L’INTERVISTA
Cosa ne pensa il Ministro Dario Franceschini
L’INCHIESTA
Dietro le quinte del Made in Italy
START-UP WORLD
L’assenza di tecnologia nel Piano Straordinario del Made in Italy
issue 01
bimestrale tematico maggio - giugno 2017
SOFT POWER
Come l’Italia si racconta all’estero. E come potrebbe raccontarsi meglio: strategie e strumenti.
LA PRIMA RIVISTA SCRITTA, DIRETTA E VOLUTA DA PROFESSIONISTI
UNDER 35
Ogni numero della rivista si caratterizza per la scelta di una tematica da indagare. Lo scopo di The New’s Room è quello di offrire, in ogni sua release, un punto di vista diverso, snello e specifico riguardo ad un argomento di largo interesse. FONDATORE Pierangelo Fabiano DIRETTORE Sofia Gorgoni DIRETTORI EDITORIALI Sara D’Agati Lorenzo Castellani
Pierangelo Fabiano, fondatore di The New’s Room
REDAZIONE Velia Angiolillo Davide Bartoccini Antonio Carnevale Cinzia Maria Caserio Claudia Cavaliere Carlo Cauti Ilaria Danesi Matteo Di Paolo Gerardo Fortuna Maurizio Franco Maria Genovesi Barbara Hugonin Marta Leggio Andrea Palazzo Niccolò Piccioni Luigi Maria Rossiello Cosimo Rubino Simone Rubino Mariastella Ruvolo Nicolò Scarano
cover story
editoriale
5
Franco Ferraro
18
C’era una volta il Grand Tour
Ilaria Danesi
Start up e innovatori per rilanciare il turismo
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Antonio Carnevale, Maria Genovesi
Borghi d’Italia, quest’anno tocca a voi!
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Luigi Rossiello
Vivere all’italiana
24
Claudia Cavaliere
La City cambia casa. Il posto dell’Italia
25
nell’era post brexit
Velia Angiolillo
Energia: nuovi (e vecchi) ambasciatori
26
Gerardo Fortuna
28
Non si mangiano spaghetti con le polpette qui!
Matteo Di Paolo
Alta velocità, eccellenza italiana
29
Gerardo Fortuna
L’inchiesta. Dietro le quinte del Made in Italy:
30
agroalimentare tra narrazione e realtà
Maurizio Franco approfondimenti
6
8
32 Raccontiamoci meglio Sara D’Agati
Europa, soft power a due velocità
Simone Rubino
Intervista al Ministro Franceschini
10
Sofia Gorgoni
Quando il soft power fa il make-up
12
agli autoritarismi
Lorenzo Castellani
San Paolo del Brasile: orgoglio italiano
15
Carlo Cauti
Italians in America - anno domini 2017 16
16
Nicolò Scarano
Oltre le tre F
17
Resilienza, l’arte Italiana di arrangiarsi Andrea Palazzo
rubriche
33
Innovazione e territorio
Mariastella Ruvolo
34
Il punto di vista delle aziende
35
Scuola e universitĂ
Marta Leggio
Start up world
36
Velia Angiolillo
I lavori del futuro
37
Andrea Carnevale
38
Health & science
Barbara Hugonin
Policy room
39
Reti
in the mood 42 Fashion
Niccolò Piccioni
Food and Furious
44
Cinzia Caserio
46 Lifestyle
Davide Bartoccini
Cosimo Rubino
Q30
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il coach
EDITORIALE CONVINCERE. SEDURRE. CAMBIARE. IN POSITIVO. Tu chiamala se vuoi persuasione. La persuasione, secondo Richard Perloff, può essere definita come: “un processo simbolico in cui i comunicatori cercano di convincere altre persone a cambiare i loro atteggiamenti o comportamenti in vista di un problema, attraverso la trasmissione di un messaggio in un clima di libera scelta”. Fermiamoci e passiamo al setaccio questa definizione. Scegliamo un verbo: convincere. Tre sostantivi: comportamenti, messaggio, (libera) scelta. Uniamoli e avremo il cuore del soft power. Sintesi della visione di Joseph Nye: influenzare il comportamento altrui senza minacce o compensi, ma facendo leva sull’attrazione, l’attrazione (tu chiamalo se vuoi fascino) della cultura, degli ideali e delle pratiche politiche di un paese. È il buono che vince, non l’inganno, la qualità, non la manipolazione. È, in fondo, la seduzione del potere morbido. È fondamentale osservare che Nye, quando sviluppò le sue idee sul soft power, non lo fece con il fine di partecipare a una discussione teorica sulla natura del potere. Lo fece piuttosto nel corso di una discussione sulla leadership degli Stati Uniti nel sistema internazionale e sulle modalità e gli strumenti per difenderla. E avvertì quanto fosse pericoloso un eccessivo ricorso al potere “duro” insistendo sulla necessità per gli Stati Uniti di trovare accordi con mezzi più morbidi, vale a dire coalizioni di volontà piuttosto che coalizioni di coercizione. Parafrasando, in modo dissacrante, Marshall McLuhan, Ennio Flaiano trasformò il celeberrimo “Il medium è il messaggio” in un più ruspante: ”Non è la posta che dobbiamo aprire, è il postino che bisogna leggere”. Provocazione? Tutt’altro. Il postino è il soft power, il soft power dell’Italia è l’Italia. È ciò che emerge, in modo netto, inequivocabile, dagli articoli di questo numero. Hanno tutti una forza positiva. Partoriscono riflessioni stimolanti. Trasferiscono concetti buoni. Espressione di un paese che vuole dare il meglio di sé, convincere, di più, con sana quanto legittima ambizione, creare emulazione. Non a caso Nye parla di “livello di prosperità e di apertura” di un paese, che presumibilmente spingerebbe gli altri “a seguirlo”. E l’Italia ha qualcosa di più. Una marcia in più sulla strada della persuasione morbida. La persuasione si serve di argomenti, ma essi – spiega Antonio Godino – sono “ più emotivi ed affettivi che dialettici. La principale arma della persuasione è la suggestione, vale a dire un suggerimento d’azione che orienta e condiziona la scelta comportamentale dell’interlocutore”. Persuasione morbida, suggestione positiva. Tutto s’incrocia nel concetto di soft power. Tutto sembra rincorrersi per poi ritrovarsi nel punto previsto. Ultima tappa o nuovo inizio?
Franco Ferraro
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Sara D’Agati Un viaggio a mezz’aria tra l’Italia com’è, e l’Italia come la vorremmo.
