienti da luoghi diversi del comune di Venezia, e non solo, diverse tra di loro per stato sociale, per tradizioni, per abitudini di vita, hanno preso alloggio tra una comunità ultramillenaria, non molto più numerosa del nuovo insediamento, ed una discarica di immondizie e di veleni criminalmente scaricati nella laguna di Venezia. Non è stato amore a prima vista! La “varia” umanità di cui era composto il nuovo nucleo abitativo, la sua non appartenenza alle tradizioni paesane, successivamente i problemi di droga di una minoranza e, non ultimi, i diversi orientamenti politici, hanno fatto in modo che si creasse una linea di demarcazione che separava la vita del CEP dalla vita del vecchio paese. Questa condizione da compaesani che si sentivano tollerati, però, non ha prodotto rabbia o risentimento, ma ha dato ulteriore spinta ad un’esplosiva voglia di fare comunità, di solidarietà, di ricerca di una propria identità che ancora oggi legano a questo luogo ed ai ricordi passati anche chi è andato ad abitare altrove. Questo entusiasmo si è mantenuto intatto, per fortuna, anche in quegli anni nei quali il problema della droga aveva iniziato a minare la gioventù del quartiere. Associazioni, preti, insegnanti, cittadini spesso hanno preso per mano giovani e meno giovani indicando un possibile futuro e sollecitando il loro positivo impegno. Oggi la linea di demarcazione è quasi del tutto cancellata, ma le due realtà 3
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ancora non sono del tutto confluite in una forma di identità complessiva, non fanno riferimento a spazi comuni di relazione; sono luoghi isolati all’interno di uno spazio che non riesce ancora a rappresentarli unitariamente. Sopravvivono purtroppo ancora, sottotraccia, diffidenza reciproca ed istinto a mantenere le distanze. Ma emerge anche, per ora a livello teorico, il desiderio di incontro. Abbiamo motivo di pensare che questa ricorrenza, nel quarantennale della nascita del Villaggio Laguna, oltre a rinvigorire il ricordo degli anni passati nei propri abitanti, possa segnare un nuovo inizio e contribuisca a spazzare la foschia che ancora separa le due realtà: Campalto è un luogo vivo, con nuovi fermenti culturali e sociali, in attesa di una nuova generazione che unisca e che valorizzi queste due identità separate in casa. Giuliano Brandoli Presidente Associazione Culturale Blog - Territori & Paradossi
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Parte Prima
I PRIMI ANNI
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La storia della vita al CEP inizia da qui. Da un gesto. Dal diario a posteriori di Vito Amatulli: la cerimonia della consegna delle chiavi. 1970 – seconda decade del mese di novembre. “Vengono convocati dallo IACP i primi assegnatari (circa 345), divisi in tre gruppi, par la consegna simbolica delle chiavi. La cerimonia si tiene nella sala del cinema S. Marco dell’omonimo viale in Mestre. Sul palcoscenico, al tavolo delle autorità, prendono posto il presidente dello IACP rag. V. Luciano, il direttore generale dello IACP dott. ing. T. Campostrini, il Prosindaco per la terraferma. Il dott. Campo strini si congratula con gli assegnatari che hanno risolto il grave problema della casa. Egli spiega che, malgrado il quartiere non sia terminato definitivamente, in seguito a pressanti richieste, l’Istituto ha deciso di dare il via agli insediamenti. Prospetta le carenze inerenti ai servizi sociali: niente scuole elementari; in attesa della costruzione i ragazzi saranno distribuiti nelle scuole di zone limitrofe. La scuola elementare in via di costruzione; inesistenza del centro commerciale (è però in via di ultimazione un negozio di generi alimentari ricavato provvisoriamente nei sottoportici di un fabbricato); il panettiere, invece, si è sistemato in un garage di un altro fabbricato. Però, precisa l’ingegnere, quando tutto sarà ultimato, “vi accorgerete che i sacrifici non saranno stati vani!”. Passa quindi a ragguagliare i presenti sulla grossa novità rappresentata dalla modernissima Centrale Termica, in grado di offrire, a basso costo, un servizio di riscaldamento e di produzione dell’acqua calda per uso domestico, capace di servire circa 1000 appartamenti. Dalla platea qualche voce chiede quale sarà la spesa per i servizi offerti dalla C.T. A queste voci risponde il Presidente dello IACP, rag. V. Luciano, il quale così risponde :”Come avete udito dall’Ing. Campostrini, il quartiere di Campalto, con la sua C.T., costituisce il fiore all’occhiello dello IACP di Venezia e non solo di Venezia! Per quanto concerne i costi, abbiamo previsto che si aggireranno sulle 5000/7000 lire mensili, in proporzione all’ampiezza dell’alloggio, e la cifra comprende anche le spese per le parti comuni quali: energia elettrica per autoclave, per sotto centrale termica, luce scale, ascensore ecc. Però, per avere un margine di sicurezza, chiederemo il versamento di L. 10.000 mensili, salvo conguaglio a fine anno”. 6
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1-Quartiere in costruzione
Ma se la vita degli abitanti del CEP inizia da quella assemblea al cinema S.Marco ricordata nel diario di Vito Amatulli, la storia del CEP, inteso come nuovo insediamento abitativo nella città, inizia molto prima. Grazie alla disponibilità dell’architetto Giorgio Sarto e del Laboratorio Mestre Novecento, è stata ricostruita la storia dei vari piani e progetti che si sono susseguiti negli anni, modificati e proposti dalle varie amministrazioni fino ad arrivare al progetto definitivo. Sarà interessante notare come le intenzioni dei primi urbanisti si siano via via modificate nel tempo, un po’ sfarinandosi, un po’ adeguandosi alle ingiurie che venivano portate al territorio di gronda. Mantenendo, fortunatamente, quell’idea di quartiere che fa dell’attuale Villaggio Laguna un luogo a misura d’uomo. 7
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La vicenda urbanistica del Villaggio Laguna
Introduzione all’Atlante sulle idee, antefatti, progetto e costruzione del quartiere La realizzazione del quartiere CEP di Campalto, poi denominato Villaggio Laguna, può essere meglio compresa se inquadrata nelle idee e nelle vicende urbanistiche della terraferma dopo la sua completa annessione nel 1926 alla “più grande Venezia,” seguita alla fondazione di Porto Marghera e del connesso quartiere urbano. Occorre partire dagli anni Trenta, quando la costruzione pianificata di Marghera ha prodotto, nel contesto economico e politico del fascismo, una zona industriale di scala europea e in continua espansione e quando sta crescendo complessivamente in terraferma una prima “grande città”: estesa in direzione nord-sud - da Carpenedo a Marghera - per oltre cinque chilometri; infrastrutturata dal poderoso sistema ferroviario convergente su Venezia e soprattutto sul nodo di Mestre dal quale si dirama l’impressionante fascio di servizio a Porto Marghera; connessa con l’entroterra anche dalla nuova autostrada Padova-Venezia inaugurata nel 1933; dotata di un avanzato sistema di trasporto filoviario che sostituisce progressivamente la precedente rete tramviaria. Si tratta di un nuovo insediamento portuale industriale e urbano in rapidissima crescita e guidato da una pianificazione autoritaria1 che, dopo essere stata applicata a Porto Marghera e al suo quartiere giardino, si intende estendere a Mestre con la redazione di quel “Piano regolatore di risanamento e d’ampliamento” che sarà denominato “Piano Rosso”. Preceduto nel 1934 da un importante concorso nazionale, il piano viene elaborato dall’Ufficio tecnico del Comune con a capo l’ingegnere Antonio Rosso nel 1937 e in una variante del 1942.
Il Comune di Venezia celebra con enfasi l’attuazione del grande progetto in terraferma, pur guardandosi dal parlare di una nuova città, pubblicizzando con spesa rilevante le realizzazioni di Porto Marghera, dell’edilizia popolare e della nuova autostrada Venezia Padova nel qualificato padiglione rivestito in alluminio appositamente costruito nel 1932-33 alla fiera di Padova e progettato dall’architetto Brenno Del Giudice.
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Il piano, a fronte delle crescita in atto lungo gli assi nord-sud che in realtà non verrà mai abbandonata, compie la drastica scelta di concentrare il futuro sviluppo urbano verso la gronda lagunare e Venezia, utilizzando anche le barene che perciò sono considerate una tabula rasa priva di alcun valore ambientale, aree demaniali appetibili per l’edificazione e perciò destinate all’imbonimento, come era avvenuto per la costruzione di Porto Marghera2. Pur dichiarando che si tratta di organizzare un “sobborgo” di Venezia, si prevede invece una città completa e autonoma nelle dotazioni urbane, compreso stadio e aeroporto, che si affaccia come una città costiera verso Venezia, della quale persino imita la forma a pesce. Mentre il progetto di Marghera era chiamato della “grande Venezia”, la nuova città di terraferma, che ne è in realtà uno sviluppo, viene chiamata “la nuova Venezia”e prevede 200.000 abitanti in 30 anni, popolazione che l’intera città di terraferma raggiungerà effettivamente nel periodo previsto, ma non certo secondo quel piano, bensì in modo ben più complesso e drammatico e con un mix di interventi disordinati e pianificati. Pur non essendo mai stato approvato dal Ministero dei Lavori pubblici, il piano guida in parte le scelte del Comune e influenza direttrici di espansione urbana e piani di settore o generali successivi e lascia traccia ben concreta nel grande quartiere di viale San Marco e appunto nel Villaggio Laguna di Campalto, che però fortunatamente non sarà realizzato sulle barene ma più saggiamente nella limitrofa terraferma, sulla gronda a nord dell’Osellino.
Le barene erano considerate appunto da tutti i protagonisti del progetto della grande Venezia fin dall'inizio del Novecento aree demaniali prive di intrinseco valore ambientale e perciò edificabili, bastando per l'equilibrio lagunare mantenere lo scambio degli stessi volumi d'acqua, per esempio conteggiando la portata dei nuovi canali industriali. Veniva così semplificata per non dire abbandonata la ben più complessa e severa concezione e prassi proveniente dallo Stato veneziano. Questa concezione di urbanizzazione delle barene applicata nella costruzione di Marghera si estende piattamente e senza variazioni fino agli anni Sessanta, con l'imbonimento - che avverrà anche con rifiuti industriali tossici - delle barene di San Giuliano per edificarvi un quartiere poi ridimensionato e traslato a Campalto, con la costruzione della pista aeroportuale a Tessera, con le prime casse di colmata di quella che doveva diventare la III zona industriale di 4000 ettari, con la discarica di fosfogessi sulle barene di Campalto. Solo con la legge speciale per Venezia n.171 del 1973 questa impostazione viene sostituita da una concezione sistemica di effettiva salvaguardia ambientale e dell'equilibrio idraulico della laguna.
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Le tappe che in successione risentono della scelta del Piano Rosso di orientare l’espansione di Mestre verso il bordo lagunare sono: il Piano di Ricostruzione, il piano e la realizzazione del Villaggio INA-Casa San Marco (1948-’60), il concorso per il quartiere coordinato CEP nelle barene di San Giuliano (1959), il Piano Regolatore Generale (1959-’62), la Variante al PRG del 1965 con il Piano di Zona per l’edilizia economica e popolare in applicazione della legge n. 167/’62, il piano infine per il CEP di Campalto (1967) attuato con le prime assegnazioni nel 1970. L’insediamento di terraferma si è effettivamente strutturato nel tempo come una “città completa” tra Venezia ed entroterra metropolitano, e sulle barene di San Giuliano, pur avvelenate dalle discariche autorizzate fin dal 1957 e pur oggetto di un importante concorso per l’edificazione di un vasto quartiere pianificato, si è costituito invece, dopo il concorso del 1989 che qui ha definito lo spazio aperto di cerniera tra terraferma e laguna, il grande parco che sempre più può collegare laguna e Venezia, forte Marghera, Canal Salso, centro storico di Mestre e Marzenego-Osellino, nuovo fronte di via Torino e della nuova Marghera. In questo contesto anche il Villaggio Laguna, di cui si raccontano antefatti e realizzazione nell’atlante che segue, può perseguire una nuova qualità e relazione con la città. Giorgio Sarto
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Atlante storico urbanistico sul quartiere CEP di Campalto-Villaggio Laguna di Giorgio Sarto
Ho ritenuto opportuno e più attraente raccontare la sequenza degli antefatti urbanistici, delle idee e progetti che hanno portato alla realizzazione del Villaggio Laguna nella forma di un atlante di cartografie, documenti e immagini commentate da brevi testi. I documenti riportati provengono dalla banca dati costituita nell’ambito del Laboratorio Mestre 900 di cui sono curatore scientifico e dal complesso impianto cartografico informatizzato sulle trasformazioni urbane elaborato nella stessa sede di ricerca. Alcuni documenti sono già stati pubblicati, in particolare nel volume “Mestre Novecento. Il secolo breve della città di terraferma” a cura di E.Barbiani e G. Sarto, Venezia 2007, al quale si rinvia per le specifiche fonti. Le fondamentali sono l’Archivio del Comune di Venezia, l’Archivio dell’ATER, l’Archivio della Provincia di Venezia , la pubblicazione del Ministero dei LL.PP. “Quartieri coordinati” Roma 1960., le riviste Urbanistica e Casabella del decennio considerato; i due estratti giornalistici provengono dalla collezione M.Orlandini.
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Tav. 1 Assetto del territorio di Campalto nella tavoletta dell’Istituto Geografico Militare del 1940. E’ evidente un’area ancora rurale, compresa tra l’imponente struttura storica di Forte Marghera e il Passo Campalto, dove appare tra l’altro un gruppo di baracche per senza tetto. A fronte di quest’area non urbanizzata, in terraferma sta già crescendo con successivi atti pianificatori una grande città industriale sviluppata per oltre 5 chilometri in direzione nord- sud, da Carpenedo a Marghera ed è già pronto il Piano Rosso che dispone invece l’espansione urbana verso la gronda lagunare. 12
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Tav. 2 Il Piano Rosso del 1937, con l’espansione di Mestre indirizzata verso la laguna e Venezia tra il Canal Salso e l’Osellino e l’edificazione delle barene di San Giuliano. Si noti che la concezione delle barene come area priva di ogni valore ambientale e edificabile da parte di enti pubblici in quanto demaniale comincia all’inizio del Novecento e continua fino agli anni Sessanta: viene attuata a Porto Marghera, proposta nel Piano Rosso e attuata come imbonimento a San Giuliano, riproposta infine per i 4000 ettari che dovevano costituire la così detta III Zona industriale. La delicata questione dell’equilibrio idraulico della laguna, al quale tanta attenzione aveva dedicato lo Stato veneziano, viene improvvisamente semplificata in questi 60 anni, sostenendo che le barene possono essere imbonite all’unica condizione di compensare il volume d’acqua su di esse circolante con un equivalente volume, per esempio quello ricavato scavando a Marghera i canali industriali. 13
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Tav. 3 La Variante del Piano Rosso del 1942, con l’estensione dell’espansione in gronda lagunare per due chilometri fino a Campalto e Tessera. 14
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Tav. 4 Veduta aerea all’inizio degli anni Sessanta, con la barene di San Giuliano e parte di quelle di Campalto e il Villaggio San Marco appena costruito. 15
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Tav. 5 Il progetto iniziale del 1950 del quartiere INA-Casa Villaggio San Marco, con circolazione veicolare perimetrale, dotazioni urbane comuni al centro collegate da un percorso trasversale, spazi interni pedonali e a verde con le numerose corti di edifici bassi e la fila di costruzioni a torre disposte longitudinalmente. 16
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Tav. 6 Una planimetria del 1958 del Villaggio San Marco, dopo l’introduzione del grande asse veicolare centrale - già previsto dal Piano Rosso e da quello di ricostruzione e realizzato come asse di nuova urbanizzazione dotato di condotta fognaria - che modifica in modo rilevante l’impianto urbanistico iniziale. 17
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Tav. 7 La richiesta del 1957 da parte del Comune di Venezia al Magistrato alle Acque di concessione all’imbonimento delle barene di San Giuliano, per la costruzione di un grande quartiere “coordinato” di edilizia popolare. A “compensazione” dell’invaso d’acqua perduto con l’eliminazione delle barene si prevede lo scavo di un bacino che semplicisticamente si ritiene garantisca il mantenimento dell’equilibrio idraulico lagunare. 18
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Tav. 8 La copertina della pubblicazione (1960) del Ministero dei LL.PP. sui 25 progetti C.E.P. (Coordinamento Edilizia Popolare) indicati a livello nazionale per la realizzazione di “quartieri autonomi�con il contributo del Ministero e coordinando in ogni comune destinatario i vari enti di edilizia popolare (IACP, INA-CASA, INCIS, UNRRA-CASAS) 19
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Tav. 9 La delimitazione dell’area per il concorso nazionale di progettazione indetto nel 1957 di un quartiere coordinato (CEP) sulle barene di San Giuliano. 20
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Tav. 10 Il progetto “Estuario III� del gruppo Muratori, primo classificato nel concorso. Il nuovo quartiere sulle barene viene configurato come un insediamento costiero rivolto a estuario verso Venezia, della quale riprende e reinterpreta la sequenza compatta di tipologie edilizie. 21
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Tav. 11 Il progetto del gruppo Piccinato e Samonà propone un quartiere di tipo razionalista, con nuclei di edifici a 4 piani disposti nel verde secondo assi ortogonali e gravitanti su 3 ampi spazi per dotazioni urbane comuni e su un parco con stadio e zona alberghiera. Oltre all’edilizia popolare vengono inoltre previsti edifici alti 12 piani di edilzia privata. 22
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Tav. 12 Il progetto del gruppo Quaroni si caratterizza per i grandi edifici ad emiciclo verso i quali confluisce il tessuto residenziale dell’insediamento e che si affacciano imperiosamente sulla laguna imponendosi ai luoghi con la loro forma inedita e con la dimensione fuori scala. 23
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Tav. 13 Mentre nell’immediato secondo dopoguerra il Piano di Ricostruzione si limitava a indicare il nuovo asse stradale di Viale San Marco e il relativo ambito di ampliamento che verrà presto occupato dal Villaggio san Marco, il Piano Regolatore Generale, faticosamente elaborato dopo il concorso nazionale del 1957 e approvato nel 1962, ribadisce - in continuità con il Piano Rosso - come zona di espansione quella lungo la gronda lagunare fino a Campalto. 24
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Tav. 14 La Variante al PRG del 1965, in attuazione della legge n. 167 del 1962, dispone i nuclei di espansione della città attraverso PEEP (Piani edilizia economica e popolare). Le aree sono quasi tutte in zona agricola, perciò esterne alla precedente zonizzazione del PRG ed è in questa variante che viene individuato esattamente l’ambito ove verrà costruito il CEP di Campalto. 25
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Tav. 15 Il primo progetto del CEP di Campalto (1965/66) tracciato dal Comune nella carta che indica la zonizzazione anche delle aree contermini a nord est. La posizione pregiata al bordo dell’Osellino e della laguna (pregiata per chi ci abita, in realtà tutt’altro che positiva per il paesaggio della gronda lagunare), la vicinanza ai previsti nuclei di urbanizzazione a nord est, non compenserà l’isolamento urbanistico e sociale del nuovo quartiere dalla città. 26
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Tav. 16 Planimetria esecutiva del CEP elaborata dall’IACP, ove tra l’altro alcune tipologie articolate a schiera del progetto precedente vengono accorpate in edifici in linea di maggiore dimensione e altezza. Il quartiere è dimensionato per circa 5000 abitanti e contiene tra l’altro l’ innovazione del riscaldamento da un’unica centrale che si rivelerà disastroso per la crisi energetica, le perdite della rete e la gestione. Anche se l’impostazione dei PEEP della legge n.167/62 era di costituire insediamenti misti, cioè con la presenza anche di edilizia privata realizzata da cooperative e costruttori, il CEP di Campalto è composto solo da interventi dei vari enti di edilizia popolare, e ciò costituirà una delle radici di molti problemi urbanistici e sociali successivi. 27
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Tav. 17-18 Progetto del quartiere di Campalto, fotografie del plastico. La circolazione veicolare avviene tramite un anello stradale perimetrale, mentre l’area interna è pedonale e un percorso collega longitudinalmente il verde e le altre dotazioni urbane (impianti sportivi, piccolo centro commerciale, centro sociale, scuole dell’obbligo). L’impianto urbanistico recupera così in parte lo schema del primo e poi cambiato progetto del Villaggio San Marco che non prevedeva il viale veicolare centrale. Le tipologie edilizie, affidate dai vari enti per l’edilizia popolare attuatori dei singoli nuclei abitativi a progettisti diversi, sono costituite da edifici in linea di 4 e 5 piani fuori terra e da blocchi alti fino a 8 piani fuori terra. Malgrado il buon impianto urbanistico e una certa correttezza e attenzione alla qualità architettonica, la semplificazione formale e la concentrazione di molti alloggi in grossi edifici, ha portato finora la maggioranza degli abitanti dentro e fuori il quartiere ad assimilare ai “palazzoni” popolari costruiti in tante altre parti della città anche la configurazione di questo insediamento. 29
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Tav. 19 In questa foto aerea del 1967 appare evidente la straordinaria quanto delicata e isolata posizione del nuovo quartiere in gronda lagunare. In quanto insediamento pianificato, è realizzato prima l’anello stradale e si sta procedendo all’attuazione dei due primi nuclei, come risulta nella carta comunale riprodotta di seguito. La costruzione e corte rurale preesistente è ancora in piedi. 30
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Tav. 19a Coeva veduta aerea dalla laguna verso Mestre del perimetro infrastrutturale del CEP, rapportato visivamente sullo sfondo all’estesa crescita edilizia della città di terraferma che in questo periodo raggiunge e supera i 200.000 abitanti. Le barene in primo piano, gli argini e il corso rettilineo dell’Osellino, il preordinato anello viario che precede la fase di costruzione edilizia del quartiere pianificato ma che evidenzia al proprio interno ancora l’assetto rurale e la piccola corte di Ca’ Tombéle, il settore nord est della città in crescita sullo sfondo, costituiscono una sintesi significativa del contesto e della specificità del nuovo quartiere coordinato di edilizia popolare. 31
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Tav. 20 Mappa comunale su base catastale del 1967 che corrisponde alle due foto aeree precedenti e documenta, oltre l’anello stradale realizzato, i primi due nuclei abitativi e il tracciato del centro commerciale. E’ rappresentata anche la vecchia strada campestre (alla quale si affianca il nuovo stradone del CEP) che portava da Via Orlanda alla corte rurale presente anche a fine Ottocento e che era denominata Ca’ Tombéle, toponimo quest’ultimo assai antico e presente nelle mappe di vari periodi nella zona tra Canal Salso e Campalto. 32
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Tav. 21 Con questa fotografia che riprende insieme la costruzione rurale preesistente e impianti di cantiere del nuovo insediamento, inizia la sequenza della fondamentale documentazione fotografica già prima anticipata sulla costruzione del quartiere (1967/70), conservata nell’archivio dell’ATER (ex IACP) di Venezia. La corte rurale, ricadendo nella zona a verde e sport, poteva forse essere conservata e riutilizzata, ma è stato demolita. 33
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Tav. 22 Il quartiere in costruzione. Il cantiere visto da ovest verso via Gobbi e Passo Campalto. Tav. 23 Il quartiere in costruzione. Le prime strutture in elevazione. 34
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Tav. 24 Il quartiere in costruzione visto da ovest. Il settore nord è pressoché completato; sullo sfondo il Passo Campalto con l’ex ufficio daziario e gli impianti radio. 36
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Tav. 25 EstremitĂ occidentale del quartiere in costruzione vista da nord ovest. Edifici abitativi con 4 e 5 piani fuori terra e tipologia in linea; sullo sfondo le barene con una striscia di discarica e il profilo di Venezia; nel verde alberato si intravede la corte rurale preesistente. 37
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Tav. 26 Il quartiere in costruzione visto da nord est. Edificazione della parte nord del quartiere, con tipologie in linea fino a 5 piani fuori terra e a blocco fino a 8 piani; sullo sfondo le barene verso San Giuliano con segni di discarica e il profilo di Porto Marghera. 38
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Tav. 27 Il quartiere in costruzione. Veduta ravvicinata di edifici abitativi in linea con 4 e 5 piani fuori terra. 39
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Tav. 28 Il quartiere in costruzione visto da nord. Il nuovo insediamento è qui ampiamente inquadrato tra il paesaggio lagunare e, in primo piano, la via Orlanda; la zona tra questa strada e il CEP in questa ripresa comprende ancora una consistente macchia alberata, vicino alla quale (ad est, cioè nella foto a sinistra) si vede chiaramente la centrale termica con il camino. La scelta del riscaldamento centralizzato per l’intero quartiere si rivelerà disastrosa non solo dopo la crisi del petrolio, ma anche sotto il profilo tecnico, economico e gestionale, provocando le proteste di inquilini e assegnatari. Come viene riportato nei due articoli del 1973 e 1974 che si riproducono di seguito, le perdite e l’insufficiente isolamento della rete di distribuzione producevano “fumarole” e con il quartiere innevato le tubazioni sotterranee scioglievano la neve lungo il loro tracciato. 40
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Tav. 29 Estremità occidentale del quartiere in costruzione vista da sud. Si evidenzia la nuova strada che da via Orlanda, fiancheggiando la vecchia strada campestre che termina alla corte di Ca’ Tombéle, conduce al grande anello stradale che circonda il quartiere. 41
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Tav. 30 Il quartiere in costruzione visto da nord ovest. E’ evidente l’innesto della strada di collegamento a via Orlanda con l’anello viario che perimetra l’insediamento. 42
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Tav. 31a Il quartiere in costruzione visto dall’anello viario nord, attuale via Sabbadino, con il cartello relativo all’intervento della GesCaL (Gestione Case per Lavoratori, subentrata dopo lo scioglimento della gestione INA Casa). 43
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Tav. 31b Uno degli edifici di 8 piani fuori terra in costruzione, con la rampa del percorso sopraelevato. 44
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Tav. 31c Edifici in costruzione con tipologia in linea di un altro nucleo. 45
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Tav. 32 Edifici appena finiti. 46
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Tav. 33 - 33a 47
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Tav. 33 - 33a - 33b Dopo l’assegnazione degli alloggi del CEP di Campalto, la quale inizia nel 1970 emblematicamente al cinema San Marco dell’omonimo Villaggio - il maggiore intervento di edilizia popolare costruito in terraferma - la stampa dà conto di problemi sociali, economici e gestionali del nuovo quartiere e dei comitati e movimenti rivendicativi degli inquilini. Si riportano di seguito due servizi, rispettivamente del 1973 e del 1974 e le foto di impronta neorealista di un settimanale - “7 giorni Veneto- settimanale indipendente”, - attento alla realtà veneta e in particolare di Mestre e Marghera. 48
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Tav. 34 Trasformazioni urbane 1954-1968. Nelle due elaborazioni cartografiche che seguono, prodotte nell’ambito del Laboratorio Mestre 900, sono rappresentate le trasformazioni urbane nel settore ove viene insediato il CEP di CampaltoVillaggio Laguna. Il quartiere pianificato appare solo come anello stradale preventivamente costruito (1967) nella carta delle trasformazioni realizzate dal 1954 al 1968, il periodo della maggior crescita edilizia e demografica della città di terraferma. Si noti la intensa ma dispersa crescita edilizia privata, rispetto alla quale prima il Villaggio San Marco e ora quello di Campalto costituiscono invece i maggiori interventi pianificati e di edilizia popolare; nuove infrastrutture come la circonvallazione est raccordata al nodo di San Giuliano e, fuori carta, l’aeroporto di Tessera; l’imbonimento delle barene di San Giuliano, al quale seguirà nel successivo periodo quello sulle barene di Campalto.
