Rosella Corda prefazione di Ubaldo Fadini
SUL PIANO OBLIQUO
immagini per una soggettivazione possibile
tra Gilles Deleuze e Gilbert Simondon
Saggio di epistemologia post-antropologica
ROSELLA CORDA Prefazione di Ubaldo Fadini
SUL PIANO OBLIQUO: IMMAGINI PER UNA SOGGETTIVAZIONE POSSIBILE, TRA GILLES DELEUZE E GILBERT SIMONDON
Saggio di epistemologia post-antropologica
All’altalenanza Dell’intreccio virtuoso Tra affetti tristi e affetti di gioia. Grazie
Indice
Prefazione di U. Fadini............................................................................................................................13 Introduzione ........................................................................................................................................... 19 I. Capitolo ................................................................................................................................................. 27
Immagini per un inizio. Lo spazio iperbolico, il vortice del soggetto e le vertigini su piano di immanenza ............................................................................................................................................. 27 1.1.
Immagini per un inizio ............................................................................................................ 27
1.2. Sulle immagini ............................................................................................................................. 44 1.2. Rifrazione temporale delle immagini .......................................................................................... 47 1.3. Il piano ricurvo delle nuove geometrie....................................................................................... 64 1.4. Il metodo dell’intuizione filosofica, l’otre di Klein e l’unico piano di una durata molteplice ...... 80 1.5. Il bergsonismo. La differenza reale. Il problema del soggetto .................................................... 88 II. Capitolo ............................................................................................................................................. 107
Immagini per un inter-mezzo: la forza della dissonanza e il salto quantico del principioindividuazione. ...................................................................................................................................... 107 2.1 Dalla forza in campo al vitale campo di forze ............................................................................ 108 2.2. Nietzsche, il giardino di ninfee, la forza della dissonanza ........................................................ 118 2.3. «Ancora non riesco a credere che Dio giochi a dadi»… (A. Einstein) ........................................ 137 2.4. Il salto quantico dell’individuazione ......................................................................................... 157 2.5. G. Bachelard e il costruttivismo ................................................................................................ 190 III. Capitolo ............................................................................................................................................ 195
Immagini per una soggettivazione possibile: un po’ di possibile se no soffoco… ................................ 195 3.1. Lucori differenziali e immagini-cristallo..................................................................................... 196 3.2. Allagmatica per una soggettivazione possibile ......................................................................... 198 3.2.A Individuazione fisico-biologica ............................................................................................ 204 3.2.B. Dall’individuazione psichica – alla soggettivazione ............................................................ 210 3.2.B L’individuazione sociale. Il lavoro come principio di una post-antropologia. Le fasi dell’essere nella soggettivazione.................................................................................................. 217 Bibliografia generale .............................................................................................................................223
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Indice delle figure
Figura 1. La cittĂ che sale .........48
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Figura 2. Schema 1 - Materia e memoria................................. 54
Figura 3. Pollock, Particolare.................................................................................................................................. 55
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Figura 4. Schema 2 - Materia e memoria........ 60 Figura 5. Otre di Klein ............................................................................................................................ 79 Figura 6. Nastro di Mรถbius .................................................................................................................... 79
Figura 9. R. Magritte, La Riproduzione vietata, 1937. ..93
Figura 10. Iperboloide o "cuffia" di Beltrami............................ 105
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Figura 11.Fotogramma dal film Inception, di C. Nolan, 2010......................................................................... 105
Figura 12. A. Micallef (Raw Intent. No. 5) ........................... 108
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Figura 13. C. Monet, Dalla serie delle Ninfee (olio su tela) ...................................................................................... 123
Figura 14. Otre di Klein ................................................................ 136
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Figura 15. Tony Cragg, Particolare scultura .......................... 137
Figura 16. Fotogramma del film Inception, Nolan, 2010 ........ 137
Figura 17. Schema 1 Esperimento mentale del microscopio di Heisenberg ............................................................................................................................................................. 146
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Figura 18. Schema 2, Esperimento mentale del microscopio di Heisenberg ................................................................................................................... 146
Figura 19. Tomas Saraceno, Stillness in motion, 2007 (particolare dell’istallazione) ................................................................................................................ 196
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Prefazione
Post-antropologia. Per un altro po' di possibile
In questo testo di Rosella Corda, teso tra fuochi virtuali e “lucori differenziali”, tra Bergson e Deleuze, passando attraverso le essenziali modalità di individuazione delineate da Gilbert Simondon e gli sfondi assicurati da dinamiche e tensioni soprattutto della fisica contemporanea, colpisce l'attenzione dedicata a quel motivo dell'immagine che nel pensiero francese del ventesimo secolo è spesso stato ripreso per mettere in discussione le diverse teorie del soggetto che spesso finivano per restituirlo ad un destino di irrimediabile assoggettamento. Corda, pur comprendendo fino in fondo le ragioni di un conseguente e critico anti-soggettivismo in teoria e in pratica, prende però posizione a favore di un nuovo modo di pensare l'umano, la soggettività di conoscenza e di azione, collocandolo all'interno di una processualità che lo com/prende infine come parte, come elemento provvisorio e revocabile, nei suoi assetti e nelle sue configurazioni, di relazioni mobili, costitutivamente metamorfiche. In questo senso, con una punta di diffidenza radicale nei confronti di qualsiasi pretesa di identificazione stretta, rigida e cioè inevitabilmente conforme a, si delinea un'idea di soggetto che lo coglie come una composizione mobile di elementi eterogenei, che si relazionano tra loro in termini collaborativi e anche socialmente produttivi. E' un umanesimo delle singolarità quello che a me preme di rilevare anche nelle pagine che seguono, pure in vista di un apprezzamento del loro comporsi – delle singolarità – con il non umano, in qualsiasi sua veste di presentazione. In tale ottica, appare decisiva la presa in carico del valore teorico del confronto di Deleuze con Simondon, che attraversa molte delle pagine di questo testo. Si sa che in Simondon è centrale il rapporto individuo-individuazione, con la qualifica essenzialmente tecnica dell'individuo “puro”. Operazione tecnica e individuazione vanno tenute insieme ed è così che si può cercare di determinare in senso antropologico, nonostante tutto..., una indagine, come quella simondoniana, che presenta inizialmente la nozione di individuo come qualcosa di fondamentalmente “neutro”. Lo studioso francese insiste sul carattere primario dell'individuazione, rispetto alla quale l'individuo si presenta come una figura, una figurazione, una “fase dell'essere”, che presuppone quindi il “dato” di una “realtà preindividuale”. Già in questi termini non può che balzare agli occhi il rifiuto di una modalità di comprensione dell'individuo che lo vede soltanto di/segnato all'interno di una determinata
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successione temporale: principio di individuazione, operazione di individuazione, manifestazione dell'individuo costruito/costituito. Simondon considera invece l'individuo come una realtà parziale, di relazione, con un singolare – sempre – equilibrio in riferimento alla questione “classica” della conservazione di sé, della sopravvivenza: si direbbe in altri contesti di indagine. Così si può leggere: «Anche dopo l'individuazione, l'individuo non esiste in totale isolamento, perché l'individuazione non produce soltanto l'individuo, ma la coppia individuo-ambiente. L'individuo è quindi relativo in un duplice senso: perché non è tutto l'essere, e perché deriva da uno stato dell'essere in cui non esisteva né come individuo, né come principio di individuazione. L'individuazione è considerata, così, come soltanto ontogenetica, in quanto operazione dell'essere completo. L'individuazione deve essere tenuta quindi per una risoluzione parziale e relativa, che si manifesta in un sistema che contiene potenziali e presenta una certa incompatibilità rispetto a se stesso: un'incompatibilità consistente in forze di tensione, come pure nell'impossibilità di una interazione tra i termini estremi delle dimensioni»1. L'ontogenesi sta per il divenire dell'essere, sottratto così alla presa mortifera assicurata dalla sua identificazione sommaria con la nozione di “sostanza”, con il suo effetto di imprescindibile modellamento. L'essere diviene sfasandosi, individuandosi come “fasico”, secondo fasi che si susseguono risolvendo provvisoriamente un'incompatibilità mai definitivamente superabile, costituita da potenziali, da forze di tensione, da forze di forze. In tali termini, l'individuazione si rivela come l'operazione specifica dell'essere, un'operazione che non si conclude mai visto che l'essere stesso si presenta inizialmente appunto come sovrasaturo per poter determinarsi ininterrottamente nella suddivisione di parti, nella determinazione di individuo “e” ambiente. Lo studioso francese sostiene che il vivente individuato conserva un potenziale d'individuazione, che si articola poi attivamente, in grado di raffigurarlo come una specie di “teatro”, nel quale si presenta in molteplici modi la realizzazione di un equilibrio metastabile indispensabile per far sì che i giochi della vita non siano definitivamente chiusi. Ciò che a Corda preme di questo pensiero della sfasatura è l'attenzione che viene prestata alla dimensione dell'ambiente, laddove i termini della spazialità “e” del divenire vengono compresi a partire da una ricca batteria di saperi, da quello filosofico a quello fisico-matematico, da quello antropologico a quello più propriamente di ordine biologico, in un senso tale da ricondurli a particolari articolazioni del processo dell'individuazione, ricomprendendoli in esso, a momenti di suddivisione dell'essere, andando così in direzione completamente opposta rispetto ad una sostanzializzazione dell'individuo di fronte ad un “mondo” esterno e fondamentalmente straniero, “estraneo”. Non possono mancare quindi rimandi precisi a ciò che collega precisamente l'individuo all'ambiente, alla percezione (e allora non si può non menzionare la “lezione” di Maurice Merleau-Ponty), ma quello che a me preme è segnalare, in questo 1 Gilbert Simondon, L'individuazione psichica e collettiva, prefazione di M. Combes, postfazione e cure di P. Virno, DeriveApprodi, Roma, 2001, p.27.
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testo, l'affiorare dell'idea di una complicazione dell'individuo che investe anche la sfera affettiva, emotiva, ciò che delinea una sorta di risonanza interna dell'individuo a se stesso, indispensabile per consentirgli di assumere con consapevolezza, sul piano dell'umano, la sua parzialità di fondo, il suo essere parte di parte. E' così che si delinea ciò che può essere inteso come “vita psichica”, vale a dire un susseguirsi di individuazioni connesse con delle problematicità e con il compito della loro risoluzione, incessantemente comunicato/trasmesso. Qui si coglie un punto di notevole interesse che consiste nel non risolvere la vita psichica sul piano dell'essere individuato “isolato”, visto che essa consente di partecipare ad una individuazione più ampia, quella del “collettivo”, con la sua assiomatica “che risolve la problematicità psichica”. Si possono menzionare delle pagine assai significative di Simondon sul carattere inequivocabilmente negativo di qualsiasi problematizzazione “in solitaria” dell'essere individuato come “isolato” e sull'angoscia non semplicemente come tonalità emotiva ma anche come “operazione senza azione”. Ciò che però più colpisce e che Corda traduce in un senso “post-antropologico”, che a me appare essere un segnale di novità teorica, è l'affermazione di una concezione dell'essere che non possiede una vera e propria unità di identità. Scrive ancora Simondon: «L'individuazione va intesa come divenire dell'essere, non come un modello dell'essere, destinato a esaurirne il significato. L'essere individuato non è tutto l'essere né è l'essere primo; invece di cogliere l'individuazione muovendo dall'essere individuato, bisogna cogliere l'essere individuato muovendo dall'individuazione e l'individuazione muovendo dall'essere pre-individuale, suddiviso secondo molti ordini di grandezza»2. Nella proposta post-antropologica di Corda, corredata da una seria indagine di segno indubbiamente epistemologico, la presenza di Simondon è decisamente importante ed è per tale motivo che a me sembra opportuno ribadire il significato del confronto, sempre da parte dell'autrice di questo testo, con la valorizzazione filosofica della teoria dell'individuazione rintracciabile in alcune pagine di Deleuze: c'è infatti una recensione a L'individu et sa genèse psycho-biologique, intitolata Più di uno: l'ontologia individuale di Gilbert Simondon (pubblicata nella “Revue philosophique de la France et de l'étranger”, 1966). Ma c'è soprattutto, prima di riportare l'attenzione al filosofo della Logica del senso e della “logica della sensazione”, un altro momento della riflessione simondoniana, che a me ha sempre particolarmente colpito, che riguarda una delle ragioni che rendono quasi inevitabile l'articolazione dell'antropologia filosofica, il suo farsi “post” (e quasi “pop”...), in vera e propria antropologia della tecnica, di più: in un pensiero complessivo sulla tecnica. Nel secondo capitolo, Individuazione e invenzione, della Nota complementare sulle conseguenze della nozione di individuazione, contenuta in L'individuazione psichica e collettiva (ma il rinvio potrebbe essere ampliato ai testi decisivi compresi in Sulla tecnica)3, Simondon 2 3 2017.
Ivi, p.35. Cfr. Gilbert Simondon, Sulla tecnica, tr. e cura di Antonio Stefano Caridi, Orthotes, Napoli-Salerno,
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rimarca il valore dell'attività tecnica come «una introduzione all'autentica ragione sociale e una iniziazione al senso della libertà individuale», prestando così particolare attenzione all'operazione tecnica proprio come condizione essenziale di individuazione: con lo «sforzo tecnico», da cogliersi come un «dialogo diretto tra l'individuo e l'oggetto», si concretizza infine un rapporto con il mondo che vede il gesto umano tradursi nell'oggetto tecnico e quindi collocarsi nel divenire dell'essere. Questa sottolineatura dell'uomo come «animale tecnico» (e non soltanto “politico”), l'apprezzamento pieno della sua operatività tecnica, ha come suo obiettivo quello di segnalare come l'individuo agente non sia destinato ad un'unica (o comunque poche, ridotte normativamente, pretese quindi quasi indiscutibili) realtà (“comunitarie”): «L'operazione tecnica realizza, infatti, ciò che il lavoro e le altre funzioni comunitarie non possono realizzare: la reattività dell'atto. L'attività costruttiva dà all'uomo l'immagine reale del suo atto, perché ciò che è attualmente oggetto della costruzione diventa, grazie a una permanente mediatizzazione, mezzo di una costruzione ulteriore; proprio il carattere continuo e aperto dello sforzo tecnico consente all'individuo di avere una coscienza reattiva della propria azione, e di essere la sua propria norma. (…) La normatività tecnica modifica il codice dei valori di una società chiusa: vi è infatti una sistematica dei valori, e ogni società chiusa che, ammettendo una tecnica nuova, introduce i valori inerenti a tale tecnica, opera per ciò stesso una nuova strutturazione del suo codice dei valori. Siccome non vi è comunità che non utilizzi alcuna tecnica, o non ne introduca mai di nuove, non esiste comunità completamente chiusa o inevolutiva»4. Da queste ultime righe di Simondon emergono alcuni temi di grande attualità: la tecnica come dimensione di ulteriorità rispetto al lavoro vero e proprio, l'idea di una sociologia “dinamica” in grado di rilevare la specificità delle tecnologie e soprattutto l'immagine – elaborata anche da Corda – di una relazionalità costitutivamente aperta, elastica, supportata comunicativamente dalla stessa dia/logicità dell'operare tecnico. Al di là della messa in luce del valore del dialogo tra l'individuo e la tecnica, meglio: l'oggetto tecnico, che istituisce di fatto un ambito “trans-individuale” dove si dà finalmente la possibilità di una libertà concreta, materiale, e anche senza richiamare la proiezione di queste argomentazioni simondoniane su parte delle riflessioni di Deleuze e Félix Guattari a proposito della distinzione tra utensile e macchina, ciò che mi preme ora è ritornare sull'altra componente della proposta post-antropologica, di una antropologia della relazione, della valorizzazione di ordine cognitivo, sensibile, sociale della parzialità, dell'essere parte, cioè sul Simondon “di” Deleuze. Quest'ultimo apprezza la presentazione dell'individuazione come “condizione preliminare”, il che permette di sottoporre a critica la riflessione corrente sul principio di individuazione, la quale lo riferisce solitamente a un individuo già definito, già realizzato, così pensandolo come posto dopo l'operazione individuante, con il suo “principio” di supporto imprescindibile. Deleuze osserva anche come, così facendo, si metta un po' dappertutto 4
Gilbert Simondon, L'individuazione psichica e collettiva, cit, pp.208-209.
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l'individuazione, indicandola come un carattere coestensivo all'essere: in tal modo l'essere – «incluso il momento primo dell'essere fuori dal concetto» – viene ridotto proprio all'individuazione. E ancora: sempre il filosofo di Differenza e ripetizione mette in evidenza come l'individuo non possa che essere contemporaneo alla propria stessa individuazione e come questa non possa che essere contemporanea al principio, che in tal modo si rivela effettivamente genetico e non meramente riflessivo. In questi termini l'individuo si presenta non soltanto come risultato ma anche come «mezzo di individuazione», cioè in modalità che ce lo restituiscono come situato, determinato, in relazione all'essere, come movimento/momento di continuo transito dal pre-individuale all'individuo medesimo. E' questo transito che interessa qui Corda, in quanto lo considera come un processo di arricchimento, di combinazione, spesso imprevedibile, con altri elementi che entrano in gioco, in un senso tale da ribadire come il principio vero e proprio sia appunto l'individuazione, il che dà il respiro dovuto ad una indagine che si presenta sotto la veste di una antropologia relazionale e dunque irriducibilmente post- rispetto alle antropologie (di segno filosofico) tradizionali. Le difficoltà della filosofia nei confronti del principio di individuazione derivano certamente, oltre che da una difficile comprensione della portata teorica di determinate conquiste in campo fisico, biologico, psicologico, dal mancato o trascurato riconoscimento del carattere necessario dell'esistenza di un sistema metastabile (dovuto alla “disparazione” tra almeno due ordini di grandezza, di realtà, che ancora non interagiscono comunicativamente) colto come condizione preliminare dell'individuazione. La “disparazione” sta per uno stato di asimmetria, indica un'energia, dei potenziali energetici, che può far sussistere un sistema: quando si parla di sistema metastabile, si indica proprio una strutturazione dell'eterogeneo, di differenze “intensive” che comunicano nel regime dell'estensione. La condizione di principio dell'individuazione consente allora di distinguere tra singolarità e individualità, tra l'essere pre-individuale (metastabile), provvisto di singolarità, corrispondenti a potenziali, e l'essere individuale. Disparità ed energia potenziale risultano come delle nozioni che sono ancora più profonde di quelle di opposizione e campo di forze e accompagnano nel modo migliore uno sforzo di presentazione dell'individuazione come organizzazione “e” (insieme) soluzione di una determinata problematicità, come attualizzazione di energia potenziale o come integrazione di singolarità. Scrive Deleuze: «Questa risoluzione deve essere concepita in due modi complementari. Da una parte, come risonanza interna, ovvero come “la modalità più primitiva di comunicazione tra realtà di ordine differente” (e noi crediamo che Simondon sia riuscito a fare della 'risonanza interna' un concetto filosofico estremamente ricco, suscettibile di ogni sorta di applicazioni, anche e soprattutto in psicologia, nell'ambito dell'affettività). Dall'altra parte, come informazione che stabilisce a sua volta una comunicazione tra due livelli disparati, l'uno definito da una forma già contenuta nel recettore, l'altro definito dal segnale apportato dall'esterno (ritroviamo qui le preoccupazioni di Simondon riguardo alla cibernetica, e tutta una teoria della 'significazione' nei suoi rapporti con l'individuo). A ogni modo, l'individuazione appare
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proprio come l'avvenimento di un nuovo momento dell'Essere, il momento dell'essere provvisto di fasi, accoppiato a se stesso»5. Deleuze è soprattutto attento all'analisi simondoniana dei differenti tipi di individuazione, da quelli fisici e vitali a quelli che comportano investimenti massicci di realtà pre-individuale per la soluzione di determinate problematicità, ad esempio come nell'individuazione psichica o in quella specifica del cosiddetto “collettivo trans-individuale”. A ciò si aggiunge la presa d'atto del delinearsi di una “visione morale del mondo”, tesa a rimarcare il valore della combinazione del pre-individuale, visto come “fonte di stati metastabili futuri”, con l'individuo, al quale di fatto si richiede di non restare catturato all'interno della propria particolarità legata al momento dato, di non rifiutare la comunicazione (vitale per l'informazione). Un'etica si fa strada nel momento in cui l'informazione, il significato, consegna la possibilità concreta di sormontare la disparazione degli elementi (anche mediante il farsi dell'“interno” come “esterno”). E' a questo punto che Deleuze avanza la sua critica a tale modalità etica che si concretizza in un movimento che va dal pre-individuale al trans-individuale, attraverso l'individuazione, in quanto così facendo sembra, a suo modo di vedere, che si riproponga la “forma” di un “sé” (“di un Io”) che entra in contraddizione con l'idea stessa della disparazione o dell'individuo “sfasato e polifase”. Certamente, al di là della critica a tale “visione morale”, ciò che il filosofo francese rimarca dell'impresa teorica complessiva di Simondon è l'innovativa elaborazione di una ontologia che presenta l'essere non come “Uno”, dato che come essere pre-individuale è metastabile, più di uno, e come essere individuato è appunto “polifase”, multiplo in continuo divenire. E' questo quadro concettuale a interessare evidentemente Corda, che nel suo testo osserva acutamente tutto ciò che può dare ulteriore sostanza al rilievo deleuziano, nella direzione cioè della rilevazione di come il complicarsi della traduzione dell'ontologia in una raffigurazione tematica tradizionalmente antropologica, disposta eticamente, possa essere in parte rimodulato, gestito al meglio, attraverso un'altra idea di antropologia, differente da quella pure “moderna”: una antropologia dinamica, relazionale, metamorfica, un pensiero “dei” processi innanzitutto di soggettivazione (non esauribili dalle pratiche di assoggettamento oggi imperanti), in un senso che esalti il loro carattere virtuale dal lato appunto del produrre incessantemente nuove figurazioni, immagini differenti, un altro po' di possibile, per dirla infine con Deleuze.
Ubaldo Fadini
5 Gilles Deleuze, Gilbert Simondon. L'individuo e la sua genesi fisico-biologica, in G. D., L'isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, edizione a cura di Deborah Borca, introduzione di Pier Aldo Rovatti, Einaudi, Torino, 2007, p.108.
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Introduzione
L’obiettivo di questa ricerca è la messa a fuoco di una critica della soggettivazione, riferendosi al piano della sua costituzione possibile, per indagarne le fasi e le caratteristiche attraverso un approccio genetico e interdisciplinare: tra H. Bergson e G. Simondon, con G. Deleuze, in rapporto ai mutamenti di impianto epistemologico delle scienze contemporanee, dall’affermarsi delle geometrie non-euclidee fino al dibattito sui fondamenti della fisica quantistica della prima parte del XX secolo. Si tratta di rinvenire le condizioni tali per cui una soggettivazione, colta come processo aperto di costituzione della soggettività e del soggetto, possa darsi. Si è sviluppato il discorso attraverso la definizione progressiva di un piano di posizione della questione, che si è via via mostrato come “obliquo”, nel senso della sua complessità; e si è assunta l’immagine quale indice problematico della visibilità possibile di questo processo soggettivante. Si è corredato, perciò, il testo, di alcune immagini per momenti-privilegiati: dipinti, schemi, fotogrammi che potessero fungere da porta-segno, ritornello, mappa, tavola. Si è partiti, dunque, dal cominciamento per immagini del bergsoniano Materia e memoria, allo scopo di avviare una riflessione che non fosse solo descrittiva ma pro-duttiva. Quindi si è partiti necessariamente da un luogo dove la soggettivazione, proprio in quanto processo, ancora non figurasse, per capire come e se possa temporalizzarsi una figurazione, defigurazione o trasfigurazione della soggettivazione possibile. Le immagini bergsoniane non sono né εἶδος, idea, oggetto del conoscere, né di εἴδωλον, immagine-simulacro intesa come oggetto della visione, e non si tratta soprattutto della radice che, platonicamente, presiede a questa distinzione, ovvero il fondamento di un λόγος dell’ίδεῖν, essendo, la fenomenologia iniziale di Materia e memoria, un tentativo sostanziale di sfuggire antefatti egologici e prospettare, così, un piano dove sia realizzabile il superamento di ogni dualismo e dove siano pensabili sia il concetto di relazione, sia i termini, materia e memoria, da porre in relazione. Le immagini con cui abbiamo aperto sono perciò
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puramente affermative, non sono dunque oggetto di una immaginazione che deve negare il reale per riprodurre il pensiero, ma la scintilla che accende il piano del reale producendo immaginabilità nel pensiero riflettente che ne è riverbero. Bergson, partendo dalla pura percezione intesa come azione di un corpo (centro biologico interessato) e non come contemplazione di un soggetto conoscente (distaccato e disinteressato), inaugura un luogo dove di diritto il contatto è una relazione di immagini: quelle percettive e quelle della materia. Il cominciamento per immagini assume quindi una valenza strategica, al fine di superare sia il cominciamento realista che quello idealista e scongiurare derive dualistiche o monistiche che in un caso come nell’altro misconoscono il tema fondamentale della relazione fra materia e memoria, cervello e spirito. La serie di immagini che abbiamo montato a partire dalla pura percezione mostra come di fatto essa sia esposta a una durata e, dunque, a una rifrazione temporale. Dalla percezione si passa, così, prima a dei calchi, delle immagini duplicate, poi a delle immagini accumulate che si stratificano nella virtualità di un passato immemoriale, quindi a delle immagini-tempo pure. Affinché la percezione sia possibile, ovvero passi, occorre che il flusso delle immagini resti. Il cono bergsoniano della memoria è la mappa di questo funzionamento e una prima figura della soggettivazione. Il piano della temporalizzazione di questo corso, allora, non può essere né cartesiano, né newtoniano, né kantiano. È messo in questione, nella definizione di questo “progresso”, per usare il termine bergsoniano riferito al divenire, non solo il tempo, ma lo spazio come categoria fondamentale. Bergson, per riferirsi alla sua durata, parla di molteplicità qualitativa, in opposizione a una molteplicità numerica. In realtà, il suo gesto problematizzante e sostanzialmente critico trova un corrispettivo nella contestuale crisi del piano delle nascenti geometrie non-euclidee. Pertanto, si è ritenuto necessario approfondire il riferimento alla molteplicità riemanniana, che ricorre a partire dalle pagine del Saggio sui dati immediati, per contestualizzare l’approccio bergsoniano, alle categorie di spazio e a tempo e alla questione del movimento e della durata reale, nella fase di ripensamento generale delle matematiche e delle geometrie di fine Ottocento. La nascita delle geometrie non-euclidee rivela come una insufficienza dell’assetto epistemologico orientato al piano cartesiano, alla fisica newtoniana e al trascendentalismo
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kantiano, fosse avvertita e condivisa a più livelli. Si è ripercorsa, quindi, la genesi di queste nuove geometrie a partire dalla problematizzazione dei postulati della geometria classica elaborata da Lobacevskij. Con Riemann, in modo particolare, abbiamo messo in evidenza la generalizzazione di questo nuovo assetto. Contro quello che potremmo immaginare un essenzialismo metafisico degli assiomi, egli sostiene si debba risalire alla natura delle relazioni tra i concetti elementari della geometria. L’introduzione della nozione di grandezza molteplicemente estesa, ovvero della nozione di molteplicità (Mannigfaltigkeit) in riferimento ai modi di determinazione di un concetto generale qualsiasi, risponde a questa esigenza. A una critica radicale dei fondamenti della geometria, fa seguito la realizzazione di un metodo di valutazione immanente, da cui scaturisce una prospettiva pluralista circa le metriche possibili e gli spazi ipotizzabili. La generalizzazione di Riemann offre l’opportunità di reinquadrare il piano cartesiano come una regione di un piano e di uno spazio più vasto e complesso, dotato di diverse curvature possibili. Si è voluto riposizionare su questo piano – “obliquo”, perché complesso e a geometrie variabili – il cono della memoria bergsoniana, quale espressione di una nuova critica per una soggettivazione possibile tra filosofia ed epistemologia, adottando l’immagine dell’otre di Klein come porta-segno di questa figurazione. La relazione-distinzione tra corpo e spirito, resa mediante una rifrazione temporale delle immagini, si spiega alla luce di una proto-teoria della materia cui Bergson fa accenno in sintonia con le nuove ricerche in fisica e chimica. La materia stessa, infine, dura, poiché la molteplicità della durata si rivela quale piano unico e plurale in cui diverse tensioni, intensità, densità, velocità sono possibili. La grana del reale restituisce un’estensione concreta fatta di cambiamenti di tensione ed energia. Ed è su questo punto che convergono la serie di immagini della memoria e quella della percezione, la pura percezione e la pura memoria.
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Nessuna teoria della materia sfugge a questa necessità. Riducete la materia a degli atomi in movimento: questi atomi, anche se sprovvisti di qualità fisiche, tuttavia si determinano soltanto rispetto ad una visione e ad un contatto possibili, quella senza illuminazione e questo senza materialità. Condensate l’atomo in centri di forza, dissolvetelo in vortici che si evolvono in un fluido continuo: questo fluido, questi movimenti, questi centri, si determinano, anch’essi, soltanto rispetto ad un tatto impotente, ad un impulso inefficace, ad una luce scolorita; sono ancora delle immagini6.
L’immagine per un inizio, allora, si è rivelata essere un lucore differenziale: più che un limite dell’immagine, sul limite dell’immagine per una soggettivazione possibile, dove il possibile non è il contrario di reale, ma una sua virtualità. Si tratta di quella differenza reale, di natura, che può essere colta solo attraverso il metodo dell’intuizione filosofica, che con il Deleuze del bergsonismo, si è definito come “godimento della differenza”. Il problema del soggetto, su questo piano, si è posto come ripensamento della nozione stessa di problematico non più articolabile secondo i termini di una metafisica nichilistica. Esso va riformulato, nell’ottica di una soggettivazione intesa come processo aperto, vertigine su piano di immanenza, non come cominciamento egologico ma come produzione del nuovo. Il problematico è infatti il campo stesso, vitale, delle soluzioni dove si profila la differenziazione possibile. Più che un inizio, la soggettivazione è un processo di integrazione e differenziazione sempre nel mezzo. Il secondo capitolo prende le mosse proprio da questo piano percorso da forze e tensioni, per ricostruire le trasformazioni attraverso cui il concetto di forza passa fino a diventare un principio empirico-trascendentale di funzionamento relazionale-energetico del piano di immanenza. L’analisi riprende il tradizionale significato del concetto di forza presente nella scienza e nella filosofia moderne, per arrivare alla nozione di campo. Parallelamente, è ripreso il passaggio per cui, da una meccanica delle forze e del campo di forze, si passa al vitale campo di forze che si realizza come lotta per la sopravvivenza nelle teorie biologico-evolutive della seconda metà dell’Ottocento. Il paradigma di una fisica della forza trova eco in Bergson da un lato, inteso come pseudo-energetismo, e come principio della volontà di potenza in Nietzsche. 6
H. Bergson, Materia e memoria, pag. 27.
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Un avvicinamento Bergson-Nietzsche è qui prospettato allo scopo di porre in evidenza come il principio del funzionamento del piano di immanenza sia una “forza dissonante”, per cui, ancora una volta, l’immagine per un inter-mezzo in vista di una soggettivazione possibile si presenta come “lucore differenziale”. Il funzionamento della soggettivazione in Nietzsche è messo a fuoco nel confronto fra le due impostazioni esegetiche: heideggeriana da un lato e delezeana dall’altro. A questa prima parte del secondo capitolo fa seguito una seconda parte, dedicata al salto quantico dell’individuazione in G. Simondon. Se il gesto critico-filosofico bergsoniano si fa largo in linea con la crisi delle geometrie euclidee del XIX secolo, la prospettiva simondoniana, a maggior ragione per via della chiara impostazione epistemologica, si comprende alla luce dei fondamenti della meccanica relativista ma, soprattutto, della fisica dei quanti per come questa si andava assestando nella prima metà del XX secolo. Il tema della “dissonanza” nel funzionamento della soggettivazione in Nietzsche e il modello bergsoniano di una metafisica empirica ricadono nel paradigma dell’individuazione simondoniano, imperniato sul concetto di realtà della relazione. Per entrare, dunque, in quella che abbiamo definito l’officina dell’allagmatica di Simondon, ovvero la sua epistemologia operazionale, abbiamo ripreso i termini del dibattito circa i fondamenti della nuova fisica, che ha imperversato durante la prima metà del XX secolo, coinvolgendo figure di spicco quali A. Einstein e N. Bohr. La questione riguardava l’accettabilità o meno del carattere non localistico e indeterministico della teoria. Per Einstein, che confidava nella possibilità di pervenire a una sintesi tra meccanica relativista e nuova fisica ipotizzando una descrizione realista dei fenomeni fisici, le caratteristiche di indeterminazione della teoria dei quanti andavano imputate alla sua incompletezza e dunque alla presenza di “variabili nascoste” che, a seguito di progressi nella ricerca scientifica, sarebbero state scoperte. Per Bohr e la sua scuola, invece, l’indeterminazione presente nella teoria non era da ascrivere ad alcuna “variabile nascosta”, essendo strutturale. Simondon interviene in questo dibattito sposando il realismo di Einstein, colto attraverso la lettura di L. de Broglie, e connotando, come soggettivistica e relativistica, l’indeterminazione di Bohr, Heisenberg e Schrödinger. Al di là di come poi sia andata
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consolidandosi la teoria dei quanti, per cui, attualmente, la descrizione fisica del mondo sarebbe affidata a più modelli, essendo la realtà dei quanti qualcosa di molto diverso dalla realtà ipotizzata da Einstein – si considerino ad esempio il fenomeno dell’entanglement e del non-localismo –, il punto per noi decisivo è stato cogliere l’epistemologia storica di Simondon, ovvero il significato particolare del termine “quantico” che egli utilizza per tutti i livelli di individuazione messi in campo: fisico, vitale, psichico, sociale. In tal senso, si è esposto come il simondoniano paradigma della realtà della relazione funzioni nonostante la sua posizione contro – il presunto – “soggettivismo relativista” di Heisenberg denunciato dal de Broglie. Il realismo della relazione di Simondon, nato in assonanza al realismo propugnato in fisica da Einstein, è in realtà “quantistico” e differenziale proprio come quel mondo aleatorio e bizzarro intravisto da Bohr. Infatti, perché possa presupporsi una realtà della relazione bisogna escludere il sostanzialismo soggettivista della fisica e della metafisica moderne. Ma è proprio questo a impedire ad Einstein di accettare la nuova realtà quantistica ed è proprio questo assunto a determinare il soggettivismo relativista e nichilista del pensiero moderno. La realtà della relazione in Simondon, attraverso il suo metodo della transduzione, superamento surlineare sia del sostanzialismo dell’induzione che di quello della deduzione, viene proposto qui come propedeutica per una soggettivazione possibile, tra epistemologia e filosofia. Il richiamo a G. Bachelard mette in luce il senso del costruttivismo della razionalità scientifica che non può non basarsi su di una epistemologia storica e una filosofia del non, alludendo a quelle necessarie “coupures épistémologiques” presenti nella narrazione del mondo che, perciò, non può che essere plurale. Il “lucore differenziale” dell’immagine per un inizio e dell’immagine per un intermezzo torna qui come effettivo salto quantico nell’individuazione simondoniana. Per “quantico” egli fa riferimento al fenomeno così definito da Planck, Einstein e de Broglie – e non, dunque, dalla scuola di Copenaghen. Si tratta, in Simondon, della correlazione tra energia e struttura, che diventa ontogenetica. La relazione, in Simondon, è il cominciamento. Egli propone un retournement dal principio dell’individuazione all’individuazione come principio, intendendo questa come
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operazionale, relazionale, allagmatica, transduttiva. Attraverso una critica serrata al paradigma ilomorfico, egli elabora il modello dell’individuazione secondo un superamento della forma attraverso l’in-formazione quale elemento in grado di portare con sé la singolarità che innesca la trasformazione. Scrivendo “in-formazione” si vuole alludere al processo differenziale e operazionale della comunicazione inteso da Simondon, per cui si tratta di captazione e transduzione di soglie intensive. È la metastabilità dei sistemi a produrre in-formazione e a renderla ricevibile. Nel terzo e conclusivo capitolo, l’individuazione simondoniana, elaborata al livello di una fisica, è prospettata come allagmatica per una soggettivazione possibile, sia a livello psichico che sociale. Le immagini per una soggettivazione possibile sono allora i “lucori differenziali” e le immagini-cristallo deleuzeani. Deleuze, criticando l’immagine-dogmatica-del-pensiero e riproponendo, però, nell’estetica dell’Immagine-tempo, l’immagine-cristallo, in realtà rilancia l’opportunità di una diversa immagine del pensiero, che appunto non sia quella dogmatica della tradizione sostanzialista, soggettivista, metafisica moderna. Sul piano di immanenza è possibile una soggettivazione cui non sia precluso “un po’ di possibile”, e la prospettiva simondoniana ne mostra una chance di figurazione. Da questo punto di vista, si sono richiamate le immagini dell’antropologia-filosofica, con i suoi limiti evidenziati da Heidegger, per infine collocare la visione di Simondon nell’ambito dell’immaginario di una antropologia post-umana.
Lungo tutto il discorso, a parte gli schemi e le mappe, le immagini porta-segno sono state riproposte, a tratti, come ritornelli. L’otre di Klein, la trottola del film Inception, i dadi, richiamano un aspetto decisivo di una critica per una soggettivazione possibile: essa è uno spazio ripiegato sulla quarta dimensione, senza “interno”, e il “fuori” del suo dedans è forse la sua chance di futuro.
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I. Capitolo Immagini per un inizio. Lo spazio iperbolico, il vortice del soggetto e le vertigini su piano di immanenza
1.1.
Immagini per un inizio Se i cominciamenti avessero un gusto, potrebbe essere agrodolce. Se infatti si
potesse associare al principio e alla fine un sapore, i cominciamenti risulterebbero dal mescolamento di questi due ingredienti, un miscuglio apparentemente omogeneo che rivelerebbe i suoi sentori aspri e dolci solo assaporando. A volte chiaramente posticci, i cominciamenti tradiscono postulati già dati, da cui discendono artificiose e improbabili partenze, rese praticabili solo a valle di scalette calate giù dalle nuvole – o da comodi altopiani all’ombra di solide catene montuose; altre volte è dissimulata in medias res un’irruzione iniziatica, una posa di preteso maldestro squilibrio che ci fa (ac)-cadere nell’evento epifanico; e poi ci sono le esperienze. Le esperienze del cominciare. In mare aperto e calmo. Cielo opaco e velato, da cui filtra una luce azzurro-madido. Modulazioni cromatiche di un’unica regione d’acqua, a quell’ora del riflesso che impasta, di vapore e guizzi bianchi, un unico lago di somiglianze. Diapason dell’attimo di (con)fusione salmastra, imbibita di iodio, un’attenzione dondolante segna la rifrazione del trapasso dello sguardo: il corpo ha le difese cedute, il respiro si riporta ai voli dei gabbiani e il sangue fluisce delle stesse curve tracciate dai pesci. Potrebbe essere giugno, chiaro e acerbo. Potrebbe essere settembre, maturo e mite. Potrebbe essere il cielo del Tirreno. È il pensiero che si de_pensa, dispensato dal volere si allarga a dismisura e si scolora. Spersonalizzato, nudo. Il
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pensiero è una pellicola riflettente e assorbente, gelatinoso di quella carne di medusa ondeggiante a bagno. Da qui, pseudo-luogo dei galleggiamenti senza ormeggi, si riviene a quell’aura mitica bergsoniana, come si ricorda un motivo, un’idea che è materia e memoria: «Eccomi dunque in presenza di immagini, nel senso più vago con cui si possa assumere questa parola, immagini percepite quando apro i miei sensi, non percepite quando li chiudo»7.
L’esigenza di fare il punto sul rapporto tra materia e memoria, maturata a seguito dell’avvertimento problematico del dualismo come nodo da sciogliere a tutto vantaggio di una rinnovata prerogativa della prospettiva più propriamente filosofica del sapere, porta H. Bergson a un’indagine ancora più radicale, rispetto al Saggio sui dati immediati della coscienza, individuando nell’”immagine” – e non senza difficoltà o successivi ripensamenti – un motivo sorgivo comune ai suoi due privilegiati poli di interesse, corpo e spirito. Bergson attinge così a un serbatoio aptico-visuale di trasparenze, tessere di vetri tattili, mobili. “Vago” qui non indica genericità. Non si tratta né di εἶδος, idea, oggetto del conoscere, né di εἴδωλον, immagine, oggetto della visione; non si tratta soprattutto della radice che platonicamente presiede a questa distinzione, un λόγος dell’ίδεῖν presupposto come fondante, balsamo districante di linee dicotomiche. La “finzione” da cui prende avvio la simulazione bergsoniana è gettata in un magma di apparenze dove il sole del soggetto non si sa se sorgerà – e con quale inclinazione, con quali tagli possibili. La vaghezza è quella dell’esperimento del puro apparire, privato, questo, di una ratio presupposta, elusa e sospesa, in vista di una sua restauratio. Non è dunque, in quanto pura, opposta o opponibile a ciò che non appare ma è. La “finzione” bergsoniana scioglie nel suo inizio il vizio dei doppi mistificanti. Apparire è tutto, ma questo tutto sente, è abitato. Non è, dunque, il deserto del toglimento, della sottrazione, del disinteresse speculativo, ma lo pseudo-luogo originario dove tutte le ubicazioni si fanno largo, spaziando attraverso una sensazione che regionalizza, sagoma, profila. È la fertilità totipollente delle immagini contigue e promiscue.
7
H. Bergson, Materia e Memoria, pag. 13.
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«Tuttavia ce n’è una che risalta su tutte le altre per il fatto che non la conosco solo dall’esterno, attraverso delle percezioni, ma anche dall’interno attraverso delle affezioni: è il mio corpo»8.
A un certo punto, il risalto di una singolarità fra le immagini sembrerebbe contraddire questa “purezza”, mentre invece è lì a riaffermarla. Il “mio” corpo è cifra non di un possesso soggettivo, ma di un interesse positivo – anche una zecca, una zanzara o una pulce di mare, potrebbero prendere il “mio” posto e denunciare il pathos del proprio specifico inter-esse, del proprio trovarsi in mezzo. Il risalto si staglia a partire dalla circostanza per cui solo nel “proprio” si è doppiamente gettati: nel percepito di un esterno che è internamente affetto. Il “mio corpo” è il diapason di questo attraversamento. Grumo singolare di carne-immagini: «Esamino le condizioni in cui queste affezioni si producono: trovo che esse vengono sempre a inserirsi tra delle vibrazioni che ricevo dall’esterno e dei movimenti che sto per eseguire, come se dovessero esercitare un influsso non ben determinato sul processo finale»9. E se nel “mio” caso si dà una coscienza, nell’affezione del mio corpo, essa assiste come «forma di sentimento o di sensazione, a tutti i processi nei quali credo di prendere l’iniziativa, che, al contrario si eclissa e scompare appena la mia attività, diventando automatica, dichiara così di non avere più bisogno di essa»10. Immagine fra immagini, il corpo costituisce, nel suo stagliarsi, un tratto di intervallo e un cursore mobile, un risuonare “tra” le vibrazioni colte dalla percezione e quelle dell’azione imminente. La coscienza è un modo ausiliare di queste affezioni, non ne è il soggetto: né l’azione ne ha propriamente (ancora) uno. L’interesse è tutto giocato nella inflessione delle variazioni, per cui l’atto terminale dello stato affettivo non è deducibile come in una catena di movimenti, ma «aggiunge veramente qualcosa di nuovo all’universo e alla sua storia»11. Se qualcosa di nuovo è realmente possibile in questo insieme di immagini chiamato universo, scrive Bergson, ciò avviene tramite immagini particolari date dal “mio” corpo.
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Id., pag. 13. IbId.. 10 Id., pag. 14. 11 IbId.. 9
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In questo intervallo vivo di affezioni varianti, si produce la novità delle rappresentazioni. Bergson si domanda come esse possano prodursi; e la questione che si introduce è cosa si intenda per novità. O meglio, capire il nesso tra rappresentazioni e novità illustra il significato particolare delle rappresentazioni e ci instrada verso la visione bergsoniana: marcare una sostanziale distinzione tra differenza di natura e differenza di grado, e utilizzare questa distinzione come strumento per comprendere il rapporto tra materialità e spiritualità. Tornando in mezzo al mare, alla liquidità d’acqua dei riverberi, al riposo del depensamento, l’illusione del senza peso dell’io penso, sublime evaporazione galleggiante sotto la spinta di soluzioni saline, ci si domanda come, da una plissettatura di riflessi e rifrazioni così dati, possano prodursi riflessioni. Quale metamorfosi dello specchio universale rende la contemplazione un germinale di rappresentazioni? Dall’inflessione del corpoimmagini alla riflessione noetica cosa si produce? Che rapporto si dà tra il nuovo del presente e il ripresentarsi della rappresentazione? Posto che la materia è l’insieme delle immagini e gli oggetti che mi circondano rimbalzano su di me l’azione possibile del mio corpo, immagine fra immagini, su di essi: la percezione è appunto il rapporto di immagine fra l’insieme e l’immagine particolare di quel corpo nel merito delle azioni per esso praticamente possibili – che saranno diverse per la zecca, la zanzara, la pulce di mare o me, abbandonata per ora al “mio” cullio dondolante. In questo rapporto di immagine espresso in immagini si ri_produce tutta la novità. Ma come? Il rapporto di immagini che è l’intercettarsi o incastrarsi dell’immagine del mio corpo, a partire dall’interesse possibile che esso riverbera sugli oggetti intorno, e l’insieme di tutte le immagini, non è speculare né simmetrico in nessuna delle sue parti. La riflessione di cui si parla non si presenta mai come identità. Il rapporto marca un intervallo tra percezione e azione, traccia un’interzona affettiva dove si prepara una reazione. Da queste prime battute di Materia e memoria, si coglie già la progressiva sottile distinzione tra immagini, percezioni e rappresentazioni. Allora, poniamo che mentre giaccio abbandonata – le molecole d’acqua dei miei tessuti in simbiosi e osmosi con l’H2O mista dei sali d’aria e mare tutt’intorno – le immagini di una pulce di mare, imbarcata per ozio o per opportunismo, e quella di un angolo del mio corpo, vengono a intersecarsi in un incontro; a
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questo punto, il mio torpore sarà interrotto da una percezione e un’auto-affezione. In altri termini, avvertirò la presenza di qualcosa dall’effetto urticante (a maggiore ragione se sono allergica) sentito e indotto dal suo morso. Del tutto-acqua-e-silenzio intorno, ritaglierò il prurito prima, l’ipotesi di una pulce di mare dopo – non riuscendo mai, a meno che non potessi vantare una cultura di entomologia, a sapere/immaginare come possa sentirsi la pulce (soddisfatta, suppongo, del pasto gentilmente e inaspettamente offerto in mezzo al mare). Il mio corpo (quello della pulce di mare teniamolo un attimo da parte) si produrrà in una scissione tra percezione, in funzione delle “vibrazioni” date dal contatto; affezione, avvertimento del fastidio (che potrebbe perfino essere flebile dolore); quindi azione. Bergson postula la necessità di partire da una “pura percezione”, che esiste “di diritto” – non di fatto, e che serve a farci comprendere come, all’origine, la distinzione tra le immagini sia basata sull’istantaneità di reciproche inter-selezioni. La “pura percezione” fa sì che io non mi risvegli del tutto dal mio stato di sonnolenza, perché in fondo, se non è la prima volta che mi trovo in mezzo al mare – e non è la prima volta che imbarco insetti molesti e clandestini! – quella sensazione non sarà del tutto inedita. Pertanto, formulata una prima elaborazione del dato, l’azione cui darà seguito il meccanismo dell’abitudine proprio del mio corpo, sarà di tentare il sollievo di una sfregata nel punto esatto in cui il contatto è avvenuto. In questa “pura percezione” (al limite) il mio corpo risponderà con un’azione quasi immediata, quasi incosciente, un riflesso. La “mia percezione”, scrive Bergson, delinea precisamente le azioni virtuali o possibili del mio corpo12. Nell’immagine di questa percezione ci sarà di più o di meno del tutto-immagini in cui ci trovavamo io e la pulce? Ci sarà reciprocamente di meno e allo stesso tempo qualcosa di nuovo – un’azione, per quanto abbastanza ordinaria, rappresenta un cambiamento. Ci sarà dunque una differenza. La percezione dunque “ci” ripresenta qualcosa come l’effetto di un interesse vitale. Al suo livello si riscontra la centralità del mio corpo, percorso da vibrazioni nervose, a restituire vibrazioni all’ambiente circostante, con gradualità di impatto in base alle prossimità e alle distanze. La centralità del corpo, nel prodursi come mio, forma un incurvarsi dello spazio (il cui momentaneo sasso nello stagno è costituito dalla puntura della pulce).
12
H. Bergson, Materia e memoria, pag. 17.
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La materia si dà in immagine e il corpo, con la sua pura percezione, non è molto altro di una materia più o meno sollecitabile, più o meno interessata o interessabile. La percezione è ciò che incurva le immagini-per-me, cioè quelle che corrispondono alle azionireazioni di cui il mio corpo è capace. Analizzando lo spessore in immagini di questo incontro, che è la puntura di insetto, notiamo come siano prossimi, quasi al livello della contrattilità dell’ameba, e allo stesso tempo differenti, i momenti della totalità delle immagini, la percezione, l’affezione, l’azione. La percezione (al limite pura) isola il calco-immagini di un contatto, l’affezione processa il sentito come fastidio, l’azione interviene meccanicamente nel portarsi sul luogo preciso del pizzicore per trovare riscontro e, o sollievo. Al limite della “pura percezione”, la puntura d’insetto che qui abbiamo suggerito diventa la punta acuminata dello stare al mondo del nostro corpo come quel centro-mio che si produce quale piega di esterno-interno, perché prima del nostro corpo, «nell’insieme delle immagini non si può dire che ci sia interno né che ci sia esterno, poiché l’interiorità o l’esteriorità sono soltanto dei rapporti tra immagini»13. Il piano (o la sezione o il momento) più materiale della mia presenza è esattamente questo cursore mobile di contatto, che dà luogo a “quadri” di immagine che ritagliano istantanee dall’insieme. Il ritagliare è un processo fisico di luce. Nel suo cominciamento basato sull’immagine, Bergson non può non ricorrere a quei fenomeni che avvengono nella interazione di luce e materia. Egli fa l’esempio del processo di rifrazione e riflessione in fisica14. Allorché, nel propagarsi, un’onda luminosa passasse da un mezzo ad un altro, essa lo attraverserebbe cambiando angolazione. Sarebbe deviata o rifratta. Qualora invece l’onda luminosa incontrasse una superficie troppo “densa”, da non consentire il passaggio, nel punto in cui si sarebbe prodotta la rifrazione, si produrrebbe il fenomeno di riflessione. Si forma un’”immagine virtuale” del punto di luce che rappresenta l’arresto del passaggio. La percezione, scrive Bergson, è un fenomeno dello stesso genere15. Essa appunto ripresenta l’oggetto secondo la propria posizione (sempre e comunque una centralità) e le proprie attitudini (densità).
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H. Bergson, Materia e memoria, pag. 20. Il riferimento è alla legge di Snell o legge di Descartes, che descrive le modalità di rifrazione di un raggio luminoso. 15 H. Bergson, Materia e memoria, pag. 29. 14
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L’immagine riflessa data da una rifrazione impedita è una sorta di “miraggio” che rivela e restituisce l’oggetto (secondo una prospettiva). È un doppio dell’oggetto: la sua ripresentazione. L’oggetto è dato in un quantum di luce e riprodotto. La sua seconda volta non immediatamente costituisce una differenza di natura, ma innanzi tutto una differenza di grado. È una elevazione di potenza nella ripetizione. La pura percezione – quella che esiste di diritto, “ipotesi” in cui Bergson invita a calarci – è in questo senso il piano più prossimo al materiale: dato il materiale come immagine, essa è un calco di immagine (immagine1). Sarebbe erroneo però intendere questa ripetizione come identica. Nell’immagine1 è infatti ripresentato l’oggetto come possibile per noi; ma esso è tale in quanto virtuale. Dunque, per essere più chiari, due errori vanno scongiurati: il primo concerne il tema soggetto-oggetto; il secondo il tema possibile-reale. Partendo da quest’ultimo, diciamo che per Bergson proprio ciò che è possibile è reale. Il possibile non è ciò che non è reale, ma esattamente il virtuale del reale: ovvero ciò di cui il reale è capace. Allora, l’oggetto non è un ente predefinibile: esso sprigiona delle potenze nella relazione. Potenze tuttavia reali nella loro virtualità. La percezione, dunque, non è data a partire da un soggetto che coglie un oggetto distaccatamente e disinteressatamente di fronte; essa esprime l’immagine1 di un’immagine altra, in funzione di una posizionalità da connotare, come Bergson fa esplicitamente, in senso biologico (centro vitale). La pura percezione – che, lo ripetiamo, si dà al limite della percezione – nell’immagine1 prodotta, esprime l’”influsso dell’essere vivente” sugli oggetti (immagini): «La nostra rappresentazione della materia è la misura della nostra possibile azione sui corpi; risulta dalla eliminazione di ciò che non riguarda i nostri bisogni e, più in generale, le nostre funzioni»
16
. Senza questi centri viventi distribuiti sul piano di
composizione delle immagini dell’universo, scrive Bergson che la “fotografia” sarebbe “traslucida”, mancherebbe lo “schermo nero” dietro la lastra (ovvero quella “densità” che fa sì che la luce non passi ritornando sull’immagine come immagine1). In questo senso i centri viventi forniscono una sorta di specchio alle immagini che popolano l’universo, moltiplicandone le potenze. Tra essere ed essere percepiti, l’autore sottolinea come ci sia solo una differenza di grado e non di natura. Si tratta, in fondo, di riverberi materiali (immagini, immagini1). 16
Id., pagg. 29-30.
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Eppure è su questo sfondo che egli ritiene di poter spiegare la “percezione cosciente”. Per comprendere il passaggio, è necessario sottolineare una questione decisiva; ciò che qui abbiamo chiamato Immagine1 deriva i suoi contorni e il suo profilarsi non da una contemplazione disinteressata, la conoscenza (teoretica), bensì da una capacità, ovvero una tendenza. Il “bisogno” è da intendersi positivamente nella direzione dell’azione possibile in quanto utile. La posizionalità del vivente, il suo centro, il suo corpo, la sua immagine singolare, è un inter-esse attivo, capace-di qualcosa. Non c’è un soggetto che conosce (un oggetto), ma l’attività di un corpo che vive implicato. Il vettore, che conduce dall’immagine all’immagine1, porta all’immagine2: l’immagine cosciente, in quanto espressione di una complessificazione del centro interessato. Secondo il centro interessato: «Ecco un sistema di immagini che chiamo la mia percezione dell’universo, e che si trasforma da capo a fondo per delle leggere variazioni di una certa immagine privilegiata, il mio corpo. Questa immagine occupa il centro; su di essa si regolano tutte le altre; ad ogni suo movimento tutto cambia, come se si fosse girato un caleidoscopio»17. E «In altri termini, assumiamo questo sistema d’immagini solidali e ben legate che si chiama mondo materiale, e immaginiamo, qua e là, in questo sistema, dei centri d’azione reale, rappresentati dalla materia vivente: io dico che è necessario che attorno a ciascuno di questi centri si dispongano delle immagini subordinate alla sua posizione, e variabili con essa; dico, di conseguenza, che la percezione cosciente deve prodursi e, di più, che è possibile comprendere come sorga questa percezione»18. La percezione cosciente deve sorgere per una necessità d’azione del vivente. Ed è qui che Bergson rimanda alla questione bio-evolutiva. La necessità della percezione cosciente è determinata dalla non necessarietà di un’azione che pertanto diviene possibile. Bergson assume l’indeterminazione del vivente come margine positivo (e non negativo), come principio e, dunque, come punto d’arrivo evolutivo. In quanto principio, l’indeterminazione 17 18
Id., pag. 19. Id., pag. 25.
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spiega la percezione cosciente; ed è solo in quanto stazione evolutiva, punto d’arrivo di una complessificazione vivente, che essa può darsi come principio – e non quale caso aleatorio di una incapacità. Vogliamo seguire, infatti, passo a passo il progresso della percezione esterna dalla monera fino ai vertebrati superiori? Si constata che allo stato di semplice massa protoplasmatica la materia vivente è già irritabile e contrattile, che subisce l’influsso di stimoli esterni, che risponde ad essi con delle reazioni meccaniche, fisiche e chimiche. Via via che ci si innalza nella serie degli organismi, vediamo dividersi il lavoro fisiologico. Appaiono delle cellule nervose, si diversificano, tendono a raggrupparsi in sistema. (…) Nei vertebrati superiori, la distinzione tra il puro automatismo, che risiede soprattutto nel midollo, e l’attività volontaria, che esige l’intervento del cervello, diventa senza dubbio radicale. Ci si potrebbe figurare che l’impressione ricevuta, invece di dispiegarsi ancora in movimenti, si spiritualizzi in conoscenza. Ma basta paragonare la struttura del cervello con quella del midollo per convincersi che tra le funzioni del cervello e l’attività riflessa del sistema midollare c’è soltanto una differenza di grado e non di natura. (…) D’altra parte, in che cosa consiste la funzione del sistema cerebrale? La vibrazione periferica, invece di propagarsi direttamente alla cellula motòria del midollo e di imprimere al muscolo una contrazione necessaria, risale dapprima all’encefalo, poi ridiscende alle stesse cellule motòrie del cervello che intervenivano nel movimento riflesso. Dunque, che cosa ha guadagnato da questa deviazione, e che cosa è andata a cercare nelle cellule, dette sensitive, della corteccia cerebrale? (…) Più queste cellule interposte si moltiplicano, più emetteranno dei prolungamenti ameboidi capaci senza dubbio di collegarsi in vario modo, più numerose e più varie saranno le vie in grado di aprirsi davanti a una stessa vibrazione venuta dalla periferia, e, di conseguenza, maggiori saranno i sistemi di movimento tra i quali una stessa eccitazione permetterà la scelta19.
Il cervello dei vertebrati superiori si presenta a questo punto come un centro dove «l’eccitazione periferica si mette in rapporto con questo o quel meccanismo motòrio, scelto e non più imposto». Il vivente declina progressivamente la propria centralità in direzione di una moltiplicazione di risposte possibili: amplifica, cioè, la propria capacità/virtualità di azione e, quindi, di percezione. Rispetto alla propria capacità-tendenza, il vivente produce immagini1: calchi del reale come possibili utili. Dovendo però scegliere, tra le varie, la più efficace delle azioni possibili, egli produce forme di discernimento. L’indeterminazione è data proprio come indice di complessificazione: più un organismo è complesso, meno è determinato, ovvero maggiori sono le sue capacità e maggiore la necessità di discernere quale azione mettere in campo. Contrariamente a come una certa tradizione intenderà tradurre in chiave negativa questa zona di indeterminazione 20, Bergson è chiarissimo: è 19
Id., pagg. 22-23. Ci riferiamo in modo particolare ad A. Gehlen, che leggerà, secondo l’ipotesi di una antropologia negativa della “carenza”, questo tratto bio-pragmatico della percezione-azione. A tal proposito si veda A. Gehlen, 20
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l’eccesso di possibilità, la deviazione di un flusso percettivo basic, che produce un salto di grado – in questo caso la percezione cosciente. «Notiamo dapprima che una legge rigorosa collega l’estensione della percezione cosciente con l’intensità d’azione di cui dispone l’essere vivente. Se la nostra ipotesi è fondata, questa percezione appare nel momento preciso in cui una vibrazione ricevuta dalla materia non si prolunga in una reazione necessaria»21. Il “non prolungarsi” non allude ad alcunché di negativo ma al contrario al moltiplicarsi delle opzioni possibili, rispetto a cui operare delle scelte – anche se, perfino negli organismi dove percezione e movimento si confondono in un’unica proprietà che è la contrattilità 22, si potrebbe cogliere la natura della percezione come calco di un possibile (immagine1) operato da un centro selezionatore. L’estensione della percezione disegna l’ampiezza di un campo percettivo che è la «zona di indeterminazione»: cerchi concentrici intorno a un nucleo. Complessificazione, deviazione dei flussi, intensificarsi della capacità d’azione implicano il prodursi di una forma di percezione la cui prerogativa è data in calchi e discernimento. Qualificare questa forma di percezione come “cosciente” ha qui due significati fondamentali: la coscienza pertiene, come del resto la percezione, al piano dell’azione; essa, però, non concerne l’azione automatica, ma l’azione possibile. L’aspetto inedito è dato dal fatto per cui, come più sopra è stato evidenziato, “possibile” non è qualcosa di irreale, ma concerne esattamente la realtà di quel virtuale che è nelle capacità stesse del vivente. Quindi la coscienza corrisponde a quel grado di intensificazione della capacità del vivente di produrre forme di azione utile; corrisponde, quindi, a un grado di potenza maggiore del vivente, espressa in quella che potremmo intendere una valutazione ponderata, strategica delle condizioni operative. È dunque derivata da un eccesso e si produce e alimenta in un eccesso. In quest’ottica, però, non va omessa un’altra questione essenziale. La percezione cosciente è ancora differenza di grado e non differenza di natura rispetto al piano materiale delle immagini da cui si è partiti. Abbiamo chiamato “immagini” (1940), L’uomo. La sua natura il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano, 2010. Del resto è noto come il pensiero di Bergson abbia avuto un importante influsso sull’antropologia filosofica contemporanea a partire da M. Scheler. Su questo si veda M. T. Pansera, L’antropologia filosofica, Mondadori, Milano, 2007. 21 Bergson, Materia e memoria, pag. 25. 22 Id., pag. 44.