Telling Italia’s story Nel 1953, l’allora presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, investì milioni di dollari nella creazione di un’agenzia, la United States Information Agency (USIA), incaricata di “raccontare la storia degli Stati Uniti al resto del mondo”. Per farlo, dovette superare le resistenze del Congresso che non comprendeva la necessità di investire tanto denaro per raccontare al mondo i pregi del capitalismo e della democrazia americana che, a loro avviso, apparivano “self-evident”. Ma erano anni di Guerra Fredda, e convincere il resto del mondo della superiorità del modello americano rispetto a quello sovietico divenne presto un imperativo sufficiente a convincere anche i più scettici in Congresso. Per raccontare la storia dell’America al mondo, l’Agenzia si servì di ogni mezzo: dalla radio, al cinema, ai giornali, agli scambi accademici e culturali, ai corsi di inglese, all’organizzazione di mostre e concerti ed eventi. Vennero addirittura costruite apposite jeep dotate di proiettore per portare i film di Hollywood negli angoli più remoti del globo. Wilson Dizard, un ex funzionario dell’Agenzia, ricorda che una volta si trovò a mostrare Via col vento in mezzo alla giungla ad una tribù di circa cinquecento individui al confine tra il Bangladesh e la Birmania. Era il soft power americano in azione. Popolarizzata come espressione dal politologo americano Joseph Nye nei primi anni novanta, la pratica di influenzare, convincere e sedurre l’opinione pubblica e i governi all’estero tramite strumenti intangibili quali i valori, l’arte e la cultura intesa in senso ampio, è sempre esistita. Che a spingerla fossero le vestigia imperiali e un senso di noblesse oblige, come nel caso di Inghilterra e Francia, o la necessità di cancellare sordidi capitoli del passato, come avvenne con la creazione del Goethe Institute nella Germania del dopoguerra, nessuna grande potenza ha potuto prescindere dalla creazione di strutture integrate di proiezione esterna dei propri assett, come elemento di influenza sullo scacchiere internazionale. L’Italia, al contrario, ha sempre lasciato che la sua 6
ricchezza artistica, paesaggistica ed enogastronomica parlasse da sé, senza costruire una struttura integrata di promozione del sistema Italia all’estero. Il resto l’hanno fatto la creatività e il genio italiani, che hanno reso il brand Made in Italy famoso nel mondo. Come i membri del Congresso americano all’epoca, ci siamo detti che le ragioni che rendono l’Italia attrattiva all’estero sono self-evident. Lo dimostra il fatto che investiamo sempre meno in programmi di scambio che portino talenti stranieri in Italia, siamo scarsamente attivi nel promuovere lo studio della lingua italiana nel mondo, e siamo l’unico paese industrializzato e competitivo sul mercato a non avere organi di informazione in lingua inglese in grado di raccontare l’Italia all’estero. La Francia, per dirne una, con France-24, un canale all-news in inglese e arabo, raggiunge oltre 300 milioni di persone nel mondo. Questo significa che le notizie che di noi giungono all’estero, arrivano solo ed esclusivamente filtrate da giornali terzi, in particolar modo anglosassoni. Eppure il “racconto” è un elemento centrale del soft power. Disintermediare, significa renderci protagonisti di ciò che di noi arriva all’estero. C’è bisogno di raccontare l’Italia in modo diverso, ce n’è bisogno per attrarre investimenti, per favorire la circolazione dei cervelli e per mettere a frutto il patrimonio artistico culturale, che in Europa ci vede in coda a Francia e Spagna per numero di turisti nonostante ospitiamo la più alta percentuale dei siti Unesco al mondo, e per farlo non bastano iniziative isolate, seppur meritevoli. Serve un sistema governativo di public diplomacy che integri i livelli locale e nazionale, pubblico e privato, e che proietti un’immagine dell’Italia all’estero attrattiva. Non sganciata dalla politica, si intende, e che non vada a sostituirsi ad essa. Ma che funga da vetrina e riesca a mettere in mostra ciò che vogliamo presentare, al netto del disfattismo esterofilo: se ci sono delle cose che sappiamo fare bene, presentiamole bene. Si innescherà un circolo virtuoso da cui si può soltanto trarre vantaggio.
In questo numero cercheremo di superare la retorica delle tre F (Food, Fashion and Forniture) per presentare settori di punta italiani meno celebrati ma altrettanto d’eccellenza che vanno dalla robotica, all’alta velocità, all’energia, al farmaceutico. Proveremo ad immaginare come il riassetto delle istituzioni europee post-Brexit influirà sulla proiezione internazionale dell’Italia. Racconteremo di iniziative virtuose in termini di valorizzazione e promozione del territorio a livello locale e da parte di privati, dal singolo cittadino al mecenatismo di importanti case di Moda, esploreremo le potenzialità della tecnologia e del digitale nel promuovere l’Italia all’estero e nel rendere più interattiva e dinamica l’offerta culturale. Spazieremo dallo sguardo retro’ del nuovo cinema italiano, alle contraddizioni del brand Made in Italy nel settore dell’agroalimentare.
Non ci risparmieremo critiche, perché nonostante il recente Piano Strategico per il Turismo e l’iniziativa Vivere all’Italiana lanciate di recente rispettivamente dal MiBACT e dalla Farnesina, in Italia la strada per sfruttare appieno il nostro potenziale attrattivo è ancora lunga.
In termini di promozione, le aspettative del turista nel mondo globalizzato sono cambiate, il ventaglio di scelta si è ampliato enormemente e il rischio dell’Italia, con un’offerta a livello di patrimonio ricchissima, ma estremamente parcellizzata, è la difficoltà ad integrarla, comunicarla e promuoverla con la stessa forza dei nostri competitor. Le sole risposte possibili sono nella creazione di maggiori sinergie tra settori enogastronomico, agricolo e culturale e tra enti nazionali e specificità locali. È necessario, quindi, agire con urgenza su un doppio binario: da un lato quello della tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio artistico culturale, dall’altro quello delle infrastrutture fisiche e normative. In entrambi i casi, la sola via possibile è nella costruzione di un approccio coerente ed integrato sia tra settore pubblico e privato, che tra livello nazionale e locale, che sappia anche sfruttare appieno le potenzialità delle nuove tecnologie. In altre parole: fare sistema. Perché esiste un elemento dal quale un corretto racconto dell’Italia non può prescindere, ed è la verità. “Fare bene”, pertanto, è la premessa per raccontare bene. Obiettivo di questo numero quindi non è soltanto raccontare eccellenze, buone pratiche, carenze e contraddizioni; ma offrire spunti e strumenti perché si faccia meglio. Un viaggio a mezz’aria, questo in cui intendiamo portarvi, tra l’Italia com’è, e l’Italia come la vorremmo.
Gli attuali investimenti pubblici in tutela del patrimonio, sono a dir poco irrisori se si tiene conto del costo medio di un qualsiasi intervento ampio di restauro monumentale. Per questo è necessaria la definizione di regole precise e la chiara delimitazione di ambiti di competenza che favoriscano la gestione integrata, pubblica e privata, di determinati beni culturali. Lo stesso discorso vale per un livello adeguato di infrastrutture che garantisca la fruibilità di tali beni. 7
Simone Rubino
Europa,
SOFT POWER A DUE VELOCITÀ Un anno fa, l’8 giugno 2016, l’Unione Europea presentava il suo progetto di soft power, definito come rivoluzionario. “Verso una nuova strategia EU nelle relazioni culturali internazionali” recitava il titolo del programma fortemente voluto dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’italiana Federica Mogherini. Qualche settimana più tardi, il 23 giugno, arrivò la Brexit, il Regno Unito uscì dall’Unione Europea, le priorità si rovesciarono e la diplomazia culturale sembrò finire in soffitta. Gli Stati europei, membri o meno dell’Unione, proseguirono, in ordine sparso, l’esercizio del loro soft power nazionale. Un’interessante traccia di quel che si muove in Europa è stata fornita dalla classifica “Soft Power 30”. L’istituto di ricerca Portland ha ordinato i Paesi in base alla loro forza morbida, delineando un panorama mondiale nel quale il Vecchio Continente è ben presente. Ma il gap, per quanto sfaccettato, che separa chi corre da chi insegue è notevole: c’è un abisso fra Regno Unito, Germania e anche Francia rispetto a Paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia; l’Italia si colloca in una posizione a metà. Un’analisi dello stato dell’arte del soft power di ciascun Paese può essere abbozzata osservando tre variabili: i media autori della narrazione, la capacità di attrarre talenti e la qualità delle infrastrutture. Gli strumenti del racconto: La televisione rimane un mezzo di comunicazione fondamentale, anche nell’epoca dei social. La capitale globale dei media è Londra, con i suoi 1700 corrispondenti stranieri e la celebre piattaforma del BBC World Service. Ma esistono anche altre importanti realtà, in giro per l’Europa ci sono circa 60 reti all-news, sei di queste trasmettono in più lingue, fra le più significative c’è la transalpina France 24 che trasmette in francese, inglese e arabo, rivolgendosi soprattutto alla platea francofona dell’Africa e dell’Europa. In Italia si discute della possibilità di avviare una all-news targata Rai in lingua inglese. Un’esigenza che sembra stia andando ad assumere rilevanza, come testimoniato anche dalla proposta del presidente di 8
Mediaset, Fedele Confalonieri, di «fare una specifica alleanza tra Mediaset, Rai e altre reti per fare un canale all-news solo in inglese per informare gli investitori e i consumatori stranieri». La capacità di attrarre talenti: Quanto la Germania sia storicamente restia ad assumere il ruolo di guida negli affari esteri è noto, quanto invece stia diventando cool la prospettiva tedesca per gli investimenti è storia più recente. Berlino oggi duella con Londra in materia di cultura e digitale. Il relativo basso costo della vita, la vivace attività culturale e le agevolazioni per i giovani giocano a favore della Germania; ma nonostante la rincorsa dei tedeschi e il relativo afflusso di giovani intelligenze nel Paese, l’industria creativa del Regno Unito vale l’8% dell’economia britannica e Londra ospita un numero di start-up digitali superiore a quello di qualsiasi altra città europea. Nel Belpaese solo una città è oggi in grado di concorrere ai livelli di Londra, Berlino, Amsterdam, Dublino e Stoccolma: Milano. Un dato testimonia l’attrattiva economica e culturale di Milano: negli ultimi 15 mesi, si sono trasferiti nella città quasi 50mila giovani, fra i 20 e i 40 anni, per motivi di studio e lavoro. La pecca di Milano è la stessa di Londra: il costo delle case. Le infrastrutture: L’aspetto che in Europa spesso si scontra con la valorizzazione dei beni culturali e dei patrimoni storici è quello della mobilità. Non è un caso se, guardando la classifica dei Paesi con le migliori infrastrutture al mondo, stilato dalla società di consulenza Mercer, non si intravedono le località più attese. Ci sono, invece, molte città tedesche e Londra che è al terzo posto. Quest’ultima investe sui suoi musei e sulle sue gallerie anche grazie ai soldi del National Lottery Fund, l’ente britannico che si occupa della gestione dei proventi della lotteria. La duplice esigenza, soprattutto per l’Italia e gli altri Paesi del Sud Europa, è di preservare la straordinarietà dei paesaggi, dei musei, e dei monumenti e permettere che l’afflusso del turismo non venga frenato da ragioni infrastrutturali, tutelando il patrimonio paesaggistico e culturale, ma anche favorendo la sua fruibilità.
