Peirò

Page 1

Foto Publifoto Milano (Archivio Banca Intesa)

Peirò


GLI INIZI Tra il bambino nato povero a Buenos Aires dall’emigrato andaluso Paco il sivigliano, e l’agiato signore dimorante in uno splendido palazzotto d’epoca a Rialto, nel cuore della Venezia migliore dell’Italia anni Ottanta, si slarga una parentesi tutta piena di calcio, dall’inizio alla fine. La abita un uomo straordinario, inseguito da tre passioni brucianti: il denaro, la popolarità e se stesso, cioè Helenio Herrera. Nasce nella capitale argentina, nel quartiere Palermo. La miseria incalza e papà Paco, il falegname che la fortuna l’ha solo sognata, decide di tornare sui suoi passi a cercarla nuovamente altrove. Il piroscafo questa volta fa rotta sul Marocco, Casablanca, dove Helenito a otto anni, chiamato a un singolare incontro di boxe con un coetaneo, scopre dentro di sé un “veleno”: «I soldati che ci avevano preso in simpatia mi insegnarono a boxare. Mi facevano combattere contro un altro ragazzino della mia età. Accadde così qualcosa che costituì per me un’autentica rivelazione: scopersi il veleno della popolarità. Immagino l’impressione che devono aver provato gli spettatori d’una riunione pugilistica, svoltasi in un circo di Casablanca. Era stato annunciato il nome dei contendenti e stavano per salire sul ring. La sorpresa dev’essere stata enorme! Si trattava niente meno che di due bimbi di otto anni: io e il mio rivale. Lo sbellicarsi delle risa della folla giunse alle mie orecchie come l’eco dì acclamazioni rivolte a un idolo. Tra quelle corde avevo la sensazione di essere un personaggio molto importante. Il cuore mi batteva in fretta e sembrava ripetermi: devi vincere, devi vincere…». Il successo sul ring lo fece diventare l’eroe del rione: «Fu allora che cominciai a capire che quando, ciecamente, correvo dietro un pallone, la miseria, la guerra, la paura, non esistevano per me. A partire da allora cominciai a correre…». Il ragazzino ha parecchia birra in corpo. Organizza partite, gioca furiosamente a calcio, fino a farsi notare e a entrare in una squadretta, il Roca Negra, da cui passa presto al Racing di Casablanca. A quindici anni è già in prima squadra, gioca (attaccante, poi interno, infine difensore) e alterna lavori vari: operaio, magazziniere, tornitore. Fa parte della rappresentativa marocchina che incontra Algeria e Tunisia e conquista un posto in quella dell’Africa del Nord opposta alla Francia in una partita di allenamento. La voglia di arrivare gli brucia dentro. Le società francesi che cercano giocatori lo notano, il Club Frangais di Parigi lo invita per un provino. Non ha i soldi per il viaggio, glieli procura un amico e dopo avventurose peripezie approda nella capitale francese. Il Club Frangais gli offre un piccolo ingaggio (che spedisce alla famiglia in Marocco) e un impiego, prima venditore di carbone e poi tornitore.


BUGIA… NAZIONALE Dal Club Frangais passa al C.A.S.G., poi allo Stade Frangais e al Charleville, indifferentemente stopper o centravanti. Helenio corre e corre soprattutto la sua straordinaria abilità di adorabile bugiardo. La sua autobiografia, pubblicata in Italia nel 1964, contiene alcune perle straordinarie. Asserisce di essere stato naturalizzato francese, con annesso obbligo di servizio militare, per poter giocare in Nazionale e racconta pure di un suo errore tattico in una partita pareggiata col Belgio a Bruxelles, da terzino sinistro. Peccato che negli annali della Nazionale francese non ci sia traccia di questa militanza. Ancora: dopo la guerra, schivata nei suoi orrori grazie all’impiego alla Saint Gobain, continua a giocare a calcio nello Stade Frangais e frequenta pure un corso per allenatori, venendone nel giro breve d’un anno immancabilmente cooptato quale professore. In questa veste viene spedito in Nord Africa a tenere lezioni di calcio: «Ricordo che un pomeriggio presenziai a una partita in un campo di prigionieri. Una squadra era impegnata contro un’altra di mori. Mi colpì subito un moretto che correva col pallone letteralmente appiccicato ai piedi. Uno straordinario giocatore! “Come si chiama questo ragazzo?” Domandai. “Larbi Ben Barek, signore “. Dopo la partita mi avvicinai al giocatore e gli dissi: “Mi chiamo Helenio Herrera, e un giorno o l’altro verrò a prenderti per farti giocare in Francia. Con quello che sai fare guadagnerai molto denaro… Mi rispose con un ampio sorriso, come se gli avessi parlato per scherzo. Ora Larbi sa che Helenio Herrera gli parlava molto seriamente…». Orbene: il grande Larbi Ben Barek, tra i primi fuoriclasse del calcio africano, praticamente coetaneo di Herrera (era nato il 16 giugno 1917), emigrò a Marsiglia nel 1937, venne naturalizzato francese ed esordì tra i “Bleus” il 4 dicembre 1938 contro l’Italia a Napoli, ben prima della guerra! Ma non è finita. Herrera diventa allenatore. Comincia in un club dilettantistico dei dintorni di Parigi, il Puteaux, poi la fama si estende, passa allo Stade Francais. E cosa succede? «Il presidente dello Stade Francais era una persona assai facoltosa ed ambiziosa. Appena assunsi le mie funzioni gli parlai del giocatore moro che avevo visto all’opera nel campo di