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quelle relative all’oggetto, “immagini1” il calco o ripresentazione fornito dalla percezione; potremmo chiamare “immagini2” quelle fornite dalla “ripresentazione cosciente”. Ma si tratta, nell’immagine2, solo di una caratterizzazione ulteriore, un approfondimento del tema
della
percezione-rappresentazione.
La
coscienza,
scrive
Bergson,
è
una
rappresentazione che annuncia lo spirito, non coincidendo però con esso23. La percezione cosciente esprime in fondo solo un indice di variazione della materia a partire dall’intensificarsi della capacità vivente di un “centro” attivo. Questo indice di variazione offre una gamma di percepiti (immagini1) che sono quadri del piano di immagini generale (immagini) e, rispetto a cui, solo alcuni passeranno ad essere agiti (immagini2). In questa gamma di percepiti si rileva una prima selezione dovuta all’inter-esse di quel centro singolare; in più, di questa stessa gamma, solo alcuni percepiti daranno luogo a schemi d’azione, passeranno cioè dal virtuale all’attuale. Ovviamente la rappresentazione della percezione cosciente deve costituire un’azione anche al grado zero dell’azione/movimento – ovvero movimenti inibiti. “Coscienza significa azione possibile”24, vuol dire che la coscienza è un dispositivo che presiede a un certo grado di esplicazione del circuito di percezione e movimento. Essa, cioè, non si ferma a collezionare percepiti, nasce dal moltiplicarsi dei percepiti dovuto a una complessificazione bio-logica, seleziona ciò che deve essere fatto rispetto a ciò che non deve essere fatto. Senza uno slittamento dell’azione nel possibile, ovvero una zona di indeterminazione interessante, l’attività propria della coscienza non sarebbe praticabile. Scrive Bergson: «ciò che dunque dovete spiegare non è come nasca la percezione, ma come si limiti, poiché di diritto essa sarebbe l’immagine del tutto, e di fatto si riduce a ciò che vi interessa. Ma se essa si distingue precisamente dall’immagine pura e semplice per il fatto che le sue parti si ordinano rispetto a un centro variabile, allora si comprende senza fatica la sua limitazione: indefinita di diritto, si limita, di fatto, a delineare la parte di indeterminazione lasciata ai processi di questa immagine speciale che chiamate il vostro
23 24
Id., pag.30. Id., pag.40.
37
corpo»25. E ancora: «Tanti sono i tipi di azione possibile per il mio corpo, altrettanti saranno, per gli altri corpi, i differenti sistemi di riflessione, e ciascuno di questi sistemi corrisponderà ad uno dei miei sensi. Il mio corpo si comporta, quindi, come un’immagine che ne rifletterebbe delle altre, analizzandole dal punto di vista delle diverse azioni da esercitare su di esse. E, di conseguenza, ciascuna delle qualità percepite dai miei differenti sensi nello stesso oggetto rappresenta una certa direzione della mia attività, un certo bisogno”. (…) “Percepire coscientemente significa scegliere, e la coscienza consiste prima di tutto in questo discernimento pratico»26. Il discernimento pratico, di cui si fa menzione, allude esattamente all’azione selezionata tra i selezionalibili: è scelta e cosciente l’immagine2, potremmo dire, quella che, tra le varie possibili, passa ad essere agita attivando circuiti di movimento, se è vero quanto Bergson afferma, per cui, la zona di indeterminazione – da cui emerge la percezione cosciente – serve a far sì che l’azione reale passi e l’azione virtuale resti. Il restare del virtuale in quanto restare dei possibili è funzione biologica di corpi complessi e, in particolare, del mio corpo nella sua zona di indeterminazione colta come capacità – capienza – di vita. Su questo stesso piano pratico si deve cogliere il rimando morale di Bergson allorché scrive: «Insomma, la nostra rappresentazione delle cose nascerebbe dal fatto che esse vengono a riflettersi contro la nostra libertà »27. La «nostra libertà» è la traduzione morale di un indice di indeterminazione biologico: quella zona di virtualità che spiega i processi differenziali (di grado e di natura). In altri termini, la «zona franca» è nutrita da un eccesso funzionale da cui discende l’interesse delle limitazioni (individuazione dei bisogni), non il contrario. Ricapitolando: «Dapprima c’è l’insieme delle immagini; in questo insieme ci sono dei ‘centri d’azione’, contro cui sembrano riflettersi le immagini interessanti; è così che nascono le percezioni e che si preparano le azioni. Il mio corpo è ciò che prende forma al centro di queste percezioni; la mia persona è l’essere a cui bisogna riferire queste azioni»28. Dalla 25
Id., pag. 32. Id., pag. 38-39. 27 Id., pag. 29. 28 Id., pag. 37. 26
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periferia al centro, tra presenza delle immagini e rappresentazione (immagini1 e immagini2) inter-corre l’inter-esse vivente di una relazione/selezione. La conversione da immagine a rappresentazione si realizza attraverso il differenziale percettivo: un sottrarre che non produce soltanto un “di meno”, ma un diverso (variazione qualitativa). Il mio corpo è un centro e un centro non è un punto matematico. Svolgendo il punto attraverso l’esempio più sopra riportato della puntura di insetto, avevamo già menzionato la questione degli spessori di questi centri singolari. Lo spessore è dato in una piega interno/esterno che si coglie nel nesso tra percezione ed affezione. Se la percezione misura la capacità riflettente di un corpo, l’affezione ne misura «il potere assorbente»29. Il corpo è esposto alle cause esterne e perciò a rischio di disgregazione. All’origine dell’affezione vi è ancora una volta un indice variabile di capacità del corpo. Essa è, rispetto alla percezione, il suo effetto convesso. Cioè se la percezione è un’estroflessione della capacità del corpo, l’affezione è un’introflessione. L’affezione è una percezione a distanza al limite azzerata, poiché è rivolta all’interno. E il dolore altro non ne è che un gradiente particolare: «Non c’è quasi nessuna percezione che non possa, per un accrescimento dell’azione del suo oggetto sul nostro corpo, diventare affezione e, più particolarmente, dolore». «…immaginate che la distanza diventi nulla, ovvero che l’oggetto da percepire coincida con il nostro corpo, cioè, insomma, che il nostro proprio corpo sia l’oggetto da percepire. Allora non è più un’azione virtuale, ma un’azione reale che questa percezione tutta speciale esprimerà: proprio in questo consiste l’affezione». E ancora un volta sintetizzando: «Considerate questo sistema di immagini che si chiama il mondo materiale. Il mio corpo è una di queste immagini. Attorno a questa immagine si dispone la rappresentazione, vale a dire il suo eventuale influsso sulle altre. In essa si produce l’affezione, vale a dire il suo attuale sforzo su se stessa »30. L’introflessione affettiva genera la sensazione, che è un’immagine di natura diversa dalla rappresentazione percettiva. L’effetto profondità dato dalla sensazione non deve però trarre in inganno. Non c’è qui alcuna enfasi dell’intimismo. Si tratta in tutti i casi di immagini materiali, fatti i dovuti distinguo. La percezione non è una sensazione e nell’adoperare per ipotesi la percezione pura egli intende esattamente analizzarne l’essenza: cos’è e come 29 30
Id., pag. 45. Id., pagg. 35-36.
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funziona secondo la chiave di lettura delle immagini. Di diritto, sensazione e percezione sono due cose diverse sebbene di fatto si “mescolino” continuamente. Partire dalla natura intima e rarefatta del soggetto (immateriale), per poi giustapporre un corpo materiale, è ciò che Bergson denuncia come cammino irto di insidie insuperabili. È allora che il cominciamento per immagini assume tutta la sua valenza strategica, per contestare sia il cominciamento realista che quello idealista e scongiurare derive dualistiche o monistiche che in un caso come nell’altro misconoscono il tema fondamentale della relazione fra materia e memoria, cervello e spirito. È impossibile darsi altro in partenza, se non l’immagine: «Nessuna teoria della materia sfugge a questa necessità. Riducete la materia a degli atomi in movimento: questi atomi, anche se sprovvisti di qualità fisiche, tuttavia si determinano soltanto rispetto ad una visione e ad un contatto possibili, quella senza illuminazione e questo senza materialità. Condensate l’atomo in centri di forza, dissolvetelo in vortici che si evolvono in un fluido continuo: questo fluido, questi movimenti, questi centri, si determinano, anch’essi, soltanto rispetto ad un tatto impotente, ad un impulso inefficace, ad una luce scolorita; sono ancora delle immagini»31. Il piano delle immagini è un piano pragmatico che consente di non precludere ab origine la relazione possibile tra materia e spirito, che poi Bergson svilupperà individuandone il differenziale decisivo nel fattore temporale. Ed è per questa ragione che, come più avanti altri rilancerà32, partire dall’azione è metodologicamente la strategia più efficace per evitare dualismi di sorta quando, soprattutto, questa impostazione inficia ogni relazione possibile (e quindi ogni sintesi). Scrive Bergson: Al posto di partire dall’affezione, di cui non si può dire niente poiché non c’è alcuna ragione perché sia ciò che è piuttosto che qualsiasi altra cosa, noi partiamo dall’azione, cioè dalla facoltà che abbiamo di operare dei cambiamenti nelle cose, facoltà attesta dalla coscienza e verso la quale sembrano convergere tutte le potenze del corpo organizzato. Noi ci collochiamo subito, dunque, nell’insieme delle immagini estese, e in questo universo materiale percepiamo precisamente dei centri di indeterminazione, caratteristici della vita. Perché delle azioni si irradino da questi centri, occorre che i movimenti o gli influssi delle altre immagini siano da una parte raccolti, dall’altra utilizzati. La materia vivente, nella sua forma più semplice e allo stato omogeno , compie già questa 31 32
Id., pag. 27. A. Gehlen, Prospettive antropologiche.
40 40
funzione nello stesso tempo che si nutre e si ripara. Il progresso di questa materia consiste nel ripartire questo duplice lavoro tra due categorie di organi, di cui i primi, chiamati organi di nutrizione, sono destinati a sostenere i secondi: questi ultimi sono fatti per agire; il tipo semplice è quello di una catena di elementi nervosi, tesa tra due estremità, di cui l’una raccoglie delle impressioni esterne e l’altra compie dei movimenti. (…) la percezione nasce dalla stessa causa che ha suscitato la catena di elementi nervosi con gli organi che la sostengono e con la vita in generale: essa esprime e misura la potenza d’azione dell’essere vivente, l’indeterminazione del movimento o dell’azione che seguirà la vibrazione raccolta. Questa indeterminazione, come abbiamo mostrato , si tradurrà per una riflessione su se stesse, o meglio, per una divisione delle immagini che circondano il nostro corpo; e siccome la catena degli elementi nervosi che riceve, ferma e trasmette dei movimenti, è precisamente la sede e dà la misura di questa indeterminazione, la nostra percezione seguirà ogni particolare e sembrerà esprimere tutte le variazioni di questi stessi elementi nervosi. La nostra percezione, dunque, allo stato puro, farebbe veramente parte delle cose. E la sensazione propriamente detta, ben lungi dallo zampillare spontaneamente dalle profondità della coscienza per estendersi, indebolendosi, nello spazio, coincide con le modificazioni necessarie che subisce, in mezzo alle immagini che l’influenzano, quest’immagine particolare che ognuno di noi chiama il proprio corpo33.
Delineato questo orizzonte, Bergson riesce a trovare un sostrato di relazione tra materia e spirito, che poi svilupperà introducendo il termine differenziale decisivo: il fattore temporale. Quella che si è detto essere la complessificazione del vivente, da cui scaturiscono le diverse forme di percezione e, in particolare, quella cosciente, in virtù di una zona di indeterminazione dell’azione con uno slittamento della stessa al di qua dell’argine del possibile/virtuale, costituiva ancora, essenzialmente, un processo di differenziazione di grado e non di natura, nella materia stessa concepita in termini di immagini. Le rappresentazioni percettive, i vari gradi di immagini, significano in prima battuta un gradiente di potenziamento (capacità di vita), ma ancora non si coglie il discrimine differenziale vero e proprio della differenza di natura che esprimerà lo spirito. Tuttavia Bergson considera queste sue premesse come semplificazioni schematiche, che solo a valle di tutto il discorso troveranno una riformulazione generale opportuna. Per una questione metodologica, egli ha introdotto l’ipotesi della pura percezione (come della pura immagine), allo scopo di individuarne l’essenza a dispetto di quei concetti “misti”, su cui tanto si era diffuso nel Saggio sui dati immediati, incapaci di rendere l’appropriatezza 33
Id., pagg. 51-52.
41 41
delle questioni. Ma rispetto a cosa si dà la purezza della percezione? Sostanzialmente essa, per essere compresa, è purificata dal ricordo. Nel dimostrare che la rappresentazione nasce dal percepire in una prossimità di quasi con-fusione con il piano materiale delle immagini, egli deve assumerla essenzialmente d’altra natura dal ricordo, che di fatto, tuttavia, sempre “si mischia” con essa. Al fine di rendere il senso di questa relazione tra percezione (azione) e ricordo, dunque corpo e spirito o materia e memoria, Bergson comincia dall’azione e dalle immagini. L’immagine è così intesa come proto-condizione di pensabilità di una relazione tra elementi differenziali. Il sistema di immagini così posto è allo stesso tempo punteggiato, a tratti, da immagini particolari che sono i centri attivi, corpi biologici. L’indeterminazione degli atti e della volontà (che connotava alcuni di questi corpi particolari), da cui scaturiva la percezione cosciente, è altresì, però, all’origine di un altro fenomeno: la memoria. Sempre in funzione di un’azione biologicamente efficace, la memoria si spiega come utile «sopravvivenza delle immagini passate»34. Il sorgere del ricordo risponde a una funzione di
maggiore utilità rispetto all’”intuizione presente”, essendo legato, scrive Bergson, alla «serie degli eventi successivi» che hanno già mostrato il loro margine di interesse. A questo punto, secondo una lettura sbrigativa ed erronea, si potrebbe cogliere anche in Bergson, una semplice differenza di grado tra la percezione e il ricordo, come se nell’intuizione presente ci fosse più essere che nel ricordo. E che il ricordo, nel presentarsi alla coscienza, acquisisse più essere che non rimanendo celato a essa, recuperando entità scattando in avanti. Se la psicologia ha potuto intendere in questo senso il rapporto tra ricordo e percezione è fondamentalmente per un errore metafisico, cui Bergson intende porre rimedio. L’elemento da porre a tema consiste nella sostanzialità dell’esteriorità. Per comprendere a fondo il rapporto tra percezione e ricordo – che conduce al rapporto tra materia e memoria – bisogna infatti assumere un dato sostanziale: lo «sfondo impersonale in cui la percezione coincide con l’oggetto percepito e che questo sfondo è l’esteriorità stessa »35. Postulare un piano di immagini significa invertire l’ordine tradizionale delle priorità: invece che il coscienziale inteso come l’interno inesteso («percezione come proiezione esterna di sensazioni inestensive»), l’esteso quale esteriore attivo.
34 35
Id., pag. 52. Id., pag. 53.
42 42
Immagini senz’anima come punto di partenza: il trovarsi-dentro marino. Il gesto di Bergson è sovversivo, condizionato senz’altro dalla nascente biologia più che da mature e alternative prospettive filosofiche36. Partire dal fuori, come avremo modo di evidenziare, significherà mai più rientrare. L’impersonale dell’esteriorità è il momento in cui di diritto la percezione coincide con l’oggetto percepito. In altri termini, Bergson ancora si chiede in quale modo opportunamente conoscere ciò che è, ma le sue risposte, come vedremo,
scardinano
la
tradizionale
impostazione
filosofica
di
adaequatio
rappresentazionale imperniata sul soggettivismo del razionalismo occidentale. La coincidenza tra percezione e oggetto non significa grossolana identificazione tra soggetto e oggetto, bensì l’assunzione di diritto di un orizzonte (che potremo chiamare “genealogico”) rispetto a cui il soggetto è da costituirsi e non presupporsi – e con esso la datità dell’oggetto. L’impersonale qui evocato è il campo senza soggetto, di materialità fluida data in immagini: «Ciò che costituisce il mondo materiale, abbiamo detto, sono degli oggetti, oppure, se si preferisce, delle immagini, le cui parti agiscono e reagiscono tutte, tramite dei movimenti, le une sulle altre. E ciò che costituisce la nostra pura percezione è, nel cuore stesso di queste immagini, la nostra azione nascente che prende forma. L’attualità della nostra percezione consiste dunque nella sua attività, nei movimenti che la prolungano, e non nella sua maggiore intensità: il passato è soltanto idea, il presente è ideo-motòrio»37. Cosa distingue allora la percezione dalla materia? Il fatto per cui nella percezione c’è di meno rispetto alla materia. Si era parlato infatti di “quadri” e, aggiungiamo, di “istantanee”, riprese dal sistema di immagini. In questo senso si riconosce la differenza di grado: il di meno per cui «la percezione sta alla materia come la parte al tutto»38. Cosa distingue allora la percezione dal ricordo? Non si tratta in questo caso di un essere di meno o un essere di più, ma di essere di un’altra natura. È il fattore tempo, legato 36
Abbiamo avuto modo più sopra di notare come i riferimenti alla biologia evolutiva siano dirimenti per le sue riflessioni sull’inizio. 37 Id., pag. 55. 38 Id., pag. 57.
43 43
alla qualità dell’azione, a distinguere la percezione dal ricordo. La percezione (nelle sue rappresentazioni che abbiamo denominato immagine1 e immagine2) è attiva, perciò attuale; il ricordo sarebbe allora inattivo perciò virtuale e non attuale? Il punto è che come si è dovuto introdurre la pura percezione, bisognerà introdurre il puro ricordo, per comprendere come esso possa essere pienamente pur non essendo attivo – o per meglio dire disattivato. Ma senza la funzione sorgiva della pura percezione non si sarebbe potuto porre il primo e costitutivo elemento della temporalità bergsoniana. E, soprattutto, senza cogliere la funzione dell’immagine pura, non si comprende la natura del cominciamento bergsoniano.
1.2. Sulle immagini Tornando all’immagine, torniamo all’elemento acqua: la stessa molecola modulata e contaminata in una pluralità di combin-azioni. L’acqua si dice come si vive in molti modi. Più sopra immaginavamo questa esperienza iniziatica di ozio marino e la riportavamo al senso dell’immagine in Bergson, come una memoria che si fa attiva. Era un’operazione retorica, che mirava però di fondo a un senso preciso. L’immagine iniziale, in Bergson, è iniziatica. Più che descrivere, rende un’ispirazione. Non può descrivere perché deve produrre. È in tal misura genealogica. È un’immagine fertile. La tradizione, nel consegnarci la nozione di immagine, stabilisce il collegamento immagine-immaginazione. Partendo dalla nozione di immaginazione, ben si comprende che tipo di immagine si è soliti pensare e per quale motivo, allora, risulti perfino controintuitivo comprendere cosa intenda, nella fattispecie, Bergson, secondo il suo particolare punto di vista. Per immaginazione si intende solitamente la possibilità di produrre o evocare immagini indipendentemente dalla presenza dell’oggetto cui le immagini si riferiscono. Da ciò la natura illusoria e “negativa” delle immagini stesse. Il primo ad analizzare
44 44
l’immaginazione fu Aristotele39, che la inquadrò come facoltà dell’anima e la distinse dalla sensazione e dall’opinione: nel primo caso, l’immaginazione non può essere sensazione perché essa si può dare anche in assenza di quest’ultima. L’immaginazione è un mutamento (kinesis) generato dalla sensazione ma non collegato con essa. E altresì non è opinione perché, pur essendo fallace come l’opinione, tuttavia in essa non si crede, mentre nell’opinione sì. Per S. Agostino, le immagini traggono origine dalle cose corporee (attraverso le sensazioni), ma è con l’immaginazione che esse possono essere composte e ricomposte in qualunque modo40; mentre S. Tommaso sostiene che l’immaginazione non possa cogliere l’essenza delle cose41. Bacone avvicina l’immaginazione alle altre facoltà della memoria e della ragione, ponendola alla base della poesia42. Descartes assegna all’immaginazione diversi compiti che variano a seconda dell’oggetto a cui essa si applica, passando dal ricordare al comprendere 43. Anche per Hobbes l’immaginazione è una facoltà mentale decisiva e ne parla sia nel Leviatano (1651) che nel De Corpore (1655). Collegata alla sensazione, essa ne è la versione indebolita a causa dell’allontanamento dall’oggetto di riferimento. Per inerzia, essa conserva l’immagine di un corpo non più presente e, in questo senso, è alla base sia della memoria che della fantasia – ma anche dell’intelletto e del giudizio. Per Spinoza, l’immaginazione è fonte di errore e superstizione nella misura in cui può persuaderci della realtà di cose irreali (per l’appunto solo immaginate)44. Hume considera immaginazione e memoria insieme, distinguendole per via della maggiore intensità delle idee della seconda45.
39
Aristotele, De anima, III, 3. S. Agostino, De vera religione. 41 S. Tommaso, Summa Theologica. 42 F. Bacone, De augmentis scientiarum. 43 Descartes, Regulae ad directionem ingenii. 44 Spinoza, Ethica, II, 17, scolio. 45 Hume, Treatise, I, III. 40
45 45
C. Wolff distingue l’immaginazione dalla finzione (facultas fingendi), considerando che la prima produce le sensazioni delle cose assenti mentre la seconda lavora su delle immagini di cose mai percepite dai sensi46. Per Kant l’immaginazione è la facoltà delle intuizioni (anche in assenza dell’oggetto di riferimento) e la distingue in produttiva e riproduttiva. Nel primo caso, exhibitio originaria, precede formalmente l’esperienza essendo rappresentazione originaria; essa fornisce le intuizioni pure di spazio e tempo. Nel secondo caso, exhibitio derivativa, essa riporta una intuizione empirica già avuta; in questo caso, essa non crea nulla anche se detta poetica, dal momento che desume sempre la sua materia dalla sensibilità47. In Fichte, l’immaginazione produttiva di Kant subisce un accrescimento della propria funzione, diventando il luogo della lotta tra finito e infinito. In tal senso, essa oscilla tra reale e irreale. In Hegel, la funzione creativa dell’immaginazione è l’elemento su cui basare la distinzione rispetto alla fantasia; alla seconda è in realtà ascritto il potere creativo. La fenomenologia riconosce un grande potere all’immaginazione, considerando che il modo di riproporsi delle esperienze umane come “libera fantasia” sia espressione epifanica della loro vera natura. Sartre ne L’imaginaire (1940)
48
sottolinea come il potere dell’immaginazione,
essendo rivolto a un oggetto non reale, sia derealizzante, rispetto a quello della percezione che è invece realizzante. Questa capacità di trascendere l’esistente è per Sartre l’indice della libertà esistenziale. Sulla funzione negativa e liberante, al tempo stesso, dell’immaginazione, insiste anche Bloch49, il quale mette in relazione la capacità di procedere oltre il reale (il presente) dell’immaginazione con la possibilità propria, espressa dalla speranza, di rivolgersi al futuro.
46
C. Wolff, Psychologia empirica. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico e Critica della ragion pura. 48 J.-P. Sartre, L’immaginario, trad. it, Id., Einaudi, Torino, 2007 (1948). 49 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung. 47
46 46
Anche per Marcuse50 alla tendenza negativa e liberante dell’immaginazione è conferito un decisivo potere di critica del presente. In Bachelard51 l’immaginario, come insieme dei prodotti culturali dell’immaginazione, è l’aspetto complementare ineludibile del λόγος concettuale e scientifico. Per Lacan, l’Imaginaire è, insieme al Simbolico e al Reale, uno dei tre registri in cui si struttura la psiche. Esso rappresenta il luogo delle identificazioni fittizie dell’io, a partire dalla fase dello specchio, da sottomettere alla presa del Simbolico. L’immagine risulta essere prodotto dell’immaginazione o sensazione/percezione legata al soggetto che la riceve. Solo con Descartes e Wolff, al termine immagine, venne preferito, nell’uso filosofico, il termine Idea in un caso e rappresentazione nell’altro. Per Immagine, allora, si tende a considerare ciò che ha maggiore contatto con la dimensione sensibile. Da questo brevissimo excursus, si comprende come: 1. L’immagine sia strettamente connessa alla facoltà di immaginazione di un soggetto, come suo oggetto o prodotto; 2. L’immagine abbia un rapporto con il sensibile che, sebbene privilegiato, non è strettamente affermativo. Il più delle volte, infatti, per immagine si tende a indicare una negazione del reale. Ora, sebbene la relazione all’estetica sia presente anche in Bergson, è pur vero che il piano in cui egli pone il flusso di immagini non può prevedere né oggetto né soggetto, come più sopra abbiamo premesso. Rimane da chiarire come questa immagine sui generis in Bergson possa costituirsi e come possa darsi quale inizio.
1.2. Rifrazione temporale delle immagini Immaginiamo un groviglio di filamenti di luce che percorrono lo spazio in flash continui e curvilinei, come in un quadro futurista (si pensi all’opera “Una città che sale” di U. Boccioni
50
H. Marcuse, Filosofia e teoria critica. G. Bachelard, La psicoanalisi del fuoco, 1938; Id., La poetica dello spazio, 1943; Id., La poetica della reverie, 1960.
51
47 47
e ai suoi bozzetti preparatori, oppure “Visioni simultanee” dello stesso autore, che riportiamo nelle Figure 0 e 1), o meglio a una istantanea che ritrae gli oggetti in velocità cromatica, fissandoli in flussi di diverso colore, così, un piano di immagini sfuggenti risulta punteggiato da corpi quali intersezioni da cui si dipartono ulteriori flussi e piani di immagini.
Figura 1. La città che sale
Figura 0. Visioni simultanee
48 48
Il nostro corpo figura come una cesura (interessata), centro di inter-azione, cursore mobile che percorre e processa – in immagini – il volume composito delle immagini che lo circondano e lo ri-guardano. Il cervello è l’organo di questa centralità. Esso è organo dell’azione (ovvero della produzione di ciò che abbiamo chiamato immagini1 e immagini2, gradi dell’immagine). È sostanzialmente votato al presente. Tuttavia, i meccanismi motòri che, a partire dall’esperienza lo orientano e lo sostanziano, sono sedimentati dall’esperienza. Nel tentativo di distinguere la percezione dal ricordo (e il corpo dallo spirito) secondo una differenza di natura e non di grado, Bergson individua tre ipotesi: per la prima, il passato si accumulerebbe in due modalità, l’una riferita agli schemi motori del corpo e l’altra, invece, a dei ricordi indipendenti; da questa ipotesi discende la seconda, per cui il riconoscimento funzionerebbe secondo due modalità, o in automatico, o passando attraverso un “lavoro dello spirito”: in un caso il riconoscimento procede dall’oggetto, nell’altro da rappresentazioni. Ciò che conta, a questo punto dell’analisi, è cogliere il proprio corpo quale «limite mobile», «punta mobile»52 sospinta dal passato verso il futuro, posizionato sempre
nel punto in cui il passato culmina in un’azione (presentificandosi). I meccanismi cerebrali sarebbero dei “conduttori”, buoni o cattivi, di energie del passato. “Spezzando” o interrompendo questa conduzione fisica non si rimuoverebbe la memoria, ma le si impedirebbe soltanto di attualizzarsi. Pertanto, la terza ipotesi prevede che eventuali lesioni del cervello possano impedire il funzionamento e l’azione dei meccanismi cerebrali ma non i ricordi. Le tre ipotesi formulate sembrerebbero puntare a una distinzione netta tra memoria (spirito, ricordi) e materia (corpo, cervello), sciogliendo il nodo di un parallelismo psico-fisico divenuto, nella seconda metà dell’Ottocento, quasi un dato scientifico assodato. A questo proposito, si pensi agli studi di Paul Broca circa l’afasia, secondo cui tale disturbo sarebbe causato da una lesione cerebrale, inducendo a ipotizzare che i ricordi fossero fisicamente situati nel cervello e la memoria una semplice funzione di quest’ultimo. Proprio a questo stile di approccio è rivolta la polemica bergsoniana, solo in apparenza, come vedremo, ferma a una distinzione netta tra materia e memoria. Tornando alle ipotesi accennate, i due tipi di 52
Id. pag. 64.
49 49
memoria menzionati nel primo caso, l’uno riferito ai meccanismi motòri e l’altro ai ricordi indipendenti, rimandano alla distinzione tra esercizio mnemonico e memoria dell’esercizio stesso (di quando e come, cioè, abbiamo fatto questo sforzo). Imparare a memoria qualcosa implica il contrarre un’abitudine e dunque l’opzione ripetizione del dato acquisito. Ricordare l’esperienza di aver appreso attiene a una pratica diversa. Si tratta di immagini in un caso e nell’altro, ma ben diverse. Nel primo caso si tratta di riproduzione di immagini; nel secondo è in atto una vera e propria produzione di immagini. Ma come questo può rendersi possibile? Il punto è che la ripetizione di una lezione appresa si riproduce identica, ma l’esperienza di aver appreso a ripetere quella tal cosa è ogni volta unica. Deve esserci un’immagine, «impressa al primo colpo»53, di ogni esperienza – di ogni presente (non presente). In questo
modo si può spiegare che tra il “ricordo della lettura”, l’esperienza di aver appreso, e il «ricordo della lezione», l’esercizio mnemonico della ripetizione, si fa strada non una semplice
differenza «dal più al meno» ma una «differenza di natura»54. In questo secondo caso, le immagini in questione sono riconducibili a quelle qui denominate immagini1 e 2, si tratta sostanzialmente di immagini agite, che una volta apprese vengono riprodotte identiche, indifferenti. Nell’altro caso, invece, si è di fronte un’immagine diversa, una pura rappresentazione diversa da quella pur tuttavia data nella pura percezione. È un ripresentarsi che ha altri connotati. Si tratta di un’immagine-ricordo. L’immagine-ricordo è introdotta allo scopo di distinguere una memoria diversa da quella mnemonica. La sua funzione è di immagazzinare e registrare tutto, ogni dettaglio, senza alcuna finalità pratica. A questo flusso ci si rivolge per attingere ricordi, ma allorché l’attenzione percettiva vi rivolge lo sguardo, ne muta la sostanza. La percezione traduce in immagini 1 e 2 le immagini-ricordo, promuovendo una data disposizione ad agire che modifica la configurazione possibile del corpo. In tal senso, si forma una sorta di schedario di operazioni possibili da far passare all’atto a seconda delle eccitazioni-provocazioni esterne. Il flusso delle immagini-ricordo, modificato dall’attenzione e dall’attenzione cosciente in immagini1 e 2, si altera in “coscienza di tutto un passato” che si installa però, e inevitabilmente, nel presente. «A dire il vero, essa non ci raffigura più il nostro passato, ma 53 54
Id., pag, 65. Id., pagg. 65-66.
50 50
lo mette in atto; e se merita ancora il nome di memoria, non è più perché conserva delle vecchie immagini, ma perché ne prolunga l’effetto utile fino al momento presente »55. «Di queste due memorie, l’una immagina e l’altra ripete»56. La differenza è sostanziale: tra produzione sorgiva di memoria e riproduzione mnemonica piegata all’utile dell’azione. La questione è che questi due rispettivi processi sono inversi. È interesse di questa seconda memoria operativa di inibire l’altra, in modo da estrarne solo ciò che effettivamente è di utilità pratica. Per cui, l’ipotesi di Bergson è che un disturbo sui circuiti motori di percezionereazione possa, anziché confermare la tesi della memoria situata nel cervello, mostrare come essa possa solo così avere una chance di manifestare la sua propria natura. In merito alla seconda ipotesi, di cui si faceva menzione più sopra, la questione del riconoscimento deve procedere allo stesso modo in due modalità alternative. Riconoscere è un processo differenziale, ma mette necessariamente in relazione un elemento presente con un elemento passato ad esso contiguo? Semplificando, avremmo due immagini da raffrontare, una data nella percezione presente, l’altra, a essa contigua, appartenente a un “già visto” del passato? Inoltre, la domanda è se queste due immagini siano o meno sovrapponibili, ovvero identiche. All’apparenza si potrebbe assumere di sì, e che il collegamento funzionale al riconoscimento scatti proprio in base al richiamo dell’identico. Di fatto, però, è proprio l’associazione percezione-ricordo a essere insufficiente a spiegare il processo di riconoscimento. Da qui anche l’inadeguatezza di un assunto identitario. Vi è, sostiene Bergson, un riconoscimento dato al limite nell’immediatezza57, legato all’attitudine motoria del corpo, sagomata dall’esperienza. «Consiste in una azione e non in una rappresentazione», «riconoscere un oggetto usuale consiste soprattutto nel sapersene servire», «non c’è percezione che non si prolunghi in movimento»
58
. È questo un
riconoscimento di ordine pratico (non spirituale). Eppure, è proprio nel mentre di questo processo percettivo-motorio, votato a costruire e mettere a punto, con l’esperienza, degli schemi/meccanismi di orientamento, che la “nostra vita psicologica”, intesa come memoria fatta da immagini-ricordo, sopravvive all’inibizione del presente, all’«equilibrio sensorio55
Id. pag. 67. IbId.. 57 Id. pag. 77. 58 Id. pagg. 77-78. 56
51 51
motorio di un sistema nervoso teso tra la percezione e l’azione», in attesa che si apra una «fessura tra l’impressione attuale ed il suo movimento concomitante per farvi passare le sue
immagini»59. Il “mentre” cui si fa riferimento è esattamente quello di un altro presente (diverso dal presente dell’azione, rivolto al futuro), in cui il passato è tutto lì, potremmo dire inattivo ma attivabile. Dunque, se, come dice Bergson, questo insieme di immagini-ricordo rimane presente, occorre che l’immagine analoga a quella del momento in corso sia scelta tra tutte quelle possibili che insistono in quel mentre. Accade così che tra l’inibizione esercitata dalla pressione utilitaristica del presente operativo, e l’interesse stesso di questo presente, si faccia strada un richiamo che risucchia in questo varco proprio un’immaginericordo che conviene alla situazione. Essa allora è attivata dal/nel presente percettivo. Si distinguono pertanto un riconoscimento automatico (per distrazione) e un riconoscimento attento, in cui intervengono i ricordi-immagine. Secondo la terza ipotesi, si diceva più sopra, una lesione cerebrale potrebbe impedire l’attualizzarsi (attivarsi) dell’immagine-ricordo, ma non la sua distruzione. Questo può essere possibile solo allorché si distingua un riconoscimento automatico da un riconoscimento attento e, nel caso di quest’ultimo, dove le immagini-ricordo sono coinvolte, non sia la percezione a determinare meccanicamente l’apparizione dei ricordi, come se questi, potremmo dire, si costituissero quali proiezioni interne (estroflesse all’occorrenza). L’attenzione è un atteggiamento che attiva la memoria. I suoi schemi di azioni possibili (percezione-movimento) fungono da esca al lavoro della memoria, la quale rimpolpa a sua volta la percezione raddoppiandola con una immagine-ricordo. Ma in questa fase, Bergson non chiarisce del tutto il senso di questo raddoppiamento, attribuendolo prima alla memoria e poi, come riflessione, alla percezione attenta. Ciò che non è chiaro concerne il rapporto in immagini tra percezione e memoria: il particolare gioco di rappresentazioni e ripresentazioni che si produrrebbe e riprodurrebbe per differenziazioni similari. A questo stadio del discorso, egli comincia solo ad abbozzare quella che sarà la sua visione intuitiva fondamentale, ovvero il “cono” della memoria. Accenna intanto a un processo, tra percezione attenta e memoria, che non procederebbe in linea retta, ma 59
Id., pag. 79.
52 52
secondo un circuito. La percezione attenta non parte dall’oggetto per giungere nella “massa intellettuale” e lì arrestarsi, ma vi è una circolarità tra oggetto e percezione riflessa, che, laddove siano attivate ulteriori immagini-ricordo, produce ulteriori anelli attorno a questo punto, come un sasso nello stagno – come se il sasso nello stagno fosse la puntura di insetto. A tratti incerto e fumoso, Bergson tenta di avvicinare il punto decisivo del discorso, il cuore della sua intuizione filosofica. Se è vero che, di diritto, immagine-percezione e immaginericordo vanno tenute distinte, è vero anche che nella genealogia stessa delle immagini vi è come una vertigine vorticante in cui il caleidoscopio bersgoniano va via via modulandosi. Questa vertigine parte e ritorna in quella cesura del cursore temporale che è il presente. Un presente fin qui ambiguo, scivoloso. Ciò che appare essere di reale interesse è mettersi al riparo da qualunque pretesa deterministica e meccanicistica. Distinguere materia e memoria tentando di escludere che la memoria sia funzione cerebrale e che le immagini-ricordo siano fisicamente allocate nella scatola cranica non risponde a un prurito antiscientifico, ma all’esigenza di rivendicare l’intuizione di uno spazio libero di indeterminazione creativa, vivente. La non linearità di questo complesso flusso di immagini dall’oggetto (immagine), alla percezione-azione (immagine 1 e immagine 2), al ricordo (immagine-ricordo) che si attua nel riconoscimento di secondo tipo, quello “attento”, e la sua circolarità marcano un’apertura surlineare che non affonda nel groviglio intimistico ma ritorna sull’oggetto sfogliandolo e integrandolo al tempo stesso. E’ una amplificazione ridondante che, a partire da una selezione, il rapporto di immagini, moltiplica riverberi e tornanti tra oggetto e cassa di risonanza memoriale, man mano che l’attenzione procura coinvolgimento. Il primo schema di Bergson60 (fig. 2) si spiega in quest’ottica.
60
Id. pag. 88.
53 53
Figura 2. Schema 1 - Materia e memoria
Sul piano l’oggetto O (immagine), cui corrisponde il primo tornante di inter-esse percettivo che riproduce O in A (immagine 1 e immagine 2, visto che la percezione è sempre azione e mai solo contemplazione); man mano che l’attenzione si acuisce, questo oggetto concresce, si arricchisce in tornanti progressivi sempre più ampi, corrispondenti a immaginiricordo che ne nutrono lo spettro. Simmetricamente, si sfogliano quelle che Bergson chiama le condizioni tali per cui questo oggetto viene progressivamente riconosciuto e cioè riattuato con tutta la sua profondità di rimandi. Quindi da un lato abbiamo i cerchi relativi alla memoria, B-C-D, e dall’altro le potenzialità dell’oggetto B1, C1, D1 (ciò che l’oggetto può corrisponderci in quel frangente). «La stessa vita psicologica sarebbe dunque ripetuta un numero infinto di volte, ai
successivi livelli della memoria, e lo stesso atto dello spirito potrebbe attuarsi a molte altezze differenti»
61
, come potremmo essere tentati di vedere nell’immagine di J. Pollock,
Shimmering Substance (1946).
61
Id., pag. 88.
54 54
Figura
3.
J.
Pollock, Shimmering Substance, (particolare).
Un unico piano dove il gesto (cursore del presente) segna a ripetizione tracce curvilinee che affondano nelle trame, a groviglio cromatico, del supporto. Le “altezze” della ripetizione riflessiva sono gli esponenti più squillanti di quelle curve, mantenendosi sempre sullo stesso piano. Il punto da approfondire è come e perché si ritorni sull’oggetto, in virtù di quale natura delle immagini e delle rappresentazioni. È come se ci fosse già nell’immediato un presente doppiato. Un’anti-logica del presente coglibile, che di questo, però, non è il rovescio negativo ma lo spessore necessario, il quale, in quanto spessore, non può esso stesso che svanire qualora si volesse afferrarlo, lasciando tuttavia cogliere la cosa nella sua sporgenza. Perché si produca quella irradiazione e quella amplificazione di rimandi al passato, sempre suscettibile di arricchimento ulteriore, necessaria al riconoscimento attento, l’immagine dell’oggetto O deve esser stata già sempre doppia nella sua origine (relazionale e non solo). In altri termini, se volessimo accontentarci di una immaginepercezione che doppia l’immagine dell’oggetto O, avremmo due presenti estrinseci ma immobili, due stazioni del tempo (per usare termini del Saggio sui dati immediati); affinché ci sia durata, profondità temporale, non è sufficiente neanche aggiungere una sorta di immagine-ricordo che sembrerebbe essere un presente sbiadito, un fantasma del presente,
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il suo senza corpo (ricadendo nella logica della differenza di grado e non di natura – che invece è quella cui Bergson mira). C’è dell’altro. L’immagine dell’oggetto O deve avere già, in origine, una sorta di immagine virtuale che lo doppia in profondità. Un presente che non sarà mai presente, che però fa in modo che quel presente passi. Questo virtuale del presente, che nello schema iniziale non dovrebbe essere né A (immagine-percezione), né B1 (riferimenti al contesto di O), ma O1, è proprio il doppio virtuale dell’immagine oggetto, ciò che Bergson introduce come ricordo puro. Vi è un’immagine-ricordo-puro che, secondo la sua modalità virtuale di esser sempre presente, influenza tutto il processo di riconoscimento. Pertanto Bergson può affermare che tale processo non va, come potrebbe apparire linearmente, dalla percezione all’idea, ma dall’Idea alla percezione, secondo una surlinearità che implica un rapporto di immagini virtuale/attuale, inattivo/attivo, tuttavia reale e non irreale (se per irreale vogliamo negare l’esistenza del virtuale). Trattandosi, inoltre, di altro dal presente, è chiaro che questa immagine-ricordo-puro apre una vertigine, una sorta di “buco nero”, di “occhio del ciclone”, un’apertura immanente che è tanto una faglia del sistema quanto una risorsa. Volendo immaginare tutto questo, potremmo già farci l’idea di un moto a spirale. Non si tratta, a rigore, di un circuito chiuso, ma di una sostanziale apertura critica che fa sì che il sistema giri e si muova. Il ritorno sull’immagine O non è mai un ricalco indifferente, ma è sempre influenzato e condizionato dall’immagine
virtuale
(l’unicum
irripetibile
dell’immagine
O)
che
determina
il
riconoscimento come differenziale, spostando più in là, in un déplacement, la matassa psichica. Questo ricordo puro si colloca in un una sorta di presente remoto, vicinissimo e lontanissimo al contempo; per questo, riassumendo, Bergson propone un nuovo schema 62 in cui a scopo esemplificativo tratteggia il flusso che va dal ricordo puro alla percezione, posizionando il primo in una sorta di punto di inizio. Lo schema serve in realtà a illustrare come l’approccio “associazionista”, che atomizza i ricordi e le percezioni, facendone degli esponenti più o meno efficaci della sensazione (perché più o meno “freschi”), mistifichi il tutto, tradendo di fondo la trama temporale che è durata. L’associazionismo, assecondando 62
Id., pag. 113.
56 56
un modello metafisico errato, assume come già dati tutti gli elementi in questione, ipotizzando che possano essere impilati uno sull’altro come fossero anelli su di un perno centrale. Qui, invece, vedremo perché non c’è alcun perno e gli anelli sono tornanti mobili. Quando parliamo di ricordo puro, intanto, dobbiamo prestare attenzione al fatto che si tratta di un’immagine sui generis: è il fondamento proprio dell’immagine. Non bisogna mai equivocare, nel discorso che si va costruendo, un’immagine con un qualcosa di visto o visibile: perché, al contrario, è l’immagine stessa a consentire talune visioni, nascondendone delle altre. L’immagine non è l’oggetto dell’immaginazione. Immaginare è sempre una presentificazione, mentre una immagine non è sempre qualcosa di ci è presente. Occorre allora chiarire meglio la natura di questo “presente”. (Fare lo spettro della puntura di zanzara.) L’immagine remota del ricordo puro, doppio virtuale dell’immagine dell’oggetto, si è detto che fosse di un presente non presentificabile, mentre si è detto che l’immagine-percezione (cui segue l’immagine-azione) sia al presente e che il riconoscimento funzioni sulla base di un richiamo che riattiva un’immagine-ricordo (la quale dovrebbe essere al passato?). Non si ricadrebbe comunque, in questo modo, nel vizio giustappositivo della metafisica dell’associazionismo psicologico, qualora ci si accontentasse di una lettura approssimativa del discorso bergsoniano? La questione è che per comprendere a pieno la sua tesi bisogna non perdere mai di vista il suo approccio empirico e pragmatico. Lo spettro temporale in Bergson non si coglie se non alla luce della sua filosofia dell’azione. Come inizialmente si diceva, che si fraintenderebbe la natura della percezione slegandola dall’azione e postulando per essa una dimensione contemplativo-conoscitiva dove sono già dati soggetto e oggetto, così ora si fraintenderebbe lo spettro temporale se non lo si leggesse in rapporto al nesso attivo-inattivo. Il presente è l’attivo, il suo rovescio è l’inattivo; ma l’azione ha un corso e uno svolgimento. Dura. Dunque il presente deve essere al contempo azione e inazione. Affinché esso passi, ossia duri, deve schivare il presente statico astratto e, in qualche modo, già essere passato. Usando un’immagine, potremmo pensare a un riflesso sul pelo dell’acqua, che scivola squillante quasi a sollevarsi, come una lieve pellicola, dall’acqua stessa, essendo questo “squillare”, questo sollevarsi, il protendersi verso il futuro. Ma è solo un’illusione ottica. Quel riflesso percorre l’acqua ma in realtà per
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scorrere deve continuamente affondare nelle pieghe d’ombra della superficie. Essere un altro riflesso. Così il presente-che-passa. Esso è un’immagine presente nella misura in cui è un’immagine passata. Il presente è l’illusione, il simul del passato. Il “cursore mobile” del corpo fa sì che l’azione scorra, in rapporto al suo inter-esse, ma in fondo l’immaginepercezione, che noi credevamo presente (a noi stessi), non lo è se non in funzione di un ritardo. È ciò che ci viene restituito dall’impiego dell’inattivo, essendo l’inattivo l’insistenza del passato (come mai presente sempre presente) che grava sulla punta di cristallo del nostro vivere. L’azione separa le materie – e le immagini. Svincola un attivo da un inattivo. L’azione allora, potremmo dire, si patisce. Il gravare dell’inattivo (l’inutile del virtuale, a partire dall’immagine del ricordo puro, limite 0 dell’immagine, quasi una non immagine) è il passivo dell’azione, che solo così può acquistare corpo e movimento. Si presentifica ciò che è utile alla vita, ciò che serve all’azione; ma questo presentificarsi risponde a una zona d’ombra che ne è l’anti-logica, intesa non in chiave negativo-sottrattiva, ma in chiave virtuale: il virtuale di tutti i possibili. Bergson spiega allora la natura dell’esistenza dell’inattivo e del virtuale. Per classificare qualcosa come “esistente” (il ragionamento qui è riferito all’esistenza in senso empirico) occorre che qualcosa sia presente alla coscienza e che questo qualcosa sia connesso logicamente o causalmente con quanto segue e precede. Per quanto concerne gli stati mentali attuali, sembra che essi soddisfino bene la prima condizione, essendo per loro natura ben presenti alla coscienza; e che invece non soddisfino la seconda, non essendo in un rapporto di connessione causale necessaria l’uno con l’altro nella loro serie. Per quanto concerne gli oggetti esterni, sembra invece che essi soddisfino molto bene la seconda condizione, essendo in un rapporto di connessione perfetta nella loro serie, che, oltretutto, travalica la nostra percezione, non essendo del tutto presenti alla nostra coscienza. Per questo si tende a credere che non esistano gli stati mentali inconsci e che non abbiano alcuna partecipazione alla nostra coscienza gli oggetti materiali non percepiti. Il punto è che qualcosa può esistere realmente sebbene nella sua virtualità. Quelle due condizioni, infatti, vanno assunte, secondo Bergson, non secondo una distinzione netta, ma secondo un principio di preponderanza. In tal modo, non si rischia di dover attribuire modalità di esistenza esclusive: gli stati mentali attuali in funzione dell’essere percepiti; gli oggetti
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esterni in funzione della loro connessione logica e causale. Secondo una distinzione netta e radicale tra quelle due condizioni, il passato non potrebbe conservarsi, non potrebbe esistere, mentre esso è lì nella sua latenza, a sagomare il nostro carattere63. Allora la questione circa l’esistenza del passato si sposta sulla sua utilità-impiegabilità. Non esisterebbe ciò che non è utile e, per questo, non presente. «Voi definite arbitrariamente il presente ciò che è, mentre il presente è ciò che si fa»64. Quindi, il presente è ciò che si produce passando all’atto. Non è un dato ma un processo. Il passato non è ciò che si fa, è l’inutile piuttosto che l’inesistente. O meglio, il passato puro (inimpiegabile e inattivo) è la condizione affinché il presente sia fattibile, affinché cioè esso assuma una forma (nel riconoscimento). Salta, in questa prospettiva pragmatica, la prerogativa di esistenza per il presente. Al limite, ciò che noi percepiamo presente è già passato: “ogni percezione è già memoria”, apprensione di “trilioni di vibrazioni” già accadute; mentre il presente, alla sua sorgente, altro non è che quell’”inafferrabile progresso del passato che rode il futuro”, inattivo, condizione dell’attivabile. Quindi quell’immagine 1 (e la sua correlativa immagine 2) non è altro che memoria presentificata, utilizzabile, impiegabile; mentre l’immagine doppia dell’immagine O, è esattamente il presente della permanenza di un passato immemoriale, fonte, per risonanza, del presentificabile in immagine-ricordo e immagine-percezione. L’immagine prima è sempre, potremmo dire, immagine seconda. Procedendo con una serie infinita di biforcazioni. Il virtuale, allora, non essendo l’utile, è ciò che rimane più propriamente. Mentre ciò che è utile è ciò che si consuma. Se non esistesse il passato, non esisterebbe neanche il presente con la sua pretesa di futuro. Così progredisce il passato come memoria. Il virtuale è l’integrale della nostra progressione vivente. Riprendendo il filo del discorso sulle due memorie, Bergson ripropone una memoria del corpo, fissata nell’organismo, che somiglia più che altro a un’abitudine acquisita; e una memoria vera. La memoria vera, potremmo dire, è esattamente l’integrale, virtuale, della nostra soggettività, rispetto a cui, il corpo, nel suo contatto empirico con il mondo, entra in risonanza, attualizzandone differenziali possibili, che a loro volta producono virtualizzazione. 63 64
Id., tutta questa discussione pagg. 124-125. Id., pag. 127.
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Se in un primo momento poteva apparire una sorta di dicotomia fra le immagini: una presente e l’altra passata (questa più ipotetica che virtuale), ora si comprende come in realtà sia tutto un riverberarsi di immagini, che gravitano nel virtuale, a sua volta gravante sul punto mobile del corpo quale punta di un iceberg rovesciato. Il celebre schema del “cono” della memoria bergsoniano si spiega così. Se immaginiamo un cono SAB (fig. 4), che rappresenta l’intera memoria, con la base AB in alto, che raccoglie i ricordi-puri e rimane immobile nella misura raccoglie le varie immagini ricordo-puro, il vertice S, in basso, sta per il mio corpo, sempre in movimento e sempre in un presente che ricomincia, attraverso cui si tocca il piano P, corrispondente alla attuale immagine che ho dell’universo, di cui il mio corpo stesso fa parte65.
Figura 4. Schema 2 – Il cono della memoria
Questo “cono”, in realtà, muovendosi continuamente, disegna più una spirale che una figura chiusa. La spirale della soggettività come andatura di una condotta esistenziale, che può tendere o al sogno e al delirio o alla generalità impersonale dell’abitudine – essendo il sogno e il delirio votati alla singolarità dei momenti custoditi verso la base della spirale e il suo polo contemplativo, mentre la generalità schematica trovandosi al livello del presente sensorio-motore del corpo. I ricordi puri, che popolano la base del nostro cono, non sono dei doppi identici ma sono cifra del singolare. Si tratta del momento unico e irripetibile in cui una data cosa entra, come riverbero traslato, nel nostro campo percettivo. Ingoiata subito nel nostro inconscio come limite 0 dell’immagine. Mentre a ritornare sull’oggetto è 65
Id., pagg.128-129.
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un’immagine-ricordo rispetto a un’immagine-percezione, già in qualche modo processata da un risucchio di presentificazione che rende/restituisce la visione e il riconoscimento. L’idea generale si trova proprio nella confluenza di queste due correnti: l’una dei ricordi-puri e l’altra delle immagini-percezione miste alle immagini-ricordo. Essa sorge come punto di incrocio tra il ricordo delle differenze (l’effetto di singolarità dei ricordi-puri, che incamerano l’unicum di ogni volta) e la percezione delle somiglianze (che è funzione del cursore mobile del corpo, sia per la sua fisiologica memoria d’abitudine, sia per la sua esigenza di azione e operatività). L’idea generale sarebbe allora una visione che, in quanto tale, rimane sintesi dell’identico e del differente? A Bergson non interessa in questa sede una teoria dell’Idea generale, essendo il suo scopo mostrare il funzionamento di questo “cono” della memoria: «seguire la pura memoria, la memoria integrale, nel continuo sforzo che essa compie per
inserirsi nell’abitudine motoria»66, quindi cercare di comprendere come la differenza propria al limite 0 dell’immagine possa tradursi in visione – come quando si dice che una data cosa infine ci è presente (o perché la immaginiamo o perché la ricordiamo, in tutti i casi la riconosciamo). Se per queste ragioni osserviamo il rapporto tra le nozioni di somiglianza e generalità, ci rendiamo conto del corto-circuito in apparenza inevitabile tra astrazione e generalizzazione: per generalizzare bisogna astrarre e per astrarre bisognerebbe già possedere delle generalizzazioni. Si tratta, in questo caso, di un approccio non genealogico al problema del riconoscimento e dell’idea generale, basato appunto sul pregiudizio (di tipo gnoseologico) che si percepiscano oggetti individuali. Ma, come si era precisato fin dall’inizio, la percezione non è una funzione della conoscenza (disinteressata) e non agisce sull’oggetto come ciò che le è di fronte, precostituito nella sua datità. In tal senso, Bergson aveva già inteso superare il circolo originario dell’idealismo e del realismo. È sempre sul piano pragmatico ed empirico che si riesce a superare questa viziosità. L’oggetto, come il soggetto, si costruiscono. In partenza non si hanno né un’idea generale né un’individualità completa, piuttosto si è di fronte a un «confuso sentimento di qualità importante o di somiglianza»67. La prerogativa utilitaristica e biologica della percezione posta da Bergson 66 67
Id., pag. 132. Id., pag. 134.
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mostra come essa sia sempre situata e interessata, rispondendo a una tendenza o a un bisogno. Il «discernimento dell’utile» orienta l’azione a cogliere ciò che serve, sulla base della semplice captazione di quelle «forze»68 che risultano essere gli unici «dati immediati» della percezione stessa. «Su questo sfondo di generalità o di somiglianza», la memoria «potrà far valere i contrasti da cui nasceranno le differenziazioni»69. La somiglianza, allora, è patita e agita come una “forza fisica” e non come una nozione o un concetto, perché «dal minerale alla pianta, dalla pianta ai più semplici esseri coscienti, dall’animale all’uomo, si segue il progresso dell’operazione con la quale le cose e gli esseri colgono nel loro ambiente ciò che li attira, ciò che li interessa praticamente, senza che abbiano bisogno di astrarre, semplicemente perché il resto dell’ambiente rimane senza presa su di loro: quest’identità di reazione a delle azioni superficialmente differenti è il germe che la coscienza umana sviluppa in idee generali»70. Le immagini da cui siamo partiti, allora, sono immagini-forze prima che immaginistatiche. L’immagine stessa è una forza, se assumiamo che la forza sia tensione e rapporto. Ed è questo rapporto immanente alla forza a far scaturire l’immagine. Una sorta di frizione che fraziona e perciò produce scintille di immagini possibili. Non c’è immagine che non sia già sempre similare e perciò differenziale, calamitando altra differenza, che quindi stabilizza le identificazioni possibili nella sua corrente di ritorno. La somiglianza da cui si parte non è quella a cui si ritorna. Si parte da una somiglianza dettata dall’utile, quasi automatica (memoria del corpo: sia il caso dell’erba per l’erbivoro); si ritorna a una somiglianza che ci è presente e ci rende presenti. «Ed è precisamente nel corso di questo progresso che si costruiscono, per il duplice sforzo dell’intelletto e della memoria, la percezione degli individui e la concezione dei generi – in quanto la memoria innesta delle distinzioni sulle somiglianze spontaneamente astratte e l’intelletto coglie dall’abitualità delle somiglianze l’idea chiara della generalità»71.
68
Id., pag. 134. IbId. 70 Id., pag. 135. 71 IbId. 69
62 62
Le parole (e i concetti o i simboli) sono “apparati motori” artificiali che servono – potremmo dire – a sussumere un numero illimitato di oggetti sotto poche immaginischema. Tornando al “cono” della memoria, si può comprendere ora come esso sia un vortice e non una semplice figura statica. L’idea generale, infatti, circola tra la sfera dell’azione e quella della memoria pura, tra il vertice (il corpo) e la base (i ricordi puri), «essa consiste nella duplice corrente che va dall’una all’altra – sempre pronta sia a cristallizzarsi in parole pronunciate, sia a dileguarsi in ricordi»72. Questo moto produce delle ripetizioni, dei tornanti (le sezioni), nel senso che la stessa immagine può ritornare con differenti tonalizzazioni a seconda del livello di densità in cui si situa, fino a richiamare un’intera storia e ad esserci presente in tutto il suo spettro di profondità. Le ripetizioni in questione, gli echi tra le immagini, concorrono a integrare sia l’oggetto che il soggetto. La soggettività del cono di memoria è la cassa di risonanza dell’oggetto. Tutto il “cono” della memoria, iceberg rovesciato, poggia sul punto mobile dell’azione costituita dal corpo. Solo un oceano capovolto può spiegare questa insistenza paradossale – o una terra divelta dalle sue coordinate, tradizionalmente metafisiche, di sopra e sotto. Come si reggono gli elefanti di Dalì su quelle esili zampe? È sufficiente alleggerire il carico assecondando la salvifica funzione dell’oblio. La maggior parte di questa insistenza della memoria è infatti sospinta al limite 0 dell’immagine, un sottofondo continuo e inavvertibile, se non indirettamente, quando qualcosa ritorna come un rigurgito, precipitandosi oltre la soglia dell’inimmaginabile, divenendo quindi visibile e rendendo visibile (riconoscibile). Ma cosa ritorna e soprattutto perché? Dei possibili virtuali cosa si attualizza? Si è detto che l’associazionismo (come qualunque determinismo) fornisce una logica del tutto insufficiente a spiegare come si possa passare da un’idea a un’altra, da uno stato all’altro. Il piano deterministico di un associazionismo ingenuo prevede una giustapposizione tra immagini statiche, già date, già risolte, che si richiamerebbero meccanicamente. In tal caso, però, inteso il richiamo come un movimento, sarebbe proprio questo a non poter essere pensato e a non poter funzionare. Perché ci sia un richiamo, un’attualizzazione, è necessario postulare
72 Id.,
pag. 137.
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un divenire delle immagini, ciò che Bergson chiama “progresso”. E la logica di questo “progresso”, benché da Bergson messa in risalto, si può dire, in verità, non sia da lui neanche tentata (per sua stessa ammissione73). Egli si limita a indicare i movimenti di questa surlinearità (essendo lineare, per contro, il processo meccanicistico). Posto che, per un verso, è il corpo a orientare, con la sua attenzione alla vita e in base al suo stato sensoriomotore, la memoria; è la memoria integrale, per l’altro, ad esercitare «una spinta in avanti per inserire nell’azione presente la maggior parte possibile di se stessa», creando due movimenti: da un lato, di contrazione e traslazione in vista dell’azione; dall’altro, di rotazione su se stessa, per offrire l’aspetto più utile alla situazione in atto. I movimenti, in effetti, sono gradi di contrazione e tensione della memoria che corrispondono alle sezioni del cono: per incunearsi nello stato del corpo, la memoria deve ridurre l’ampiezza della sua area in anelli sempre più stretti, ma deve anche ruotare affinché figuri l’immagine-ricordo più appropriata. Quando invece è sulla memoria che il nostro sforzo si concentra, allora, a poco a poco, appaiono sempre più nitidamente quelle che Bergson chiama “nebulose”. Gli anelli più remoti degli stessi eventi si mostrano nella loro ricchezza pulviscolare, con dei punti (ricordi) dominanti intorno a cui gravitano altri elementi. Allo sforzo di contrazione (che è quello che solitamente si pratica di più), si può aggiungere uno sforzo di espansione. Ciò che si associa, per contiguità o per somiglianza, è messo in gioco da questo complesso “progresso” in divenire, aperto e segnato da tensioni, distensioni, densità e allentamenti, corrispondente, però, alla punta mobile del corpo nella sua attenzione alla vita. È tutto un equilibrio affinché questa punta mobile non diventi una scheggia impazzita e affinché le tensioni e le distensioni proprie della memoria non risucchino l’azione nel suo gorgo di passato incipiente. Non dimentichiamo, infatti, che in fondo il presente non è che una figura di un complesso e ridondante passato – che potrebbe non passare più e arrestare la corsa.
1.3. Il piano ricurvo delle nuove geometrie
73 Id.,
pag. 137.