Tav. 35 Trasformazioni urbane dal 1968 al 1978. Emerge l’intervento pianificato e caratterizzato da un evidente ordine urbanistico-edilizio del quartiere coordinato di Campalto, con la circolazione veicolare esterna e la spina interna di verde e sport e di dotazioni comuni: scuole, centro commerciale e centro sociale. Si avverte pure la delicatezza dell’insediamento nel paesaggio della gronda lagunare, dato tra l’altro che anche dal ponte della Libertà l’affaccio del quartiere non è certo il massimo dell’attenzione al carattere di luoghi tanto pregiati. In questo periodo si nota anche in cartografia la colmata in barena che ha dato origine alla annosa questione della bonifica dei fosfogessi affrontata finalmente nei giorni nostri dopo le bonifiche per il parco di San Giuliano. Si noti a nord del CEP la realizzazione piuttosto schematica di un PEEP in via Bagaron e in zona Cavergnaghi il nuovo palasport Taliercio. Mentre il spesso lamentato carattere spazialmente isolato del quartiere può avere il pregio di costituire un’insula che ha evitato proliferazioni dispersive ed è recuperabile riqualificando le stesse aree limitrofe, le problematiche sociali sono connesse alla scelta iniziale di un quartiere di sola edilizia popolare e non di carattere misto e i problemi connessi sono come è noto risolvibili con approcci integrati e non certo solo urbanistici e con la stessa evoluzione nel tempo della composizione e ruoli sociali, sempre in corso visto che sono trascorsi 40 anni e che per esempio molti inquilini sono diventati proprietari. 49
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Tav. 36 Ortofoto del Villaggio Laguna, anno 2000. Si nota tra l’altro in barena e in colore piÚ chiaro la colmata dei fosfogessi. 54
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Tav. 37 Il Villaggio Laguna oggi, con le varie tipologie edilizie e la spina delle dotazioni comuni che iniziano in primo piano con l’area sportiva e proseguono lungo l’asse centrale del quartiere. Sulla destra si vede una parte della colmata bonificata in barena. 55
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Tav. 38 Ortofoto del Villaggio Laguna inquadrato nel settore est della cittĂ , anno 2004. La panoramica permette di distinguere e confrontare tra loro le principali componenti del tessuto urbano ed in particolare gli interventi di quartieri unitariamente anche se settorialmente pianificati, quali il Villaggio San Marco, il CEP di Campalto-Villaggio Laguna, Il PEEP della Bissuola- Quartiere Pertini. Emerge verso laguna accanto a forte Marghera il realizzato parco di San Giuliano e la bonifica della colmata sulle barene di Campalto. 56
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Tav. 39 Il Piano Guida del parco di San Giuliano del 1995. Il Piano Guida, elaborato per il Comune di Venezia che lo approvò nel 1996 dall’architetto Di Mambro, vincitore del concorso indetto nel 1989 per il nuovo parco, prevede piÚ ampie connessioni urbane ed estensioni verso Porto Marghera e verso Campalto e costituisce orizzonte strategico anche per il Villaggio Laguna per attuare questo grande progetto urbano e ambientale tra terraferma e laguna e Venezia. 57
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Tav. 40 Sintesi delle trasformazioni urbane della città di terraferma da fine Ottocento al 2004. Questa rassegna o piccolo atlante delle idee e vicende urbanistiche attorno al Villaggio Laguna si conclude richiamando l’orizzonte progettuale appena esposto al punto precedente e allargando lo sguardo alla formazione storica della grande città di terraferma, attraverso la suggestione di una delle elaborazioni cartografiche prodotte nell’ambito del Laboratorio Mestre 900. Essa allude a un lungo lavoro di ricostruzione storica e di rappresentazione delle trasformazioni di questa città che costituisce nella sua rapida e spesso drammatica industrializzazione e urbanizzazione un esempio importante delle vicende del Novecento.
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Loris Andrioli ha ricoperto tra gli anni '70 e gli anni '80 importanti cariche amministrative nel Comune di Venezia, molti lo ricorderanno come il primo Presidente del Consiglio di Quartiere (il quartiere Q10, che comprendeva il territorio del vecchio Comune di Favaro, in pratica, l'odierna Municipalità). Esponente di spicco del PCI veneziano, il Villaggio Laguna per lui è stato una sfida ma anche un sorprendente terreno di sperimentazione sociale. “Sono andato ad abitare al CEP nel '73. Il mio appartamento stava tra il centro commerciale e il centro sociale, nelle case che non erano costruite direttamente dell'Ater, ma con gli utili ricavati dell'Ater dalla vendita degli altri appartamenti. Quegli appartamenti erano destinati ad alcuni “raccomandati” e a chi possedeva il negozio al CEP. In quegli anni ero un funzionario del PCI della zona del mestrino, e come me, il partito era affascinato dalle forme di aggregazione che si erano formate al CEP; quelli che si erano creati tra le persone, erano legami forti e spontanei, portatori di una grande partecipazione.
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Attorno al PCI, a quel tempo, si riunivano molte persone perché ci facevamo promotori e animatori dei comitati dei cittadini. Ci schierammo con il comitato dei cittadini contro le IACP perché molte case avevano rivelato subito diverse magagne come il problema dell'umidità e del riscaldamento. Quella del riscaldamento fu una battaglia lunghissima. Inutile dire che il progetto della Centrale Termica fu un totale disastro. L'acqua calda nelle case arrivava quasi con 20 gradi in meno rispetto alla temperatura con la quale era partita dalla centrale. Le dispersioni di calore erano talmente alte che al CEP alcuni alberi fiorivano a gennaio e febbraio perché confusi dall'eccessivo riscaldamento del suolo! L'intento del progetto di abbassare i costi di riscaldamento ha, di fatto, prodotto l'effetto contrario: manutenzione, sostituzione di tubature e continui adattamenti della Centrale hanno alzato i costi tanto che, dopo una decina d'anni, fu abbandonato definitivamente il progetto della caldaia centralizzata per dotare ogni condominio della sua caldaia.
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Ma la caldaia di condominio non convinceva nessuno, così si pensò ad una caldaia per appartamento. Ovviamente a questo punto Ater installò la caldaia solo negli appartamenti di sua proprietà mentre gli inquilini che avevano riscattato l'appartamento avrebbero dovuto provvedere autonomamente all'installazione. Anche qui ci furono delle discussioni furibonde e anche il partito ha dovuto prendere posizioni anche scomode in certi casi. La gestione delle case popolari era un “bailamme”: molti non pagavano, molti avevano riscattato l'appartamento in cui vivevano per una pipa di tabacco, molti consideravano un diritto acquisito abitare in quelle case. Così per far fronte a questo problema, in quegli anni venne proposta dal governo una legge per adeguare gli affitti delle case popolari al reddito degli inquilini e anche il PCI votò a favore. Potete ben capire cosa ci costò questa decisione in termini di consenso, ma non potevamo far finta di non vedere che dietro alla gente a cui era stata data una casa, c'era una infinita fila di persone che aspettava il proprio turno per godere del suo diritto di avere un tetto sopra la testa”. Che rapporti c'erano tra il partito e i preti? “Buoni, anche perché i preti erano animatori dei comitati. La nostra prima battaglia comune riguardò le scuole. Alla fine le nostre richieste si rivelarono perfino eccessive, da una carenza si passò ad un surplus in cinque anni! Il problema della mancanza di edifici dedicati al servizio scolastico non riguardava solo il CEP. L’amministrazione della DC aveva lasciato due grandi carenze nel Comune di Venezia: le scuole e il verde pubblico. Un dato sconvolgente è che in quegli anni c'erano circa 17 centimetri quadrati di verde per abitante. Così una volta al governo della città, i primi provvedimenti del PCI riguardarono la scuola e il verde pubblico. Su questa scia si costruirono via via gli edifici scolastici del CEP e si realizzò il Parco di Via Chiarin. Le esperienze politiche e i preti hanno fatto un grande lavoro per lo sviluppo di questo quartiere”. Tutti ne parlano con riluttanza, ma ci piacerebbe sapere di più del fenomeno delle Brigate Rosse nel Villaggio Laguna. “Una donna fu vera animatrice del gruppo di appoggio che si era formato al CEP. In qualche modo furono coinvolti anche alcuni ragazzi del quartiere, 63
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ma non erano sovversivi, erano solo simpatizzanti. Il CEP non era il centro dirigenziale delle Brigate Rosse, qui si reclutava la bassa manovalanza per la distribuzione di volantini. Attorno al gruppo della musica si era creato un giro di ragazzi e noi abbiamo deciso di mettergli a disposizione una sala all'interno del Centro Sociale. La cosa poi un po' degenerò e più che un gruppo era diventato un Club esclusivo, è a quel punto che abbiamo capito che le nostre concessioni stavano diventano una pericolosa privatizzazione degli spazi e abbiamo cambiato metodo. Il PCI prese da subito le distanze dalle Brigate Rosse e contro di loro assunse un atteggiamento duro. Anche io non fui immune alle loro minacce, e ricevetti intimidazioni telefoniche”. Proviamo a toccare un altro tasto delicato che, per fortuna, ormai riguarda la storia passata del Villaggio Laguna. Come è stato affrontato il problema della droga dalle Amministrazioni Locali? “Negli anni in cui il problema della tossicodipendenza raggiungeva il picco più alto, io ero appena diventato Presidente del Consiglio di quartiere. Il primo eletto direttamente dai cittadini, per me era un grande riconoscimento ma anche una grande responsabilità. La droga portò via un'intera generazione di ragazzi e i provvedimenti che prendemmo senza dubbio si rivelarono inefficaci. Appena prendemmo consapevolezza dell'emergenza sociale subito si palesò la necessità di avere dei medici. Abbiamo istituito il servizio sociale per assistere le famiglie, ma non era cosa semplice. La gente tentava in tutti i modi di coprire o minimizzare il problema rendendoci il lavoro ancora più difficile. Forse, anche questa volta, chi si è dato più da fare sono stati i preti. Loro organizzavano conferenze ed incontri e noi facevamo del nostro meglio per sostenerli e promuoverli. Alla fine tutti si resero conto che il servizio sociale, per quanto utile, era decisamente insufficiente a risolvere il problema. Tutti reclamavano repressione verso chi veniva da fuori a portare la droga all'interno del quartiere, non riuscivano a capire che la filiera di spaccio e acquisto di sostanze stupefacenti iniziava e finiva proprio al CEP. Così qualche benpensante tentò di risolvere il problema con le ronde cittadine: non le ha mica 64
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inventate la Lega! Le ronde, purtroppo, diedero vita ad episodi di violenza in cui alcune persone ritenute estranee al CEP vennero perfino bastonate. La cosa grave è che alle ronde partecipavano anche alcuni poliziotti. Questo metodo di repressione - che in altri tempi si sarebbe chiamato con un altro nome –non diede comunque i risultati sperati e fu, per fortuna, ben presto abbandonato. Tuttavia non ci fu una completa ammissione di colpe, non si riuscì a riconoscere pienamente che il problema era tutto interno”. Quali erano i rapporti tra il gli abitanti del Villaggio Laguna e gli abitanti della “Campalto Vecchia”? “Quelli di Campalto hanno sempre avuto la puzza sotto il naso, consideravano gli abitanti del CEP una razza inferiore. Ma la storia delle discriminazioni non è mai finita. Quelli di Campalto Vecchia discriminavano il CEP, quelli del CEP discriminavano Via Bagaron. Effettivamente in Via Bagaron furono ammassate un numero esagerato di persone disagiate...fu veramente un'assurdità pensare di poter risolvere il disagio sociale semplicemente spostandolo di posto! Il CEP diventò una zona interdetta per i figli delle famiglie che abitavano nella vecchia Campalto, non volevano mandare i loro figli alle scuole del CEP. Si spesero un sacco di soldi per dotare Campalto di due centri scolastici quando il CEP avrebbe potuto facilmente assorbire tutta la richiesta. Il parco Chiarin nacque proprio dall'esigenza di collegare la Campalto vecchia con quella nuova. Creare un luogo comune di frequentazione degli uni con gli altri. Il verde pubblico come luogo di integrazione. C'era anche un grande fermento giovanile che si manifestava in numerosissimi gruppi musicali e da questo nacque l'idea di dotare il parco di una piattaforma per spettacoli. Una grande idea che purtroppo non è mai andata in porto. Il parco Chiarin era diventato il simbolo del legame tra le due Campalto, tanto che, quando la giunta comunale decise di costruire in quella zona l'Antony Hotel ci opponemmo con tutte le nostre forze. Forti della volontà di riappropriarci del nostro territorio, abbiamo minacciato di buttar giù di notte tutto quello che veniva costruito di giorno. Con il beneplacito del Consiglio di Quartiere”.
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Cosa ci può dire dell'Isola di Campalto? Dicono sia stata una delle sue più grandi sfide... “L'isola di Campalto fu una grande scommessa. Volevamo trasformare l'Isola delle “scoasse” (come era definita in quegli anni) nell'Isola del tesoro, da discarica a luogo di svago. L'idea nacque da me e da una giornalista della Nuova Venezia. Vennero fatti numerosi progetti e molti mi aiutarono nella mia impresa, in particolare la moglie di Danieli, l'imprenditore che ha fatto la lottizzazione di Via Torino. Sua moglie sposò totalmente la causa, mi seguiva nelle varie iniziative e cercava sponsor. La campagna per l'Isola di Campalto assunse una rilevanza così importante che interessò la stampa nazionale. Nessuno si era mai interessato a quest'isola prima di noi, ma l'iniziativa assunse una importanza tale che Canareggio arrivò a rivendicarne la paternità!”. Si ma non mi ha detto come è andata a finire... “ Ah si, l'Isola è stata pulita ma non ha avuto cure costanti. Tito Pamio l'ha adottata ed è diventato il custode dell'Isola, ma non è facile proteggerla da chi la tratta ancora come se non fosse proprietà di nessuno, quando invece è proprietà di tutti”. Quale futuro vede per il Villaggio Laguna? “Abbiamo sempre provato ad immaginare il ruolo futuro del quartiere in rapporto al territorio che lo circonda. La sua conformazione porta numerosi vantaggi ma ad altrettanto numerosi svantaggi. Certo bisognava toglierla dall'isolamento quando eravamo in tempo e invece non si è riusciti a creare un collegamento forte con la città. Questo era il quartiere con la media di età più bassa di tutta la regione, ma l'isolamento ne ha impedito il ricambio. Adesso c'è la stessa popolazione che ha dato vita al quartiere quarant'anni fa. C'è la necessità di ricucire il nostro territorio, il lavoro di integrazione non è finito. Forse con l'approvazione del Piano Integrato di Campalto le cose miglioreranno...”
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I parroci che hanno operato nella comunità del Villaggio Laguna hanno avuto un ruolo determinate nella sua evoluzione. La Parrocchia dell’Annunziata, infatti, ha rappresentato per gli abitanti che sono andati a popolare questo quartiere, un punto di riferimento importante per creare dei rapporti tra famiglie che improvvisamente sono state obbligate ad una convivenza forzata. La Parrocchia e le attività ad essa connesse, sono state essenziali per dare la giusta direzione al senso di disorientamento e di estraneazione percepito dalla nuova popolazione residente. Anche se la missione di portare il Vangelo tra le famiglie più povere e più disagiate del territorio è stata una grande sfida che continua tutt’ora. In questi quarant’anni i Parroci che si sono susseguiti hanno dedicato anima e corpo a questa missione, restando profondamente convinti che i valori di solidarietà e condivisione, su cui era stato imperniato il progetto, siano stati di vitale importanza per lo sviluppo sociale e civile del Villaggio Laguna. Vi riportiamo la testimonianza del primo Parroco della Chiesa dell’Annunziata: don Gianni Fazzini. Dopo gli anni turbolenti passati al Villaggio Laguna, ora ci accoglie nella sua oasi di tranquillità nella Parrocchia di Altino. Quando comincia il suo racconto ha la fronte corrucciata e il sorriso sulle labbra, è evidente come l’esperienza che ha vissuto in questo quartiere porti alla sua memoria dei sentimenti ancora in profondo conflitto tra loro... “Era l’ottobre del 1970 quando la IACP (oggi ATER) consegnò i primi 450 appartamenti agli abitanti che sarebbero andati a popolare un nuovo quartiere denominato CEP. Nessuno sapeva a quale abitazione era stato assegnato e le stradine del quartiere erano sempre affollate di nuovi abitanti in cerca di sistemazione. L’assegnazione non è stata di semplice gestione e le lamentele erano molto frequenti. Anch’io nei primi mesi dalla nascita del CEP, mi aggiravo pensieroso lungo le stradine impolverate del nuovo quartiere che stavano in quei mesi diventando dei marciapiedi. Ho ricevuto il mandato dal Cardinale Luciani, il quale, presentandomi la parrocchia in cui sarei andato ad operare, definiva una grande fortuna l’occasione che mi veniva proposta. Erano infatti stati messi a disposizione 300 milioni per la costruzione di una Chiesa in quello che stava diventando il nuovo quartiere residenziale 67
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di Campalto. Aggiunse poi che il restante 1 miliardo di lire per portare a termine il progetto della Chiesa sarebbe stato mio compito trovarlo nella comunità. Ma come potevo chiedere un miliardo di lire a queste persone che erano le più povere e più disagiate del Comune? Mi ripresentai quindi al Cardinale Luciani con un progetto personale. Un progetto che in due mesi e con 50 milioni avrebbe dato una risposta al bisogno urgente di un luogo di aggregazione per questa nuova comunità. Il Cardinale dopo un primo momento di esitazione, acconsentì. Fu estremamente emozionante celebrare la Messa di Natale sotto la struttura che doveva ancora essere terminata ma che la gente aspettava con grande partecipazione”. Ma mentre i lavori di costruzione della Chiesa procedevano, Lei cosa faceva? “Il quartiere era un deserto, non c’erano ne’ negozi, ne’ scuole, ne’ dottori. Passavo il mio tempo a passeggiare avanti e indietro lungo i viali, a scambiare quattro chiacchiere con la gente che incontravo. Intanto il lavori di costruzione della Chiesa vennero terminati ma mi trovai subito davanti un altro problema da risolvere. In quegli anni le famiglie erano molto numerose e i bambini erano tantissimi, quasi 1500 in tutto il quartiere. Era impossibile per me pensare di gestirli da solo, chiesi quindi un collaboratore e Don Gianni Manziega venne a farmi da Cappellano. Don Gianni aveva però un altro progetto, voleva andare a fare l’operaio a Porto Marghera. Inizialmente non capivo la sua scelta, io avevo bisogno di un aiutante e lui voleva andare a lavorare lasciandomi di nuovo solo con tutti questi bambini? Solo in un secondo momento ho capito le sue intenzioni. Aveva avuto l’intuizione che i Preti svolgono una vita troppo distante dalla gente, non riuscivano a portare il Vangelo nella vita quotidiana. Appoggiai quindi la sua scelta, il suo fu un grande sacrificio perché dopo il suo turno di lavoro in fabbrica, dedicava altrettanta energia e dedizione ai ragazzi.