prigionieri di Ain-Seba e gli chiesi d’essere inviato a cercarlo. Aveva fiducia in me ed acconsentì. L’ingaggio di Larbi Ben Barek costituì uno dei più clamorosi scandali sportivi francesi. A tutti risultava assurdo che si pagasse un milione di franchi per un moro completamente sconosciuto. Ero il principale responsabile dell’ingaggio che veniva definito pazzesco e, naturalmente, la mia posizione era piuttosto delicata. Senonché nel formulare il mio giudizio su un giocatore io non mi sono mai sbagliato. Alcune partite bastarono a trasformare Ben Barek da “moro dello Stade Frangais” in “perla nera ” e fare di lui uno dei più grandi giocatori di tutti ì tempi». Inutile dire che Ben Barek venne acquistato dallo Stade Francais quando era già una delle stelle della Nazionale francese. Il bugiardo però ci sapeva fare e non aveva paura di nulla. Stando al suo racconto, in pochi mesi venne nominato Commissario Tecnico della Nazionale francese (in realtà i selezionatori nel periodo furono Gaston Barreau e Gabriel Hanot) e poi…: «Avendomi il governo nominato professore-allenatore generale unico, ero continuamente costretto a dare lezioni e conferenze a preparatori, maestri di scuola e professori di educazione fisica. Grazie ad una portentosa resistenza fisica e ad un ottimo equilibrio nervoso non avevo bisogno, come accade a molti allenatori, di perdere molte ore a dormire al sole. Venni nominato anche segretario della Commissione Tecnica della Federazione francese di football, con giurisdizione su tutti i problemi d’indole tecnica e, come se ciò fosse stato poco, creai il Sindacato Allenatori del quale divenni segretario generale con un congruo stipendio per la redazione e pubblicazione d’un bollettino quindicinale. Di mia iniziativa seguii i corsi d’infermiere e massaggiatore-medico facendo pratica in un ospedale parigino ed ottenendo nell’esame finale i voti migliori. Malgrado i successi ottenuti nell’ambito sportivo non abbandonai il mio lavoro. Ero sempre capo sezione nella fabbrica di Saint Gobain ed effettuavo frequenti viaggi ai porti in cui erano situati i cantieri nei quali lavoravano i nostri operai addetti all’isolamento delle tubature e delle caldaie delle navi. Mi dedicavo alla mia professione con l’entusiasmo di sempre e cercavo nuove applicazioni per la lana di vetro per isolare, ad esempio, batterie di autoveicoli, schermi cinematografici, ecc. La molteplicità delle mie occupazioni non influiva negativamente sull’efficacia delle mie diverse attività». Nessuno avrebbe mai osato dubitarne.