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Il sottotitolo di Materia e memoria è Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito. Come dicevamo più sopra, in apertura al nostro discorso Immagini per un inizio, l’intento bergsoniano non è assolutamente quello di riproporre un dualismo, ma, piuttosto, di superarne il paradigma metafisico che lo determina, ripartendo dal tentativo di ripensamento del proprio. Nel Saggio sui dati immediati della coscienza, benché egli fosse riuscito a guadagnare l’originale messa a tema della questione del tempo, in termini psicologici, pervenendo alla nozione di durata, non era altresì riuscito a schivare l’esito dualista di una coscienza che dura eterogenea in opposizione a una materia estesa in uno spazio omogeneo. Anzi, questa stessa opposizione appariva funzionale proprio a rimarcare l’esclusività della dimensione spirituale caratterizzata infine come libera. Lungo tutto l’arco della sua produzione, dal Saggio dell’’89 alla raccolta Il pensiero e il movimento del ’34, egli in realtà non cessa di individuare termini rispetto a cui tentare una sintesi, una relazione, o sul piano epistemologico (rivendicare metodi diversi per questioni diverse, l’uso dell’intelletto, ad esempio, per le scienze, e l’uso dell’intuizione per la filosofia) o sul piano morale, come le Due fonti della morale e della religione. Ma forse proprio attraverso una attenta disamina dell’ontologia esposta in Materia e memoria si può comprendere quale voglia essere il senso di una possibile unione tra queste due dimensioni, in apparenza così cartesianamente distanti. Cos’è la materia e cos’è lo spirito? Quale modello metafisico può essere in grado di rendere l’unione tra queste sfere differenti? Quale metodo può evitare di incorrere nel vicolo cieco di un dualismo che misconosce la pensabilità di ogni forma di rapporto tra i due? Bergson avverte con chiarezza (come del resto F. Nietzsche con qualche decennio di anticipo) l’insufficienza del modello metafisico tradizionale a fronte degli epocali cambiamenti in corso, in ogni ambito del sapere: dalla biologia alla fisica, alla chimica e alle matematiche; dalla psicologia all’antropologia. Come pure avverte l’esigenza, d’altra parte, di salvaguardare un posto determinante per la filosofia e la dimensione più spiritualmente libera dell’uomo (obiettivo che sarà rilanciato successivamente da M. Scheler74 nella sua Antropologia Filosofica), non riuscendo del tutto, però, a trovare una sintassi nuova e stabile (una nuova logica) in grado di esprimere questa rinnovata percezione del mondo. Il mondo di Bergson punta all’unità, ma si tratta di una unità differente, energetica, dinamica. Noi 74
Si veda M. Scheler, Mensch und Geshichte del 1926 e Die Stellung des Menschen im Kosmos del 1927. Si veda inoltre M. T. Pansera, Antropologia filosofica, Mondadori, Milano, 2007.
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cercavamo Immagini per un inizio proprio per avviare la bozza di uno spazio, di un campo, in cui sorgesse il sole di una soggettività pensata al di fuori delle categorie tradizionali dell’a priori, e non si poteva non partire proprio da queste suggestive immagini bergsoniane: da questo sfondo di un piano di immagini senz’anima, più empirico che tradizionalmente metafisico. Egli parte dalla percezione intendendola non come funzione conoscitiva di un soggetto, ma come azione interessata di un corpo, esposto alle immagini in quanto immagine esso stesso. Un corpo immerso in una materia fenomenica senza Io penso. Al livello della pura percezione, vi è già un primo e originario contatto con la materia: esse sono costituite dallo stesso tessuto di immagini. Ma ovviamente questo non basta a delineare un rapporto tra la dimensione spirituale e quella materiale, tra l’eterogeneo e l’omogeneo, l’inesteso e l’esteso. Bisogna ulteriormente chiarire cosa intenda Bergson per “immagine” e questo lo si può fare solo seguendo la sua singolare proto-teoria della materia, in cui egli richiama, non a caso, alcuni fondamentali elementi di fisica, chimica e matematica contemporanea. Seguendo questo ragionamento, la metafora del “cono” della memoria apparirà meno come suggestiva o esemplificativa e più come tentativo effettivo della posizione di un nuovo piano del pensiero: post cartesiano, post newtoniano e post euclideo. Quanto Bergson suggerisce è una nuova sintesi della soggettività, basata su di una concezione “aggiornata” dello spazio e del tempo, e capace di orientare diversamente epistemologia e ontologia: «Scienza e coscienza sono, in fondo, d’accordo, purché si consideri la coscienza nei suoi dati più immediati, e la scienza nelle sue più alte aspirazioni»75. Da qui si comprenderà meglio anche lo sforzo da lui sempre profuso nel cercare di stabilire ambiti di validità per l’intelletto da un lato e l’intuizione dall’altro. L’intelletto, infatti, si risolve come una produzione di schemi tendenzialmente ripetitivi e funzionali alla vita, che non sempre, però, riescono effettivamente ad intonarsi alla vita stessa, la quale, da parte sua, richiede che questi stessi schemi vengano cambiati. È l’intuizione che consente questa comprensione, corrispondendo, al “progresso” della vita (il divenire), un progresso della soggettività nella sua integralità. «In questo senso, il compito del filosofo, così come lo intendiamo noi, assomiglia molto a quello del matematico che
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H. Bergson, Materia e memoria, pag. 166.
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determina una funzione partendo dal differenziale. L’estremo procedimento della ricerca filosofica è un vero lavoro di integrazione»76. Occorre premettere che le pagine bergsoniane sono attraversate da continui richiami allo stile simbolico delle matematiche e, parimenti, emerge l’esigenza di superare il modello di omogeneità (e di filosofia dell’identità) che sottende il numero. Se, in tal senso, al livello dell’Essai dell’’89, la critica mossa al pensiero matematico appare combaciante alla critica mossa al meccanicismo77 (e dunque alla fisica newtoniana), il momento in cui si vuole pervenire, con Materia e memoria, a una “relazione” tra queste due dimensioni, e dunque a una sorta di proto-posizione di un unico piano, accade qualcosa di diverso. Le critiche mosse al pensiero matematico, nel merito della sua insufficienza a pensare il reale, sembrano voler tendere all’esigenza di una nuova epistemologia più che a una opposizione pregiudiziale filosofia versus scienza. Lo stesso “spiritualismo”78 assume una connotazione diversa, meno tradizionalmente metafisico – anzi, in diretta opposizione alla metafisica, qualora la si intenda secondo il paradigma moderno di una opposizione anima-corpo, spirito-materia. Nell’Essai Bergson approda al concetto di “durata” intesa come cifra di un tempo puramente qualitativo e non più di un tempo che sia ordine e numero del movimento 79. La sua sofisticata operazione consiste proprio nello slegare il numero dal movimento, per liberare quest’ultimo dalla trappola di quella spazializzazione astratta, che è quella cui perviene il pensiero Occidentale considerando, come sue espressioni apicali, il piano cartesiano da un lato e la fisica newtoniana dall’altro. L’introspezione consegna la percezione di uno scorrere interiore del tempo che non può essere risolto come distentio animi80, misurabile proprio in virtù della sintesi che passato (memoria) e futuro (attesa, expetatio) subiscono nel loro presentificarsi, all’attenzione della coscienza, nel presente del presente (contuitus)81. Si tratta di un durare immanente, aderente al proprio stesso scorrere,
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Id., pag. 156. Modello che, tra l’altro, era alla base del pensiero evoluzionista positivistico di Spencer e Compte, a cui, inizialmente, Bergson era orientato. 78 Si veda R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, Marinotti, Milano, 2011. 79 Secondo la tradizionale impostazione aristotelica. 80 IX Libro delle Confessioni agostiniane: Quid est enim tempus? 81 Basandosi, la prospettiva agostiniana, su di una metafisica onto-teologica, il tempo dell’uomo non si comprende se non in riferimento all’eterno. 77
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che sta perdendo i riferimenti astratti delle sue ascisse e delle sue ordinate così come la sua gravità. È un dato immediato in tal senso: «La durata assolutamente pura è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore »82, si tratta di una successione senza distinzione, intesa come compenetrazione reciproca e solidale di elementi, come una organizzazione intima che solo un’operazione di astrazione può trasporre su di un piano in vista di una ricostruzione ordinata in stati simultanei di “prima” e “dopo”, giustapponibili e perfino ipoteticamente scambiabili. Questo durare costituisce quella che Bergson chiama molteplicità qualitativa, tanto eterogenea quanto continua, opposta alla molteplicità quantitativa di stampo matematico83. È qui che occorre fare una significativa digressione, per comprendere a fondo il senso di questo rimando alla nozione di molteplicità e a ciò che essa presuppone. Il XIX secolo appare decisivo per lo sviluppo delle matematiche contemporanee. Al centro di questa ricca evoluzione vi è proprio la problematica geometrica dello spazio, sebbene essa fosse stata inquadrata filosoficamente e matematicamente da Descartes84, quale fondatore della geometria analitica attraverso il piano cartesiano, che consentiva di tradurre, con il metodo delle coordinate, ogni problema geometrico in equazione algebrica e viceversa; e poi da Kant85, nell’Estetica trascendentale, considerando lo spazio quale forma a priori del senso esterno, condizione, cioè, dell’intuizione esterna, assumendo quindi la geometria (euclidea) quale scienza che dimostra sinteticamente a priori le proprietà delle figure attraverso lo spazio; mentre, in termini fisici, da Newton86, con la nozione di spazio assoluto, «sempre uguale e immobile»87. La questione, che da secoli rimaneva irrisolta, riguardava le tesi esposte nel I Libro degli Elementi di Euclide (365-300 a.C.) e, in particolar modo, la deducibilità e dimostrabilità del V postulato, noto come “postulato delle parallele”, a partire dai primi quattro. Se i primi
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H. Bergson, Saggio, pagg. 66-67. Id., pag. 79. 84 R. Descartes, Géométrie, (1637), appendice Discours de la méthode. 85 I. Kant, Critica della ragion pura. 86 I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1686). 87 IbId. 83
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postulati88 risultano dotati di autoevidenza, il V non solo non risulta evidente ma neanche deducibile, come vorrebbe Euclide, dagli altri quattro: «Se una retta taglia altre due rette determinando dallo stesso lato due angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli retti, allora, prolungando le due rette indefinitivamente, esse si incontreranno dalla parte dove la somma dei due angoli è minore di quella di due angoli retti». La questione verteva sulla possibilità di assumere questo postulato come assioma o come teorema: come assioma mancava di autoevidenza e come teorema richiedeva una dimostrazione. Ma come riuscire a sciogliere l’indeterminatezza su cui poggia? È indubitabile, stando agli assiomi che precedono, che le due rette debbano incontrarsi a quelle condizioni, ma è anche vero che: 1. Per retta si intendeva un segmento finito (infinita solo in potenza); 2. Lo spazio necessario a una dimostrazione deve essere determinato e non indeterminato. In altri termini, è indubitabile che queste rette debbano incontrarsi ma rimane incerto il “quando” e il “dove”. L’apertura sull’infinito costituisce elemento di ineludibile incertezza. Anche per questo, si tenta di dare del V postulato una formulazione diversa e quella moderna, detta dell’assioma di Playfair89, viene così a presentarsi: “Dati una qualsiasi retta r ed un punto P ad essa esterno, è possibile tracciare per P una ed una sola retta parallela alla retta r data”. Contestualmente, maturava l’altra annosa questione, nota volgarmente come la “quadratura del cerchio”, che, a partire da Archimede (287-212 a.C.), poneva il problema del calcolo di una superficie delimitata da linee curve. Archimede si servì del metodo di esaustione90, che consisteva in un complesso procedimento di dimostrazioni geometriche volte ad ottenere, per progressive approssimazioni, l’area interessata. In pratica si otteneva l’area delimitata da linee curve inscrivendovi o circoscrivendovi progressivamente un poligono che avesse una superficie simile, fino ad esaurire (a “riempire”) quest’area stessa, in modo da avere una differenza, tra le due aree, minore di ogni tolleranza prefissata. Se il poligono utilizzato era però più grande, l’approssimazione era detta superiore; se più piccolo, inferiore. In questo modo, Archimede riuscì per primo a dare una quadratura di 88
Che riportiamo sinteticamente qui di seguito: 1. Tra due punti di un piano passa una sola retta; 2. Si può prolungare la retta indefinitivamente; 3. Dato un punto e una lunghezza è possibile descrivere un cerchio; 4. Tutti gli angoli retti sono congruenti. 89 J. Playfair, Elements of Geometry (1795). 90 Per la verità, il metodo in questione fu inventato da Eudosso (408-355 a.C.), mentre Archimede concorse sostanzialmente alla sua indiscussa affermazione.
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un’area delimitata da una sezione conica, quella del settore parabolico. Il tema dell’approssimazione lasciava intravvedere l’idea di infinito, sebbene non fosse in grado di rappresentarla nel calcolo. È con Leibniz91 e Newton92, parallelamente93, che lo spirito infinitesimale dell’esaustione trova compimento94, nel calcolo differenziale e nel calcolo integrale. Il differenziale è l’inverso dell’integrazione e quest’ultima consente una sommatoria (“ʃ”, con il simbolo introdotto da Leibniz) finalizzata al calcolo dell’area (mentre le derivate consentono di risolvere il problema del che concerne il calcolo del coefficiente angolare di una tangente a una curva). Ora, la questione aperta circa la dimostrabilità o validità del V postulato di Euclide e una opportuna sistematizzazione del calcolo integrale sono esattamente le questioni che concernono la problematica dello spazio nel XIX secolo. È su un altro piano che bisogna spostare la questione euclidea ed è generalizzando le funzioni integrali che è possibile trovare una sintesi nuova. Per la verità, già Aristotele (384-322 a.C.), a suo modo, aveva ipotizzato che potessero darsi alternative nei sistemi geometrici e, più precisamente, che se la somma degli angoli interni di un triangolo può essere diversa da due angoli retti, allora, per coerenza, anche la somma degli angoli interni di un quadrato dovrebbe essere diversa95. Dopo secoli e su solide basi di calcolo, capaci di sostenere coerenze alternative, il tema di una pluralità possibile di geometrie si fa strada grazie a diversi matematici 96. Fra
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G.-W., Leibniz, De geometria recondita et analysi indivisibilium atque infinitorum (1684). I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1686). 93 Pare che Leibniz e Newton giunsero separatamente alle stesse conclusioni, sebbene Newton arrivò ad accusare Leibniz di plagio, a valle della sua pubblicazione. Su questo tema si veda: AA. VV. Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici; U. Bottazzini, Il flauto di Hilbert, Utet, Torino, 1990; N. Guicciardini, I grandi della scienza, Le Scienze, Milano, 1998; A. R. Hall, Filosofi in guerra, Il Mulino, Bologna, 1982; M. Kline, Storia del pensiero matematico, Vol. 1, Einaudi, Torino, 1999. 94 Prima ancora che con Leibniz e Newton, però, decisivi furono gli apporti di Torricelli (1608-1647), con il “metodo degli indivisibili”, e con il “calcolo dell’area” di Fermat (1607-1665). 95 Su questo, Imre Toth, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria. Prolegomeni alla comprensione dei frammenti non-euclidei nel “Corpus Aristotelicum” nel loro contesto matematico e filosofico, Edizioni Vita e Pensiero, Milano, 1998. 96 Per una ricostruzione circa la nascita, il dibattito, lo sviluppo e l’affermazione delle geometrie non-euclidee si veda: R. Bonola, (1906), Geometria non euclidea, esposizione storico-critica del suo sviluppo, Zanichelli, Milano; E. Agazzi – D. Palladino, Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria, Mondadori, Milano, 1978; G. Fano, Geometria non euclidea. Introduzione geometrica alla teoria della relatività, Zanichelli, Milano, 1935. 92
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questi, i più vicini all’area francese di nostro interesse, sono certamente N. I. Lobacevskij 97 (1792-1856), C. F. Gauss (1777-1855) e B. Riemann (1826-1866). Essi si concentrarono sulla revisione critica dei principi della geometria98, ispirati entrambi da un orientamento empirista, tale per cui la geometria doveva aprirsi all’interrogazione sistematica della natura, che si trattasse di osservazioni astronomiche, come nel caso di Lobacevskij, o di indagini nel merito di rilievi topografici, come nel caso di Gauss. Il 1826 è l’anno che segna ufficiosamente la nascita della nuova geometria con la presentazione tenuta da Lobacevskij, già professore ordinario dell’Università del Kazan, presso il Dipartimento di fisica e matematica. Questo lavoro, ritenuto inizialmente troppo originale, non venne pubblicato, per trovare spazio solo successivamente, nella Kazanski Vestnik (Messaggero di Kazan, bollettino dell’Università del Kazan) del 1829-1830, come saggio Sui principi della geometria. A questo seguirono altre due pubblicazioni: La geometria immaginaria nel 1835 e i Nuovi principi della geometria con una teoria completa delle parallele (1835-1838). Nel 1837 seguirono una traduzione francese de La geometria immaginaria e poi le Geometrische Untersuchungen zur Theorie der Parallellinien pubblicato a Berlino nel 1840, che consentì infine a Gauss (che insegnava a Gottinga) di recepire la posizione del collega russo. La tesi di Lobacevskij mostrava come alla negazione del V postulato di Euclide potesse seguire un sistema geometricamente coerente, sebbene alternativo. Ma tale alternativa rimaneva paradossale: come era possibile ammettere la verità dell’una (geometria euclidea) assieme a quella dell’altra (geometria non euclidea, da lui chiamata “immaginaria” a seguito, forse, del rapporto che egli vedeva intercorrere tra la sua geometria e quella di Euclide, ritenuto analogo a quello che intercorre tra i numeri complessi e quelli reali99)? Egli si concentra proprio sulla questione dello spazio e sulla nozione di “parallela”, introducendo, nel ragionamento, la nozione di “limite” più un movimento di rotazione. Partendo da una rielaborazione del V postulato, egli pone che a una retta r sia tracciata una parallela s
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Sulla figura di questo matematico si veda il lavoro di R. Betti, Lobacevskij. L’invenzione delle geometrie non euclidee, Mondadori, Milano, 2005, che ne offre una ricostruzione biografica oltre che un approfondimento sulle tesi sostenute. 98 È bene precisare che più nomi concorsero a dare forma alle geometrie non euclidee, partendo spesso da contesti geografici lontani e, nella maggior parte dei casi, ignorando, per forza di cose, il lavoro dei colleghi. Tra questi, decisivo fu anche l’apporto di J. Bolyai. 99 Su questo si veda, R. Betti, Lobacevskij. L’invenzione delle geometrie non euclidee, Mondadori, Milano, 2005.
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passante per un punto A. Immagina poi una retta n che interseca perpendicolarmente sia r che s, passando per A e tracciando un segmento AB. Se allora facciamo ruotare questa retta n, in senso antiorario (o orario, ottenendo due versi distinti), essa progressivamente intersecherà la retta r in punti diversi, con B che avrà di volta in volta un angolo diverso da π/2. Egli si chiede dunque quanto possa essere grande un “intervallo” tra s ed r, uno spazio intermedio di rette n con il loro segmento AB, che, pur non intersecando più r da un lato, non arrivano a intersecarla dall’altro. Rimanendo a Euclide, questo “intervallo” coinciderebbe con l’unica retta s che, passando per A, è parallela a r e perpendicolare a n. Per Lobacevskij non è così. Egli assume che questo intervallo non possa ridursi a un’unica retta. Ora, se prendiamo le rette che passano per il punto A e le dividiamo in due classi: quelle che intersecano r e quelle che non la intersecano, ci rendiamo conto che per ogni verso (prima dicevamo, ad esempio, di far ruotare in senso orario o antiorario n), questi due gruppi hanno un “elemento separatore”, la retta “limite” che necessariamente non interseca r (la prima dell’intervallo). Per ciascun verso si ha una retta limite che è la parallela rispetto a quella direzione di rotazione. Dunque le parallele sono almeno due. A questo segue che “se s è la parallela a r da un verso, tracciata da A, allora s è anche la parallela a r, dallo stesso verso, tracciata da ogni altro suo punto”, immaginando altri punti oltre ad A sulla stessa retta e “scavando” ulteriormente lo spazio di quell’unica retta s che sarebbe stata la parallela euclidea. L’intervallo del limite, allora, marca uno spazio in cui si apre una nuova nozione di parallelismo: come proprietà delle rette (indipendente dal punto), simmetrica e transitiva. Ora, sappiamo che, nella formulazione iniziale di Euclide, il postulato faceva riferimento al triangolo. O meglio, si poggiava sull’assunto per cui la somma degli angoli interni di un triangolo sia sempre uguale a π (in tal modo poteva concludere che le rette si sarebbero infine intersecate in un punto). “Scavando” al limite come fa Lobacevskij, questa somma non è più necessariamente 180° ma è sempre minore. Quindi, come a proposito della formulazione iniziale di Euclide, egli direbbe che le rette potrebbero non incontrarsi ed essere al limite asintotiche, così nella formulazione equivalente basata sul parallelismo, egli conclude che “In un piano, data una retta r e un punto A fuori di essa, esistono almeno due rette per A che non intersecano r”.
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La differenza sostanziale rispetto al piano euclideo consiste in una configurazione che prevede un “angolo di parallelismo” π(x) corrispondente all’angolo formato dalle rette limite con la perpendicolare n. Questo angolo è una funzione della distanza x del punto A dalla retta r. Ora, mentre in Euclide questo angolo è costante ed è π/2 (c’è solo una retta parallela per A e dunque l’angolo è sempre solo quello con la retta n perpendicolare a r, e dunque 90°); sul piano di Lobacevskij, π(x) varia con x, assumendo tutti i valori compresi nell’intervallo tra 0 e π/2: “L’angolo di parallelismo π(x) è una funzione monotona decrescente di x. Inoltre, per ogni 0<a< π/2 esiste un valore di x tale che π(x)=a”. In realtà, nei passaggi successivi, Lobacevskij arriva a dimostrare che non si tratta di opporsi a Euclide ma di inserire il piano euclideo in una geometria più ampia, in cui esso si presenti quale caso limite. La geometria più ampia è caratterizzata da una particolare curvatura e, solo per questioni “prospettiche”, il piano, letteralmente inteso, può trovarvi spazio. Come dire che, ai nostri occhi, la terra può sembrare piatta ma solo per una questione di limitatezza del punto di vista su di essa. Le tesi di Lobacevskij trovarono sponda in Gauss e, dopo di lui, in B. Riemann 100. Gauss si occupò di tutti i settori della matematica e della fisica ad essa connessa. Sono noti i suoi studi sulla geodesia, sull’elettricità e il magnetismo, sulla probabilità e sull’astronomia, proseguendo l’opera dei francesi J. V. Poncelet101, sulla geometria proiettiva e P. S. Laplace102, sul calcolo delle probabilità. Presso l’Università di Gottinga, aveva da tempo avviato ricerche sulla questione del V postulato (sebbene non avesse mai voluto pubblicare nulla nel merito) e stava altresì lavorando a una teoria delle superfici curve, i cui risultati furono resi noti con il lavoro del 1827, Disquisitiones generales circa superficie curvas, dove il tipo di geometria veniva determinato in funzione della curvatura, definita “nulla” nel caso di Euclide, “positiva” nel caso della geometria sferica, “negativa” nel caso della geometria immaginaria (o iperbolica) come quella descritta, appunto, da Lobacevskij, inaugurando, così, il nuovo metodo della geometria differenziale, che applicava i risultati dell’analisi 100
Per la ricostruzione che segue si veda A. D. Aczel, L’equazione di Dio. Einstein, la relatività e l’universo in espansione, Il Saggiatore, 2000, Milano. 101 J. V. Poncelet, Traité des proprietés projectives des figures, Bachelier, Paris, 1822 102 P. S. Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Courcier, Parigi, 1814, trad. it., Opere di Pierre Simon Laplace, a cura di O. Pesenti Cambursano, Utet, Torino, 1967, pagg. 241-404.
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infinitesimale allo studio delle curve e delle superfici. Altro metodo originale a lui ascritto è quello dell’Analysis situ, attraverso cui studiava le proprietà delle figure geometriche che, non essendo in funzione del concetto di distanza, permangono quando esse si trasformano per continuità, contribuendo, in tal senso, alla fondazione degli studi di topologia103. Riemann, allievo di Gauss a Gottinga, ne ereditò sostanzialmente le ricerche sia per quanto concerne un abbozzo di teoria delle superfici, sia per quanto concerne gli studi di topologia. Nel 1851, presso la stessa università, egli presenta una tesi di dottorato supervisionata da Gauss (che espresse nei suoi confronti grande entusiasmo), dal titolo Grundlagen für eine allgemeine Theorie der Funktionen einer veranderlichen complexen Grosse
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, dove figurano sia un approfondimento sulle funzioni complesse (branca
dell’analisi), sia una ripresa della teoria delle superfici come fusione tra teoria delle funzioni complesse e topologia. Egli intende fondare l’intera teoria delle funzioni complesse sull’equazione di Laplace, facendo emergere lo stretto rapporto tra funzioni matematiche e teoria del potenziale. Per risolvere il problema delle funzioni a più valori, Riemann introduce un piano completamente nuovo: la superficie a strati sovrapposti. Questo espediente gli consente di avere tanti piani quanti sono i valori della funzione, in modo che per ogni strato la funzione assuma uno dei valori possibili. Gli strati della superficie sono collegati da punti di ramificazione e diramazione che permettono alla funzione di percorrerla interamente. La superficie di Riemann così pensata è un oggetto totalmente nuovo per la geometria, di difficile rappresentazione se non localmente. Ad essa è collegata la nozione di ordine di connessione. Una superficie sarà connessa quando un taglio la dividerà sempre in due parti separate; mentre sarà molteplicemente connessa quando occorreranno più tagli. Questi aspetti sono chiaramente topologici, legati al modo in cui una superficie è disposta e non alla distanza. Ma è con il discorso di abilitazione del 1854, tenuto presso il Dipartimento di fisica e matematica di Gottinga, che il genio di Riemann è conclamato. Era consuetudine che i 103
La topologia è lo studio degli spazi e delle funzioni continui. È uno studio generale delle superfici e dunque delle varietà che esse rappresentano. Fu F. C. Klein ad estendere e generalizzare le ricerche topologiche introducendo la teoria dei gruppi. 104 Fondamenti per una teoria generale delle funzioni di una grandezza variabile complessa.
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giovani professori in libera docenza tenessero una lezione pubblica, rivolta a tutto il Consiglio di Facoltà, finalizzata al riconoscimento e al conseguimento di una abilitazione ufficiale all’insegnamento accademico. La prassi prevedeva che si preparassero tre argomenti e che fra questi ne venisse scelto uno come oggetto di discussione e relazione. Inaspettatamente, Gauss scelse il terzo di quelli proposti da Riemann105 e cioè Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen106 (mentre la tesi riportava il titolo Über die Darstellbarkeit einer Funktion durch eine frigo-nometmcke Keine107). Il tema di questa lectio è proprio la natura dello spazio – un argomento che, all’epoca, mediamente non avrebbe dovuto suscitare più grandi preoccupazioni, assunto come a priori lo spazio piatto, dove la distanza minore tra due punti è costituita da una linea retta e la somma degli angoli di un triangolo dà 180°. La concezione di Riemann, invece, tende a generalizzare l’idea di Lobacevskij di uno spazio ricurvo. Avanzando una sorta di critica dei fondamenti della geometria, egli pone in evidenza come in questa disciplina vengano presupposti dati sia il concetto di spazio, sia i concetti utili alla costruzione delle figure. Le regole di costruzione, anziché spiegare o chiarire, sono assunte quali assiomi. Contro quello che potremmo immaginare un essenzialismo metafisico degli assiomi, Riemann sostiene si debba risalire alla natura delle relazioni tra i concetti elementari della geometria, considerato che, allo stato attuale, non sembra sia possibile sapere né se esse siano necessarie, né se siano possibili. È a questo scopo che viene considerata la nozione di grandezza molteplicemente estesa, ovvero della nozione di molteplicità (Mannigfaltigkeit) in riferimento ai modi di determinazione di un concetto generale qualsiasi. Si tratta di un’idea vicina sia a quella che poi sarà la nozione di “insieme” di Cantor, sia alla nozione di “varietà”. Esistono molteplicità continue e discrete, ma mentre sono molto frequenti le seconde, delle prime si occupa sostanzialmente la matematica superiore attraverso l’analisi e il metodo gaussiano dell’Analysis situ. Lo studio delle
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Gli altri due erano su elettricità e magnetismo. Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria, pubblicato postumo in Abandlungen der Königlichen Geselshaft der Wissenschaften zu Göttingen, vol. 13 (1866-1867), Göttingen e successivamente in Bernard Riemann’s Gesammelte Mathematiche Werke Und Wissenschaftlicher Nachlass, Leipzig, 1876. Trad. it., in A. Einstein, Relatività: esposizione divulgativa e scritti classici su Spazio Geometria Fisica, a cura di B. Cermignani, Boringhieri, Torino, 1977. 107 Sulla rappresentabilità di una funzione mediante una serie trigonometrica. 106
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molteplicità continue si basa su due elementi: numero di dimensioni della molteplicità e assegnazione delle coordinate ad ogni suo punto. In questo caso si tratta di uno studio circa la disposizione (configurazione) dei punti, ma si può altresì introdurre uno studio circa la distanza tra i punti della molteplicità, analizzando le relazioni metriche presenti. Pertanto le molteplicità possono essere studiate sia sotto l’aspetto della disposizione sia sotto l’aspetto della metrica dei punti che le costituiscono. Per procedere con la metrica è necessario preliminarmente assumere delle grandezze come unità, supponendo che esse, spostandosi, non si deformino (caso più semplice è il Teorema di Pitagora108). Ad una molteplicità possono essere applicate metriche diverse
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; per capire quali, fra queste, possano
modificare la molteplicità stessa, elemento determinante è la nozione di curvatura, definita da Riemann in termini astratti e analitici. Dove è possibile spostare segmenti senza deformarli, la molteplicità ha curvatura nulla; dove è possibile spostare porzioni pluridimensionali senza deformarle, la curvatura della molteplicità sarà costante. Se la curvatura avrà valore negativo, la somma degli angoli di un triangolo sarà minore di 180°; se invece la curvatura avrà valore positivo, la somma sarà maggiore. Individuare quale fra le molteplicità sia adattabile allo spazio fisico è in realtà solo formulazione di ipotesi. Inoltre, Riemann considera che il livello microscopico e macroscopico non mantengano necessariamente la stessa curvatura; quindi sembra essere più propenso a ipotizzare che tutti i differenti modelli siano in qualche modo adatti a rappresentare aspetti dello spazio fisico e che quindi più molteplicità siano possibili. A valle dei lavori sulle geometrie non euclidee che in quegli anni andavano diffondendosi e soprattutto grazie alla mediazione di Gauss, Riemann riuscì a produrre una generalizzazione straordinaria. Nella geometria cartesiana, la rappresentazione di una superficie avviene mediante tre coordinate spaziali. Si tratta dello spazio euclideo tridimensionale, quello utilizzato nella meccanica classica. Eulero (1707-1783) aveva già mostrato come per ottenere le tre coordinate di una superficie bidimensionale bastassero due parametri; Gauss, a seguito dei suoi rilievi topografici mediante carte, aveva già avuto 108
In linguaggio analitico esso si traduce in tal senso: “un elemento infinitesimo di linea si esprime come la radice quadrata di un’espressione differenziale di secondo grado”. Per questa ricostruzione nel dettaglio, si veda l’articolo di A. Bernardo, La geometria di Bernhard Riemann, in Cultura e scuola, N. 122, 1992, pagg. 252269. 109 In funzione dell’espressione dell’elemento di linea.
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modo di apprezzare questo tipo di misurazione rispetto a quella tradizionale. La rappresentazione parametrica è intrinseca alla superficie, consistendo nell’utilizzare sistemi di assi curvilinei in essa presenti (si faccia il caso della misurazione sulla superficie terrestre: per individuare un punto è più semplice usare longitudine e latitudine anziché utilizzare tre coordinate in un sistema posto in uno spazio esterno. In questo modo si rimarrà dentro alla superficie invece di uscire da essa). Ora, Riemann procede ipotizzando di assegnare coordinate ai punti della molteplicità senza alcun riferimento agli assi cartesiani dello spazio. Come procedere alla misurazione delle “distanze”? Gauss aveva già introdotto una soluzione topologica, servendosi di coordinate curvilinee e ottenendo una espressione differenziale di secondo ordine capace di misurare tratti infinitesimi di curve sulla superficie. Da ciò segue che la geometria di una superficie curva non è più euclidea. D’altronde, per misurare il percorso più breve che unisce due punti sulla superficie di una sfera, esistono due metodi: o riferendoci a uno spazio esterno, oppure rimanendo sulla stessa superficie e ottenendo, così, non un retta, ma un arco di circonferenza. A questo punto le misure saranno intrinseche alla superficie e la geometria sarà non euclidea. Insomma, a una critica radicale dei fondamenti della geometria, fa seguito la realizzazione di un metodo di valutazione immanente, da cui scaturisce una prospettiva pluralista circa le metriche possibili e gli spazi ipotizzabili. Per quanto riguarda la diffusione dei testi e delle idee di Riemann bisogna far presente che l’unico articolo pubblicato in vita (tutto il resto sarà pubblicato postumo), Theorie der Abelschen Funktionen110, è del 1857. Per un dibattito aperto sulle geometrie non euclidee bisognerà partire dalla pubblicazione del carteggio fra Gauss e Schumacher dopo la morte di Gauss. Sono dei matematici minori a rendere noti i risultati conseguiti in questo ambito111 e, soprattutto, si
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Teoria delle funzioni abeliane. Ad esempio R. Baltzer con gli Elemente der Mathematik del 1867.
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deve al francese J. Houell la traduzione di Lobacevskij dal tedesco e di un estratto della suddetta corrispondenza di Gauss, nel 1866112. La conferenza di Riemann, il cui eco e i cui contenuti si erano già diffusi a valle delle sue lezioni presso l’Università di Gottinga, viene pubblicata postuma nel 1867, mentre nel 1870 viene pubblicata la traduzione francese curata da Houelle. Di fondo persisteva il dubbio circa la validità reciproca delle due geometrie (euclidea e non-euclidea). Solo con i modelli di Beltrami, Klein e Poincaré (1854-1912), la validità della geometria non-euclidea viene ricondotta a quella euclidea, nel senso che tutte le geometrie devono essere accettate come matematicamente possibili. Klein in particolare incluse tutte le geometrie, quella euclidea, quella iperbolica di Lobacevskij e quella ellittica di Riemann, nella geometria proiettiva. In questa riorganizzazione risulta chiaramente come Riemann sostenne il contrario di Lobacevskij. Per il secondo lo spazio, in quanto infinito, non può avere curvatura positiva, mentre, per il primo, sono da distinguersi le proprietà di finitezza e illimitatezza. La finitezza dipende dalla metrica mentre l’illimitatezza è una caratteristica propria dello spazio. Ad esempio, una sfera può essere illimitata pur essendo finita. La funzione generale di Riemann si basava sulla geometria differenziale e aveva implicazioni topologiche. Ad esempio, le figure topologiche di Klein e Möbius si ispirano direttamente agli argomenti da lui trattatati nel suo Habilitationsschrift, rispettivamente la bottiglia di Klein (fig. 5) e il nastro di Möbius (fig. 6), quest’ultimo reso celebre anche dall’opera dell’artista Escher (fig. 7).
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In Italia saranno tradotti e introdotti da A. Forti e G. Battagliai. Su questo si veda R. Bonola, La geometria non-euclidea. Esposizione storico-critica del suo sviluppo, Zanichelli, Bologna, 1906 e U. Bottazzini, Il flauto di HIlbert. Storia della matematica moderna e contemporanea, UTET, Torino, 1990. Inoltre, in Italia, a diffondere le geometrie non-euclidee, non senza dover affrontare polemiche, sarà anche la rivista Il Giornale di Matematica, fondata a Napoli da G. Battaglini nel 1867.
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Figura 5. Otre di Klein
Figura 6. Nastro di Mรถbius
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Figura 7. M. C. Escher, Nastro di Möbius
La prima è come una bottiglia senza interno, una superficie tridimensionale ripiegata lungo la quarta dimensione; la seconda è una superficie bidimensionale ripiegata sulla terza dimensione. È noto come lo stesso Einstein abbia attinto alla equazione riemanniana per elaborare la sua teoria della relatività generale, attraverso, però, la mediazione dei matematici italiani Beltrami e L. Bianchi, i quali, nel 1899, mettono a punto un algoritmo nuovo, basato su di un differenziale assoluto, in grado di poter trattare le varietà riemanniane a qualunque dimensione; e dei matematici Ricci Curbastro e Levi-Civita, i quali invece pongono le basi affinché questo modello possa essere applicato alla teoria della relatività. Nella teoria di Einstein, la struttura metrica del continuum spazio-tempo è messa in relazione con il tensore massa-energia mediante l’equazione del campo, cosicché la curvatura dello spazio-tempo varia in funzione della distribuzione di massa-energia. Alla funzione di Riemann, dunque, vengono aggiunte la quarta variabile temporale e il tensore metrico, utile, quest’ultimo, alla definizione della curvatura che il campo gravitazionale impone allo spazio nell’universo.
1.4. Il metodo dell’intuizione filosofica, l’otre di Klein e l’unico piano di una durata molteplice
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È in questa cornice epistemologica che vanno inseriti il lavoro e la riflessione di H. Bergson, il quale, tra l’altro, mostrò prestissimo di avere attitudine e interesse per le matematiche, vincendo un premio per la soluzione di un problema che venne pubblicata negli Annales des Mathématiques nel 1878. Anch’egli, d’altronde, pur spostandosi sul campo filosofico, si occupa del tema dello spazio e del tempo e di una nuova immagine che possa renderne ragione. Anche Bergson ragiona sulla costituzione di un nuovo piano sebbene non conduca una ricerca di tipo strettamente epistemologico e si occupi dell’aspetto psicologico, o, per meglio dire, della costituzione della soggettività attraverso la durata e la memoria. I due aspetti, però, sebbene non sistematizzati, non possono essere ritenuti di fatto estranei. La soggettività di Bergson è già una critica immanente al soggetto dello spazio e del tempo kantiani, euclidei e newtoniani, in vista della problematizzazione di un nuovo soggetto della scienza e della filosofia. Ed è sul tornante di uno spazio ricurvo che si ritrova il traît d’union di questa prospettiva, trattandosi della genealogia di un’immagine di natura inedita, ovvero, come più sopra si anticipava, una bozza di proto-teoria della materia che sia sponda di questa nuova soggettività. Se nell’Essai Bergson oppone molteplicità qualitativa a molteplicità quantitativa, sostenendo che la prima attiene allo spirito, e dunque all’inesteso e al qualitativo, mentre la seconda all’esteso e al quantitativo; in Materia e Memoria, distinguendo pura percezione e pura memoria non si vuole scavare un solco ancora più profondo tra queste due dimensioni facendone due realtà, ma si vuole piuttosto, attraverso una critica e una genealogia, ritrovare, nella distinzione, una relazione. Nell’Essai Bergson si oppone a una molteplicità non riemanniana, ma sostanzialmente ancora tradizionalmente newtoniana – dunque all’idea del multiplo più che della molteplicità.
Avevamo quindi ragione nel dire che, se del tempo la meccanica mantiene solo la simultaneità, così del movimento stesso, mantiene solo l’immobilità. Sarebbe stato possibile prevedere questo risultato notando che la meccanica opera necessariamente su delle equazioni, e che un’equazione algebrica esprime sempre un fatto compiuto. Ora, il fatto di essere continuamente in via di formazione fa parte dell’essenza stessa della durata e del movimento – così come essi si presentano alla nostra coscienza: l’algebra a sua volta potrà esprimere i risultati ottenuti in un certo momento della durata e le posizioni che un certo mobile ha occupato nello spazio, ma non la durata e il movimento stessi. Avremo un bell’aumentare il numero delle simultaneità e delle
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posizioni considerate attraverso l’ipotesi di intervalli molto piccoli; avremo anche un bel sostituire la nozione di differenza con quella di differenziale, al fine di indicare la possibilità di accrescere infinitamente il numero di questi intervalli di durata; ma sempre, la matematica si colloca all’estremità di un intervallo, per quanto piccolo lo si pensi. Quanto all’intervallo stesso, quanto, in breve, alla durata e al movimento, essi rimangono necessariamente fuori dall’equazione. E ciò è dovuto al fatto che la durata e il movimento sono sintesi mentali e non cose; al fatto che, s eil mobile occupa via via i punti di una linea, il movimento non ha nulla in comune con questa linea; (…) la durata è senza analogia con il numero. (…) Lo spazio di cui ci si serve per far ciò è proprio ciò che viene definito tempo omogeneo. (…) Ma da questa analisi deriva anche un’altra conclusione: e cioè che la molteplicità degli stati di coscienza, considerata nella sua purezza originaria, non presenta alcuna somiglianza con la molteplicità distinta che forma un numero. Si tratterebbe, dicevamo, di una molteplicità qualitativa. In breve, si dovrebbero riconoscere due specie di molteplicità, due possibili significati del termine distinguere, due concezioni, l’una qualitativa e l’altra quantitativa, della differenza tra il medesimo e l’altro113.
Da questo ampio stralcio si coglie come la nozione di durata si opponga alle nozioni di spazio, tempo, piano, linearità, numero e “molteplicità numerica” tradizionalmente intesi: ovvero l’opposizione è tra il mutamento-movimento (il divenire o, per usare termini bergsoniani, il “progresso dinamico”) che essenzialmente per-dura e il modo della sua rappresentazione
tradizionale,
cioè
fisicamente
newtoniano,
filosoficamente
e
matematicamente cartesiano (e Kantiano). La molteplicità immanente alla durata non può essere quella del multiplo (che presuppone l’uno, l’identico e, necessariamente, è quantità subordinata alla qualità come prius di questa successione) – ma forse proprio la molteplicità riemanniana è quella critica immanente capace di rendere in matematica il tentativo di sfidare il numero e, dunque, fornire al Bergson di Materia e memoria la suggestione di un’immagine che non solo ricurva il cono della memoria, ma tutto il neo-spazio del reale in cui questo stesso cono si installa come riverbero? «Ci si potrebbe, dunque, liberare dallo spazio, in una certa misura, senza uscire
dall’estensione, e in ciò vi sarebbe proprio un ritorno all’immediato, perché noi percepiamo per davvero l’estensione, mentre non facciamo che concepire lo spazio alla maniera di uno schema»114. L’estensione qui è proprio l’immagine con i suoi gradi di tensione. La materia. Fino allo spirituale.
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H. Bergson, Saggio sui dati immediati, pagg. 77-78-79. H. Bergson, Materia e memoria, pag. 157.
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Ma con quale metodo? Bergson si riferisce alla conoscenza immediata data dall’intuizione. In opposizione al metodo trascendentale kantiano, l’intuizione bersgoniana sembrerebbe voler riproporre un essenzialismo metafisico. Laddove Kant aveva distinto fenomeno e noumeno, affermando che la conosceva poteva darsi solo del primo; Bergson sembra voler sostenere che una conoscenza dell’essenza delle cose sia possibile. Questa opposizione è in realtà una semplificazione. Come vedremo, il metodo bergsoniano tende a rimuovere i residui di ipostasi metafisica tradizionale propri dell’idealismo trascendentale kantiano, per avanzare un’ipotesi più radicale, dimostrata solo più avanti, di una soggettività da farsi, dove, saltato il termine che possa delimitare il campo, si spiega una superficie a più strati e a più gradi di tensione e distensione. Intuizione alluderebbe a un’azione di penetrazione, ma in realtà è resa possibile proprio da una sorta di logica iperbolica: una bottiglia senza interno. Se ci fosse un soggetto a intuire un noumeno, ovviamente saremmo a una grottesca perversione di Kant. Perché ci sia intuizione, nessun soggetto può essere presupposto e nessun oggetto precostituito. Non c’è un andare dentro, ma un piegare che è un dispiegare, una modulazione di possibili. Bergson sintetizza in quattro punti la sua teoria della materia: 1. Ogni movimento, in quanto passaggio da uno stato di quiete a uno stato di quiete, è assolutamente indivisibile; 2. Ci sono dei movimenti reali; 3. Ogni divisione della materia in corpi indipendenti, dai contorni assolutamente determinanti, è una divisione artificiale; 4. Il movimento reale è la traslazione di uno stato più che di una cosa. Per quanto concerne il primo punto, si tratta di un fatto nascosto da un’ipotesi: il fatto è che il movimento è un passaggio; l’ipotesi è che il tragitto di questo passaggio coincida con la sua traiettoria. Ma mentre la traiettoria è una linea che può comporsi e scomporsi infinitamente, il passaggio/movimento è un “progresso”, quindi non può essere diviso come fosse una immobilità. La durata, proiettata su di un piano cartesiano, con delle coordinate che ne dovrebbero individuare le stazioni-istanti, viene disintegrata dall’integrale così prodotto. L’integrale di questo movimento può solo mortificarne il “progresso” (il divenire). I paradossi di Zenone di Elea (tramandati da Aristotele)115, allievo di Parmenide, 115
Aristotele, Fisica.
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derivano proprio da questa proiezione/traduzione illusoria del movimento in linea. Solo in quest’ottica i numeri irrazionali possono rendere ragione dell’impossibilità di Achille a raggiungere la tartaruga, o della freccia a rimanere ferma, o dell’impossibilità a iniziare il movimento di precorrimento dello spazio di uno stadio. Il torto di Zenone, dice Bergson, è sempre quello di tralasciare la durata reale per considerarne la traccia oggettiva lasciata sullo spazio116. Per quanto concerne il secondo punto, non si può ridurre il movimento a un cambiamento di distanza: il movimento non è relativo a una distanza. A dispetto dello spazio e del tempo newtoniani assoluti, Bergson immagina un movimento assoluto: cioè, in questo caso, indivisibile – pena il suo snaturamento. Ciò non vuol dire che il movimento non si possa dividere, ma che ad ogni taglio del movimento corrisponda il riverberarsi di un cambiamento integrale. Questa indivisibilità, allora, corrisponde esattamente a una logica della perturbabilità: cioè del perpetuarsi di una differenza non perequabile. In realtà Achille e la tartaruga non correranno mai la stessa gara, se non per particolari tagli di superficie e di campo (approssimazioni di comodo). Nessuno può vincere o perdere sull’altro. «Invano, dunque, pretenderemmo di fondare la realtà del movimento su una causa che si distingua da esso: l’analisi ci riporta sempre al movimento stesso»117. Per quanto riguarda il terzo punto: come mai dissociamo permanenza e cambiamento, riferendo la permanenza a dei corpi e il cambiamento a dei movimenti omogenei nello spazio?118 Questo, dice Bergson, non è né un dato della scienza né della nostra intuizione immediata. La scienza, infatti, nel tentativo di recuperare le «articolazioni naturali» di un universo artificialmente spezzettato sta tentando di dimostrare l’azione reciproca di ogni punto sull’altro per ritornare alla «continuità universale»119. Allora, alla base delle convenzioni per cui usiamo dividere la materia in corpi indipendenti, con contorni netti e determinati, vi è la radice antropologica della vita, costituita da tendenze e bisogni. È sulla base di questa utilità che vengono istituite le prime discontinuità nella materia: da un
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H. Bergson, Materia e memoria, pag. 162. Id., pag. 165. 118 Id., pag. 166. 119 IbId.. 117
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lato ciò che soddisfa il bisogno e dall’altro ciò che mi serve per conseguirlo. Vivere è scomporre e poi mettere in relazione queste porzioni di reale. Dunque, solo al di là di queste convenzioni, proprie della nostra consuetudine con il mondo, è possibile ritrovare la realtà della materia. Facendo astrazione da questo genere di immagini-cliché prodotte dal senso comune e mediante il lavoro della scienza («il lavoro del fisico», scrive Bergson), sarà possibile cogliere il “ricongiungersi” della forza e della materia. Perfino «la solidità e l’inerzia dell’atomo si dissolveranno sia in movimenti, sia in linee di forza, la cui reciproca solidarietà ristabilirà la continuità universale»120. L’espressione non è casuale né vuole essere pura metafora: il riferimento è alle contemporanee scoperte della fisica di W. Thomson (1856-1940) e alle precedenti innovazioni di M. Faraday (1791-1867). Le ricerche di Thomson avevano appunto dimostrato come vi fossero particelle subatomiche, corpuscoli dotati di carica negativa. Faraday, a suo tempo, aveva condotto ricerche decisive nel merito dell’elettromagnetismo. La materia, allora, appariva sfaldarsi e fondersi, perdere quella solidità cui i sensi sono grossolanamente soliti affidarsi. Parafrasando Faraday121, Bergson può scrivere: «l’atomo è un “centro di forze”» e «tutti gli atomi si compenetrano reciprocamente»; così come, commentando Thomson122, che costui suppone l’esistenza di un «fluido continuo» a riempire lo spazio e che «ciò che chiamiamo atomo sarebbe un anello di forma invariabile che genera dei vortici in questa continuità » e che esso si individualizza a partire dal suo movimento123. A voler vedere questa immagine, non si può non pensare al celebre Cielo stellato di Van Gogh:
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Id., pag. 169. Il lavoro menzionato è M. Faraday, A speculation concerning electric conduction, in Philosophical magazine. 122 Il lavoro menzionato è W. Thomson, On vortex atoms, in Proceedings of theRoyal Society of Edinburgh, 1867. 123 Per tutta questa riflessione, il passaggio di riferimento è in H. Bergson, Materia e Memoria, pag. 169. 121
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Figura 8. Van Gogh, Il cielo stellato (Giugno, 1889)
opera, del resto, realizzata dal pittore in quegli stessi anni (Giugno, 1889). Vortici che sembrano rincorrere l’eco lontana dell’etere di Descartes, il quale immaginava che il cosmo fosse punteggiato di innumerevoli vortici, uno per ogni stella e, per ogni stella, uno per ogni pianeta, tutti a velocità differenti. In un recente studio di meccanica dei fluidi si riprende proprio il tema pittorico vangoghiano dei vortici come turbolenze luminose
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, per sostenere che queste
rappresentazioni e, dunque, la percezione artistica del Van Gogh del periodo più vicino allo stato di agitazione psicotica, siano molto prossimi alle immagini derivate dalla funzione di distribuzione probabilistica della velocità differenziale in una turbolenza fisica come previsto dalla teoria statistica di A. Kolmogorov (1903-1987). In altri termini, si sostiene che l’indice realistico delle sue visioni sia sovrapponibile alle curve matematiche capaci di rendere il fenomeno fisico delle turbolenze. Immagini con un indice di luminescenza simile a quelle di Van Gogh sono risultate essere delle immagini di turbolenze (vortici) in fotografie di corpi
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J. L. Aragòn, G. G. Naumis, M. Bai, M. Torres, P. K. Maini, Turbulent in impassioned van Gogh paintings, in Journal of Mathematical Imaging and vision, Marzo 2008, Vol. 30, pagg. 275-283.
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stellari catturate dai potenti telescopi della NASA125. La forte somiglianza presente tra la traduzione in termini matematici dei dipinti dell’ultimo Van Gogh e i modelli matematici che rendono le turbolenze fisiche, l’applicabilità stessa di questo modello tanto alle turbolenze fisiche quanto alle immagini di Van Gogh lascia intendere che l’artista, nella sua fase di maggiore sofferenza psichica, avesse un acume estetico tale da cogliere e rappresentare la struttura fisico-matematica delle luminescenze, pervenendo a un effetto di realismo quasi surreale. Ma, scrive Bergson, «vortici e linee di forza» sono sempre delle figure di comodo nel linguaggio del fisico. La grana del reale restituisce un’estensione concreta fatta di cambiamenti di tensione ed energia. Ed è su questo punto che convergono la serie di immagini della memoria e quella della percezione, la pura percezione e la pura memoria. Per quanto concerne il punto 4, il movimento reale, come traslazione di uno stato e non di una cosa, rimarca sostanzialmente questa tensione concreta del reale che non può ridursi al piano cartesiano e alla fisica newtoniana. Se nell’Essai la durata era il dato immediato della coscienza, qui la durata è una ritmologia complessa che percorre tutto il reale. Ci sono successioni a intervalli diversi che trascendono la nostra capacità di sintesi e si alterano a seconda delle capacità di sintesi. Ogni corpo più modulare differentemente queste risonanze e ottenerne diversi elementi. «In realtà non c’è un ritmo unico nella durata, si possono ben immaginare dei ritmi differenti che, più lenti o più rapidi, misurerebbero il grado di tensione o rilassamento delle coscienze, e, in tal modo, fisserebbero il loro rispettivi posti nella serie degli esseri»126. Diverse selezioni-contrazioni, diversi ritmi (diversi intervalli) di durate. «La materia si risolve così in vibrazioni innumerevoli, tutte collegate in una continuità
ininterrotta, tutte solidali tra loro e che corrono in ogni direzione come altrettanti brividi. (…) Lo sguardo che gettiamo attorno a noi, di momento in momento, coglie dunque soltanto gli effetti di una moltitudine di ripetizioni e di evoluzioni interne (…). Il cambiamento è ovunque, ma in profondità; noi lo localizziamo qua e là, ma in superficie; e così costituiamo 125
Il riferimento in particolare va a delle immagini pubblicate dalla NASA nel 2004: NASA Press Release, March 4, 2004 (http://hubblesite.org/newscenter/newsdesk/archive/release/2004/12). 126 H. Bergson, Materia e memoria, pag. 174.
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dei corpi contemporaneamente stabili quanto alle loro qualità, e mobili quanto alle loro posizioni, visto che un semplice cambiamento di luogo contrae in esso, ai nostri occhi, la trasformazione universale»127. Tutto dura. Cioè tutto è mutamento. La materia, però, è in un ricominciamento continuo mentre lo spirito è progresso, cioè sintesi. Da questo punto di vista si comprende come la distinzione tra materiale e spirituale si faccia attraverso modalità temporali, il cui spazio (sviluppo, spiegamento) è immanente – non schema, non proiezione estrinseca. Tra la materia e lo spirito passano tutti i gradi di tensione e distensione, tutte le intensità possibili della durata.
1.5. Il bergsonismo. La differenza reale. Il problema del soggetto «Se ci fu qualcuno a sapere perfettamente che l’immanenza è immanente solo a se
stessa, che è quindi un piano percorso dai movimenti dell’infinito, riempito dalle ordinate intensive, questi è Spinoza. Egli è per questo il principe dei filosofi, forse il solo a non aver stabilito nessun compromesso con la trascendenza, ad averla braccata dappertutto. (…) Spinoza è quella vertigine dell’immanenza cui tanti filosofi tentano invano di sfuggire. Saremo mai maturi per un’ispirazione spinoziana? È successo a Bergson, una volta: l’inizio di Materia e Memoria traccia un piano che taglia il caos, movimento infinito di una materia che non cessa di propagarsi e al tempo stesso immagine di un pensiero che non cessa di spargere dappertutto una pura coscienza di diritto (non è l’immanenza a essere immanente “alla” coscienza, ma il contrario)»128.
Riemann e Bergson lavorano, con stili diversi e a partire da diversi ambiti disciplinari, alla stessa nuova immagine del pensiero: una molteplicità che abbia per sé la sua “metrica”. È sbagliato fermarsi alle distanze nello stile, l’uno matematico, l’altro filosofico, e non voler cogliere un’ispirazione comune, frutto del partecipato coglimento di una insufficienza epistemologica e ontologica sostanziale a carico dei precedenti assetti gnoseologici e 127 128
Id., pag. 176. G. Deleuze, F. Guattari, (1991), Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 2002, pag. 38.
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scientifici. La critica mossa ai fondamenti della geometria da parte di Riemann costituisce l’apertura di una problematicità che deflagra nel discorso filosofico. E forse proprio Bergson può averne sentore. “Sentore” perché, in fondo, Bergson non approfondisce mai realmente la prospettiva riemanniana, rifacendosi, al più, alle ricadute di questa sulla teoria della relatività, nel celebre (e allo stesso tempo criptico) Durata e simultaneità129, in cui l’autore tenta un serrato confronto con Einstein circa la sua teoria di una pluralità relativa di tempi, da lui rigettata a favore di un Tempo unico. Quello che però ex post si può cogliere è l’elemento di fondo che porta Bergson, da una parte, e Riemann dall’altra, a rivedere un assetto di base avvertito come inadeguato, ovvero una certa assiomatica filosofia dell’identità, essenzialista, da cui scaturisce l’impostazione soggettivistica della tradizione quanto meno moderna del pensiero (da Descartes all’Idealismo tedesco). Sul piano che essi delineano, si dipana una superficie dove si increspano movimenti: vertigini proprie dell’immanenza. A uno stile diverso, però, corrisponde necessariamente un metodo
diverso,
finalizzato al percorrimento e all’orientamento su questo nuovo piano. Se Riemann metterà a punto la sua funzione e la sua metrica; Bergson definirà il proprio metodo come centrato sull’intuizione. Si tratta di metodi che, in ogni caso, si danno come alternativi a quello dettato da Descartes. Ovviamente, non si tratta di negare o confutare l’immagine cartesiana del pensiero, ma di procedere a una generalizzazione superiore, all’acquisizione di una prospettiva diversa in cui poter inquadrare questo come dettaglio. Si tratta, forse, di regionalizzare e differenziare (letteralmente: disintegrare) il λόγος – e non di opporre ad esso un’anti-logica. Accogliendo la lezione deleuziana espressa magistralmente in Differenza e Ripetizione130, e poi in più luoghi ripresa e arricchita131, Cartesio opererebbe attraverso due valori logici: il cogito come determinazione e l’esistenza come indeterminato da determinare. La determinazione dell’io penso implicherebbe l’esistenza poiché è noto come, secondo lui, per pensare, io debba necessariamente essere. Il passaggio dal pensiero 129
H. Bergson, Durata e simultaneità, G. Deleuze, Differenza e ripetizione 131 Si vedano i lavori Logica del senso, Critica e clinica e Abecedario. 130
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all’essere si compie all’insegna di questa implicazione. Cartesio perviene così all’evidenza del fondamento, per la cui definizione si era speso attraverso il metodo del dubbio. Di tutto posso dubitare, ovvero sospendere la certezza dell’esistenza, fuorché del pensiero, in quanto proprio in virtù di questo atto non posso negare la certezza del mio proprio esistere: «Ma subito dopo mi resi conto che nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo»132. Il soggetto si pone così a fondamento dell’idea chiara e distinta. L’operazione, però, può funzionare grazie al fattore nichilistico del possibile. È la radicale possibilità del nulla a dare corpo alla pratica del dubbio: esso è la possibilità del non anziché dell’altro. E’ la possibilità del non dell’altro. Il soggetto, così pensante e pensato, è nutrito di nulla fin dalle sue origini. Si tratta, in tal modo, di un soggetto sostanzialmente metafisico che si erge in funzione della sua capacità intellettuale di nientificare. È indubitabile il guadagno cartesiano moderno, dato dall’indebolimento della priorità dell’ordine teologico (malgrado la sua esplicita volontà) a vantaggio dell’ordine antropologico; ma è anche chiaro come il cogito sia un principio inevitabilmente nichilista fin dentro le sue premesse metodologiche. Il piano che da qui si dipana è fondato, in realtà, non sul soggetto ma sul nulla possibile del soggetto (senza la pratica de-pensante del dubbio, non si sarebbero poste le basi, appunto, del soggetto) e, in definitiva, sulla viziosità del circolo per cui il soggetto è risucchiato nella sua stessa possibilità di nulla. Il nulla possibile del soggetto va dunque inteso sia come esercizio svolto dall’io penso che come esercizio patito dal soggetto, come suo ultimo (perché primo) annientamento. Il gesto cartesiano muove nelle acque del pensiero quello che sembra un piccolo mulinello, mentre diventa un vortice. Il soggetto moderno si fa problematico in tal senso. L’identità che qui si pone (e che è altresì alla base del numero) è in funzione del nulla. È il negativo a dare luogo al soggetto e alle sue proiezioni epifaniche: dunque esisto. Ed è il negativo a gettare un’ombra secolare sulla labilità di questo soggetto, che tanto è forte quanto più radicalmente nega. L’opzione binaria essere/non essere si ritrova così rimarcata e radicalizzata su questo piano metafisico, dove il 132
R. Descartes, Discours sur la méthode, pag. 45.
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movimento, il processo, il progresso possono essere resi solo attraverso una astrazione della qualità in quantità, in frammenti statici che poi vanno rimontati in un meccanismo. Il divenire può essere solo meccanico se tradotto sul piano dell’omogeneo. «Tutta la critica kantiana si riduce a obiettare nei confronti di Descartes che non è
possibile fondare direttamente la determinazione sull’indeterminato »133: in effetti Kant aggiunge un terzo valore ai due messi in campo da Descartes. Questo terzo elemento è il determinabile. La critica si muove tutta attorno a questa introduzione di una condizione tale per cui sia possibile determinare (ossia far funzionare la determinazione): la forma che consente il funzionamento delle coordinate di individuazione sul piano dato. La critica corregge il metodo integrandovi un fattore che era un implicito134 della meditazione cartesiana: il tempo. Il dubbio, tutto sommato, in quanto operazione, doveva necessariamente darsi in un tempo. La coincidenza tra io penso e io sono, pensiero ed essere, è un concorso di fatti o una stazione di treni che vanno e che vengono e possono incrociarsi in funzione del grande orologio posto sulla parete centrale? Sarà un “concorso di fatti”. Per ora – la forma sotto la quale l’esistenza indeterminata può essere determinata dall’Io penso è la forma del tempo135 - il grande orologio. La forma del senso interno – la forma del senso esterno essendo lo spazio. Appuntamento con l’assassino. È noto come la determinazione cada nella sua stessa trappola: «E’ questo ora il luogo di spiegare il paradosso, da cui ciascuno sarà stato colpito nell’esposizione della forma del senso interno: che cioè questo rappresenti alla coscienza noi stessi, non già come noi siamo in noi stessi, ma soltanto come appariamo a noi; poiché noi ci intuiamo soltanto come siamo interiormente modificati; il che sembra essere contraddittorio, dovendo noi essere passivi rispetto a noi stessi»136. L’introduzione dell’operatore critico della “condizione tale per cui”, ovvero l’attivazione della modalità trascendentale della riflessione, comporta un ulteriore grande smarcamento dalla metafisica classica, ovvero il passaggio dall’opposizione 133
Id., Differenza e ripetizione, pag. 115. Un “implicito”, come è noto, per due ragioni: la prima è che tutto il discorso del metodo è una memoria; la seconda è che lo stesso discorso ha uno svolgimento e una durata, dunque, temporale. Quella che sembra una semplice modalità espositiva estrinseca (una narrazione autobiografica non all’oggetto della questione) è anch’essa, invece, parte in causa, divenendo quel fattore implicito da, appunto, esplicitare. In questo senso, più che “espellere il tempo” come sostiene Deleuze (Id., Differenza e ripetizione, pag. 116), Cartesio raggira il tempo, dissimula la temporalità: parla attraverso di essa per non parlarne. 135 I. Kant, Critica della ragion pura, Analitica trasendentale. 136 Id., pag. 121. 134
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essere/apparenza, all’opposizione fenomeno/noumeno. Il “fenomeno” è l’oggetto a date condizioni, ovvero l’oggetto in funzione del soggetto. L’apparenza – del fenomeno – non si dà come negazione dell’essere ma come dato per il soggetto. Il noumeno non è negato: è problematico, in quanto posto al di là delle condizioni tali per cui è dato conoscerlo. È sospinto oltre il nostro possibile. Per il paradosso del senso interno accade che, se è vero che tutto ciò che è possibile conoscere lo è attraverso le universali condizioni di possibilità della conoscenza, e se queste condizioni prevedono di partenza le coordinate di spazio e tempo come intuizioni empiriche, lo stesso Io Penso conoscerà se stesso nel tempo, come fenomeno. Agendo come Io Penso si troverà a conoscer-si come sua stessa passione, ovvero come elemento agito (modificato) attraverso le sue stesse forme a priori. Conoscer-si a priori segna dunque uno smacco paradossale: l’agente della conoscenza si conoscerà sempre e solo nella sua passione, nel suo essere agito. L’Io come me, mai come Io. La coincidenza sarà sempre in ritardo – ma Kant non lo saprà mai. «Ma in che modo l’io che pensa differisca dall’Io che intuisce se stesso, […] pur formando con questo tutt’uno come lo stesso soggetto; in che modo perciò io possa dire: io, come intelligenza e soggetto pensante, conosco me stesso come oggetto pensato – in quanto io sono anche dato a me nell’intuizione, solo come gli altri fenomeni, cioè non come io sono innanzi all’intelletto, ma come apparisco a me – è un problema che non presenta in sé né maggiori né minori difficoltà, che non ne presenti il come io possa essere a me stesso un oggetto in generale, e un oggetto di intuizione, e precisamente di percezioni interne»137. Ciò che per Kant non fa problema più di tanto, segna invece un solco tanto profondo che, di rimando, come fra l’altro sottolinea Deleuze, la spontaneità (attività) che caratterizza l’Io penso può essere colta solo come «affezione di un io passivo, che sente che il proprio pensiero, la propria intelligenza, ciò per cui egli dice io, si esercita su di lui e non attraverso di lui»138. Il capovolgimento implicito è che sia il soggetto passivo a rappresentarsi una spontaneità di cui sente solo l’effetto. Non solo, quindi, Io mi conosco come “me” – e non come Io; ma è questo “me”, che indica la “posizione passiva”, a vivere/patire l’azione dell’Io come quella di un altro che, toccandolo, lo modifica. Un’immagine per rendere la criticità surreale di questo passaggio potrebbe essere il celebre dipinto di Magritte, La Riproduzione vietata, del 1937, ritratto di Edward James, in cui si può 137 138
Id., Critica, pag. 123. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, pag. 116.