4-Il portatabernacolo nella chiesetta dell’Annunziata (G. Brandoli) 68
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Ma il progetto di Don Gianni andava ben oltre la condivisione del lavoro e l’intento di portare tra la gente i valori del Vangelo. Quando ricevette il primo stipendio me lo mostro orgogliosamente, sembrava volesse condividere con me, e con quelle altre poche persone riunite intorno al quel tavolo, il risultato delle sue fatiche. A quel punto mi sentii anch’io in dovere di fare qualcosa, quindi andai a prendere la mia congrua (l’otto per mille passato dalla Chiesa) pensando di rispondere alla sua intenzione di creare una cassa comune. Don Gianni, invece, cercò di spiegarmi che se veramente volevamo essere come tutte le altre famiglie che ci circondavano, dovevamo vivere con una sola paga, come loro, solo così potevamo scendere dal gradino più alto in cui eravamo saliti per svolgere il nostro ruolo caritatevole, ed essere veramente come tutti gli altri”.
5-Settimana dei ragazzi (G. Coianiz)
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E quindi Lei cosa fece? “Mi recai di nuovo dal Cardinale Luciani per rinunciare alla congrua e anche questa volta non capì subito le mie intenzioni. Certo potevo usare quella somma per aiutare le famiglie ma non era questa la nostra idea. Volevamo una condivisione totale, senza differenze. Restava il problema della gestione dei bambini: serviva un nuovo modo per fare catechismo. Così ci siamo inventati le mamme catechiste. Circa un’ottantina di mamme di straordinaria forza d’animo si sono offerte, seppur con la paura di non essere all’altezza, di fare catechismo ai bambini. Una volta a settimana noi davamo lezioni di catechismo a loro, e le mamme a loro volta spiegavano il Vangelo a un gruppetto di ragazzini. Le donne ospitavano i bambini direttamente a casa loro oppure ci si trovava in Chiesa e si tiravano giù i tavoli appesi alla parete. La Chiesa non era solo un luogo di culto ma era un vero e proprio spazio aperto alle esigenze quotidiane della gente del quartiere, a disposizione per assemblee di condominio e riunioni. Circa un anno e mezzo dopo l’inizio del mio operato al Villaggio Laguna, venni contattato dal Patriarca che mi chiese perché la Chiesa fosse ancora sprovvista del tabernacolo. La mia idea fin dall’inizio era quella di portare gradualmente il Vangelo tra la gente, ma quella volta mi sentii in dovere di obbedire, ero sicuro che anche questa volta la comunità avrebbe approvato questa scelta. Indissi quindi una gara tra i parrocchiani per il progetto del tabernacolo. La comunità si trovò unita nell’idea che il tabernacolo dovesse in qualche modo rappresentare le origini di questa gruppo di persone che si era riunita sotto questa Chiesa. Si fecero dare quindi dei tralicci di ferro dai cantieri in cui si stava ancora lavorando per costruire altri condomini e Domenico Martin terminò l’opera con una gettata di cemento. Adesso avevamo un tabernacolo ed era il simbolo più autentico della forte partecipazione della comunità. Poco dopo, nel 1972, Don Alfredo, che in quegli anni faceva il Cappellano alla parrocchia di Campalto, litigò con Don Ivano, allora Parroco della Parrocchia di San Benedetto e Martino. Mi proposi come tutor di Don Alfredo accogliendolo come Cappellano nella nostra parrocchia. Non avrei potuto fare scelta migliore, Don Alfredo seppe portare nuova energia e nuove idee alle nostre attività. Ha inventato la settimana dei ragazzi creando momenti di grande festa e condivisione anche se questa festa, a volte, ha 71
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6-Settimana dei ragazzi (G. Coianiz) messo in crisi perfino il catechismo impegnando le nostre mamme in dolci e banchetti! Eravamo tre preti che operavano nelle stessa parrocchia con grande passione, ma non eravamo un gruppo chiuso, anzi, l’organizzazione del lavoro di comunità era gestito in sinergia con le numerose mamme che ci aiutavano costantemente. Anche i papà però vollero avere un ruolo, si organizzarono per dar vita ad attività sportive e culturali che hanno saputo dare grande spinta allo sviluppo di questo quartiere”. Fin qui sembra una favola felice destinata ad un lieto fine, eppure il Villaggio Laguna non ha la reputazione di un quartiere armonioso e pacifico... “Purtroppo mentre il centro di Campalto conosceva uno sviluppo e andava verso le prime forme di integrazione verso Mestre, il Villaggio Laguna viveva un’altra storia. 72
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Nel 1974, quando si votò per il referendum sul divorzio, noi ci schierammo per il no, non volevamo l’abrogazione della legge. Pensavamo fosse essenziale la presenza di un provvedimento che prendesse atto della realtà, che non costringesse due persone a stare insieme. Pagammo molto cara questa scelta. La Chiesa ci mise in disparte accusandoci di essere degli idealisti. C’è da dire anche che in alcune occasioni non siamo stati capaci di invocare la non violenza, alcune volta la rabbia di alcuni ragazzi verso l’esclusione, è sfuggita dal tessuto di unità e valori che avevamo faticosamente intrecciato. Nell’80 quando avvennero i primi assassini da parte delle Brigate Rosse, alcuni giovani del nostro quartiere parteciparono a quelle azioni. Fu un grandissimo trauma per tutta la comunità. Quando fu ucciso Taliercio, direttore della Montedison di Porto Marghera, mi recai personalmente alla parrocchia di San Lorenzo per partecipare al dolore della loro comunità. Provai a spiegare che mentre loro piangevano la perdita di un loro caro, anche noi piangevamo perché i nostri figli si erano macchiati di una colpa così grave. Non mi capirono e anche questa volta ricevetti un grande rifiuto che ci ricollocò tra le file degli esclusi e degli emarginati. Non tutti però ci vedevano in questo modo. Don Lidio, l’attuale parroco del Villaggio Laguna, che in quegli anni operava proprio nella Parrocchia di San Lorenzo, fece espressamente richiesta di venire ad operare nel Villaggio Laguna. Portammo avanti insieme per un breve periodo questo percorso ma poi nell’ 84 decisi che il mio capitolo al Villaggio Laguna si era concluso. La mia esperienza al Villaggio Laguna è stata segnata da scelte coraggiose su un programma non definito. Scelte condotte dai fatti lungo una strada segnata dal Signore”.
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Dal diario di Vito Amatulli: primi insediamenti, prime delusioni. “In quartiere si vedono camion con masserizie giungere da ogni dove. Uno sguardo frettoloso mentre si scarica il camion: tutta gente che si rimbocca le maniche. Non si vedono facchini a pagamento, né vistose scritte sulle fiancate dei mezzi da cui vengono scaricati i mobili. Qualche saluto al coinquilino ancora da conoscere, qualche intralcio incrociandosi sulle scale con il peso dei mobili da portare su. Così comincia la vita in quartiere per questi primi assegnatari, consapevoli di dover affrontare i disagi già preannunciati. Anche la modernissima C.T. non è completamente efficiente, infatti alcuni fabbricati sono ancora al freddo, il calore ci verrà erogato, come regalo di Natale, ci è stato detto, il 22 o il 23 dicembre”.
7-Settimana dei ragazzi (G. Coianiz)
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Beniamino Ruffato, non ha mai abitato in Villaggio ma dal ’70 al ’74 ha aiutato, insieme a Don Gianni, alcune famiglie a trovare una sistemazione dignitosa. Com’è arrivato in quartiere? “È stato per me un’ esperienza religiosa. Non ho mai abitato al CEP ma insieme ad alcuni amici del gruppo cristiano di contestazione, Ricerca di Cristo, di cui facevo parte alla Favorita, ho iniziato a vivere l’esperienza del quartiere con Don Gianni e con i preti lavoratori. Partivo da casa in bici ed andavo ad ascoltare il loro messaggio, che era fatto sì di letture classiche ma sapeva mescolarsi con la situazione reale: il messaggio di quei sacerdoti interpretava bene le esigenze della gente, soprattutto di quella più bisognosa. In quegli anni infatti, la messa era davvero una condivisione con le persone: dopo la lettura del vangelo, la predica si faceva insieme interpretando le Sacre Scritture secondo quelle che erano le esigenze degli abitanti”. E’ stata un’esperienza religiosa che l’ha però portata dentro ai problemi della gente fino ad aiutarli a trovare una casa. E’ così? “Ero molto coinvolto dalla vita della parrocchia e dallo sviluppo che viveva il quartiere. Partecipavo a quasi tutte le iniziative che abitanti e parroco organizzavano, dalle manifestazioni per ottenere i servizi ed alcuni diritti fondamentali fino alle gite in montagna. Con lo spirito di aiutare chi aveva bisogno, assieme ai miei compagni ed altri amici del CEP ho aiutato una decina di famiglie provenienti da Ca’Emiliani ad occupare alcuni appartamenti liberi dell’Istituto Autonomo Case Popolari. Ero convinto fosse la cosa giusta da fare, mosso dalla fiducia che avevo per una comunità che si aiutava tantissimo. Più tardi mi sono reso conto che quegli appartamenti, occupati con il nostro aiuto, erano solamente una lotta tra poveri. Poveri veri, affamati, che mi hanno fatto sentire il loro sentimento di forte disperazione”.
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Dal diario di Vito Amatulli: la sfortunata storia della Centrale Termica. (1971) “La C.T. viaggia a pieno ritmo e riscalda tutto il quartiere, anche gli appartamenti sfitti in quanto si vuole accelerare l’asciugatura degli appartamenti nuovi. Intanto, però, si sentono le prime lamentele degli assegnatari in quanto, malgrado la C.T. funzioni regolarmente, alcuni fabbricati continuano a rimanere al freddo. A poco servono gli interventi del personale tecnico della C.T. per ovviare agli inconvenienti. Si sente parlare di impianti difettosi nei fabbricati funzionanti a “colonna orizzontale”. Intanto la C.T. viaggia giorno e notte e dove arriva il caldo ne arriva anche troppo; però gli appartamenti ancora vuoti asciugheranno più in fretta, anzi, sembra ci sia stato qualche caso in cui il riscaldamento funzionava in appartamenti ancora privi di infissi. La rete di distribuzione del riscaldamento, circa 8000 metri di tubi, il cui collaudo era in atto, cominciava a dare le prime noie con piccole rotture ed altri inconvenienti causati, probabilmente, dalla cattiva esecuzione dell’opera. Qualcuno, ripensando alle furtive visite effettuate in quartiere quando ancora i cantieri erano all’opera, aveva visto quei grossi tubi di ferro accatastati gli uni sugli altri in attesa della saldatura. Erano tubi coperti di ruggine dentro e fuori, ed altri, simili a quelli, già uniti tra di loro attendevano nello scavo, profondo oltre un metro, di essere interrati”. Un simpatico ricordo del sig. Giovanni Giada… “Eravamo al primo inverno passato qui nel nostro Villaggio, c’erano i fabbricati di p.le Zendrini, il centro commerciale era ancora in costruzione e mancavano del tutto i due fabbricati alti di Via Dal Cortivo. Il piazzale della chiesa e tutta l’attuale area verde centrale erano ancora una grande pozza di fango. Eravamo verso l’imbrunire ed era calata una fitta nebbia, come spesso accadeva in quegli anni. Camminavo sul marciapiede davanti alle case quando sentii una voce che supplicava: “tireme fora, no so dove me trovo, me so perso!”. Allora attraverso una serie di “sms vocali” (i giovani devono sapere che quarant’anni fa il cellulare non esisteva proprio) aiutammo questa persona, ora più che ottantenne, a superare quella decina di metri di palude urbana ed a riconquistare la civiltà”. 76
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8-Centale Termica Dismessa di Via Bagaron (G. Brandoli) 77
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Dal diario di Vito Amatulli: la prima neve. “Una mattina di quell’inverno il quartiere si sveglia e si accorge che un soffice strato di neve imbianca i tetti delle case e gli spazi circostanti. La prima neve al CEP! Da un senso di pulito, non si vede più il fango, non si vedono i mucchi di terra ancora da rimuovere o da spianare. E’ una bella distesa bianca che mette allegria! Qualcuno è già passato prima, si vedono le tracce. Ma ben presto ci si accorge di ben altre tracce, meno gioiose di quelle lasciate da qualche bambino svegliato anzitempo dalla mamma per mostrargli la neve. Sono tracce squadrate che corrono secondo un ordine prefissato: è la terra nuda su cui la neve non ha fatto presa e da cui si elevano un leggero vapore ed un piacevole calore: sono la causa e gli effetti, del fiore all’occhiello dello IACP. Della superba rete di distribuzione. Persino il campo da calcio risulta attraversato dalla traccia scura e vaporosa larga circa 80 cm, quasi a voler determinare la linea mediana del centrocampo. Ce ne vuole di calore per determinare quel fenomeno, tenendo in conto che i tubi corrono ad oltre un metro di profondità. In questo modo, con piccole rotture della rete, ora quà, ora là, con disfunzione ora a questo, ora a quel fabbricato, passa l’inverno”.
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In questi quarant'anni le strutture del Villaggio Laguna hanno saputo trasformarsi e modellarsi secondo il cambiamento delle esigenze degli abitanti del quartiere. Con l'innalzamento dell'età media dei residenti e la drastica diminuzione delle nascite, tutte le strutture costruite in emergenza in una situazione di grande richiesta di servizi scolastici hanno visto un cambio di destinazione d'uso necessario per rispondere alle nuove esigenze contingenti. Per le Ex Scuole Elementari F.lli Cervi è andata proprio così. Quelle che una volta erano aule rumorose e sempre affollate di bambini, sono adesso luogo di ritrovo per gli anziani del quartiere che ritrovano in questi luoghi un ambiente accogliente dove passare pomeriggi in compagnia. Giovanni Cipollato, il Presidente del Centro Anziani del Villaggio Laguna “Don Vecchi” , ha contribuito in vari modi allo sviluppo del quartiere. In particolare, il suo impegno nel campo dello Sport, ha offerto ai ragazzi la possibilità di salvarsi dal virus della tossicodipendenza che ormai stava contagiando intere generazioni. <9-Prima neve (G. Brandoli) <10-Premiazione giovani cestisti (G. Coianiz)
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11-Squadra di cestisti (Fioi del CEP)
Come inizia la sua esperienza al Villaggio Laguna? “Nel 1973 assieme a Campolucci e con don Alfredo Basso riuscimmo a costituire, sulla spinta della “Settimana dei ragazzi”, il gruppo della pallacanestro; Campolucci si occupava della segreteria, io ero presidente e don Alfredo riuscì a trovare il tecnico Francesco Mottarello. Siamo arrivati ad avere 160 iscritti tra ragazzi e ragazze, ed abbiamo avuto grosse 80
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soddisfazioni: la squadra femminile, composta tutta da ragazze del quartiere, è arrivata a disputare il campionato di serie C, si giocava in tutto il Veneto, da Portogruaro a Chioggia. Grazie a questo movimento riuscimmo a far costruire un campetto all’aperto presso la scuola Gramsci, e riuscimmo a far costruire anche una palestra regolamentare alla scuola Don Milani. C’erano moltissimi giovani e non c’erano problemi di rivalità con gli altri gruppi sportivi. Importante è stata la spinta di Don Alfredo, dovrebbero fargli un monumento! Poi, nell’ ‘87, per frizioni interne e per mancanza di sicuri finanziamenti, la società si sciolse. Impiegammo i soldi che avanzarono dalla gestione per finanziare la chiesa nella costruzione di un campetto esterno al Valentino; e con le stesse risorse aiutammo l’organizzazione di una settimana dedicata alla droga. Tutte le risorse non utilizzate tornarono al quartiere! Eravamo molto impegnati nel seguire le problematiche del quartiere, contattavamo i rappresentanti delle forze politiche per esporre i nostri bisogni; a volte si agiva in sinergia con don Alfredo. Fu creato dal ’90 al ’95 il “Gruppo valorizzazione del quartiere”: ricordo che ad ogni incontro ci autotassavamo di 5000 lire per acquistare materiale vario, per poter stampare i libretti con i quali coinvolgere gli altri abitanti. Il nostro impegno, infatti, non si limitava allo sport, ci siamo organizzati tra genitori per rivendicare i servizi che mancavano. Abbiamo occupato via Orlanda e abbiamo contattato i politici per chiedere la costruzione della nuova scuola. Grazie alle nostre continue sollecitazioni è stato costruito il plesso di via Passo e poi la scuola F.lli Cervi che ora è diventata la sede del centro anziani e di altre associazioni. Il centro “Don Vecchi” nacque nel 1990 nei locali della scuola Cervi messi a disposizione dall’allora Consiglio di Quartiere; abbiamo rimesso a nuovo i locali che, abbandonati, erano diventati rifugio anche per i tossici, rifatto gli impianti tecnologici, rifatto l’arredamento. Ed oggi i locali sono a disposizione di tutti”. C’era astio con la vecchia Campalto? “Astio no, loro semplicemente ci consideravano persone di seconda categoria. Non volevano mandare i loro figli nella scuola del CEP e sono stati spesi una montagna di soldi per ampliare il plesso di via Passo. Oggi la Via Crucis inizia a Villaggio Laguna e si chiude alla chiesa di Campalto”. 81
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E’ cambiato il quartiere? “C’era la volontà di conoscersi, di stare assieme e tutti i ragazzi erano impegnati; c’era la volontà di uscire di casa per impegnarsi nella vita del quartiere. Poi lo sbandamento durante il periodo della tossicodipendenza, tra il ’77 e l’85, ha cambiato un po’ tutto. Devo dire che gli episodi tra i ragazzi della pallacanestro sono stati rarissimi, da parte nostra c’era una strettissima sorveglianza. Quando ci accorgevamo di qualche cosa, subito venivano avvisati i genitori: erano sempre inconsapevoli di quanto stava succedendo e ci ringraziavano per questa sorveglianza. Ma tanti ragazzi ci hanno lasciato la pelle! Dopo, nel tempo, il quartiere è cambiato, è cambiata la popolazione, alcuni sono andati a vivere altrove, altri sono invecchiati. Direi che ora si vive tranquilli!”
12-Settimana dei ragazzi (G. Coianiz)
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Parte Seconda
VITA DI QUARTIERE
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La scuola: il banco dell’integrazione Parlare di scuola significa sempre discutere di società, perché dopo la famiglia che è il primo nucleo sociale, la scuola rappresenta il mondo vero e proprio, le relazioni con l’altro, l’incontro con l’adulto, le regole, gli impegni e gli orari, il lavoro con le sue frustrazioni ed i suoi successi. La nascita della prima scuola negli anni settanta, la scuola media “A. Gramsci” (oggi ex Gramsci e sede di numerose associazioni culturali e sportive) e poi delle due elementari, la “Don Milani “ e “Fratelli Cervi”, ha rappresentato tutto questo ma anche di più, visto il contesto in cui il quartiere si sviluppava ed il momento storico-politico che la scuola stessa stava vivendo. Il periodo infatti era “caldo” per due distinte ragioni. La prima, di ordine nazionale, riguardava il cambiamento epocale tra la scuola come istituzione e la società civile: con l’approvazione infatti, dei cosiddetti decreti delegati del 1974 la scuola apriva le porte ai genitori (es. nascita del collegio d’istituto, dei rappresentante di classe..) obbligando gli insegnanti a rapportarsi non più solo con gli alunni ma anche con le loro famiglie. 13-Intervallo (G. Coianiz)
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In secondo luogo c’era “una questione locale”, l’assegnazione della case popolari di via Bagaron negli anni ’75-76, che mise insieme centinaia di famiglie disagiate provenienti dalle periferie della città, i cui figli iniziarono ad andare a scuola in quartiere insieme ai ragazzi che già lì abitavano. In numeri, questo vero e proprio boom di nuove persone significò quasi duemila alunni inseriti nelle scuole del quartiere con addirittura venticinque classi nei due istituti elementari (oggi di classi, al Villaggio Laguna, ce ne sono cinque), con qualche classe costretta a fare il doppio turno in orario pomeridiano o ad essere ospitata negli spazi della Gramsci. Anche i bambini più piccoli erano numerosi, tant’è che a pochi anni di distanza l’uno dall’altro ci fu l’esigenza di costruire due asili, “Il Girasole” di via Sabbadino ancora attivo e la scuola materna di via Passo, che oggi ospita dei mini-appartamenti per il recupero giovanile. Tanti, tantissimi erano perciò i ragazzi in età scolare che vivevano in quartiere e nel nuovo insediamento di via Bagaron e che a scuola portavano tutto il loro bagaglio personale e familiare, spesse volte pesante e difficile. A raccontarci cosa significò questo mondo, fatto di bambini e di famiglie “normali”, ma anche di ragazzi e genitori con gravi problemi sociali, è la voce diretta di un gruppo di insegnanti che ha passato la propria vita nelle scuole del quartiere, cercando di costruire giorno dopo giorno un progetto educativo e di istruzione, probabilmente un progetto di vita.