Sofia Gorgoni «La percezione del nostro Paese all’estero è altissima, siamo noi che dobbiamo averne maggiore consapevolezza»
La parola al ministro Dario Franceschini Se la cultura e il turismo sono motori della crescita economica del Paese e sono parte del nostro soft power, con la globalizzazione si sente ancora di più l’esigenza di investire sull’unicità dei nostri luoghi. Ma cosa si può fare per migliorare la percezione dell’Italia all’estero? Per il ministro della Cultura Dario Franceschini bisognerebbe prima di tutto migliorare quella degli italiani stessi. «La percezione del nostro Paese all’estero è altissima, siamo noi che dobbiamo averne maggiore consapevolezza – afferma il ministro - in molte ricerche emerge la grande distanza tra ciò che nel mondo si pensa dell’Italia e ciò che gli italiani pensano di se stessi. Nell’immaginario globale siamo percepiti come il luogo della bellezza, della cultura e della qualità della vita. Quell’insieme unico di patrimonio materiale e immateriale costituito dall’arte, dal cibo, dal design, dalla moda». Lei guida un ministero con competenze che spaziano dai beni culturali, al cinema, al teatro, fino ai flussi turistici. «Il giorno del giuramento del Governo al Quirinale ho definito il Mibact “il principale ministero economico” del Paese. A molti sarà sembrata una battuta di spirito, invece è proprio la consapevolezza che il nostro Soft Power è rappresentato dallo straordinario intreccio di arte, paesaggio e creatività che è un tratto fondante della nostra identità e la chiave su cui scommettere per il futuro.» Quale ruolo possono giocare gli imprenditori? «Un ruolo prezioso. Uno dei tabù che ho cercato di scardinare in questi tre anni di lavoro è quello che vedeva nella collaborazione tra pubblico e privato una minaccia e non un’opportunità. Per questo abbiamo introdotto l’Art Bonus, un credito di imposta al 65% per le donazioni in favore della cultura. Si tratta di una delle agevolazioni fiscali fra le maggiori d’Europa, a cui possono ricorrere imprese o singoli cittadini e che ha portato, dalla sua introduzione, oltre 4.250 mecenati a donare quasi 158 milioni di euro.» 10
Abbiamo un turismo all’altezza delle nostre bellezze ? «Se sapremo fare sistema con una strategia unitaria, davanti a noi abbiamo potenzialità enormi.Negli anni cinquanta l’Italia era la prima meta del turismo internazionale, oggi siamo quinti. Ma all’epoca i viaggiatori internazionali erano soltanto 25 milioni, adesso sono quasi un miliardo e mezzo ed entro alcuni anni saranno il doppio.» È l’anno dei borghi, come renderli luoghi di turismo 365 giorni l’anno? «Ecco, i borghi sono esattamente un simbolo del made in Italy perché ne racchiudono numerosi ingredienti: la bellezza architettonica, il paesaggio, il calore dell’ospitalità, le tradizioni, i saperi e i sapori, l’artigianato, la coesione sociale. Si tratta di una Italia in miniatura che merita di essere raccontata e valorizzata. La nostra sfida deve essere quella di far conoscere non solo i tesori delle grandi città d’arte ma anche il fascino di questa Italia solo apparentemente minore.» Come i borghi colpiti dal sisma. «Si tratta di luoghi che rappresentano una grande sfida che l’Italia intera è chiamata a vincere: bisogna recuperare e restaurare i centri storici devastati dalle scosse e al contempo lavorare per riportarvi la vita e la speranza. In questa direzione vanno le norme approvate dal Parlamento con un emendamento alla legge di Bilancio che prevede 4 milioni di euro per sostenere le attività culturali nei comuni del cratere sismico.» Ha fatto notizia la riapertura della Reggia di Caserta a Pasquetta voluta da Felicori, uno dei direttori scelti dopo la sua riforma del sistema museale. Può trarre un primo bilancio? «Sicuramente si può sempre fare di più e meglio ma i segnali sono stati straordinariamente positivi. I musei sono stati il cuore di una autentica rivoluzione gestionale e tariffaria, da semplici uffici delle
Soprintendenze sono diventati istituti dotati di autonomia amministrativa e scientifica e nel caso dei più importanti, come appunto la Reggia di Caserta, con direttori selezionati attraverso un bando internazionale. Si vede già un cambiamento: i visitatori nei musei statali sono aumentati di 6 milioni, arrivando al record assoluto di 44,5 milioni di ingressi nel 2016, con una crescita complessiva degli incassi pari a 45 milioni di euro.» Sembra cambiato il clima anche su Pompei. «Un luogo unico al mondo, che fino a qualche anno fa faceva notizia per i crolli: oggi si aprono nuove domus restaurate e, per la prima volta, il sito ha superato i tre milioni di visitatori. Da esempio di negatività è diventato un simbolo di ripartenza per il nostro Paese.» A proposito di Soft Power, se dovesse indicare un luogo del cuore, un esempio del segno italiano che ama particolarmente? «Sono molti, l’Italia è un giacimento straordinario. Citerò la mia Ferrara, una camminata lungo Corso d’Ercole, dalle mura al Castello è come un viaggio nel tempo, nel Rinascimento, un chilometro senza un’insegna o un negozio.»
Dario Franceschini, Ministro della Cultura
Che musica ascolta? «L’era dell’IPod consente di scegliere tra le proprie playlist e a me piace in base al momento della giornata o all’umore scegliere classica o jazz o i cantautori italiani, oppure selezionare “ordine casuale” e quando ti capita di reincontrare d’improvviso un pezzo dimenticato che ti risveglia qualche ricordo lontano, ti sembra subito quello il tuo preferito.» Ma dovendo scegliere una canzone. «Atlantide di Francesco De Gregori, ma è difficile dire perché. Le canzoni che ti entrano dentro, toccano qualcosa che non sai cos’è» 11
Lorenzo Castellani
Quando il soft power fa il make-up agli autoritarismi Negli ultimi dieci anni, su scala globale, il rapporto tra democrazia e autoritarismo sembra aver subìto una netta inversione di tendenza a danno della prima. Storicamente, rispetto agli autoritarismi, la scelta dell’occidente è stata quella d’integrare i regimi non democratici nell’ordine liberale internazionale perché, il dialogo paziente con queste potenze avrebbe comportato vantaggi reciproci. Tuttavia, pur essendo insediate nell’ordine capitalistico globale e nelle sue strutture istituzionali, le potenze autoritarie come Cina, Russia, e Iran non hanno prodotto svolte democratiche, ma al contrario hanno sviluppato politiche e pratiche per contrastare l’avanzata democratica tanto internamente quanto nelle proprie sfere d’influenza.