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vedere un uomo che, dando le spalle allo spettatore, si specchia, ma il cui riflesso, però, anziché scoprirne il volto, ne restituisce e ripropone, paradossalmente, l’immagine di spalle.
Figura 9. R. Magritte, La Riproduzione vietata, 1937.
O ancora, sempre Deleuze, «L’io (moi) è nel tempo e cambia continuamente: è un io (moi) passivo o piuttosto ricettivo che prova dei cambiamenti nel tempo. L’io (Je) è un atto (io penso) che determina attivamente la mia esistenza (io sono), ma che può determinarla solo nel tempo, in quanto esistenza di un io (moi) passivo, ricettivo e mutevole che si rappresenta solo l’attività del suo pensiero. L’io (Je) e l’Io (moi) sono quindi separati dalla linea del tempo che li mette in rapporto l’uno con l’altro a condizione – aggiunge Deleuze – di una differenza fondamentale»139. Il soggetto, a questo punto, appare sostanzialmente incrinato, ferito. Questo, ovviamente, non per Kant, per il quale non può costituire un problema, dal momento che, come scriverà Nietzsche, egli mantiene salda la presa del proprio articolo di fede. Anche Kant, insomma, dubita su tutto tranne su ciò che gli consente di dubitare. In altri termini, per Kant è problematico ciò che sporge oltre le condizioni di pensabilità dell’Io penso, non l’Io penso stesso né queste date condizioni di pensabilità – per quanto abbia egli stesso indicato i termini di profonda vulnerabilità della sua struttura. 139
Id., Critica e clinica, pagg. 46-47.
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L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; che altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o, almeno per me, non sarebbe. […] Questa rappresentazione – l’Io penso – è un atto della spontaneità, cioè non può essere considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica , o anche appercezione originaria, poiché è appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione Io penso, - che deve poter accompagnare tutte le mie altre, ed è in ogni cosa una e identica, - non può più essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di essa la chiamo pure unità trascendentale della autocoscienza, per indicare la possibilità della conoscenza a priori, che ne deriva. Giacché le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non sarebbero insieme tutte insieme le mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza […]140.
Kant non sa che a quell’ora, in quella stazione, quell’orologio segnerà il tempo della nietzschiana porta carraia di Zarathustra141. Kant, dunque, “si riduce” a introdurre un terzo elemento al discorso cartesiano, nel segno dell’impronta trascendentale che caratterizza il proprio metodo. Ma perché “si riduce”? Perché fondamentalmente Kant non modifica la logica nichilistica delle premesse metafisiche cartesiane: il nulla su cui si basa il possibile. Il problematico permane in quest’ottica (e si riverbera sul piano morale). Se il paradosso del senso interno tutto sommato si supera e il soggetto rimane unito sotto la voce “Io penso”, è pur vero che il problematico aleggia costitutivamente come quella zona d’ombra che consente la visibilità. Benché Kant si sia smarcato dall’opposizione essenza/apparenza istituendo il fenomeno, è pur vero che le condizioni di possibilità kantiane, il suo spirito trascendentale, si spiegano alla luce dell’opzione fondamentale “perché l’essere piuttosto che il nulla?” di leibniziana memoria. Il “possibile” kantiano è un possibile che trae la propria forza dal nulla, così come con Cartesio. Il soggetto, anche in questo caso, appare come fondamento (seppure trascendentale) della conoscenza, tracciando un inevitabile circolo vizioso. Anche qui, il soggetto è preso in un vortice. Si potrebbe dire che il soggetto a lui non fa problema proprio in virtù del problematico, cioè della promozione di un metodo che dal dubbio si fa trascendentale ma che in definitiva rimane a nutrirsi di negativo. Il limite, in Kant, è una periferia che si affaccia sul nulla. Ciò che appare essere una irrinunciabile risorsa, ovvero il 140 141
I. Kant, Critica della ragion pura, pag. 111. F. Nieztsche, Così parò Zarathustra.
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soggetto stabile di una epistemologia salda, è in realtà la preda presa nella propria trappola. Fino a che rimane su quel piano, può funzionare – ma al di là di quei parametri (spazio/tempo newtoniani), si rivela tutto lo sfondamento problematico di cui esso stesso è porta-voce in quanto Io incrinato. Il metodo bergsoniano si propone proprio come alternativo al dubbio cartesiano e all’approccio trascendentale kantiano, basandosi su due elementi fondamentali: la critica al negativo e il correlativo rifiuto della nozione di possibile. Bergson intende così riformulare la nozione di problema. In tal senso, si comprenderà meglio come funzioni la soggettività bergsoniana riprendendo poi l’immagine del cono, come vertigine sul piano di immanenza. L’intuizione sembra essere lo strumento cui sarebbe affidato il metodo in questione. Ne discuteremo con il Deleuze del bergsonismo142, dal momento che egli è riuscito a metterne in rilievo proprio la funzione affermativa in rapporto all’ontologia. In effetti, non appare ovvio come un atto più volte definito “semplice” e “immediato” possa costituire un metodo. Abbiamo già avuto modo di notare che, secondo una percezione comune, “intuire” vorrebbe dire “andare dentro alle cose” ma anche “cogliere di istinto qualcosa”. Qui l’intuizione per certi aspetti conserva quest’attitudine (alla semplicità e all’immediatezza) ma allo stesso tempo si propone come strumento di efficacia e precisione. Per capire, il punto fondamentale è l’inizio. Bergson parte dalla durata e dalla memoria e poi tenta di esplicare il metodo capace di cogliere entrambi questi concetti con la dovuta accuratezza. Come abbiamo più volte sottolineato, il tema della memoria segue quello della durata in direzione di un suo ampliamento, volto al superamento del dualismo ancora presente nel Saggio sui dati immediati. L’esito di Materia e memoria è la convergenza, della serie di immagini della materia e quelle della memoria, sul piano di una molteplicità intessuta di tensioni ed energia. Si tratta di una grana del reale che si assottiglia sempre più, seppure non perdendo di vista il senso della differenza di natura stabilito tra la materia e la memoria. Il discorso sembra pertanto farsi contraddittorio: come è possibile pensare una unità laddove si parla di differenze di natura? Che significa intendere queste differenze secondo il tempo e non secondo lo spazio? Perché il metodo viene introdotto dopo e non prima o contestualmente? Come è possibile pensare un metodo che non presenti mediazioni, ma anzi sembra voglia 142
G. Deleuze, (1966), Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino, 2001.
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farle saltare? Per quanto il discorso sia chiaro di per sé, i saggi raccolti successivamente in La pensée et le mouvant (in particolare L’Introduzione alla metafisica e La posizione dei problemi)143 sono di sicuro soccorso. La questione è semplice: Bergson parte dalla priorità di diritto della posizione di un piano dove non siano ancora presenti né soggetto né oggetto. Il suo è chiaramente un approccio critico: egli vuole domandarsi, però, non solo a quali condizioni l’esperienza possa essere possibile, ma anche, e soprattutto, a quali condizioni una nuova esperienza possa essere possibile. Questo piano iniziale si caratterizza poi nel senso di una molteplicità qualitativa dove è il fattore tempo a farsi largo, a mostrare implicitamente la sua essenza qualitativamente eterogenea di mutamento continuo, per ogni taglio, per ogni densità di tensione e distensione si possa produrre. Il rifiuto del negativo e della nozione di possibile è parte costitutiva di questo piano. Occorre pensare senza mettere in funzione l’elemento negazione e il suo correlato di “possibilità”. Contrastare la possibilità della negazione. Come fare? La risposta è semplice. Per Bergson la possibilità del negativo ha senso solo in una particolare regione (stazione) di questo piano, quella in cui la materia si fa ripetizione identica, omogenea. Lo spazio omogeneo, il cui spirito è una filosofia basata sull’identità, è appunto il luogo della negazione e del possibile: il punto è che questo luogo non è il proprium né della durata reale né della libertà, e né del tempo nel suo dispiegarsi quale ontologia della memoria. Si tratta di mettere in crisi una logica che nei moderni trova la sua massima rappresentazione, ma che parte certamente da lontano, dal nesso atto/potenza di impronta aristotelica. Come si legge nel Saggio sui dati immediati, se si vuole parlare di durata reale e di libertà, non ha alcun senso introdurre un’ipotesi controfattuale, ipostatizzando alternative solamente ipotetiche, e rimproverando ad A un non-essere, una carenza, una mancanza, mettendo in conto che avrebbe potuto agire/essere diversamente. Insomma, la libertà non si misura tra due o più alternative, perché dovremmo presupporre, come dati, elementi che non preesistono compiuti. E tuttavia, Bergson non ha alcuna intenzione di passare dalla parte di una morale dal giustificazionismo supremo né tantomeno di un infinito in atto in cui sia impossibile il possibile: l’impossibilità del possibile è il parossismo della logica negativa. Regionalizzare il
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H. Bergson, (1938), La pensée et le mouvant, trad. It., Il Pensiero e il movimento, Bompiani, Milano, 2000.
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negativo e il possibile è la formula bergsoniana, come per Riemann si tratta non di negare Euclide, ma circoscriverlo. Sul piano della molteplicità bergsoniana vale la stessa prospettiva per cui se si coglie una data porzione di superficie, le immagini ricavate possono rendere uno spazio lineare; se invece allargo e approfondisco il campo, come in un piano sequenza che dalla finestra di una abitazione passi alla vista da un satellite, queste immagini mostreranno che la superficie non è piana ma curva, fino alla dispersione stessa di ogni incurvamento percepibile. Intelletto e intuizione filosofica avranno diversi compiti per questo. Come fare però per non appiattire il piano di questa molteplicità? Bergson sostiene che in filosofia si sia diffuso l’equivoco sostanziale tra il possibile e il virtuale e, in fin dei conti, la potenza stessa (di aristotelica matrice) deve essere pensata nell’ordine del virtuale. E questo è accaduto proprio in funzione del credito accordato alla funzione del negativo. Prendendo in prestito le parole di Deleuze, possiamo affermare che: «Spesso si distinguono due forme di negativo: il negativo di semplice limitazione e quello di opposizione. E si sostiene che la sostituzione della seconda forma alla prima, con Kant e i post-kantiani, sia stata una considerevole rivoluzione filosofica. Per questo, è ancora più notevole che Bergson, nella sua critica del negativo, denunci sia l’una sia l’altra forma: ai suoi occhi esse implicano e testimoniano la stessa insufficienza»144. In un caso, il negativo come limitazione funziona da differenziatore che fissa una degradazione ontologica (nel senso che val dal più al meno di essere); nel secondo, come opposizione, il negativo ipostatizza forze che confliggono per produrre sinteticamente le cose. In entrambi i casi non si coglie la differenza di natura – che non può essere risolta in termini di degradazioni o di opposizioni. «Nell’essere – si legge ne Il bergsonismo – ci sono differenze, e tuttavia non c’è nulla di
negativo. La negazione implica concetti astratti, troppo generali»145. La generalizzazione metafisica introduce la lama astratta della possibilità nel corpo del reale per procedere alla sua vivisezione mortifera. Se il possibile è da una parte ciò che non è reale e dall’altra ciò che potrebbe realizzarsi a talune condizioni, fondandosi su di una logica essenza/apparenza o su di una logica fenomeno/noumeno, trattando la potenza come ciò che non è o ciò che potrebbe 144 145
G. Deleuze, Il bergsonismo, pag. 36. Id., pag. 37.
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essere e, soprattutto, derivando dal reale la sua ipotesi di ricalco negativo; il virtuale si caratterizza come di seguito: - esprime una ontologia puramente temporale: ciò che propriamente è, nel suo perdurare, è inattivo perché inutilizzato; - si distingue dal presente che invece si attiva ripetutamente; - essendo propriamente, il virtuale è reale; - si oppone, dunque, all’attuale, secondo un processo di differenziazione; - esprime di diritto l’essenza della molteplicità. Si è detto che virtuali sono la durata e la memoria. Esse appunto contengono in sé il principio della differenziazione, cioè dell’attualizzazione e della diversificazione. L’immagine per un inizio è tutta qui: un lucore differenziale146. Non si tratta di qualcosa da vedere ma di qualcosa che faccia vedere a partire dal “di dentro” (crinale virtuale/attuale) delle cose. La critica bergsoniana consiste allora da una parte nel rifiuto del negativo e del possibile e dall’altra nella virtualizzazione della potenza – ovvero l’indice differenziale, o energia o tensione che propriamente sono, senza perciò essere necessariamente presenti (riducibili a una ontologia della presenza). E’ un punto virtuale, allora, il luogo in cui la curva disegnata delle serie delle immagini-percezione e quella delle immagini-ricordo-puro convergono nella stessa molteplicità e da lì nuovamente si dipartono. L’élan vital, di cui Bergson parla spostandosi sul piano specifico della vita e dell’evoluzione147, corrisponde al funzionamento individuante di questa molteplicità tra virtuale ed attuale. L’intuizione filosofica, allora, si offre come quel metodo capace di ritrovare integralmente l’articolazione propria del reale: sia nella sua piega virtuale/attuale che nel suo risvolto riflessivo di reale/possibile. In altri termini, l’intuizione filosofica è il tentativo di un λόγος capace di operazioni complesse: di differenziazione e di integrazione di molteplicità, sia immediata che mediata (di conseguenza). Proprio perché essa è capace di operare senza il fattore negativo, è capace di schivare le generalizzazioni astratte e 146
G. Deleuze, Differenza e ripetizione… L’interesse mostrato per le questioni biologiche è sempre presente nell’opera bergsoniana, a partire dalla sua iniziale vicinanza all’evoluzionismo di stampo positivista, ben presto abbandonato per elaborare un proprio pensiero circa il processo evolutivo. Com’è noto, l’opera in cui affronta di petto la questione, è L’évolution créatrice (1907). 147
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“auscultare”148 le pulsazioni (ritmologia) della vita, per poi comprendere la (ridondanza della) differenza che passa tra una differenza mediata dal concetto e una differenza reale. In tal senso, con Deleuze, possiamo dire che l’intuizione è “godimento della differenza”149: metodo proprio dell’affermazione dell’individuazione. D’altronde, con il Deleuze interprete del pensiero spinoziano150 (soprattutto in riferimento all’Ethica151), è appunto possibile approfondire e afferrare la prossimità tra la differenza di natura promossa da Bergson e la distinzione reale di cui parla Spinoza: entrambi intendono promuovere un pensiero dell’immanenza (anti-cartesiano). La differenza reale (o distinzione reale) è opposta alla distinzione numerica: gli attributi sono espressioni della sostanza, non ne sono distinti in funzione di una mediazione astratta: «Esiste una sostanza per attributo dal punto di vista della qualità, ma esiste un’unica sostanza per tutti gli attributi dal punto di vista della quantità. Che cosa significa questa molteplicità puramente qualitativa152? (…) Essa è giustificata dal nuovo statuto della distinzione reale. Vuol dire che le sostanze qualificate si distinguono qualitativamente e non quantitativamente. O, meglio: si distinguono “formalmente”, “quidditativamente”, e non “ontologicamente”. (…) la distinzione reale esclude ogni tipo di divisione»153. Se al contrario si facesse della «distinzione reale fra attributi una distinzione numerica fra sostanze», introdurremmo «nella realtà sostanziale semplici distinzioni di ragione»154. Il punto fondamentale, esposto da subito da Deleuze in riferimento alle prime celebri proposizioni dell’Ethica, concerne la centralità dell’essenza: «L’essenza, in quanto esiste, non esiste al di fuori dell’attributo che la esprime; ma, in
quanto essenza, si riferisce solo alla sostanza»155, è per questo che l’espressione funziona secondo una logica di pura immanenza. L’essenza della sostanza si esprime negli attributi che sono la sua espressione. Si tratta, nella prospettiva deleuziana, di un principio genetico e di una necessità immanente propria della differenziazione qualitativa. Ciò vuol dire semplicemente che non si danno due sostanze (res cogitans e res extensa) secondo una 148
L’intuizione come “auscultazione” è una metafora tratta dall’Introduzione alla metafisica. G. Deleuze, Il Bergsonismo. 150 G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, Prima parte. Le triadi della sostanza. Distinzione numerica e distinzione reale. 151 B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata. 152 Corsivo nostro. 153 G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, pagg. 27-28. 154 Id., pag. 26. 155 Id., pag. 19. 149
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ontologia dualistica, ma una medesima sostanza la cui essenza si esprime in attributi (e a loro volta gli attributi in modi). A riguardo è da notare come, saltando le distinzioni numeriche a partire dal principio di immanenza, salti anche l’ipotesi della contingenza nel suo statuto di possibile astratto:
Non solo la distinzione reale non rimanda più a sostanze possibili distinte in numero156, ma anche la distinzione modale, a sua volta, non rimanda più agli accidenti come determinazioni contingenti157. In Cartesio una certa contingenza dei modi fa eco alla semplice possibilità delle sostanze. Ma per quanto Cartesio insista nel ricordarci che gli accidenti non sono reali, la realtà sostanziale ha sempre e comunque bisogno di essi. I modi, per essere prodotti, necessitano di qualcos’altro che non è la sostanza alla quale si rapportano, né un’altra sostanza che li dispone nella prima oppure un Dio che crea la prima con le sue dipendenze. Il modo di vedere di Spinoza è completamente opposto: non esiste una contingenza del modo in rapporto alla sostanza, così come non esiste una possibilità della sostanza rispetto all’attributo. Tutto è necessario, o per l’essenza o per la causa: la Necessità è l’unica affezione dell’Ente, la sua unica modalità158.
Il legame stretto tra differenza di natura e distinzione reale si rintraccia nella formula propria dell’espressione, secondo cui è implicito nell’essenza della sostanza darsi in quegli attributi così come essi si distribuiscono in modi. Nella sostanza è implicito ciò che gli attributi esplicano, in virtù di quell’essenza riferita sempre e comunque alla sostanza stessa. La nozione di possibile salta così come salta la distinzione numerica che anima il dualismo cartesiano. E abbiamo già visto come la differenza di natura dia corpo alla molteplicità qualitativa bergsoniana. Pertanto, è evidente come l’essenza della molteplicità qualitativa di Bergson sia prossima all’essenza della sostanza spinoziana. Tuttavia occorre precisare che una differenza sostanziale passa anche di qui. Non si può trascurare il fatto che la nozione di espressione così pensata si regge, in Spinoza, solo sulla base di un infinito in atto, da cui scaturisce la necessità delle implicazioni. L’espressione è posta in relazione all’essenza propria della sostanza, ma è anche vero che questa sostanza è in un infinito in atto, già dato – potremmo dire. In tal senso, la prospettiva ontologica bergsoniana è ben lontana, imperniata su di una temporalità strutturalmente aperta. Se la prossimità tra Spinoza e Bergson è nella essenza immanente della sostanza visto che per Bergson la molteplicità 156
Corsivo dell’autore. Corsivo dell’autore. 158 In questo passo Deleuze riprende, oltre alle tesi dell’Ethica, anche il confronto serrato dello Spinoza dei Pensieri Metafisici (1661) con il Cartesio delle Meditationes (1641). Id., Spinoza e il problema dell’espressione, pag. 28. 157
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qualitativa ha in sé il principio del suo differenziarsi (la sua propria “metrica” ritmologica), è anche vero che questa necessità si esplica in tutt’altro modo. In Bergson, l’introduzione del virtuale fa sì che il possibile astratto si mantenga sul piano puramente riflessivo, mentre prende corpo un’altra forma di possibile: il possibile come potenza. Dunque quello che in Spinoza si coglie sul piano antropologico come conatus, “sforzo”, “tensione”, potremmo dire che in Bergson è assunto sul piano ontologico stesso della molteplicità qualitativa. Essa, lo abbiamo visto, è caratterizzata da una tensione, da una forza, da una sua capacità o potenza. Il virtuale corrisponde proprio a questo potenziamento immanente della sostanza, che Spinoza non può per ovvie ragioni conoscere. L’essenza della molteplicità bergsoniana è differenziale ma nel differenziarsi essa non consuma tutto il suo potenziale: una risorsa virtuale, una capacità ulteriore perdura di fondo. La virtualità di questo dinamismo passa all’atto mantenendo parte della sua virtualità stessa per altri passaggi. La struttura temporale di questo progresso mostrava esattamente questa prerogativa: il passato si conserva in sé, puro, ed è; mentre il presente è nell’ora e nell’era, come ciò che si consuma nella sua attualità/attività. Il presente, nella sua attività, è in vista del futuro, per cui prende forza, in progressivi scarti, da questo immemoriale che chiamiamo passato. Il corpo è nel presente (materia che sempre ricomincia, anche nel senso dell’abitudine), ma richiama la spiritualità delle potenze del passato. La capacità di un corpo è nel richiamare la sua data potenza spirituale. La libertà è espressione della capacità di sintesi (forza spirituale) di un soggetto rispetto alla propria soggettività. È dunque affermazione incommensurabile, e non respingimento ipotetico in possibilità astratte. C’è dell’altro, in questo soggetto, che può spingere altrove. È ora giunto il momento di capire, date queste condizioni, come funzioni la soggettività bergsoniana, in quanto vertigine sul piano di immanenza. Anche il soggetto bergsoniano non si installa sul piano se non mediante una critica che ne è la pre-condizione – e d’altronde è in virtù di una critica che si distanzia da Spinoza. Abbiamo visto però quali sono i caratteri di questa critica: 1. Indagine circa le condizioni di possibilità di una esperienza nuova, di una “esperienza reale” (come suggerito da Deleuze) e non dell’esperienza possibile universalmente e astrattamente intesa; 2. Passaggio dalla critica all’ontologia della memoria (piano di immanenza); 3. Rinvenimento
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nel virtuale – di quel tempo che è e non passa – della condizione di possibilità creatrice della vita; 4. Riconoscimento dell’intuizione quale metodo in grado di cogliere l’essenza della molteplicità quale differenza di natura che passa attraverso le cose e la vita. Come più sopra discusso, il tempo puro, quale forma a priori della sensibilità, era già elemento capace di scardinare il soggetto kantiano: produrre quell’incrinatura segnata dal paradosso del senso interno che, una volta venuta meno la “fede” nell’io penso (parafrasando Nietzsche), non poteva che far esplodere la soggettività. Il tempo puro, come temporalità liberata dall’essenza onto-teologica, il tempo formale, da strategia in forza del soggetto, diventa daimon per il soggetto. Epifania, in altri termini, delle potenze di alterazione immanenti al soggetto stesso, come indice della sua radicale instabilità. Qui il tempo-durata, nella sua complessità, è la grande risorsa della soggettività – per il soggetto. Da strumento in grado di misurare il movimento, a strumento guasto, infine a opportunità di progresso. L’opportunità si può cogliere, però, a queste condizioni: il soggetto non è già dato e la soggettività è il movimento su cui egli tenta il proprio equilibrio. In tal senso, il tempo come mutamento per sé apre uno slargo e si fa spazio. Il cono della durata si impianta su questa superficie temporale come sua stessa vertigine; è una piega mobile che sorge a percorre questo spazio fino all’estinzione della propria forza/capacità. Una curva che serpeggia fugace tracciando un orizzonte dove un prima e dopo possono venire provvisoriamente fissati come data di nascita e morte di un soggetto qualsiasi. Riassumendo, fin qui si possono individuare cinque serie di immagini del soggetto159: 1. Soggetto del bisogno, allorché, in fase di percezione, si intercetti la cosa prelevandone la porzione di nostro interesse per tralasciarne il resto; 2. Cervello del soggetto, ovvero introduzione della zona di indeterminazione come scarto fra movimento ricevuto e movimento eseguito; 3. Soggetto dell’affezione, intesa, questa, come passione fino all’avvertimento del dolore; 4. Soggetto del ricordo, allorché il ricordo intervenga nello scarto, o zona di indeterminazione, propria dei meccanismi cerebrali, in modo da rendere ottimale la scelta dell’azione utile; 5. Soggetto della contrazione, quando, in funzione della memoria, la sintesi prodotta dà luogo alla qualità. Queste cinque serie di immagini del 159
Il Deleuze del bergsonismo parla di “sensi della soggettività”, qui si è preferito parlare di serie di immagini del soggetto. Id., pagg. 42-43.
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soggetto sono tali innanzi tutto perché, come si è visto, implicano altrettante immagini correlate (dall’immagine 0 all’immagine ricordo puro), poi perché insieme concorrono a comporre gli strati in cui si sfoglia la soggettività bergsoniana in un vero e proprio montaggio e, soprattutto, perché in definitiva occorre distinguere tra soggetto e soggettività. Se la soggettività è il virtuale, il soggetto ne è un effetto di superficie. Si può individuare chiaramente una faglia che percorre questo terreno, è la linea della differenza reale che separa, di diritto, il soggetto dei primi tre momenti dagli altri due: da un lato la percezione pura (materia) e dall’altra l’immagine ricordo (memoria), da un lato il soggetto-percezione e dall’altro il soggetto-contrazione. Questa faglia è tanto ciò che fa tremare il soggetto quanto ciò che produce il terreno su cui egli può crescere. La faglia è la pura memoria intesa come un inconscio virtuale, non psicologico, ma ontologico. Si era detto che dell’immagine dell’oggetto O ci fosse da subito una sorta di duplicato, pensandolo quasi come un rimosso dell’oggetto O. Ma non bisogna fare confusione, non si tratta di un rimosso dalle caratteristiche – già – psicologiche (o psicoanalitiche). Si tratta di un rimosso critico: l’ineludibile condizione tale per cui il tempo possa scorrere è che il passato resti in sé come un inconscio virtuale dove tutto è raccolto e inattivo. È la faglia della molteplicità virtuale che consente al soggetto di prodursi/attualizzarsi nella sua particolare durata. È ciò che consente quindi il passaggio del soggetto. È nella soggettività così intesa, come piega della molteplicità, che trovano ragion d’essere tutte le serie di immagini possibili. Essa è un principio genetico e produttivo. Quindi, l’attivo dell’inattivo è una punta d’iceberg rovesciato. È il luogo dove il cono si restringe e mostra la sola immagine che passa, quella propriamente presente, mentre tutte le altre restano a vari livelli di tensione e di profondità. Il soggetto, allora, portavoce di se stesso, è il passaggio all’atto – l’élan vital – della soggettività.
Comincia così a farsi largo, innanzi tutto, il problema dell’individuazione tra virtuale e attuale e, quindi, cominciano a profilarsi processi e percorsi di soggettivazione – a dispetto di quelle trame di assoggettamento che pure sono delle possibilità.
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Si tratta di comprendere che la questione del soggetto si può porre tra ontologia ed epistemologia come cifra, o valore, dell’integrale di una soggettività molteplice in cui l’immagine del pensiero si arricchisce di più superfici e di più logiche alternative. Si può pensare, in effetti, in modalità differenziali, a seconda di uno stile, di un’attitudine, di un’esperienza, di risonanze diverse. Ad ogni superficie la propria metrica – se la matrice è essenzialmente immanente.
In conclusione di questa prima parte, attraverso Bergson possiamo affermare che il problema del soggetto, quale “vertigine sul piano di immanenza”, si spiega come avente le seguenti caratteristiche: -
È un “falso problema” se posto come cominciamento, ovvero è un problema mal posto;
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È più propriamente il problema del nuovo, attiene all’ordine della creazione e della creatività;
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È esattamente il problema dal momento che, soggetto e problema, si pongono simultaneamente, in una prospettiva bio-logica:
1. “Ma porre il problema non è semplicemente scoprire, è inventare. La scoperta si riferisce a ciò che già esiste, attualmente o virtualmente160; è dunque certa di giungere, presto o tardi. L’invenzione offre l’essere a ciò che non era. Sarebbe potuta non venire mai. Già in matematica, a più forte ragione in metafisica, lo sforzo di invenzione consiste, per la maggior parte delle volte, nel suscitare il problema, nel creare i termini entro i quali esso si porrà. Posizione e soluzione del problema sono prossimi qui a equivalersi: i veri grandi problemi sono posti solo allorquando sono risolti”161.
2. Così sul piano biologico, come lo stesso Deleuze ci ricorda: “è vero che in Bergson questa nozione di problema ha le sue radici al di là della storia, nella 160
Il senso di virtuale e attuale qui è da intendersi diversamente dal virtuale/attuale propriamente bergsoniani, dal momento che il virtuale non esiste ma è. Infatti è chiaro che se prescindiamo dalla surlinearità del rapporto virtuale/attuale non comprendiamo a fondo come i problemi possano porsi. 161 H. Bergson, Il pensiero e il movimento, pag.43.
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vita stessa e nello slancio vitale: la vita infatti si determina essenzialmente nell’atto di aggirare gli ostacoli, di porre e risolvere problemi. La costruzione dell’organismo è, al tempo stesso, posizione e soluzione di problemi” e in nota: “Secondo Bergson la categoria di problema ha un’importanza biologica molto più grande di quella, negativa, di bisogno”162.
Un’ultima serie di immagini: l’iperboloide (pseudosfera) di Beltrami: ruotata ricorda una clessidra.
Figura 10. Iperboloide o "cuffia" di Beltrami
E, a seguire, l’immagine chiave del film Inception, di C. Nolan, 2010, che rappresenta una trottola:
Figura 11. Fotogramma dal film Inception, di C. Nolan, 2010
Entrambe queste immagini sembrano richiamare il cono della memoria bergsoniano. 162
G. Deleuze, Il bergsonismo, pag. 6.
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II. Capitolo Immagini per un inter-mezzo: la forza della dissonanza e il salto quantico del principio-individuazione.
Einstein diceva che se la meccanica quantistica si fosse rivelata corretta, allora il mondo avrebbe dovuto essere folle. Einstein aveva ragione: il mondo è folle. Daniel Greenberger
Le immagini scelte per un inizio ci hanno infine riportati, dal largo del mare aperto, alla pienezza del piano di immanenza. Siamo così passati da un cullio de-pensante, ai vortici, alle vertigini proprie di un installarsi del pensiero come processo soggettivante. Quanto ora ci proponiamo di profilare, su questo piano, sono immagini per un inter-mezzo. Siamo giunti alla posizione del problema del soggetto e lo indagheremo, più strettamente, come problema dell’individuazione. L’inizio, in fondo, ci è parso offrirsi quale presente scisso: era dell’ora e passato immemorale. Il mezzo, sia chiaro, è nel gesto di schivare l’onto(teo)logia del presente, ovvero l’entificazione e la nientificazione (correlata) dello spazio-tempo. L’immagine per un inter-mezzo non può che essere indeterminativa, contras-segnata da una trascendentalità empirica, aperta all’essere del sensibile. Immagini spatolate da forze possenti, che spingono dal basso e dall’alto e nella loro pressione crono-cromo-genetica sagomano volti. Potremmo già suggerire una prima bozza nel quadro di A. Micallef (Raw Intent. No. 5):
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Figura 12. A. Micallef (Raw Intent. No. 5)
Qui l’urlo di Munch diventa un’eco. L’immagine di un inter-mezzo suggerisce un passaggio e, considerato che l’immagine per un inizio consisteva, infine, nell’essenza immanente di una forza in cui, virtualmente, convergevano tutte le immagini prodotte e riproducibili, da qui vogliamo riprendere il discorso.
2.1 Dalla forza in campo al vitale campo di forze Il concetto di “forza”, nelle sue varie accezioni, è in realtà un topos del pensiero occidentale, presente sia nella letteratura filosofica che scientifica. L’origine etimologica del termine già mostra quali diramazioni semantiche e quanta ricchezza esso possa rappresentare. Si consideri il concetto di “forza” nell’antico egizio, indicato con il termine nḫt e riferito a una personificazione della forza divina; o la rappresentazione della forza attraverso il termine Enlil, per le popolazioni dell’antica Mesopotamia, che indicava il dio della tempesta (l’incostanza, l’azione dinamica), in contrasto con Anu, il dio-cielo, che simboleggiava il principio di immutabilità e permanenza; o il termine greco dynamis impiegato anche per tradurre diversi termini ebraici, nella Bibbia dei Settanta (III sec. a.C.), come hail (=potere), g’vurah (=potenza), coah (=vigore), os (=energia)163; e infine il tardo 163
M. Jammer, (1957), Storia del concetto di forza, Feltrinelli, Milano, 197, pagg. 31-34.
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latino fŏrtia, da fortis, forte. Nella trama dello stesso concetto di “forza” si ritrovano concetti affini quali: potenza, potere, vigore, energia, cui potremmo aggiungere capacità, prestanza, tenacia, passando da un ambito teologico e metafisico, a un ambito antropologico, morale e politico. Gli stessi termini, poi, hanno simili caratterizzazioni nella discussione scientifica (forza, energia, dinamismo, potenza, capacità). Vedremo in particolare come, in epoca moderna e contemporanea, questo concetto di “forza” segua uno sviluppo correlato tra letteratura filosofica e scientifica. Generalmente, al concetto di “forza” è riferita la capacità di produrre un effetto. Da un punto di vista scientifico, essa è stata intesa come causalità infallibile164, distinta sia da agenti di carattere metafisico, sia da forme o agenti psichici, e suscettibile di trattamento matematico. In questa direzione, un primo tentativo di definizione risale a Keplero (1571-1630), il quale intende la forza come quella “virtus” cui sono soggetti necessariamente e matematicamente tutti i movimenti gravitazionali165. Una definizione più specifica del concetto, però, è in Descartes, quando, occupandosi contestualmente del principio di inerzia, scrive: “La forza con cui un corpo agisce contro un altro corpo o resiste alla sua azione consiste in questo solo, che ogni cosa persiste sin che può nel medesimo stato in cui si trova, conformemente alla prima legge che è stata esposta [quella di inerzia]. Sicché un corpo che è congiunto a un altro corpo possiede una forza per impedire che ne sia separato; e quando ne è separato c’è qualche forza per impedire che gli sia congiunto; e così, quando esso è in quiete, ha una forza per rimanere in quiete e per resistere a ciò che potrebbe farlo cambiare; e così, se si muove, ha una forza per continuare a muoversi con la stessa velocità e verso la medesima banda”166. Per la generalizzazione matematica del concetto bisogna invece riferirsi a Newton, il quale stabilisce, nel secondo principio della dinamica, come la forza sia una relazione tra due grandezze, nel senso della proporzionalità tra forza e accelerazione impressa 167. In questo modo si diffonde l’idea di una forza di gravità, di una forza elettrica e di una forza magnetica.
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L’analisi che segue è tratta dal dizionario filosofico di N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino, 2012, alla voce “forza”, pagg. 509-511. 165 G. Keplero, Astronomia nova, III, pag. 241. 166 R. Descartes, (1647), Principia Philosophiae, II, 43. 167 I. Newton, (1687), Philosophiae naturalis Principia mathematica.
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Per quanto riguarda Kant, egli pone in evidenza il senso della causalità inerente il concetto di forza, sostenendo come essa corrisponda al rapporto fra il soggetto della causalità e l’effetto168. Il nesso forza ed energia si fa dirimente a partire da Mayer (1814-1878) e Joule (18181889), con la formula della conservazione dell’energia nel primo principio della termodinamica e dell’equivalenza tra energia meccanica e calore. Con l’opera di Helmholtz169 (1821-1894), autore tra l’altro di un importante studio sulla risonanza in fisica, ed
Hertz
(1857-1894),
celebre
per
la
dimostrazione
sperimentale
delle
onde
elettromagnetiche, si giunge alla formulazione dell’energetismo della meccanica. Secondo l’energetismo170, l’energia è anteriore alla “forza”; quest’ultima non è causa del movimento e dunque non lo precede, ha solo una funzione nominale finalizzata a identificare dei rapporti fra grandezze fisiche. Parallelamente allo sviluppo della letteratura scientifica su questi argomenti, matura la riflessione filosofica, dove il concetto di forza prima e quello di energia poi, assumono un significato metafisico e antropologico. Fu Leibniz a gettare le fondamenta per una prospettiva metafisica e, poi, antropologica circa il concetto di “forza”, riprendendo il pensiero aristotelico delle forme sostanziali, tradotte nel principio di una vis activa: «Il fallut donc rappeler et comme réhabiliter les formes substantielles, si décriées aujourd’hui ; mais d’une manière qui les rendît intelligibles et qui séparât l’usage qu’on en doit faire de l’abus qu’on en a fait. Je trouvai donc que leur nature consiste dans la force, et que de cela s’ensuit quelque chose d’analogique au sentiment et à l’appétit; et qu’ainsi il fallait les concevoir à l’imitation de la notion que nous avons des âmes. Mais comme l’âme ne doit pas être employée pour rendre raison du détail de l’économie du corps de l’animal, je jugeai de même qu’il ne fallait pas employer ces formes pour expliquer les problèmes particuliers de la nature, quoiqu’elles soient nécessaires pour établir des vrais principes généraux. Aristote les appelle entéléchies 168
I. Kant, Critica della ragion pura, Analitica dei Principi, capitolo II, sezione III, Seconda analogia dell’esperienza. 169 H. L. F. von Helmholtz, (1847), Sulla conservazione della forza. 170 Lo stesso Helmholtz promosse la riduzione di ogni sostanza ad energia, sebbene l’energetismo si diffuse per opera di W. Rankine (1820-1872), prima e di W. Ostwald (1853-1932), poi. Quest’ultimo, autore di saggi quali L’energia e le sue trasformazioni (1888), La crisi del materialismo scientifico (1895), fu il fondatore della chimica-fisica. Egli considerava la vita stessa come una specificazione del concetto di energia.
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premières. Je les appelle, peut-être plus intelligiblement, forces primitives qui ne contiennent pas seulement l’acte ou le complément de la possibilité, mais encore une activité originale»171. Il concetto aristotelico di entelechia (ἐντελέχεια) indicava il principio immanente di ogni organismo ad avere in sé il telos (τέλος) del proprio sviluppo, ovvero la tensione a compiersi passando dalla potenza all’atto172 (a differenza della metafisica trascendente di Platone, il quale riteneva che tale principio risiedesse nell’iperuranio); Leibniz interpreta questa visione aristotelica, di una tensione appartenente a ogni organismo finalizzata al suo compimento attraverso leggi proprie, come una forza originariamente attiva, assimilabile, sul piano antropologico, a quella dell’anima. Fu lui, inoltre, a offrire una proto-distinzione, in epoca moderna, tra energia potenziale ed energia cinetica, attraverso le nozioni di forza viva e forza morta173. La stessa dottrina di una forza spirituale ispira, seppure in modo diverso, sia Maine de Biran che Schopenhauer. Nel primo caso, la coscienza che l’io ha di sé è intesa come forza volente e attiva174 , nel senso che il principio che anima il tutto si fa consapevole nell’uomo175. Nel secondo caso, ciò che sul piano psicologico viene interpretato come volontà, si esprime nella natura come forza; o meglio, Schopenhauer mette propriamente a fuoco la natura non meramente psicologica di questa vis activa, considerando fra l’altro la stessa forza di gravità: «Se quindi dirò: la forza che fa cadere a terra la pietra, nella sua essenza, in sé, e fuori da ogni rappresentazione, è volontà; non si attribuirà a questa affermazione l’insano significato che la pietra si muova secondo un motivo conosciuto per il fatto che nell’uomo la volontà si manifesta in questo modo»176. Per quanto riguarda Bergson, come abbiamo avuto modo di approfondire, per la sua metafisica empirica, si tratterebbe più di un energetismo, che di uno spiritualismo in senso stretto. Per energetismo si intende un monismo dell’energia. Egli in effetti vede, nell’energia 171
W. G. Leibniz, (1695), Système nouveau de la nature et de la communication des substances, aussi bien que de l’union qu’il y a entre l’âme et le corps, in Id., Œvres Philosophiques de Leibniz, Félix Alcan, 1900, pagg. 635644. Corsivi nostri. 172 Aristotele, De anima. 173 W. G. Leibniz, (1686), Brevis demonstratio erroris memorabilis Cartesii, pubblicato in Acta eruditorum. Vedi anche Historical Dictionary of Leibniz’s Philosophy, a cura di S. Brown e N. J. Fox, The Scarecrow Press, Lanham Maryland/Toronto/Oxford, 2006, pag. 38. 174 N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, pag. 511. 175 P. Maine de Biran, (1823-1824), Nouveaux essais d’antrhopologie, in Œuvres, Naville, Paris, 1859.. 176 A. Schopenauer, (1819), Die Welt als WIlle und Vorstellung, I, 19.
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di cui la memoria è espressione e modulazione (in quanto ontologica e non antropologica), l’energia di cui in fondo è percorsa la stessa materia. Il materico, dunque, osservato a un livello di risoluzione microfisico, palesa la complessità della tensione delle forze, con i suoi gradi immanenti e differenziali. Il dualismo che spesso si riscontra in Bergson, come osserva Deleuze, è un dualismo genetico, alternativo a un dualismo riflessivo. Altro discorso per Hume, Locke e Berkley, i quali ragionano sull’aspetto arbitrario di ciò che sarebbe la forza. In particolar modo, per il primo la questione è strettamente connessa alla critica mossa alla nozione di causa. D’altronde, se il pensiero che dà luogo a una definizione del concetto di “forza” è così strettamente legato alla tradizione della meccanica classica e, dunque, all’approccio che tende ad assimilare forza e causalità, è ovvio che, messa in crisi la nozione di causa sulla base di una indagine di tipo induttivo 177, appaia indefinibile la stessa nozione di forza, se non, forse, come tendenza. E questa appare essere una accezione non del tutto nuova, ma di sicuro dirimente in una prospettiva immanente del pensiero. In epoca moderna, il concetto di forza assume dunque centralità proprio con l’affermarsi della meccanica classica, ma è rilevante notare che, sebbene esso sia stato interpretato generalmente secondo la logica secolare del causa-effetto, accanto a una accezione che raf-forza il nesso causa-effetto, in un’ ottica puramente trascendentale quale condizione-per, si fa strada una visione che dal basso logora questa stessa certezza. La questione è se il concetto di forza debba necessariamente intendersi attraverso una logica causa-effetto e/o attraverso una logica trascendentale, o se possa darsi una prospettiva puramente immanente della stessa idea. Con il concetto di “energia” si fa strada questa mutazione nel DNA dell’essenza della forza, che poi conduce alla nozione di “campo”. È una “rivoluzione industriale” all’interno del discorso filosofico (e scientifico). Ciò che salta è il soggettivismo su cui si innerva la metafisica occidentale, in tutte le sue svariate declinazioni; in vista di una metafisica diversa, cioè una diversa immagine del pensiero. Generalmente, per “energia” si intende una capacità o una forza in grado di produrre un effetto o compiere un lavoro; in fisica per “lavoro” si intende lo spostamento del punto di applicazione di una forza. Una vera decisiva svolta a una impostazione tradizionale della 177
D. Hume, (1739), A treatise of Human Nature.
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questione si ha con la teoria della relatività e la meccanica quantistica, per cui dalla materia intesa come energia si passa al concetto di materia come “densità di campo” 178. Se Kant riferiva la nozione di “campo” ai dettami del suo idealismo trascendentale179, in fisica per “campo” si intende la distribuzione continua di alcune condizioni prevalenti in uno spazio continuo180 e, per “condizione”, una grandezza qualsiasi che può cambiare in funzione del problema da trattare181. La nozione di “forza”, intesa in senso prettamente anti-meccanicistico, come espressione di proprietà singolari da trattare secondo una logica diversa dalla rigida sequenza del causa-effetto, si fa strada attraverso la costruzione di un discorso che verte su di una tematica sui generis, già a partire dalla seconda metà del ‘600. Si tratta dell’attenzione che i primi naturalisti, di epoca moderna, cominciano a nutrire nei confronti della “vita” e della sua capacità di sovvertire quelle stesse leggi della fisica in via di affermazione a quell’epoca. Ritroviamo, in questo ambito, una nozione di “forza” che, pur non essendo di matrice metafisico-animistica, si mostra refrattaria agli inquadramenti delle leggi fisiche. C. Perrault (1613-1688) scrive, in La mécanique des animaux (1680), che, a dispetto delle «credenze della nuova Setta», ovvero di coloro che pensano che «per mezzo della Meccanica si possa conoscere e spiegare tutto ciò che appartiene agli Animali », ci sarebbe qualcosa «nella formazione degli Animali» che «non può essere spiegato con ciò che conosciamo delle proprietà delle cose corporee»182. Anche L. Bourguet (1678-1742), nelle Lettres philosophique sur la formation des sels et des cristaux (1729), aveva sostenuto che «le mirabili Leggi della Fisica Meccanica» niente hanno a che fare con le «meraviglie del Meccanismo Organico»183. 178
A. Einstein – L. Infeld, The Evolution of Physics. The growth of Ideas from Early concepts to Relativity and Quanta, tr. It., L’evoluzione della fisica, Bollati Boringhieri, Torino, (1948) 2011. 179 I. Kant, Critica del Giudizio, intr.: “il campo è determinato unicamente dal rapporto che l’oggetto ha con la nostra facoltà di conoscere in generale”. 180 A. D’Abro, (1951), The rise of the new physics, 2012. 181 N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, pag. 133. 182 C. Perrault, La mécanique des animaux (1680), in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, consultabile al sito web dell’Enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-biologia-dal-settecento-all-ottocento-la-nascita-della-biologiacome-scienza-autonoma_%28Storia-della-Scienza%29/. 183 L. Bourguet, Lettres philosophiques sur la formation des sels et des cristaux (1729), pagg. 72, 105, 142-143 in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, consultabile al sito
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Di fatto, fu la scoperta del microscopio a offrire un’immagine completamente nuova del reale. A. von Haller (1708-1777), scoprendo la «contrattilità muscolare», da lui definita «irritabilità» (1753), può mostrare come essa sia una forza particolare che non
semplicemente si applica ai corpi, secondo i dettami della meccanica, ma ne proviene e che, pertanto, è «diversa da tutte le altre forze conosciute» poiché «non dipende né dal peso, né dall'attrazione, né dall'elasticità»184. Tale “forza” sembrava violare il terzo principio della dinamica, essendo una reazione sproporzionata all'intensità dello stimolo ricevuto. A tal proposito, F. Fontana (1730-1805) sottolinea come, per comprendere questa “forza”, sia necessario includere, tra i fattori “eccitanti”, anche
«la qualità, le circostanze, il luogo, il
tempo, le quali possono variare l’effetto, e fino a toglierlo del tutto»185. In Zoonomia, or The law of organic life, E. Darwin (1731-1802) scrive: «siccome abbiamo osservato (…) che nella contrazione muscolare non apparisce esservi differenza quanto alla forza o alla velocità nel principio o nel fine, così è d’uopo conchiudere che la contrazione animale è diretta da leggi sue proprie e particolari, e non da quelle della meccanica, della chimica, del magnetismo, dell’elettricità»186. L’osservazione di un altro singolare fenomeno concorre a mostrare una profonda refrattarietà delle “forze viventi” alle – allora – leggi della fisica. Si tratta dell’anabiosi187 che, nel 1705, A. van Leeuwenhoek (1632-1723) riscontrerebbe nei rotiferi, organismi
web dell’enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-biologia-dal-settecento-allottocento-la-nascita-della-biologia-come-scienza-autonoma_%28Storia-della-Scienza%29/. 184 D. Diderot, (1778), Éléments de physiologie, pagg. 24-25 (1964) in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, consultabile al sito web dell’Enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-biologia-dal-settecento-all-ottocento-la-nascita-della-biologiacome-scienza-autonoma_%28Storia-della-Scienza%29/. 185 F. Fontana (1775a) in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, consultabile al sito web dell’Enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocentobiologia-dal-settecento-all-ottocento-la-nascita-della-biologia-come-scienza-autonoma_%28Storia-dellaScienza%29/. 186 E. Darwin (1794-96) in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, consultabile al sito web dell’Enciclopedia Treccani consultabile al sito web dell’enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-biologia-dal-settecento-all-ottocento-la-nascita-della-biologiacome-scienza-autonoma_%28Storia-della-Scienza%29/. 187 Sulla questione degli esperimenti circa la vita, la morte e l’ipotetica “resurrezione” di questi microorganismi, si veda anche Storia della definizione di morte, a cura di F. P. De Ceglia, Franco Angeli, Milano, 2014, in particolare: La discussione settecentesca intorno alla resurrezione, alla vita sospesa e alla morte latente. In realtà, nel 1959, D. Keilin mutò questo concetto di anabiosi in “criptobiosi”, per parlare più opportunamente, anziché di “resurrezione”, di vita latente (in Storia della definizione di morte, pag. 372-373).
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microscopici, e che si ritrova puntuale nelle analisi di un altro celebre naturalista, L. Spallanzani (1729-1799). Quest’ultimo, a seguito di reiterate indagini sperimentali, conclude che i rotiferi avrebbero la sorprendente capacità di tornare in vita:
«un animale che dopo
esser perito risorge, e che, dentro a certi limiti, tante volte risorge, quante a noi piaccia, è un fenomeno tanto inaudito, altrettanto a prima giunta inverosimile, e paradosso, che mette in moto, e sconvolge le idee più ricevute dell’animalità, che ne fa nascere di nuove, e che diviene interessantissimo alle ricerche non meno dell’oculato naturalista, che alle speculazioni del profondo metafisico»188. Proprietà simili vengono ritrovate anche in un genere particolare di alga azzurra, il nostoc, da parte di R.-A. F. de Réaumur (1683-1757)189; nelle anguina tritici, da parte di J. Turberville Needham (1713-1781), H. Baker (1698-1774) e F. Fontana (1730-1805). Al di là degli esiti, a tratti pittoreschi e suggestivi, di questi esperimenti, quanto di più rilevante è la constatazione per cui il vivente si caratterizza come una macchina capace di confondere tutte le idee di meccanica190. Nell’Histoire naturelle (1749-1804) di G.-L. L. de Buffon (1707-1788) si mette a tema la complessità irriducibile del vivente e, nell’Histoire général des animaux (1749), si sostiene come le leggi della meccanica non possano esaurire il campo delle spiegazioni possibili proprio a partire dal fatto che, nel caso del vivente, si presentino condizioni differenti e non riducibili. Così anche P.-L. Moreau de Maupertuis (1698-1759), che rileva come i viventi siano macchine troppo complicate per essere comprese meccanicamente191. Il tema della forza torna come “forza ignota”, “forza vitale”, distinta da una logica meccanicista, in autori come C. Bonnet, P.-J. Barthez e J. F. Blumenbach. Il punto è che la
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L. Spallanzani, (1776), Osservazioni ed esperienze intorno ad alcuni prodigiosi animali, che è in balia dell’osservatore il farli tornare da morte a vita, in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, consultabile al sito web dell’Enciclopedia Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-biologia-dal-settecento-all-ottocento-la-nascita-della-biologiacome-scienza-autonoma_%28Storia-della-Scienza%29/. 189 R.-A. F. de Réaumur, Observations sur la végétation du Nostoc. 190 J.-C. de la Métherie,(1787), Principe de la philosophie naturelle in G. Barsanti, Storia della scienza. La nascita della biologia come scienza autonoma, 2003, http://www.treccani.it/enciclopedia/l-ottocento-biologia-dalsettecento-all-ottocento-la-nascita-della-biologia-come-scienza-autonoma_%28Storia-della-Scienza%29/. 191 P.-L. Moreau de Maupertuis, (1751) Dissertatio inauguralis methaphysica de universali naturae systemate.
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tendenza è anche quella di promuovere una differenza basata sul principio della teleonomia, questione che sarà poi affrontata solo molto più tardi192. Una nuova scienza della vita, autonoma e unitaria, comincia ad affermarsi, com’è noto, con J.-B. Lamarck (1744-1829). Egli intende la vita come espletamento di determinate funzioni, più o meno complesse in funzione dell’organizzazione di un corpo. In questo senso, la vita è un’emergenza della struttura materiale e può essere studiata al di fuori sia di ogni ipotesi animistica sia di ogni riduzione meccanicistica193, pretendendo delle leggi proprie. Basandosi sull’anatomia, sulla fisiologia, sulla sistematica e sull’eco-etologia, il suo è un approccio “integrato”; in tal modo egli riesce a cogliere il processo evoluzionistico, riferendosi principalmente all’ambiente194. Per Lamarck, intanto, l’evoluzione è un processo di esclusiva conservazione della vita, a dispetto di un ambiente che cambia; le “forze” della Natura, che si esplicano nel conflitto interspecifico, tendono a questo. Tra Lamarck e i predarwiniani si afferma l’idea di un unico piano di composizione dell’organico e dell’inorganico, in cui si esprimono delle forze, tra loro in conflitto, che puntano alla difesa dell’esistenza. Si tratta, potremmo immaginare, di una sorta di infinito in atto, dove il conatus è tendenza alla conservazione dell’esistenza in assonanza al principio della conservazione dell’energia – a differenza, per esempio, di quanto sarà per Nietzsche, il quale parlerà, per la vita, di continua dissipazione. Il processo lamarckiano, nella circolarità tra ambiente e individui, tende a migliorare la specie attraverso la conservazione degli individui “superiori” (più forti) a dispetto di quelli “inferiori” (meno forti) – ma non coltiva l’idea di radicali mutazioni.
192
Per quanto riguarda un’attenta disamina sull’evoluzione dell’assetto epistemologico della biologia come scienza sui generis e a riguardo della ricostruzione di una discussione sui termini della teleonomia nei processi viventi si veda E. Mayr, L’unicità della biologia L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005. 193 J.-B. Lamarck, (1778), Flore françoise, Kessinger Pub Co, 2009. 194 È singolare notare come il termine “biologia” figuri per la prima volta in riferimento ai biologi, nell’opera di Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), Fundamenta botanica, dove però si trattò di un errore; infatti egli avrebbe inteso riferirsi ai biografi e non ai biologi (Philosophia botanica). Il termine “biologia” è invece introdotto da Theodor Georg August Roose (1771-1803), Karl Friedrich Burdach (1776-1847), Lamarck e Gottfried Reinhold Treviranus (1776-1837), in un periodo che va dal 1797 e il 1802.
116 116
Parallelamente a A. R. Wallace195 (1823-1913), C. Darwin (1809-1882) giunge alla formulazione dell’ipotesi per cui la lotta per la sopravvivenza avrebbe determinato la conservazione di variazioni favorevoli, da un lato, e la distruzione di quelle sfavorevoli dall’altro. Si tratta di una traccia di lavoro molto diversa, quasi
paradossale,
di
conservazione delle variazioni. Il volume On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favoured races in the struggle for life (1859), di C. Darwin, si presenta come un compendio delle ricerche e delle tesi da lui condotte ed elaborate fino a quel momento. Brevemente, è qui che viene messo a punto il nesso tra mutamento delle condizioni ambientali e variazione dei caratteri degli individui, spinti, questi ultimi, da una competizione non più solo interspecifica
ma
anche
intraspecifica.
Al
mantenimento
della
differenziazione
concorrerebbe “il principio di divergenza”, che consiste nell’effetto della divisione del lavoro. Altra celebre tesi è l’origine comune delle specie. Qui di seguito un passaggio della sua argomentazione:
Se in condizioni mutevoli di vita gli esseri viventi presentano differenze individuali in quasi ogni parte della loro struttura, e ciò non è discutibile; se a cagione del loro aumento numerico in progressione geometrica si determina una severa lotta per la vita in qualche età, stagione o anno, e ciò certamente no può essere discusso; allora, considerando la infinita complessità delle relazioni di tutti gli esseri viventi fra di loro e con le loro condizioni di vita, la quale fa sì che un'infinita diversità di struttura, costituzione e abitudini sia per essi vantaggiosa, sarebbe un fatto quanto mai straordinario che non avessero mai avuto luogo tante variazioni utili nell'uomo. Ma se mai si verificano variazioni utili a un qualsiasi essere vivente, sicuramente gli individui così caratterizzati avranno le migliori probabilità di conservarsi nella lotta per la vita; e per il saldo principio dell'eredità, essi tenderanno a produrre discendenti analogamente caratterizzati. Questo principio della conservazione, o sopravvivenza del più adatto, l'ho denominato selezione naturale. […] La selezione naturale conduce anche alla divergenza dei caratteri; infatti quanto più gli esseri viventi divergono nella struttura, nelle abitudini e nella costituzione, tanto più grande è il numero di essi che può trovar da vivere in un'area − della qual cosa vediamo la dimostrazione osservando gli abitanti di una qualsiasi piccola zona, e le produzioni naturalizzate in terre straniere. Perciò durante la modificazione dei discendenti di una 195
A. R. Wallace, (1871) On the tendency of varieties to depart indefinitely from the original type. E’ noto come la teoria dell’evoluzione si formi parallelamente tra Wallace e Darwin. Tra loro vi furono enormi punti di contatto ma anche notevoli divergenze, tra queste: Darwin si concentra sugli individui, mente Wallace sulle popolazioni, ipotizzando che queste vadano a sostituire le meno adattate; Darwin lavora sull’analogia tra animali domestici e animali selvatici, mentre Wallace ritiene che questa analogia non possa funzionare a causa della distanza dei primi dal loro ambiente naturale. Inoltre Wallace non condivideva l’espressione “selezione naturale”, a cui preferiva l’idea di una “sopravvivenza del più adatto”. Altro elemento di netta separazione fra i due concerneva le ipotesi circa la genesi evolutiva dell’uomo.
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qualsiasi specie, e durante la lotta incessante di tutte le specie per aumentare il numero, quanto più differenziati divengono i discendenti, tanto maggiore sarà la loro probabilità di successo nella battaglia per la vita. Così le piccole differenze che distinguono le varietà della stessa specie tendono regolarmente ad aumentare, fino a uguagliare le più grandi differenze fra le specie dello stesso genere, o anche di generi distinti. […] In base a questi principî, si possono spiegare la natura delle affinità e le distinzioni, generalmente ben definite, fra gli innumerevoli esseri viventi di ogni classe in tutto il mondo196.