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Francesco Zane, dal 1976 al 2007 maestro elementare di ruolo al Villaggio Laguna, fino al giorno della pensione. “Ci vuole parecchia immaginazione per capire cos’era la scuola in quartiere, almeno agli inizi e cioè a metà anni settanta. Noi insegnanti eravamo tutto: maestri certo, ma anche presidio medico all’occorrenza, rappresentanti delle istituzioni e punto di riferimento per ogni tipo di problema che il bambino o la sua famiglia aveva. Immaginate poi un maestro unico con una media di 25-30 alunni molto diversi tra loro: un disagio estremo”. Non se n’è andato però… “No, perché con gli anni si è creato un gruppo di persone con cui si lavorava bene, ci confrontavamo sulle scelte da prendere ed insieme presentavamo alle istituzioni i progetti scolastici per noi più opportuni in quel contesto. Non bisogna dimenticare che nel 1977 la nostra scuola era l’unica in tutta la Provincia ad avere il tempo pieno: il fiore all’occhiello era il laboratorio pomeridiano, dove con le cosiddette “classi aperte” i ragazzi potevano sperimentare la propria manualità e le proprie capacità, tutti con gli stessi strumenti. Era davvero un mezzo efficace per l’integrazione”. Sulla discussione vuole intervenire anche Gianna Vivian, maestra di ruolo alla Don Milani dal 1975 al 2004. “Devo dire che restare ad insegnare in quartiere, dopo alcune supplenze che avevo fatto, è stato per me un impegno politico. Per il punteggio che avevo come insegnante, per la mia residenza e negli anni per l’anzianità di servizio, avrei potuto andare in un’altra scuola in qualsiasi momento, magari in centro a Mestre in una situazione più semplice; invece, ho scelto di rimanere e di unirmi al gruppo di insegnanti che si era creato con la volontà di dare ai quei ragazzi una base solida per la vita. I primi anni sono stati molto duri, ero alle mie prime esperienze perché avevo poco più di vent’anni ma forse proprio per questo non mi sono spaventata”.
<14-Personale ausiliario della scuola Gramsci 87
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15-Interrogazione (G. Coianiz) 88
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Ma non si può parlare dell’esperienza scolastica del Villaggio Laguna senza dare voce a colei che fu la prima maestra del quartiere e che ancora oggi, dopo quarant’anni, mette a servizio dei ragazzi la propria esperienza con attività di sostegno pomeridiano nell’ex scuola “Pascoli” di Campalto. Caterina Albano, dal 1972 al 1991 maestra elementare, come ricorda i suoi primi giorni nella scuola del quartiere? “Di ricordi ne ho veramente moltissimi ed i più disparati, ma il sentimento che provai nei primi giorni del mio arrivo a scuola fu la completa solitudine. La scuola del quartiere era infatti una succursale di viale San Marco e perciò, nonostante il numero di classi ed i problemi che cominciavano a presentarsi a noi insegnanti, non vi era la direzione scolastica. Ricordo che quando finalmente arrivò il primo direttore, Gianfranco Ferracina con cui poi abbiamo lavorato per lunghi anni e che tutti noi ricordiamo con stima ed affetto, mi disse: “Dov’è la stanza della direzione?” Mi venne da ridere perché nell’edificio non era stata attrezzata alcuna stanza, era libero solo un piccolo sgabuzzino senza neppure i cavi del telefono”. Sembra quasi che l’abbiate organizzata voi la scuola, lavorandoci dentro ogni giorno. E’ così? “L’abbiamo costruita noi tutti la scuola, grazie anche alla presenza e alla volontà del personale ausiliario che si occupava dei ragazzi in prima persona, senza stare a badare all’orario di lavoro. Bisogna pensare che la scuola è stata per anni l’unico servizio esistente per le persone del quartiere, perciò dentro alla scuola i ragazzi, le mamme ed i papà entravano per chiedere qualsiasi cosa. Era una situazione che non tutti volevano o potevano sopportare e perciò, durante gli anni in cui ho lavorato, ho visto un’alternanza incredibile di insegnanti, noi però, siamo “stati fedeli” ed abbiamo resistito. Anzi, ci siamo spesso uniti alle lotte degli abitanti ed eravamo in prima fila per chiedere i servizi di tutti i giorni, come l’installazione dei cassonetti dell’immondizia o il passaggio dell’autobus in quartiere; ricordo che una volta ci siamo seduti per protesta in mezzo alla strada, tutti insieme, maestri e famiglie residenti. Le parole d’ordine per noi erano accoglienza ed insegnamento differenziato, non a caso il collegio docenti scelse di chiamare la scuola elementare “Don Milani”, per ricordare ogni giorno l’impegno civile di questo educatore verso i più poveri ed i più bisognosi”. 89
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Si può dire che in tanti abbiano collaborato alla costruzione delle scuole del quartiere dando il proprio contributo per far funzionare uno spazio, l’unico per diversi anni, dedicato ai ragazzi e all’insegnamento di principi e valori. Tra questi, come hanno già ricordato gli insegnanti, c’è stato l’affettuoso e prezioso lavoro delle signore bidelle che tra le mura scolastiche sono state forse le persone più vicine ai ragazzi, a volte vere confidenti di disagi personali e famigliari. Tutti noi abbiamo nel cuore l’immagine delle nostra bidella preferita, quella che ci è rimasta più impressa per la sua dolcezza o per la voce tuonante, oppure perché ci sembrava somigliare ad una nonna o semplicemente spiccava per simpatia. Al Villaggio Laguna non v’è dubbio che è lei – e non se la prendano le altre! – la “bidella per eccellenza”, quella che i suoi alunni ancora riconoscono dopo trent’anni e che le dicono, con sua sorpresa, “Ciao, eri la mia bidella!”. Nedda Bolzonella, detta “la bersagliera”, dagli inizi del ’70 ha lavorato come bidella nella scuola elementare del Villaggio Laguna per oltre trent’anni. Per il quartiere è un’istituzione… “Posso proprio dire che ho aperto io tutte le scuole di Campalto e del quartiere! Quanto mi sono divertita facendo il mio lavoro, sarei rimasta ancora a scuola anche dopo l’arrivo della pensione. Ho passato tutta la vita con i ragazzi e quando c’era qualcosa che non andava chiamavano me, anche lo stesso direttore! Ne ho viste di tutti i colori…” Ce ne racconti qualcuna…. “E’ successo più di una volta che il direttore mi chiedesse di andare a prendere a casa dei bambini che non venivano a scuola. Una mattina in particolare, in tre non si sono presentati agli esami di quinta elementare così sono partita con il motorino verso via Bagaron; quando ho suonato alla porta una signora anziana mi ha aperto dicendomi che non si era accorta di che ora fosse ed i bambini dormivano ancora. E’ stata anche gentile, perché per ringraziarmi mi ha offerto un bicchiere pieno di grappa anche se erano soltanto le otto e mezza di mattina! Sono riuscita a portarli in classe per l’esame, uno alla volta seduti dietro al motorino…” <16/17-La maestra Caterina Albano con i suoi scolari 91
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In tanti la ricordano in sella al suo motorino o che ballava in classe per tenere i ragazzi quando la maestra si assentava per un attimo. E’ vero? “Certo che è vero! Il motorino piaceva tanto ai bambini, soprattutto ad una in particolare che per fare un giro con me si faceva venire spesso il mal di pancia così la dovevo portare a casa. Ho sempre avuto un carattere “pazzerello” perciò mi divertivo anch’io con i ragazzi: ballavo la lambada quando me lo chiedevano, facevo il teatrino e poi preparavo gli gnocchi nella stanza delle bidelle…quanto ho cucinato per il nostro pranzo, anche se poi assaggiavano tutti! Per la festa della mia pensione, nel 1994, sono andata a pescare il pesce di notte ed il giorno dopo ho portato a scuola cappe tonde e lunghe, passarini fritti e bigoli col pesce. Se la ricordano ancora quella mangiata di pesce, soprattutto il medico scolastico che ha lasciato a metà il pranzo perché chiamato d’urgenza! Sono stati gli anni più belli e anche nei momenti difficili che ho vissuto, l’affetto delle maestre, del direttore e dei ragazzi mi hanno dato la forza per andare avanti”. 18-Torneo di scacchi (G. Coianiz)
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La Scuola la fa chi ci lavora dentro, come insegnanti ed ausiliari, la fanno i ragazzi che senza la loro presenza non avrebbe senso di esistere, ma la fanno anche i genitori. Anche la presenza di “mamma e papà” accanto ai figli-studenti è fondamentale per costruire il mondo della scuola, così come lo è stato per le scuole del quartiere dove l’impegno di tanti genitori, a fronte del disinteresse di alcuni, ha contribuito alla crescita di quel “microcosmo” che per anni è stata l’unica istituzione esistente per i residenti del Villaggio Laguna. Diamo voce ad uno di loro, Giovanni Coianiz, residente in quartiere fin dai primi anni e padre di due ragazze che, a metà anni settanta, frequentavano la scuola elementare. Com’era la scuola vista dagli occhi di genitore? “La mia esperienza è assolutamente positiva. In quegli anni la scuola media “Gramsci” era l’edificio che ospitava le classi elementari. Ricordo un clima di grande collaborazione tra chi lavorava a scuola e le realtà esterne, come ad esempio le associazioni sportive e quella di scacchi (G. Coianiz è socio fondatore e primo presidente dell’Associazione Scacchi, ancora oggi attiva in quartiere), che offrivano ai ragazzi occasioni per misurarsi con se stessi e con i compagni. C’era molto spazio per portare in classe anche attività extra-scolastiche, in totale accordo con gli insegnanti. In quartiere c’erano moltissimi bambini e ragazzi ed a partire dal maggio del ’75, per diversi anni, abbiamo istituito la “Settimana dei ragazzi”, sette giorni di sport ed iniziative in giro per il quartiere tutte dedicate al divertimento dei più giovani. Per organizzare i giochi, come la caccia al tesoro, gli spettacoli di teatro, le gare di bici, di pattini e di corsa, che si chiamava “la ceppina” si lavorava tutti insieme: la scuola, i genitori più volenterosi e l’A.S. Real Campalto, la ginnastica, il basket, gli scacchi ed il judo. Era una festa con tantissimi partecipanti, che riusciva a coinvolgere anche le famiglie dei ragazzi scese giù nelle vie del quartiere per tifare per il proprio figlio o la squadra. Oggi, dopo una pausa eterna, mi pare che il quartiere si stia ripopolando (forse la gente si è messa in testa che i figli sono una cosa buona) e rinasce la necessità, il desiderio di fare qualcosa per i ragazzi”.
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19/20/21-Sversamento fosfogessi in barena (G. Coianiz)
Lei si è anche occupato della discarica in barena… “Vedevamo i fumi salire dalla barena, per autocombustione le immondizie prendevano fuoco. Un giorno con mio suocero andai per fare delle foto mentre stavano “scaricando”, e ci corsero dietro; ritornammo allora di domenica. Ricordo che in quell’occasione inciampai e caddi nel liquame: arrivato a casa il fango si era seccato e provai a spazzolare i pantaloni, che si sbriciolarono! Avvisammo il pretore che indagò ed alla fine la fece chiudere. Dovemmo agire quasi in segreto poiché ci furono dei problemi con alcuni politici del quartiere, affermavano che la discarica non era pericolosa, dicevano di lasciar perdere… Ricordo un episodio dei primissimi anni: in quartiere non c’erano tutti gli alberi che ci sono ora; erano stati piantati vicino alle case dello IACP mentre accanto alle case della GESCAL non avevano piantato niente: nottetempo c’era chi li levava da dov’erano per piantarli dall’altra parte!” 94
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Ma com’era la scuola “vista da fuori”, cioè da chi non era strettamente coinvolto per lavoro o come genitore? L’abbiamo chiesto ad alcuni “operatori sociali” che a partire dagli anni settantacinque hanno cominciato a lavorare in quartiere a sostegno dei ragazzi e delle famiglie più disagiate. Sentire questa testimonianza ci aiuta a fare, partendo dalla scuola cuore pulsante del quartiere, una riflessione più ampia sull’intero Villaggio Laguna dove coabitavano realtà molto diverse, situazioni sociali gravi, povertà estrema e droga, accanto a famiglie “normali”. Maurizia Fagherazzi, logopedista, ha lavorato al Cep dal 1974 al 1980 presso il Centro Medico Psicosociale (dopo diventato Servizio di Neuropsichiatria Infantile). “Sono arrivata a lavorare in quartiere dopo la chiusura delle Scuole Speciali riservate ai ragazzi con vari handicap, e al Cep immaginavo di dovermi occupare dell’inserimento di questi bambini nelle scuole, mi sono trovata però davanti una situazione ben più ampia che comprendeva famiglie numerose con gravi problemi d’emarginazione. Il mio sforzo, e quella dell’equipe di lavoro che negli anni si è formata, è stato infatti quello di uscire dalle competenze specifiche e di inventarci giorno per giorno una modalità di lavoro che potesse metterci in relazione con i ragazzi ma anche con le loro famiglie. Insieme alla scuola abbiamo creato una commissione mista, fatta da operatori e da insegnanti, che aveva soprattutto il compito di limitare l’abbandono scolastico, vera piaga del quartiere insieme alla droga”.
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I bambini non venivano a scuola? “Il problema era per i fratelli maggiori che dovevano occuparsi dei più piccoli e così per loro non c’era spazio per l’istruzione: fu difficile spiegare ai genitori che andare a scuola non era solo un valore, ma un diritto ed un dovere. Anche perché il non andare a scuola innescava un meccanismo negativo che molte volte portava i ragazzi alla devianza”. Intende la droga? “Non si può negare che la droga era diffusa nel quartiere, si trovavano spesso le siringhe usate nei giardini pubblici o si scorgevano anche di giorno gli appostamenti degli spacciatori. Purtroppo anni dopo, abbiamo scoperto che alcuni di quei ragazzi che avevamo seguito al Servizio quando erano minorenni, sono diventati poi dei tossicodipendenti con una vita ai limiti della legalità, qualcuno ha perso anche la vita”. Nella sua esperienza di lavoro qual è stata la difficoltà maggiore? “Il problema più grande è stato avvicinare la famiglia e renderla consapevole dei disagi, più o meno forti, dei loro figli. La scuola spesso si sostituiva alla famiglia perché questa era assente o non voleva essere contattata da noi operatori, ma il mancato coinvolgimento della famiglia non faceva crescere la responsabilità dei genitori. Negli anni ci siamo resi conto che quei genitori, e sono stati numerosi, che hanno deciso di essere aiutati si sono legati tantissimo a noi operatori e ancora adesso, a distanza di trent’anni, mi capita di essere riconosciuta e chiamata per strada da qualcuno di loro”. Rimpianti? “Ce ne sono sempre, anche perché quel lavoro così intenso con le persone non ce l’aveva insegnato nessuno ma l’abbiamo costruito ogni giorno. Ma il rammarico più grande è quello di aver seguito, anni dopo, anche i figli di quei ragazzi che vivevano in quartiere: forse il mio lavoro non era stato sufficiente”. <22- Sui “rovinassi” (Fioi del CEP) 97
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Vi riportiamo quello che ci ha raccontato Giancarlo Pellizzer. Segretario storico della sezione del PCI di Campalto (adesso circolo del PD) e grande conoscitore della storia del nostro territorio, Giancarlo è sempre stato un abile osservatore dei mutamenti di Campalto, la sua è un' analisi culturale e sociologica sul peso che ha avuto l'insediamento di questo complesso residenziale, sullo sviluppo del piccolo borgo contadino. Con le radici nel passato ma con lo sguardo verso il futuro, nel suo racconto troviamo l'importanza della valorizzazione del Villaggio Laguna in quanto raro esempio di pianificazione urbanistica di edilizia popolare equilibrato e non alienante, e una nuova sfida in cui Campalto deve cimentarsi unitariamente: emanciparsi dalla condizione di periferia in cui è stata relegata, per diventare la porta di Venezia. “Alla fine degli anni ’60 c’era la necessità di dare un’abitazione a molte famiglie che ancora vivevano in case provvisorie, o in conseguenza della guerra, o per l’alluvione di Venezia del 1966; bisognava dare una soluzione abitativa a coloro che vivevano in ambienti malsani. Il nuovo quartiere inizialmente è totalmente realizzato con interventi pubblici in particolare da CESCAL e INA-CASA; più avanti sono altri Enti che costruiscono in particolare le Poste italiane. Nel 1968 cominciano a prendere corpo i primi palazzi e contemporaneamente in via Bagaron si comincia a fabbricare la centrale che deve fornire il riscaldamento e l’acqua calda con un sistema centralizzato. La tipologia dell’appartamento doveva rispondere all’esigenza di nuclei familiari numerosi e per questo si costruirono appartamenti con superfici dagli 85 ai 110 metri quadrati. I primi “nuovi” abitanti entrano nel settembre del 1970 ed in cinque anni vengono consegnate le abitazioni a più di tremilacinquecento cittadini. Almeno un terzo delle famiglie arrivavano da Venezia, un terzo dai quartieri degradati di Mestre e di zone limitrofe, e il rimanente dal territorio della nostra Municipalità e di qualche comune limitrofo. Con la stessa filosofia a metà degli anni settanta si costruirono 200 appartamenti nella vicina via Bagaron. Sommando gli appartamenti del CEP con questi ultimi si arrivò a 950 alloggi per un totale di 4370 abitanti. Per capire il peso sociale dei nuovi insediamenti va ricordato che i “vecchi” abitanti di Campalto erano circa 1750. La nuova realtà abitativa di Campalto che si forma dai primi anni 70 impone scelte amministrative rapide ed efficienti nell’ambito della scuola, dell’assistenza medica, dei trasporti, ecc. 98
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Dentro il Villaggio Laguna si costruiscono due scuole elementari, una media, una scuola materna, vengono aperti un laboratorio pediatrico, un laboratorio per il medico di famiglia, una farmacia. Il trasporto pubblico organizza corse sia in direzione di Mestre che di Venezia. Ma questi servizi quasi sempre sono ottenuti con vere e proprie rivendicazioni unitarie dei cittadini. Nasce anche una chiesa. In seguito anche la parte vecchia di Campalto deve cominciare adeguare alcuni servizi, infatti si costruisce la nuova scuola media e si amplia la elementare con due prefabbricati, si riorganizzano i trasporti in funzione delle nuove esigenze. Mano a mano che il nuovo abitato cresceva si avvertiva che stavano formandosi due differenti nuclei socio-culturali. Quello preesistente nella vecchia Campalto era prevalentemente di formazione contadina, fatto di piccoli commerci e di un nuovo affiorare della cultura operaia; mentre
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quello che si stava insediando al CEP era quasi esclusivamente operaio con una significativa percentuale di sottoproletariato, come era chiamato chi aveva un reddito instabile od insufficiente. Le differenze culturali e la “lontananza” tra i due abitati alimentarono “l’impossibilità” a dialogare: eppure entrambi rivendicavano gli stessi servizi sociali senza mai riuscire a farlo unitariamente. Nel nuovo quartiere ben presto nacque la coscienza di agire facendo leva sulla solidarietà e sull’unità: su qualsiasi problema, anche il più banale, era l’assemblea di quartiere che discuteva e decideva e poi una delegazione scelta gestiva. Anche la coscienza politica si manifestò liberamente e fece sentire la propria forza sempre con la garanzia che tutti avevano modo e spazio per esprimersi, anche se le idee politiche che avevano più peso erano la comunista, la socialista e la democristiana. Fu una forza, quella politica, che contribuì con un lavoro molto paziente e tempi lunghi a portare da prima timidi confronti tra nuova e vecchia Campalto su tematiche specifiche e comuni, iniziando dal problema della scuola per il quale fu in in grado di avviare un coinvolgimento sui contenuti programmatici, sull’organizzazione e sull’edilizia scolastica. La politica aveva capito bene quali benefici portava per questa frazione del Comune di Venezia ma non riusciva a farsi capire almeno nei tempi giusti. Le novità più interessanti stavano nella qualità urbanistica in generale e delle abitazioni in particolare. Si era ben accorta l’Università di Architettura di Venezia ma anche di tanti altri Atenei italiani ed europei, al punto che facevano far ai loro corsisti specifici studi e ricerche per le tesi. Sono tanti gli studenti universitari, si può stimare in un centinaio, che hanno costruito il loro lavoro sull’urbanistica del CEP di Campalto nato nella gronda lagunare di Venezia. Ancora oggi lo IUAV porta a conoscenza di altri Istituti internazionali la realtà di Campalto. Ora sono passati quarant’anni e due generazioni dalla nascita del CEP ed a Campalto sono arrivati altri 2000 nuovi abitanti che ne hanno ulteriormente modificato il tessuto sociale; credo si stia trovando una ragione di unità condivisa da tutti i suoi abitanti sui nuovi bisogni per il futuro: è necessario garantire a Campalto in virtù della sua particolare dislocazione, per la continuità abitativa tra le barene e la terraferma, quel riconoscimento che ne sancisca la sua naturale funzione di porta di Venezia”. 24-Sole d’inverno (G. Brandoli)> 100
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Davvero tante e differenti le storie di vita presenti in quartiere, ma quella che proviamo a raccontare è davvero unica, perché dà testimonianza di un sentimento di apertura verso il prossimo e di condivisione oggi quasi incomprensibile. Carmela Pamio Olivieri, arrivata nel 1980 in via Bagaron per abitare nella sua prima casa con la numerosa famiglia, dopo aver sperimentato altri modi di vivere. “È strano come, nell’ottobre del 1980, siamo riusciti ad andare ad abitare in via Bagaron. La nostra storia inizia anni prima, alla fine del ‘74, anno in cui ritenemmo conclusa una esperienza durata tre anni presso il campo nomadi di Via Vallenari, dove abbiamo vissuto, io e mio marito Tito, con tutta la famiglia in una roulotte di quattro metri per due. Aspettavo il quinto figlio e perciò abbiamo scelto di cercare una casa dove abitare, senza tener conto delle difficoltà a trovare un’abitazione. Ai primi di ottobre infatti, eravamo ancora per strada: Tito riprendeva a fare il maestro elementare e con lui andavano a scuola i nostri primi due figli”. 25-Tito Pamio con la moglie Carmela
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Vi immaginavate fosse così difficile? “No, in realtà credevamo di trovare presto la nostra nuova casa, in una delle moltissime case disabitate della periferia di Mestre e che con pochi soldi di affitto e con la nostra capacità di adattamento avremmo risolto in poco tempo il problema. Ci aiutò Don Gianni Fazzini, allora parroco del CEP, che avendo sentito parlare di noi è venuto a trovarci ed a proporci di abitare in una casa del quartiere non ancora occupata. Succedeva, infatti, che alcune famiglie assegnatarie rinunciassero alla casa perché il quartiere era stato loro presentato come “quartiere degradato”. Don Gianni ci disse che era disposto a sfondare la porta di una di queste abitazioni per noi, se avessimo voluto ma Tito non voleva che il parroco compisse questo gesto per noi. L’attenzione di don Fazzini però ci aprì il cuore alla speranza: un piccolo quartiere si era accorto delle nostre difficoltà, qualcuno si era accorto di noi”. Ed infatti… “La mattina dell’Epifania del‘75 una coppia bussò alla porta della nostra roulotte e ci offrì in prestito una casa in attesa di ristrutturazione per far nascere in un ambiente più confortevole il nostro quinto figlio. Qualche mese dopo, nel giorno del battesimo di nostro figlio, un abitante del quartiere ci comunicò che il proprietario di una casa a Favaro era disposto a dare in affitto la sua, mentre terminava il periodo detentivo in carcere; così dalla casa di via Ca’ Solaro dove eravamo ospiti, siamo passati in via Croda Alta. Ricordo anche un episodio particolare: la coppia che ci aveva ospitato, sposata da molti anni ed in cerca di un figlio che non arrivava, ci annunciò che dopo la nostra permanenza sarebbero diventati genitori! Vivemmo a Favaro per cinque anni ma all’inizio degli anni ‘80 il proprietario della casa ci annunciò di aver ottenuto la semi libertà e così ricominciammo la nostra ricerca: nel frattempo i nostri figli erano diventati sei!” Tornaste a vivere nella roulotte, vero? “Ci fu offerto di parcheggiare la roulotte in una conca sassosa dove, a detta del proprietario, non avremmo dato fastidio a nessuno. Ma di lì a poco, don Alfredo ci offrì una soluzione: il sacerdote infatti, cercava da tempo delle 103