Oggi le autocrazie non solo proiettano operazioni militari al di fuori dei propri confini, ma s’impegnano nella confutazione della democrazia liberale, puntando efficacemente su strumenti di soft power, come i media, l’istruzione e l’economia, capaci d’influenzare l’opinione pubblica occidentale. Come sottolinea lo studioso americano Larry Diamond, esiste un toolkit delle potenze autoritarie, fatta di investimenti, aiuti, media nuovi e tradizionali, organizzazioni non governative attraverso cui il processo di soft power prende corpo. Uno strumento particolarmente efficace sembra essere quello di organizzazioni non governative, filo-regimi autoritari, che contrastano la funzione delle Ong occidentali nel monitoraggio elettorale e del rispetto dei diritti umani attraverso operazioni di contro-propaganda. A questa pratica si affianca quella degli aiuti alle nazioni amiche e degli investi12
menti, è una strategia particolarmente affinata dai cinesi che molto hanno investito su think tank, università, rapporti con istituzioni occidentali e internazionali per trasmettere l’immagine di un regime pulito, capace di incrementare gli standard di trasparenza e accountability. Inoltre, gli autoritarismi hanno imparato a parlare la lingua globale dei media nuovi e tradizionali. Da un lato, c’è l’allargamento dei social network a fasce sempre più estese della popolazione, accompagnato da una censura costante di profili, blog e giornali, mescolato con propaganda governativa attraverso quegli stessi strumenti; dall’altro c’è il rafforzamento delle televisioni su scala globale. La tv cinese Cctv e quella russa Rt hanno moltiplicato le proprie basi occidentali e ampliato le lingue con cui i propri canali televisivi vengono trasmessi. Su queste frequenze non va in onda alcuna mitizzazione dei regimi autoritari, che mai sarebbe accettabile dal pubblico occidentale, ma si punta su approfondimenti che mostrano la corruzione di tutti i regimi politici e in particolare delle democrazie liberali, con l’esaltazione dei valori nazionali come elemento di stabilità politica. Non potendo parlare bene di se stessi all’estero per le pressioni del mondo occidentale, i nuovi regimi preferisco contrattaccare via parabola i valori politici occidentali. Di fianco alle iniziative culturali e mediatiche c’è l’indebolimento delle istituzioni dell’ordine liberale internazionale, perché i nuovi autoritarismi lavorano trasversalmente insieme, nelle stanze dell’Onu, dell’Osce e di altri organismi, con il fine di neutralizzare la cultura dei diritti umani e l’avanzamento del verbo liberal-democratico. Al tempo stesso, i regimi non democratici stanno rafforzando le proprie organizzazioni che promuovono delle “authoritarian-friendly norms” come la Shanghai Cooperation Organization e la Eurasian Economic Union. Da ultimo, Cina, Russia e Iran sono diventati maggiormente internazionalisti non solo sul piano
militare, ma soprattutto sul piano istituzionale e mediatico. L’utilizzo degli strumenti di soft power resta oggi l’aspetto più interessante, e allo stesso tempo più preoccupante, del nuovo rapporto tra autoritarismi e democrazie liberali. La sfida al pluralismo e alle libertà individuali è diventata più efficace e subdola, complice anche la debolezza strutturale delle democrazie occidentali nell’organizzare il proprio consenso domestico, le proprie strategie militari e nell’affinare gli strumenti di soft-power. Così le potenze a “capitalismo autoritario” continuano a costruire la propria strategia di attacco a ciò che resta del potere euro-americano, soprattutto mediante nuove forme di “guerra” rigorosamente soft.
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Carlo Cauti
San Paolo del Brasile: ORGOGLIO ITALIANO La megalopoli brasiliana è sinonimo di italianità. La rappresentazione plastica delle tante qualità italiane. La sua forza economica è il risultato del duro lavoro e della tenacia di milioni di immigrati italiani. Un poderoso strumento di soft power per il nostro Paese. San Paolo del Brasile è la città italiana più grande del mondo. Una megalopoli di oltre 12 milioni di abitanti, di cui circa 6 milioni discendono da italiani. Solo per dare un idea: ci sono più italiani qui che a Roma, Milano, Torino, Napoli e Palermo messe insieme. San Paolo non è italiana solo per le caratteristiche della sua popolazione, ma lo è anche per la presenza del più alto numero al mondo di pizzerie italiane (oltre 7 mila) e per la quantità e la qualità dei negozi di moda italiana presenti nelle strade e nei centri commerciali di lusso. Inoltre, sono centinaia le aziende italiane installate in città e nella regione metropolitana. La squadra di calcio Palestra Italia, ribattezzata forzatamente Palmeiras, è campione di innumerevoli coppe nazionali e internazionali e orgoglio cittadino, nel suo stadio sventola sempre il tricolore e dalla curva (che si chiama Savoia) i tifosi cantano l’Inno di Mameli prima dell’inizio di ogni partita. Anche il dialetto è fortemente influenzato dall’italiano, e il sindaco, che di cognome fa Doria, lavora dentro un edificio progettato da Marcello Piacentini. San Paolo è la capitale economica e morale del Brasile, nonché l’orgoglio del gigante sudamericano, ne rappresenta il volto più sviluppato, laborioso, produttivo e cosmopolita. Conserva una serie di valori positivi indissolubilmente associati agli italiani, ricordati da tutti come lavoratori infaticabili e universalmente riconosciuti come portatori di progresso. Fino ai primi anni del secolo scorso, San Paolo era una sonnacchiosa cittadina di provincia, dove nessuno voleva andare a vivere né a lavorare. I nobili e i grandi fazendeiros preferivano stare a Rio de Janeiro, l’allora capitale, a godersi le rendite dei loro possedimenti territoriali stando vicini al centro del potere. Solo gli immigrati italiani appena sbarcati dai transatlantici accettarono di installarsi a San Paolo, disinteressati alle logiche politiche locali e desidero-
si solo di sconfiggere la miseria “facendo l’America”. Con un indomabile spirito di sacrificio trasformarono un piccolo villaggio di frontiera in una selva di cemento armato che non dorme mai, che produce il 50% del PIL del Brasile e che irradia potenza economica in tutta l’America Latina. Non è un caso che ancora oggi i paulistas bollino apertamente i cariocas come pigri e indolenti. E non è un caso che gli uomini più ricchi del Brasile siano quasi tutti italiani emigrati a San Paolo. Un capitano d’industria come Francesco Matarazzo, l’uomo più ricco delle Americhe, fondatore di centinaia di aziende, filantropo e amante della cultura, ancora oggi modello per gli imprenditori brasiliani, ne è l’esempio. Ma ce ne sono tanti altri. Francesco Martinelli è il costruttore del grattacielo (degli anni ’40) più alto dell’America Latina, l’Edificio Martinelli che svetta al centro di San Paolo. Roberto Civita è il fondatore del più grande conglomerato di media dell’America Latina, il gruppo Abril. L’architetta Lina Bo Bardi ha progettato il Museo di Arte Moderna di San Paolo, simbolo della città. Il giornalista Mino Carta ha fondato decine di riviste di successo ed è considerato come uno dei più grandi giornalisti viventi del Brasile. Gabriella Pascolato, imperatrice della moda brasiliana, è la discendente di una nobile famiglia di industriali tessili che hanno fatto fortuna portando a San Paolo il gusto e la tecnica della moda italiana. E sono solo alcuni dei tantissimi nomi di italiani famosi che hanno dato e continuano a dare lustro a San Paolo del Brasile. Ciò che rende questo posto la città più pulsante di italianità al mondo è il lavoro dei milioni di italiani che da decenni, ogni giorno, contribuiscono alla sua crescita economica e al suo sviluppo. Il loro orgoglio di sentirsi italiani traspare dal modo in cui parlano, da come si vestono, dal valore che danno alla famiglia e dalle quotidiane e gigantesche file davanti al Consolato Generale d’Italia, in attesa di avere il passaporto tricolore (documento di cui vanno fierissimi). San Paolo e la sua intensa italianità sono un poderoso strumento di soft power per l’Italia, sfruttato ancora solo in parte nelle sue immense potenzialità, ma che rappresenta un ponte tra la Penisola e un gigante come il Brasile.