MAGIE E ADDITIVI Il resto del romanzo, in pillole: un doppio confronto con l’Atletico Madrid lo fa conoscere agli spagnoli, che si fanno avanti. Dopo una salvezza conquistata al Valladolid per fare esperienza, si trasferisce all’Atletico e la bomba H.H. esplode: due titoli consecutivi e un secondo posto, poi il cambio a sorpresa del presidente, le dimissioni e la rottura con l’Atletico, il passaggio al Malaga, ormai condannato, e poi il “torneo di qualificazione” per la salvezza vinto alla guida del La Coruna, infine l’approdo a Siviglia. Qui, dopo tre ottime stagioni, la morte improvvisa del presidente Sanchez Pizjuan deteriora i rapporti con la dirigenza, che pretende il rispetto del contratto anche per le successive due stagioni. Herrera scappa in vacanza, la Federcalcio lo squalifica, lui emigra in Portogallo, al Belenenses, infine il Barcellona lo fa graziare e inizia il periodo d’oro. In Catalogna Helenio Herrera spopola, vincendo in due anni due titoli nazionali, due Coppe delle Fiere e una Coppa di Spagna. Scivola solo in Coppa dei Campioni, sfuggita in semifinale a opera degli eterni rivali del Real Madrid e non gli par vero, nel momento in cui improvvisamente si oscura la sua fama in blaugrana, di subire il corteggiamento della Mecca del calcio. Il “cardinale” Valentini, l’uomo di fiducia del presidente dell’Inter, Angelo Moratti, lo avvicina e don Helenio vende cara la pelle. Vuole soldi, tanti, tantissimi, e i premi doppi. Abbiamo già raccontato delle pesanti ironie sollevate dal suo contratto (ben più del triplo degli stipendi dei colleghi migliori) e anche della promessa: lo scudetto in tre anni. Helenio Herrera dà una scossa elettrica all’ambiente. I suoi cartelli nello spogliatoio dominano la scena: «Giocando individualmente, giochi per l’avversario; giocando collettivamente, giochi per te», «Il calcio moderno è velocità. Gioca veloce, corri velocemente, pensa velocemente, marca e smarcati velocemente». Le partenze a razzo della sua squadra sconvolgono il campionato, obbedendo al motto del Mago («Taca la bala!», maccheronica versione italo-ispanica del francese “Attaquez le bal-


lon!”). Poi, stremata, l’Inter cede a primavera e qualcuno opina che non solo di naturale calo fisico si tratti, ma anche dell’inevitabile effetto di qualche additivo. «Il primo e il secondo anno di sua milizia in Italia erano stati amarissimi» scriverà Gianni Brera; «la gente non era gran cosa e i riti di spogliatoio, conclusi con la famosa bustina, ne facevano letteralmente strame». Su un incidente di doping ebbe pure a inciampare, Mago Helenio, nella primavera del 1962, quando a una squalifica di alcuni giocatori interisti rispose andandosene ai Mondiali come Ct della Spagna. Nell’incertezza, il presidente Angelo Moratti mise sotto contratto l’emergente Edmondo Fabbri, artefice del “miracolo Mantova”. Poi, improvvisamente, Helenio tornò alla base come se nulla fosse accaduto, e Fabbri restò col cerino acceso in mano, salvo ricevere la sontuosa (ma infausta) riparazione della panchina di Ct della Nazionale, dopo la promessa di quella del Verona.

TRIONFI E POLEMICHE Quel ritorno nel 1962 fece la fortuna di tutti, all’Inter. Alla sua terza stagione, Herrera cominciò a vincere. Anche se il solito Gianni Brera non era proprio convinto che tutti i meriti andassero ascritti al “Mago”: «Al terzo anno, il crollo si andava profilando allorché intervenne di persona Moratti. Ascoltando i giocatori e qualche amico (quorum ego), il presidente costrinse Herrera a metter fuori Buffon, scadutissimo, e servirsi in centro campo di Bolchi e di Maschio». In realtà, la svolta vera ci fu quando Herrera sacrificò il lento Maschio al baby Sandrino Mazzola, portatore