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persone che formassero una “comunità di vita” attorno ad una donna che, per le sue condizioni mentali, non era autosufficiente. Ci presentarono la Giovannina ed il suo primogenito, mentre gli altri undici figli erano stati dati in adozione. Giovannina sembrò capire e manifestò una certa felicità di fronte all’ipotesi di convivenza”. Così con la Giovannina iniziò per voi un’altra vita, un’altra esperienza di coabitazione… “A distanza di pochi giorni iniziammo i lavori di dipintura e di restauro delle stanza. Anche Don Alfredo, che oltre a curarsi della parrocchia lavorava come cameriere a Venezia, venne ad abitare con noi e la Giovannina per circa cinque anni. La sua presenza fu davvero preziosa per la comunicazione con la nostra nuova amica, perché la conosceva bene e sapeva fare da mediatore. Ricordo che anche alcune donne del quartiere hanno continuato ad interessarsi di Giovannina e ci venivano a trovare: Noemi, Matilde ed Anna tra le più assidue”. Lei che aveva vissuto tante “vite”, che impressione le fece l’arrivo in via Bagaron? “Le cose che mi stupirono furono molte. Non ritenevo giusto che il Comune concedesse gli appartamenti solo a categorie di persone problematiche e bisognose di aiuti minimali, ma essenziali, e non parlo solo di denaro. Spesso queste persone provenivano da un vissuto di emarginazione sociale e portavano con sè la cultura dell’emarginato; per quanti sforzi facessero le altre famiglie per aiutarli a non soccombere, il loro aiuto risultava spesso vano e, per non soccombere anch’esse, vi rinunciavano. Nelle case di via Bagaron, nate circa sei anni dopo il CEP, vi erano infatti problemi di prostituzione, di furti, di divisioni familiari e di droga, che distrusse e devastò, anche psicologicamente, tante giovani vite. Mi veniva da pensare che gli abitanti del campo nomadi, dove ero vissuta per tre anni, erano molto più tranquilli…” 104
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Quegli anni, difficili per il quartiere ma anche ricchi di elementi positivi, cosa hanno portato alla sua vita e alla sua famiglia? “Ho voluto riassumere un po’ la storia della nostra vita per evidenziare che il CEP è stato per noi, pur nei problemi che lo assillavano, un luogo accogliente, ricco di attenzioni e di volontà positive fatte emergere dai sacerdoti assieme alla gente che lì abitava. La volontà di conoscenza, di condivisione, di gioco, di riflessione sulla vita, di coinvolgimento per tutto ciò che di positivo era stato vissuto nel primo decennio di vita, mitigarono le problematiche del periodo difficile che tutti stavamo vivendo e come un volano portarono avanti, nelle vite di ciascuno, alcuni di quei valori positivi”. Ecco ora un altro breve ricordo al femminile. Ce lo racconta Anna Sfriso. “La mia più grande esperienza è stata quella di stare insieme ai giovani. La settimana dei ragazzi è stata grandissima! Alla cresima, mi pare nel ’75, facemmo un filmetto che simulava un’avventura: avevamo liberato una gallina che i ragazzi dovevano catturare: alla fine l’abbiamo cucinata e mangiata insieme! Avevamo poi organizzato un cineforum presso il centro sociale: ogni settimana si andavano a prendere le bobine di un film a Padova e si proiettavano; la saletta era molto frequentata e fu un bell’esempio di aggregazione. Ci fu poi, un periodo di sbandamento, con la droga e con tutti i problemi connessi; anni brutti! Ora siamo cambiati anche noi, probabilmente siamo più individualisti”. 105
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Non sono anni facili quelli in cui si viene a sviluppare il quartiere CEP (Centro Edilizia Popolare), oggi conosciuto come Villaggio Laguna. Sono gli anni 70, anni di duro lavoro, di forti valori e di rivoluzioni politiche. Anni in cui si voleva cambiare il mondo con l’ingenuità giovane di chi, pur non sapendolo, stava già scrivendo la Storia. Ma è anche un tempo di difficoltà, di estrema trasgressione, di prese di posizione pericolose, di droga e di disagio sociale. In tutta Italia si respira questo fervore, e nel suo piccolo, anche il CEP ne è stato coinvolto. Abbiamo avuto il piacere e l’inaspettata occasione di passare un sabato mattina insieme a quattro uomini di speciale personalità. Li abbiamo chiamati “I quattro moschettieri del Re” : don Alfredo Basso, attuale parroco della Parrocchia di San Leopoldo di Favaro, don Gianni Manziega della parrocchia dell’Annunziata del quartiere Villaggio Laguna, Lucio Bisello e Mario Defina, ex parrocchiani e abitanti del CEP. “Nel nostro condominio abitavano 6 famiglie, ma in totale eravamo 42 persone tra bambini, genitori e nonni!”. Così rende l’idea Lucio Bisello, sui “numeri” del suo quartiere d’infanzia. Allora quindicenne più o meno, oggi papà di famiglia, impegnato a tenere vivo il ricordo del CEP dove assieme all’amico Mario Defina vivevano e soprattutto facevano vivere… meglio, per quanto si poteva. L’assegnazione delle case agli operari di Marghera veniva secondo un punteggio. Alle famiglie che avevano più punti spettavano gli appartamenti più grandi. E punti voleva dire figli: i figli facevano punti. Così, come nella famiglia di Lucio, ci si ritrovava in 7 fratelli, e i maschi avevano la propria stanza, separata da quella delle sorelle. “Me pareva un casteo! Avere la propria cameretta! Prima si dormiva tutti insieme con i genitori, in un’unica stanza! E invece qui avevamo l’ascensore, la luce ed il riscaldamento! Miga savevo cossa che gera el riscaldamento!”. Mario ora ne sorride, ma i suoi occhi brillano oggi come allora.
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“Noi ragazzi eravamo talmente numerosi (pensa, 120 Prime Comunioni in quegli anni!) che qualcosa ci dovevamo pur inventare! Così sotto la regia di don Alfredo e con la collaborazione delle scuole e delle società sportive del quartiere, abbiamo dato vita alla Settimana dei Ragazzi!”. E qui comincia lo scambio di battute tra un affiatato quartetto d’amici che nonostante il passare degli anni si ritrova a ricordare le estati al campeggio con la stessa emozione di allora. Portano foto, si scambiano battute, ridono di “ti te ricordi de quea volta che… “. Ma a parlare sono i loro sorrisi più delle parole. Mario confessa: “al tempo non ero nemmeno troppo vicino alla Chiesa. Ero anarchico, come si diceva allora… ma giravano dei volantini che invitavano tutti a riunirsi per parlare dei problemi del quartiere. Negli anni 70 pensavamo che il mondo l’avremo costruito noi. Così andai. Avevo 16 anni.”.
29-Inaugurazione del Valentino (Fioi del CEP)
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Il protagonismo degli adolescenti è di molto cambiato negli anni. Ahimé. “Io e Alfredo eravamo convinti che la cosa più importante fosse la condivisione, l’aggregazione. L’essere famiglia, se pur numerosa! Parliamo di quasi 4000 abitanti!”. Don Gianni Manziega, prete operaio, come don Alfredo Basso, annuncia sorridente la sua pensione dopo una vita passata a lavorare in fabbrica. Ora vive a Mestre ed ogni mattina va a trovare gli ammalati e gli anziani nelle loro case al Villaggio Laguna. “Tua mamma Lucio, è una meraviglia eh? Ha passato gli ottanta ed è sempre in gamba, anche se del condominio di allora è rimasta la sola.”. La sua scelta è stata quella di essere prete della strada. “La mia parrocchia E’ la strada… e i do’ baretti sotto casa! Cio’… per la colazione! Non mi sono sentito di impegnare la mia vocazione a scartabellare dietro la burocrazia della curia. Per coerenza non potevo che scegliere di stare in mezzo alla gente, ai loro problemi… solo così potevo sentirmi prete.”. E come don Gianni, don Alfredo ammette: “Gerimo i sovversivi Gianni! Io sono stato cacciato dalla parrocchia di Campalto! Ho sempre avuto questa attenzione per i giovani, per la loro educazione… e mi ero inventato una sala lettura in parrocchia, per riunirli e discutere insieme. Solo che non c’erano esclusivamente libri… avevo portato anche qualche testata, qualche giornale… “. Soprattutto allora i giornali avevano colore. E quelli “rossi” non erano tollerati da tutti, e questo costò il trasferimento di don Alfredo da Campalto al CEP. Se questo è essere sovversivi, direi che ai giorni nostri avremmo bisogno di un po’ di sovversione. Una delle prime attività pensate dal quartiere per il quartiere è stato il giornalino, dove si volevano riportare appuntamenti, promuovere incontri e dibattiti e dove anche poter lanciare qualche provocazione sul proprio status (le case sono davvero state assegnate con lo stesso criterio per tutti?). Poi si è pensato al doposcuola, agli incontri di catechismo tenute dalle mamme e a quelle sportive coinvolgendo i papà. La Settimana dei Ragazzi è stata un’idea di don Alfredo, ma era organizzata da tutta la comunità, genitori in primis. Ognuno portava idee e aiuto per la realizzazione delle più svariate attività: dal teatro, ai corsi di danza, dalle partite di calcio alle lezioni di canto. Anche 109
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30/31-foglio parrocchiale la scuola metteva a disposizione le proprie forze, con attività didattiche a piacere proposte da alcuni maestri e professori. E le società sportive contribuivano con tornei di basket, pallavolo, calcio e ginnastica. Ragazzi e genitori lavoravano e partecipavano insieme. Preti, maestri ed allenatori, uniti per un unico scopo, quello di migliorare il futuro del proprio quartiere, quello di essere partecipi alla crescita e al miglioramento del proprio ambiente. Molte volte è tornata la parola Comunità. Ognuno dovrebbe potersi riconoscere in una propria, ma troppo spesso non è così. Forse perché il gregge non è più quello di una volta, o forse perché… a essere cambiato è anche il Pastore. “La differenza con i tempi di adesso è che allora la Chiesa era NEL quartiere. Non c’era distinzione tra chi era dentro e chi era fuori. Ora si vorrebbe che chi fosse fuori entrasse dentro, ma il problema è che chi è dentro dovrebbe uscire fuori e Incontrare, Invitare. Invece resta chiusa dentro.”. Semplice no? Lo spiega così don Gianni, con una semplicità e accessibilità che disarmano. Che non si possono contestare. “E i campeggi estivi? Ti te ricordi Mario?”. Lucio ricorda come fosse la scorsa estate, quella di 40 anni fa. “Un vero e proprio campeggio: tende, cambusa, il bagno era il torrente! Miga come desso che so ne ghe xe quei a norma no i te fa gnanca partir! I ragazzi più grandi si turnavano per sorvegliare il campo, poi c’erano gli animatori (tra cui mi e Mario!), chi cantava e suonava la chitarra, i cuochi, le ragazze… 110
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32/33/34-Settimana dei ragazzi (G.Coianiz) e pensa che allora non avevamo mica i canzonieri, così ci inventavamo noi testi e musica, a tema per le nostri estati in campeggio!”. L’esperienza dei campeggi estivi nasce da don Gianni: “Ne avevo già testato la buona riuscita precedentemente a Marano Veneziano. E’ una buona attività che presuppone una grossa preparazione durante l’anno e l’entusiasmo cresce fino all’arrivo dell’estate! E poi stare all’aria aperta è sempre piaciuto molto ai ragazzi, è una cosa che li attira e li aggrega.”. Alla faccia del moderno Facebook. Alla fine degli anni 70 si arriva, purtroppo, a stretto contatto con una grossa piaga di quel tempo, ma anche del nostro attuale: la droga. A questa parola pressoché sconosciuta prima, gli è stato dato un volto riconoscibile da tutti 113
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proprio negli anni della trasgressione. Lo spinello, la sniffata e poi … il buco. Come in tutti i gruppi numerosi, il primo ad abboccare ha coinvolto a grappolo chi lo circondava: effetto domino. La comunità conosce un massacro di giovani, le famiglie perdono non uno solo, ma in alcuni casi, anche due o tre figli a causa della droga. Il CEP era una delle maggiori piazze di smercio e purtroppo ha visto coinvolte molte persone, tanto che ancora oggi, nonostante la situazione ed i tempi siano molto cambiati, gli è riconosciuta soltanto l’etichetta del “Bronx” di Campalto. “Abbiamo organizzato numerosi incontri dove si potesse parlare liberamente della droga. Per farne conoscere le conseguenze e soprattutto la provenienza. Abbiamo distribuito volantini e parlato con le varie famiglie. Cercavamo di informare ed aiutare con i pochi mezzi che avevamo.”. Lo dice quasi con un senso di arresa don Alfredo, ma il lavoro svolto ha comunque portato i suoi frutti. Pian piano il coraggio, la forza e la voglia di riscatto si sono svelati e i primi a volerne uscire hanno coinvolto altri, sempre a grappolo, che come loro c’erano caduti. Con timidezza sono nate le prime “comunità di recupero” se così le possiamo chiamare. I ragazzi ora “puliti” si sentivano in debito verso un quartiere che tanto gli aveva dato in gioventù, così ex tossicodipendenti organizzavano delle attività per recuperare e ridare dignità a chi l’aveva perduta nella polvere bianca. Il teatro, i dibattiti, le riunioni hanno risollevato negli anni a venire, la comunità. “Si sentivano in debito. Tanto avevano tolto e tanto volevano ridare. Fondamentale è stata la condivisione, anche nei periodi più bui. Infondo è proprio la mancanza che spinge all’aggregazione”. E don Alfredo aggiunge, ormai con la fronte arricciata dai ricordi: “Questo è stato il segno di una mentalità d’insieme.”. La mancanza, aggrega. Mentalità d’insieme. In qualsiasi sviluppo sociale, queste frasi delineano il tessuto di un territorio. Naturalmente il Villaggio Laguna si colloca nel territorio di Campalto. E’ la sua oasi verde a forma di barchetta delimitata da Via Sabbadino e Via del Cortivo. Via Bagaron è l’albero maestro che spiega la vela. Così è stata disegnata da don Alfredo, che ancora ricorda: “Ci siamo battuti tanto e tutti per il nostro territorio: per la farmacia, per i servizi ai cittadini, 114
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per le scuole… Pensa che sono state costruite 3 scuole, di cui ora è rimasto solo l’asilo ed una elementare. I campaltini non avrebbero mai pensato di portare i loro figli nelle nostre scuole, o di servirsi dei nostri supermercati o farmacie. Quando anche Campalto ha conosciuto uno sviluppo notevole, si sono costruite le loro scuole, più accessibili se vogliamo. Ma noi aumentavamo e con gli anni alcuni nostri ragazzi cominciavano ad iscriversi alle scuole di Campalto! Fino a che ora, le nostre sono vuote e nelle loro ci vanno i nostri ragazzi!”. Infondo l’uso del “nostro” e del “loro” non è poi così stonato. Campalto ed il CEP facevano (e fanno!) parte dello stesso territorio, eppure si sono sempre considerate due terre diverse, forse anche in competizione. Il CEP chiuso nelle sue mura di “rifugiati” e Campalto, altrettanto celata dietro alle tende di chi spia il vicino “foresto”. Ancora oggi, sebbene i ragazzi del campeggio estivo siano tutti padri di famiglia e abitino al di fuori del quartiere, il Villaggio Laguna è considerato da molti “un brutto posto”. Ma chi ci vive poi, se non la mamma ultraottantenne di Lucio, quasi la sola nel suo grande condominio dalle ampie scale? Le case in vendita non sono considerate dai più, così si affitta ai cinesi o alle famiglie indiane, che non hanno grosse pretese. Eppure sono appartamenti di ampia metratura, immersi nel verde, con vista sulla laguna e accessibili ai servizi che collegano al centro di Mestre o Venezia. “Ci sono sempre meno ragazzi, e poi ad essere cambiate sono anche le famiglie stesse. Prima si riusciva a educare insieme, ora i genitori sono comete. E poi la fascia dai 20 ai 40 anni manca completamente ed era quella lo zoccolo duro della comunità.”. Così conclude don Gianni, parlando del suo quartiere oggi. “Vedrai che tra qualche anno non ci sarà più questa distinzione tra Villaggio Laguna e Campalto. Le giovani famiglie che vivono nel territorio saranno il vero ponte.”.
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“Nel pomeriggio dello stesso sabato ci incontriamo con un nostro concittadino, il vice presidente dell’associazione Campalto Viva, Primo Finotello. Ci conosciamo da tempo, ma questa intervista è un’opportunità per sapere un po’ di più l’uno dell’altro”. “Campalto ed i suoi cittadini non hanno mai considerato il CEP come del loro stesso territorio, ma piuttosto un vicino di casa dal quale starsene ben lontani per evitare guai! Ancora oggi è così e questo perché se fatichiamo noi ad avvicinarci, certo loro non aprono la porta!”. Come dare torto all’altra campana? La forma a barchetta ora sembra merlata da muri alti ma invisibili. E’ chiusa nella sua forma ed il ponte che dovrebbe collegarla a Campalto, attraverso il parco di Via Chiarin, sembra non esserci. E’ il primo ponte che divide e non che unisce. “Per unire le due realtà è stato presentato un progetto per la costruzione di una piazza dove ora sorge il parco di via Chiarin. Riducendo l’aerea verde si voleva dare spazio ad un luogo di incontro, da riempire con attività ed eventi pensati ad aggregare le due parti. Il difetto sta purtroppo nella politica, che ancora difende il Villaggio Laguna come zona da sviluppare. Non vogliono capire che non manca nulla se non l’insieme!”. Il mercato di via Sabbadino del lunedì è stato un tentativo, ma non per tutti ha avuto esito positivo. La locazione è al di là del ponte verso il Villaggio Laguna e per molti campaltini non è il mercato di Campalto!” Come possono esserci queste distinzioni in un territorio così piccolo? Parte di questo cruccio è dovuta anche al fatto che Campalto non ha potuto sviluppare il suo centro come quello di Favaro o Mestre. I terreni limitrofi all’incrocio, non sono edificabili ad uso commerciale, per questo mancano ancora molti negozi che si potrebbero aprire: una libreria per i ragazzi, uno studio di veterinaria, un supermercato in più, un bar che riunisca i giovani la sera, degli spazi che favoriscano l’incontro. “Presto traslocheremo al Villaggio Laguna la sede di Campalto Viva e sempre lì si trova anche quella dell’associazione sportiva Q10 di cui faccio parte. Sono piccole cose, ma sono il segno di un’apertura da parte nostra, di una volontà di condivisione.”. 116
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35-Settimana dei ragazzi (G.Coianiz)
Ancora una volta il “nostro” ed il “loro”. Cosa ci fa sentire appartenenti ad un territorio piuttosto che ad un altro? Sono solo questioni di “cuore” o possiamo azzardare a dare la colpa a qualcos’altro? “Qualcuno cerca le colpe nella politica, un po’ per tutto! Ma se ci pensiamo bene, la politica la fanno le persone e di conseguenza sono proprio e solo le persone a poter fare la differenza e cambiare la situazione. Qualsiasi essa sia.”. Non possiamo pensare che le cose resteranno così senza nessun tentativo di incontro, di movimento, di insieme. Questi 40 anni sono bastati a conoscere il nostro vicino di casa e ad accettare il suo passato. Crediamo sia arrivato il tempo di suonargli alla porta e offrirgli un caffè. Se non risponde oggi, lo farà domani. 117
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Tito Pamio lo conoscono tutti per la sua intraprendenza e per la sua contagiosa allegria, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo...ma forse non tutti conoscono la sua storia...Tito ci racconta come con i suoi “gusci a remi” è riuscito a conquistarsi un posto nella storia di Campalto. “Ciao.... per cominciare, dobbiamo accennare al fatto che se Carmela ed io siamo approdati al quartiere CEP (veramente a via Bagaron che del quartiere CEP per tanti versi si può considerare una “succursale”) lo dobbiamo ai due preti del Cep, don Alfredo Basso e don Gianni Fazzini. Tornando un po’ indietro nel tempo, dopo i quattro anni di permanenza nel campo nomadi di Via Vallenari dal ‘69 al ‘73, abbiamo tentato per anni, inutilmente di rientrare in una casa “normale”, ma erano tempi in cui case in affitto non se ne trovavano, se non a prezzi altissimi e per famiglie con sei figli, poi, era quasi impossibile. Don Fazzini era già stato a trovarci quando abitavamo in una roulotte e si era detto disponibile ad aiutarci a sfondare la porta di qualche appartamento sfitto, ma io nella mia posizione di maestro elementare me ne sarei insopportabilmente vergognato....Visti inutili i tentativi successivi, siamo tornati da don Fazzini e lì è sopraggiunto anche don Alfredo che ci ha proposto di coabitare con una signora problematica a cui erano stati sottratti 10 degli undici figli per manifesta incapacità di accudirli. Per assistere quella signora era stata già tentata un’esperienza di coabitazione da parte di alcune persone collegate alla parrocchia dell’Annunziata.”Se volete provare.... “ ci ha detto don Alfredo..... Il sopralluogo in casa della signora in questione, Giovannina Scarpa, ha fatto decidere Carmela, mia moglie, per il sì: era lei, con la sua sensibilità di madre e moglie, che poteva “sentire” e dare l’assenso a che i nostri sei figli e il relativo padre, io, coabitassero con la signora Giovannina. Carmela ed io avevamo scelto di battezzare due dei nostri figli nella comunità parrocchiale del CEP ancor prima di venire in via Bagaron, quindi, dopo l’inizio della coabitazione con la Giovannina abbiamo continuato a sentirci parte della parrocchia dell’Annunciazione, nonostante via Bagaron appartenesse, territorialmente, alla parrocchia di San Benedetto di Campalto. Sarebbero tanti i ricordi di collaborazioni con le belle realtà presenti in questo territorio, volte soprattutto ad offrire prospettive di vita migliore ad un ambiente sociale che qua e là presentava vari sintomi di malessere o deprivazioni economiche e culturale. Per ricordarne alcune: lo smontaggio 118
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36-Schizzo per un’ ipotesi di approdo in laguna (T.Pamio)
di un prefabbricato in Friuli (una signora del luogo ha partorito in quei giorni un bambino, Valentino) ed il rimontaggio dietro la chiesa del CEP, l’inserimento di una mia poesiola in una raccolta curata dal GU.A.D.O., un’associazione di donne in cui era attiva anche mia moglie,il dipingere gli scenari quando don Alfredo organizzava per l’Epifania dei simpaticissimi intrattenimenti, senza dimenticare i presepi che ogni anno mi chiedevano, sia lui che il successore don Lidio, di allestire in chiesa. Ma io sono stato gratificato soprattutto per aver collaborato con il centro di socializzazione Baobab. Il centro nei primi anni ’80 gestito dal dott. Lorenzo de Facci di Quarto D’Altino, era il tentativo di dare agli adolescenti del quartiere CEP e di via Bagaron un interesse alternativo a quelli negativi che presentava il territorio: lo sport del kayak. 119
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Era stato proprio il dott. De Facci a chiedermi di suggerirgli qualche attività che andasse bene soprattutto per gli adolescenti “ a rischio” del nostro territorio. …Ed è andata così... Avendo mia moglie ed io da poco conosciuto due simpatici amici del quartiere CEP, Renato Friselle e Piero Tamai che si erano costruiti dei bellissimi kayak in vetroresina, sui quali siamo anche noi saliti più volte, ho suggerito a Lorenzo di impiegare i fondi che il comune elargiva nell’avviare un’attività di costruzione di kayak in vetroresina per poi utilizzarli sulle acque che lambiscono il nostro territorio. Con la collaborazione dei due amici, dei signori De Pieri e Mardegan che costruivano barche in vetro-resina lungo il Canal Salso e che ci hanno fornito il primo, anche se un po’ “obsoleto”, stampo di kayak, e di Diego Dogà del Canoa Club Mestre che ci ha “sgrezzati” nella tecnica dell’andare in kayak, siamo riusciti a partire. Sono tantissimi i ricordi di belle ed a volte sofferte escursioni e grigliate, con sempre la inimitabile ed ormai famosa in tutto il mondo “Arcobaleno’s Flying grill” nella laguna e giù per i fiumi del Triveneto. E vorrei tanto che qualcuno li fissasse anche su queste pagine quei ricordi. Provo comunque e sempre un po’ di gioia quando ricevo i saluti da quei tanti adolescenti ormai diventati adulti. Saluti che a me sembrano sempre carichi di riconoscenza e gioisco al pensiero di essere stato strumento per la gioia mia e di altri, pur cosciente come sono che quello che è stata la culla dell’ormai arcinota Associazione Canoistica Arcobaleno non era che una goccia di felicità in tante vite in cui il bel tempo era l’eccezione e la tempesta era la regola. Oggi L’Associazione ha un proprio sito, ha contatti internazionali con molti appassionati di kaiak che ci hanno molto aiutato quando, poco tempo fa, un incendio doloso ci ha distrutto la sede. Ma un cruccio mi assilla da anni, una richiesta che a me, ed a tutti gli appassionati di nautica naturale, sembra logica e indifferibile. Politici e pubblica amministrazione dichiarano “…Campalto si qualifica per il suo <affaccio> sulla laguna, per il suo <water-front>, Mestre è città d’acqua, e Campalto lo è di più…”; ebbene, lungo tutto questo “water front” come in tutta la gronda lagunare da Jesolo a Chioggia non esiste un accesso pubblico alla laguna per “nautica naturale” (a remi od a pagaie in particolare), .... un semplice imbarcadero galleggiante o fisso come si trova dappertutto in Europa, pubblico (che non vuol dire incustodito) come le piste ciclabili, un 120
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imbarco reclamato anche da tutti quegli appassionati italiani e stranieri che amano i nostri luoghi. E’ stato possibile un avvelenamento da piombo per decine di anni presso l’area del tiro al piattello, area ora in via di bonifica ad un costo esorbitante; è stato possibile l’avvelenamento di una estesa porzione di barena con fosfogessi ed immondizie. Pare, però, sia impossibile creare, con un impegno economico limitato, un innocente accesso alla laguna per innocenti gusci a remi!” Augurio A ogni dona de casa Ghe fasso on augurio schersozo: Che no i ghe diga che a tasa Ne’ preti, ne’fioi, ne’ sposo. Che mai non ‘a se senta depressa Co ‘a veste el so omo o i putei, Co’ a lava, ’ a cuse o ‘a sopressa In modo che i para più bei. Che ‘a incontra chi ricambia l’amore Che ‘a spande su chi ghe sta intorno Che insieme ghe demo colore A tuta ‘a so vita, ogni giorno. Che el sposo non speta che ‘a mora Par dirghe ‘na volta sta frase (scrivendo sol marmo par fora) “Amore riposa qua in pase” !