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Nicolò Scarano
Italians in America - anno domini 2017 A che punto è il “soft power” italiano nella nazione che abbiamo contribuito a rendere grande
«L’America la devi amare e devi essere disposto a metterti in gioco: o ti ci trovi bene oppure scappi, non c’è via di mezzo», così racconta una distinta signora napoletana a margine di un concerto nell’atrio dell’Ambasciata Italiana a Washington DC. Da anni gestisce bar e catering per la rappresentanza diplomatica italiana e vive da un quarto di secolo nei ricchi sobborghi del Maryland a pochi passi dalla capitale. «Mio marito e i miei figli – continua – si sono occupati di import/export e ora vendono forni a legna. Qui se lavori duro e non molli, alla fine riesci».
Sono ancora in tanti gli italiani che vengono in America per vivere un sogno che prende forme diverse nella storia di ciascun individuo. Si fonda sull’idea che attraverso il lavoro, se hai quell’irrinunciabile “bit of talent”, puoi diventare davvero chi vuoi essere. E il sogno italiano ha contribuito non poco a fare dell’America il paese che è oggi, con tutte le sue contraddizioni. «L’etica statunitense del lavoro e del talento è quel lievito che fa esplodere di successo la nostra straordinaria qualità, varietà e particolare creatività, di cui gli americani vanno letteralmente pazzi. Se dovessi dirlo con uno slogan, lo direi così: l’Italia ha bisogno di più America», sostiene Umberto Mucci, fondatore di We The Italians, la prima media agency che dall’Italia si rivolge al mondo italoamericano. Sono 17 milioni gli italoamericani che vivono negli Stati Uniti oggi. Per l’esattezza, sono 17 milioni gli americani che dichiarano di avere origini italiane in almeno un ramo della loro famiglia. In alcuni importantissimi stati, come New York, la loro percentuale sfiora il 15%. Molti giunsero con la grande migrazione di fine ottocento e inizi novecento che portò nel nuovo mondo oltre 4 milioni di Italiani. Dopo un lungo processo di integrazione, tra ostacoli e successi, l’italoamericano oggi è un americano a tutti gli effetti, anche se non ha rinunciato alle proprie origini. «Ogni giorno, negli Stati Uniti hanno luogo eventi che celebrano la nostra storia, il nostro stile di vita: dal torneo di carte per anziani, alle conferenze, 16
ai gala di beneficienza - racconta Mucci - basta guardare al Columbus Day, il secondo lunedì di ottobre, quando 40.000 persone sfilano sulla quinta strada a Manhattan. C’è poi l’imbarazzo della scelta per quel che riguarda le organizzazioni che difendono gli interessi della comunità italoamericana: da quelle più high-rise che si riuniscono a Manhattan ed esercitano influenza sulla politica e il mondo imprenditoriale, grazie alla NIAF (National Italian American Foundation), a quelle più main street, come OSIA (Order Sons of Italy in America) e Unico, che si battono per i diritti degli italoamericani e lottano contro gli stereotipi sin dai primi decenni del ‘900. E la politica? «Si dice che gli italiani si dividano così: 33% ai Democratici, 33% ai Repubblicani, e un altro 33% che va un po’ dove capita», scherza Mucci. Il voto degli italoamericani, insomma, ormai pienamente integrati tra i “bianchi”, non è facilmente tracciabile come quello di afroamericani e latinos. Eppure nel 2016, secondo un sondaggio di BuzzFeed News, è Donald Trump ad aver accumulato un margine di 11 percentuali in più di quanto non abbia fatto Hillary Clinton. Che quello spirito di apertura e scoperta che ha fatto grandi gli “Italians in America”nel XX secolo si sia alla fine dissolto?
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Oltre le tre F: fare sistema per rendere l’Italia più attrattiva per gli investitori esteri
Come scrive lo studioso della globalizzazione Parag Khanna nel suo saggio bestseller Connectography, il mondo può essere visto sempre di più come una mappa di supply chain globali che si intersecano e coinvolgono diversi Paesi, accrescendo sempre di più l’interdipendenza tra Stati, mercati e infrastrutture. Che piaccia o meno, la leva del commercio e degli investimenti diretti esteri, così come il finanziamento e la costruzione di infrastrutture in Paesi terzi, rappresentano, di fatto, uno dei principali strumenti di soft power. La costruzione di tali rapporti commerciali su basi solide e bilanciate può pertanto rappresentare un fattore cruciale di equilibrio internazionale.
Sin dall’implementazione del Piano Marshall nel 1948, gli Stati Uniti sono uno dei principali partner commerciali per il nostro Paese. Al terzo posto come destinazione favorita per le merci italiane, con esportazioni per $45,2 e numeri in continua crescita: il 2016 è stato un anno record per le esportazioni tricolori.
Matt Lamers@unsplash
Oltre alle celebri tre F, Food, Fashion & Furniture, che contribuiscono al 22,1% ($10 miliardi) delle nostre esportazioni, è in crescita anche il settore meccanico. Il brand “Made in Italy” è ancora fortemente attrattivo in America, posto dalla maggior parte degli intervistati al terzo posto per gradimento dopo i brand Coca-Cola e VISA. Diversa è la situazione dal punto di vista degli investimenti. L’Italia risulta meno attrattiva per gli investitori americani rispetto al
Foto Roya-Ann-Miller 2014, con uno stock in calo del 7,5%, mentre gli imprenditori italiani hanno accelerato gli investimenti sul territorio americano di quasi il 20% in più rispetto al 2014 ($28,6 miliardi). Un segnale, questo, da un lato di una crescente internazionalizzazione delle imprese italiane verso gli Stati Uniti, da sempre uno dei principali mercati di riferimento, e dall’altro di una minore attrattività dell’Italia per gli investimenti da oltreoceano. Complici la complessità burocratica, l’eccessivo carico fiscale e una burocrazia decisamente poco “friendly”. Ostacoli, questi, che limitano tutti quei fattori, in primis la qualità delle risorse umane e la forte propensione produttiva, visti come estremamente competitivi da parte degli investitori esteri. Le potenzialità per fare dell’Italia un mercato fortemente attrattivo ci sono, basti pensare che vantiamo il secondo sistema manifatturiero d’Europa ed una forte presenza di distretti industriali noti il tutto il mondo, che vantano eccellenze nei settori dell’energetico, del farmaceutico e della robotica, oltre ai più noti del design e dell’enogastronomia. Sono queste le leve su cui è necessario agire con maggiore urgenza, per non rimanere esclusi dal circuito globale dei flussi d’investimento e per competere con successo nell’arena globale. Una strategia vincente, potrebbe essere la realizzazione in Italia di Select Italy, sul modello di Select USA, un evento pensato per mettere in rete investitori di tutto il mondo con il mondo delle istituzioni sia a livello nazionale che regionale che lavora sul tema dell’attrazione dei flussi d’investimento. L’attrazione degli investimenti passa per la costruzione di meccanismi di raccordo e di fiducia e dalla volontà di “fare sistema”. Un cammino lungo e ricco di sfide, che ha bisogno dell’impegno di tutti.