Più difficile, per Darwin, risulta argomentare circa l’ereditarietà dei caratteri (connessa con il tema della conservazione delle variazioni). Egli tenta l’ipotesi della “pangenesi”, assumendo che nel trasferimento di tutti i caratteri, alcuni rimangano latenti, mentre altri risultino attivi e manifesti. L’opera del 1871, The descendent of man, chiarisce il punto di vista dell’autore circa l’origine specifica dell’uomo e approfondisce la funzione della selezione sessuale rispetto alla selezione naturale. La stessa connotazione estetica della natura perde la sua aura mitica di fronte alla funzione riproduttiva che presiede alla individuazione delle preferenze. Ora, se fino a poco prima di Lamarck, la vita si presenta come “forza”, si può cogliere, invece, come da Lamarck in poi la vita si presenti quale risultato di un conflitto tra forze, incapace, del resto, di risolvere del tutto quello stesso conflitto e spostandolo solo oltre una certa soglia – si direbbe con una espressione più contemporanea. Detto in altri termini: è la tensione in campo a determinare una individuazione possibile fra elementi differenti. Individuazione che non risolve tutta la tensione preesistente.
2.2. Nietzsche, il giardino di ninfee, la forza della dissonanza La criticità del concetto di forza, in rapporto alla mutazione di impianto epistemologico in corso in quegli anni, è ciò che anima una certa prossimità tra Bergson e Nietzsche, nel merito della nuova immagine del pensiero che essi promuovono, ciascuno con 196
C. Darwin, (1859), On the origin of species, Einaudi, Milano, 1959, pagg. 140-142 (corsivo nostro).
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la singolarità della propria scrittura. Questa vicinanza non mira ad alcuna riduzione possibile, tanto più che qui, un tale accostamento, può solo essere accennato. Elementi di vicinanza tra i due sono: 1.
Una marcata attenzione alle scienze e agli sviluppi inerenti la nascita della
biologia; 2.
Il riportare, sul terreno biologico (inteso come vita), la radice e il fondamento
della discussione sulla funzione dell’intelletto nella produzione di nozioni; 3.
La critica mossa al negativo e alle nozioni di possibilità, che in Nietzsche si
concretizza nella esemplare posizione della questione del nichilismo; 4.
La curvatura impressa all’orizzonte temporale, a dispetto della linearità
dettata dalla concezione moderna; 5.
Il tema della forza assunto nella sua cifra di dualità genetica – produzione di
energia (la differenza come elemento sostanziale); 6.
La profilazione del soggetto come funzione integrale di un divenire ineludibile;
7.
Entrambi hanno subito la stessa interpretazione metafisicizzante: in un caso
“spiritualismo” (Bergson), nell’altro quale fautore del “compimento della metafisica occidentale” (Nietzsche).
Per quanto riguarda Bergson abbiamo già avuto modo di trattare questi argomenti, quindi non li riprenderemo se non per brevi richiami. Per quanto riguarda Nietzsche, ci occuperemo di alcune opere in particolare, dove risaltino gli elementi sopra evidenziati. Sia la biografia intellettuale di Bergson che quella di Nietzsche sono segnate dall’attenzione alla biologia o, meglio, dal problema della vita a partire dallo “scandalo” dell’evoluzionismo. Bergson non avrebbe avvertito come così profondamente inadeguato il pensiero sotteso alla meccanica classica se non l’avesse messo alla prova della vita; e, allo stesso tempo, non avrebbe avvertito inadeguato l’evoluzionismo di stampo positivista, se non l’avesse messo di fronte all’intuizione del dato immediato del reale, che è frutto di una temporalità che postula un pensiero completamente nuovo, capace di rendere conto del dinamismo del progresso e del mutamento reale. L’approccio sperimentale impone
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un’apertura interdisciplinare senza comparti stagni, per rispondere a quella crisi dei saperi catalizzata anche dagli sviluppi in ambito biologico. L’interesse mostrato da Nietzsche nei confronti di questa tematica 197 attraversa tutta la sua produzione, intrecciandosi al fil rouge del corpo. Se nei frammenti scritti dall’autore tra la primavera e l’autunno del 1885, si annota la necessità di porre il corpo, con la sua fisiologia, al centro del discorso, quale esclusivo e decisivo «filo conduttore»198, e nelle celebri parole pronunciate da Zarathustra si rivendica questa stessa centralità contro i suoi detrattori: «Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. (…) Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chi sa a quale scopo per il tuo corpo è necessaria proprio la tua migliore saggezza?»199, è pur vero che questo protagonismo fa da sponda alla questione della centralità della vita, che non è un argomento, come nell’omonimo brano della Gaia scienza: «Ci siamo sistemati un mondo in cui poter vivere – con l’ammettere corpi, linee, superfici,
cause ed effetti, movimento e quiete, forma e contenuto; senza questi articoli di fede nessuno, oggi, sopporterebbe la vita! Ma con tutto ciò essi non sono ancora per nulla qualcosa di dimostrato. La vita non è un argomento: tra le condizioni della vita ci potrebbe essere l’errore»200. Lo scopo, per cui il corpo debba produrre la sua migliore saggezza, è proprio la vita, così come si ritrova in un altro noto testo nietzscheano201, in cui la distinzione fra menzogna e verità non risiede in una metafisica disposizione essenzialista (l’essenza immutata della verità che consente, se debitamente attinta, di sciogliere l’illusione della menzogna), ma trova la propria origine extramorale nell’utilità o il danno per la vita: «(…) gli uomini non fuggono tanto l’essere ingannati, quanto l’essere danneggiati dall’inganno. (…)
197
Per quanto riguarda una attenta disamina del rapporto tra Nietzsche e la biologia, si veda B. Stiegler, (2001), Nietzsche e la biologia, Negretto Editore, Mantova, 2010. Nietzsche, infatti, oltre a conoscere le tesi sull’evoluzionismo e mostrandosi, del resto, distante dalla versione “conservatorista” di Lamarck, si confrontò molto con la biologia cellulare di R. Virchow (1821-1902), arrivando per esempio per questo a considerare il corpo come una molteplicità (cellulare) di elementi (per quanto concerne R. Virchow, il riferimento va al suo Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebenlehre, del 1858). A proposito, altro riferimento scientifico importante è sicuramente W. Roux (1850-1924), con il suo Der Kampf der Teile im Organismus (1881). 198 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, vol. VII, tomo III, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1975. 199 F. Nietzsche, (1885), Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 2002, Dei dispregiatori del corpo, pag. 33-34. 200 F. Nietzsche, (1882), Gaia scienza, Adelphi, Milano, 2008, pag. 159. 201 F. Nietzsche, (1873), Verità e menzogna in senso extramorale, BUR, Milano, 2009.
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[L’uomo] Desidera le conseguenze piacevoli della verità che conservano la vita »202, ma, soprattutto, «Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state trasposte e adornate poeticamente e retoricamente e che, dopo un lungo uso, appaiono a un popolo salde, canoniche e vincolanti. Le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono illusioni (…)»203. Data la natura metaforica di tutto il linguaggio, esso è sostanzialmente produzione di menzogne e allora la “verità”, illusione e metafora anch’essa, non è altro che ciò che meglio promuove la vita. Il punto è che tali convenzioni, con l’abitudine, rischiano di perdere di vista proprio lo scopo per cui sono state stabilite, diventando argomenti che si ritorcono contro il corpo della vita, mortificandola. L’intelletto, a quel punto, si rivolge contro se stesso. «L’intelletto, come mezzo per la conservazione dell’individuo, dispiega le sue forze principali
nella finzione, giacché questa costituisce il mezzo che permette agli individui più deboli, meno robusti, di conservarsi, essendo loro negata la lotta per l’esistenza da combattersi con le corna e con le zanne aguzze degli animali feroci»204: esso è lo strumento attraverso cui l’uomo gioca la sua partita nella lotta per la sopravvivenza ma, il problema, appunto, si determina quando l’uomo finisce col credere più ai suoi simboli205 che alla forza da cui essi sono scaturiti: «(…) l’uomo si dimentica come soggetto, come soggetto artisticamente creativo»206 e se questo oblio, inizialmente, è proprio l’astuzia di cui egli ha bisogno, nell’intento di riuscire a sistemarsi un mondo in cui poter vivere, poi gli diventa un’arma a doppio taglio, assoggettandosi, fino allo sfinimento, alle “verità” da lui stesso create. «Qui si può ben ammirare – continua Nietzsche – l’uomo come un grande genio
costruttore, che riesce ad elevare, su fondamenta mobili e per così dire sull’acqua corrente, una cupola di concetti infinitamente complicata»207. La liquidità – per riprendere l’efficace metafora dell’”acqua corrente” – delle fondamenta di queste costruzioni rende l’idea della criticità su cui poggia l’edificio della conoscenza umana e, soprattutto, rende già l’idea dell’ambiguità del valere del valore. Il 202
Id., pag. 128. Id., pag. 131. 204 Id., pag. 126. 205 Sul tema dell’autonomizzazione dei simboli, si veda G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, 2003. 206 F. Nietzsche, Verità e menzogna, pag. 134. 207 Id., pagg. 132-133. 203
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valore del vero non è nell’assoluto, eterno e immutabile, ma è una funzione della lotta per la sopravvivenza. Si tratta di una cifra varabile, che si stabilizza relativamente alla sua efficacia, per sfaldarsi una volta saltato questo rapporto di funzionalità. Affinché il valore valga, è necessario sia alimentato da una credenza profonda e, paradossalmente, quanto più profonda e radicata sarà questa credenza, tanto più essa riscoprirà la sua base mobile e incerta – come nel caso della volontà di verità del cristianesimo (di cui è espressione secolarizzata la stessa scienza moderna), che vede il proprio destino compiersi nella “morte di Dio”. La vita, dunque, come il corpo, non è per Nietzsche un porto sicuro, né un’ancora. La vita e il corpo sono quella stessa base “liquida” su cui bisogna costruire e su cui, però, ogni costruzione non può che crollare. Il nichilismo poggia su questo il suo senso e il suo non-senso. «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?»208 Quando si svela l’infondatezza propria della posizione dei valori, ed essi smettono di valere, si svela la presenza dell’«ospite inquietante» – il nichilismo. Esso non è una condizione temporanea, sociale, superficialmente culturale, ma affonda le sue radici in quella stessa mobilità che caratterizza la vita quale esito di una lotta fra forze. Una tettonica a zolle dei corpi viventi che nel loro mutuo commercio di affetti e affezioni non possono che consumarsi – per produrre terra fresca e nuovi territori. Il senso del nichilismo è in questa necessità della combustione, del divenire, della vita come mutamento – per cui il vivo è solo una specie del morto. Il senso è dunque nell’affermazione di questo centro caldo della terra, in perenne fusione, che determina la condizione della produzione di altra vita. In fondo, l’ultima parola di Nietzsche non sarà il conflitto, il polemos (Πόλεμος), ma lo ja sagen. Quando i valori si svalutano e la criticità si fa manifesta, ci sono due possibilità: o una reazione di rifiuto del nichilismo, che però non può che approdare a nulla; o un’azione di creazione, che, facendosi carico di quella ineluttabilità, sia capace di inventare illusioni, ancora più potenti di quelle ormai tramontate. In altri termini, se il problema del nichilismo non è la verità, ma il senso (perché, come si diceva, tutto è metafora, menzogna), ciò che occorre evitare è la mancanza di senso, ovvero la debolezza (con i suoi tarli di
208
F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano, 2008.
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ressentiment209). Nietzsche sostiene si debba credere, ma al corpo, a questo mondo e non al mondo dietro il mondo. Bisogna credere, ma non a una presunta verità, che non può che poggiare su nulla, ma alla capacità di creare, che, come una ninfea, potremmo dire tornando alla liquidità, possa con le sue radici trovarsi a proprio agio nell’acqua. E di creare soprattutto se stessi. Agire con forza (morale) è l’unica reazione propriamente attiva al nichilismo, così come l’autore parla di una «Grande salute», quale forma di trasvalutazione attiva della malattia. Sul piano morale Nietzsche rivendica la stessa creatività propria della vita: una plasticità estetica.
Figura 13. C. Monet, Dalla serie delle Ninfee (olio su tela)
Come le nozioni di verità e menzogna hanno un’origine extramorale (nella dinamica vivente dell’uomo), così la morale stessa trova il suo (s)fondamento sul piano di un conflitto. Nella Genealogia della morale210, le nozioni di buono e cattivo sono anch’esse funzione diretta di un campo di forze. Ed è indagando questi aspetti che si mostra il nesso chiaro tra l’antidialettica nietzscheana, la critica mossa al negativo e il connesso rifiuto di una 209 210
Celebri, a questo proposito, le analisi della Genealogia della morale (1887). F. Nietzsche, (1887), Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 2010.
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metafisica nozione di possibilità. La Genealogia della morale è uno scritto dichiaratamente polemico su più fronti: sia contro la pretesa di una teologia della morale, sia contro la sua secolarizzazione: gli «psicologi inglesi»211, gli evoluzionisti à la Spencer212. La questione è nella logica ritenuta alla base della morale: in un caso e nell’altro sembra fondamentale un assetto finalistico, dunque metafisico; che si tratti dell’utile o del bene. Il punto è che non si è mai fatto i conti con la realtà del campo di forze, da cui scaturiscono i tipi dei concetti e dei valori: il tipo del buono, il tipo del cattivo. Il “tipo” rappresenta, nel teatro nietzscheano, la singolarizzazione di una forza in campo. Il “signore”, in questo senso, rappresenta il tipo della forza che può, ovvero della forza che è in grado di potere ciò che vuole; ma, attenzione, questo potere è ancora potenza, cioè un’attitudine affettiva213, prima che uno status sociale o politico. Il signore, in tal senso, è colui che ha la capacità di far valere il proprio valore, è in grado di affermarlo nella spontaneità indivisa della sua natura. Perciò si sostiene che costui sia il tipo della creazione del valore: egli esprime il buono nel senso della pura affermazione di una forza attiva. In altri termini, egli è in grado di far fronte al nichilismo attraverso la semplicità di uno stile artistico. Il “buono”, dunque, non si spiega attraverso una logica di adaequatio, che presuppone un ordine di essenze cui corrispondere (o meno), bensì attraverso una prospettiva estetica sostanzialmente dissimmetrica: un’invenzione è una grandezza incommensurabile, che cambia le regole del gioco e non si sottopone ad esse. L’”etica” nietzscheana sembra prendere estremamente sul serio il formalismo morale kantiano, portandolo alle sue estreme conseguenze. Il “cattivo”, allora, come si spiegherà? Sempre attraverso il “tipo”, portatore, del “cattivo”. Chi è costui? È il debole, colui che vede la propria natura divisa, la propria forza separata dalla propria potenza, incapace di far valere il proprio valore. Il risentito, il debole esprime la propria forza re-attivamente come risentimento – non potendo far valere qualcosa, deve misconoscere il valore di qualcos’altro. E in questo gesto, il tipo del risentimento, compie la mistificazione sostanziale dei valori, trasformando il buono in cattivo e proclamandosi come il buono da liberare. Si tratta di quella operazione che Nietzsche stigmatizza come “rivolta degli schiavi”. In effetti, egli dichiara che la morale gregaria, dei deboli, del ressentiment, avrebbe vinto; e che, peggio, la 211
Id., pag. 13. Id., pag. 16. 213 Sul tema degli “affetti” in Nietzsche, si veda: M. Vozza, Nietzsche e il mondo degli affetti, Ananke, Torino, 2006. 212
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morale sarebbe esattamente un misto di gregarietà e ressentiment. Ma allora come è possibile che il forte sia sconfitto e vinca il debole? Si tratta di un rovesciamento di tipi e ruoli? Nel teatro nietzscheano della trasvalutazione nessun rovesciamento è mai in realtà praticato. Si tratta di spostamenti più che di rovesciamenti. Il debole vince in qualità di debole, ovvero propagando la debolezza, dividendo, nel tipo forte, la forza da ciò che è in suo potere; inoculando il dubbio, cioè l’insidia della negazione e della metafisica della negazione, ovvero il nichilismo reattivo; proclamando, cioè, la validità di un contenuto essenzialistico all’interno del “comando” (morale, per dirla in termini kantiani), che in tal modo non è più puro: questo è giusto, questo è sbagliato saranno i suoi parametri. Quando il forte inizia a dubitare di sé, commisurando uno scarto esistenziale rispetto a uno standard, la sua condotta vacilla, la sua attitudine al “comando” si fa labile, fino a scomparire. Egli si muta in debole. Dunque il debole avrà vinto propagando la sua morale degli schiavi: una morale dell’assoggettamento a dispetto di un’etica della soggettivazione, cioè di un’etica che nel “comando” morale rende l’istituirsi di un soggetto. La “colpa”, in senso cristiano, esprime proprio questa macchia di negatività che connota il volto di un’antropologia negativa. E il tipo del “prete” ne è lo strumento. Quest’ultimo, infatti, da un lato indebolisce il forte in un’ottica di colpevolizzazione della sua stra-ordinarietà, dall’altro afferma su di lui il potere, tipico dello schiavo, del controllo – che non è, beninteso, il “comando” e, della potenza, mantiene solo una flebile traccia. La condizione preliminare del controllo è tutta nel consenso alla alienazione/cedimento, da parte della vittima complice, della propria forza/pulsione creativa. Quindi un divenire-debole del forte. La forza del debole (lo schiavo) e la forza del forte (il signore) sono le tensioni affettive che animano il campo della genealogia. Che margini ha, il forte, per mantenere salda la sua natura indivisa? Non lasciarsi irretire dalla logica nichilistica della possibilità. Egli sarebbe potuto essere diverso da ciò che è, come se fosse possibile per un leone non essere un leone? Il punto è prendere sul serio Kant, spingendosi oltre: il comando o è puro o non è. O si rimuove la dualità metafisica essenza/apparenza, rimuovendo lo stesso soggettivismo moderno che instaura uno pseudo criticismo nel doppio fenomeno/noumeno incentrato sulla inaggirabilità dell’Io penso; o si ricade in un nichilismo re-attivo.
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In realtà, questa separatezza della forza dalla sua capacità di vita è puramente concettuale, si tratta di fare due dove invece è uno. Si tratta di ferite, si tratta di of-fendere (si tratta, per il debole, di lavorare la fragilità della forza del forte, problematizzare in funzione della colpa). Si tratta di quelle astratte alternative di cui parla Bergson nel Saggio sui dati immediati a proposito della libertà. Il forte può trionfare, ma solo attraverso la sua qualità di forte. Egli può promuovere il comando di ogni uomo per sé, mai assoggettare un altro uomo al proprio, trasformando la propria potenza in prepotenza. Sarebbe per lui un fallimento. Sicché, il tipo del buono può solo investirsi nella promozione di altri fuori classe, per far sì che vinca il principio della qualità di cui è espressione: il divenire-forte – ma a furia di sobrietà, perché, in fondo, anche questo non può essere un modello da emulare. Coltivare giardini di ninfee… Nella sua prima opera filosofica, Nietzsche coglie da subito la questione – tragica – dell’individuazione. Egli affronta la tematica non sul piano morale e teoretico ma, indirettamente, attraverso l’estetica. Nella Nascita della tragedia
214
, l’influenza di
Schopenhauer è grande, ma significativa è già la distanza presa nei suoi confronti. Una certa interpretazione estetica della musica è quanto gli consente di aprirsi un varco attraverso cui riuscire a inquadrare le cose secondo un punto di vista nuovo. La “nascita” della tragedia è appunto una discussione genealogica che, attraverso l’indagine circa l’origine del teatro greco antico, pone il problema dell’origine dell’individuazione come genealogia della forma estetica. E, nella critica mossa al razionalismo, il piano estetico si rivela come unico piano su cui porre debitamente la questione. In Schopenhauer215, nel suo preliminare tentativo di fedeltà a Kant, il principium individuationis, già presente nella scolastica, equivale al principio di ragion sufficiente e, quindi, al principio di causalità che subordina a sé lo spazio e il tempo. Esso ricopre, dunque, il dominio del conoscibile kantiano, corrispondendo al fenomeno. Il mondo appare sottomesso al principio di ragion sufficiente. Ma Schopenhauer, sulla base della constatazione per cui il soggetto della conoscenza è tuttavia per sé inconoscibile, ripropone quella opposizione essenza/apparenza che Kant aveva rimosso, rilanciandola in un’altra accezione. Il fenomeno diventa l’apparenza prodotta secondo l’idealismo trascendentale, 214 215
F. Nietzsche, (1972) La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2002. A. Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I parte.
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mentre l’essenza del reale sarebbe una cosa in sé che rimane inaccessibile fino a che ci si ferma alla mediazione della rappresentazione. Allorché si riesca a superare questa mediazione, apparirà il fondo oscuro della volontà di vivere. Essa sfugge al principio di ragion sufficiente e non va confusa con l’ordine psicologico dei motivi dell’io; piuttosto essa esprime la dimensione profonda e irrazionale del soggetto. Schopenhauer inquadra, com’è noto, la volontà di vivere, anche attraverso la tematizzazione della pulsione sessuale finalizzata alla cieca perpetuazione della specie216, aspetti del suo discorso, relativi alla libido, che gli avvicineranno molto il Freud de Al di là del principio di piacere217. Dunque il principio di individuazione così inteso va superato per cogliere l’essenza reale del mondo; allo stesso tempo, questa volontà cieca e potente, si presenta come il vero soggetto del piano teorico schopenhaueriano. Questo principio irrazionale, però, non può che venire negato in vista del mantenimento dell’identità del soggetto. L’individuazione risulta infine una oggettivazione della volontà di vivere come separazione in sé. Il conflitto che ne deriva richiede che per l’affermazione dell’uno, soccomba la pulsione dell’altro. La negazione della volontà è l’unica soluzione praticabile. Non diversamente in Freud, per il quale occorre sottomettere la confusione prodotta dalla pulsione sessuale a un’attività senza rischi. Il punto è che il conflitto schopenhaueriano è ancora immanente-a-un soggetto: ovvero l’identità di questo soggetto è presupposta e l’uno non è in questione. L’irrazionalità, come l’illimitato che attenta alla limitazione del principio di individuazione, è principio idealisticamente dialettico. In Nietzsche, gli attori dell’illimitato e del limite sono rispettivamente Dioniso e Apollo. Fra i due deve sussistere un’alleanza, affinché l’individuazione sia possibile: «Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in genere» 218 . Non si tratta dunque di addomesticare Dioniso, reprimere le forze e le pulsioni dissolutorie da lui espresse, ma di rendere plastica questa energia attraverso la visibilità (l’illusione) offerta da Apollo. La tragedia antica riusciva in questo equilibrio straordinario, attraverso un uso non mimetico e non descrittivo della musica. Allorché invece si è ridotta la potenza di Dioniso a una
216
Id., II parte. S. Freud, (1920), Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 1986. 218 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pag. 145. 217
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caricatura e Apollo si è risolto nelle figure del razionalismo socratico, la tragedia è morta e con essa la possibilità stessa dell’individuazione creativa. Il campo di forze nietzscheano è animato da una musica dissonante ed è questa la condizione di possibilità del soggetto:
Se noi potessimo immaginare un farsi uomo della dissonanza – e che cos’altro è l’uomo? – questa dissonanza avrebbe bisogno, per poter vivere, di una magnifica illusione, che coprisse con un velo di bellezza il suo stesso essere. È questo il vero fine artistico di Apollo: nel suo nome riassumiamo tutte quelle innumerevoli illusioni della bella apparenza, che in ogni momento rendono l’esistenza degna in generale di essere vissuta e spingono a vivere l’attimo successivo. Tuttavia, di quel fondamento di ogni esistenza, del sostrato dionisiaco del mondo, può passare nella coscienza dell’individuo solo esattamente quello che può essere poi di nuovo superato dalla forza di trasfigurazione apollinea, sicché questi due istinti artistici sono costretti a sviluppare le loro forze in stretta proporzione reciproca, secondo la legge dell’eterna giustizia219.
E le immagini che cercavamo per un inter-mezzo si trovano proprio qui, nella dissonanza di questo campo di forze, in questo dualismo genetico, in questo lucore differenziale. Si tratta di un’immagine sinestetica. E veniamo dunque a questo principio. È noto come, sulla questione della “posizione dei valori”, si sia consolidata una certa lettura soggettivistica del pensiero nietzscheano, facente capo principalmente alla magistrale esegesi heideggeriana, maturata nel corso di diversi anni (dal ’36 al ’46) e infine compendiata nel suo Nietzsche, (1961)220. Per Heidegger, che visse con l’autore dell’Eterno ritorno un vero “corpo a corpo”, come riportato nella postfazione di F. Volpi allo stesso volume, egli è il filosofo che, riproponendo la domanda metafisica per eccellenza, che cos’è l’ente, ad essa risponde che l’ente è volontà di potenza e che questa essenza si esprime proprio nella traduzione di tutto l’ente in valore, entificato e così nientificato in funzione di un soggetto. Se l’essenza di questa metafisica è la volontà di potenza, essa si estrinseca nell’eterno ritorno, che ne costituisce l’esistenza. Volontà di potenza ed eterno ritorno significano semplicemente ineluttabilità di una ripetizione dell’identico e del chiaro nonsenso dell’esistenza se poggiata su queste basi. Per Heidegger, la volontà in questione non è pensabile al di fuori di un principio soggettivistico, che poi è alla base (fondamento) del 219 220
Id., pagg. 161-162. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994.
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pensiero moderno e, più radicalmente, del pensiero occidentale nel senso del suo razionalismo. Mancando di porre la questione originaria intorno all’essere, il pensiero occidentale pone la questione circa l’essenza dell’ente, confondendo il pensiero dell’essere con la flessione essenzialista del pensiero. E il nichilismo di Nietzsche si spiega appunto nei termini di quell’inevitabile epilogo inscritto nel destinale oblio dell’essere. La posizione dell’ente come valore (a partire dalla volontà di potenza) è la riduzione dell’ente a ente-peril soggetto: gesto destinato al fallimento, allorché si scopra l’inanità propria di questo soggetto. Lo stesso “preteso biologismo” nietzscheano risponde, secondo Heidegger, a una prospettiva sostanzialmente metafisica e che, quindi, fermarsi a cogliere il tema sul piano di un interesse scientifico non sia sufficiente ad afferrarne il significato profondo. Biologismo diventa il tentativo di manipolazione dell’ente al fine della conservazione identitaria di un soggetto che soffre la condizione di inanità della sua auto-posizione. Nel nostro discorso, è opportuno specificarlo, la lettura di Nietzsche proposta è quella che fa capo alla tradizione francese della renaissance221 di un interesse nei confronti di quest’autore. Questo movimento culturale trasse sicuramente molta linfa dal discorso heideggeriano, ma, tuttavia, seppe anche segnare profonde distanze. A tal proposito, si fa riferimento principalmente alla lettura deleuzeana, che ci sembra essere quella che maggiormente marchi questa diversità di prospettiva. G. Deleuze, proprio sulla questione della posizione dei valori e della genealogia, sull’assetto sostanzialmente anti-dialettico della critica mossa al nichilismo occidentale e sulla interpretazione della volontà di potenza non in chiave soggettivistica, bensì, secondo una tradizione di empirismo radicale, come tentativo di installazione di un campo trascendentale senza soggetto e, dunque, critica alla metafisica moderna, costruisce il suo Nietzsche e la filosofia del ’62222. Il discorso che qui portiamo avanti sul concetto di “forza” si comprenderà proprio alla luce delle analisi fatte da Deleuze in questo testo. Ne deriva per noi che il “campo di forze” nietzscheano vada inteso secondo una fisica delle forze: una fisica 221
Il riferimento è al movimento che nasce a seguito del colloque di Royaumont, tenutosi, dal 4 all’8 luglio del ’64, nell’omonima località francese. Su questo la letteratura è, come ovvio, notevole; citiamo il lavoro curato da G. Deleuze di edizione dei contributi del convegno: Cahiers de Royaumont. Nietzsche, Les Editions de Minuit, Paris, 1966, dove figurano tutti gli interventi di coloro i quali saranno poi i promotori di questa rinascita dell’interesse per il pensiero nietzscheano, a partire anche dall’imponente progetto filologico di edizione dei “frammenti postumi” a cura di G. Colli e M. Montinari. 222 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002.
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sia in senso naturalistico (biologismo evoluzionistico) che in senso scientifico, in assonanza a una nuova nozione del concetto di “campo”, rispetto a cui Nietzsche, come per altri versi Bergson, sembra essere straordinariamente attento precorritore. In altri termini, le osservazioni polemiche espresse da Nietzsche nei confronti della scienza moderna (newtoniana e cartesiana, meccanicistica e soggettivistica) sono il segnale non di una inconciliabilità di filosofia e scienza, ma avvertimento di una crisi epistemologica evidente, scaturita da più fattori ma, sostanzialmente, rispondente a una matrice onto-teologica, nichilistico-reattiva, del pensiero occidentale, da riformare in vista di una prospettiva, scientifica e filosofica, in grado di pensare opportunamente il reale, per come questo stava profilandosi alle soglie di una grande rivoluzione di paradigmi – ovvero attraverso un atto di “grande coraggio”: la rinuncia al soggetto come principio. In effetti, ben lontano dall’essere un principio soggettivisticamente inteso, quello della genealogia va colto rimanendo sul piano di un empirismo radicale, secondo la formula di una “fedeltà alla terra” – in un’alleanza tra Dioniso e Apollo. La “purezza” kantiana, il suo criticismo, preso sul serio nell’affermazione di un formalismo senza circoli viziosi imperniati sul soggetto, dà luogo al piano di immanenza come nuova immagine del pensiero: in tal senso Nietzsche può parlare di un orizzonte sgombro. D’altronde, come successivamente ebbe a scrivere Foucault, la morte di dio è anche la morte dell’uomo – un fenomeno di anabiosi? O di criptobiosi? L’esegesi heideggeriana
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mostrava magistralmente come Nietzsche fosse un
filosofo (non solo un ispirato letterato), rintracciando in lui una forma di metafisica che infine liquidò come inscritta nella parabola di quell’oblio dell’essere che graverebbe sull’intero pensiero occidentale: il pensiero nietzscheano come compimento della metafisica. Analogamente, il pensiero bergsoniano è stato per decenni risolto nella categoria dello “spiritualismo”, insistendo sulla nota spirituale-coscienziale del suo dualismo, senza considerare, invece, il tema della molteplicità (e, dunque, di una tensione originaria intesa come dualismo genetico) come sostanzialmente prioritario rispetto alla eventuale posizione di un soggettivismo spiritualistico.
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M. Heidegger, Nietzsche.
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Dall’esegesi deleuzeana224, si rileva come senz’altro si possa rinvenire una forma di metafisica, sia in Bergson che in Nietzsche, ma nel senso di una nuova immagine del pensiero che, letteralmente sia, della fisica, non una negazione ma un oltrepassamento, una sua immagine “cristallo”. In Nietzsche, genealogia, volontà di potenza ed eterno ritorno sono strettamente legati, ma da un fenomeno di ridondanza. La genealogia, ricercando il principio della morale, inaugura un metodo di sfondamento dell’origine: i valori presiedono alla valutazione ma ne sono anche il frutto. Se la posizione dei valori non può rimandare più a un soggetto fondatore (modello della creatio ex nihilo), ovvero se salta l’equazione forza=causa che, appunto, fa funzionare il circolo a dispetto della sua viziosità, come se ne viene fuori? Come abbiamo visto, il soggetto non potrebbe che mascherare il vuoto, dal momento che esso stesso, seconda questa logica, non sarebbe poggiato che su nulla. Ma se il soggetto stesso è frutto, dunque, di una credenza (credenza nel principio di causalità), è anch’esso frutto di una valutazione interpretativa. Dunque torniamo al punto di partenza: all’origine ritroviamo una dualità genetica, una disparità tra forze che, lungi dall’intendere la forza quale causa, intende la forza come potenziale energetico in gioco, come gradus potentiae: molteplicità, relazione. Alleanza tra Dioniso e Apollo. Il campo della tensione tra i potenziali in gioco è il luogo in cui si fa la differenza, in cui si produce il differenziato. Per uscire dal circolo vizioso, occorre pensare il soggetto non come presupposto ma come attualizzazione surlineare di una differenziazione, in cui questa differenziazione stessa venga mantenuta affinché la capacità di vita di questo soggetto possa non esaurirsi, ma mantenersi in un bilancio attivo. La surlinearità intende proprio il phylum attraverso cui un soggetto si realizza: in quanto differenziato e singolare, si esprime in un cambiamento. Da questo punto di vista, il principio genetico in questione è esattamente la volontà di potenza. In un brano memorabile della Volontà di potenza225, il 1067, Nietzsche scrive qualcosa che è un compendio della fisica occidentale offrendo altresì un’apertura su quanto ancora egli non poteva conoscere ma che è, certamente, ben presente nei suoi interpreti contemporanei e che, quindi, nelle esegesi che ne scaturiscono, non può non svelare la profonda capacità di intuizione filosofica del suo ideatore: 224 225
G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia. F. Nietzsche, La volontà di potenza, pag. 561.
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E sapete voi che cosa è per me il “mondo”? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine una quantità di energia fissa e bronzea, senza principio, senza fine, che non diventa né più grande né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità è una grandezza invariabile, un’economia senza profitti né perdite, ma anche senza incremento, senza entrate, circondata dal “nulla” come da un suo limite; non svanisce né si sperpera, non è infinitamente esteso, ma inserito come un’energia determinata in uno spazio determinato, e non in uno spazio che in qualche punto sia “vuoto”, ma che è dappertutto pieno di forze, un gioco di forze, di onde di energia che è insieme uno e molteplice, di forze che qui si accumulano e là diminuiscono, un mare di forze che fluiscono e si agitano in se stesse, in eterna trasformazione, che scorrono in eterno a ritroso, un mondo che ritorna in anni incalcolabili, il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più semplici alle più complesse; un mondo che da ciò che è più calmo, rigido, freddo, trapassa in ciò che è più ardente, selvaggio, contraddittorio, e poi dall’abbondanza torna di nuovo alla semplicità, dal gioco delle contraddizioni torna al gusto dell’armonia e afferma se stesso anche nell’uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, e benedice se stesso come ciò che deve eternamente tornare, come un divenire che non conosce né sazietà, né disgusto, né stanchezza. Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio “al di là del bene e del male”, senza scopo, a meno che non si trovi uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sé – per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi , i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!226
Più che il mondo sub specie aeternitatis, lo sguardo di Nietzsche sembra rivolto al pianeta terra dall’oblò di un moderno satellite. In tal senso si può parlare di oltrepassamento: non nel segno di un disvelamento affidato al pensiero poetante, da cui traluca l’ultimità come soglia mistica di un fondamento impossibile e perciò autenticamente critico; ma nel senso di una immagine del pensiero (lo “specchio” di cui parla Nietzsche) “fedele alla terra” in una sorta di “amicizia siderale”. In altri termini, si parla di immanenza. Se sfugge il piano di massima sperimentazione nietzscheana come piano di immanenza, sfugge il senso della sua profonda visione. La volontà di potenza, dunque, non è quel principio soggettivistico posto in evidenza, seppure magistralmente, da Heidegger, il quale, attraverso Nietzsche riesce a muovere una profonda critica a tutto il pensiero filosofico, ma è esattamente ciò che impedisce allo stesso principio soggettivistico di stampo moderno (o occidentale, partendo dal razionalismo inaugurato da Socrate) di installarsi. Certo, sul piano di immanenza c’è posto anche per una espressione soggettivisistica, ma si tratta di 226
Questo passo, del resto, è un frammento del quaderni nietzscheani del periodo giugno-luglio 1885, come indicato da M. Montinari, nel suo Che cosa ha detto Nietzsche, Adelphi, Milano, 1975.
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regionalità circoscritte e funzionanti solo marginalmente. A un certo punto si può ben dire “Io”, ma dura un attimo: il minuto più tracotante e menzognero di tutta la storia universale – direbbe ancora Nietzsche227. Le radici dell’io sono fluttuanti… - giardini di ninfee… Per spiegare la volontà di potenza, Deleuze parte appunto dal concetto di forza 228. Un fenomeno non è apparenza ma manifestazione di una forza, giacché non c’è fenomeno che non sia posseduto da una forza. Ne deriva che ogni forza è in rapporto con un’altra e che, dunque, l’essere della forza è al plurale. In tal modo è opportuno parlare di campo di forze inteso come molteplicità intensiva. Il rapporto tra le forze è denominato volontà ma esso denota una qualità differenziale e cioè il modo in cui la forza agisce sull’altra, e cioè il “quanto” può, che corrisponde al “come” può. Ancora una nota per registrare la dirimente distanza da Schopenhauer, condividendo la sottolineatura di Deleuze: «E il punto su cui verte la rottura tra Nietzsche e Schopenhauer è preciso: si tratta di vedere se la volontà sia una o molteplice, dal che deriva tutto il resto. Schopenhauer è infatti costretto a negare la volontà anzitutto perché crede all’unità del volere»229. In Nietzsche, la volontà stessa è un campo di forze: il conflitto, inteso come differenziale fra le forze, è interspecifico, intraspecifico ma, soprattutto, interno allo stesso individuo, allo stesso corpo. E’ ontologico. La Volontà di potenza è la fucina, potremmo dire, dell’individuazione possibile. In tal senso, la gerarchia tra le forze esprime una profilazione possibile, una configurazione. Il posizionamento delle intensità e gli equilibri connessi disegnano prevalenze sempre complesse e mai definitive. E questo principio mobile, immanente, appare connesso al tema dell’eterno ritorno. L’energia, d’altronde, non può che conservarsi così come l’individuo tende a mantenersi in vita; ma questa conservazione è anche variazione, mutamento, trasformazione continua. La volontà di potenza, allora, non può che tornare, tornare a differenziarsi, a individualizzarsi, a manifestarsi in un fenomeno. A differenza delle logiche dell’evoluzionismo, però, come più sopra sottolineavamo, la volontà di potenza, nel suo tornante espressivo (individualizzante) non può che dissipare, tendere a mettere in gioco tutto il suo potenziale, benché non tutto si attualizzi e rimanga così nella sua surlinearità virtuale. L’eterno ritorno dell’uguale è ritorno 227
F. Nietzsche, Verità e menzogna, pag. 125. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, pag. 10. 229 Id., pag. 12. 228
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di questa complessità, di questo “pluralismo” – come lo chiama Deleuze. Il tornante della volontà di potenza indica il temporalizzarsi di questa essenza plurale ed immanente e – come in Bergson – ci troviamo di nuovo di fronte un tempo ricurvo. Riprendiamo l’annuncio dell’eterno ritorno dell’uguale fatto da Zarathustra nel discorso La visione e l’enigma, allorché si rivolge al nano, che rappresenta lo “spirito di gravità”:
“Alt, nano! Dissi. O io! o tu! Ma di noi due il più forte sono io -: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo!”. – Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. “Guarda questa porta carraia! Nano! Continuai: essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’. Ma chi ne percorresse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?”. – “Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”. “Tu, spirito di gravità! Dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato – e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – anche se stesso? Infatti ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta! (…) – E ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?”–230
Due sentieri si dipartono dallo stesso punto, che sarebbe la porta carraia con su scritto “attimo”. Questi due sentieri rappresentano due eternità, che si dirigono in due versi reciprocamente opposti. Si contraddicono queste due eternità, in eterno? Se mai qualcuno dovesse percorrerle interamente e – beninteso – l’infinito non è di fatto percorribile, 230
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, pagg. 183-185.
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potrebbe mai accadere di scoprire che esse non si contraddicano affatto? Esiste virtualmente un punto in cui queste rette possono incontrarsi e, dunque, in questa virtualità, far coesistere la loro reciproca contraddizione. Sarebbe troppo ovvio pensare, come il nano, a un tempo ricurvo perché ciclico, al modo greco di un tempo che si ripete identico, legato al ritmo delle stagioni, dove le due eternità si risolvono nell’Uno. La gravità, d’altronde, è nel peso di un tempo legato al movimento (spurio). Un’eternità virtuale (potenziale e pura), invece, consente la coesistenza della contraddizione e converge nel suo punto simmetrico di attualità dell’attimo, dove tutte le cose sono strettamente legate una all’altra e ritornano, si ripetono continuamente. Un’eternità potenziale e pura non può che esser virtuale ed essere molteplicità. Nietzsche, come Bergson, sembra orientarsi in un pensiero il cui piano di possibilità non è più chiaramente quello cartesiano, né la fisica quella newtoniana. Anche l’eterno ritorno dell’uguale sembra disegnare un iperboloide della memoria. Leggendo insieme il brano della volontà di potenza e questo passo della visione e l’enigma, comprendiamo come la metafora serva a rendere l’immagine di una temporalità fisica nuova. Se la volontà di potenza è quell’energia che pur conservandosi muta e si trasforma, è inevitabile che essa ritorni. E se tutto si ripete nel suo continuo mutare (quindi non come uno ma come molteplicità), è chiaro che questo mondo raccolga virtualmente ogni contraddizione e, pertanto, la logica virtuale di questo mondo sia inclusiva (et-et). Sicché,
nell’indivisibilità
dell’attimo
si
esprime
l’individuazione
dell’ennesima
differenziazione, su cui insistono virtualmente tutte le eternità, tutte le possibilità (non come negazione del reale, ma come suo potenziamento virtuale, o latente). In un corpo tutti i corpi di tutta la storia evolutiva, sia in ciò che si manifesta che in ciò che non si manifesta (la latenza o la recessività). Questo mondo e questo pensiero abissale richiedono grande coraggio: la rinuncia al soggetto della conoscenza. Ma allora chi può sopportare davvero queste condizioni? Chi è in grado di dare un senso a tutto questo? La risposta è nota. Per Nietzsche, l’unico, in grado di sopportare tutto questo, è il superuomo. Perché? Ma semplicemente perché egli rappresenta il divenire-uomo e non l’essere-uomo. L’eterno ritorno – dell’uguale – della volontà di potenza costituisce la sintesi del tempo come divenire radicale, ovvero dell’essere
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del divenire, o dell’essere del sensibile (una fisica), non mediato. Per popolare questo mondo occorre un soggetto in grado di vivere in sintonia con il mutamento radicale, nel conflitto e nella tensione irriducibili. Questo soggetto è quello che si individua nell’attimo dell’affermazione radicale: la sola capace di svelare il divenire della vita e il volto dell’uomo allo stesso tempo, come tempo nuovo – confidando nella possibilità che il soggetto possa essere non necessariamente re-attivo e dunque non destinato al risentimento fino all’estinzione. L’empirismo trascendentale di Nietzsche, come in Bergson, si esprime nella definizione di una nuova immagine del pensiero, in grado di pensare il divenire e il mutamento, quindi la contraddizione, secondo una formula che non postula un soggetto a priori, ma, attraverso una metafisica empirica rinviene un principio che sia sufficientemente plastico, genetico e creativo. In tal modo, il soggetto, su questo piano, non è neanche un effetto, una conseguenza. Esso è espressione di una integralità progressiva, di una accumulazione indefinita, di una apertura al processo che lo rende strutturalmente instabile, perciò suscettibile di coniugazioni possibili. È invenzione perché individuazione cronica, giocata sempre al limite del dire “io”, al limite esterno dell’identità. Anche qui potremmo utilizzare l’immagine della “bottiglia senza interno”: un profilo post-umano la cui anima non è una natura metafisicamente precostituita ma un campo tensionale.
Figura 14. Otre di Klein
Oltre all’immagine di Klein ne suggeriamo altre due: La scultura di dadi dell’artista contemporaneo Tony Cragg (qui figura un particolare),
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Figura 15. Tony Cragg, Particolare scultura
e un’altra immagine che si richiama al film Inception già citato nella prima parte:
Figura 16. Fotogramma del film Inception, Nolan, 2010
2.3. «Ancora non riesco a credere che Dio giochi a dadi»… (A. Einstein) Quando siamo partiti con il nostro discorso, alla ricerca di immagini per un inizio, ci siamo affidati a un esperimento mentale: il dondolio cullante dell’acqua, il mare aperto, l’effetto dell’onda e della luce sul corpo, prima di ogni pensiero, in un depensamento
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galleggiante. Quasi il corpo stesso fosse onda e luce, interferenza esso stesso come una sorta di piega mobile della superficie. Quelle immagini al limite dell’immagine sono poi tornate come immagini per un inter-mezzo, immagini (liquide) di liquidità (catastrofe della forma-contenuto): dalle condizioni dell’esperienza, siamo passati al posizionarci direttamente sulla soglia della sperimentazione possibile quale pratica dei campi di forza, abilità dell’equilibrio su di un piano molle. Ora le stesse immagini, a una grana ancora più sottile, tornano come micro-immagini tra onde e particelle. Effetti cromatici di salti subatomici. Il più sconvolgente cambio di paradigma nell’ambito delle scienze fisiche, forse, non concerne la relatività einsteiniana, che tutto sommato rimane ancora nell’ambito della meccanica fisica classica, per il suo realismo e il suo localismo. La rivoluzione effettiva, del resto ancora in corso, comincia proprio nel 1900, con l’introduzione del concetto di “quantum” – e non senza il contributo decisivo di Einstein. È alla prova del quantum di energia che la logica tradizionale mostra significativi segnali di crisi. Se le matematiche avevano sfondato l’orizzonte piegando (e s-fogliando) il piano con le geometrie noneuclidee, è con la meccanica quantistica che in fisica si realizza quella profonda (e ancora non del tutto compresa e comprensibile) rivoluzione di paradigma. La questione centrale è che il pluralismo epistemologico si fa strada proprio in funzione di queste scoperte; infatti, così come si può parlare di una regionalità della geometria euclidea, si può parlare di una regionalità della fisica newtoniana, a seguito della formulazione di una immagine del reale molto più ricca, variegata e modulata. La realtà subatomica, infatti, non può essere compresa e descritta attraverso le strutture categoriali filosofiche, psicologiche, matematiche e fisiche tradizionali, richiedendo uno sforzo di pensiero radicalmente oltreumano – per dirla à la Nietzsche, nel senso dello sforzo da compiere nel tentativo di riformare sia l’immagine del pensiero sia l’immagine del reale, per andare oltre il senso comune di cui è permeato il soggetto nella sua consuetudine al mondo, che, in ultima analisi, corrisponde proprio alla profilazione media del soggetto stesso. In altri termini, la percezione ordinaria che si ha dello spazio, del tempo, della materia, della propria posizione nello spazio e nel tempo, della successione, della sincronia, della relazione: tutto questo è drasticamente
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insufficiente alla comprensione dei processi quantici. E proprio la resistenza dello stesso Einstein, a recepire le particolari condizioni strutturali della nuova fisica, ne mostra la difficoltà. Il problema, del resto, come si è imparato a comprendere, non è nell’ordine della verità e dell’esistenza: cioè, non è in questione se il tempo e lo spazio esistano, o se sia vero che mi percepisco nel tempo e nello spazio in modo che l’hic et nunc sia quell’ora segnata dall’orologio. Sarebbe grossolano, ad esempio, negare l’esistenza di questo tempo quotidiano in favore di una realtà temporale o intemporale diversa, come passare impropriamente da un livello a un altro della grana del reale. Il problema si pone, piuttosto, a partire dal pluralismo possibile in funzione dei diversi livelli di realtà, nell’ordine del senso – come più sopra, con Nietzsche, sottolineavamo. E il “senso” è un meccanismo relazionale e funzionale variabile, che si nutre della propria coerenza sistemica. È la discrepanza (o la decoerenza) a corrodere il senso – benché, in fondo, una certa discrepanza (o una certa decoerenza) sia anche ciò che lo postula, secondo quel rapporto ambiguo con il nichilismo231 che, ancora una volta, il pensatore dell’eterno ritorno ci ha mostrato quale essenziale processo di mutamento del sé attraverso l’instabilità del mutamento reale. Per brevi accenni, riproponiamo le tappe principali del cammino – tutt’oggi aperto – della meccanica quantistica. Nel 1900, dicevamo, fu introdotto il concetto di “quantum”. Ma c’è un antefatto fondamentale da porre in evidenza: l’esperimento delle due fenditure di T. Young (1773-1829), del 1801, con il quale si tendeva a dimostrare che il comportamento della luce fosse ondulatorio e che, quindi, a dispetto di Newton, la luce non avesse una natura particellare. L’esperimento consisteva nel proiettare un fascio di luce su di una barriera con due fenditure, avendo posto uno schermo ricevitore dietro all’ostacolo. A questo punto si poteva notare come la luce producesse una “figura di interferenza” sullo schermo, ovvero un particolare effetto che si potrebbe paragonare a quello che si produce quando ad esempio si lanciano due pietre in uno stagno e le onde dell’una e dell’altra interferiscono reciprocamente. Siccome questa figura può essere prodotta solo dalle onde, si escludeva che la luce potesse essere costituita da particelle. In realtà, questo esperimento, 231
Intendendo, per “nichilismo”, non la “volontà di nulla” ma quell’ineludibile processualità di generazione e distruzione propria del divenire.
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all’epoca non particolarmente “perturbante”, serbava un mistero profondo, che emerse in tutta la sua problematicità circa un secolo dopo, quando la capacità di osservazione fisica si affinò nettamente. Intanto, Einstein, nel 1905, aveva riproposto l’ipotesi che la luce fosse anche particella, introducendo il fotone. Rifacendo allora l’esperimento delle due fenditure con una flebile luce costituita da un unico fotone, diventava apprezzabile lo stesso tipo di fenomeno, con in più una complicanza sostanziale: con cosa avrebbe interferito l’unico fotone? Inoltre, a partire dal dato certo dell’interferenza, come era possibile che l’unico fotone fosse passato attraverso entrambe le fenditure in modo da produrre quell’esito? Veniva a presentarsi una situazione paradossale, per cui dato un elemento chiaro in ingresso e una figura altrettanto chiara in uscita, non si comprendeva cosa potesse essere accaduto nel mezzo. La luce sembrava comportarsi sia come particella sia come onda: o, meglio, il fotone sembrava comportarsi come un’onda. Ma nel mezzo era ancora tutto abbastanza oscuro, come se ci fosse stata una scatola chiusa, al cui interno non fosse stata possibile l’osservazione dei fenomeni232. La teoria dei quanti, intanto, nasce a partire dall’introduzione della costante di Planck, che deve la sua denominazione al suo ideatore, M. Planck (1858-1947). Egli si formò proprio negli anni delle scoperte di Hertz, Boltzmann e Thomson: rispettivamente dell’effetto fotoelettrico che collega luce e materia, dello studio statistico delle molecole dei gas e infine della scoperta dell’elettrone. Maxwell aveva formulato il sistema di equazioni per descrivere il funzionamento di un campo elettromagnetico e, come abbiamo visto, l’energia era un tema chiave. La costante di Planck viene messa a punto a partire dallo studio di un fenomeno anomalo, chiamato radiazione del corpo nero. In pratica, secondo le premesse dettate dalla fisica classica, la radiazione emessa da un corpo caldo dovrebbe essere molto luminosa, dando luogo a quel fenomeno detto “catastrofe ultravioletta” che prevede l’emissione di raggi X, ultravioletti e gamma; ma la realtà è che questa previsione non si realizza, dal momento che tutto questo in natura non si verifica. Planck allora elabora
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L’esperimento della doppia fenditura è centrale nella trattazione sulla meccanica quantistica fatta da R. Feynman, nel suo La fisica di Feynman (1963), vol. 3, Zanichelli, Bologna, 2001.
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una possibile spiegazione per questa anomalia233, basata sull’ipotesi secondo cui l’energia non cresce o diminuisce in modo continuo, ma che i livelli di energia siano quantizzati, che la trasmissione dell’energia avvenga per “pacchetti” discreti, per multipli di un quanto di base, ovvero il prodotto tra la frequenza dell’oscillazione e una costante particolare, da lui introdotta, con un valore determinato234. Il quanto esordisce così e lo stesso Planck non si è mai del tutto persuaso, con il passare degli anni, della teoria a cui egli stesso aveva dato un contributo fondativo. Circa dieci anni dopo, N. Bohr235 (1885-1962), analizzando le proprietà dell’atomo, ritiene opportuno applicare vincoli quantistici alle sue particelle. Egli, nel suo modello di atomo di idrogeno, utilizza la costante di Planck in due modi: per definire lo spin (momento angolare) dell’elettrone orbitante attorno al nucleo, che, a questo punto, si spiegava come multiplo di un quanto; e per postulare che, in un atomo di idrogeno eccitato, l’elettrone, tornando al suo livello energetico di riposo, emetterebbe, compiendo un salto, un unico fotone di Einstein. Così facendo egli inferisce che le frequenze emesse siano connesse al salto di un elettrone da un livello a un altro e che la differenza di energia posseduta tra il prima e il dopo venga emessa in forma di quanto di energia. Si tratta, tuttavia, fino a quel momento (intorno al 1913, anno di pubblicazione dell’articolo di Bohr) di applicazioni di soluzioni quantistiche a “casi speciali” della fisica classica e, dunque, non della formulazione di una teoria generale di una meccanica alternativa. Il passo successivo, in questo nostro cammino, riguarda le “onde pilota” di L. de Broglie (1892-1987). Intorno al 1923 egli finalmente chiarisce la doppia natura della luce, ovvero la “dualità universale onda-corpuscolo”, pubblicando, negli Actes236 dell’Accademia di Parigi, tre articoli in cui ipotizza che le onde siano particelle e che le particelle siano onde, analizzando il comportamento degli elettroni e dei fotoni. In pratica egli associa un’onda pilota alle particelle, ipotizzando che queste siano piccoli oggetti incorporati nella struttura di un’onda. L’equazione per descrivere questo fenomeno universale lega la quantità di moto 233
Tesi che presenta alla Società tedesca di fisica il 14 Dicembre del 1900 (si veda A. D. Aczel, (2001), Entanglement. Il più grande mistero della fisica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004). 234 Costante di Planck: ℎ = 6,6262x10-34 j ∙ s . 235 fondatore, nel 1918, del celebre Istituto di fisica di Copenaghen, da cui derivò anche l’interpretazione ortodossa della teoria quantistica 236 Gli articoli sono del Settembre-ottobre 1923 e poi divennero la sua tesi di dottorato l’anno successivo. In A. D. Aczel, Entanglement. Il più grande mistero della fisica, pag. 45.
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di una particella (p) alla lunghezza d’onda ad essa associata (λ) in una formula237 dove figura la costante di Planck. Appare evidente che la teoria dei quanti entra così in una formulazione generale, secondo cui la quantità di moto di una particella è uguale al rapporto della costante di Planck per la lunghezza dell’onda associata238. Ciò che emerge è che la materia avrebbe un aspetto ondulatorio. Nel 1921, E. Schrödinger (1887-1961) formula la celebre equazione differenziale, che porta il suo nome, per descrivere il comportamento statistico delle particelle nel micromondo della meccanica quantistica. Un’equazione differenziale enuncia una relazione tra una grandezza e il suo tasso di cambiamento (ad esempio la velocità). Se corro a 5 minuti per km, avrò un tasso di cambiamento di 1 km ogni 5 minuti, ovvero la mia derivata prima dello spazio sarà 1. Se per caso riuscissi – anche – ad accelerare, l’accelerazione corrisponderebbe alla derivata seconda. L’equazione dove figurano come variabili sia la mia posizione sia la mia velocità, è una equazione differenziale. Se l’equazione correla posizione, velocità e accelerazione, si tratta di una equazione differenziale del secondo ordine 239. L’obiettivo di Schrödinger era trovare l’equazione che descrivesse l’evoluzione delle onde di particelle ipotizzate da de Broglie. Inizialmente si trattava di capire se applicare derivate del primo o del secondo ordine rispetto al tempo, o del primo o del secondo ordine rispetto alla posizione. Infine la soluzione fu di usare una derivata del primo ordine rispetto al tempo e una derivata del secondo ordine rispetto alla posizione. In questo modo egli riesce a introdurre la funzione d’onda che corrisponde all’onda pilota di de Broglie e, inoltre, poiché le soluzioni della sua equazione differenziale sono onde, si riesce ad offrire uno strumento prezioso all’analisi della complessa realtà subatomica. Appaiono in questo modo due caratteristiche decisive di questo mondo quantistico: probabilità e sovrapposizione. Il punto è che l’evoluzione di una particella quantistica, la sua posizione, può essere descritta solo in termini di probabilità. Essa è uguale al quadrato dell’ampiezza della funzione d’onda in quella posizione. Il fatto che si possa descrivere la probabilità circa la posizione di una particella non esaurisce ovviamente il “mistero”, nel senso che dove di preciso essa si troverà rimane compreso in un range di valori. Ora, se in fisica classica è possibile 237
p = ℎ/k. L’ipotesi di de Broglie viene ulteriormente confermata dagli esperimenti condotti nella seconda metà degli anni Novanta dai premi Nobel (nel 2001) C. Weiman, E. Cornell, W. Ketterle. 239 Sulla falsa riga dell’esempio, facile e ed efficace, portato da A. D. Aczel, Entanglement, pag. 56. 238
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determinare la posizione di un oggetto in movimento con assoluta esattezza, nella meccanica quantistica è impossibile e non perché ci siano delle “variabili nascoste” che rendano la teoria incompleta – come pure si è pensato. Nel mondo dei quanti, il meglio che si riesca a fare è «predire gli esiti in termini di probabilità. La situazione, quindi, è paragonabile a quella che avremmo a un tavolo da gioco prima del lancio di due dadi. Ogni dado ha una probabilità di 1/6 di mostrare un dato numero dei sei che ha sulle facce. I due dadi sono indipendenti l’uno dall’altro; quindi, la probabilità di ottenere, poniamo, due sei è data dal prodotto della probabilità di ottenere un sei su un dado, cioè 1/6, per la probabilità di ottenere lo stesso numero sull’altro, sempre 1/6. La probabilità di avere due sei è quindi 1/36. La probabilità di ottenere il dodici con i due dadi è quindi 1/36. Il numero che è più probabile ottenere con il lancio dei due dadi è sette»240. Ne deriva che la probabilità indica solo un’area241 in cui poter trovare la posizione della particella, qualora questa “posizione” sia attualizzata. L’altra caratteristica strutturale della meccanica quantistica, a partire proprio dall’equazione di Schrödinger, è la sovrapposizione. Il principio è in realtà noto dai lavori di Fourier del 1822, per cui studiando la propagazione del calore emerge che alcune funzioni matematiche possano essere rappresentate come somma di molte funzioni d’onda. Per la proprietà della linearità, con l’equazione di Schrödinger avviene che se essa dà luogo a delle soluzioni che sono onde, le somme di queste onde saranno ancora delle soluzioni. Quindi se si stava cercando la posizione di un elettrone, può succedere che questa sia trovata in sovrapposizione ad altri stati. È proprio la sovrapposizione a spiegare l’interferenza nell’esperimento delle due fenditure, ma la stranezza si presenta allorché la particella sia unica; infatti in questo caso non dovrebbe prodursi interferenza. Invece accade che il singolo fotone non scelga attraverso quale fenditura passare, ma passi attraverso entrambe, interferendo con se stesso come due onde per sovrapposizione. Inoltre, se il sistema quantistico contiene più di una particella e quindi può definirsi complesso, questo principio di sovrapposizione dà luogo al fenomeno dell’entanglement (“intreccio” o “correlazione”). È utile un esempio per spiegarne il funzionamento: se in questo sistema complesso la 240
Id., pag. 59. «Questa distribuzione ci dà la probabilità di trovare la particella in ogni dato dominio di valori dell’asse orizzontale calcolando l’area sottesa dalla curva in quella regione». Id., pag. 70. 241
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particella 1 può essere o nello stato A o nello stato C (AUT/AUT); e se la particella 2 può trovarsi o nello stato B o nello stato D (AUT/AUT), lo stato AB è lo stato prodotto per cui 1 è in A e 2 è in B. Se il sistema passa allo stato CD, sappiamo che 1 è in C e 2 è in D. Se per il principio della sovrapposizione si considera la somma AB + CD, dallo stato prodotto passiamo allo stato entangled. In questo caso non sarà più possibile trattare le particelle separatamente, perché esse saranno sempre in stretta relazione indipendentemente dalla loro reciproca distanza. La possibilità dell’entanglement viene scoperta da Schrödinger tra il 1926 e il 1935, il quale a riguardo scrive: «Quando due sistemi, dei quali conosciamo gli stati sulla base della loro rispettiva rappresentazione, subiscono una interazione fisica temporanea dovuta a forze note che agiscono tra di loro, dopo un certo periodo di mutua interazione, i sistemi si separano nuovamente, non possiamo più descriverli come prima dell’interazione, cioè dotando ognuno di loro di una propria rappresentazione. Non chiamerei questo un tratto ma il tratto distintivo della meccanica quantistica»242. La stretta correlazione tra particelle subatomiche così postulata generò da subito molta curiosità e, allo stesso tempo, molta diffidenza. W. C. Heisenberg, (1901-1976), vicino alla scuola di Copenaghen di Bohr, sviluppa una teoria parallela a quella di Schrödinger, servendosi dell’impiego di matrici243 allo scopo di predire le intensità delle onde luminose emesse da atomi eccitati nei loro cambi di livelli energetici. Emerge, con questo metodo, un’anomalia singolare: il prodotto delle matrici appare non commutativo. Secondo una banalissima proprietà matematica, il prodotto di una moltiplicazione è commutativo nella misura in cui se inverto l’ordine dei fattori della moltiplicazione l’esito non cambia. In fisica quantistica ciò non si verifica: il prodotto delle matrici A e B non equivale al prodotto delle stesse matrici in un ordine inverso, B e A. Per comprendere le implicazioni di questo fenomeno, occorre spiegare cosa si intende per “osservabile” in meccanica quantistica. È fuorviante pensare ci siano degli oggetti, c’è piuttosto un’analisi serrata delle condizioni di oggettivabilità di un presunto fenomeno. L’osservabile è rappresentato (è legato-a) dall’azione di un operatore sulla funzione d’onda prodotta dal sistema. Pertanto ci sono 242
E. Schrödinger,(1935), Proceedings of the Cambridge Philosophical Society, 31, pag. 555 in A. D. Aczel, Entanglement, pagg. 62-63. 243 A differenza dell’utilizzo di equazioni d’onda, in questo caso si parla di matematica della manipolazione di matrici.