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Pier Paolo Gelussi: è un giovane papà ora, di due belle bambine bionde. Era un ragazzino scout nella parrocchia di San Martino e Benedetto di Campalto. Ha la passione per la buona musica, la lettura e la foto… e se può, si diletta anche nello scrivere. E’ cresciuto al CEP negli anni 70, ma i suoi ricordi non sono sempre facili da raccontare, ora che con gli occhi di un uomo ne scopre le verità allora nascoste. Questa è la sua testimonianza: “Sono arrivato al CEP nel ’71 ed avevo solo un anno; andammo ad abitare in un palazzone davanti alla chiesa e lì avevo tutti i miei amici. Ho frequentato le elementari nella scuola vicino al campo da calcio, con la maestra Caterina fino alla quinta elementare. Alla Don Milani ho frequentato solo la prima media: un disastro! Era per me invivibile a causa degli infiniti episodi di bullismo, così dalla seconda iniziai ad andare alla scuola media di viale San Marco. A 12 anni ho iniziato anche a frequentare il gruppo scout di Campalto: d’accordo con mio padre non ho più frequentato il CEP che, per me, era diventato invivibile. Troppi teppistelli, non riuscivo ad essere sereno e a rapportarmi con loro. Al CEP ci andavo solo per dormire. I miei ricordi del CEP sono legati soprattutto ai miei primi 11 anni: tanti giri in bicicletta con gli amici, a pescare sull’Osellino, oppure in esplorazione alle “terre bianche” (la discarica di fosfogessi!) da dove si tornava quando iniziava a fare buio. C’era di bello che era possibile restare a giocare nel quartiere senza la custodia dei genitori, cosa che ai nostri giorni non è concepibile. Per mia figlia, oggi, il massimo dell’avventura è andare al Parco di San Giuliano in bicicletta con papà! Altri bei ricordi sono legati alla settimana dei ragazzi alla quale ho partecipato: ho ancora a casa gli adesivi delle varie manifestazioni che erano molto divertenti e coinvolgenti. Centinaia di ragazzi di ogni provenienza che giocavano e cantavano assieme per tutta una settimana. Vi partecipava tutto il quartiere, forse la gente allora era diversa, non credo si potrebbe ripetere oggi. Ma ricordo anche quelle cose che c’erano, ma che si faceva finta di non vedere: le siringhe piantate sugli alberi sotto casa, i tossici che mi aspettavano davanti al portone di casa per chiedermi i soldi, i litigi di mio padre con quei ragazzi, gli spacciatori che nascondevano le dosi sotto gli aghi dei pini davanti alla chiesa, e vicino i bambini che giocavano… I preti erano al centro fisico del quartiere ed anche il centro dell’attenzione: 122
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37-Alce rossa in campeggio (Fioi del CEP) sapevano coinvolgere. Erano preti di prima linea e la chiesa era soprattutto centro di aggregazione. Altro punto di aggregazione è stato il centro sociale: c’era il cinema ed è stato un buon ritrovo per i ragazzi. Ci andavo da solo, ovunque nel quartiere si andava da soli! Al centro sociale avevo iniziato a far parte di un gruppetto che faceva musica e da cui avrebbe dovuto nascere la banda del CEP. Un signore grande e grosso che suonava il trombone, e di cui non ricordo il nome, mise in piedi questa cosa raccogliendo una decina di bambini ed iniziando ad insegnare loro la musica. Per l’occasione mi comprai un fricorno soprano, ma poi la cosa non ebbe uno sbocco. Mi piaceva come era stato costruito il quartiere, non ho visto molti altri luoghi pensati in questo modo. Probabilmente, però, l’idea di assegnare gli alloggi come è avvenuto ha creato una condizione difficile da gestire. Chi si è sposato in genere è andato a vivere da un’altra parte, e rimangono gli anziani; gli appartamenti spesso vengono occupati da stranieri ed extra comunitari che perpetuano quel mescolamento di provenienze facendolo diventare, da nazionale, internazionale. Rimane un quartiere di confine, un quartiere dormitorio che presenta ancora, purtroppo, qualche sussulto di teppismo. 123
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Un nuovo nome per il CEP Emilio Boldrin è una delle molte persone che nel tempo hanno dedicato le proprie energie per il quartiere; tra le molteplici iniziative è stata molto importante quella che ha permesso di cambiare il nome CEP in Villaggio Laguna! Agli occhi di chi lo vedeva da fuori il CEP non era un quartiere come tutti gli altri, era un vaso di Pandora in cui erano stati raccolti tutti i mali del mondo. Ogni giorno i giornali lo dipingevano come un ricettacolo di droga, furti e violenze. In quartiere ogni piccolo fatto, se modellato ad arte, diventava notizia da prima pagina. Il CEP era un nome diffamato e diffamante al punto tale che qualcuno decise che i suoi abitanti non potevano più essere denigrati per il luogo in cui abitavano. Era venuto il momento di far vedere come il quartiere era cambiato, come era migliorato e mostrarlo a chi fino a quel momento lo intravedeva attraverso uno spesso velo di pregiudizio e disprezzo. Si formò quindi un “Gruppo di valorizzazione del quartiere” che mise in piedi delle iniziative per cancellare la nomea di luogo poco raccomandabile dalle pagine dei giornali e dalle menti delle persone. Ne facevano parte, oltre ad Emilio Boldrin, Mario Campolucci, Giacomo Bellato, Giuseppe Orlandi, Giorgio Barbazza e don Alfredo Basso. Da dove cominciare se non dal nome. Gli anni erano passati e il CEP era un cuore pulsante, con una identità ed una dignità proprie. Si pensò quindi ad un referendum popolare. All’inizio del 1993 fu mandata una lettera ad ogni famiglia con le varie proposte per un nuovo nome. Le 4 cassette posizionate nel quartiere raccolsero più di 450 lettere di risposta. La proposta vincente risultò “Villaggio Laguna”. Nessun nome poteva essere più adeguato. Quale altro luogo al mondo può vantare un panorama così? Il particolarissimo paesaggio lagunare in primo piano e sullo sfondo Venezia. Uno scenario che cambia ogni sei ore, una Venezia così vicina e calda con il sole e quasi invisibile quando la nebbia diventa un muro.
38-Scheda per il referendum sul nome del quartiere> 124
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Vennero costruiti dei cartelli in legno e fu fatta anche una fiaccolata per la loro inaugurazione. Ma i cartelli non erano in regola e così, senza tanti sentimentalismi, i vigili li fecero levare minacciando una multa a chi aveva avuto la presunzione che un quartiere potesse emanciparsi così, darsi un nome perfino, senza aver avuto l'autorizzazione delle Autorità. Ma ormai la battaglia era cominciata e andava portata fino in fondo. Si passò quindi per la complessa macchina burocratica: Consiglio di Quartiere, servizio toponomastica del Comune, Consiglio Comunale, Prefettura...dopo infiniti cavilli burocratici finalmente venne dato il via libera. Venne spedita una lettera ad ogni ente che in qualche modo avesse a che fare con il quartiere per mettere bene in chiaro che: “Questo quartiere dal …. 1994 non si chiamerà più CEP ma Villaggio Laguna”. Non era una questione di nome, era un grido di orgoglio.
<39-Cartello col nuovo nome del quartiere 127
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Roberto Carisi, 45 anni, ha abitato in quartiere per oltre trent’anni. Da un paio d’anni si è trasferito a Favaro Veneto. Quando sei venuto a vivere al Cep, come ti è sembrata la vita del quartiere? “Sono arrivato al CEP quando avevo otto anni. Io e la mia famiglia, composta dai miei genitori e da cinque figli, ci siamo trasferiti da viale San Marco. Ricordo che il cambio di abitazione è stato un po’ traumatico, come penso possa esserlo per ogni bambino ma mi sono adattato in fretta al nuovo luogo ed ai nuovi compagni. Del resto in quartiere c’erano moltissimi bambini e ragazzi, non esistevano bambini soli o isolati: in classe mia, alle elementari l’80% dei miei compagni abitavano nel mio stesso palazzo. Era molto naturale stare tutti insieme e trascorrere le giornate, prima a scuola poi sotto casa, in mezzo ad altri coetanei”.
40-Giovani calciatori (Fioi del CEP)
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C’erano talmente tanti ragazzi - che ora è davvero difficile immaginare, non solo al Villaggio Laguna ma anche in altre aree della città - che è stata istituita “La Settimana dei ragazzi. “Sette giorni durante i quali si potevano fare i giochi più diversi e altrettante competizioni sportive. In particolare ricordo il gioco dell’alce rossa: ogni giocatore si attaccava sulla fronte un numero da tenere nascosto alla squadra avversaria e senza usare le mani, pena l’essere catturato prigioniero. Per nasconderlo si assumevano le posizioni più fantasiose e si inventavano strategie complicatissime per non farsi catturare. Una parte importante per l’animazione dei ragazzi l’hanno fatta i sacerdoti, veri e propri trascinatori, anche se ognuno nella comunità metteva del proprio, ognuno era disponibile”. Qual è stata la tua esperienza, visto che in quegli anni difficili eri proprio un ragazzo? “Il primo ricordo legato alla droga risale a quando avevo dieci anni e morì per overdose un ragazzo di venti. Sembrava che l’evento fosse stato fortuito e venne assorbito rapidamente ma nell’82, dopo i mondiali di calcio, il problema della droga esplose in tutta la sua drammaticità. In quartiere girava di tutto e perfino sui muri di qualche edificio vennero scritti degli slogan che pubblicizzavano alcuni tipi di droga. L’eroina entrò di prepotenza: pareva che quelli che non si “facevano” fossero emarginati; era normale drogarsi ed il CEP probabilmente era uno dei luoghi più sicuri dove spacciare e dove “farsi”: le auto della polizia non poteva entrare nel cuore del quartiere e comunque nei casi di inseguimento a piedi, chi scappava poteva sempre contare sull’aiuto di qualcuno. Io avevo 20 anni e credo che tra i ragazzi della mia età la maggioranza si sia bucato almeno una volta. Purtroppo il cimitero di Campalto ne è testimonianza”. Ed oggi, la situazione è cambiata? “La droga continua a circolare ma meno di una volta anche perché ci sono meno residenti e soprattutto meno giovani”.
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Come vivesti il quartiere la questione droga? Ovvero, i residenti avevano la percezione che fosse un fenomeno così diffuso? “Direi che il problema maggiore fu che quasi nessuno si rese conto della gravità di quanto stesse succedendo. Tante brave persone e famiglie per bene, un po’ per la non conoscenza del problema, un po’ per la fiducia che riponevano nei figli non si sono resi conto del treno che li stava investendo. Mi è capitato, a casa di un amico, di sentirmi chiedere se io fossi “un ragazzo a posto” mentre loro non si accorgevano che il loro figlio si stava devastando. In realtà la droga non stava distruggendo solo i ragazzi del quartiere ma anche molti che abitavano a Campalto e nelle zone limitrofe: da parte di molti, almeno inizialmente, è mancata la percezione dell’evento e della sua pericolosità”.
41/42-Settimana dei ragazzi (G. Coianiz)
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Certo la diffusione della droga fu devastante per i giovani, ma se la lasciamo un attimo tra parentesi, com’è stato vivere e crescere al Cep? “A distanza di anni dico che, nonostante tutti i problemi, l’integrazione tra persone che venivano da zone diverse e che sono state messe insieme a coabitare, è avvenuta con successo. Oggi, un po’ per il calo dei residenti ed un po’ per il modo diverso di vivere, lo spirito di aggregazione non ha più il fermento di un tempo”. Si parla della rivalità tra Villaggio Laguna e la vecchia Campalto: come è stata vissuta? “Può essere che qualcuno possa avere avuto la puzza sotto al naso, può essere che qualcuno abbia alimentato ad arte questi sentimenti “separatisti”. Personalmente ho vissuto la vicinanza in modo sereno, non l’ho colta se non per il “derby” tra le squadre di calcio”. 46-Fallaccio! (G. Coianiz)
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Don Lidio Foffano, attuale Parroco del Villaggio Laguna, ha forse vissuto i momenti più difficili che hanno segnato la storia di questo quartiere, ma una volta risolte le emergenze ha trovato sempre nuove sfide in cui cimentarsi. Continua a difendere la sua scelta di voler mettere in pratica gli insegnamenti basilari della sua Chiesa: l'umiltà e la solidarietà, operando in un ambiente in cui sobrietà e coerenza sono i pilastri portanti di ogni progetto. “Sono diventato Cappellano del Villaggio Laguna nel 1980, dopo aver operato per alcuni anni nella Parrocchia di San Lorenzo a Mestre. Venendo da una parrocchia di città mi incuriosiva molto un’esperienza in un quartiere popolare. Ero, e resto dell’idea, che una Chiesa non può essere ricca nei luoghi ricchi e miserevole nei luoghi poveri. In particolari due sono le idee che mi hanno spinto a fare questa scelta: il fatto che il Parroco di un quartiere popolare potesse avere una fisionomia diversa da quella di un Parroco di città e il fatto di sentirmi particolarmente vicino alla scelta che contraddistingueva i Parroci di questo quartiere di essere dei Preti operai. Quello che cercavo era un maggior inserimento nella vita delle persone della comunità, cosa che mi risultava difficile nella parrocchia da cui provenivo, ma anche la riscoperta e la riflessione su quei valori essenziali su cui si basa il messaggio del Vangelo. Il fatto poi di non trovarmi d’accordo con il nuovo concordato tra Stato e Chiesa, mi metteva ancora di più in sintonia con questa Parrocchia. L’operato del Prete, a mio parere, doveva essere totalmente slegato da ogni compenso economico. Trovandosi autonomamente il proprio sostentamento avrebbe potuto essere più vicino e condividere i problemi della gente, e la comunità di conseguenza l’avrebbe più facilmente considerato parte integrante della società e non una figura super partes. Per questo, sentendomi particolarmente attratto del metodo in cui questa Parrocchia parlava alla gente, e con l’idea di trovare materialmente una base diversa da cui avviare le mie riflessioni e il mio impegno, decisi di venire ad operare nella Parrocchia del Villaggio Laguna. Non è stato semplice per me adattarmi a questo cambiamento. Per di più sono arrivato in un momento difficile. La droga in quegli anni cominciava ad insinuarsi sempre più capillarmente nella società e noi ci siamo trovati senza armi per combatterla. Il quartiere offriva un terreno fertile per la sua semina, la perdita di valori, 135
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47-Monumento alla pace (G. Brandoli) il sentirsi lontani dalla cultura, la sensazione di essere rinnegati e la voglia di un riscatto facile hanno creato le condizioni affinché molti giovani si lasciassero coinvolgere dalla spirale della tossicodipendenza”. In questo momento di grande difficoltà vi siete sentiti abbandonati dalle Istituzioni? “In un certo senso sì, ma c’è da dire che il problema della droga era nuovo a tutti e nessuno aveva ancora trovato un modo efficace di risolverlo. Anche noi facemmo numerosi tentativi, ma non tutti andarono a buon fine. Inizialmente pensammo di spiegare e analizzare minuziosamente ogni aspetto dell’atto del drogarsi in modo da sensibilizzare i ragazzi. Se ogni ragazzo conosceva tutti gli aspetti più pericolosi, più dolorosi di quella sostanza che procurava brevi momenti di euforia ma gravissime conseguenze, forse la curiosità e il desiderio di evasione non avrebbero attecchito nella loro 136
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48-Diritti del fanciullo (G. Brandoli) mente. Ci sbagliavamo. Le nostre riunioni diventavano una sorta di lezioni teoriche le cui conseguenze davano l’effetto contrario rispetto a quello che ci eravamo preposti. Così provammo con la tattica opposta. Se questo era un metodo per i ragazzi per chiedere attenzione, noi provammo ad escludere totalmente l’argomento nelle nostre discussioni, nella speranza che il nostro sforzo di non dare importanza a questo problema (anche se lo avevamo costantemente sotto gli occhi) portasse un progressivo disinteresse anche nei ragazzi affinché trovassero un altro modo per attirare l’attenzione. Negli anni’80 il problema della droga era un realtà diffusa, ma nel nostro quartiere era amplificato dalla concentrazione di persone e dal labirinto di stradine che rendevano facili le fughe e offrivano validi nascondigli agli spacciatori. Questo è quello che vedeva la gente da fuori ma qui l’atmosfera era diversa. Tutti si conoscevano e la disgrazia di un figlio caduto nel tunnel della droga provocava nelle altre famiglie angoscia e compassione. I ragazzi tossicodipendenti non venivano visti come un pericolo, agli occhi degli 137
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abitanti del quartiere erano delle persone fragili, con la necessità di essere aiutati e capiti. E’ questa sostanziale differenza di visioni che ha fatto in modo che molte persone si ritrovassero insieme ad aiutare i figli del loro quartiere”. Il vostro impegno è stato decisivo per far rientrare l'emergenza droga, la battaglia è stata dura e le perdite considerevoli, ma una volta chiuso questo difficile capitolo, adesso qual'è il campo in cui avete voluto spendere le vostre energie.? “Superate le emergenze abbiamo voluto intraprendere una strada nuova, un percorso per fare cultura. Volevamo provare ad affrontare problemi più complessi, darci degli orizzonti più ampi, che andassero oltre le problematiche materiali della quotidianità. Il punto di partenza era la necessità di cambiare mentalità, fare uno sforzo per passare da una mentalità idealista ad una mentalità di solidarietà, provare a mettere in pratica e non solo predicare. Ci siamo voluti impegnare nel tema dell’accoglienza dello straniero, sul senso della giustizia sociale, il tutto sotto gli insegnamenti del messaggio evangelico. Numerosi gruppi, tra i quali l’Associazione Destinazione Pace, hanno lavorato per anni e continuano ad impegnarsi sui temi della pace, della non violenza, sull’importanza dei diritti dell’uomo, sul rispetto della natura e sull’accoglienza dello straniero. Espressione di questo importante lavoro di studio e riflessione, portato avanti con i bambini e i vari gruppi parrocchiali, è stata l’installazione di alcune colonnine di bronzo lungo il Viale Centrale del Villaggio Laguna. Ogni colonnina riporta un articolo dedicato al tema dei Diritti del Fanciullo. L’inaugurazione di questa opera non è stata solo il traguardo finale di un percorso, è stato anche il primo passo della nostra idea di personalizzare il quartiere. Vorremmo fare in modo che la Parrocchia diventi un’alternativa all’individualismo e al consumismo dilagante, un luogo di riflessione che non si chiude su se stesso, ma che si apre agli abitanti di tutto il quartiere diventandone punto di riferimento”.