Foto Scott Webb
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ILARIA DANESI
C’era una volta La più desiderata, ma non la più visitata: l’apparente paradosso dei dati svela pregi e difetti del turismo italiano e apre a nuove opportunità solo da cogliere, tutte all’insegna dell’autenticità. Cambiano scenari, modi, tempi e destinazioni. Non cambia mai il bisogno di viaggiare: un desiderio che accomuna uomini di ogni epoca e ogni angolo del mondo e che oggi è sicuramente più semplice da soddisfare. I report parlano chiaro: il turismo globale è in continua espansione e nel 2015 è arrivato a toccare la cifra di 1.18 miliardi di turisti internazionali, molti dei quali hanno scelto l’Europa, raggiunta dal 51,3 per cento dei viaggiatori e ancora continente di riferimento nonostante la crescita di Americhe e Asia. In questo scenario, l’Italia si è classificata al quinto posto tra i paesi più visitati al mondo, dopo Francia, Stati Uniti, Spagna e Cina, grazie
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IL GRAND TOUR
all’arrivo di 50.7 milioni di visitatori stranieri. Tra le città italiane, Roma conferma il proprio primato nazionale, conquistando la tredicesima posizione dell’indice globale Top100 city destinations ranking. Al primo posto si trova Hong Kong, Londra è al terzo e al quinto posto c’è Parigi in lieve calo. La grande protagonista è Milano che ha chiuso il 2015 “solo” 23esima, ma con un balzo di quasi 18 punti percentuali. Le altre due città della penisola presenti in top 100 sono, come da tradizione, Venezia (31esima) e Firenze (36esima). Il quadro è roseo e non c’è nulla di cui preoccuparsi? Non proprio. Il turismo italiano cresce in termini assoluti, ma non abbastanza in termini relativi rispetto ai competitor, soprattutto considerando che l’Italia detiene da sola oltre il 50 per cento dei siti UNESCO. Nel Dopoguerra eravamo nettamente al vertice del turismo internazionale, occupando quasi un quinto del mercato, da quel momento, decennio dopo decennio, la
nostra percentuale è scesa, sino al poco più del 4 per cento delle quote di mercato attuali. Ovviamente anche altre nazioni europee hanno risentito delle nuove destinazioni turistiche, ma paesi come Francia e Spagna sono riusciti a rimanere al passo coi tempi, diversificando la propria offerta, mentre l’Italia sembra essersi adagiata sull’eredità del passato. A tutt’oggi rimane destinazione vacanziera tra le più sognate (primi a pari merito con gli Usa secondo l’indagine IPSOS 2015). Il brand Italia è sempre molto forte, come afferma il Country Brand Index che ci vede 18esimi trainati proprio da turismo e cultura, ma non riesce a convertire quell’immagine positiva in un’effettiva forza attrattiva. Non solo, altri indicatori, rispetto ai semplici arrivi, mostrano una forbice coi competitors ancora più ampia. Siamo solo settimi in termini di introiti e l’ultimo indice di competitività turistica del World Economic Forum, che prende in considerazione un insieme di
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Anche la distribuzione dei flussi turistici sul territorio può destare qualche apprensione: la maggior parte delle presenze si concentra in poche regioni: Veneto (che può contare su Venezia, ma anche sul turismo lacuale e balneare), Trentino Alto Adige, Toscana, Lombardia e Lazio. Il Sud è in grave difficoltà, scelto da meno del 14% dei turisti stranieri. Insomma, il quadro generale è quello di un’Italia trainata da alcuni punti fermi, ma in cui tendenzialmente faticano ad emergere realtà “minori”, schiacciate dai grandi nomi e isolate in un contesto nazionale che tarda a farsi sistema. Per rispondere bisogna, anzitutto, ascoltare il mercato. L’analisi dei trend evidenzia come siano cambiati gusti e aspettative dei viaggiatori. Se un
tempo la vacanza era soprattutto sinonimo di relax, oggi sempre più turisti viaggiano per “cercare esperienze uniche e interessanti, arricchire le proprie conoscenze culturali e calarsi nella cultura locale”, come afferma un’importante analisi demoscopica di TripAdvisor. In altre parole, si tende al turismo esperienziale. Le parole d’ordine sono: autenticità e personalizzazione dell’offerta; in un paese come l’Italia, questo si traduce in infinite opportunità e maggiori introiti, vista la richiesta di servizi esclusivi di “fascia alta”. Dai borghi alle attività artigiane, dalle location cinematografiche allo sport, l’approccio esperienziale ha già visto sorgere iniziative di successo sul territorio e piattaforme dedicate, volte a superare la frammentazione dell’offerta. La concorrenza delle grandi Online Travel Agencies resta comunque spietata e molto spazio è lasciato all’estro dell’iniziativa privata, mentre per una crescita strutturale lungo tutta la penisola servirebbe una visione d’insieme coordinata.
Proprio per rispondere a queste esigenze è stato varato il Piano Strategico del turismo 2017-2022, che per superare le carenze strutturali in termini di offerta, competitività, marketing e governance, individua tre principi chiave: sostenibilità, innovazione e accessibilità. Il viaggio inizia molto prima della sua prenotazione e finisce molto dopo. Non perdere mai di vista questo concetto è il modo migliore per sfruttare al meglio un settore che non è solo un volano dell’economia italiana (10,1 % del PIL nazionale e 2,6 milioni di posti di lavoro, secondo le stime World Travel & Tourism Council), ma anche il nostro biglietto da visita agli occhi del mondo.
Henry Be@unsplash
elementi strutturali e di policy, ci vede ottavi: positivi per presenza di risorse naturali, culturali e di infrastrutture turistiche, ma decisamente bocciati per altri fattori, quali burocrazia e priorità data al settore turistico.
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Antonio Carnevale e Maria Genovesi
Start up e innovatori per rilanciare il turismo L’Italia può tornare a essere la destinazione più attrattiva? La risposta è sì. Per valorizzare al meglio le nostre bellezze dobbiamo puntare sull’innovazione digitale. Scopriamo quali soluzioni, startup e persone potrebbero contribuire a rilanciare questo settore vitale per il nostro Paese e chi lo sta già facendo. Per anni abbiamo pensato che le nostre bellezze bastassero a calamitare turisti da ogni parte del mondo. Eppure siamo all’ottavo posto nella classifica di competitività del settore. Parlando di musei e luoghi di cultura, tra i primi 25 al mondo, soltanto due sono italiani (Colosseo e Uffizi). Insomma, vivere di rendita non basta più. Siamo indietro, non solo su infrastrutture e qualità dell’accoglienza, ma anche in un campo che oggi fa la differenza: il digitale. Tra i musei italiani sembra esserci ancora poca consapevolezza delle opportunità offerte dalla tecnologia. Su un campione di 476 musei analizzati dall’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali, il 20 per cento dispone di allestimenti interattivi, il 13 per cento offre visite virtuali delle opere e solo il per cento ha un’app per smartphone. Troppo poco. Del resto, l’Italia è quartultima nella classifica UE sull’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (indice Desi) 20
per il 2017. Tutto negativo? No. C’è anche il bicchiere mezzo pieno. A dispetto di questi dati infatti, il turismo online si rivela il primo comparto dell’e-commerce in Italia, con 5 miliardi di euro di fatturato. Anche se ancora lontana dalla media UE (26% contro il 49%), l’Italia dimostra di essere una fetta di mercato importante. Ma è inutile girarci troppo intorno. Oggi per raccontare “il bello” del nostro paese c’è bisogno di puntare sulla tecnologia, sull’innovazione. Qualcuno, per fortuna, lo sta facendo. Basti pensare a realtà come Musement, che offre agli utenti un sistema per pianificare le esperienze di viaggio, costruendo i propri itinerari su misura. In tema di realtà aumentata, settore considerato potenzialmente esplosivo per gli anni a venire, merita una menzione il progetto Cultar. Nei laboratori dell’università di Padova, combinando realtà aumentata, mappe 3D, sensori tattili e audio direzionali, i ricercatori sono riusciti a rendere la fruizione un’esperienza multisensoriale. Come? Indossando delle cuffie e un guanto ricco di sensori e puntando il dito su un sito d’interesse, la voce di una guida fornisce tutti gli elementi utili su storia, arte e attrattive del posto. Semplicità, personalizzazione, crescita esponenziale delle informazioni e condivisione sono i punti chiave. Mettere in collegamento i turisti con persone del posto con cui condivide-
re gli stessi interessi e la stessa “idea di vacanza” è l’obiettivo di Guide Me Right, già definito in passato l’Uber del turismo. Consente di acquistare esperienze locali in compagnia di un “Local Friend”, pronto a condividere il proprio tempo libero e stile di vita. Si sa, infatti, che i modelli social hanno cambiato l’offerta turistica e diversificato ancor di più le richieste degli utenti. Puntare sulle persone, sulla loro voglia di partecipazione e sulle possibilità offerte, in tal senso, dalla tecnologia è il mantra. Solo coinvolgendo le persone, il “bello” del nostro paese, che fino a oggi non ha saputo raccontarsi abbastanza (neanche sul web), potrà tornare ad attrarre i turisti. Lo sa bene Andrea Bartoli, fondatore del Farm Cultural Park, una piccola comunità impegnata ad inventare nuovi modi di vivere la cultura a Favara, in Sicilia: «La dimensione sociale è tutto per il nostro progetto», racconta. «Su facebook ci seguono più di 52mila utenti, su Instagram più di 8mila». Bisogna essere “social” insomma, anche nella vita di tutti i giorni. «Il valore – continua – non è nella collezione, nelle installazioni ma nelle persone che vengono a visitarci. Chi passa diventa ambasciatore e ci racconta.» Non esistono soltanto le startup, dunque. Parliamo, in questo caso, di privati (a volte stranieri) che si innamorano di preziosi luoghi italiani al punto da decidere di rimboccarsi le maniche,
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E oggi il progetto come si sta sviluppando? «Abbiamo attivato innumerevoli progetti per crescere: una scuola di architettura per bambini, alla quale hanno partecipato più di quaranta docenti da tutta Italia, due partecipazioni alla Biennale di Venezia, presto verranno a visitarci 70 studenti giapponesi, stiamo producendo documentari con Sky Art, andremo a Londra a presentare un’edizione speciale di Poltrona Frau». Entusiasmo e orgoglio nella voce di Andrea che potrebbe elencare iniziative all’infinito. Traspare una passione smisurata per ciò che fa e per ciò che ha creato, a dimostrazione del fatto che i sogni si possono davvero realizzare.