della ventata di freschezza atletica e tecnica di cui la squadra aveva bisogno per imporsi nel rush finale. La Grande Inter nacque così, tra calcio d’autore e polemiche infaticabilmente attizzate dal Mago per restare sempre sotto i riflettori. Con lui l’allenatore diventava personaggio. E se ne accorse in primis Nereo Rocco, destinato ad assumere rilievo popolare solo grazie alla contrapposizione col chiacchierone dell’altra sponda, soprannominato, dalle sue iniziali, Habla Habla (parla parla, in spagnolo). La Grande Inter fu il capolavoro di Herrera, squadra entrata nella leggenda per la raffinata quanto micidiale interpretazione del Catenaccio. Il modulo, per la verità, era estraneo al tecnico al momento dell’approdo in Italia. Ma bastarono poche partite e l’affettuosa pressione del presidente a fargli cambiare idea, realizzando tra l’altro uno dei capolavori della sua carriera: la trasformazione del discreto terzino Picchi in grande libero. E se qualcuno osava contestare che la scelta del Catenaccio fosse farina del suo sacco, don Helenio aveva la risposta pronta: il Catenaccio? L’aveva inventato lui: «Giocavo terzino sinistro nello Stade Francais: in una gara importante stavamo conducendo uno a zero ma eravamo in difficoltà; allora io, che ero il capitano, decisi di modificare il modulo a WM con cui eravamo schierati: mi spostai dietro la difesa, davanti al portiere, e dissi al mediano di prendere in consegna la mia ala. Quando poi divenni allenatore della stessa squadra, mi ricordai di quella esperienza e adottai lo schema abitualmente in trasferta e per certi impegni importanti. I miei ragazzi lo chiamavano “le beton”, il cemento, perché il libero garantiva una difesa impenetrabile». Per fortuna, nessuno gli chiese mai la storia della penicillina. Tra una chiacchiera e una trovata tattica, Helenio prese a vincere come nessuno. Piazzò l’Inter prima in campionato quattro volte di fila e solo lo spareggio col Bologna nel 1964 ridusse a un tris il poker di scudetti. Dall’anonimato (o quasi), l’Inter assurse a stella conosciuta su tutto il pianeta. L’incanto sfumò di colpo nella dannata primavera del 1967, quando al momento della consueta vendemmia di risultati, la squadra in un pugno di giorni deragliò da rutti i binari. Un knock out da cui non si sarebbe risollevata più. E neppure il Mago, più o meno, che in quei giorni si dimise pure dall’incarico di Ct della Nazionale azzurra, condiviso per otto mesi con Ferruccio Valcareggi. Le polemiche furono al solito aspre, qualcuno lo accusò di utilizzare la Nazionale come un giocattolo, ma il Mago presentiva che un’era si stava chiudendo e che il pur paziente Moratti avrebbe malsopportato quell’equivoco doppio ruolo ora che il paracadute delle vittorie era venuto a mancare. Don Helenio provò ad avviare il rinnovamento nella continuità, ma il quinto posto della stagione successiva e l’abbandono di Angelo Moratti gli consigliarono di cambiare aria. Il resto è decadenza, sontuosa secondo personale tradizione, ma non per questo meno verticale.


I GRANDI RITORNI Lo assunse alla Roma Francesco Ranucci, padre di Raffaele, ma poi dovette gestirlo Alvaro Marchini, e non furono rose e fiori. Herrera pretese un contratto principesco, salito fino a 258 milioni a stagione. Venne licenziato, per povertà di risultati, nell’aprile 1971 e sostituito per le ultime giornate del campionato da Luciano Tessali. La rivolta di piazza fu fatale al presidente e il successore Gaetano Anzalone riassunse immediatamente il Mago, placando i tifosi. In cinque stagioni la “mala suerte” limitò i successi a una Coppa Italia. Poi venne cacciato, di nuovo in aprile, nel 1973 e se ne andò offeso. A Roma aveva trovato la terza moglie, Fiora Gandolfi, che gli diede il settimo figlio della sua vita, Helios. Da Roma si mosse solo quando un rigurgito di nostalgia indusse Ivanoe Fraizzoli a tentare un’improbabile operazione revival. Il ritorno all’Inter fu malinconico. Il Mago ottenne finalmente ciò che Moratti sempre gli aveva negato, cioè la cessione del “nemico” Mariolino Corso, onde risparmiarsi gli immancabili «Tasi, mona» biascicati a commento di ogni suo appunto tecnico. Habla Habla hablava ancora, questa volta di modulo Ajax, mentre i “boss” della squadra si lanciavano ironiche occhiate. Un focolaio di broncopolmonite l’8 febbraio 1974 lo costrinse al ricovero in ospedale chiudendo pietosamente il capitolo. Herrera uscì di scena. Rimase il brillante polemista, che si concesse ancora un paio di ritorni sulla ribalta. Il primo, come consulente del presidente del Rimini, Bonanno, in Serie B, nel marzo del 1979 per neanche due mesi. Ci aveva già provato, a tornare in panchina al Rimini, tre anni prima, ma era venuta a galla la storia di una vecchia squalifica e i 60 anni ormai compiuti gli avevano precluso la qualifica di allenatore. Poi, il Barcellona in crisi lo chiamò nel marzo del 1980: il Mago si scrollò di dosso venti anni e portò il Barcellona in Coppa Uefa. Pochi mesi dopo, in novembre, Nunez lo invocava ancora, dopo aver licenziato Kubala. E H.H. infilò l’ultima perla della sua collana, la Coppa del Re, vinta il 18 giugno 1981 sullo Sporting Gijon nel Camp Nou ribollente di entusiasmo. Questa volta era davvero


finita. Si ritirò a Venezia, dividendosi tra comparsate televisive e commenti al vetriolo. Lucido, tagliente, sempre aggiornato, nel suo palazzotto di Rialto trascorse anni sereni, fino alla morte, il 9 novembre 1997, per arresto cardiaco in seguito a edema polmonare.