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Mantovani Antonietta detta Imer, è una delle tante mamme che hanno cresciuto insieme ai propri figli e con lo stesso affetto, altri centinaia di ragazzi del quartiere. La sua conversione ai valori della Chiesa, è allo stesso tempo straordinaria e naturale e nasce dalla volontà di prodigarsi per gli altri senza interessi. “Sono orgogliosa di abitare in questo quartiere. Ho sempre fatto la casalinga ed avevo del tempo da spendere e da donare. Avevo 4 figli piccoli, ma in occasione di nuove attività che nascevano nel quartiere mi intrufolavo sempre. Desideravo che non si parlasse solamente delle cose brutte che vi succedevano; nei giornali uscivano le notizie relative alla droga, ai problemi sociali e quasi mai un cenno sulle iniziative, sugli eventi voluti ed organizzati dagli abitanti e che vedevano la partecipazione di tutti. Alla settimana dei ragazzi, a cui sono legati i ricordi più belli, (anni 70-80) lavoravano tutte le mamme e tutti i papà. Io mi occupavo di teatro ed era meraviglioso sentire tutti partecipi di ciò che stavamo organizzando. Ho fatto catechismo ai ragazzi delle elementari e delle medie, secondo un programma di vangelo e di fede preparato da don Alfredo.
49-Prima dello spettacolo (Fioi del CEP)
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Dall’89 al ’94 veniva organizzata la festa di maggio. Nei tre mesi precedenti mi trovavo con i ragazzi per preparare uno spettacolo musicale; ogni ballo, ogni scena avevano un significato particolare: pace, libertà oppure solidarietà, significati che venivano spiegati ai ragazzi. Altre persone si occupavano delle musiche, dei costumi, della gestione delle prove. I ragazzi arrivavano alle 16.30, appena usciti dalla scuola, stanchi, ma puntuali e motivatissimi. Nell’81 nacque un comitato nel quartiere per tentare di contrastare il fenomeno delle droga. Venne preparato un “Libro bianco”, furono organizzati incontri, per spiegare. Furono momenti difficili: ad un incontro capitò che un giovane vi partecipò per rivendicare il suo diritto a “farsi”. Ricordi persone che si sono prodigate per il quartiere? “Innanzi tutto i sacerdoti: ne ho conosciuti quattro, ognuno con sfaccettature diverse, ma tutti con una carica umana eccezionale, concreti, orientati al bene delle persone. E poi molte altre, abitanti del quartiere e personale delle scuole; persone speciali che non mi sento di nominare perché potrei dimenticarmene qualcuna e fare loro un torto”. Com’è cambiato il quartiere? “Non oso dire che è peggiorato, è solo invecchiato. Noi, con i nostri acciacchi, abbiamo sempre meno voglia ed energia da dedicare agli altri. Sono arrivate nuove coppie, ma hanno un problema che noi non avevamo: molto spesso entrambi i genitori lavorano ed il tempo da dedicare ai figli, per non dire agli altri, è praticamente molto, molto minore. Non ci sono più l’entusiasmo e la fantasia del fare. Forse la solidarietà c’è ancora, forse tra le scale di un palazzone, ma manca il vivere ed il fare tutti assieme. Forse se ci fossero più giovani…forse…” Ricordi episodi particolari? “In questo quartiere è iniziata per me una ricerca di fede. Non ero credente. Arrivata in questa comunità è stato chiesto a me e ad altre mamme di fare catechismo ai bambini; ci siamo dette “…ma non siamo capaci”; invece i sacerdoti, persone intelligenti e con un grande cuore, persone che volevano 142
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50-Magie d’Oriente (Fioi del CEP)
accogliere, hanno detto “venite, provate, potrebbe servire anche a voi. Se volete…” Ho accettato: avevo 27 anni e 4 figli. Sono andata e mi sono appassionata alla parola di Dio, mi sono innamorata di Gesù che prima per me era solo un santino; di un Gesù che andava per strada, che sta con l’uomo, di un Gesù che ama i poveri, mica di un Gesù là per aria! Ed era quello che io non avevo. Non ho più pensato solamente ai miei figli, ma andavo a trovare quelli che magari erano ammalati, suonavo e salivo in casa: c’era quello con la mamma che beveva, oppure con problemi di salute , o di soldi… Un altro ricordo limpidissimo riguarda il primo Natale al CEP: la chiesa era ancora senza tetto, io ero incinta, non ci conoscevamo; ma il fatto che ognuno arrivasse da un punto diverso creò un’unità. In quella messa di Natale nacque la voglia di fare fratellanza!” 143
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L’Osellino, il nostro “fiume” L’Osellino separa il Quartiere Laguna dalla Gronda e dal diretto contatto con le barene. Come tutti i corsi d’acqua, divide e nel contempo unisce. Divide due contesti assolutamente diversi tra loro: da una parte la città, con i suoi abitanti, con i suoi problemi; dall’altra l’ambiente naturale con le barene, la laguna, le isole. Unisce, potendolo navigare, con le antiche radici veneziane. Per le persone costrette a lasciare la città lagunare per trasferirsi nelle nuove residenze del CEP l’acqua è stato senza dubbio il primo legame con la loro “Venezianità” Quei tetti, quei campanili tanto cari, una quinta naturale che cinge il grande palcoscenico lagunare, così vicini, quasi da poterli toccare… Cosa meglio di una barca per poterli raggiungere? La barca, l’acqua, che impregnano il DNA dei veneziani avevano bisogno di un canale navigabile: ecco l’Osellino, pronto sotto casa. E così, giorno dopo giorno, sono sorti approdi, “cavane”; si sono inventati piccoli squeri nei garage e altri intenti per poter “andar a sepe e pasarini” . Ma questo corso d’acqua, che poteva sembrare far parte del progetto urbanistico per rendere meno doloroso il distacco dalle proprie origini, è molto più datato, molto più “vintage” come si direbbe oggi. La sua storia in breve Il canale venne realizzato col nome di Fossanuova (per distinguerlo dalla non lontana e più antica Fossa Gradeniga)nel 1507 dalla Serenissima Repubblica nell'ambito di un più vasto programma di allontanamento delle foci fluviali dall'area di Venezia. La deviazione del Marzenego si mostrava tanto più necessaria in quanto il fiume, sfociando presso punta S. Giuliano, convogliava detriti nel punto di maggior vicinanza alla città, minacciando di ostruire alcuni dei principali canali utilizzati per i traffici con la terraferma. Le acque del fiume, inoltre, proseguivano attraverso la laguna sino a confluire nell'importante Canale di Cannaregio e, di qui, nel Canal Grande, accumulando detriti che potevano minacciare la sopravvivenza della stessa Venezia. Le acque del fiume vennero dunque intercettate immediatamente a valle del borgo di Mestre e irreggimentate in un corso artificiale che portò 144
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51-Lungo l’argine (G.Brandoli)
al prosciugamento dell'antico letto nel tratto in cui sorgeva il porto di Cavergnago, sino alla foce di San Giuliano, che venne quindi sbarrata con un sistema di chiuse per consentire in caso di necessità lo scarico diretto delle eventuali piene e per questo denominato Scaricatore alle Rotte. Da qui il canale deviava verso nord, proseguendo parallelamente alla gronda lagunare sino a confluire nella foce del fiume Dese, scaricandosi infine nella palude di Cona, all'estremità settentrionale della laguna, a formare il canale Dese. Nel 1805, contemporaneamente all’edificazione dell'imponente Forte Marghera, gli Austriaci iniziarono la costruzione, in corrispondenza della chiusa di San Giuliano, del ridotto Forte O, destinato al controllo della chiusa stessa e, attraverso questa, delle acque del canale Osellino, il cui dislivello poteva essere sfruttato all'occorrenza per l'allagamento della piana circostante la fortezza principale, sì da rendere impossibile un assalto diretto. 145
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52-Parcheggio (G. Brandoli)
Nel 1911 il tratto finale del canale fu interessato dalla costruzione di una nuova fortificazione appartenente al campo trincerato di Mestre, il Forte Bazzera, realizzato alla confluenza di un canale scolmatore per la raccolta delle acque di bonifica. Negli anni cinquanta del XX secolo il corso terminale del canale Osellino venne interrotto dai lavori per la realizzazione dell'aeroporto Marco Polo. I problemi attuali Come tante altre aree del nostro territorio, anche l’Osellino ha subito le ingiurie dell’insipienza umana. Nei suoi fondali sono state rinvenuta quantità considerevoli di materiali inquinanti, spesso pericolosi. Ciò è strettamente connesso con la presenza sull’argine destro di vecchie discariche che, da san Giuliano a Campalto,
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hanno ospitato per decenni i rifiuti tossico nocivi di Porto Marghera. Chi non ricorda le “terre lunari”? Ogni giorno i nostri ragazzi sfrecciavano con le loro bici in questo lunapark naturale. Una gobba, una sgommata, una gara a chi saltava più lontano. E poi tutti a casa, bianchi di polvere, ma felici. Questa polvere biancastra, che rendeva così adatto alle evoluzioni quel terreno su cui non crescevano alberi, su cui non spuntava l’erba… Già, non spuntava l’erba… Poi, improvvisamente, quel parco giochi venne recintato, venne disseminato di cartelli che ne vietavano l’accesso. Arrivò anche la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire: l’area, per un’estensione di parecchi ettari, era contaminata da fosfogessi radioattivi. Ora, un lungo e costosissimo intervento di bonifica, sta cercando di porre rimedio a quel disastro ambientale, ma l’ambiente non sarà più lo stesso. Sono scomparse centinaia di metri di antiche barene con la loro vita e con la loro storia. Un altro problema è dato dall’irregolarità del flusso idrico che risente in modo importante delle maree. Che l'Osellino sia destinato ad un lento ed inesorabile interramento, se a breve non verranno presi dei provvedimenti, è una realtà che abbiamo davanti ai nostri occhi tutti i giorni. Tuttavia, mettere in pratica le procedure per risolvere questo problema non è cosa semplice. Dietro la sua progressiva scomparsa ci sono anni di discussioni, valutazioni e cavilli burocratici che delineano per il nostro Osellino un futuro torbido come le sue acque. Era il 2006 quando la Regione, nel suo ente esecutivo del Consorzio di Bonifica, il Comune e il Magistrato alle acque metteva le basi per un intervento di riqualificazione e bonifica del canale Marzenego-Osellino. Un progetto che avrebbe dovuto farlo risorgere dalle secche nelle quali era ormai abbandonato da anni, ma che si prefiggeva anche una serie di obiettivi complementari. Questo massiccio intervento, ad ampio respiro, non prevedeva solo la bonifica delle sue acque e dei suoi argini, ma spaziava dalla messa in sicurezza idraulica a opere di ripristino paesaggistico. Il progetto, inoltre, prometteva a questo canale di diventare l'elemento naturale di congiunzione tra città e Laguna rimettendolo a disposizione dei cittadini. Praticamente un restyling completo per ridare al nostro corso d’acqua la dignità di fiume. 147
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Ma, come troppo spesso accade in questa nostra strana città, dove le competenze di numerosi enti pubblici si sovrappongono, i lavori, che dovevano iniziare nel 2010, son ancora in stallo e si prevedono tempi assai lunghi per gli interventi lungo il tratto dell’Osellino da san Giuliano alla foce. Speriamo che le lungaggini burocratiche non compiano più danni delle alluvioni… Quale futuro? Tutti si augurano che sia roseo. La riconfigurazione dell’intero bacino idrografico mestrino dovrebbe poter garantire all’Osellino una buona regolarità nei flussi e una portata d’acqua sufficiente per renderlo navigabile in sicurezza. Il progetto, presentato dal Consorzio di bonifica Dese Sile, comprende inoltre la riqualificazione degli argini in modo da renderli percorribili con itinerari ciclo pedonali. Un corso d’acqua nato anticamente per riequilibrare l’assetto idraulico della laguna, diventata pattumiera a cielo aperto, potrà trasformarsi in un corso d’acqua piacevole da percorrere, in una nuova strada verso Venezia. 53-Osellino (G. Brandoli)
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Come esempio tangibile della grande tradizione di partecipazione sociale, civile e culturale presente all'interno del Villaggio Laguna, abbiamo intervistato un gruppo di signore che fanno parte dell'Associazione GU.A.D.O (Guardo – Ascolto – Dialogo – Opero). L'associazione, nata verso la fine degli anni '80, da oltre 30 anni dedica attenzione alle problematiche legate alle donne ma non solo. In questi anni il gruppo si è fatto portavoce delle necessità degli abitanti del quartiere, dai bisogni più materiali come infrastrutture e servizi, a quelli immateriali, come il bisogno di sentirsi parte di una comunità e di ritrovare il proprio ruolo all'interno della stessa. Innumerevoli le attività promosse negli anni dall'Associazione. Non solo incontri informativi e progetti che ponevano l'attenzione sui disagi vissuti dalle donne nelle varie fasce d'età, ma anche valorizzazione della potenzialità creativa della donna in tutte le sue forme: dalla poesia alla realizzazione di piccole opere manuali. A testimonianza di questo impegno vi proponiamo questi racconti che nella loro semplicità esprimono tutta la dedizione e la passione con cui è stata intrapresa ogni iniziativa dell'Associazione. “La nostra Associazione viene fondata ufficialmente nel 1990, ma la storia delle donne che ne fanno parte comincia ben prima. Negli anni ‘70 il CEP era appena nato e mancava tutto. Don Gianni Fazzini in quegli anni cominciava a riunire intorno a se’ una comunità che continuava a crescere di mese in mese ma che non poteva essere assistita dalle sole forze di un Parroco. Venimmo quindi coinvolte da Don Gianni per dargli una mano nella gestione del catechismo e degli altri incontri. Nei primi anni dalla nascita del CEP la nostra energia e quella dei Parroci non era spesa solo nelle attività parrocchiali, ma insieme chiedevamo scuole, mezzi pubblici, una maggior cura del quartiere. Eravamo molto coinvolte anche nei problemi della scuola, c’era da parte nostra una partecipazione attiva nelle decisioni ed anche nei servizi, infatti alcune di noi aiutavano volentieri in mensa. Che bello quel periodo! Attraverso queste piccole battaglie cominciavamo a conoscerci, ad aiutarci l’un l’altra. I nostri figli partecipavano con entusiasmo al catechismo, non era noioso. Probabilmente la nostra presenza conferiva un’atmosfera diversa a quegli incontri. La Chiesa è stata un dono per tutti noi, è sempre stata aperta e disponibile ad aiutare i nostri giovani. 149
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Intanto gli anni passavano, i bambini crescevano, le nascite diminuivano e noi ci siamo trovate disoccupate ma con ancora tanta voglia di renderci utili, cominciammo quindi ad interrogarci su cosa potevamo fare per noi e per le altre donne. I problemi allora erano di varia natura e pensammo di individuarli interrogando le donne, chiedendo pareri sul quartiere, sui loro problemi personali. A questo scopo predisponemmo un questionario che fu distribuito per avere un quadro della situazione. In tutto raccogliemmo circa 630 questionari. La nostra indagine venne accolta bene dal quartiere, non c’era diffidenza, c’era la voglia di parlare, di partecipare. Certo un’iniziativa del genere ai nostri giorni sarebbe molto più difficile, la gente con gli anni è diventata timorosa e diffidente. Nel periodo della droga non c’era paura a passeggiare per il quartiere, i ragazzi che si drogavano li conoscevamo tutti, ed erano comunque nostri fratelli, nostri figli. La droga ha distrutto famiglie, ha cancellato delle generazioni, è stata una piaga difficile da sanare che ha messo a dura prova lo sviluppo del nostro quartiere. Nel contempo crebbero molte associazioni e gruppi. Non diventò un ghetto perché ci furono molte persone che lo mantenevano vivo, che lavoravano per gli altri. Ed accanto alle donne molti uomini erano attivi in questo, soprattutto con lo sport. Anche se alcune persone si sono estraniate da tutto ciò, da sole, incapaci di accettare l’identità del quartiere dove vivevano, tra di noi a distanza di anni è rimasto un vincolo, un vincolo come di sangue, come fossimo nati tutti dalla stessa famiglia, senza distinzione tra ricchi e poveri.” “Quando sono arrivata ad abitare in via Bagaron ho subito avvertito una cosa bellissima: sembrava che tutti gli abitanti fossero per me, che mi stimassero. E poi ho visto molte attenzioni per le persone malate, bisognose, isolate, ho visto gruppetti di donne attente ai casi sociali. Mia madre è rimasta vedova molto presto, mi ricordo che pochi parenti venivano a darci una mano, un conforto, ma c’era sempre la presenza discreta di tante persone del quartiere. Per me è vitale, alla mia età, continuare in questo impegno: altrimenti non mi resterebbe che rinchiudermi dentro casa a guardare la TV da mattina a sera! Per queste azioni di assistenza abbiamo sempre mantenuto un legame con le istituzioni: l’assistente sociale faceva gruppo con noi; in particolare, la dottoressa Cocchetto, specializzata in ginecologia, ci fu di supporto nel corso della nostra indagine sulla menopausa”. 150
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54-Do ciacoe (G. Brandoli) Vi riportiamo di seguito una piccola riflessione di questa signora sulla situazione attuale del quartiere; purtroppo la grande partecipazione dei decenni scorsi sembra un ricordo lontano, offuscato da un eccessivo individualismo e da una forza di solidarietà che si fa sempre più debole. “Non posso dire se il quartiere sia migliorato o peggiorato, non vediamo sostanziali peggioramenti o miglioramenti: il quartiere, con gli anni, è solamente cambiato. Il quartiere sta invecchiando e si fa più fatica a portare avanti i nostri principi, troviamo molto meno entusiasmo, meno spensieratezza, meno disponibilità; non c’è più la spinta potente di TUTTI i residenti. Forse anche noi stesse non siamo in grado di coinvolgere nuove persone e di dire certe verità: perché non facciamo più gruppo? Anche se ci sono nuove coppie giovani ci manca un ricambio generazionale. Vero è che oggi solitamente i genitori lavorano entrambi e che resta loro poco tempo da poter dedicare agli altri; ma sembrano non aver bisogno di noi e sembra non sentano di poter essere utili agli altri. I figli, in genere, ora vengono affidati di volta in volta alla scuola, alla parrocchia, all’associazione senza che ci sia un coinvolgimento diretto dei genitori”. 151
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Abbiamo chiesto al dott. Gabriele Scaramuzza, presidente della municipalità di Favaro dal 2005 al 2010, quali sono stati gli interventi di manutenzione e recupero urbani promossi dalla pubblica amministrazione nel quartiere. A partire dalla fine degli anni ’90 il Consiglio di Quartiere prima e la Municipalità poi hanno avviato un insieme di interventi finalizzati alla manutenzione e al recupero urbano di Villaggio Laguna. Tali interventi hanno avuto il duplice scopo di recuperare gli standards urbani in termini di mobilità e viabilità dall’altro, e di consentire il recupero di strutture e spazi per la promozione e partecipazione sociale. Si è quindi proceduto al rifacimento dell’anello pedonale che contermina il quartiere affiancando le vie Sabbadino e Dal Cortivo, sostituendo per la quasi totalità del suo sviluppo il precedente fondo in asfalto con materiali esteticamente più gradevoli, come il massello. Dove le condizioni patrimoniali e le risorse lo consentivano, si è inoltre provveduto all’asfaltatura di alcuni dei piazzali di sosta, in particolare sul versante occidentale del Villaggio. Una delle ultime opere approvate dalla Municipalità nella conciliatura 2005-2010 è inoltre l’avvio del rifacimento dell’asta pedonale centrale, che caratterizza insieme alla spina verde e alberata le zone interne dell’abitato, finanziando un primo stralcio corrispondente a circa un terzo dell’intera area, e progettando la totalità dell’intervento. Nella prima metà degli anni 2000 si procedette inoltre alla ristrutturazione completa dell’impianto per il gioco del calcio, realizzando ex novo un corpo di fabbrica che oggi ospita gli spogliatoi, i locali di servizio della struttura, la sede sociale dell’USC Campalto, grazie all’intervento dell’assessorato allo sport del Comune di Venezia. Nel tempo si è inoltre provvisto il campo di una piccola tribuna per gli spettatori e, da ultimo, nell’estate del 2009 è stato installato il nuovo impianto di illuminazione del campo, che è stato intitolato il 25 aprile dello stesso anno a Giorgio Tonolo, storico dirigente dell’associazione sportiva e abitante del quartiere. Nel 2008 è stato realizzata, con la collaborazione dell’assessorato all’ambiente del Comune di Venezia, la nuova area giochi, con la collocazione di giostrine per bambini e la predisposizione di apposita pavimentazione antitrauma.Tale area si trova accanto allo spazio di socializzazione realizzato dall’assessorato alla pubblica istruzione nel 2004, originale esperienza educativa di progettazione “dal basso” che ha coinvolto gli alunni della scuola primaria 152
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Don Milani che, affiancati da progettisti ed educatori hanno delineato le idee guida per le strutture (capanne di legno per la sosta, scacchiera gigante, vialetti per il transito) che sono state poi tradotte in progetti concreti e successivamente realizzati. L’edificio che ospita il laboratorio di doc. storica Giancarlo Ferracina, intitolato al Direttore che diresse per molti anni il Circolo Didattico di Campalto e fu protagonista dell’introduzione di molte sperimentazioni didattiche e pedagogiche. Il laboratorio, allestito dall’Associazione Culturale “Terra Antica” con il concorso dell’Amministrazione Provinciale di Venezia, riproduce i diversi ambienti di una casa rurale della campagna veneziana, e presenta una rassegna degli oggetti domestici, del lavoro, dello studio propri delle zone rurali della prima metà del ‘900, rappresentando un utile strumento per lo studio e la didattica della storia sociale locale. Lo stesso edificio della scuola Don Milani è stato oggetto di interventi strutturali da parte del Comune e della Municipalità, l’ultimo dei quali è stata la realizzazione del nuovo centro cottura per le scuole primarie di
55-Giochi nel parco (G.Brandoli)
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parte della terraferma veneziana e la conseguente ristrutturazione della mensa scolastica. Nel corso degli anni inoltre la Municipalità di Favaro Veneto ha provveduto alla manutenzione costante e progressiva delle strutture pubbliche presenti in Villaggio Laguna, in specie per quanto riguarda l’ex scuola Fratelli Cervi, sede di uffici e dell’omonimo gruppo anziani, una delle realtà più vitali e coese del quartiere. Da ultimo piace particolarmente citare il più ambizioso tra gli interventi effettuati, e cioè il recupero straordinario e la ristrutturazione per farne la casa delle associazioni dell’ex scuola media Antonio Gramsci. Tale edificio venne dismesso dagli usi scolastici nella prima metà degli anni ’90 e lasciato vuoto. A partire dalla metà degli anni 2000 la Municipalità avviò un progetto di manutenzione straordinaria suddiviso per tre stralci funzionali per destinare gli spazi dell’edificio alle realtà dell’associazionismo e del volontariato locale e cittadini. L’intervento è consistito nel rifacimento integrale del tetto della struttura, nella predisposizione degli impianti tecnologici, nel rifacimento degli spazi interni (dipintura, controsoffittatura, allestimento delle linee telefoniche e dati) per fare dell’edificio un vero e proprio luogo di produzione sociale e immateriale, destinato ad arricchire il tessuto civile di Villaggio Laguna e di tutta la Municipalità di Favaro Veneto.