Altrettanto nobile è l’esempio di Daniele Kihlgren, fondatore di Sextantio, progetto di tutela dell’indennità del territorio che ha abbracciato il borgo semi abbandonato di S. Stefano di Sessanio (AQ) e i Sassi di Matera. Kihlgren racconta di aver avuto una sorta di epifania imbattendosi, durante un viaggio, in S. Stefano di Sessanio: «non vi era segno alcuno del ventunesimo secolo. Tutto si era fermato come al tempo passato. C’era solo il borgo in pietra che si fondeva col paesaggio rurale. Erano anni che cercavo luoghi dove ancora non si era corrotto questo paesaggio così caratterizzante del nostro Paese». In questo caso la politica locale è stata molto aperta: il Comune ha formalizzato un documento (il primo di questo genere nella storia dell’urbanistica) al fine di conservare quel rapporto tra i borgo storico e il paesaggio agrario, tra il borgo incastellato e il paesaggio circostante.
architettonico di recupero proveniente dalla stessa area geografica. La base del progetto imprenditoriale di Kihlgren è l’inedificabilità funzionale alla tutela del paesaggio. L’obiettivo che si pone è di educare il territorio al rispetto delle proprie radici. In Italia ci sono 2000 borghi abbandonati e 15.000 con un abbandono maggiore del 90 per cento assimilabile a S. Stefano di Sessanio. Non c’è bisogno di costruire, valorizziamo quello che già c’è.
©Cultural Farm
crederci, investire per valorizzarli e gridarlo nel web, sfruttando il potenziale di visibilità che esso può offrire. «Avevamo dei risparmi - continua Bartoli la maggior parte delle giovani famiglie li avrebbero usati per comprare una seconda casa, magari una villa al mare. Noi abbiamo deciso di investirli per la comunità di Favara, città d’origine di mia moglie, Florinda». Il Farm Cultural Park è stato inaugurato nel 2010. «Nonostante non abbiamo mai ricevuto supporto pubblico – aggiunge - l’intera città ha creduto nel progetto e ha iniziato a investire aprendo strutture ricettive come hotel, ristoranti, negozi.» Nei tre mesi estivi del 2016 il parco ha contato 78mila visitatori.
Lo stesso rispetto si è mantenuto con i Sassi di Matera, luoghi un tempo sinonimo di profonda povertà e nati dalle più essenziali esigenze di sussistenza, dove Kihlgren ha deciso di attuare l’intervento di recupero. Anche in questo caso è stato conservato il patrimonio esistente, conservando metrature, numero e dimensioni di porte e finestre, divisione dei vani e utilizzando esclusivamente materiale
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LUIGI ROSSIELLO
Borghi d’Italia, quest’anno tocca a voi! Un viaggio alla scoperta del patrimonio nascosto del Paese. Puntiamo sui borghi per offrire ai turisti un’esperienza unica. Un’esperienza italiana. Da Saint Pierre in Valle D’Aosta a Marzamemi in Sicilia, passando per tanti altri come Stresa, Aquileia, Corciano, Offida e Orgosolo: borghi d’Italia, quest’anno tocca a voi. Si potrebbe sintetizzare così il messaggio lanciato dal Ministro dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini che, per il 2017, ha indetto l’anno dei borghi. Lo scopo: rivalorizzare e far scoprire ad una platea internazionale l’Italia dimenticata e nascosta, lontana dai tradizionali flussi del turismo che si fermano alle città più famose. Un patrimonio umano, culturale, artistico e gastronomico, fatto di tradizioni poco conosciute che rischiano di scomparire. E così, durante la Internationale Tourismus-Borse di Berlino di inizio marzo, gli stand organizzati dall’Enit (l’Agenzia nazionale del turismo) e dalle Regioni nel Padiglione Italia hanno messo in bella mostra alcuni dei tantissimi piccoli centri del nostro Paese. Un’iniziativa simile è andata in scena poco dopo, alla ventiquattresima edizione del MITT, il Salone turistico più ampio e importante della Federazione Russa, svoltosi all’Expocenter di Mosca, dove l’invito ad un’esperienza turistica più autentica e sostenibile è stato ribadito sullo sfondo delle immagini di alcuni dei borghi più belli d’Italia. Proprio per mettere in atto questo piano strategico, ha preso vita il progetto “Borghi Viaggio-Italiano” che ha lo scopo di valorizzare a livello internazionale la rete di circa 1.000 borghi e località italiane. Una proposta condivisa da 18 regioni guidate dall’Emilia-Romagna insieme al MIBACT. Il sistema della
promozione coordinata tra regioni dovrebbe così portare a diversi vantaggi come: maggiore competitività a livello mondiale; valorizzazione del patrimonio storico ambientale e sviluppo di un turismo esperienziale. Sono poi diverse le associazioni che hanno come finalità la promozione dei borghi. Tra queste il Club de I Borghi più Belli d’Italia che ha prodotto una guida con ben 271 località, suddivise per regione e “selezionate rigorosamente secondo diversi criteri tra circa 800 comuni che hanno presentato domanda di adesione” spiega il direttore Dr. Umberto Forte. Oppure l’Associazione Borghi Autentici d’Italia che, come spiega Ivan Stomeo, Presidente dell’Associazione nonché Sindaco del borgo salentino di Melpignano, “promuove una filosofia di sostegno nei confronti dei piccoli borghi, ma soprattutto di quelli in via di spopolamento.” Un fenomeno che desta allarme, questo, e che è necessario combattere, secondo Stomeo, mettendo la centro della nostra azione politiche per la creazione di un contesto favorevole per i giovani, “poiché sono loro il futuro dei borghi.” Perché questo avvenga, secondo il Presidente bisogna partire dallo svecchiamento della classe politica e dirigente. Per questo hanno promosso la creazione della “comunità delle competenze”, una sorta di albo dal quale comunità ed amministrazioni possano attingere tra giovani laureati con competenze specifiche. Un ‘altra iniziativa riguarda invece la promozione di “Atelier della creatività”, per sostenere progetti virtuosi.
Più in generale, l’Associazione si pone come portabandiera della cosiddetta Soft Economy, che vede nello sviluppo locale sostenibile, rispettoso dei luoghi e delle persone, la chiave per attrarre turismo nazionale ed internazionale, senza rinunciare ma, al contrario, valorizzandone l’autenticità e le identità locali. Fa da modello il Comune di Monte Santa Maria Tiberina, in Umbria, che nel 2016 ha registrato il 75 per cento di incremento dei turisti: dai 9.500 del 2015 ai 16.813 del 2016, e che potrà ora aumentare ulteriormente il numero di visite ampliando la già vasta offerta. Il Sindaco Letizia Michelini illustra le iniziative chiave del successo: abolizione della tassa di soggiorno, riqualificazione dell’area destinata ai camperisti, valorizzazione dei percorsi dei pellegrini, wifi libero nelle piazze del Comune e maggiore promozione delle manifestazioni culturali, gastronomiche e folkloristiche. Degno di nota è anche il caso di Borgo Egnazia in Puglia, dove alle più genuine tradizioni locali si combinano servizi di altissimo livello e il visitatore può alternare con disinvoltura le colazioni tipiche preparate dalle massaie alla SPA e le calette rocciose e sabbiose allo scenografico del Golf Club di San Domenico. Perché l’Italia non è solo grandi centri, ma è ancora un Paese dove perdersi può portare alla scoperta di rare bellezze e realtà uniche.