H.H.: HANNO DETTO DI LUI Sfogatevi pure a giudicarlo come gli umori vi dettano dentro. Buffone e genio, cialtrone e asceta, manigoldo e buon padre, sultano e fedele, Pirgopolinice e Bertoldo, becero e competente, megalomane e salutista. Herrera è tutto questo e altro ancora, come succede forse a ciascuno di noi. L’ho incontrato mago e l’ho riscoperto bambino, seguendolo con voi traverso mari e contrade di ogni continente. Io francamente non so come sia riuscito a mostrarvelo, per quante facce, da quanti lati. Importante, per me, che il personaggio non sia mai fasullo, neppure quando si sforza di esserlo. E H.H. è sempre vero,se non proprio accettabile. Un professore di liceo si è sdegnato di sentir citare H.H. con Giovanni XXIII e Kennedy, come ha domandato a un allievo quali fossero secondo lui i tre uomini più rappresentativi del nostro tempo. Poteva fare a meno di indignarsi, prendendone atto: un grandissimo Papa, un presidente americano dotato di intelligenza e coraggio, poi quel centauro pedagogo di calciatori. Si capisce, è uno sproposito: il mondo è pieno di gente il cui dito mignolo vale più d’un centauro pedagogo di calciatori: però non è detto che varrebbe più di H.H. se appartenesse pure ai centauri pedagoghi. Il discorso è piuttosto semplice e fila: come H.H. è il più bravo di tutti, ottiene i risultati migliori di tutti. Lo tacciano di magia e lui risponde: “lavoro sodo”; lo ritengono tonto in panchina e lui dalla panchina non cambia mai nulla di proposito: un calciatore sbaglia già troppo a far quello che deve fare, figuriamoci a fargli fare altro. Il suo metodo è logica e applicazione, criterio analitico e fiducia in se stesso. Nessuno al mondo crede in H.H. quanto lui. E’ certo, innegabile, arcisicuro che H.H. voglia un bene dell’anima a H.H., e che lo stimi più di chiunque su questa terra. Vi sembrerà indegno ed abnorme: é soltanto normale ed umano: con la differenza che gli altri si