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operatori commutativi e operatori non commutativi. In questo ultimo caso accade che l’ordine dell’operazione e quindi l’ordine di osservazione è dirimente: cambia il risultato. Per misurare la posizione della particella, dobbiamo associare l’operatore “posizione” alla sua funzione d’onda; per misurare la quantità di moto della particella, dobbiamo invece applicare l’operatore “derivata-parziale-rispetto-alla-posizione” alla funzione d’onda. Il punto è che i due operatori non commutano tra di loro. L’implicazione, che svela un fattore decisivo, è che non è possibile misurare le due grandezze insieme: o si osserva l’una o si osserva l’altra, dal momento che, se si osserva prima in una direzione (in un ordine) e poi nell’altra, il risultato cambia. In altri termini, o cerco di capire dov’è la particella, o cerco di capire a che velocità va, mentre in fisica classica i due dati sono insieme perfettamente predicibili e calcolabili. Da qui il principio di indeterminazione di Heisenberg244, per cui non si può, in meccanica quantistica, ottenere una misurazione certa e arbitraria (cioè in un verso o nell’altro) di entrambi i dati, di posizione e velocità, della stessa particella. Il risultato è che l’aspetto probabilistico, emerso con Schrödinger, diventa strutturale: il fattore “indeterminatezza” non concerne l’impegno profuso nella misurazione o la precisione degli strumenti utilizzati, non è contingente, ma è necessario. E l’aspetto, se vogliamo ironico, di questi primi caratteri della nuova fisica riguarda proprio quella che può esser detta come “funzione trascendente” della matematica, per cui essa, conducendosi alle proprie estreme conseguenze di calcolo, arriva a fondare l’indeterminatezza sul massimo della determinazione possibile. La relazione di Heisenberg mostra come se riesco a misurare con estrema precisione la quantità di moto della particella, mi sfugge la sua posizione – e viceversa; e questa indeterminatezza non può scendere sotto un certo valore. Heisenberg, allo scopo di chiarire e mostrare il senso della sua relazione, intorno al 1927 elabora un esperimento mentale detto del microscopio di Heisenberg (immagini che seguono).
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La cui formula è: ∆p∆x ≥ ℎ, dove ∆p è l’incertezza (o dispersione) della quantità di moto, mentre ∆x sta per l’incertezza sulla posizione. Essa sta a significare che il prodotto delle due incertezze è sempre maggiore o uguale alla costante di Planck.
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Figura 17. Schema 1 Esperimento mentale del microscopio di Heisenberg
Figura 18. Schema 2, Esperimento mentale del microscopio di Heisenberg
Immagina cioè che un raggio di luce (Fig. 17, il fotone verde a sinistra e Fig. 18, la lampadina) colpisca un elettrone (inizialmente fermo, nelle immagini il pallino azzurro Fig. 17 e il pallino nero, sulla curva, Fig. 18) e che quindi venga riflesso dal microscopio (Fig. 17, la lente ha l’accettanza angolare Ɵ). Il momento in cui, però, il raggio di luce “tocca” l’elettrone, esso devia la traiettoria che era originariamente scopo dell’osservazione. Per non “disturbare” troppo la particella da osservare, bisognerebbe allora aumentare la lunghezza d’onda della luce proiettata, ma, a quel punto, al di sotto di una certa soglia, la luce non riuscirebbe più a “toccare” l’elettrone. Quindi vi sarebbe comunque un limite per il grado di precisione conseguibile per il prodotto delle dispersioni della quantità di moto e della posizione245. 245
A. D. Aczel, pagg. 69-71.
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Da questo ragionamento deriva anche un’altra importante conseguenza. L’aspetto potenziale, inteso come ciò che non è attualizzato, è un elemento reale nella fisica quantistica: va aggiunto a quanto effettivamente accade
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. Infatti, è questa stessa
potenzialità a spiegare l’entanglement, dal momento che esso è sincronia di possibilità opposte, come nell’esempio del sistema di due particelle entangled, dove potenzialmente occorrono sia AB sia CD (e sarà questo uno dei punti a generare maggiore diffidenza proprio in Einstein, il quale riterrà che, evidentemente, ci sono delle “variabili nascoste” da svelare e che, dunque, l’aleatorietà della teoria derivi da un difetto epistemico). La questione centrale è che la potenzialità di cui parla la fisica quantistica non attiene a un difetto di conoscenza. Si prenda l’esempio noto del gatto di Schrödinger, un altro esperimento mentale caratteristico della fisica quantistica. Il gatto è in una scatola con un piccolo congegno con una dose di materiale radioattivo. Parte di questo congegno è anche un rilevatore che controlla un meccanismo che attiva una fiala di cianuro. Quando un atomo del materiale radioattivo viene disintegrato, il rilevatore si attiva e la fiala si spacca, liberando il veleno che uccide il gatto. Siccome il processo radioattivo è di tipo quantistico, avremmo due stati sovrapposti: gatto vivo e gatto morto. In realtà questo non è considerato un buon esempio per rendere la problematicità strutturale della questione, dal momento che si potrebbe incorrere nell’equivoco per cui le due opzioni opposte siano contemplate potenzialmente quali mere possibilità astratte, le quali, di fatto, si svelano nel loro proprio aut/aut reale allorché io apra la scatola247 - riferibili all’ignoranza (e dunque al sapere) del soggetto e non a una indecidibilità strutturale. A. D. Aczel suggerisce un esempio alternativo, 246 247
IbId.. È forse quanto intende Murray Gell-Mann (1954), nel suo Il quark e il giaguaro. Avventura nel semplice e nel
complesso (Bollati Boringhieri, Torino, 2000), quando sottolinea che questo esempio non sarebbe migliore dello spedire il proprio animale domestico nella stiva di un aereo, considerandolo ipoteticamente sia vivo sia morto fino all’arrivo in aeroporto e all’apertura della stiva – quando sarà svelato il suo destino. Il problema dell’inefficacia dell’esempio è tecnicamente connesso alla questione della decoerenza. Per “decoerenza” si intende il collasso della funzione d’onda prodotta dall’elettrone, a causa di una interazione tra sistema quantistico e ambiente esterno. In altri termini, in questo caso si può dire che gli stati quantistici sono estremamente semplici e non possono essere paragonati a quelli del macro-mondo (in questo caso il povero gatto dell’esempio).
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quello del “gatto di Wheeler”248, concentrandosi sull’aspetto connesso alla misurazione. Gli stati del gatto, in questo caso, corrispondono alla posizione. L’autore invita a pensare che il gatto sia in questa sovrapposizione di stati: a casa di J. A. Wheeler e a casa di Einstein, e che solo allorché si intervenga a misurare, ovvero a cercare il gatto, lo si obblighi a essere in uno dei due stati. Citando M. Horne, egli sottolinea come in meccanica quantistica sia necessario abbandonare la logica “aut-aut” in favore di una nuova logica “et-et”249. J. A. Wheeler (1911-2008), inventore del termine “buco nero”, che descrive una singolarità dello spazio-tempo che segue al collasso di una stella massiva; pioniere e scopritore, con N. Bohr, della fissione nucleare; maestro del celebre fisico americano, R. Feynman (1918-1988), il quale, proprio con lui, lavorò a una tesi di meccanica quantistica creando un approccio “via somma-sulle-storie”, associando una “storia” ad ogni cammino possibile di una particella, in modo da vagliare quale sarebbe il più probabile; decide di usare i due fotoni che derivano dall’annichilimento di un elettrone e di un positrone 250 per riproporre l’esperimento delle due fenditure in una versione più sofisticata. I due fotoni, infatti, si dimostrano essere, a valle dell’esperimento del 1949 di Wu e Shaknov, due fotoni entangled. Nell’articolo Law without law251, Wheeler si concentra a dimostrare come il solo intervento della misurazione possa modificare la “storia”, ovvero come, decidendo in quale maniera si debba misurare, si può determinare ciò che è accaduto nel passato. Per quanto riguarda la “scena” dell’esperimento, egli introduce degli specchi al posto delle fenditure e una luce laser in luogo di una luce normale. Per studiare il cammino dei fotoni, lo specchio introdotto è un divisore di fascio: divide la luce incidente in due fasci, uno riflesso e l’altro trasmesso. I fasci vengono poi riflessi da un altro specchio, si incrociano e finiscono ciascuno su di un rilevatore diverso. A quel punto si può valutare quale cammino abbia svolto il fotone, a seconda che sia stato trasmesso dal divisore di fascio o sia stato riflesso. Inoltre, nel punto in cui i due fasci si incrociano, si può collocare un altro divisore di fascio. 248
A. D. Aczel, pagg. 74-75. IbId.. 250 A valle della predizione di Paul A. M. Dirac (1902-1984), in cui si ipotizzò l’esistenza di antiparticelle, poi scoperte da Carl Anderson nel 1931, e cioè il positrone, un elettrone di carica positiva. Positrone ed elettrone si annichiliscono quando vengono in contatto, producendo due fotoni. Era proprio ciò che occorreva per tornare a formulare l’esperimento delle due fenditure. 251 J. A. Wheeler, Law without law, ora in Quantum Theory and Measurement, a cura di J. A. Wheeler e W. H. Zureck, Princeton University Press, pagg. 182-213. 249
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Dall’interferenza che i fotoni avranno, il rilevatore registrerà il tipo di figura, come nell’esperimento classico delle due fenditure. L’aspetto più interessante concerne il passaggio di un singolo fotone, dal momento che si scopre che esso percorre entrambi i cammini, cioè è sia riflesso che trasmesso dal divisore di fascio iniziale – come a dire che passa attraverso entrambe le fenditure. Secondo Einstein, questo doveva dimostrare l’incoerenza della fisica quantistica; Bohr, della scuola di Copenaghen, invece sosteneva che si trattasse di due esperimenti diversi, cioè che senza specchio si potesse rilevare il cammino del fotone, con lo specchio si riuscisse a provare che il fotone avesse percorso entrambi i cammini, ma, aspetto decisivo, che è impossibile realizzare i due esperimenti contemporaneamente: «Bohr emphasized that there is no inconsistency. We are dealing with two dfferent experiments. The one with the half-silvered mirror removed tells which route. The one with the half-silvered mirror in place provides evidence that the photon traveled both routes. But it’s impossibile to do both experiments at ones. One can observe one feature of nature, or the complementary feature but not both features simultaneously. What we choose to measure has an irretrieveable consequence for what we will find»252. Wheeler si domanda se sia possibile, scegliendo quale esperimento svolgere, influenzare il tipo di fenomeno che andrà a realizzarsi e, in effetti, questo va proprio ad attualizzare alcune delle potenzialità che prima coesistono. Inoltre, mediante una scelta ritardata (delayed-choise) egli dimostra che si può cambiare la storia di quel fotone (the already past history of that photon); cioè, se si inserisce o si toglie il secondo specchio durante la corsa del fotone, in una frazione di secondo minima, si può operare il cambiamento. Ma la questione essenziale è che il ritardo è in realtà dovuto a una discrepanza tra la nostra velocità-modalità (la nostra “tensione di durata” direbbe Bergson) e la modalità-velocità del mondo quantistico (la tensione durata di questo micro-mondo – che Bergson certamente non conosceva). Il fatto è che la nostra attenzione non può registrare la potenzialità quantica: 1. perché il solo fatto di intervenire comporta una perturbazione, 2. perché siamo in un irrimediabile ritardo ed è questo ritardo che ci qualifica nella relazione. L’idea di modificare il percorso del fotone corrisponde inevitabilmente a decidere cosa farà il fotone dopo che l’ha già fatto – e tuttavia perturbarlo. Non bisogna equivocare quelli che 252
Id., pag. 183.
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sono differenziali immanenti con un difetto epistemico, il quale, se corretto, andrebbe a svelare l’inganno del mondo quantico ripristinando, anche a quella grana del reale, una lineare narrazione-descrizione newtoniana. Questi differenziali sono strutturali, non contingenti. Seppure ci si riuscisse a portare sul piano quantico degli eventi, non si scoprirebbero di certo “variabili nascoste”. Mentre, se si porta il piano quantico a riaffiorare, semplicemente lo si perde nella decoerenza. C’è un chiasma ineluttabile, tra invisibile e visibile, che è la ragione stessa del pluralismo. E questa nuova fisica rivela esattamente l’evidenza rigorosa di una potenzialità immanente. Scrive Wheeler: «The dependence of what is observed upon the choise of experimental arrangement made Einstein unhappy. It conflicts with the view that the universe exists ‘out there’ independent of all acts of observation. In contrast Bohr stressed that we confront here an inescapable new feature of nature, to be welcomed because of the understanding it gives us. In struggling to make clear to Einstein the central point as he saw it, Bohr found himself forced to introduce the word ‘phenomenon’. In today’s words Bohr’s point – and the central point of quantum theory – can be put into a single, simple sentence. ‘No elementary phenomenon is a phenomenon until it is a registered (observed) phenomenon’. (…) A phenomenon is not yet a phenomenon until it has been brought to a close by an irreversible act of amplification such as the blackening of a grain of silver bromide emulsion or the triggering of a photodetector. In broader terms, we find that nature at the quantum level is not a machine that goes its inexorable way. Instead what answer we get depends on the question we put, the experiment we arrange, the registering device we choose. We are inescapably involved in bringing about that which appears to be happening»253. Premettendo che discuteremo il dettaglio di questi aspetti epistemologici più avanti, in particolare seguendo l’illuminante prospettiva anticipatrice di G. Bachelard, riferendoci alla sua epistemologia storica e alla sua “filosofia del non”, vale la pena qui di sottolineare alcune questioni decisive. La nuova fisica si rivela inesorabilmente alternativa al realismo ontologico, postulando la necessità di un pluralismo delle descrizioni che non è il relativismo epistemico. Quando si parla di “fenomeno” bisogna subito chiarire due questioni: la prima 253
Id., pagg. 184-185.
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riguarda il fenomeno stesso, la seconda la sua relazione al soggetto. Sappiamo che l’istituzione del fenomeno si deve al criticismo di stampo kantiano, così come l’istituzione del soggetto della conoscenza. Il punto è che qui non si può scorgere un relativismo al soggetto (cioè che sia tutto in funzione del soggetto della conoscenza), tanto quanto non si può tollerare un realismo ontologico (cioè che la natura esista nella sua oggettività, indipendentemente dal soggetto). In questione è, in entrambi i casi, una metafisica dell’essere che esclude il divenire dal suo orizzonte e che si muove su di un piano stabile. Qui il fenomeno si può comprendere nell’ordine dell’evento, dove in gioco sono parimenti il farsi del soggetto e il farsi dell’oggetto, in un chiasma, tra visibile e invisibile, inscindibile (per riprendere ancora una volta una categoria merleau-pontiana). L’essere della relazione tra soggetto e oggetto è tecno-genetico, diveniente, strutturalmente critico, ma torneremo sulla questione approfondendo il pensiero di G. Simondon. Per ora sia sufficiente riproporre quanto sottolineato da Bergson a proposito del problema e del soggetto, per cui il problematico si dà nel fatto per cui problema, soggetto e soluzione si fanno allo stesso tempo e che questo è sempre un tempo nuovo. Quando Wheeler, nel suo discorso, si riferisce ad Einstein e Bohr, riprende i termini della polemica capitale circa i fondamenti della nuova fisica, che, appunto, vedeva coinvolti due fronti: quello facente capo al fisico della “relatività”, che propugnava una versione più “naturale” della teoria, e quello facente capo al fondatore della “scuola di Copenaghen”, che invece si concentrò su di una ipotesi “ortodossa”. Sebbene Einstein fosse stato uno dei cofondatori della teoria dei quanti, avendo ripreso, nel suo articolo del 1905, la costante di Planck per rendere il più piccolo “pacchetto” di luce concepibile con la formula E = ℎv, non accolse mai del tutto la teoria e le sue implicazioni, trovandola a tratti bizzarra e illogica. Nella formula di Einstein, si apprezza come la luce non possa far aumentare l’energia del singolo fotone, la quale, invece, può accrescere la propria intensità solo aumentandone il numero. Per “strappare” un elettrone agli atomi del metallo è necessaria una forza (W= lavoro) che Einstein stabilisce nella formula seguente, che spiega l’effetto fotoelettrico: K = ℎv − W (dove K sta per l’energia
cinetica
dell’elettrone “strappato”). E fu proprio l’elaborazione di questa legge a consentirgli il
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conseguimento del Nobel nel 1921 – quindi né per la relatività speciale del 1905 né per la relatività generale del 1916. Durante i primi trent’anni dello scorso secolo, quindi, con l’avanzare degli studi e delle ricerche nell’ambito della nuova fisica, andavano aumentando i dibattiti e gli incontri tesi a discuterne i dati in via di acquisizione. A partire dalla primavera del 1910 e su iniziativa dell’industriale belga, appassionato di fisica, E. Solvay, furono promossi convegni annuali in cui poter trattare e approfondire le tematiche in questione. Il primo Conseil Solvay si tenne nell’Ottobre del 1911 a Bruxelles, ripetendosi per qualche decennio. Fu in questo contesto che maturò lo scontro fra Einstein e Bohr, esploso nel 1930, ma in realtà presente già da tempo, poiché Einstein aveva già sollevato diverse obiezioni sull’aspetto probabilistico della teoria (nel 1927, secondo quanto riportato da alcuni autorevoli partecipanti ai dibattiti, quali de Broglie o Heisenberg
254
). Einstein, dunque, tentava in ogni modo di escogitare
esperimenti mentali che potessero confutare il principio di indeterminazione e finalmente arriva a sottoporne uno a Bohr, in occasione della sesta Conferenza di Solvay. Come si è visto, il principio in questione stabilisce che non si possano conoscere allo stesso tempo, con precisione arbitraria, sia la posizione sia la velocità della particella. Allora Einstein immagina di pesare una scatola chiusa, piena di radiazioni, con all’interno un orologio che ne controlli l’unica apertura, e di ripesarla dopo averla aperta per una frazione di secondo in modo da farne uscire solo un fotone. Secondo Einstein, a questo punto, in linea di principio si dovrebbe poter avere sia il dato dell’energia del fotone (dalla differenza di peso) sia l’istante del suo passaggio (dall’orologio che controlla l’apertura della scatola). In un primo tempo si narra che Bohr rimase spiazzato dall’argomento di Einstein, per poi rimediare un controargomento nel giro di poche ore. In effetti, la sua replica fu esilarante, dal momento che utilizzò proprio una delle tesi einsteiniane sulla relatività. Einstein, infatti, in questa ipotesi non considera che «pesare la scatola coincideva con l’osservare il suo spostamento entro il campo gravitazionale. L’imprecisione nello spostamento dalla scatola genera un’incertezza nella determinazione della massa – e quindi dell’energia – del fotone. E quando la scatola si sposta, lo fa anche l’orologio al suo interno. Esso ora misura il tempo in un campo 254
Per il primo si veda L. de Broglie (1962), New Perspectives in Physics, Basic Books, New York; per il secondo, si veda ancora Quantum Theory and Measurement, a cura di J. A. Wheeler e W. H. Zureck, Princeton University Press.
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gravitazionale che è leggermente differente da quello iniziale. Il ritmo di scansione dell’orologio nella nuova posizione è lievemente differente dal ritmo che aveva prima che fosse mosso nell’operazione di pesa. Ne segue un’incertezza nella determinazione del tempo. Bohr riuscì a dimostrare che la relazione di incertezza che legava energia e tempo era esattamente quella predetta dal principio di indeterminazione»255. Ovviamente Einstein non rimase a guardare e nel 1933 sollevò altre obiezioni concernenti l’entanglement, sostenendo che non sia possibile alcuna influenza tra due particelle che non siano più in comunicazione (ovvero senza che tra loro avvenga un passaggio di informazione che, sappiamo, non potrebbe oltrepassare la velocità della luce). Fu così che nel 1934 lanciò il suo autentico guanto di sfida alla teoria dei quanti, formulando l’articolo scritto con Podolsky e Rosen, denominato appunto EPR e pubblicato su Physical review del 15 maggio di quell’anno256. L’articolo portava un titolo che sollevava una questione teorica inequivocabile: La descrizione quantistica della realtà può essere considerata completa? I tre esordiscono come di seguito riportiamo:
In una teoria completa vi è un elemento in corrispondenza a ciascun elemento della realtà. Una condizione sufficiente per la realtà di una grandezza fisica è la possibilità di prevederla con certezza senza perturbarne il sistema. Nella meccanica quantica, quando si hanno due grandezze fisiche descritte da operatori che non commutano, la conoscenza dell’una preclude la conoscenza dell’altra. Allora, o è incompleta la descrizione della realtà fornita dalla funzione d’onda della meccanica quantica, o non possono, queste due grandezze, essere simultaneamente reali. Studiando il problema di fare previsioni relative a un sistema sulla base di misure effettuate su un altro sistema, che abbia in precedenza interagito col primo, si giunge alla considerazione che se il primo enunciato è falso, è falso anche il secondo. Se ne deduce che la descrizione della realtà fornita da una funzione d’onda non è completa. 1. Ogni serio esame di una teoria fisica presuppone la distinzione fra la realtà obiettiva, che è indipendente da qualsiasi teoria, e i concetti fisici con cui la teoria stessa opera. Questi concetti si presuppone corrispondano alla realtà obiettiva, e con essa noi ci rappresentiamo quella realtà. Quando tentiamo di giudicare il successo di una teoria fisica possiamo porci due domande: 1) la teoria è corretta? e 2) la descrizione fornita dalla teoria completa? Solo in caso di risposta affermativa a entrambe le domande diremo che i concetti della teoria sono soddisfacenti. La correttezza della teoria è giudicata in base al grado di accordo fra le sue conclusioni e l’esperienza umana; questa esperienza, che sola ci consente di inferire alcunché sul reale, assume in fisica la forma di esperimenti e misure. Qui desideriamo occuparci, con riferimento alla meccanica quantica, della seconda domanda. 255
A. D. Aczel, Entanglement, pag. 103. Si veda anche di A. Pais, (1991), Il danese tranquillo. Niels Bohr: un fisico e il suo tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 1993. 256 A. Einstein, B. Podolsky, N. Rosen, La descrizione quantistica della realtà può essere considerata completa?, in E. Bellone, (1988), Albert Einstein. Opere scelte, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 374-382.
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Qualunque significato si attribuisca al termine “completo” sembra necessario, per la completezza di una teoria, che essa soddisfi alla condizione seguente: ciascun elemento della realtà fisica deve avere una controparte nella teoria fisica. Questa la chiameremo “condizione di completezza”. Quindi dare una risposta alla seconda domanda è facile, quando si sia in grado di decidere quali sono gli elementi della realtà fisica. Gli elementi della realtà fisica non possono essere determinati da considerazioni filosofiche a priori, ma debbono essere trovati ricorrendo ai risultati di esperimenti e di misure. Tuttavia, per i nostri scopi, non è necessario dare una definizione esauriente di realtà. Ci accontenteremo del criterio seguente, che consideriamo ragionevole. Se si è in grado di prevedere con certezza (cioè con probabilità uguale a uno), il valore di una grandezza fisica senza perturbare in alcun modo il sistema, allora esiste un elemento di realtà fisica corrispondente a questa grandezza fisica. Ci sembra che un tale criterio, pur lungi dall’esaurire tutti i possibili modi di riconoscere una realtà fisica, ci fornisca almeno uno di questi modi, qualora le condizioni in esso stabilite si presentino. Considerato non come una condizione necessaria, ma soltanto sufficiente di realtà, questo criterio è in accordo sia con l’idea classica sia con quella quantica di realtà257. [Segue poi l’esame degli aspetti tecnici dell’articolo, che vertono appunto sugli argomenti fondamentali della nuova fisica, come stabilito in premessa.]
L’introduzione di EPR si presenta come un vero e proprio manifesto intorno ai fondamenti della nuova fisica, che finì poi con l’essere assunto da un lato come una traccia di lavoro e, dall’altro, quale espressione dell’ultima forma di resistenza razionale mossa contro l’affermazione della teoria stessa. Considerando l’insieme degli argomenti e della logica impiegati quale primo livello tecnico del discorso, si può rilevare come Einstein e compagni puntino a utilizzare gli stessi elementi caratteristici della nuova fisica per dimostrarne l’incompletezza teorica. Essi utilizzano, cioè, il principio di indeterminazione di Heisenberg da un lato e il paradosso di Schrödinger dall’altro per dimostrare come una teoria che voglia basarsi su questi dati non possa che risultare incompleta: «Nella meccanica quantica, quando si hanno due grandezze fisiche descritte da operatori che non commutano, la conoscenza dell’una preclude la conoscenza dell’altra. Allora, o è incompleta la descrizione della realtà fornita dalla funzione d’onda della meccanica quantica, o non possono, queste due grandezze, essere simultaneamente reali», in più, nella dimostrazione, essi si avvalgono proprio del principio dell’entanglement, dimostrandone presumibilmente la non validità concludendo che la relazione tra le particelle entangled non possa che derivare da variabili locali nascoste: «Studiando il problema di fare previsioni relative a un sistema sulla base di misure effettuate
su un altro sistema, che abbia in precedenza interagito col primo, si giunge alla 257
IbId..
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considerazione che se il primo enunciato è falso, è falso anche il secondo. Se ne deduce che la descrizione della realtà fornita da una funzione d’onda non è completa ». Ma questa argomentazione funziona solo sulla base di un assunto teorico, però, che trascende l’aspetto meramente tecnico e investe un livello altro della questione, ovvero la concezione della “realtà fisica”. Innanzi tutto EPR enunciano quale sia la “condizione di completezza”, stabilendo che a ciascun elemento della realtà fisica debba corrispondere una controparte nella teoria fisica. Se la teoria fisica è una teoria sperimentale basata su “esperimenti e misure”, bisogna capire cosa sia invece l’elemento della realtà fisica. Posto che questo non possa dipendere da considerazioni astratte (a priori), dovrà dipendere da esperimenti e misure a questa condizione: se una grandezza fisica può essere prevista con certezza e senza perturbare il sistema, allora essa corrisponderà a un elemento di realtà fisica. In altri termini: una grandezza fisica può ritenersi elemento reale solo se non è soggetta ai principi di indeterminazione e al paradosso di Schrödinger. Quindi, o la meccanica quantistica ignora misure ed esperimenti che possano migliorare la sua definizione di grandezze fisiche (superare probabilità e entanglement, e dunque completarsi) o le sue grandezze fisiche non hanno corrispettivi reali. Lo stile rigorosamente sperimentale e scientifico che traspare da questa argomentazione tradisce una cornice epistemologica ed ontologica che appunto trascende il livello puramente tecnico delle questioni: 1. Simmetria tra teoria fisica e realtà fisica su cui si basa il principio della completezza possibile della descrizione; 2. Distinzione tra soggetto e oggetto della conoscenza; 3. Linearità del percorso conoscitivo, per cui se c’è questa simmetria (corrispondenza) e se il soggetto può oggettivare, ovvero può conoscere ritrovando ciò che è dato, il progresso è lineare; 4. In definitiva, se vige il soggettivismo moderno, con i suoi corollari di causalità e adaequatio tra immagine-del-pensiero (teoria) e immagine-del-mondo (realtà fisica), allora il discorso di EPR, ovvero Einstein, regge. O la realtà è strutturata deterministicamente e la conoscenza vi si può adeguare, o la prospettiva di EPR non funziona. Altrimenti come poter sostenere che la teoria dei quanti debba essere incompleta solo perché le sue leggi sarebbero senza leggi – per riprendere il titolo dell’articolo di Wheeler?
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Einstein perseguì per tutta la vita l’ideale di una teoria unificata della fisica, basandosi su dei postulati appartenenti più a una certa visione del mondo che a una sua descrizione. Egli non accettò mai che Dio potesse giocare a dadi con il mondo… I postulati che hanno orientato il suo atteggiamento e alimentato la sua resistenza nei confronti della fisica quantistica sono stati sostanzialmente tre: «1. Il livello di base della natura dovrebbe essere descritto, per principio, da una teoria deterministica, anche se alcune lacune nella umana conoscenza delle condizioni iniziali e delle condizioni al contorno potrebbero costringere gli esseri umani a ricorrere alla probabilità per poter effettuare predizioni sui risultati delle osservazioni. 2. La teoria dovrebbe includere tutti gli elementi della realtà. 3. La teoria dovrebbe essere locale: quello che accade qui dipende da elementi della realtà che sono localizzati qui, e ciò che accade là dipende da elementi della realtà che sono localizzati là »258. In ultima analisi: realismo e localismo. Dopo qualche mese, al paradosso di EPR seguì la replica di Bohr in due articoli: Quantum Mechanics and Physical Reality pubblicato in Nature
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e Can Quantum-
Mechanical Description of Physical Reality be considered Complete? in Physical Review260, dove egli sostiene che il contributo di EPR mette solo in luce “l’inadeguatezza di fondo della concezione tradizionale della filosofia naturale” e che ora era necessario sottoporre a una “revisione radicale” le credenze abituali circa la realtà fisica né più né meno di come si era fatto con la teoria della relatività rispetto al carattere assoluto dei fenomeni secondo la fisica newtoniana. Di fatto si era arrivati a un momento di stallo: per andare a fondo della questione occorreva passare dall’esperimento mentale alla pratica sperimentale, in modo da eliminare ogni dubbio circa la natura di questa nuova teoria. Come si diceva, l’articolo EPR costituiva un manifesto e anche un programma, una traccia di lavoro che il fisico J. Bell (1928-1990) decise di sviluppare. J. Bell coglie dall’argomentazione di EPR l’aspetto filosofico dirimente e cioè che le tesi della meccanica quantistica e del binomio realismo-localismo non possono essere 258
A. D. Aczel, Entanglement, pag. 98. Nature, CXXXVI, 1935, pag. 65. 260 Physical Review, XLVIII, 1935, pagg. 696-792. 259
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entrambe corrette. Da qui egli elabora un teorema matematico basato su delle disuguaglianze tali per cui se le sue disuguaglianze fossero state violate da verifiche sperimentali, si sarebbero ottenute evidenze a favore della meccanica quantistica e a svantaggio del localismo di Einstein, mentre, in caso contrario, se le sue disuguaglianze fossero state mantenute, le verifiche avrebbero dato ragione al localismo di Einstein e torto alla meccanica quantistica. Questo teorema si presenta dunque sotto forma di alternative. In sostanza egli era consapevole che i principi della meccanica quantistica non erano compatibili con la causalità e la località di Einstein, ma occorreva fornire una formulazione matematica di questa relazione di esclusione. Il “salto quantico” della prova sperimentale schiacciante a favore della teoria dei quanti arriva in realtà nel 1972 con il lavoro di Clauser-Freedman in cui si attesta che nessuna “variabile nascosta” poteva intervenire a mediare la comunicazione fra le particelle entangled e che, dunque, a prescindere dalla distanza, esse sarebbero in relazione istantanea. Probabilità, indecidibilità, indeterminazione, potenzialità reale degli opposti, attualizzazione differenziale, relazione non locale, sdoppiamento diventano elementi costitutivi del mondo subatomico.
2.4. Il salto quantico dell’individuazione G. Simondon lavora alla sua tesi di dottorato, sul tema dell’”individuazione”, sotto la direzione di G. Canguilhem (maestro anche di M. Foucault), a fine anni ’50, discutendo il suo lavoro nel ’58. La tesi si presentava distinta in due blocchi: L’individuation physique e L’individuation dans les êtres vivants. Gli ultimi capitoli di questa seconda parte corrispondevano a L’individuation psychique et collective. In un primo momento, il lavoro
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non venne pubblicato integralmente. Una prima parte uscì nel 1964, il resto nel 1989261. La prima edizione completa, L’individuation à la lumière des notions de forme et information, che rispettasse del tutto il progetto iniziale dell’autore, è del 2005 262. Il lavoro, dedicato alla memoria di M. Merleau-Ponty, si apre premettendo quanto segue: 1. Ci sarebbero due vie per pensare la realtà dell’essere come individuo: una è quella sostanzialista, l’altra ilomorfica. In un caso l’essere dell’individuo è pensato come ingenerato e fondato su stesso; nell’altro, esso è pensato come generato (prodotto) dall’incontro di forma e materia. 2. Entrambe queste due modalità, però, tradiscono lo stesso presupposto: che ci sia, cioè, un principio di individuazione anteriore all’individuazione stessa, tale per cui, dato l’individuo, ci si sforza di risalire a quelle condizioni che ne avrebbero determinato l’esistenza. Un tale modo di ragionare, però, ha delle implicazioni che, dalla posizione del problema, ricadono sulle soluzioni proponibili. La priorità ontologica accordata alla realtà dell’individuo già costituito rende accessorio l’approccio critico volto alla comprensione dell’ontogenesi effettiva dell’individuo stesso. Il “principio” che in questo modo si vuole cercare ha il carattere di essere una prefigurazione di quello che sarà l’individuo al momento della sua costituzione, dunque questo “principio di individuazione” corrisponderebbe a una ontogenesi renversée, all’indietro.
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G. Simondon, L’individu et sa genèse physico-biologique, PUF, Paris, 1964 e Millon, Grenoble, 2005 ; poi, Id., L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris, 1989 e 2007. Altra fortuna ha avuto il lavoro dell’autore Du mode d’existence des objets technique, uscito per Aubier, Paris, nel 1958 e ristampato altre quattro volte fino al 2012. 262 G. Simondon, L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Millon, Grenoble, 2013. In traduzione in lingua italiana è uscito L’individuazione psichica e collettiva, per Derive Approdi, nel 2006, a cura di P. Virno, che riprendeva l’edizione francese dell’’89. Del 2011 è l’altra edizione, completa, a cura di G. Carrozzini, per Mimesis, che riprende il titolo originale dell’opera: L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione. Nel nostro caso si è ritenuto opportuno lavorare innanzi tutto sull’opera originale per come è stata edita nel 2013 in Francia. In questa edizione, infatti, si ritrova anche una Histoire de la notion d’individu, redatta nello stesso periodo della tesi, più due bozze relative alla tesi stessa e il testo della conferenza Forme, informantion et potentiels tenuta presso la Société Française de Philosophie il 27 febbraio 1960.
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Il problema dell’individuazione dunque non può esser posto a partire dalla priorità ontologica
assegnata
all’individuo,
perché,
così
facendo,
allo
scopo
di
spiegarne/giustificarne il dato, occorrerà risalire a un principio primo che ne sia condizione determinante, ma questo stesso termine primo non sarà altro che un individuo primo (o un individualizzabile primo) soggetto alla stessa logica. Quanto viene misconosciuto secondo questo approccio, è proprio tutto ciò che possa essere “supporto di relazione”, poiché questo è già tradotto nella forma di un principio quale termine-individuo-dato – che si tratti dell’atomismo democriteo o della forma aristotelica. Inoltre, non si coglie che l’individuazione non può risolversi – esaurirsi – del tutto nell’ontogenesi dell’individuo. Esiste, nel modello sostanzialista e in quello ilomorfico, la stessa “zona oscura” (la scatola chiusa), che nasconde l’operazione di individuazione, il suo processo, ricostruendo a posteriori una temporalizzazione in tre fasi, per cui prima vi sarebbe il principio di individuazione, poi l’azione di questo principio in una operazione di individuazione, infine l’individuo costituito. La proposta di Simondon, allora, è di ipotizzare che l’individuazione non si esaurisca nell’ontogenesi dell’individuo e che la stessa ontogenesi si estenda a più livelli e a più fasi per cui si possa conoscere l’individuo attraverso l’individuazione, assegnando a quest’ultima, intesa come processo, una priorità ontologica da esaminare nel dettaglio secondo questo programma:
Nous voudrions montrer qu’il faut opérer un retournement dans la recherche du principe d’individuation, en considérant comme primordiale l’opération d’individuation à partir de laquelle l’individu vient à exister et dont il reflète le déroulement, le régime, et enfin les modalités, dans ses caractères. L’individu serait alors saisi comme une réalité relative, une certaine phase de l’être qui suppose avant elle une réalité préindividuelle, et qui, même après l’individuation, n’existe pas toute seule, car l’individuation n’épuise pas d’un seul coup les potentiels de la réalité préindividuelle, et d’autre part, ce que l’individuation fait apparaître n’est pas seulement l’individu mais le couple individu-milieu. L’individu est ainsi relatif en deux sens : parce qu’il n’est pas tout l’être, et parce qu’il résulte d’un état de l’être en lequel il n’existait ni comme individu ni comme principe d’individuation. L’individuation est ainsi considérée comme seule ontogénique, en tant qu’opération de l’être complet. L’individuation doit alors être considérée comme résolution partielle et relative qui se manifeste dans un système recélant des potentiels et renfermant une certaine incompatibilité par rapport à lui-même, incompatibilité faite de forces de tension aussi bien que d’impossibilité d’une interaction entre termes extrêmes des dimensions263.
263
G. Simondon, L’individuation, pag. 25.
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Per realizzare questo programma di “retournement”, Simondon struttura il suo discorso a partire dall’individuazione fisica, passando poi, per analogia, all’individuazione vivente. Il primo passo è mettere a fuoco il paradigma ilomorfico partendo dallo schema tecnico da cui esso trae origine. Il punto è capire quanto e se le categorie di forma e materia siano sufficienti a porre la questione dell’individuazione. Simondon parte dal mattone di terracotta – come sua immagine per un inizio: cette brique en train de sécher sur cette planche264. Immaginiamo tre situazioni diverse: di essere dentro il processo di fabbricazione di un mattone; di essere nell’officina dell’artigiano dove tale mattone viene prodotto; di essere, infine, fuori dall’officina, in qualità di committenti o di semplici osservatori esterni. Cosa vedremmo e capiremmo di questo mattone che ora è lì ad asciugarsi? Avremmo, come è ovvio, tre punti di vista diversi. Il paradigma ilomorfico, nella sua impostazione generale, rimuovendo per astrazione la sua particolare origine tecnica, corrisponderà al punto di vista esterno all’officina dove invece questo mattone qui è in via di produzione. Secondo questo schema, ciò che presiede alla costituzione del mattone saranno da un lato una forma generica, dall’altro una materia che in modo puramente passivo recepisce l’azione della forma. Il punto di vista esterno corrisponderà, del resto, a quello di un probabile committente, a cui interessa che quel mattone abbia quella forma standard e sia costituito di una materia che sia tale da mantenere quella forma. Ora, provando a entrare nell’officina, osserveremmo che la forma presumibilmente pura del parallelepipedo (in cui riconosciamo il nostro mattone) non è né astratta né pura, ma è un calco dotato di funzionalità particolari: deve essere in grado di limitare l’espansione dell’argilla. Dal suo canto, la materia non sarà quel dato grezzo, passivo, cui dare forma: essa risulta, infatti, essere preparata, lavorata affinché raggiunga lo stato di vischiosità idoneo ad aderire perfettamente alle pareti del calco, senza lasciare vuoti o fare grinze. Già secondo questo punto di vista avremmo modo di notare come i nostri due termini, forma e materia, non sono altro che i due capi di una 264
Id., pag. 40.
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catena tecnica che, a un dato momento, li intreccerà. Proviamo ora a portarci dentro alla materia, dentro il calco. A questo punto noteremmo qualcosa di ancora più straordinario. L’argilla, con tutte le sue molecole, con tutta la sua forza, andrà a premere contro il calco; questo, invece, controbilancerà la pressione dell’argilla esercitando la sua forza di contenimento. Il calco limita e stabilizza, modula piuttosto che imporre; l’argilla, piuttosto che ricevere passivamente, è depositaria di un suo particolare indice di forza. In realtà, già solo entrando nell’officina e seguendo il lavoro dell’artigiano potremmo comprendere come lo schema classico dell’ilomorfismo non contempli l’aspetto operazionale che è invece caratteristico del processo. È mediante un’operazione che i due capi della catena tecnica, che presiede alla produzione del mattone, sono intrecciati. Entrando dentro la materia della forma e la forma della materia vedremmo poi che questo aspetto operazionale corrisponde all’attualizzarsi di un’energia potenziale: «pendant le temps du remplissage, une énergie potentielle s’actualise. Il faut que l’énergie qui pousse l’argile remplisse tout l’espace vide, se développant dans n’importe quelle direction, arrêté seulement par les bords du moule. Les parois du moule interviennent alors non pas du tout comme structures géométriques matérialisées, mais point par point en tant que lieux fixes qui ne laissent pas avancer l’argile en expansion et opposent à la pression qu’elle développe une force égale et de sens contraire (principe de réaction), sans effectuer aucun travail, puisqu’ils ne se déplacent pas»265. L’aspetto operazionale mostra come ci sia una relazione tra forma e materia che non si riduce a una sintesi astratta. L’unità di forma e materia si dà in un «regime energetico»: «La relation entre matière et forme ne se fait donc pas entre matière inerte et forme venant du dehors (dall’esterno): il y a opération commune et à un même niveau d’existence entre matière et forme; ce niveau commun d’existence, c’est celui de la force, provenant d’une énergie momentanément véhiculée par la matière, mais tirée d’un état du système interélémentaire total de dimension supérieure, et exprimant les limitations individuantes. (…) C’est en tant que forces que matière et forme sont mise en présence»266. La materia costituisce la forza dell’indeterminato e la forma quella della
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Id., pag. 42. Id., pagg. 43-44.
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determinazione, ma si tratta di un’operazione, di un processo di forze: una forza dinamica incontra una forza statica. L’operazione tecnica può servire da paradigma, scrive Simondon, a patto che siano esplicitate le vere relazioni da essa istituite, per cui non ci sono materia grezza e forma pura, ma una materia preparata e una forma materializzata, a cui aggiungere l’energia che dà luogo all’operazione. A questo punto, la forma fungerà da “frontiera topologica” del sistema; la materia, invece, sarà espressione e veicolo dei potenziali energetici di cui sarà stata dotata in fase di preparazione. La “presa di forma” risulterà dall’operazione comune prodotta in tutto il sistema. Il paradigma tecnico, dunque, non è privo di valore in sé se si vuole utilizzarlo come riferimento per introdurci alla questione circa l’individuazione, purché si colga come essenziale la relazione energetica che anima il processo di “presa di forma” della materia in rapporto alla forma e viceversa, come rapporto di forze. Ciò che è essenziale, scrive Simondon, è l’operazione energetica che presuppone un potenziale energetico e un limite di attualizzazione. Quindi, il principio di individuazione non può trovarsi né nella materia né nella forma, ma ricade sul sistema nel suo complesso. Il principio di individuazione è genetico ed è simultaneo alla “presa di forma”: non può essere cercato né in ciò che precede l’individuazione né in ciò che resta dopo che essa si sia compiuta, bensì è il sistema energetico stesso a essere individuante allorché sia capace di realizzare in se stesso la risonanza interna (un’omogeneità molecolare della materia che la rende potenzialmente disponibile) e una mediazione tra ordini di grandezza differenti (le molecole d’argilla e la pressione delle pareti del calco). Entrando nel processo tecnico, ciò che emerge è il carattere operazionale del principio di individuazione, precluso a chi rimanga osservatore esterno : «Le schéma hilémorphique correspond à la connaissance d’un homme qui reste à l’extérieur de l’atelier et ne considère que ce qui y entre et ce qui en sort; pour connaître la véritable relation hilémorphique, il ne suffit pas même de pénétrer dans l’atelier et de travailler avec l’artisan : il faudrait pénétrer dans le moule lui- même pour suivre l’opération de prise de forme aux différents échelons de grandeur de la réalité physique»267. 267
Id., pag. 46.
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Il principio così inteso è definito «opération allagmatique», comune alla materia e alla forma attraverso il processo di attualizzazione dell’energia potenziale268. Per “allagmatica” si intende una “teoria delle operazioni” e per “operazione” una conversione di una struttura in un’altra struttura. Muoversi sul piano dell’individuazione, entrando nel pieno del processo di “presa di forma”, consente di comprendere quali invece siano i limiti di una prospettiva classica concernente la questione. Innanzi tutto occorre precisare che lo stesso schema tecnico da cui si è partiti può non risultare sufficiente a rendere la questione dell’individuazione in termini generali, giacché l’individuazione nel campo del vivente gioca una partita ben diversa dalla fabbricazione di un mattone di argilla. L’essere vivente è al contempo sistema individuante e risultato parziale di individuazione, ma su due livelli: un piano sincronico (simultaneo), per cui una ridondanza della risonanza fa sì che il risultato diventi principio anch’esso; un piano diacronico (di successione), per cui si instaura una «risonanza del successivo», una «allagmatica temporale» attraverso un’ontogenesi che è memoria e istinto269. Su questo fronte, per comprendere se l’individuazione che si cerca non diventi solo un riflesso antropomorfico che non fa luce sulle condizioni reali dell’individuazione stessa, Simondon ritiene di dover studiare «les processus de formation naturelle des unités élémentaires que la nature présente en dehors du règne définit comme vivant»270. I limiti dello schema ilomorfico saranno allora diversi: 1. Esso non rappresenta il processo reale di produzione tecnica da cui pure trae origine. In tal senso, allo schema ilomorfico manca l’aspetto operazionale, allagmatico, della “presa di forma”, ovvero la dovuta attenzione alle condizioni energetiche proprie del sistema; 2. Reintegrando il momento allagmatico si rischia di arrivare a facili conclusioni circa una analogia tra processo tecnico e processo vitale di individuazione. Tuttavia, è indubitabile quanto successo esso abbia avuto, considerando che, in ultima analisi, lo stesso dualismo anima-corpo può essere riportato al dualismo forma-materia. Quanto il paradigma ilomorfico rappresenta, però, non è solamente il gesto tecnico, di dar forma a qualcosa, ormai totalmente stilizzato e astratto, 268
Id., pag. 48. Id., pag. 49. 270 IbId.. 269
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ma, nella sua astrazione esso esprime un punto di vista sociale e una logica di potere ben precisi. Scrive Simondon che ciò che esso riflette in primo luogo è una rappresentazione socializzata del lavoro e una rappresentazione altrettanto socializzata dell’essere vivente individuale: «L’opération technique qui impose une forme à une matière passive et indéterminée n’est pas seulement une opération abstraitement considérée par le spectateur qui voit se qui entre à l’atelier et ce qui en sort sans connaître l’élaboration proprement dite. C’est essentiellement l’opération commandée par l’homme libre et exécutée par l’esclave ; l’homme libre choisit de la matière, indéterminée parce qu’il suffit de la désigner génériquement par le nom de substance, sans la voir, sans la manipuler, sans l’apprêter : l’objet sera fait de bois, ou de fer, ou en terre. La véritable passivité de la matière est sa disponibilité abstraite derrière l’ordre donné que d’autres exécuteront. (…) La distinction entre la forme et la matière, entre l’âme et le corps, reflète une cité qui contient des citoyens par opposition aux esclave»271. Dunque, conclude Simondon, il successo di questo paradigma sta proprio nel suo essere ibrido, ovvero di essere né del tutto tecnico né del tutto legato al vivente, ma di essere una realtà legata al vivente per via di una mediazione sociale: ovvero delle condizioni preordinate, già date. Dunque, il principio di individuazione così pensato non può essere né propriamente genetico né propriamente creativo. Esso funziona finché garantisce, con la sua formula, una descrizione che è una conservazione: innanzi tutto sociale, in riferimento a rapporti di potere prestabiliti; poi tecnica, rispetto a delle procedure che rientrano in una ripartizione del lavoro ben definita e stabile. Viceversa, esso vedrebbe vanificato il proprio referente empirico, divenendo una pura espressione metafisica. Per le stesse ragioni, lo schema ilomorfico è insufficiente anche a cogliere il vero significato della “forma implicita” della materia, che non è la qualità, ma ecceità primaria della materia, precondizione della sua disponibilità tecnica. È scopo di Simondon condurre una disamina di carattere epistemologico e critico circa il principio di individuazione, pertanto questi aspetti soggettivistici, relativistici, psicosociali non possono costituire né un limite né un punto di approdo. Provando a non presupporre un “principio” di individuazione, si può formulare la questione sul che cosa essa sia in due modi diversi, chiedendosi perché un individuo sarebbe ciò che è e perché un 271
Id., pag. 51.
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individuo sarebbe diverso da tutti gli altri272. Si avranno così due prospettive opposte: una che verte su aspetti intrinseci all’individuazione, un’altra su aspetti estrinseci (di relazione). Il punto è che interiorità ed esteriorità sono due aspetti corrispondenti all’individuo già costituito, ma se lo scopo della ricerca non è una descrizione dell’individuo (una tipo-logia autoreferenziale) bensì un’analisi delle condizioni che fanno sì che l’individuazione sia possibile – in altri termini, ragione per cui affrontiamo il pensiero simondoniano – se la questione deve vertere sul piano che consente (ancora) una soggettivazione possibile, allora occorre portarsi dentro all’officina, in un gesto di intuizione bergsoniana dentro alla materia, per comprendere quali siano i margini entro cui immaginare una individuazione. Si è visto che la “presa di forma” avveniva intrecciando, in un unico sistema, materia e forma, attraverso una “condizione energetica di metastabilità” – il rapporto di forze tra la materia della forma e la forma della materia. Questa condizione di metastabilità è definita da Simondon “risonanza interna del sistema” e istituisce una operazione, ovvero una “relazione allagmatica” nell’attualizzazione dell’energia potenziale. Il principio di individuazione corrisponde proprio allo stato individuante del sistema, che è in relazione operazionale all’interno del complesso energetico dove sono incluse tutte le singolarità (i tratti specifici capaci di portare informazione)273. L’individuo reale, però, nel caso della produzione di un oggetto, non esiste che per la durata istantanea della “presa di forma”, per poi degradarsi e ridursi ad individuato. L’individuo “vero”, come scrive Simondon, è infatti capace di portare con sé il proprio sistema di individuazione, amplificando delle singolarità. In altri termini, perché ci sia individuo e non individuato, la carica di individuazione non deve estinguersi, ma continuare in un complesso di amplificazione (ridondanza o ricorrenza della risonanza interna). Il principio di individuazione, allora, è proprio in questo sistema energetico di risonanza interna. Dunque perché ci sia individuo, ad esso deve rimanere associato un “milieu”: un ambiente, un contesto, ma anche un trovarsi nel “mezzo” come luogo di relazione. E il milieu associato corrisponde proprio al sistema energetico, alle sue condizioni energetiche di esistenza, alla singolarità della relazione allagmatica in uno stato di
272 273
Id., pag. 60. Id., pag. 61.
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equilibrio metastabile
274
. L’individuo, in questa individuazione continua, si costituisce
sempre al limite di se stesso: sui bordi. Essendo questo inter-mezzo, l’individuo è propriamente relazione: “La relation pour l’individu a valeur d’être; on ne peut distinguer l’extrinsèque de l’intrinsèque par rapport à ce qui est premier. Ce qui est premier est ce système de la résonance interne, singulière, de la relation allagmatique entre deux ordre de grandeur»275. Che la relazione abbia valore d’essere vuol dire sostanzialmente che non vi sono dei termini che le preesistono e attraverso cui essa passa (come una forma pura e una materia grezza pensati secondo la metafisica classica), ma che i termini stessi si costituiscono in quanto relazione: una data relazione attualizza o meno certi termini. Ciò vuol dire che l’individuo si costituisce come essere di relazione e non semplicemente in relazione. E’ in relazione ciò che è individuato, de-finito, non l’individuo in quanto aperto al campo di individuazione che sono le sue condizioni di esistenza. Oltre alla materia e alla forma, bisogna pensare al milieu non come terzo termine, ma come sistema energetico costituente, ovvero l’attività, la realtà della relazione tra i due ordini differenti (forma e materia del nostro esempio) che comunicano per singolarità (per le ecceità differenti dell’uno e dell’altro, che, in altri termini, sono gli elementi di in-formazione). E l’individuo è inseparabile da questo campo, essendo con esso in un rapporto di co-produzione genetica. Pertanto: «Le principe de l’individu est l’individu lui-meme dans son activité, qui est relationelle en elle-meme, comme centre et médiation singulière»276.
Per comprendere a fondo l’allagmatica simondoniana, ovvero l’aspetto operazionale proprio dell’individuazione, che prevede una trasformazione di una struttura in un’altra struttura, bisogna analizzare la nozione fisica di “energia potenziale”. Già Poincaré, nel suo La science et l’hypothèse277, aveva dedicato un capitolo all’energia e alla termodinamica e, nel paragrafo sul sistema energetico aveva fatto appunto presente che esso sia subentrato a causa delle difficoltà sollevate dalla meccanica classica. Le due quantità che in questo 274
Id., pag. 62. IbId.. 276 Id., pag. 63. 277 H. Poincaré, (1902), La science et l’hypothèse, Flammarion, 2014. 275
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sistema giocano un ruolo decisivo sono l’energia cinetica, o forza viva, e l’energia potenziale (che abbiamo visto più sopra come abbiano avuto una proto-origine in Leibniz). Sebbene la teoria energetica (o energetismo) semplifichi per certi aspetti la teoria classica, le sue nozioni di riferimento non sono molto più efficaci di quelle di forza e di massa278. Simondon infatti premette da subito che la nozione di “energia potenziale” in fisica non è affatto chiara e non corrisponde a una estensione ben definita. Tuttavia egli sottolinea come “potenziale” voglia dire che, per un sistema energetico, sarebbe ancora possibile una trasformazione. Dunque egli collega il “potenziale” a una trasformazione possibile, perciò a un sistema dove l’equilibrio è metastabile. L’energia potenziale «est la fraction de l’énergie totale du corps qui peut donner lieu à une trasformation, réversible ou non»279. Questa « frazione » indica la presenza di una relazione di eterogeneità e dissimmetria. Dunque la capacità di un’energia di essere potenziale è strettamente legata a questa “dissonanza” – volendo usare un termine nietzscheano. Non bisogna confondere, precisa Simondon, l’energia potenziale con “considerazioni arbitrarie dello spirito”, ovvero con la nozione di “potentia”. Il potenziale non è qualcosa di ipotetico, intendendo con questo attributo un carattere di negazione della realtà (è ipotetico dunque non è reale, anche qualora sia possibile); bensì esso è del tutto reale, corrispondendo alla capacità effettiva di un sistema di trasformarsi (di divenire). Questo equivoco, sulla irrealtà del potenziale, sorge a partire dal pregiudizio sostanzialista circa il reale, per cui avrebbe il più alto grado di realtà ciò che è sostanza assoluta – scalando in direzione inversa. L’energia potenziale, invece, si costituisce realmente proprio a partire dalla sua natura relazionale: essa ha bisogno di un sistema per essere effettiva, ovvero di almeno un altro termine. Allo scopo di essere più chiari, Simondon suggerisce di distinguere tra la nozione di “relazione” e quella di “rapporto”: nel primo caso si intenderà quella «disposizione degli elementi di un sistema che ha una portata che supera una semplice visione arbitraria dello spirito», mentre nel secondo caso si intenderà «una relazione arbitraria, fortuita, non convertibile in termini sostanziali»280. Una vera relazione tra due termini, allora, sarà un rapporto tra tre termini, comprendendo fra questi anche la relazione stessa. 278
Id., pag. 139-140. G. Simondon, L’individuation, pag. 67. 280 IbId.. 279
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Ora, è chiaro che l’individuazione non può che richiedere una vera relazione, la quale si dà unicamente in un sistema dove è presente un potenziale. L’energia potenziale è connessa alla suscettibilità di un sistema alla trasformazione, essendo questo in uno stato di metastabilità dove, per l’appunto, vi è una dissimmetria. La trasformazione può essere una conversione, tra energia potenziale ed energia cinetica, come nel caso dell’oscillazione di un pendolo. In sistemi diversi, però, lo scambio di energia, che si realizza in caso di fusione, vaporizzazione o cristallizzazione, dà luogo a una irreversibilità nel cambiamento di struttura del sistema stesso. Un caso di studio particolare è costituito dalle strutture cristalline dove appare in maniera chiara come sia necessario passare da una tradizionale nozione degli elementi a una teoria che contempli sia struttura che energia281. Uno stato cristallino, con la sua particolare anisotropia, appare opporsi nettamente all’amorfia isotropica degli stati gassosi, liquidi o vitrei. Secondo l’ipotesi del chimico G. Tammann (1861-1938)282, perché si formi un cristallo, occorre si realizzi un passaggio di stato, determinato da una relazione tra il fattore energia e il fattore struttura. In effetti molti corpi possono presentarsi sia allo stato cristallino sia allo stato amorfo, allora cosa determina la particolare individuazione del cristallo? Una energia potenziale latente viene stimolata da un cambio di energia subìto dal materiale ancora allo stato amorfo (tramite una variazione di temperatura e pressione, ad esempio). Una soglia di cristallizzazione si presenta come passaggio da uno stato di isotropia a uno stato di anisotropia. A differenza del caso di un pendolo, dove si può apprezzare una trasformazione secondo un processo continuo, nella cristallizzazione le energie potenziali di una struttura possono essere liberate solo a condizione di una modificazione delle condizioni di stabilità del sistema stesso. Il legame tra una energia potenziale e la struttura di riferimento comporta che ci siano energie potenziali di ordine differente. Le energie potenziali strutturali saranno allora quelle che esprimono «i limiti di stabilità di uno stato strutturale» e che perciò rappresentano «la fonte reale delle
281
Id., pag. 72. G. Tammann è un chimico tedesco che si è occupato prevalentemente di metallurgia. Tra i vari lavori, si veda Id., (1903), Kristallisieren und Schmelzen: ein Beitrag zur Lehre der Änderungen des Aggregatzustandes, Classic Edition, 2009. 282
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condizioni formali delle genesi possibili»283. L’analisi del processo di cristallizzazione secondo Tammonn è decisiva per questo, in quanto mostra la criticità del processo: L’intérêt de l’hypothèse de Tammann pour l’étude de l’individuation est d’établir l’existence de conditions d’équilibre indifférent entre deux états physiques dont l’un est amorphe et l’autre cristallin, c’est à dire qui s’opposent par leurs structures, non ordonnées dans le premier, ordonnée dans le second. La relation entre deux états structuraux prend ainsi un sens énergétique : c’est, en effet, à partir des considérations relatives à la chaleur latente de cristallisation et à la variation de volume en fonction de la pression, c’est-à-dire à un travail, que l’existence et la position des points triples sont déterminés. Les limites du domaine de stabilité d’un type structural sont déterminés par des considérations énergétiques. C’est pour cette raison que nous avons voulu, pour aborder l’étude de l’individuation physique proprement dite, définir l’aspect énergétique de la relation entre deux structures physique284. À toute structure est lié un caractère énergétique, mais inversement, à toute modification des conditions énergétiques d’un système physique peut correspondre une modification du caractère structural de ce système285.
Se nel mattone di terracotta si era potuto scorgere l’immagine per un inizio, nel processo di cristallizzazione qui presentato può essere colta l’immagine-movimento chiave per lo sviluppo del discorso simondoniano sull’individuazione, che, dal piano dell’inorganico porti, per analogia, sul piano dell’organico. In particolare, Simondon suggerisce di utilizzare la nozione di energia potenziale strutturale per studiare casi particolari ed esemplari di individuazione, prendendo prima in esame le forme allotropiche di una stessa sostanza, come lo zolfo, che esiste in natura allo stato solido sia come zolfo ottaedrico sia come prismatico; e poi la genesi delle forme cristalline a partire da uno stato amorfo. Nel primo caso, si nota come a temperatura ordinaria i cristalli di zolfo ottaedrico appaiano in uno stato stabile. Essi mantengono a lungo la proprietà della limpidezza. Da parte loro, i cristalli di zolfo prismatico sono invece metastabili in rapporto a questi ultimi. Essi vanno in sopraffusione cristallina: sono limpidi appena preparati, per diventare opachi subito dopo. L’opacità dipende proprio dal progressivo frammentarsi «in un mosaico di cristalli ottaedrici giustapposti»286. La relazione tra le due forme di cristallo cambia però col variare della temperatura; cioè, oltre un certo limite, la relazione di metastabilità si inverte a carico dello zolfo ottaedrico, mentre invece, 283
G. Simondon, pag. 77. [corsivo nostro]. 285 Id., pag. 76. 286 G. Simondon, pag. 78. 284
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sul limite, essi sono in equilibro reciproco. In cosa consiste allora l’individualità di ciascuna di queste due forme e da cosa dipende? Se per esempio lo zolfo prismatico è in metastabilità rispetto a quello ottaedrico, ha bisogno, per stabilizzarsi, di qualcosa che concorra a far sviluppare il processo di trasformazione. Si tratta di un “punto di partenza”, un “germe cristallino” che apporti localmente una singolarità in esso contenuta, capace di rompere l’equilibrio metastabile, facendo sì che la nuova forma attecchisca e si propaghi di strato in strato287. Da un punto di vista teorico, si può desumere quanto segue: 1. L’individuazione, intesa come operazione, non è legata a una identità ma a una modificazione di stato; 2. La conservazione di individualità di una sostanza è in funzione del mantenimento dello stato di maggiore stabilità possibile e questo dipende, a sua volta, da particolari e proprie condizioni energetiche. A queste condizioni, infatti, tale sostanza risulta indifferente all’introduzione di un germe cristallino, ovvero di informazioni appartenenti a una struttura diversa (fattore che invece riesce a modificare il sistema qualora le condizioni energetiche rendano la sostanza disponibile al cambiamento); 3. L’individualità stabile dipende allora dalla corrispondenza tra un dato stato energetico del sistema e una data struttura. Quest’ultima, però, non è automaticamente prodotta dal solo stato energetico. Scrive Simondon: «l’amorçage de la structuration est critique; le plus souvent, dans la cristallisation,
des germes sont apportés du dehors»288, concludendo che vi è un aspetto storico nella formazione di una struttura in una sostanza. Su questo punto, decisivo è come, in vista dell’individuazione, egli escluda il “determinismo energetico”, a vantaggio di un aspetto storico dettato dalla componente aleatoria dell’incontro possibile con un “fuori”, rappresentato dal germe cristallino (che però può essere anche soggiacente): «Il y a donc un aspect historique de l’avénement d’une structure dans une substance, il faut que le germe structural apparisse. Le pur déterminisme énergétique ne suffit pas pour qu’une substance atteigne son état 287 288
IbId.. Id., pag. 79 [corsivo nostro].