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“Squilla il telefono. E’ un numero sconosciuto che ci cerca. Rispondiamo e siamo travolti da un fiume in piena: è Antonella, la presidente dell’Associazione Agape Onlus del Villaggio Laguna.Non ci conosciamo personalmente, ma dal tono di voce si capisce che è una donna piena di energia, tutto fare che racconta fitto fitto della sua esperienza di sognatrice prima, e fondatrice poi, di un’associazione per gli altri, per i disabili, che spesso dimentichiamo di considerare cittadini al pari nostro. L’associazione, nata al Lido di Venezia proprio da Antonella e suo marito, continua oggi, dopo 30 anni, al Villaggio Laguna, intorno ad una Casa Famiglia gestita dal figlio. Sono numerosissime le attività pensate non solo per i disabili, ma anche per il territorio. Ecco da dove sono partiti e perché sono approdati proprio al Villaggio Laguna. “L’avventura è iniziata nel marzo del 1980 quando Antonella e Francesco Bagagiolo fondarono l’Associazione Agape, originata da un loro sogno: realizzare un progetto che testimoniasse la solidarietà, la fratellanza, e l’amicizia con chi soffre, oltre che della propria insufficienza fisica, anche dell’emarginazione sociale. Tutto cominciò a piccoli passi, in particolare in favore delle persone ospitate all’Ospedale S. Camillo Alberoni, a Lido di Venezia, dove aveva sede, inizialmente, l’associazione. Un anno dopo, nel 1981, è nata una Casa Famiglia per offrire a più persone disabili un servizio alternativo al tradizionale ricovero in istituti o in ospedali. La Comunità fu concepita come una famiglia, appunto: una proposta di amore. Con il passare del tempo le iniziative e le attività dell’associazione si moltiplicarono e quindi l’Agape ha coltivato i volontari, gli educatori, gli obiettori prima e i giovani del Servizio civile poi con dei Corsi di Formazione mirati. Ha istituito il Centro Socio Riabilitativo dove i disabili, seguiti da persone esperte si sono impegnati nelle più svariate attività, tra cui: artigianato, teatro, incontri culturali e spirituali, corsi di musicoterapia e yoga. Nel 1999 il desiderio di ampliare i servizi a favore delle persone disabili è stato esaudito grazie al Comune di Venezia che ha messo a disposizione, al Villaggio Laguna di Campalto, una struttura adeguata ad accogliere un maggior numero di persone disabili. L’Agape si è trasferita quindi con la Casa Famiglia in terraferma dove, fin dall’inizio è stata accolta con grande benevolenza ed affetto. 156
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Tutte le iniziative continuano dal 1980 ad oggi, grazie alla collaborazione di volontari e giovani del servizio civile, coinvolgendo anche altre realtà. Oggi l’Agape è ben inserita nel contesto sociale e istituzionale del territorio, facilitando l’inserimento dei disabili in qualità di cittadini a tutti gli effetti, senza discriminazioni. Antonella e Francesco hanno saputo realizzare il loro sogno: diventare una grande famiglia”.
Tratto da “Il Prossimo” (Periodico della San Vincenzo Mestrina) del maggio 2009, questo estratto dell'articolo di Francesca Bellemo intitolato: “Dal Bagaron al Villaggio Laguna”, racconta il ruolo della San Vincenzo nella crescita di Campalto. La san Vincenzo di Campalto questo quartiere l’ha visto praticamente nascere. “Eravamo un gruppo di attivisti dell’Azione Cattolica – spiega Ilario Biasetton, classe 1931 - e negli anni ’70 facevamo anche un po’ di attività caritatevole. Ma il bisogno cresceva così abbiamo deciso di fondare una conferenza della San Vincenzo”. Baracche e Pavimenti. Era il 1974 e a Campalto c’erano molte famiglie povere: vedove senza nessuno, famiglie che provenivano dai bassifondi di Venezia e che vivevano in tuguri: “Ricordo una donna – racconta Ilario – che, mai sposata, viveva sola in una baracca. Avevamo talmente paura che le crollasse in testa da quanto era precaria che gliela abbiamo ricostruita noi. A un’altra famiglia abbiamo invece rifatto il pavimento perché nella baracca in cui vivevano non c’era. Per questi piccoli interventi ci autotassavamo ad ogni riunione e riuscivamo così a organizzare un po’ di borse spesa”. Il quartiere “Bagaron”. Un cambiamento a Campalto che significò un cambiamento anche per le attività della San Vincenzo fu la costruzione del quartiere “Bagaron”, una zona residenziale anche con case popolari dove si sono nel tempo trasferite numerose famiglie disagiate. “C’era prostituzione 157
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– continua Ilario – donne abbandonate dai mariti e con numerosi figli a carico, famiglie che vivevano di espedienti e di lavoretti instabili… E poi, in un secondo momento è arrivata anche la droga. Una donna viveva li, abbandonata dal marito, lavorava come addetta alle pulizie e poi fu anche licenziata. Aveva due figli drogati in casa e uno anche morì. Fu la san Vincenzo quella volta a sostenere le spese del funerale e starle vicino. E ancora adesso la seguiamo, ora che l’altro figlio vagabonda chissà dove e lei è completamente sola”. Oggi più di 30 famiglie vengono aiutate. Sono circa una decina le famiglie composte da donne sole con figli a carico attualmente seguite dal gruppo e una ventina di nuclei familiari che vivono di stenti. “Bagaron è la nostra croce – ammette Ilario – in tanti non riescono a pagare l’affitto, non riescono a pagare le bollette perché non hanno lavori stabili. E se a una famiglia staccano la luce e il gas durante l’inverno come possiamo non intervenire ad aiutarli come possiamo? Spesso abbiamo fatto da mediatori con le società di gestione, spiegando la situazione e cercando compromessi...”. 57/58-Prospettive (G.Brandoli)
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Preoccupa la disoccupazione. Oggi c’è solo qualche straniero in più, ma non tanti. “Siamo molto preoccupati in questo momento per i tanti che hanno perso lavoro> dice Ariella Battiston, new entry nel gruppo a sostegno di chi è attivo da 40 anni. Aiutiamo da un po’ di tempo una famiglia di nigeriani che vivono qui con due bimbe di 3 anni e 4 mesi e che hanno perso entrambi il lavoro. Se è difficile in questo momento trovare lavoro per gli italiani figurarsi per gli stranieri”. Le necessità del territorio aumentano, ma la San Vincenzo di Campalto non si ferma, anzi, è impegnata in numerose attività: “Distribuiamo – continua Ariella – le borse alimentari una volta al mese a una trentina di famiglie, le sosteniamo con piccoli contributi per le bollette, l’acquisto di libri scolastici, attrezzature per il lavoro, facciamo assistenza domestica ad alcuni anziani e da prima dell’estate siamo presenti anche alla casa di riposo Anni Azzurri. E poi ci sono i tradizionali momenti di ritrovo durante l’anno come il pranzo con le famiglie assistite e la festa dell’anziano in programma per il 4 ottobre con oltre 100 persone. Il più delle volte non si tratta di aiuto materiale, ma anche solo di compagnia, di sostegno spirituale, di una parola in più. E’ quello che cercano le persone stesse che aiutiamo presentandosi qui a ritirare le borse alimentari con largo anticipo, apposta per scambiare due chiacchiere…”. 159
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Tiziana Giora e Alessandro Ragazzo fanno parte della prima generazione del CEP, quelli che sono nati e cresciuti in questo quartiere. Mi raccontano come hanno vissuto serenamente, con pochi soldi e con molta fantasia, la loro infanzia al Villaggio Laguna. “Il quartiere è molto cambiato – racconta Tiziana - ma il verde degli alberi e dei prati è sempre stato il colore dominante. Mi ricordo che, al posto del campetto da calcio, c’era grande bosco e una bellissima casa colonica con una rivendita di latte. Nei primi anni ‘70 la zona commerciale del Villaggio Laguna non era ancora stata costruita e alcuni hanno improvvisato dei negozi nei garage, ma non era una attività abusiva, avevano tutti la licenza! Ci si arrangiava come si poteva in questo quartiere appena nato in cui mancava tutto, non c’erano nemmeno i viali, le stradine erano ancora tutte in terra battuta!” Poi interviene Alessandro che ricorda i giochi che faceva con i suoi amici: “Quando ero piccolo io, i bambini erano tantissimi, solo noi eravamo 7 fratelli e solo nel mio palazzo eravamo quasi 40 bambini! Giocavamo a baseball, a nascondino, a palla barattolo, a guardia e ladri, a monopoli sotto il portico del condominio. Giocavamo anche a “tabee” ed era questo forse il gioco più ingegnoso: con il pongo costruivamo tipo dei frisbee, e lo scopo del gioco era quello di lanciarli per far cadere una colonna di barattoli di plastica. Mio fratello ogni tanto andava ad aiutare il prete nei piccoli lavoretti che si inventavano per racimolare qualche soldo per aiutare la gente. Facevano la raccolta di carta e di vetro casa per casa e poi andavano a rivenderli alla Vetrital, non guadagnavano molto, ma era anche un modo per tener impegnati i ragazzi”. Entrambi sono riusciti a trasmettermi un'emozione particolare, una sorta di nostalgia verso i tempi ormai passati mischiata alla rabbia verso la forza distruttrice che si è portata via, a poco a poco, tutti i loro compagni di giochi: la droga. “la droga si è portata via tutto, ragazzi, entusiasmo, partecipazione. Tutto quello che negli anni precedenti era stato fatto per questo quartiere è andato distrutto. C’erano spacciatori da tutte le parti e tutto alla luce del sole. Possibile che non si potesse fare qualcosa in più per salvarli questi ragazzi? 160
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La gente che viveva questa situazione da fuori, criticava e giudicava ma viverla da dentro era tutta un’altra cosa: bene o male ci conoscevamo tutti e noi bambini non avevamo paura di girare da soli per il quartiere. Non erano persone pericolose, erano persone che andavano aiutate” Due generazioni a confronto. Se i bambini di ieri dovevano far i conti con le conseguenze della tossicodipendenza, i bambini di oggi devono affrontare un altro, non meno pericoloso problema: la dipendenza da gioco. Questo è quello che traspare dai pensieri espressi da questi tre giovani abitanti del Villaggio Laguna. Chiara dice: “Qua, al Villaggio Laguna, si vive bene e con tranquillità perché una zona molto alberata. A me piace tanto perché per me, che abito a Mestre, non è facile vedere così tanti alberi e prati in un'unica zona. Mi piacciono anche le persone anziane che, anche se hanno molti anni, vengono al parco a prendersi una boccata d'aria, a chiacchierare con altre persone, sia anziane che non, e non si demoralizzano anche se hanno molti problemi o se gli è venuta a mancare una persona a loro cara. Mi piace molto la chiesa perché è piccola, ed è questo che la rende speciale per me. Infatti le chiese grandi non mi piacciono perché, saranno piene di quadri di motivi religiosi ma, quello che per me manca è l'unione tra le persone. La cosa invece che non mi piace sono le persone che si drogano o bevono esageratamente, oppure ci sono delle persone che sprecano il loro stipendio giocando con le macchinette”. Giulia dice: “Nel quartiere ci sono state molte giornate significative, ma io ne ricordo soprattutto una anche se forse non è molto importante. Mi ricordo che alcune signore avevano fatto un banchetto con alcune cose da mangiare e questo banchetto lo aveva organizzato un signore che doveva candidarsi alle elezioni. - poi aggiunge - Del Villaggio Laguna mi piace praticamente tutto: il verde, i giochi, stare giù con i miei amici, vedere tutti i bambini che giocano e anche gli anziani che nelle belle giornate si trovano tra di loro per chiacchierare e stare in compagnia. Mi piace anche il nome del Viale dove ci sono i diritti e i doveri dei bambini. La cosa che mi da un po' fastidio sono le persone che si ubriacano e le persone che giocano troppo spesso alle macchinette nei bar” 161
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Matteo ci racconta come trascorre le sue giornate al Villaggio Laguna: “Quando alla mattina mi alzo per andare a scuola, faccio un giro del quartiere in bici, poi al pomeriggio vado fuori a giocare con i miei amici e insieme a loro io non ho paura di niente perché questo quartiere non ha pericoli! Ci sono un mare di cose che apprezzo di questo quartiere, ma una mi fa più piacere delle altre: gli alberi, il verde. Io non apprezzo invece due cose: vedere che certe persone ubriache certe volte litigano per cose inutili e una certa persona, che sembra abbiano arrestato, che dava fuoco alle macchine. Il quartiere Villaggio Laguna è un mare di gioia, di divertimento e di benessere per tutti e per tutte le età. Però nel quartiere c'è una cosa che non mi piace per niente: le persone che giocano con le macchinette che spendono molti soldi solo per cercare di guadagnarne altri.
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A ricordo di questo anniversario. Alla scuola “Don Milani” (I.C. Gramsci di Campalto) nel Villaggio Laguna, nell’ambito del progetto “Itinerari Educativi” del Comune di Venezia gli alunni hanno dipinto sulla parete esterna della scuola un murales a ricordo del quarantennale del loro quartiere. Coordinati dalla pittrice Nadia Tagliapietra i bambini hanno raffigurato ciò che il luogo dove vivono suggerisce loro: un luogo tranquillo, sereno, circondato da una natura unica e suggestiva. E’ la nuova generazione che lo vive così: noi adulti facciamo in modo di conservarlo e di migliorarlo; facciamo in modo di lasciare un esempio perché, in futuro, possano avere la consapevolezza che solamente con il loro impegno riusciranno a trasferirne il valore ai propri figli!
60-Murales per il quarantennale alla Don Milani (G.Brandoli)
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Postfazione
Concepito alla fine degli anni ’60, terminato nel 1972. Esteso per 25 ettari di zone prima barenicole e agricole, alla fine conterà 900 appartamenti. Fino agli anni ’90 non venne riconosciuto che per una sigla: CEP (come avvenne, del resto, per molti dei nuovi quartieri della terraferma concepiti in quegli anni). Quella del Villaggio Laguna è un’esperienza urbana che si fa immediatamente esperienza sociale e di comunità, ed è anche disseminata di contraddizioni: rivolto idealmente e concretamente verso la città d’acqua, il nuovo quartiere è concepito per ospitare i tanti nuclei familiari che da esso vengono via, o che con esso poco avranno a che fare, perché impegnati i capi famiglia nel lavoro del polo industriale e chimico di porto Marghera. Luogo di contraddizioni, quindi, com’è inevitabile dove si riuniscono diverse migliaia di persone provenienti dalle varie località della galassia periurbana veneziana. E per molto tempo anche luogo di criticità, di isolamento, perché il quartiere-isola è stato concepito come introflesso, circoscritto dall’anello viario che lo contermina e lo differenzia da ciò che gli sta d’intorno, dalle case basse che stridono con le torri che aggettano verso l’alto. Eppure, è nel cuore del quartiere che sedimentano straordinarie esperienze di partecipazione e di civismo, perché i suoi stessi abitanti si ostinano a pensare che a loro non basta risiedere in quel luogo: essi vogliono abitarlo, renderlo davvero parte della nuova città che nasce e, soprattutto, offrire a tutti e in particolare ai più giovani opportunità concrete per vivere e crescere. Il cambio del nome da CEP a “Villaggio Laguna”, intorno alla metà degli anni ’90, è solo la testimonianza ultima di quello sforzo collettivo: abbandonare l’anonimato urbano per riconoscersi pienamente nella città, mantenendo nei confronti di questo luogo un affetto remoto e inconsapevole che, negli usi linguistici (spontanei e quindi autentici) fa sì che esso sia, per i suoi abitanti, sempre e semplicemente “il” quartiere. Gabriele Scaramuzza
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Ringraziamenti
L’idea di questa pubblicazione è nata a gennaio 2010 dopo aver preso contatto con il gruppo “I fioi del CEP” che stavano organizzando i festeggiamenti per il quarantennale del quartiere. Attorno a questa idea si sono presto concretizzati l’entusiasmo e la forte motivazione di alcuni giovani Campaltini che con la loro determinazione ne hanno permesso la realizzazione nonostante gli strettissimi tempi a disposizione. Per quest’ultimo motivo è certo che le nostre ricerche non abbiano potuto coinvolgere tutti coloro, e sono molti, che avrebbero potuto fornire la loro testimonianza e di questo ci rammarichiamo. Ringraziamo di cuore Chiara Foffano, Carlo Albertini, Elena Brugnerotto, Francesca Delle Vedove ed il “meno giovane”, ma solo anagraficamente, Giovanni Albertini che hanno accolto l’invito dell’Associazione Blog Territori & Paradossi a rendersi protagonisti nella realizzazione di questo progetto. Un sentito grazie all’architetto Giorgio Sarto, coordinatore di Mestre Novecento, per il suo preziosissimo aiuto nel reperimento e nella redazione della documentazione riguardante la nascita del CEP. Desideriamo inoltre ringraziare tutti coloro che attraverso le loro testimonianze hanno fatto sì che queste pagine pulsassero della vita che qui è stata vissuta. Caterina Albano, Vito Amatulli, Mario Agatea, Loris Andrioli, Don Alfredo Basso, Francesca Bellemo ed il periodico “Il Prossimo”, Lucio Bisello, Emilio Boldrin, Nedda Bolzonella, Mario Campolucci, Roberto Carisi, Giovanni Cipollato, Giovanni Coianiz, Mario Defina, Maurizia Fagherazzi, Don Gianni Fazzini, Primo Finotello, Pier Paolo Gelussi, Giovanni Giada, Tiziana Giora, Don Lidio Foffano, Don Gianni Manziega, Antonietta Mantovani, Carmela Pamio, Tito Pamio, Giancarlo Pellizzer, Alessandro Ragazzo, Beniamino Ruffato, Gabriele Scaramuzza, Anna Sfriso, Gianna Vivian, Francesco Zane Associazione Agape, I fioi del CEP, Associazione AUSER Il Gabbiano di Campalto, Comune di Venezia - Municipalità di Favaro. 166
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Sommario
Prefazione
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PARTE PRIMA – I PRIMI ANNI • • • • • • • • • •
La consegna delle chiavi (dal diario di Vito Amatulli) Atlante urbanistico sul CEP di Campalto di Giorgio Sarto Testimonianze: Loris Andrioli Testimonianze: Don Gianni Fazzini Primi insediamenti (dal diario di V. Amatulli) Testimonianze: Beniamino Ruffato La sfortunata storia della CT (dal diario di V. Amatulli) Un ricordo di Giovanni Giada La prima neve (dal diario di V. Amatulli) Testimonianze: Giovanni Cipollato
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PARTE SECONDA – VITA DI QUARTIERE • • • •
La scuola: il banco dell’integrazione: testimonianze di Francesco Zane,Gianna Vivian, Caterina Albano, Nedda Bolzonella, Giovanni Coianiz Testimonianze : Maurizia Fagherazzi Testimonianze: Giancarlo Pellizzer Testimonianze: Carmela Pamio Olivieri
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Testimonianze: Anna Sfriso Testimonianze: don Alfredo Basso, don Gianni Manziega, Lucio Bisello, Mario Defina Testimonianze: Primo Finotello Testimonianze: Tito Pamio Testimonianze: Pier Paolo Gelussi Un nuovo nome per il CEP Testimonianze: Roberto Carisi Testimonianze: don Lidio Foffano Testimonianze: Antonietta Mantovani detta Imer L’Osellino, il nostro fiume Associazione GUADO Testimonianze: Gabriele Scaramuzza Associazione Agape Articolo tratto da “Il prossimo” Testimonianze: Tiziana Giora e Alessandro Ragazzo Testimonianze: i bambini Chiara, Giulia, Matteo Il murales alla Don Milani
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Postfazione
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Ringraziamenti
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A.GRAMSCI
DAL CEP AL VILLAGGIO LAGUNA
40 anni di storie immagini e voci
40 anni di storie immagini e voci
"Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità della nostra mente di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sè e del tutto, chi sente la relazione con gli altri esseri. Cosicchè essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia."
DAL CEP AL VILLAGGIO LAGUNA
L’associazione culturale no-profit BLOG - Territori & Paradossi si è costituita ad inizio 2006 a Campalto (VE). Fin dall’inizio la filosofia del gruppo si è orientata ad affrontare le contraddizioni ed i paradossi dei nostri tempi attraverso le espressioni dell’arte e della cultura. Le iniziative promosse in questi primi anni hanno prodotto lo sviluppo del tema della fotografia mediante l’organizzazione di mostre, concorsi, corsi e laboratori; la promozione di spettacoli teatrali, l’apertura a collaborazioni con altri gruppi ed Associazioni e con la locale Amministrazione. Queste iniziative hanno suscitato il consenso della cittadinanza ed attirato l’attenzione di numerosi giovani. Dalla fine del 2009 gestisce per l’Associazione “Auser Il gabbiano” il notiziario locale “La pagina di Campalto”. BLOG – Territori & Paradossi si propone alla collettività come associazione radicata nel territorio, come insieme di persone legate tra loro dalla passione per l’arte e dalla convinzione della forza formativa della cultura.
BLOG - Territori&Paradossi
associazione culturale Venezia
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