nascondono e lui si mostra qual’è. Ecco il punto : com’è in definitiva H.H.? Se volete, si può continuare. (Gianni Brera, da “Herrera”, Longanesi & C. 1966; ristampa Limina 1997) Nell’ambiente torpido, provinciale e sostanzialmente conformista del calcio italiano, egli portò tutte le qualità ed i vizi di un temperamento zingaresco. Tipico autodidatta, mezzo negromante e mezzo fisiologo, impasto di menzogne, di spacconate e di intuizioni geniali, non digiuno di solide nozioni professionali, dotato di una ferrea ambizione e di una capacità di applicazione quasi sovrumana, votato alla religione borghese del “dinero” per reazione ad un’adolescenza miserrima, il gitano marocchino doveva rivelarsi infinitamente più forte, scaltro e moderno di gran parte degli allenatori operanti in Italia, anche se non soprattutto nell’arte di valorizzare oltre misura il proprio valore. (……) All’arrivo (in Italia), egli assunse atteggiamenti da “caudillo” che gli propiziarono pesanti sarcasmi, specialmente quando manifestò la propria inclinazione al drogaggio psicologico (……..). Come scriverà più tardi Gianni Brera: “prima di entrare in campo i giocatori sono tenuti a compiere gesti e pronunciare frasi da rituale…..liturgico-muscolare. H.H. si aggira tra i suoi dardeggiando occhiate mesmeriche. I giocatori, come intimiditi, si affrettano a mettersi in divisa e calzarsi. Il massaggiatore li ha già strigliati quanto basta (e per quanto ha chiesto ciascuno di loro). H.H. pronuncia frasi tra il reboante e il maniaco. I concetti, magari, sono ovvi però la sua voce è metallica, la convinzione è assoluta, la luce dei suoi occhi inquietante. Chiaro che annette importanza notevole se non fondamentale a questa introduzione ludica. “Vinceremo!”, grida scrutando i suoi. “Vinceremo perché siamo i più forti….C’è qualcuno che ne dubita?” (petto in fuori, mascella in fuori, occhietti strizzati, bocca stirata da una smorfia malevola). “Qui tutti!” (un vero e proprio urlo che spaventa). Le mani sul pallone, fanno una catena.”Ripeti! Vedi che sei assente? Non voglio, non voglio!”. Al fondo di questo comportamento schizoide (…..) c’era però un senso del ritmo, dello spettacolo e della disciplina che molti critici non apprezzarono subito al suo giusto valore, anche perché il nuovo venuto non mostrava alcun timore reverenziale verso i “mamma-santissima” della stampa. (Antonio Ghirelli, “Storia del calcio in Italia”, Einaudi 1972) Di lui si sa già molto e quando mette piede a Milano conferma subito la sua fama di conducator chiaccherone e polemico e anche quella di grande uomo di calcio, puntiglioso e instancabile. Don H.H. vuole conoscere tutto e tutti. Non si accontenta di visionare i giocatori della prima squadra e le riserve: vuole vedere alla prova anche i ragazzi delle giovanili per rendersi conto di persona delle forze che avrà a disposizione. Quando me lo trovo davanti provo una forte emozione: un testone nero con due occhi scuri, penetranti, che scavano come per leggermi dentro. “Questo è il figlio di Mazzola, mister…”, gli dice un dirigente. “Sì,so…so. Gran giugador el padre. Vederemo, vederemo tu”. Secco e conciso nel suo italiano pittoresco, ecco come mi si presenta Herrera. Ho quasi la sensazione che si sia un po’ scocciato. Al contrario degli altri dirigenti, Meazza escluso, che non hanno perso occasione per strombazzare ai quattro venti di avere con loro il figlio del grande Valentino, lui non dà alcuna importanza al nome, anzi con quel suo sguardo tagliente sembra voler subito farmi intendere che le raccomandazioni sono inutili e dannose”. (Sandro Mazzola, “La prima fetta di torta”, Rizzoli 1977) Le scuole di calcio vere e proprie sono nate soltanto negli anni sessanta. Gli anni di Helenio Herrera, autodidatta, proclamatosi mago di scienza calcistica e comunque enorme innovatore in fatto di rapporti umani. Si disse, e non fu troppo sbagliato, che tutti i tecnici a venire avrebbero dovuto corrispondere una tangente a Helenio Herrera. Il tipo approdò in Italia nel 1960 sullo slancio di grossi successi conquistati in Spagna con il Barcellona. Subito cercò di stabilire un rapporto carismatico, fra lui e i giocatori, fra lui e il presidente della società: era, quella di quei tempi, l’Inter


di Angelo Moratti, un petroliere salito velocissimamente alla ribalta della finanza e del calcio nazionale, uomo di idee nuove, o perlomeno aperto a esperienze nuovissime. Herrera, anziché intitolare il proprio credo a un sistema di gioco, preferì intitolare tutto a se stesso, ai propri metodi spinti di allenamento,alla carica che in qualche maniera, dialettica o chimica,riusciva a impartire alla squadra. Ma la vera rivoluzione di Helenio Herrera consistette soprattutto nella costruzione totale della figura del tecnico,il quale divenne autenticamente mago,in possesso di poteri altissimi sul corpo e anche sull’anima dei suoi adepti, cioé dei suoi giocatori. Herrera diede davvero una carica magnetica a chi giocava con lui, e si fece riconoscere con molti milioni questa “innovazione”, aprendo la strada dei grossi guadagni un po’ a tutti gli allenatori di grido, quelli cioé delle squadre di Serie A. Praticamente, questo Herrera non subì concorrenze. Il suo personaggio fu sempre al di là del bene e del male, al di sopra di una certa mischia: era sfrontato in una maniera non irritante,ma annichilente. I successi parlavano per lui,che venne fermato soltanto da un infarto,così che tutta la sua carica, non più estrinsecabile sul campo, divenne puramente teorica, o nel migliore dei casi giornalistica.






Foto Publifoto Milano (Archivio Banca Intesa)

Peirò Addio a Joaquín Peiró, attaccante della grande Inter di Helenio Herrera. L'ex numero 9 spagnolo e' scomparso all'età di 84 anni, come riferiscon Marca e As sulle loro edizioni on line. Peirò gioco' nell'Atletico Madrid, nella nazionale spagnola e prese parte alle imprese dei nerazzurri guidati dal 'Mago': famoso il suo gol di 'rapina' al portiere del Liverpoool che valse la rimonta in semifinale della Coppa dei Campioni del 1965, poi vinta.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.