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de stabilité. Le début de l’individuation structurante est un événement pour le système en état métastable»289. Perché un germe cristallino possa efficacemente portare una sostanza al suo nuovo stato di stabilizzazione, occorre che l’intera energia potenziale della struttura sia assorbita: a quel punto la metastabilità sarà risolta nella stabilità del sistema. Pertanto: 4. l’individuazione è completa quando tutta l’energia potenziale, presente in un sistema prima della strutturazione, è spesa. Nel caso degli allotropi, vi sono molti livelli possibili di strutturazione e ogni volta si tratta di processi discreti in cui sono delimitate delle soglie di trasformazione. La nozione di individuo, allora, non si comprende nell’ottica classica di una substantia o di una quiddità, ma nel senso della relazione (incontro) fra determinate condizioni di energetiche (relative al sistema) e determinate singolarità (relative al fattore informazionale, storico e locale). Il caso dell’individuazione fisico-chimica mostra quanto possano essere insufficienti le nozioni e i metodi classici. Tentare di spiegare il processo di individuazione presupponendo un principio, che sia la forma o la materia o la forza, corrisponde a perdere di vista l’aspetto ontogenetico assumendo a priori elementi precostituiti da ricombinare in una fase successiva. Il metodo proposto da Simondon è, come più sopra citato, l’allagmatica. Il termine è composto dal greco άλλαγµός, che vuol dire “scambio” e τέχνη, tecnica. Esso significa, alla lettera, “tecnica dello scambio”, ma in realtà ricopre in Simondon il significato molto più ampio di una teoria delle operazioni che si occupa della relazione fra operazioni e struttura290, presentando le seguenti caratteristiche: -
è un metodo genetico;
-
intende gli essere individuati come sviluppo di una singolarità che mette in comunicazione un dato ordine con delle condizioni energetiche e delle condizioni materiali;
289 290
IbId.. E. Clarizio, Assoggettamento e soggettivazione/tecnica e tecniche, in Noema, 4-1/2013, pag. 57.
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-
esclude il puro determinismo causale, che presupporrebbe di poter dedurre il presente dalla conoscenza del passato; questo perché l’individuo “prolunga nel tempo” l’incontro di più fattori di cui è espressione ed è tale finché può in effetti perdurare in questo prolungamento. Esso è dunque “risultato” ma anche “agente” e, da un punto di vista temporale, esso deve essere al presente in quanto alla sua propria “consistenza attiva”. L’individuo così inteso può a sua volta diventare germe per un altro sistema e rivelarsi una condizione di divenire;
-
più che puntare a una sorta di dinamismo lineare, il metodo di Simondon pone in evidenza l’aspetto ridondante dell’individuazione, già a partire da quella fisicochimica, sottolineando come essa sia un fenomeno di amplificazione;
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A differenza dello schema ilomorfico, che presentava due livelli di realtà senza comunicazione, in questo caso la comunicazione tra ordini differenti è data dall’introduzione della singolarità che si può “nommer information”291.
Se Simondon elegge il processo di cristallizzazione come quella che abbiamo considerato una sua immagine-movimento chiave, è proprio per dimostrare, in medias res, quanto sia improprio e fuorviante utilizzare categorie classiche per approcciare il problema dell’individuazione. Il secondo esempio che egli offre, ovvero l’individuazione fisico-chimica delle forme cristalline a partire da uno stato amorfo, consente di approfondire e caratterizzare ulteriormente il metodo da lui introdotto. In questo secondo caso, affinché possa darsi l’individuazione di uno stato cristallino occorre, innanzi tutto, che la materia amorfa di partenza contenga un’energia potenziale da spendere; poi, che vi sia l’incontro con un germe (una singolarità che apporti un’informazione al sistema); infine, che vi sia una comunicabilità entro la struttura portata dal germe e la struttura amorfa. E qui subentra il problema. Se la struttura è amorfa, come fa a essere compatibile con l’in-formazione portata dal germe cristallino? Questo aspetto è decisivo dal momento che sappiamo che senza una analogia latente tra la struttura del germe e quella della sostanza metamorfosante, alcuna individuazione sarebbe possibile. Il punto è che la sostanza amorfa (cioè isotropa) non è caratterizzata, precisa Simondon, dall’assenza assoluta di una struttura, ma dalla virtualità della stessa. In altri termini, la 291
G. Simondon, pag. 82.
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realtà della sostanza amorfa è di essere virtualmente anisotropizzabile. In tal modo, vi è un’analogia tra la struttura del germe cristallino (che è in atto) e la virtualità di anisotropia della struttura della sostanza amorfa. Questa può passare all’atto grazie all’attivazione (incontro) del germe. Il passaggio dal virtuale all’attuale si può compiere perché vi è un’energia potenziale spendibile. Dunque vi è una sottile differenza tra energia potenziale e stato virtuale di una struttura. La virtualità, per Simondon, è legata alla struttura e non all’energia potenziale, mentre questa è legata all’energia presente nel sistema nel suo complesso, rispetto alla sua metastabilità (cioè alla sua disponibilità di trasformazione). Se ammettiamo di escludere ogni determinismo energetico e sleghiamo l’energia potenziale dalla struttura, allora comprendiamo come il virtuale attenga alle possibilità della struttura e non a quelle dell’energia. La sostanza amorfa si offre così come milieu al germe che quindi può attivare la trasformazione. A questo punto, può darsi una vera relazione amplificante, ovvero ridondante, tra la struttura del germe e l’energia potenziale data nella sostanza amorfa. Nel caso precedente, il funzionamento della relazione analogica individuante non era esplicitamente emerso dal momento che il germe strutturale e la sostanza metastabile erano già della stessa natura chimica. Dal momento che è scattato il passaggio all’atto del processo di anisotropia della struttura cristallizzabile, si diffonde strato per strato la geometria prevista nel germe. La materia amorfa viene così polarizzata, in modo transitivo, crescendo sul limite. La dissimmetria presente nell’analogia fra la struttura del germe (attuale) e quella della struttura (virtuale, latente) è definita in termini di temporalità. Quindi, in luogo di una temporalizzazione ex post pensata secondo lo schema ilomorfico, qui è introdotta una temporalizzazione che scorre alla superficie del cristallo. In altri termini, il tempo-si-fa-conl’individuazione-che-si-fa, sul limite del cristallo. Esso, infatti, cresce sui bordi. È il limite a essere crono-morfo-genetico, proprio per la sua funzione relazionale-operazionale. Questo limite costituisce il presente mobile che avanza marcando la dissimmetria fra passato e futuro: il suo corso è differenziale, non identitario; il presente non combacia con il passato, così il futuro. «Dès lors – scrive Simondon – la relation entre l’avenir et le passé serait celle-là même que nous saisissons ente le milieu amorphe et le cristal; le présent, relation entre l’avenir et le passé, est comme la limite asymétrique, polarisante, entre le cristal et le milieu
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amorphe. (…) cette relation dissymétrique est, en effet, le principe de la genèse du cristal, et la dissymétrie se perpétue tout au long de la genèse ; de là résulte le caractère d’indéfinité de la croissance du cristal; le devenir ne s’oppose pas à l’être ; il est relation constitutive de l’être en tant qu’individu. Nous pouvons dire par conséquent que l’individu physicochimique constitué par un cristal est en devenir, en tant qu’individu»292. Il tempo fisico di cui parla Simondon per il cristallo è dunque un tempo surlineare, avente il carattere differenziale della dissimmetria come costitutivo, strettamente connesso all’indice di relazionalità, che potremmo definire immanente, del limite come presente che attualizza una virtualità latente spendendo un potenziale. Si tratta di una crono-morfogenesi che, seppure nella ripetizione (amplificazione, ridondanza) marca il divenire dello spostamento indefinito di un limite. È un tempo lineare che però non può che spezzare la sua linea, proseguendosi per dissimmetrie. Se il principio di individuazione è relazionale, il tempo della relazione non può che essere surlineare. In altri termini, qui è l’ora dell’immanenza che si fa largo. «L’être fini – scrive Simondon – est le contraire même de l’être limité, car l’être fini est borné de lui-même, parce qu’il ne possède pas une suffisante quantité d’être pour croitre sans fin ; au contraire, dans cet être indéfini qu’est l’individu, le dynamisme d’accroissement ne s’arrête pas, parce que les étapes successives de l’accroissement sont comme autant de relais grâce auxquels des quantités d’énergies potentielle toujours plus grandes sont asservies pour ordonner et incorporer des masses de matière amorphe toujours plus considérables»293. Il tempo della relazionalità come priorità ontologica nell’individuaizone e la relazionalità stessa del tempo in quanto dissimmetrico corrispondono al pensare sia la relazione sia il tempo al di fuori di uno schema basato sul sostanzialismo metafisico e sul suo correlato soggettivistico. Se il tempo e la relazione perdono entrambi il loro contenuto essenzialista a priorico, tale per cui la relazione non si istituisce tra termini presupposti ma è un termine anch’essa, e il tempo non è più pre-ordinato a un assoluto (ciclico o escatologico), si fanno entrambi genetici. La relazione fa nascere il tempo e il tempo fa nascere la relazione. Insieme costituiscono l’operazionalità diveni-ente dell’individuazione. 292 293
Id., pag. 91. Id., pag. 93.
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E l’allagmatica è proprio il metodo che consente di approfondire una epistemologia della relazione, che ne analizzi, per l’appunto, la multifattorialità individuante. Se, come abbiamo visto, l’immagine-movimento della cristallizzazione fornisce il paradigma diveni-ente dell’individuazione fisica, è con il piano-sequenza che affonda nella materia quantica che potremmo cogliere a pieno la problematicità costitutiva dell’individuazione. Già nel caso della cristallizzazione si era notato come il processo di formazione del cristallo rispondesse a una logica basata sul “discontinuo” (surlineare, diremmo noi); ora vedremo come mai, nel dettaglio più intimo dell’individuazione fisica, questo è possibile e cosa significa. Nel segno della “fedeltà alla terra”, nonostante la voce maggiore della filosofia si sia pronunciata nella direzione di una meta-fisica razionalista, una voce minore non avrebbe smesso di sussurrare la sua presenza in favore di una fisica che fosse anche in grado di pensare un etica. In tal senso, Simondon recupera quella tradizione che da Leucippo e Democrito, passando per Epicuro e Lucrezio, già nella filosofia antica tenta una strada diversa. Tuttavia, a dimostrazione del fatto che non è sufficiente muovere una critica a una certa metafisica (quella di stampo razionalista, per intenderci), ma occorre pensare una alternativa intesa come un piano sempre nuovo di costituzione del pensiero, la stessa fisica degli antichi tradiva un certo postulato sostanzialista, per cui la conclusione etica, come scrive Simondon, era già presupposta nel principio fisico. In altri termini: la fisica era già etica294, ma dal momento che la stessa fisica, concretamente, si presentava come un reale sostanzialmente omogeneo, pensabile attraverso le categorie di stabilità ed eternità, essendo l’aspetto del divenire facilmente assorbibile in una differenziazione solo apparente che non minava (con la contraddizione) una continuità di fondo. L’atomo degli Atomisti o il κόσμος degli Stoici si basava su di un assunto condiviso: l’assoluto. Un assoluto che ha impedito il reale fasi largo della relazione intesa come crono-morfo-genetica. È proprio con i progressi in ambito tecnico-scientifico che la natura si è svelata in modo totalmente sconvolgente, postulando l’esigenza di un nuovo assetto filosofico. Progressivamente, la discontinuità del piano naturale (inorganico ma anche organico) è 294
Id., pag. 99.
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diventata un dato inoppugnabile. Così le molecole sono diventate “centro di relazioni” e non più “depositarie di materialità”, fino all’ultima tappa di questa ricerca allorché «il à été possible de mesurer en termes de variation de niveau énergétique un changement de structure de l’édifice constitué par les particules en relation mutuelle. La variation de masse liée à une libération ou à une absorption d’énergie, donc d’un changement de structure, concrétise profondément ce qu’est la relation comme équivalente à l’être. Un tel échange, qui permet d’énoncer le rapport qui mesure l’équivalence d’une quantité de matière et d’une quantité d’énergie, donc d’un changement de structure, ne peut laisser subsister une doctrine qui rattache les modifications de la substance à la substance comme des purs accidents contingents, en dépit desquels la substance reste immodifiée» 295. Un certo cambio di passo decisivo nell’ambito della fisica comporta un necessario ripensamento delle categorie filosofiche, sicché una dottrina che consideri le modificazioni della sostanza come elementi accidentali, estrinseci rispetto alla sostanza stessa che ne rimarrebbe indifferente, immodificata, è fuori luogo: è una meta-fisica impropria, nel senso che non offre una immagine della fisica adeguata (dove per “adeguatezza” si intende esattamente la capacità creativa del pensiero di aprirsi all’incontro dissimmetrico con il reale, e non un’adeguatezza basata sulla specularità inerte e soggettivistica tra pensiero e realtà). «La relation a pu être mise au rang de l’être à partir du moment où la notion de
quantité discontinue a été associée à celle de particule. (…) La notion de discontinuité doit devenir essentielle à la représentation des phénomènes pour qu’une théorie de la relation soit possible (…). Le quantum d’action est le corrélatif d’une structure qui change par sauts brusques, sans états intermédiaires»296. In altri termini, Simondon afferma che la sua epistemologia della relazione, dunque il suo metodo allagmatico e il suo schema dell’individuazione diventano necessari alla luce della nuova teoria fisica dei quanti. Infatti, subito dopo fa riferimento proprio alla formula eisteiniana del “fotone” che riprende a sua volta la costante di Planck. In realtà, il pensiero simondoniano appare sostanzialmente influenzato e condizionato dalla prospettiva di de Broglie che, nella contesa tra Einstein e Bohr circa i fondamenti della nuova fisica, propendeva per il primo, auspicando una possibile sintesi teorica tra meccanica 295 296
Id., pag. 101. IbId..
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relativista e nuova fisica dei quanti. Quindi, l’epistemologia di Simondon, basata sul realismo della relazione, risulta essere una ipotesi teorico-filosofica di sostegno alla tesi “realista” sostenuta da Einstein – e in Francia dal de Broglie. Vedremo, nel dettaglio, quanto questo possa risultare di rilievo per il nostro discorso sulla soggettivazione possibile discutendo la sua posizione. Vedremo infatti come il bivio teorico davanti a cui Simondon vorrebbe condurre, potrebbe non essere tale. Egli intenderebbe mostrare come un realismo della relazione informato secondo il presupposto di una sintesi tra meccanica relativista (Einstein) e meccanica quantistica (secondo de Broglie) sia una buona soluzione per ovviare al problema dell’indeterminazione quantistica sostanziale (Bohr, Schrödinger, Heisenberg) che implicherebbe, dal suo punto di vista, un relativismo soggettivistico. Il bivio si porrebbe nei termini di un’alternativa tra realismo della relazione e relativismo soggettivistico. Le questioni che si sollevano sono enormi: il rapporto tra filosofia e fisica e il rapporto tra filosofia e scienza, per rimanere sul piano di una cornice epistemologica; mentre, nel merito specifico di quanto ci interessa, la questione che invece si solleva e se poi sia realmente un relativismo soggettivistico quello implicito nell’indeterminazione sostanziale e se, alla luce del fatto che tale “posizione ortodossa” circa i fondamenti della fisica quantistica avrebbe avuto la meglio sulle resistenze einsteiniane, rimanga qualcosa del paradigma postulato da Simondon. In breve, crediamo di sì e tenteremo di dimostrarlo. Il punto è che il “realismo della relazione” andrebbe integrato nei termini di un “pluralismo bio-tecno prospettico del realismo della relazione” e su tale punto Bachelard aveva visto chiaro sostenendo che l’oggetto delle scienze sia un oggetto “costruito” e che, di conseguenza, potremmo forse dire che il soggetto stesso, con le sue credenze e la sua visione del mondo, non possa che essere un indice variabile di un costruttivismo sintetico mobile. La tecnica, di cui è espressione la “misurazione” nell’operazione oggettivante-soggettivante di Heisenberg, ha valore non artificiale/artificioso, bensì co-strutturale nei termini in cui la costruzione possibile, la soggettivazione possibile come farsi del soggetto, è inevitabilmente proiezione di auto-immagini cronicamente superantesi. L’operazione di oggettivazione/soggettivazione non può non essere tecnica e, in tal senso, l’arte per un verso e la scienza per l’altro configurano l’officina multi-reale della produzione di soggettività e oggettività.
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Questo piano-sequenza di affondo nella materia riserva dunque dei colpi di scena: la nostra immagine per un inter-mezzo è forse ancora chiusa nella scatola di Schrödinger. Quale valore di realtà assegnare alla nozione di fotone? Quale valore di realtà assegnare alla doppia natura della luce, considerando che essa è sia onda che particella? Da un punto di vista storico, alla base dell’ipotesi della luce intesa come particella vi sarebbe un certo sostanzialismo, mentre alla base dell’opzione “onda” vi sarebbe un certo energetismo. L’ipotesi dettata dal principio di complementarità di Bohr, presentata nel 1927 (Congresso Internazionale di fisica a Como), per cui la luce avrebbe un comportamento sia corpuscolare sia ondulatorio e che questi, benché simultanei, non si possano manifestare allo stesso momento per via del tipo di esperimento che si mette in campo, necessita, secondo Simondon di un originale approccio sintetico. In apparenza, sembrerebbe che la contraddizione espressa dal dualismo onda-particella sia dialettica e che dunque si possa elaborarne una sintesi in tal senso. Simondon vuole innanzi tutto dimostrare come non si tratti di una contraddizione dialettica e come si richieda, quindi, un altro tipo di sintesi. In effetti, sia il significato dei due aspetti che la modalità di elaborarli mostrano un importante fattore di eterogeneità. Alla tradizione del sostanzialismo particellare corrisponderebbe un metodo deduttivo; mentre alla tradizione dell’ipotesi ondulatoria un metodo induttivo. Si è visto come Simondon non sia favorevole né a un’ipotesi sostanzialista-particellare né a una ipotesi fondata sull’energetismo. È la relazione problematica tra i due aspetti a essere per lui ragione di interesse, proprio perché tale “complementarità” richiede un nuovo tipo di riflessione. Secondo le modalità classiche della dialettica ternaria, la sintesi è, rispetto alla contraddizione, gerarchicamente, logicamente e ontologicamente superiore ai termini che riunisce. Perché si possa produrre una sintesi, occorre che i termini siano simmetrici ed omogenei. Nel nostro caso, invece, abbiamo termini asimmetrici e perciò in relazione, dunque una “sintesi” che possa rendere pensabile questa complementarità deve essere capace di non sciogliere questa dissimmetria e questa relazione, ma esprimere l’elemento genetico-individuante del dualismo. In tal senso, l’allagmatica simondoniana deve costituirsi come superamento e dell’induzione e della deduzione, entrambe incapaci di pensare la relazione quale fattore propriamente genetico (entrambi i metodi presuppongono un
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principio di individuazione). L’allagmatica deve essere quindi transduttiva (né induttiva né deduttiva): deve condurre al di là ma su di un piano tutto orizzontale.
Nous allons en ce sens essayer de montrer que la «synthèse» des notions complémentaire d’onde et de corpuscule n’est pas en fait une synthèse logique pure, mais la rencontre épistémologique d’une notion obtenue par induction et d’une notion obtenue par déduction ; les deux notions ne sont pas véritablement synthétisées, comme la thèse et l’antithèse au terme d’un mouvement dialectique, mais mises en relation grâce à un mouvement transductif de la pensée ; elles conservent dans cette relation leur caractère fonctionnel propre. Pour qu’elles puissent être synthétisées, il faudrait qu’elles soient symétriques et homogènes. Dans la dialectique à rythme ternaire, en effet, la synthèse enveloppe la thèse et l’antithèse en surmontant contradiction ; la synthèse est donc hiérarchiquement, logiquement et ontologiquement supérieure aux termes qu’elle réunit. La relation obtenue au terme d’une transduction rigoureuse maintient au contraire l’asymétrie caractéristique des termes. Ceci a pour conséquence que la pensée scientifique relative à l’individu, physique d’abord, biologique ensuite, comme nous tenterons de le montrer, ne peut procéder selon le rythme ternaire de la dialectique pour laquelle la synthèse est thèse d’une triade plus haute : c’est par extension de la transductivité que la pensée scientifique avance, non par élévation de plans successifs selon un rythme ternaire. En raison du principe de complémentarité, la relation, devenue fonctionnellement symétrique, ne peut présenter par rapport à un autre terme une asymétrie qui puisse être le moteur d’un cheminement dialectique ultérieur. En termes de pensée réflexive, la contradiction est, après l’exercice de la pensée transductive, devenue intérieure au résultat de la synthèse (puisqu’elle est relation dans la mesure où elle est asymétrique). Il ne peut donc y avoir une nouvelle contradiction entre le résultat de cette synthèse et un autre terme qui serait son antithèse. Dans la pensée transductive, il n’y a pas de résultat de la synthèse, mais seulement une relation synthétique complémentaire ; la synthèse ne s’effectue pas ; elle n’est jamais achevée ; il n’y a pas de rythme synthétique, car, l’opération de synthèse n’étant jamais effectué ne peut devenir le fondement d’une thèse nouvelle. Selon la thèse épistémologique que nous défendons, la relation entre les différents domaines de la pensée est horizontale. Elle est matière à transduction, c’est-à-dire non à identification ni à hiérarchisation, mais à répartition continue selon une échelle indéfinie297.
La sintesi transduttiva proposta da Simondon è espressione di una surlinearità sullo stesso piano. Il metodo transduttivo è anche intuizione (richiamando implicitamente Bergson):
puisqu’elle est ce par quoi une structure apparaît dans un domaine de problématique comme apportant la résolution des problèmes posés. Mais à l’inverse de la déduction, la transduction ne va pas chercher ailleurs un principe pour résoudre le problème d’un domaine (…). Elle n’est pas non plus comparable à l’induction, car l’induction conserve bien les caractères des termes de réalité compris dans le domaine étudié, tirant les structures de l’analyse de ces termes eux-mêmes, mais elle ne conserve que ce qu’il y a de positif, c’est-à-dire ce qu’il y a de commun à tous les termes, et telles que la réalité complète de chacun des termes du domaine puisse venir s’ordonner sans perte, sans réduction, dans les structures nouvelles découvertes ; la transduction résolutrice opère l’invertion du 297
Id., pag. 111-112.
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négatif en positif : ce par quoi les termes ne sont pas identiques les uns aux autres, ce par quoi ils sont disparates (au sens que prend ce terme en théorie de la vision) est intégré au système de résolution et devient condition de signification (…)298.
Quest’unico
piano
di
composizione
prevede
essenzialmente
movimenti
di
transduzione tra domini differenti. E nel senso della transduzione è spiegata anche la funzione analogica dell’allagmatica. Non si tratta di reintrodurre criteri identitari, ma di cogliere il simul nella sua operazione amplificante e riproduttivo-genetica. Posto che il metodo per approcciare il tema del dualismo onda-particella sia quello transduttivo, Simondon affronta la questione dell’individuazione fisica tra meccanica della relatività e meccanica quantistica. Come sappiamo, secondo la meccanica relativista, la massa di una particella varia in funzione della velocità. Tutto questo scardina il sostanzialismo identitario dell’invarianza e della accidentalità della relazione. Ancora più rilevante è il fatto che la stessa relazione tra la parte e il tutto venga ad essere modificata, dal momento che una singola particella può acquisire a un dato momento un’energia che tende a infinito, diventando molto più “forte” di tutto l’insieme delle particelle. Per queste ragioni, così velocemente sintetizzate, Simondon può sostenere che la relazione ha valore d’essere, che il divenire è integrato all’essere perché lo scambio di energia, la velocità, influisce direttamente sulla particella modificandola strutturalmente. La relazione è allagmatica, operazionale, individuante, ontogenetica. Non è semplicemente un modo dell’essere, un’espressione dell’essere, ma sua costituzione. Pertanto alcuna interiorità sostanziale, che pre-veda un individuo, può essere sostenuta. L’individuazione si produce sul limite, sia che questo limite sia potenziale o attuale, secondo il modello della cristallizzazione. Simondon immagina, attraverso questo modello, un realismo senza sostanzialismo, dove il realismo della conoscenza corrisponda a un accrescimento progressivo del rapporto che lega il soggetto e l’oggetto. A proposito della meccanica quantistica, il riferimento cardine è, come anticipato, de Broglie299. Simondon intende mostrare come ci sia una continuità possibile – e già questa è 298
Id., pag. 34. Il testo a più riprese citato è L. de Broglie, Ondes, Corpuscules, Mécanique ondulatoire, Albin Michel, Paris, 1945. 299
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una interpretazione condizionata dal fisico dell’“onda pilota” – tra meccanica relativista e meccanica quantistica: «Nous allons d’abord essayer d’exprimer en quelle mesure l’adoption d’un principe quantique modifie cette conception de l’individuation corpusculaire, et prolonge la conversion de la notion d’individu commancée dans la conception relativiste »300. L’ipotesi di de Broglie era infatti una generalizzazione della formula di Einstein dove figurava la costante di Planck. Ad ogni modo, Simondon intravede nella dualità onda-particella un’operazionalità allagmatica dove si dà il principio della relazione individuante a partire dalla disparità e asimmetria dei due termini coinvolti. In modo particolare, egli vede nella ipotesi del de Broglie condizioni di individuazione fisica paradigmatiche. Si tratta dello schema teorico presentato dal fisico dell’onda pilota nel 1927301. In questa fase della sua elaborazione, egli sostenne che la particella, come fosse una singolarità “informazionale”, una sorta di granello di polvere in un fluido, fosse contenuta all’interno di un’onda e che questa, a differenza del modello probabilistico, in quanto “onda fisica”, dall’andamento predicibile, potesse offrire buone opportunità di calcolo circa la posizione effettiva della particella. Simondon immagina, di conseguenza, che questa ipotesi possa garantire una individuazione fisica più efficace, a dispetto (della sua percezione) del modello quantistico ortodosso. In effetti, come abbiamo visto, la polemica tra il fronte ortodosso e il fronte realista andò accentuandosi, negli anni, proprio in occasione di questi convegni. Già nel ’27, a valle della elaborazione teorica di Heisenberg, l’ipotesi di de Broglie apparve poco convincente. La maggior parte dei fisici, infatti, si orientò in favore delle «relations d’incertitude» – come Simondon definisce il principio di indeterminazione – e della primaria valenza delle leggi di probabilità a dispetto dell’ipotesi di un «déterminisme caché»302 – ovvero le famose “variabili nascoste” ricercate da Einstein, perché Dio non può giocare a dadi con il mondo…. Nel 1953, però, de Broglie riprende il suo progetto, a seguito dell’interesse mostrato dal fisico D. Bohm (1917-1992) per la sua ipotesi e per il paradosso EPR, (fermo restando che
300
Id., pag. 130 [corsivo nostro]. In occasione del Conseil de Solvay dell’ottobre dello stesso anno. 302 Id., pag. 133-134. 301
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la natura probabilistica e non localista della fisica quantistica, anche a seguito dei contributi di Bohm, venne rimarcata, si veda l’esperimento di Bell303). Simondon, che elabora la sua tesi di dottorato a qualche anno di distanza, scrive: «Les corpuscules matériels, et également les photons, sont représentés comme des singularités au sein d’un champs spatio-temporel à caractère ondulatoire, dont la structure fait intervenir le quantum d’action de Planck. Alors pourraint être unies la conception de Einstein sur les particules et celle de de Broglie exposées dans la théorie de la double solution [la tesi onda-corpuscolo dei primi articoli di de Broglie] : ainsi serait réalisée une ‘synthèse grandiose’ de la Relativité et des Quanta»304. Questa sintesi, detto in breve, doveva contemplare l’idea di costruire una teoria di campo classica non lineare, dove le particelle sono parti del campo a densità elevata e le condizioni di quantizzazione sono condizioni di risonanza relative alla parte ondulatoria del campo, risolvendo il dualismo onda-corpuscolo assumendo il postulato secondo cui una particella debba essere sempre accompagnata dal suo campo “pilota”305. Questa sintesi, che Simondon può leggere secondo la sua chiave di transduzione, lo entusiasma particolarmente perché in essa egli vorrebbe vedere attivo il paradigma della propria individuazione fisica: il fatto, cioè, che a un corpuscolo sia sempre associato un campo senza cui esso non esisterebbe affatto e che questo campo esista realmente, non essendo pura espressione di probabilità (come invece accade con la funzione d’onda di Schrödinger, a cui Simondon si riferisce parlando di “onde de probabilité”). Il campo sarebbe quindi una “grandezza fisica vera” associata ad altre grandezze che caratterizzano il corpuscolo. Esso non farebbe parte dell’individuo ma ne indicherebbe delle proprietà (come la polarità, che tra l’altro figura nell’ipotesi di Bohm del 1952). A questo punto egli conclude sostenendo che in tal modo la realtà fisica della dualità onda-particella non sarebbe più quella espressa dal principio di complementarità di Bohr ma il coglimento di due realtà effettivamente esistenti come simultaneamente date nell’oggetto306. 303
In effetti Bohm riprese il paradosso EPR per elaborarne una sperimentazione reale. Fu lui, con Aharonov, a considerare che, per verificare la natura dell’entanglement, bisognasse congegnare un meccanismo a “scelta ritardata”, ipotesi messa poi in pratica da Bell. 304 G. Simondon, pag. 134. 305 A. Maccari, L’interpretazione di de Broglie-Einstein della meccanica quantistica, http://web.tiscali.it/lenadev/debroglie/ 306 G. Simondon, pag. 134.
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In effetti, la domanda che pone Simondon riguarda il tipo di relazione attraverso cui sono legate l’onda e il corpuscolo. È chiaro che, dal suo punto di vista, se uno dei due termini fosse aleatorio non si potrebbe dare individuazione fisica (si perderebbe la condizione di disparità asimmetrica di partenza, dunque occorre siano reali e messi in gioco dalla relazione). Ma che significato dobbiamo dare noi a questa presunta “aleatorietà”? Sembra che, a un certo punto, Simondon, per seguire de Broglie, perda di vista il suo stesso percorso. Se volessimo intendere l’aleatorietà come una negazione di esistenza o una diminuzione di realtà (ovvero la nozione di possibilità come opposta alla nozione di realtà, e non come una potenzialità della realtà opposta solo all’atto giacché inattuale), perderemmo di vista proprio la logica della potenzialità e della virtualità, appiattendoci su di un paradigma sostanzialista con la sua logica binaria aut-aut. È chiaro che qui egli intende “aleatorio” come sinonimo di possibilità-che-non-esiste-realmente, riprendendo l’argomento usato da de Broglie per contestare la versione quantistica ortodossa di Copenaghen, per cui un qualcosa che è una pura probabilità non potrebbe avere un’influenza reale sul sistema, mostrando, presumibilmente, l’assurdità del ragionamento dell’avversario. Il punto è che la posizione di Bohr non si comprende nei termini di una “aleatorietà” così intesa, dal momento che è proprio la realtà a presentarsi come originariamente aleatoria, il che equivarrebbe forse a una sintesi di fatto davvero transduttiva! Una sorta di “ferro ligneo”, di disparità originaria eppure possibile. È, in questo caso, il “realismo” di Einstein a risultare a priorico e capzioso, poiché egli può leggere la fisica quantistica di Copenaghen come “incompleta” solo a partire da questo frame congetturale. Procedendo per gradi, però, riprendiamo la lettura del testo di Simondon. Rispetto alla domanda su come interpretare la relazione onda-particella, egli oppone, come è ovvio, la funzione d’onda di Schrödinger all’onda pilota di de Broglie, adottando sostanzialmente la lettura, a tratti retrospettiva, che della questione dà quest’ultimo nel 1953 307. Schrödinger negherebbe la realtà del corpuscolo e Bohr la intenderebbe nel senso di due facce complementari della stessa realtà. La terza via sarebbe proprio quella di ammettere come fatto fisico la dualità onda-particella; una strada percorsa dal de Broglie a partire dal 1924. In effetti, nel 1927 egli aveva presentato una versione troppo semplificata della sua teoria 307
Testo citato, L. de Broglie, Communication à la séance de la Société Française de Philosophie, séance du 25 April 1953.
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originaria, che però ritiene di poter rilanciare nel 1953, in una versione aggiornata. E Simondon cita:
En 1927 , je la considérais [la teoria in questione] comme une solution avec singularité des équations linéaires admises par la Mécanique ondulatoire pour l’onde Ψ. Diverses considérations, et en particulier le rapprochement avec la théorie de la Relativité généralisée dont je parlerai plus loin, m’ont fait penser que la véritable équation de propagation de l’onde u pourrait être non linéaire comme celles que l’on rencontre dans la théorie de la gravitation d’Einstein, équation non linéaire qui admettrait comme forme approximative l’équation de la Mécanique ondulatoire quand les valeurs de u seraient assez faibles. Si ce point de vue était exact, on pourrait même admettre que l’onde u ne comporte pas une singularité mobile au sens strict du mot singularité, mais simplement une très petite région singulière mobile (de dimensions sans doute de l’ordre de 10-13 cm) à l’intérieur de laquelle les valeurs de u seraient assez grandes pour que l’approximation linéaire ne soit plus valable, bien qu’elle soit valable dans tout l’espace en dehors de cette très petite région. Malheureusement ce changement de point de vue ne facilite pas la résolution des problèmes mathématiques qui se posent, car, si l’étude des solutions à singularité des équations linéaires est souvent difficile, celle des solutions des équations non linéaires est plus difficile encore308.
De Broglie punta, in quel periodo, a riprendere la propria teoria iniziale, detta della «doppia soluzione», per reinquadrarla secondo la meccanica relativista e
tralasciare
l’ipotesi dell’onda pilota (così come era stata presentata nel ’27) perché avrebbe condotto a una certa forma di nominalismo, portando «à ce résultat inacceptable de faire déterminer le mouvement du corpuscule par une grandeur, l’onde 'JI , qui n’a aucune signification physique réelle, qui dépend de l’état des connaissances de celui qui l’emploie et qui varier brusquement lorsqu’une information vient modifier ces connaissances»309. Egli dunque confida in una sintesi «grandiosa» tra meccanica quantistica e meccanica relativista, che superi l’indeterminazione e fornisca una visione unitaria della realtà a dispetto di ogni deriva soggettivistica. Come sottolinea Simondon, infine,
Cette ‘grandiose synthèse’ de la Relativité et des Quanta aurait entre beaucoup d’autres, l’avantage d’éviter le ‘subjectivisme’, apparenté, dit Louis de Broglie, à l’idéalisme au sens des philosophes, qui tend à nier l’existence physique indépendante de l’observateur. ‘Or, le physicien reste instinctivement, comme Meyerson l’a naguère fortement souligné, un réaliste’ et il a pour cela quelques bonnes raisons : les interprétations subjectivistes lui causeront toujours une impression de malaise et je crois que finalement il serait heureux de s’en affranchir’. (…) L’onde Ψ statistique [la 308
L. de Broglie, Bulletin de la Société Française de Philosophie, Octobre-Décembre 1952-1953, pag. 147 in G. Simondon, pag. 139. 309 IbId. [corsivo nostro].
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funzione d’onda di Schrödinger] ne pourrait plus alors être considérée comme une représentation complète de la réalité ; et l’indéterminisme qui accompagne cette conception, de même que l’impossibilité de représenter les réalités de l’échelle atomique d’une façon précise dans le cadre de l’espace et du temps par des variables qui nous seraient cachées, devraient être considérées comme incompatibles avec cette nouvelle représentation de la réalité physique310.
Nel dibattito di quegli anni circa i fondamenti della fisica, Simondon appare chiaramente propendere per l’opzione realista, mediatagli dal de Broglie. L’opzione alternativa, quella “ortodossa”, per cui in fisica quantistica non ci sarebbero variabili nascoste ed essa sarebbe caratterizzata da una “pura probabilità” e dal principio di indeterminazione, gli è tuttavia ben presente311, anche con i suoi caratteri di coerenza matematica e formale, ma finisce con l’interpretarla nella chiave soggettivistica proposta dal de Broglie. Ma da cosa dipenderebbe questo soggettivismo? Per rispondere a questa domanda, schematizziamo qui di seguito i caratteri delle due prospettive secondo Simondon-de Broglie.
Prospettiva
che discende da un postulato indeterminista (Bohr, Heisenberg,
Schrödinger): 1. L’individuo fisico è ciò che è in funzione di una relazione al “sujet mesurant”; 2. La relazione, dunque, non è della stessa natura dei termini, essendo puramente «formelle» e «artificielle»;
3. L’individuo, stando a queste condizioni, è definito solo secondo un criterio d’uso stabilito dalla relazione formalistica e artificiale; 4. La relazione, in quanto probabilitaria, è accidentale, non ha dunque valore d’essere, ed è indipendente dai termini. 5. Rimarrebbe, pertanto, un certo «substantialisme statique». 6. L’individuo, stando a questa individuazione, sarebbe assoggettato dalla relazione aleatoria, senza mettere in gioco il proprio stato energetico. 7. Il piano di base è cartesiano. Su questo punto Simondon prende le distanze da de Broglie. Quest’ultimo, infatti, auspicava, nell’interesse del realismo e del localismo 310 311
Id., pag. 140-141 [corsivi nostri]. L’opera citata di de Broglie è la stessa di cui sopra, pag. 156. Ne ripropone una sintesi subito dopo, pag. 141-142.
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(in esso implicito), un ritorno alla rappresentazione cartesiana dello spazio e del tempo (Cartesio era contrario all’ipotesi di “azioni a distanza”). Simondon, invece, ritiene che un’aderenza al piano cartesiano sia proprio all’origine di una definizione dell’individuo, identificato con i limiti geometrici dati dalla sua figura, rispetto a cui egli ha già rivendicato una individuazione che oppone “limite” a “borne” (confine). Per Simondon, l’individuo non può risultare “confinato”, ma in una crono-morfo-genesi giocata sul limite. Per Cartesio la relazione rimane estranea ai termini, essa è accidentale rispetto alla sostanza, perciò egli ritiene che sostanzialismo cartesiano sia la cornice teorica di riferimento del probabilismo e del suo relativismo soggettivistico. La teoria non determinista è solo «un déterminisme qui postule que les paramètres cachés n’éxistent pas»312. Il fatto è che la determinazione, in Cartesio e nella teoria non determinista, sarebbe la stessa per le sue caratteristiche di non operazionalità relazionale. Scrive Simondon: essa è rapporto, non relazione.
Prospettiva che discende da un postulato determinista (de Broglie, Einstein): 1. Nella teoria detta della “doppia soluzione”, la relazione ha valore d’essere. All’individuo appartiene l’onda di cui è singolarità. È l’individuo a portare lo strumento (l’onda fisica) attraverso cui sarà determinata la sua posizione; 2. L’individuo non può essere definito prima della relazione individuante; esso porta attorno a sé ciò che co-determinerà la sua posizione; 3. La relazione esiste dunque sotto forma di “campo” ed esprime un potenziale reale, non formale (nominale). Ciò che è potenziale esiste; 4. L’individuo non può essere pensato come isolato: è essere e relazione. 5. L’attività dell’individuo è transduttiva e si esercita attraverso un campo di forze che modifica tutto il sistema in funzione dell’individuo e l’individuo in funzione di tutto il sistema (teoria della relatività einsteiniana). 6. Le leggi quantiche indicano la non “continuità” della relazione, nel senso che essa procede gradualmente e consente perciò al sistema di essere stabile o metastabile. 312
Id., pag. 144.
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7. Nel realismo la relazione è sempre scambio energetico co-determinante le parti del sistema.
Andando oltre questi due schemi, Simondon ipotizza una sua via che denomina “teoria del tempo transduttivo “ o “teoria delle fasi dell’essere”. Ne riassumiamo i caratteri qui di seguito, prima di discutere tutti gli aspetti esposti fin qui. 1. Si tratterebbe di una teoria che non può essere esaustivamente compresa né in un quadro determinista né in un quadro indeterminista. Il determinismo può essere utilizzato qualora il sistema considerato non sia “teatro” di alcuna individuazione (nessuno scambio tra struttura ed energia) e rimanga topologicamente identico tra il primo e il dopo di un evento. L’indeterminimo può essere utilizzato quando avviene un cambiamento completo di struttura, passando da un ordine di grandezza a un altro. 2. È una nuova teoria del divenire, in cui determinismo e indeterminismo sono solo due casi limite; 3. Si applica a tutti i domini e non solo al micro-mondo dei quanti; 4. Al fine di produrre questa generalizzazione, occorre una riforma della topologia e della cronologia dell’assiomatica fisica; 5. L’individuo fisico è un insieme crono-topologico. Esso modifica la sua struttura anche attraverso il tempo, ovvero si auto-condiziona. 6. Si dà sempre uno scarto tra cronologia e topologia dell’individuazione. 7. Pensare l’individuazione come ciò che accade in un insieme significa porre una realtà primaria che è preindividuale. Dunque l’individuo corrisponde a una particolare dimensione del reale con le sue coordinate crono-topologiche. Essendo questa relazione cronica, l’individuo ha una consistenza sempre variabile, più o meno stabile. Essa poggia su delle basi quantiche e dunque dipende da soglie. 8. L’in-formazione, in questo sistema relazione inter-comunicante, ricopre un ruolo decisivo (come nel caso del germe cristallino). Essa può intervenire sullo stato di risonanza del sistema a modificare il suo stato.
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9. Sarà proprio attraverso l’indice o capacità di ricezione dell’in-formazione di un sistema che si potrà pensare una individuazione del vivente. 10. L’individuazione vivente si presenta come un rallentamento dell’individuazione fisica, una tendenza a mantenere progressivamente attivo uno stato di risonanza interna e a un processo di neotenia. Come in un chiasma tra visibile e invisibile, di questa individuazione si può cogliere il dimensionamento crono-topologico, non il preindividuale che lo sottende. Discutiamo brevemente sia la prospettiva simondianana circa le due ipotesi, una realista l’altra ortodossa, della fisica quantistica; sia le implicazioni di questa questione sulla sua specifica proposta teorica. Il punto che ci è sembrato più rilevante cogliere, fin dall’inizio, è che nella disputa circa i fondamenti della fisica fosse in gioco principalmente un’immagine del reale, e che quindi un’opposizione realisti-ortodossi fosse sostanzialmente capziosa. In Bohr, Schrödinger, Heisenberg c’è piuttosto il riconoscimento del dato di una ineludibile problematicità della realtà quantistica – e forse di tutta la realtà, allorché essa non può più essere sussunta sotto un’unica esaustiva descrizione. Per loro, l’immagine del reale è essenzialmente problematica. Non si tratta del problematico imperniato sul nulla di cui ci parla la filosofia moderna (da Cartesio a Kant, per fare il “giro corto”); bensì del problematico proprio del piano di immanenza. Questo, infatti, si configura esattamente come topologia dell’et/et, in cui l’aut-aut non è che una regionalizzazione possibile (ovvero una sua potenza/capacità nell’attualizzazione). La realtà newtoniana di Einstein e, a dispetto delle sofisticate affermazioni anticartesiane di Simondon, sostanzialmente classica proprio nella sua ostilità al non localismo, non è per questo meno “reale” o “più reale”, semplicemente descrive ciò che può descrivere (i fenomeni del macromondo). In fondo, una pseudo sintesi tra una veduta e l’altra è stata trovata laddove è confermato che sia nel micromondo che nel macromondo l’informazione non potrebbe viaggiare a una velocità maggiore di quella della luce, ma si è forse ben lontani dalla definizione di un’unica immagine del reale allorché per questo si intenda un’unica modalità di descrizione dei fenomeni che lo popolano.
188 188
E veniamo allora alla traduzione di questa opposizione realisti-ortodossi nella ancora più
tendenziosa
opposizione
realisti-relazionisti/relativisti-soggettivisti
proposta
da
Simondon-de Broglie. Rimanendo al paradigma dell’individuazione simondoniano, che certamente funziona benissimo nel contesto einsteiniano della relatività, ci chiediamo, come più sopra abbiamo già anticipato, se il suo relazionismo possa venire realmente intaccato dall’intervento di una misurazione con accenti probabilistici nel processo di individuazione. Ci chiediamo, quindi, se davvero sia legittimo intendere, come lui ha fatto, questa misurazione come “soggettiva” e la particella privata della sua realtà originaria di relazionalità. A noi sembra che, al contrario, la vera insidia per un paradigma dell’individuazione – e, soprattutto, della soggettivazione – sia il postulato di una realtà monolitica. In altri termini, sostanzialista è forse proprio la prospettiva di Einstein rispetto alla nuova fisica. E sostanzialista è presupporre che il soggetto di quella misurazione sia il soggetto del pensiero moderno, il soggetto della conoscenza – quello descritto dalla volontà di potenza intesa nell’ottica heideggeriana, su cui si basa tutta una deriva relativista del prospetticismo nietzscheano. Perché non vedere, invece, quel soggetto coinvolto nella misurazione come un soggetto che, proprio in virtù del suo carattere “perturbativo”, è interno a un sistema senza interno: laddove per “interno” si intende, con Simondon, quel nucleo identitario non più ponibile in termini a priorici. Il soggetto della fisica quantistica è esattamente nel campo della co-individuazione inaugurato da Simondon come officina allagmatica, la cui immagine per un inizio è un mattone di terracotta, l’immagine-movimento quella del processo di cristallizzazione e il piano-sequenza questo viaggio dentro alla materia fino alle sue pulsazioni quantistiche. In altri termini il paradigma simondoniano funziona al di là delle sue prese di posizione circa quanto, all’epoca, si incominciava a comprendere della nuova fisica. Se accettiamo il postulato di una epistemologia basata sulla realtà della relazione, non ci contraddiciamo se non intendiamo più il “soggetto” di quella misurazione in termini soggettivistici e relativistici. Esso non è un termine sostanzialista cui è subordinato/relativo un oggetto. Il “fenomeno” di Bohr non è il fenomeno kantiano: si tratta invece di un relazionismo che non lascia spazio a protagonismi soggettivistici. Inoltre, sempre non venendo meno a questo postulato della realtà della relazione, perché considerare la
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misurazione come “artificio” che va a inficiare la realtà della relazione? Dovremmo allora presupporre una natura che si oppone a un’artificialità (cultura) e questo sì che sarebbe reintrodurre un sostanzialismo soggettivistico. Quindi non ci contraddiciamo se ammettiamo il postulato della realtà della relazione ed escludiamo che la misurazione introduca un artificio che esclude l’effettiva relazione del corpuscolo. Certo, Simondon ha tentato di realizzare su scala quantica una individuazione allagmatica, puntando a ottenere il dimensionamento di un individuo particellare, interrogando la natura della relazione onda-particella, ed è voluto rimanere quanto più possibile aderente a quel livello del micromondo; ma è pur vero che il suo postulato è filosofico, non scientifico-sperimentale. Per quanto ci riguarda, è di rilievo il paradigma dell’individuazione rispetto ai margini di soggettivazione possibile su di un piano che, a questo punto, possiamo ben definire “obliquo” (chiasmatico, complesso, interdisciplinare).
2.5. G. Bachelard e il costruttivismo L’epistemologia di G. Bachelard, richiamata dallo stesso Simondon in più luoghi e in riferimento al suo ideale di una “connaissance approchée”313, ci consente di chiarire alcuni aspetti decisivi di questo rapporto tra filosofia e scienza nel senso di un costruttivismo della soggettivazione (e dell’oggettivazione); egli è, infatti, tra i filosofi che maggiormente si sono occupati di tutti i rivolgimenti che hanno interessato le scienze fisiche delle prima metà del ventesimo secolo: da Einstein ad Heisenberg314. Nel nostro discorso ci limiteremo a riprendere Dialettica della durata315, per coglierne i riferimenti a Bergson, e poi Filosofia del non316, per delineare il quadro concettuale di un razionalismo non sostanzialista, riportando alcune autorevoli letture critiche.
313
G. Simondon, L’individuation, pag. 84 e poi pag. 144. Così come sottolinea M. R. Abramo introducendo il suo saggio su Bachelard e lo “spazio” della fisica contemporanea, in Ri-cominciare. Percorsi e attualità dell’opera di G. Bachelard, a cura di F. Bonicalzi e C. Vinti, Jaca Book, Milano, 2004, pagg. 81-96. 315 G. Bachelard, (1936), Dialettica della durata, Bompiani, Milano, 2010. 314
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1. In Dialettica della durata (1936), è discussa, sulla scorta di una polemica nei confronti del bergsonismo, la questione della temporalità da un singolare punto di vista dialettico. Partendo da una posizione di radicale anti-sostanzialismo e, di conseguenza, anti-realismo, egli negata la possibilità di una “immediatezza” e di una “datità originaria” della durata temporale. Al contrario, afferma l’ipotesi di un costruttivismo della durata: «La continuità psichica non è una continuità data, ma un’opera, resterebbe da mostrare come si costruisce una durata, come si formano le permanenze dell’essere al livello dei suoi diversi attributi. (…) Ciò che dura è ciò che re-inizia sempre» (DdD), e ancora: «Non vi è data né durata in cui non ci sia costruzione; non vi è data senza dialettica, senza differenze. La durata è complesso degli ordinamenti multipli che si assicurano l’uno sull’altro » (DdD). La durata va dunque colta per mezzo di una “ritmoanalisi”, ovvero una analisi che, presupponendo una discontinuità temporale percorsa da esitazioni, colga il “sistema di istanti” mediante cui si ripete l’operazione costruttiva e narrativa del senso, sottolineando un tratto di non suturabile apertura e criticità. La durata, divenendo in maniera “polifona”, si profila dunque come una condotta creativa, una partitura ad opera di una razionalità, la quale, evidentemente, non si offre come estrinseca a quest’atto di creazione stesso: «Il carattere è una storia tendenziosa dell’io». «Cos’è che resta?», scrive Bachelard e continua: «Solo ciò che ha ragione di re-iniziare»: la teoria di un sistema di istanti da ripetersi nel getto interessato di un auto-coglimento sostiene la complessità di un gesto ogni volta nuovo. L’anti-bersgonismo si misura, dunque, rispetto all’elemento costitutivo della negazione e di una dialettica differenziale; 2. il tema della negazione, però, è approfondito nell’altro testo cui vogliamo fare riferimento: Filosofia del non (1962), il cui obiettivo è un tentativo di sintesi fra razionalismo e materialismo nella filosofia della conoscenza. Si parla, infatti, di un rationalisme appliqué e di un matérialisme rationnel. Nel capitolo Il valore sintetico della filosofia del non si spiega quale sia la funzione del “non” e in che termini si possa parlare di “dialettica”: «La filosofia del non [corsivo dell’autore] 316
Id., (1962), Filosofia del non. Saggio di una filosofia del nuovo spirito scientifico, Armando Editore, Roma, 1998.
191 191
non ha nulla a che vedere con una dialettica a priori. In particolare essa non può affatto mobilitarsi intorno a dialettiche hegeliane» e «Il bisogno di nozioni fondamentali dialettizzate, la preoccupazione di mettere in discussione i risultati acquisiti, l’azione polemica incessante della ragione non devono trarre in inganno sull’attività costruttiva [corsivo nostro] della filosofia del non. La filosofia del non non è una volontà di negazione. (…) è fedele alle regole all’interno di un sistema di regole» (FdN). Smarcandosi da un equivoco che vedrebbe prevalere in questo assetto una piega polemica e disfattista circa la funzione stessa della filosofia rispetto alle scienze, la questione fondamentale è che, a partire dalla constatazione del carattere rivoluzionario implicita nell’evoluzione dei saperi scientifici (fisica e chimica contemporanee, principalmente), occorre una revisione critica e strutturale dell’armamentario concettuale consegnatoci dalla tradizione filosofica. In altri termini, l’autore sostiene, fin dagli esordi del suo pensiero, l’inaggirabilità di un confronto con le scienze, da cui la filosofia, rispetto ai propri assetti categoriali, non può non uscire mutata, venendo a modificarsi i termini stessi del ragionamento filosofico: come la nozione di causa o di sostanza. La scienza ci consegna una realtà che è «costruzione fenomenotecnica», laddove l’oggetto non preesiste alla conoscenza ma si produce con la conoscenza stessa: la teoria costruisce l’oggetto di modo che esso appaia secondario e non primario nel processo del sapere. Si parla allora di una ontologia costruttiva e di un surrazionalismo capace di “integrazione/i”. Definito questo ordine di idee, assume qui particolare rilievo il valore della discontinuità, analizzata a proposito della storia delle scienze e della nozione di coupure épistémologique, e di una conseguente esigenza di una psicologia dell’ostacolo epistemologico. I saperi non evolvono senza rotture epistemologiche, rendendo necessaria una emendazione delle cornici categoriali di partenza. In tal modo, il re-inizio reinquadra totalmente una visione del mondo e richiede una razionalità plurale, aperta, condivisa e partecipata: «ciò che caratterizza il surrazionalismo è proprio la sua capacità di divergere, di ramificare» poiché «la realizzazione [corsivo dell’autore]
viene
prima della realtà». I saperi scientifici richiedono allora una filosofia “distribuita”,
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una «dialettica costruttiva». Scrive Bachelard: «accedere alla scienza è ringiovanire spiritualmente, è accettare una mutazione brusca che deve contraddire il passato». Il costruttivismo sintetico delineato nella Filosofia del non segna l’esigenza di un passaggio da una epistemologia deduttiva e analitica a un’epistemologia induttiva e sintetica e di una necessaria “pedagogia” della ragione in direzione di un aperto surrazionalismo: «Cosa sarebbe una ragione senza occasioni per ragionare? La pedagogia della ragione deve quindi approfittare di tutte le occasioni [corsivo nostro] per ragionare» o, come pure si afferma: «approfittare di tutte le trasformazioni per trasformarsi». Il tema dell’incontro (ocursus, potremmo dire, evocando l’etica spinoziana) tra filosofia e sapere scientifico segna il passo di una strutturale reciproca e aperta sperimentazione; 3. i caratteri dell’epistemologia di Bachelard vengono ben tracciati nel testo critico a cura di G. Canguilhem e D. Lecourt, L’epistemologia di Gaston Bachelard (1969). Il primo parla di un tentativo di épistémologie concordataire, facendo leva sulla doppia attenzione, registrata nel discorso filosofico dell’autore, accordata da un lato alla epistemologia come storia e filosofia del sapere scientifico e dall’altro alla rêverie, ovvero al lato più letterario afferente alla modalità di una “psicoanalisi” della ragione; ma anche al tentativo di fondere insieme materialismo della conoscenza e razionalismo filosofico. Lecourt, invece, approfondisce il tema (apparentemente contraddittorio) di una «epistemologia storica», svolgendo il senso di questo attributo a partire dal valore della “rottura” e della “ricorrenza”, termini che troveranno spazio in Althusser (Cours de philosophie pour scientifiques) e T.S. Kuhn (Struttura delle rivoluzioni scientifiche). 4. Di particolare rilievo ai fini della nostra ricerca, appare la categoria di Soggetto in Bachelard. «Se l’oggetto mi istruisce io mi modifico»: è una fra le tante acute affermazioni dell’autore, tratta in questo caso da La formation de l’esprit scientifique. Contribution à une psychanalyse de la connaissance objective, del ’38, che fa luce proprio sulla dinamica di mutamento implicita nelle scoperte scientifiche e ai conflitti propri della desoggettivazione richiesta da una
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condizione di incessante re-inizio della razionalità. Il Soggetto in Bachelard si spiega a partire dal costruttivismo sintetico ed è di centrale importanza sia nella definizione dello “Spirito” scientifico che nella conseguente costituzione di un soggetto della città scientifica. Si tratta di un soggetto razionale, ma la cui razionalità è esposta strutturalmente all’errore e si costruisce, appunto, in un continuo eteroriferimento. L’operosità e la costruttività rimandano alla nozione di lavoro, per cui il Soggetto si costituisce in un lavorìo al crocevia tra saperi differenti, come integrale di variazioni. A proposito dello statuto intersoggettivo del sapere scientifico, Bachelard parla di un uomo “alla millesima persona del singolare”, rimandando alla frazionalità composita della ragione tecnica.
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III. Capitolo Immagini per una soggettivazione possibile: un po’ di possibile se no soffoco…
Nessuna teoria della materia sfugge a questa necessità. Riducete la materia a degli atomi in movimento: questi atomi, anche se sprovvisti di qualità fisiche, tuttavia si determinano soltanto rispetto ad una visione e ad un contatto possibili, quella senza illuminazione e questo senza materialità. Condensate l’atomo in centri di forza, dissolvetelo in vortici che si evolvono in un fluido continuo: questo fluido, questi movimenti, questi centri, si determinano, anch’essi, soltanto rispetto ad un tatto impotente, ad un impulso inefficace, ad una luce scolorita; sono ancora delle immagini317. H. Bergson
L’être précédant l’individu n’a pas été individué sans reste; il n’a pas été totalement résolu en individu et milieu; l’individu a conservé avec lui du pré-individuel, et tous les individus ensemble ont ainsi une sorte de fond non structuré à partir duquel une nouvelle individuation peut se produire318. G. Simondon
Il mondo si fa mentre Dio calcola, e non si darebbe mondo se il calcolo fosse giusto. Il mondo è sempre assimilabile a un resto, e il reale nel mondo non può essere pensato se non in termini di numeri frazionari o anche incommensurabili319. G. Deleuze
317
Idem, pag. 27. G. Simondon, pag.295. 319 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, pag. 287. 318
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Figura 19. Tomas Saraceno, Stillness in motion,
2007 (particolare
dell’istallazione)
3.1. Lucori differenziali e immagini-cristallo
A un certo punto, in Differenza e Ripetizione, allorché Deleuze si trova ad affrontare la questione di una possibile immagine anti-dogmatica del pensiero, usa l’espressione “lucore differenziale”. Si riferisce alla nozione di ἰδέα. In polemica con la tradizione razionalista, chiara e distinta, caratteristica del pensiero moderno, egli riprende la Dottrina kantiana delle Facoltà, elaborata nella terza critica, e, richiamando contaminazioni nietzscheane, può scrivere: L’uso trascendete delle facoltà è un uso propriamente paradossale, che si oppone al loro esercizio con la regola di un senso comune. Pertanto l’accordo delle facoltà non può prodursi se non come un accordo discordante, poiché ciascuna non comunica all’altra se non la violenza che la pone in presenza della propria differenza e della propria divergenza con tutte le altre. Kant per primo ha mostrato la possibilità di un tale accordo mediante la discordanza, con l’esempio del rapporto dell’immaginazione e del pensiero così come si esercitano nel sublime. C’è dunque qualcosa che si comunica bensì da una facoltà all’altra, ma si trasforma e non forma un senso comune. (…) il termine Idee va riservato non ai puri cogitanda, quanto piuttosto a istanze che vanno dalla sensibilità al pensiero e dal pensiero alla sensibilità, in ogni caso in grado di generare, secondo un loro ordine proprio, l’oggetto-limite o trascendente di ogni facoltà. Le Idee sono i problemi, ma i problemi recano soltanto le condizioni in cui le facoltà accedono al loro esercizio superiore. Sotto questo aspetto le Idee, lungi dal contare su un buon senso o un senso comune di sfondo, rinviano a un parasenso che determina la sola comunicazione delle facoltà disgiunte. Così esse non sono rischiarate da una luce naturale, ma producono luce, come lucori differenziali che oscillano e si trasformano. La concezione stessa di una luce naturale non è separabile da un certo valore attribuito all’Idea, il “chiaro e distinto”, e da una certa origine data, “l’inneità”. (…) Il chiaro e il distinto costituiscono la logica del riconoscimento, come l’inneità costituisce la teologia del senso comune, dato che ambedue hanno già istituito l’Idea nella rappresentazione. La restituzione dell’Idea nella dottrina delle facoltà comporta la rottura del chiaro e distinto, o la scoperta di un valore dionisiaco secondo cui l’Idea è
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necessariamente oscura in quanto distinta, tanto più oscura quanto più è distinta. Il distinto-oscuro diviene qui la vera tonalità della filosofia, la sinfonia dell’Idea discordante320.
Sinesteticamente, potremmo dire che il lucore differenziale è l’ἰδέα della dissonanza. Si tratta della visione di un salto quantico o il salto quantico che determina la visione come visibilità stocastica. Il sublime, l’estetica, è il luogo di produzione di questo parasenso. Il piano di un empirismo superiore trova la sua ridondanza a partire dal sublime, dalla forzatura che pro-voca un passaggio di stato e di energia, fino alla formazione di un pensiero creativo – in quanto il pensiero è creazione, non rappresentazione identitaria ma transduzione differenziale. L’immagine, allora, può diventare un porta-segno di questo lucore differenziale e, genealogicamente, nella sua pulsazione siderale sfociare nell’immagine-cristallo: «L’immagine-cristallo non era il tempo, ma si vede il tempo nel cristallo. Nel cristallo si vede
l’eterna fondazione del tempo, il tempo non-cronologico, Kronos e non Chronos. È la potente vita non organica che rinserra il mondo».321 Il Deleuze dell’Immagine-movimento e, quindi, dell’Immagine-tempo, riprendendo esplicitamente Bergson e mostrando una assonanza simondoniana di fondo, riformula il cominciamento di Materia e memoria e l’inorganicità emblematica della topologia-cronomorfo-genetica, per superare il limite stesso di una critica mossa contro l’immaginedogmatica-del-pensiero, che si risolverebbe in una traduzione di questa immagine come cliché, pura rappresentazione, al più da negare, nientificare, ma non da cogliere quale evento complesso del senso. Nel pensiero, però, vi è una risorsa sempre ulteriore, fondata nel suo “fuori” irriducibile, che fa sì che da questa stessa critica sortisca quel piano di costituzione che è il piano di immanenza virtuale, per cui sia possibile definire non un limite del pensiero ma il pensiero sul limite: il pensiero del salto quantico. Ciò che presiede alla
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Id., pagg. 190-191 [corsivi nostri]. Déleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, p. 96
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trasformazione, alla visibilità, alla percezione e all’auto-percezione. Il problematico come indiscernibilità che fonda il pluralismo dei possibili quali potenze del reale. In tal senso, il piano di immanenza realizza quel progetto di critica radicale cui aspirava Nietzsche e, allo stesso tempo, esprime una topologia pluralista capace di assegnare un luogo a ogni regionalità attuale: dire “io” in ogni forma possibile, secondo la formula di una pari dignità cui è riferito il proprio indice di coerenza sistemica, ovvero un senso specifico.
3.2. Allagmatica per una soggettivazione possibile Ci siamo introdotti nel cantiere simondoniano, guidati dalla sua immagine-per-uninizio, il mattone di terracotta, scorrendo poi sul piano-sequenza fino in fondo alla materia del micro-mondo, per tentare di rinvenire ora, in queste pagine conclusive, l’ipotesi di una propedeutica per una soggettivazione possibile. Nell’allagmatica transduttiva leggiamo una grammatica e una sintassi della soggettivazione, intendendo, appunto, la costituzione del soggetto come processo relazionale aperto, come campo post-trascendentale, come critica immanente. È nella nostra prospettiva, lo sottolineiamo, che il pensiero simondiano è posto su piano di immanenza, giacché, dal punto di vista dell’autore, “immanenza” e “trascendenza” sono due nozioni utilizzate in maniera classica. In modo particolare, la nozione di “immanenza” è utilizzata come funzionale al sostanzialismo tradizionale, per cui, secondo quanto direbbe il Deleuze di Che cos’è la filosofia?, si tratta di una immanenza attribuita-a e non di una immanenza come luogo della distribuzione aberrante, ovvero di una immanenza che presuppone il Soggetto e non di una immanenza che è campo di produzione dei soggetti e, dunque, luogo di soggettivazioni possibili. In tal senso, la differenza tra Simondon e Deleuze è “critica”. Se il primo vuole mostrare un campo di produzione che scardini la posizione dell’individuo da ogni forma di sostanzialismo (da quello fisico a quello biologico a quello sociale e psicologico), anteponendo all’individuo un pre-individuale; il secondo fa di
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questo obiettivo il cantiere di una critica immanente, in vista, appunto, di una nuova immagine del pensiero – e della soggettività. Il punto è che il concetto di relazione simondoniano è pensabile solo a condizione della posizione di un piano di immanenza. Per cui una critica del pensiero simondoniano non può che porne le condizioni su queste basi.
Dopo aver elaborato un modello quantistico di individuazione fisica, Simondon passa all’individuazione vitale e psichica. Per “quantico” egli intende principalmente il senso attribuito a questo termine in fisica quantistica, a partire dalla costante di Planck utilizzata nella formula di Einstein, per cui si tratta di una emissione discreta, discontinua di energia, mediante “pacchetti”, i quanti, corrispondondenti a dei “salti”. Egli intende come quantica sia l’individuazione vitale che quella psichica, nella misura in cui il processo da lui ipotizzato segue una logica discreta, ovvero transduttiva, ovvero differenziale. Se, in genere, a presiedere alla conduzione di un discorso circa il vitale e lo psichico è il modello artistotelico della Φύσις e della ψυχή322, Simondon, anteponendo una attenta dissertazione sulle disfunzionalità del paradigma ilomorfico, giunge a discutere della questione con il grande vantaggio di non dover usare una logica che proceda per genere prossimo e differenza specifica, reintroducendo il suo metodo transduttivo e allagmatico. Così facendo, egli può scrivere: «La méthode qui se dégage de ces considérations préliminaires exige que l’on ne soit pas d’abord préoccuper d’ordonner hiérarchiquement les niveaux des systèmes vitaux, mais qu’on les distingue pour voir quelles sont les équivalences fonctionnelles qui permettent de saisir la réalité vitale à travers ces différents systèmes, en développant tout l’éventail des systèmes vitaux, au lieu de classer pour hiérarchiser. Selon notre hypothèse initiale, la vie se déploie par transfert et néoténisation; l’évolution est une transduction plus qu’un progrès continu ou dialectique»323. Rimosso il soggettivismo sostanzialista e adottato un metodo differenziale, allagmatico e transduttivo, un unico piano si dipana, popolato inorganicamente, organicamente, psichicamente e transindividualmente, essendo i livelli successivi di individuazione, escluso quello materico, il vitale, lo psichico e il transindividuale, e 322 323
Aristotele, La Fisica, Bompiani, Milano, 2011 e Id., L’anima, Bompiani, Milano, 2001. G. Simondon, L’individuation, pag. 171.
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intendendo per quest’ultimo il livello collettivo, tipicamente umano, dell’individuazione sociale. Una serie di distinzioni differenziali consentono di cogliere rispettivamente questi diversi livelli, senza l’urgenza di dover operare delle “esclusioni” relative. La prima distinzione riguarda il processo di individuazione tra l’inorganico e l’organico. Appare evidente che l’inorganico è integrato all’organico, dunque a maggior ragione occorre introdurre un fattore di soglia che ne renda esplicabile la reciproca differenza. Se l’individuazione è la stessa per tutti, in quanto principio operazionale, realtà attiva della relazione sul modello della cristallizzazione – ovvero dell’immagine-cristallo (rispetto a cui abbiamo voluto pensare all’immagine dell’installazione di T. Saraceno) –, è il fattore topologico (funzionale-strutturale) e cronologico (ritmico-energetico) insieme, a costituire il termine differenziale. Che la vita si dispieghi per transfert e neotenizzazione 324 vuol dire che un processo di progressivo rallentamento concerne l’individuazione vitale rispetto a quella materiale. Un rallentamento che però costituisce un’apertura e un’opportunità in vista di un accoglimento sempre maggiore di in-formazione (integrazione e organizzazione) e transfert. Quanto va studiato, allora, concerne il processo di individuazione in questo suo rallentamento e progressiva apertura informazionale. L’informazione è un’attività relazionale e la relazione è ciò che modifica i termini. Per passare dall’individuazione fisica all’individuazione psichica (e procedere oltre), diventa non ulteriormente rinviabile, per Simondon, parlare della nozione di informazione. Quanto ci sembra particolarmente rilevante dell’impostazione simondoniana è che l’informazione – e da qui – la comunicazione hanno una funzione differenziale. Nell’individuazione fisica, egli aveva già introdotto questo fattore determinante e lo si era riproposto nei termini operazionali di una adduzione di singolarità. L’in-formazione ci è parsa, in prima battuta, come ciò che con-porta una singolarità informazionale al sistema di cristallizzazione. Nel caso dell’individuazione vitale e poi psichica, la questione si arricchisce di riferimenti ulteriori. Innanzi tutto, è informazione ciò che ha una funzione sostanzialmente 324
L’ipotesi neotenica è quella tradizionalmente attribuita alle ricerche delll’anatomofisiologo Lodewijk Bolk (1866-1930). Per quanto riguarda l’aspetto antropologico del tema, si veda Id., Das problem der Menschwerdung, Gustav Fisher, Jena, 1926, tr. it., Derive Approdi, Roma, 2006.
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negentropica325; in secondo luogo, è informazione ciò che implica una regolarità, in questo senso si spiega il segnale di informazione. Quanto interessa a Simondon, invece, è l’aspetto relazionale dell’informazione. Essa non va intesa come semplice emissione-ricezione di segnali secondo il modello classico delle teorie a riguardo; ma piuttosto bisogna inquadra l’informazione rispetto al concetto di “forma”, sottolineando come: 1. L’informazione è l’aspetto operazionale connesso alla “forma”, per cui, senza processo di informazione essa rimarrebbe statica e indifferente (come si è già visto per l’individuazione fisica nel paradigma ilomorfico); 2. L’informazione è ciò che con-porta l’elemento differenziale-singolare; 3. L’informazione è perciò legata all’intensità del sistema e non semplicemente alla qualità (teoria della “buona” forma) o alla quantità (teoria dell’informazione); 4. Il rapporto tra intensità e informazione nel biologico concerne sia il livello percettivo sia il livello significante, per cui l’informazione può diventare significante nella misura in cui l’indice di intensità trasportato e con-portato è fattore trasformazionale nella determinazione di un senso e di una polarizzazione nel vivente. Per tale ragione, qui si è preferito utilizzare la grafia di “in-formazione”, in modo da porre in evidenza il carattere dinamico, discreto, immanente e differenziale della nozione. L’individuo è sempre frutto di un sistema di transduzione ma, mente nel fisico questo processo è diretto e disposto su di un solo livello, nel biologico esso è indiretto e gerarchizzato mediante un processo di integrazione e differenziazione. Per integrazione potremmo intendere una progressiva incorporazione che mette in riserva quanto recepito, mentre per differenziazione una dissipazione progressiva di queste riserve. Differenziazione e integrazione determinano una fluttuazione auto-regolatrice in vista della risoluzione di problematiche con-portate dall’individuo, secondo un processo di «amplificazione costruttiva»326. La relazione transduttiva tra integrazione e differenziazione esprime il livello complessivo di informazione di un sistema. Anche nel sistema fisico, integrazione e differenziazione possono essere rinvenute, ma solo in termini di accrescimento illimitato sui bordi, come nel nostro modello di cristallizzazione di riferimento. Nel sistema biologico vi è certamente una ricettività sui “bordi”, ovvero rivolta all’esterno e, comunque, questa 325 326
Il riferimento esplicito è alle teorie di N. Wiener. G. Simondon, pag. 206.
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eccitabilità funziona in misura quantica, producendo dei cambiamenti di struttura e dell’insieme a seconda della quantità di energia messa in gioco; ma, nel biologico, costitutiva è una relazione centripeta per cui il nucleo possiede quella funzione attiva non presente nel cristallo, dove il centro è al passato e il presente scorre solo lungo i bordi. Nel cristallo l’individuazione è “pellicolare”327: nella sua massa, dove si raccoglie il processo del suo accrescimento, il passato gioca solo un ruolo di sostegno, senza emettere alcun segnale di informazione; nell’individuo vivente, invece, vi è una risonanza tale per cui “tutto il contenuto dello spazio interiore è topologicamente in contatto con il contenuto dello spazio esteriore sui limiti del vivente”, dal momento che lo spazio topologico non è come quello euclideo, ammettendo un contatto al di là della distanza. In effetti, nel vivente, tutto ciò che viene prodotto nell’arco della sua progressiva individuazione è funzionalmente presente, cioè è attivo. Dunque esso si caratterizza per un fattore topologico-cronologico particolare: la sua topologia è cronologica, si tratta cioè di spazi (strati) attivi funzionalmente nonostante siano prodotti e accumulati in un passato che sarebbe distante dal presente. In questo senso la topologia non euclidea del vivente è “invenzione” della cronologia quale accumulo risuonante e funzionale, non solo ripetitivo e dispersivo (come nel caso della materia, che, come diceva Bergson, ricomincia sempre daccapo). Qui Simondon vuole smarcarsi da Bergson, sostenendo che non si tratti di un tempo continuo (riprendendo in tal senso le accuse mosse a Bergson da Bachelard); in realtà, in questa dimensione non euclidea dello spazio della memoria del vivente ritroviamo proprio aspetti importanti del funzionamento del cono bergsoniano. La seconda distinzione riguarda l’individuazione tra vitale e psichico, che non può consistere né in un dualismo sostanziale né in un parallelismo. Anche qui, scrive Simondon, si può parlare di un «ralentissement de l’individuation du vivant», come per il livello fisico e vitale si poteva scorgere un rallentamento del fisico, e di una «amplification néoténique de l’état premier de cette genèse» : vi è psiche «quand le vivant ne se concrétise pas complètement» e «conserve une dualité interne»328. Il passaggio tra vitale e psichico matura a valle di un surplus non speso che funge da appello a un soddisfacimento ulteriore, uno sbocco diverso. Se la vita non può risolvere in unità quella dualità, allora si instaura un 327 328
Id., pag. 226. G. Simondon, pag. 165.
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processo di problematizzazione. La problematica in questione concerne una disparità tra percezione e azione non risolvibile al livello di una affettività regolatrice. Dunque, per comprendere questo passaggio dal vitale allo psichico, bisogna guardare al cambio di funzione dell’affettività. Dal vitale allo psichico, essa deborda, pone dei problemi anziché risolverli. Lo stato di metastabilità, caratterizzato dalla tensione fra i potenziali in gioco, richiede una nuova individualizzazione che non può procedere, dunque, proseguendo sulla stessa linea, ma ritornando a un preindividuale da cui riformulare una seconda individuazione propriamente psichica. Senza lo sconvolgimento affettivo, nessuna surlinearità psichica protrebbe determinarsi. Questa seconda individuazione osserva, quindi, quello stesso processo di “salto quantico” ma su di un livello diverso. La precisazione di Simondon introdotta in nota a questo discorso appare decisiva. Lo psichico, infatti, non corrisponde ad alcuna “natura” essenzialistica (sostanzialista, soggettivistica) e ad alcuna natura capace di fondare una antropologia. Simondon si esprime nei termini di un semplice superamento di soglia329, che accade all’uomo ma che potrebbe accadere anche all’animale. Anzi, egli precisa che talvolta degli animali si trovino in “situazioni psichiche”. La differenza, che non passa per un “interno” metafisico – come dicevamo, il nostro individuo è pur sempre, a tutti i livelli, senza essenza metafisica, come un otre di Klein – passa invece per un “esterno”, inteso come il corpo vivente delle tensioni in gioco. Alla base dello psichico si ritrovano delle motivazioni puramente vitali, che non vanno intese come forze determinanti, in un ottica, cioè, meccanicistica e deterministica. Esse esistono a titolo di posizione di un problema che solo una nuova individuazione può risolvere, nella misura in cui lo psichico è la soluzione al problema a esso associato. La relazione tra vitale e psichico non è dunque tra materia e forma ma da individuazione a individuazione. È una ridondanza quantica, una amplificazione. Ora, il doppio dell’individuo vitale che è l’individuo psichico si presenta come transindividuale, dal momento che la prerogativa della realtà psichica è di non essere chiusa su stessa. In effetti, il problema che sorge sul piano della prima individuazione non può essere risolto se non nei termini di un ritorno al preindividuale dove si trova il transindividuale come fondo e orizzonte comune dell’essere psichico. 329
IbId..
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La terza distinzione è appunto quella che concerne lo psichico e il transindividuale che individua il collettivo. In questo caso occorre precisare che è lo psichico stesso a portare con sé il transindividuale come sua possibilità. Se lo psichico è generato da una problematica vivente, il transindividuale mostra come tale problematica non possa essere risolta senza l’individuazione parallela e ulteriore di un collettivo. In altri termini, a partire da un disagio del sentire, è solo nella riformulazione di un sentire condiviso e partecipato, che questo disagio può dare luogo a una psichicità non frustrata – che non ripieghi su di una animalità abbrutita. Non bisogna fare l’equivoco di intendere il transindividuale come interindividualità (sulla falsa riga di una intersoggettività). Il postulato allagmatico di una realtà della relazione ci impedisce di pensare attraverso termini preordinati e stabili, ricomponibili a più dimensioni. Il transindividuale rappresenta una terza individuazione strettamente connessa alla seconda perché nutrita dallo stesso preindividuale. È il preindividuale a essere condiviso nel sentire comune fondativo della collettività. Alcuna sommatoria di parti può avvicinare il concetto di collettivo transindividuale espresso da Simondon. Queste tre distinzioni poggiano su tre individuazioni differenti secondo una scalarità neotenica e quantica, topologico-cronologica, in cui, però, localizzazione e temporalizzazione sono strutturate in senso non euclideo e non newtoniano, ma in termini di funzionalismo energetico.
3.2.A Individuazione fisico-biologica
L’individuo figura come sistema di compatibilità fra funzioni antagoniste, che sono, dicevamo, integrazione (incorporamento) e differenziazione (dissipazione amplificante, ivi compresa la funzione di transfert). Si individuano tre sistemi vitali: la vita preindividuale pura, dove in realtà l’individuazione non giunge mai a dare luogo a un individuo, essendo non distinte le funzioni “somatiche” e “germinali” come nel caso dei Protozoi e i Poriferi; le forme metaindividuali, in cui tali funzioni sono distinte ma non del tutto complete, richiedendo una specializzazione ulteriore dell’individuo che però va o in direzione delle funzioni somatiche o di quelle germinali; le forme totalmente individualizzate, in cui allo stesso individuo è assegnata sia una funzione somatica che germinale, marcando il passaggio
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dalla colonia alla comunità o società330 . Individuazione e riproduzione sono dunque strettamente connesse, esprimendo tipologie biologiche differenti; così come la mortalità dell’individuo è strettamente connessa alla relativa soglia di individuazione. Uno squilibrio particolare interviene a caratterizzare in un senso la morte e in un altro senso la riproduzione, trattandosi in ogni caso di “trasformazioni topologiche” senza alcun finalismo. Da questa schematizzazione dei sistemi vitali si comprende come Simondon tenti una differenziazione calibrata non tanto sull’individuo formato quanto sul processo di individuazione. Ad esempio, come va definita la crescita di una colonia? Come un unico individuo che si accresce in maniera illimitata o come un insieme che dà luogo a degli individui seppure questi non risultino separati tra loro?331 L’aspetto teorico di fondo concerne la posizione della questione, che, secondo la nostra lettura, non può essere di tipo essenzialista, ovvero non si può porre una domanda che verte sull’essenza dell’individuo, del tipo “Che cos’è l’individuo”, perché questa domanda è di tipo metafisico e presuppone una gerarchizzazione dove i termini sono necessariamente anteposti alla relazione come enti risolti e de-finiti secondo un particolare ordine ontologico. Contro questa impostazione, che Simondon definisce “sostanzialista”, egli suggerisce quel retournement che dal principio di individuazione porti sull’individuazione come allagmatica e transduzione della relazione, per cui la domanda andrebbe riformulata avendo come suo perno un processo:
En un mot qu’est-ce qu’un individu? À cette question, nous répondrons qu’on ne peut pas, en toute rigueur, parler d’individu, mais d’individuation; c’est à l’activité, à la genèse qu’il faut remonter, au lieu d’essayer d’appréhender l’être tout fait pour découvrir les critères au moyen desquels on saura s’il est un individu on non. L’individu n’est pas un être mais un acte, et l’être est individu comme agent de cet acte d’individuation par lequel il se manifeste et existe. L’individualité est un aspect de la génération, s’explique par la genèse d’un être et consiste en la perpétuation de cette genèse ; l’individu est ce qui a été individué et continue à s’individuer ; il est relation transductive d’une activité, à la fois résultat et agent, consistance et cohérence de cette activité par laquelle il a été constitué et par laquelle il constitue ; il est la substance héréditaire, selon l’expression de Rabaud, car il transmet l’activité qu’il a reçue ; il est ce qui fait passer cette activité, à travers le temps, sous forme condensée, comme information. Il emmagasine, transforme, réactualise et exerce le schème qui l’a constitué ; il le propage en s’individuant. L’individu est le résultat d’une
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G. Simondon, pag. 174. Id., pag. 190.
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formation ; il est résumé exhaustif et peut ordonner un ensemble vaste ; l’existence de l’individu est cette opération de transfert amplifiant332.
L’affermazione forse più convincente di Simondon è che l’individuo sia, non un essere, ma un atto e che in tal senso si spieghi la sua funzione di in-formazione attraverso l’individuazione. L’individualità è solo un aspetto dell’individuazione nell’individuo ed è caratterizzata da un certo grado di autonomia, organizzazione e polarizzazione nella modulazione dell’informazione da esso espressa e trans-portata. In effetti, nel discorso dell’autore non si rileva una esplicita messa a tema della questione onto-logica: l’essere oscilla tra l’essere dell’individuazione e l’essere dell’ente. Una tematizzazione onto-logica, d’altronde, non sarebbe stata confacente all’approccio usato dall’autore, di carattere eminentemente epistemologico e interdisciplinare. La sua epistemologia, inoltre, offre il guadagno di un retournement a vantaggio di una ontologia della realtà della relazione in termini (impliciti) di posizione – stra-ordinaria – di un unico piano dove l’inorganico, l’organico e lo psichico trovano pari dignità. In questo modo, il discorso simondoniano diventa il pensiero legittimo di una nuova fisica.
L’aspect quantique de la physique se retrouve en biologie et est peut-être un des caractère de l’individuation; il se peut qu’un des principes de l’organisation soit une loi quantique fonctionnelle, définissant des seuils de fonctionnement des organes , et servant ainsi à l’organisation: le système nerveux, quel que soit son degré de complexité, ne se compose pas seulement d’un ensemble de conducteurs chimiques ; entre ces conducteurs électrochimiques existe un système de relation à plusieurs niveaux, système qui offre des caractéristiques de fonctionnement voisines de ce qu’on nomme en physique la relaxation, et que l’on nomme parfois en physiologie le « tout ou rien » ; les biologistes et neurologues anglo-américains emploient volontiers l’expression to fire, se décharger comme un fusil, pour caractériser ce fonctionnement qui suppose qu’une certaine quantité d’énergie potentielle est accumulée puis exerce son effet tout d’un coup et complétement, non de manière continue. Non seulement les différents effecteurs se manifestent comme fonctionnant selon cette loi, mais les centres eux-mêmes, organisés comme une interconnexion de relais qui se facilitent ou s’inhibent les uns aux autres, sont régis par cette loi333.
L’aspetto quantico è il lucore differenziale, la dissonanza intima di questa fisica unitaria, che supponiamo Simondon volesse prospettare, non esaurendo il campo ma utilizzando la sua ipotesi di lavoro come una macro-area aperta a una ricerca ad ampio 332 333
IbId., [corsivo nostro]. Id., pag. 203.
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raggio: dalla scienza dei quanti alla biologia molecolare. Il ricorso alla quantistica non è frutto di un’analogia che presuppone un modello da ricalcare, ma è l’introduzione di un principio genetico, un principio capace di trascendere se stesso, di simulare: ovvero produrre transduzione. L’immagine per un inter-mezzo che avevamo rintracciato corrisponde proprio alla pulsazione di questa immagine-cristallo che diventa crono-morfo-genetica. Non un’immagine-modello,
non
un’immagine-calco,
ma
un’immagine-simul:
il
dispars
differenziale e allagmatico che percorre questa fisica come una scarica elettrica di ridondanze. La problematica ontogenetica si basa su questa disparazione irriducibile e l’individuo biologico, in ultima analisi, è un continuo riposizionamento dell’indice e della soglia di problematica preindividuale. Pertanto, esso si presenta non come la forma di una materia informe, ma come una sorta di formula, un indice di instabilità della forma che comunica con l’informe di cui è espressione. La “buona” forma, così come una buona individuazione, scrive Simondon, non è quella che nell’ontogenesi estingue tutto il suo potenziale, ma che, seppure attuandolo - nella dissipazione del tutto o niente – non può estinguerlo, proprio perché è esattamente quella la sua potenzialità. Non si tratta evidentemente, di un istinto di conservazione che porta a un risparmio energetico, ma della semplice constatazione per cui l’estinzione di quel potenziale corrisponde infine alla morte del sistema. La “buona” forma dunque non è quella stabile. La “buona” forma è vivida, refrattaria all’allentamento delle tensioni interne. L’individuazione rende compatibili le tensioni preindividuali portandole su di un altro livello, in una dialettica surlineare che, pertanto, non contempla alcuna “riconciliazione” che non sia mortifera. Lo stesso carattere ereditario è prospettato da Simondon quale «problema da risolvere», dunque preindividualità da compatibilizzare, piuttosto che calco di una replica del sistema. Egli parla di una coppia di due elementi distinti e riuniti, in relazione di disparazione334. Il caso del meccanismo della visione binoculare portato da Simondon, come esempio di risoluzione di una disparazione in una transduzione di livelli che noi chiameremmo surlinearità, è molto efficace. Ogni retina è coperta da una immagine bidimensionale:
334 Id.,
pag. 206.
207 207
immagine destra e immagine sinistra sono disparate. Non possono essere sovrapposte perché rappresentano il mondo da punti di vista diversi. Ora, scrive Simondon, non c’è una terza immagine otticamente possibile che riunisca queste due. Esse dovrebbero far apparire una coerenza che le incorpori, ma ciò richiede che vengano a trovarsi in un sistema in cui quella disparazione da esse con-portata sia l’indice necessario di una nuova dimensione. Nella visione tridimensionale non ci saranno più due immagini perché queste risulteranno integrate. In tal senso, questo nuovo sistema non è in opposizione alle due immagini di partenza, non siamo di fronte a una sintesi ma a una integrazione costruttiva e a una operazione amplificante. Integrazione e differenziazione costituiscono i due aspetti di ogni operazione vitale completa, ivi comprese la percezione e la sensazione degli organismi superiori. Quest’ultima non ha la funzione di fornire materia alla prima, ma si tratta di due aspetti complementari di una stessa attività, dove la sensazione è capacità di differenziazione mentre la percezione di integrazione. In maniera simile a Bergson, anche per Simondon la percezione è una potente forma di azione, capace di un’individuazione in cui soggetto e oggetto si co-manifestano, coinvolti nella stessa relazione: «L’être percevant est le même que l’être agissant: l’action commence par une résolution des problèmes de perception; l’action est solution des problèmes de cohérence mutuelle des univers perceptifs; il faut qu’il existe une certaine disparation entre ces univers pour que l’action soit possible; si cette disparation est trop grande, l’action est impossible»335. Se l’azione è individuante, poiché concorre alla modulazione delle tensioni preindividuali, è ovvio che il processo di ontogenesi non possa ritenersi prioritariamente adattativo. La nozione di adattamento, così come è stata intesa da Lamarck ma anche per certi aspetti da Darwin, presuppone l’esistenza di termini come precedenti alla relazione. Per Lamarck e Darwin non si dà una relazione adattiva ma un adattamento all’ambiente che presuppone un sistema di riferimento unitario e oggettivo, di tipo specifico, dove a un soggetto è preordinato un oggetto-pericolo o un oggetto-nutrimento. Il punto è che non si può presupporre questa obiettività e che vi è una polarizzazione percettiva che ordina un
335 Id.,
pag. 206.
208 207
mondo fra mondi possibili in funzione di oggetti possibili. L’adattamento relazionale è creativo-costruttivo: sia nella direzione dell’ambiente, sia nella direzione dell’individuo individuante: «L’adaptation est une résolution de degré supérieur qui doit engager le sujet comme porteur d’une dimension nouvelle. (…) Les mondes perceptifs et le vivant s’individuent ensenble en univers du devenir vital»336. Questo universo del divenire vitale, però, non può essere immaginato come già dato ma pensato piuttosto come il « senso della vita ». In effetti senso e polarizzazione del vivente dicono la stessa cosa, ovvero il tentativo dell’individuazione di tracciare un percorso che renda significative le informazioni disparate presenti nei sistemi. L’evoluzione ha più il carattere di una integrazione che di un perfezionamento, il cui risvolto è un indice di disintegrazione a più livelli. Nella definizione dell’individuazione biologica un ruolo dirimente è giocato dal fattore limitatezza dell’individuo. Se la vita è risoluzione di problemi, è pur vero che non tutto nella vita viene assimilato e un residuo di scorie, di elementi disparati che acquistano significato, è prodotto nel tempo. Ad ogni operazione di individuazione segue un “resto” – e tuttavia senza questo resto non ci sarebbe operazione, dal momento che si tratta proprio di quei differenziali che, facendo problema, fanno individuazione. La vita, scrive Simondon, è nel presente della sua risoluzione e non in ciò che ne resta. Ci sono due sensi in cui intendere la morte, in una logica che ricorda molto quella spinoziana della composizione e della decomposizione degli individui (Spinoza infatti non nega la morte, ma ne fa – solo – l’incontro che disintegra la composizione dell’individuo): in un primo senso si ritrova la «morte avversa» come ciò che viene da fuori, rompendo l’equilibrio metastabile del vivente; in un secondo senso, la morte è per il vivente ciò che cresce al suo interno, vedendolo passivo nei confronti di se stesso, come accrescimento dei residui tossici delle individuazioni passate. In questo secondo senso si ritrova anche il significato dell’invecchiamento, per cui da un lato si accresce il carico dei residui passati e dall’altro il carico tensionale va estinguendosi. «La mort comme événement final n’est que la consommation d’un processus
d’amortissement qui est contemporain de chaque opération vitale en tant qu’opération 336
Id., pagg. 211-212.
209 209
d’individuation; toute opération d’individuation dépose de la mort dans l’être individué qui se charge ainsi progressivement de quelque chose qu’il ne peut éliminer; cet amortissement est différent de la dégradation des organes; il est essentiel à l’activité d’individuation »337.
3.2.B. Dall’individuazione psichica – alla soggettivazione
A questo livello di individuazione si profila il vero e proprio processo di soggettivazione. Simondon approccia la questione dell’individuazione psichica a partire dal problema della percezione: come è possibile cogliere oggetti separati e non invece un continuum confuso di sensazioni? come è possibile che vengano percepiti oggetti come se fossero già dotati di una loro individualità? È il problema della segregazione delle unità percettive. Da quanto abbiamo fin qui riportato, sappiamo abbastanza per formulare un’ipotesi preliminare, per cui un certo costruttivismo non può ammettere che preesistano oggetti precostituiti e soggetti “contemplativi”. Né l’associazionismo né la Teoria della Forma possono spiegare il processo di individuazione psichico che non può che confermare l’allagmatica fin qui svolta. La percezione è genesi della forma in termini di soluzione di un conflitto preesistente: «cette forme qu’est la perception modifie non seulement la relation de l’objet et du sujet, mais encore la structure de l’objet et celle du sujet» 338. La percezione è individuazione e, come per l’individuazione fisica e biologica, si interviene a risolvere un problema di metastabilità. Essa è un’azione “polarizzata”, che mira al coglimento non di una forma ma di un’informazione. La percezione non ha interesse a recepire una “buona forma”, intesa, questa, come forma geometrica, armonica, ma, biologicamente, essa mira a recepire un’informazione, un differenziale del/nel sistema. Il vivente è come un cristallo, o meglio, il cristallo è come un vivente che avesse vissuto un solo micro-istante, quello dell’inseminazione del germe cristallino attorno a cui si irradia il suo primo strato. Nel vivente, questo processo è trattenuto in una continua metastabilità. La percezione umana, allora, avrebbe avere una natura quantica: è la realtà di 337 338
Id., pag. 215. Id., pag. 231.
210 219
certe soglie di intensità e di qualità degli oggetti a far sì che essi risultino percepibili. O meglio, si potrebbe affermare che il percepito è nell’indice differenziale immanente dell’oggettile, allo stesso modo in cui è il soggettile a qualificarsi come soglia differenziale polarizzata nella relazione all’oggettile. Simondon continua a parlare di oggetti e di soggetti, ma, seguendo il suo assunto relazionale e quantico, bisognerebbe parlare di soggettili e oggettili “lavorati” dall’azione transduttiva della relazione percettiva. La segregazione delle unità percettive corrisponde allora alla individuazione di potenziali di informazione in una situazione. Per Simondon che riprende WIener, percepire sarebbe lottare contro l’entropia del sistema. Noi diremmo, a maggior ragione, che percepire è lottare contro l’indifferenziazione mortifera del sistema. La percezione è quell’atto che organizza il tutto339. «Croire que le sujet saisit d’emblée des formes toutes constituées, c’est croire que la
perception est une pure connaissance et que les formes sont entièrement contenues dans le réel; en fait une relation récurrente s’institue entre le sujet et le monde dans lequel il doit percevoir. Percevoir est bien prendre à travers ; sans ce geste actif qui suppose que le sujet fait partie du système dans lequel est posé le problème perceptif, la perception ne saurait s’accomplir»340. Dunque il soggetto e l’oggetto si ritrovano, potremmo dire, all’”interno” dello stesso otre di Klein senza interno. Questo vuol dire innanzi tutto che, superando il sostanzialismo, il soggettivismo, la metafisica razionalista moderna, euclidea e newtoniana (=l’interno), non c’è alcuna essenza preordinata che sancisca il dispiegarsi di un piano in cui soggetto e oggetto si incontrino in una contemplazione che li mantenga estrinseci; in secondo luogo, questo vuol dire che, entrare in una relazione reale e allagmatica, corrisponde a percorrere il periplo di una giostra in cui entrando dentro, non si può che uscire “fuori”, laddove il dentro è il fuori più distante che ci sia e il fuori è il dentro più prossimo da raggiungere; infine, il “fuori” di questo interno, questa piega, è proprio quel differenziale intensivo e quantico che si riverbera di livello in livello, di soglia in soglia, come un lucore differenziale.
339 340
Id., pag. 239. Id., pag. 240.
211 211
Per la genesi dei concetti, scrive Simondon, si segue la stessa logica della segregazione delle unità percettive. Si tratta, per dirla con Deleuze, di creare i concetti. È una soglia quantica a sostenerne le distinzioni. Lo psichismo non è né pura interiorità né pura esteriorità, ma permanente differenziazione e integrazione, la cui forma transduttiva risiede nell’affettività e nell’emotività, le quali esprimono una intermediazione tra conscio e subconscio, legame tra la relazione dell’individuo a se stesso e legame dell’individuo al mondo341. L’immagine-cristallo della soggettività che viene a delinearsi vede nello psichismo una rifrazione relazionale permanente, una modulazione strutturale ed energetica operata quanticamente secondo affettività ed emotività. È un processo surlineare di soggettivazione, in cui il soggettile è “sparato” come un proiettile – riprendendo la metafora del to fire menzionata più sopra. Il vero centro dell’individualità è posto al limite tra conscio e inconscio, nel subconscio, che è costituito da affettività ed emotività. Le riorganizzazionimodulazioni di questo strato sono modificazioni dell’individuo e ciò avviene secondo “salti bruschi”, “soglie” – in questo senso è “quantico”. Esso costituisce quella relazione tra il continuum della coscienza e il discontinuo dell’azione (mossa dall’inconscio). Senza questo strato operazionale del subconscio, scrive Simondon, la coscienza sembrerebbe un epifenomeno e l’azione una sequenza discontinua di conseguenze senza premesse342. In tutto il discorso condotto da Simondon, sono diversi i rimandi polemici a Freud. In sintesi, si può affermare che la critica prevalente mossa al padre della psicoanalisi si concentri su di un equivoco di fondo: 1. non aver colto, da parte sua, l’essenza dell’individuazione come allagmatica transduttiva, ovvero come disparazione sostanziale che non può essere perequata; 2. a valle di questo primo equivoco, aver trattato l’individuo come un soggetto da “pacificare”. Per quanto riguarda l’inconscio, Simondon rimarca che per Freud si tratterebbe di un «psychisme complet, calqué en quelque manière sur le conscient que l’on peut saisir»343. Eco di questa sottolineatura simondoniana si ritroverà nelle pagine dell’Anti Edipo, allorché Deleuze e Guattari, in polemica con la tradizione psicoanalitica (principalmente riferita a Lacan, in questo caso), sosterranno come il “teatro 341
Id., pag. 242. Id., pag. 243. 343 Id., pag. 242. 342
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edipico” sia una sorta di sovrascrizione rappresentazionale operata abusivamente sull’inconscio. In altri termini, i due autori criticano esattamente l’ipotesi di un inconscio ricalcabile sul conscio, in questo caso attraverso una sua strutturazione linguistica e una sussunzione delle sue “forze” rispetto all’azione del significante. Nella sostanza, la psicoanalisi mostrerebbe una grammatica e una sintassi identitaria che tradisce la ricchezza differenziale della soggettività, interferendo con il processo reale e relazionale della soggettivazione, che non è mai, per sua natura, un processo “completo”. L’idea che con Simondon viene a profilarsi è di una soggettivazione ineludibilmente parziale e aperta (abbiamo per questo usato l’otre di Klein come “ritornello”), dove l’inconscio è lo strato in cui si ritrova la “capacità di azione del soggetto”, similmente a quanto sarà inteso come “desiderio macchinico” in Deleuze e Guattari344. Tra desiderio e affettività, infatti, passerà quella differenza che intercorre tra strato dell’inconscio simondoniano e transduttività del subconscio. Quando si parla di processo di soggettivazione, però, è inevitabile ricorrere a Lacan per un verso e a Foucault per l’altro: in entrambi i casi, però, la questione si spiega in rapporto al discorso, al simbolico e alla storicità, anche se nel primo, il processo, sebbene aperto e continuamente ri-soggettivante, è legato a un’impostazione psicoanalitica che punta a una restaurazione del funzionamento normativo dell’io; mentre nel secondo, esso è connesso alla definizione genealogica contestuale di un campo di rapporti e di forze, giocati tra sapere e potere, in cui si vanno a individuare le condizioni, di volta in volta differenti e immanenti, della soggettivazione e della oggettivazione possibili. Il punto è che secondo il nostro punto di vista, l’immagine per una soggettivazione possibile passa esattamente per una “natura” non perequabile, macchinica, “positiva” e non dialettica del soggetto: perciò quantica, a partire da Simondon e “positiva” a partire da Bergson. Solo a queste condizioni, che abbiamo voluto intendere come “piano obliquo”, in riferimento al piano di immanenza, il processo di soggettivazione è reale e non mistificabile attraverso strutture di pre-potenza e di potere345. 344
L’inconscio non funziona come un linguaggio, al più come una macchina. A tal proposito si veda, oltre all’Anti Edipo, il lavoro di Guattari, L’inconscient machinique. 345 Comprendiamo bene come tali questioni siano di portata stra-ordinaria per cui chiaramente non sia possibile, qui, svilupparne pienamente i rapporti e i collegamenti, sebbene valga la pena fare il punto su alcuni aspetti più decisivi.
213 213
L’analisi della psichicità simondoniana si concentra sullo strato del subconscio per coglierne il fattore modulante attraverso affettività ed emotività. La questione è per noi particolarmente rilevante dal momento che questo approccio consente di legare strutturalmente il processo di soggettivazione a un “fuori” del soggetto che è la dimensione sociale intesa come fondo transindividuale. E qui che, oltre a ritrovare i Deleuze e Guattari per una kafkiana letteratura minore , ritroviamo anche le analisi più contemporanee di B. Stiegler circa l’attuale «catastrofe del sensibile». «Si l’on peut parler – scrive Simondon – en un certain sens de l’individualité d’un
groupe ou de celle d’un peuple, ce n’est pas en vertu d’une communauté d’action, trop discontinue pour être une base solide, ni d’une identité de représentations conscientes, trop larges et trop continues pour permettre la ségrégation des groupes ; c’est au niveau des thèmes affectivo-émotifs, mixtes de représentations et d’action, que se constituent les groupements collectifs. La participation interindividuelle est possible lorsque les expressions affectivo-émotives sont les mêmes. Les véhicules de cette communauté sont alors les éléments non seulement symboliques mais efficaces de la vie des groupes : régime des sanctions et des récompenses, symboles, arts, objets collectivement valorisé et dévalorisés»346. In questo senso, sarebbe riduttivo leggere nel transindividuale simondoniano e, dunque, nella crisi del simbolico e del sensibile pensata da Stiegler, un inconscio collettivo così come esso è inteso nella tradizione freudiana e lacaniana. Per lo stesso Stiegler, il “simbolo” non rinvia a un significante, ma a un elemento differenziale inteso come metà-di, parzialità in gioco. In Stiegler, il processo di soggettivazione diventa catastrofico allorché un’operazione di sincronizzazione generalizzata, operata attraverso un sistema neo-liberale mass-mediatico, impedisce la singolarizzazione creativa dei soggetti, polarizzandone la parzialità costitutiva e processuale in direzione di una automatizzazione. La metafora della trasformazione generale delle società in formicai è in tal senso illuminante 347. Cioè, quando la comunicazione non è più differenziale, ma procede a una sincronizzazione desoggettivante, affidata a quelle che Deleuze stigmatizza come mots de passe delle sociétés 346
G. Simondon, pag, 243. B. Stiegler, De la misère symbolique, 1. L’époque hyperindustrielle, 2. La catastrofé du sensible, Galilée, Paris, 2004- 2005. 347
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de contrôle, subentrate alle mots d’ordre su cui si reggevano le sociétés disciplinaires pensate da Foucault348, si afferma il sistema deprivante del formicaio. Una volontà di nulla, intesa come complicità nell’auto-assoggettamento, interdice i processi di libera e aperta soggettivazione. Potremmo immaginare, come nel film Inception, di cui abbiamo utilizzato alcuni fotogrammi pregnanti quali “ritornelli” nel nostro discorso, una sorta di sogno-incubo collettivo, pilotato da parole-chiave che però non altri, ma noi stessi utilizziamo inconsapevoli entrando in mondi sociali virtuali e paralleli (ad esempio i vari social-network), dove un fantasma (un senza corpo, o un corpo esangue) è il nostro simbolo de-privato. Per quanto riguarda Deleuze e Guattari, la transduzione che apre sul transindividuale collettivo è l’opportunità reale della linea di fuga, la condizione possibile affinché il “vicolo cieco
edipico”
venga
sbloccato,
deterritorializzando
Edipo
nel
mondo,
non
riterritorializzando il soggetto su Edipo e la famiglia349. Inoltre, la risorsa del transindividuale offre la possibilità stessa di un tempo collettivo altro: l’opportunità di una ri-fondazione politica a partire dalla re-individualizzazione di un sentire comune. È il transindividuale, come vedremo più avanti, a costituire la sorgente per un processo di soggettivazione aperto anche sul piano politico, nel senso di un divenire delle istituzioni, sebbene Simondon ponga l’accento sull’aspetto stabilizzante del collettivo in quanto risoluzione del problematico che caratterizza l’individualizzazione psichica. Tornando alla lettura del nostro testo, l’autore mette al centro dell’individuo ciò che chiama il regime quantico dell’affettività e dell’emotività. Come si è visto studiando il ruolo attivo della percezione, c’è una problematica differenziale di fondo per cui l’azione subentra a risolvere una tensione percettiva, dando luogo a una individuazione creativa. Allo stesso modo, l’emozione è risoluzione attiva di un problema di tensione affettiva. L’ordine di surlinearità aperto dall’emozione nella sua mediazione modulatrice implica una dimensione sociale:
Le problème de l’individu est celui des mondes perceptifs, mais le problème du sujet est celui de l’hétérogénéité entre les mondes perceptifs et le monde affectif, entre l’individu et le 348
G. Deleuze, Post-scriptum sur les sociétés de contrôl, articolo del 1990 apparso in L’Autre journal e poi nella raccolta Pourparlers, Minuit, Paris, (1990) 2003, tr. it. a cura di S.Verdicchio, Id., Pourparler, Quodlibet, Macerata, 2000, pagg. 234-241. 349 G. Deleuze, F. Guattari, (1975), Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata, 2010, pag. 19.
215 215
préindividuel ; ce problème est celui du sujet en tant que sujet : le sujet est individu et autre qu’individu ; il est incompatible avec lui-même. L’action ne peut résoudre les problèmes de la perception et l’émotion ceux de l’affectivité que si action et émotion sont complémentaires, symboliques l’une par rapport à l’autre dans l’unité du collectif ; pour qu’il y ait résonance de l’action et de l’émotion, il faut qu’il y a une individuation supérieure qui les englobe : cette individuation est celle du collectif. Le sujet ne peut coïncider avec lui-même que dans l’individuation du collectif, parce que l’être individué et l’être préindividuel qui sont en lui ne peuvent coïncider directement : il y a disparation entre les perceptions et l’affectivité (…)350.
L’io incrinato si traduce in Simondon nell’incompatibilità immanente al soggetto tra individualità e preindividualità. Questa inquietudine è risolta attraverso una individuazione ulteriore, guidata dall’emozione-azione, tornando al preindividuale in vista del transindividuale collettivo. Più nel dettaglio, accade che, nel soggetto, la non coincidenza delle affezioni muova verso l’emozione, così come, sul piano individuale, la non coincidenza delle sensazioni muova alla percezione. Si tratta di due individuazioni psichiche che prolungano, scrive Simondon, l’individuazione vivente. L’emozione dà letteralmente un senso, polarizza l’affettività. Questa seconda individuazione, propriamente psichica, che dà luogo al processo di soggettivazione, va però distinta, in qualche modo, dalla semplice individuazione che dà luogo all’individuo. A tal proposito, Simondon introduce il termine di “individualizzazione”. Quanto più intensa è la problematicità del vivente, tanto più marcata sarà la risposta individualizzante messa in campo. L’insieme dei contenuti psichici è un salto quantico, un salto di livello che produce una strutturazione diversa di tutto il sistema. Il pensiero si può intendere come individuo dell’individuo: uno sdoppiamento dà luogo al doppio del riflesso nella riflessione propriamente detta. La soggettivazione secondo Simondon è dunque un’ontogenesi psichica per individualizzazione. Questo va precisato perché sebbene il suo approccio sia epistemologico, la sua priorità è assegnata non alla critica né all’ontologia, ma appunto all’ontogenesi351. In realtà, nell’ontogenesi egli racchiude quanto sarà tradotto da Deleuze in termini di empirismo trascendentale, e cioè la capacità propriamente genetica del sensibile in quanto essere del sensibile, essere del divenire. Il processo di soggettivazione, rispetto al 350 351
G. Simondon, pag. 248. Id., pag. 278.
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soggettivismo moderno, implica proprio questo: il funzionamento di un principio genetico. Simondon non coglie che la sua ontogenesi è esattamente una nuova critica perché si concentra a sviluppare un’ontologia relazionale; ma poiché svolge un’ontologia relazionale realizza una nuova critica. In effetti, Simondon intende ancora, per “critica”, il trascendentalismo kantiano con il suo portato di idealismo, a partire dalla matrice soggettivista (o egologica) cartesiana. In questo senso può affermare che “la genesi delle condizioni di validità del pensiero nel soggetto non possono essere prese per una genesi del soggetto individuato”, muovendo subito dopo un attacco al cogito cartesiano, che sbrigativamente passa dal pensiero all’esistenza352. Anche per Simondon qui è il fattore tempo (memoria) a non essere stato debitamente messo in conto e (secondo quanto già sostenuto da Husserl 353) un processo è poi erroneamente sostanzializzato: il pensiero è infatti tradotto in res cogitans. Tutto questo, oltre a dare luogo al dualismo anima-corpo, dà luogo a un’istantanea sull’”anima” che ne impedisce la naturale temporalizzazione: «Descartes n’a pas seulement séparé l’âme du corps; il a aussi, à l’intérieur même de l’âme, crée une homogénéité et une unité qui interdit la conception d’un gradient continu d’éloignement par rapport au moi actuel, rejoignant en ses zones les plus excentrées, à la limite de la mémoire et de l’imagination, la réalité somatique»354.
3.2.B L’individuazione sociale. Il lavoro come principio di una post-antropologia. Le fasi dell’essere nella soggettivazione
Da quanto fin qui emerso, l’accento posto sull’aspetto relazionale e sulla natura transduttiva dei processi non poteva che condurre a una propedeutica della soggettivazione in chiave anti-egologica e, soprattutto, strutturalmente aperta, poiché etero-riferita per ogni suo strato compositivo. Dall’individuazione fisica, a quella vitale e psichica, si ripropone la 352
IbId.. Il riferimento è alle Meditazioni cartesiane. A questo riguardo va rimarcato che anche il presupposto egologico di Husserl non consente di superare lo scoglio del soggettivismo, così come sottolineato da Deleuze e Guattari in Che cos’è filosofia. 354 G. Simondon, pag. 280. 353
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stessa partitura problematica e dissonante e, da queste premesse, si può comprendere come il concetto di società non possa non rispondere alla stessa logica transduttiva: «La société ne sort pas réellement de la présence mutuelle de plusieurs individus, mais elle n’est pas non plus une réalité substantielle qui devrait être superposée aux êtres individuels et conçue comme indépendante d’eux : elle est l’opération et la condition d’opération par laquelle se crée un mode de présence plus complexe que la présence de l’être individué seul»355. Il sociale è per Simondon quella condizione relazionale (operazionale) attraverso cui si modula una diversa modalità di presenza al mondo dell’individuo. Da ciò deriva che nel sociale e attraverso di esso si realizza una particolare psico-individualizzazione. Partendo dalla realtà della relazione si sbaglierebbe a intendere il sociale come un termine cui rapportarsi: esso è il sistema che nutre o compromette le relazione tra gli individui. È in questo modo che si può evitare il doppio equivoco determinato dal sostanzialismo soggettivista, da cui scaturiscono contrapposizioni dialettiche tra individuo e sociale, tra individuo e gruppo, basate sulla preminenza di un sostanzialismo dell’interiorità, nel caso dello schema interpsicologico, o di un sostanzialismo dell’esteriorità, nel caso di un approccio sociologico. Queste prospettive condividono in effetti la stessa logica metafisica, postulando una essenza dell’umano, “immaginando” un individuo puro e completo precedente a ogni integrazione possibile356. Secondo questa impostazione, affiora quella che può essere letta come interpretazione antopologico-negativa del lavoro, nella misura in cui Simondon sostiene come esso non possa essere inteso quale soddisfacimento di un bisogno individuale, relativo a un’essenza dell’uomo357. L’idea per cui il lavoro sarebbe (solo) un “bisogno”, più o meno edificante, è il corollario di un sostanzialismo egologico, soggettivista e infine antropologiconegativo. Nel segno di quel retournement più volte richiamato, che va dal principio di individuazione all’individuazione come principio, Simondon propone un rovesciamento radicale, per cui, anziché porre l’antropologia come principio dello studio dell’uomo, siano le 355
Id., pag. 286. Id., pag. 288. 357 IbId.. 356
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attività relazionali umane, come quelle che si esplicano nel lavoro, il principio di un’antropologia da costruire, chiudendo il cerchio rispetto al discorso fatto all’inizio circa il processo di lavorazione del mattone di terracotta. Sicché, potremmo dire, l’individuazione come principio mette il pensiero a lavoro, nella misura in cui essa è un entrare dentro all’officina delle cose. Ontogenesi è questo: azione e non contemplazione. Il fondatore dell’antropologia filosofica contemporanea, M. Scheler, proponeva una serie di immagini dell’umano358: l’homo religiosus, derivante dalle Sacre Scritture e dalla tradizione ebraico-cristiana; l’homo sapiens, frutto della cultura greca e caratterizzato dal λόγος come principium individuationis; l’homo faber, che prende corpo a partire dalla rivoluzione scientifica moderna; l’homo dionysiacus, che, contrariamente agli altri, comincia a mostrare i primi segni di crisi e a sperimentare un senso di sfiducia nei confronti dell’uomo stesso; e infine l’homo creator, che corrisponderebbe all’immagine dell’uomo che Scheler stesso vorrebbe poter delineare, ovvero di un uomo capace di quell’oltrepassamento creativo di cui parla Nietzsche, in grado quindi di assumere su di sé il peso di un agire autonomo e libero, come se Dio non ci fosse (per usare l’espressione dell’autore). In realtà, Scheler riesce a immaginare un volto dell’uomo, il cui principium individuationis è nella nozione di Spirito, dal momento che il piano di composizione (panenteistico) della sua antropologia è ancora un κόσμος359. Di fondo, si tratta di quell’immagine-dogmatica-delpensiero che intanto garantisce un complemento all’immagine, il suo oggetto, poiché è salda nel soggettivismo di chi “contempla”360. A minare la possibilità di una visione “chiara e distinta” in questo senso, cioè della formulazione di un’immagine dell’uomo, concorre certamente la critica heideggeriana mossa ai fondamenti dell’antropologia. Il momento della Kehre ontologica segna il passo, in Heidegger, di un irreversibile rifiuto della metafisica, inquadrata nel destino dell’Essere, ma “svelata” rispetto alla radicale inanità del suo fondamento. E l’antropologia filosofica, con la
358
A questo riguardo si veda M. Scheler, Mensch und Geschichte del 1926. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando Editore, Roma, 1998. 360 Sarà lo stesso A. Gehlen a sottolineare come il pensiero di Scheler sia viziato da una impostazione metafisica e dualistica, tentando poi di costruire un discorso antropologico alternativo, portandosi su di un piano pragmatico e antropo-biologico. A proposto. A questo riguardo si veda A. Gehlen, Prospettive antropologiche e L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo. 359
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sua questione circa l’essere dell’uomo, mostra tutta l’insensatezza di un domandare che confonde l’essere con l’essere dell’ente mancando il senso sia dell’uno sia dell’altro, il quale solo nella piega ontologica dell’aletheia, può essere dischiuso e affidato a un linguaggio “in ascolto”361. La nietzscheana morte di Dio è così anche l’inaggirabile morte dell’uomo – come magistralmente evidenziato da Foucault. In Simondon non può non esserci eco di questa “estinzione”, a seguito della critica così incisivamente espressa da Heidegger; e tuttavia, attraverso il suo approccio si può rimanere nell’officina senza tuttavia perdere di vista l’orizzonte. Una epistemologia post-antropologica che faccia tesoro proprio di quel retournement proposto da Simondon, forse può offrire profilazioni possibili; e in effetti, il relazionismo presente nella narrazione postumana (si pensi alla teoria dell’etero-riferimento costitutivo)362 è indicativa in tal senso. Si tratta, dunque, non di immagini in senso classico, ma di lucori differenziali che rischiarano a intervalli irregolari l’orizzonte di questo piano obliquo. Secondo Simondon, la relazione tra individui può realizzarsi sia in senso analogico, per cui il passato e il futuro si trovano a coincidere in un “in-group” (gruppo di interiorità); sia in senso non analogico, nell’”out-group” (gruppo di esteriorità), per cui il futuro di ciascun individuo trova negli altri una struttura reticolare attraverso cui passare e non dei soggetti. Per comprendere la natura del sociale, bisogna comprendere come si generano queste relazioni, dal momento che, come sappiamo, i termini non preesistono alla relazione e nessun “contratto sociale” può surrogare la relazionalità. L’individuazione sociale comporta allo stesso tempo sia la formazione di una personalità psico-sociale sia la genesi del gruppo. «Le groupe d’intériorité prend naissance quand les forces d’avenir recélées par plusiers individus vivants aboutissent à une structuration collective; la participation, le recouvrement, se réalisent à cet instant d’individuation du groupe et d’individuation des individus groupés. L’individuation qui donne naissance au groupe est aussi une individuation 361
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adeplhi, Milano, 1995. R. Marchesini, Post-Human, P. A. Masullo, L’umano in transito, P. A. Masullo- M. Maldonato, (edited by), Posthuma. Consciousness and Pathic Engagement, Sussex, Portland, 2017. 362
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des individus groupés ; sans émotion, sans potentiel, sans tension préalable, il ne peut y avoir d’individuation du groupe ; une sosiété de monades ne peut exister»363. È un sentire comune ad animare la possibilità e della personalità psico-sociale e del gruppo stesso, ed è forse anche per questo che Stiegler può ben dire che «La question politique est une question esthétique, et réciproquement: la question esthétique est une question politique», usando il termine “estetica” nel suo senso generale di aisthésis, per cui «la question esthétique est donc celle du sentir et de la sensibilité en géneral »364.
D’altronde, una relazione interindividuale rimane estrinseca, mentre la relazione transindividuale, affondando nelle trame affettive e, soprattutto, come sottolinea Simondon, non tanto e non solo in una memoria condivisa, quanto nella capacità di sentire un futuro comune, ha la capacità di dare luogo a una entità nuova. Il transindividuale è proprio il sostrato della circolazione dell’in-formazione che diventa significazione. Il transindividuale è il pre-vitale e il pre-individuale insieme: dal momento che la vita è una prima soluzione di individuazione, che parte dalla sua metastabilità previtale; e dal momento che il pre-individuale è sempre il residuo dell’individuazione. Sicché il transindividuale è una sorta di carica di essere per delle individuazioni future365, una “riserva” di futuribili attraverso cui realizzare nuove forme di organizzazione e di politica. Un altro tempo come ciò che resta del tempo, poiché l’essere individuale porta con sé «un avenir possible de signitifications relationelles à découvrir», ovvero il «pré-individuel qui fond le spirituel dans le collectif». Questo spirituale è chiamato da Simondon anche «natura», ma si tratta di quella «fisica» arcaica, anteriore, l’ἄπειρον di Anassimandro, la natura come «réalité du possible»366. Rimane dell’ἄπειρον nell’individuo come nel cristallo l’acqua di mare… Il soggetto è dunque questo insieme improbabile di due aspetti dell’essere: individuato e ἄπειρον, la cui in-formazione è la significazione di cui esso si fa carico e che risolve, in quanto disparazione non perequabile, nel transindividuale che non è una sintesi ma un salto quantico surlineare. 363
G. Simondon, L’individuation, pag. 290. B. Stiegler, De la misère symbolique. 1. L’époque hiperindustrielle, pag. 17. 365 G. Simondon, pag. 295. 366 Id., pag. 297. 364
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Come più sopra accennavamo, la soggettività simondoniana non è imperniata sul discorso: è piuttosto primariamente tensionale, affettiva, pulsionale. Potremmo parlare di “segni” per non appiattire in-formazioni e significazioni sulla dimensione linguistica. Scrive infatti Simondon che il linguaggio sarebbe insufficiente a spiegare la significazione perché è la significazione a sostenere il linguaggio. In altri termini, il linguaggio non crea la significazione pur essendone espressione. il linguaggio veicola un’informazione ma questa, per divenire significativa, deve intercettare l’ἄπειρον di fondo del soggetto, cioè il suo essere più che soggetto: ciò che ne resta come il suo possibile ulteriore, il suo futuribile ma anche il suo non-senso. Il non-senso, potremmo dire con Deleuze, non è la negazione del senso, la sua possibilità costitutiva. Il soggetto simondoniano è dunque un sistema più o meno coerente di tre differenti fasi (modalità) di essere: pre-individuale, individuato, transindividuale.
L’allagmatica,
rispetto allo psichico e al sociale, è una processualità soggettivante critica, che infine non può porre il soggetto come opposto all’oggetto o il soggetto come risolto o risolvibile nell’individuo, o la soggettività come una stele di rosetta di cui tradurre i simboli. E proprio per queste ragioni, ci è sembrato che l’allagmatica potesse offrire una propedeutica alla soggettivazione possibile.
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Cos’è un piano obliquo? È un meta-luogo di posizione radicale delle questioni, dove il punto di vista dell’accesso al piano è parte integrante della sperimentazione. In tal senso, esso si profila come quella piega di/in superficie resa, con efficacia plastica, nell’immagine dell’otre di Klein, per cui l’interno, il che cos’è, è il “fuori” più estroflesso. Il piano obliquo diventa, simultaneamente, il merito e il metodo di questo lavoro, in cui, a partire dal piano “obliquo” di bergsoniana memoria, si procede nella direzione di una disamina dell’epistemologia della relazione di stampo simondoniano, attraverso un confronto serrato con gli elementi della nuova fisica quantistica. A essere costantemente richiamato nel testo è il lavoro di G. Deleuze, inteso principalmente come pensatore della radicalità del piano di immanenza. Si rielabora, in tal modo, la cornice critica della questione antropologico-filosofica fondamentale, alla ricerca di un’immagine di con/sistenza e nonorientabilità da cui si producano e riproducano forze di soggettivazione primarie, in seno ai processi di individuazione personali e sociali. Il “possibile” qui evocato intende sia la potenza di una nuova possibilità che le condizioni tali per cui ciò possa darsi e attualizzarsi.
Rosella Corda è laureata in teoria e filosofia della comunicazione (Università degli Studi della Basilicata) e consegue un primo dottorato in Filosofia Teoretica (Università degli studi di Bari), occupandosi del tema della libertà in G. Deleuze, cui fa seguito la collaborazione al volume: Posthuman. Consciousness and Pathic Engagement (a cura di P. A. Masullo and M. Maldonato, Sussex, Brighton-Portland-Toronto, del 2017), con un contributo dal titolo: The force of the affections: The becoming-body, the becoming-free. Consegue un primo dottorato presso l’Università di Paris 1 Panthéon- Sorbonne, consegue un secondo dottorato in Storia, cultura e saperi dell’Europa Mediterranea (Università degli studi della Basilicata), con una tesi di dottorato in Antropologia Filosofica. I suoi interessi di ricerca sono tesi a una radicalizzazione e problematizzazione della questione antropologico-filosofica contemporanea, attraverso un focus particolare sul post-strutturalismo francese.