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CLAUDIA CAVALIERE
Vivere all’italiana Verso la promozione di una strategia di soft power integrata Che l’Italia abbia tanto da offrire è chiaro a tutti. Altrettanto evidente è che, fino adesso, sia mancata la capacità di mettere a sistema tale offerta e promuoverla all’estero, come un elemento centrale della politica estera Italiana. Va in questa direzione, la campagna Vivere all’Italiana lanciata di recente dalla Farnesina, insieme al MiBACT e al MIUR, e con la collaborazione della Società Dante Alighieri e della RAI. L’obiettivo è realizzare una strategia di promozione integrata dell’Italia all’estero: dai settori più noti, come la moda, il design e l’enogastronomia, a quelli meno conosciuti ma sinonimo di eccellenza, come la tecnologia, la lingua e la robotica.
Jonathan Korner e Cristina Gottardi@unsplash
Sono le istituzioni, quindi, a farsi promotrici attive del racconto dell’Italia all’estero. «La domanda di Italia è
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molto superiore alla nostra capacità di promozione, abbiamo un potenziale a cui non abbiamo mai corrisposto», spiega Vincenzo De Luca, Direttore Generale responsabile della campagna presso il Ministero degli Affari Esteri. «L’obiettivo del piano di promozione integrata – continua – è proprio quello di trasmettere un’idea complessiva di Italia, soprattutto far praticare il modo di vivere all’italiana.» Per fare questo è prevista l’allocazione di risorse aggiuntive pari a venti milioni per l’anno 2017, trenta per il 2018, cinquanta per il 2019 e ulteriori cinquanta milioni per il 2020. Queste risorse si rendono necessarie per l’implementazione effettiva del piano, attraverso la creazione di eventi di promozione integrata in tutta la rete degli Uffici diplomatico-consolari e degli Istituti Italiani di Cultura, il braccio operativo dell’Italia all’estero, che spieghino l’effettiva potenza di attrazione del Paese.
Tra i progetti, oltre alla promozione delle eccellenze italiane all’estero, c’è l’internazionalizzazione del sistema universitario, al fine di aumentare il flusso di studenti nel nostro paese che al momento ci vede come esportatori netti di cervelli; la diffusione della lingua italiana nel mondo, attraverso la promozione di centri e di un portale integrato della lingua italiana, e incentivi per l’internazionalizzazione delle imprese, anche attraverso strategie di potenziamento della Digital Economy e della comunicazione del Made in Italy. Mettere a sistema è la parola chiave. Lo sviluppo di una strategia integrata tra Farnesina, MiBACT e MIUR è un primo passo nel riconoscere gli asset naturali dell’Italia come uno strumento centrale di influenza a livello internazionale e il principale volano di sviluppo economico.
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VELIA ANGIOLILLO
La City cambia casa Il posto dell’Italia nell’era post Brexit Dopo 44 anni insieme, il Regno Unito ha deciso di chiudere con l’UE. La lettera d’addio ufficiale è del 29 Marzo e dà il via ad un divorzio legalmente e politicamente difficile, inaugurato dalle accuse reciproche e dalle richieste di denaro tipiche delle separazioni non consensuali. Il Regno Unito sa già che dovrà restituire l’anello di fidanzamento, ovvero l’Autorità Bancaria Europea (EBA) e l’Agenzia Europea per le Medicine (EMA), ma promette di dar battaglia sui passporting rights per tenersi gli altri gioielli, ovvero le banche e gli istituti finanziari internazionali che fanno di Londra una delle cittadelle finanziarie più importanti del mondo. Mentre i due ex indossano i guantoni in vista dei round negoziali che definiranno i loro rapporti futuri, diverse capitali europee hanno allungato l’occhio su banche ed agenzie in cerca di nuova dimora, che oltre a migliaia di posti di lavoro si portano dietro un’aura di pregio che molti vorrebbero mettersi in casa. Inclusa l’Italia, che gioca due partite in contemporanea: quella sull’EMA e quella sulla City. EMA: una pubblicità indiretta Sul fronte EMA l’Italia compete contro almeno 20 altre capitali, fra cui Barcellona, Vienna, Dublino e Stoccolma. «È chiaro che l’interesse verso le authority
europee sia legato ad una dimensione di prestigio osserva François Foret, direttore del CEVIPOL di Bruxelles ma bisogna anche dire che si tratta di organi tecnocratici, poco “glamour” e con una carica simbolica ridotta.» Nonché fuori dal controllo delle istituzioni del paese ospitante, in quanto governate direttamente da linee funzionali che portano dritto a Bruxelles. La candidatura italiana (più precisamente di Milano) è quindi teoricamente più una strategia di marketing nazionale indiretta, rivolta a consulenti e ricercatori che, visitando le agenzie, entrerebbero in contatto con imprese, università e laboratori del settore farmaceutico italiano. L’EMA creerebbe insomma un ponte fra il pharma italiano ed il resto del mondo; una bella occasione per mettersi in vista, considerando che siamo il secondo produttore e il quinto esportatore europeo di medicinali. La City cambia casa Nonostante il dito medio di Cattelan a Piazza Affari, Milano è determinata ad accogliere anche la finanza londinese e in particolare l’euroclearing. Il piano poggia sul fatto che la Borsa Italiana fa parte dal 2007 dello stesso gruppo che possiede la Borsa di Londra (LSEG): spostare le operazioni a Milano permetterebbe di mantenere nel bilancio del gruppo gli utili raccolti sui mercati dell’Unione. Un vantaggio enorme rispetto a Francoforte, che nonostante la granitica reputazione internazionale, non può offrire altrettanto per il recente stop della Commissione alla fusione
con Deutsche Börse. Inoltre, come sottolineano con malizia i parigini (altri candidati alla piazza londinese) Francoforte ha un grosso handicap: è noiosa. Anche se al pub la campana suona alle undici, Londra è una città con enormi offerte infrastrutturali, culturali e di svago, ed è improbabile che considerazioni sulla qualità della vita non contino nella scelta delle nuove sedi. E Milano? «Con i nuovi progetti edilizi come le torri CityLife, Milano ha il vantaggio di avere la dimensione giusta per poter accogliere migliaia di operatori. Dublino e Lussemburgo sono troppo piccole, non saprebbero dove metterli» sostiene Ugo Poletti, direttore politico di Select Milano, il comitato che porta avanti la candidatura italiana. «In più siamo competitivi su salari e capitale umano, e a differenza di Francoforte abbiamo il più grande polo universitario del Sud Europa.» E poi la moda, l’arte, le scuole internazionali, i nuovi collegamenti in cantiere (Milano-Linate in 14 minuti); tutte cose che fanno di Milano una città dinamica e, di riflesso, una buona candidata. Con ricadute positive su tutto il paese: La campagna per Milano è una campagna per l’Italia. Se Milano diventa capitale della finanza europea, anche la reputazione dell’Italia sale prosegue Poletti. Come ha fatto bene all’Italia avere Prodi, Monti ed Emma Bonino alla Commissione Europea o Mario Draghi alla guida della BCE. Se Milano vince, ne beneficia tutto il Paese, che ha bisogno di credere di più in se stesso. 25
Gerardo Fortuna
Energia: nuovi (e vecchi) ambasciatori It takes two to tango Gli AD di S&P e Citigroup hanno già incontrato nei mesi scorsi i rappresentanti della BAFIN tedesca e del ministero svedese delle finanze, mentre l’Île de France ha lanciato un piano di promozione della città molto aggressivo, volto ad attirare un po’ tutto quello che capita. Dal punto di vista dell’EMA l’Italia ha mobilitato una task-force pubblico-privata sponsorizzata dal ministro Lorenzin, mentre sul fronte finanziario il settore privato fatica un po’ a trascinare Roma in pista. Eppure la valenza strategica della finanza non è affatto secondaria: se anche qui valgono i discorsi su posti di lavoro e turismo d’affari, per l’AD di Deutsche Bank Flavio Valeri il clearing è per Milano una vocazione capace di trasformare il capoluogo in un centro finanziario di peso internazionale. Insomma, un investimento con un ritorno economico e d’immagine incrementale di medio-lungo termine. In tutto ciò è fondamentale l’ok di Roma: infatti per allontanare Milano dalle tradizionali debolezze del sistema Italia (cuneo fiscale e lentezza della giustizia) il piano prevede l’istituzione del GEIE (con competenza della Corte Arbitrale Europea) ed alcuni correttivi fiscali su Tobin e Capital Gain Tax. Tutte decisioni per le quali l’appoggio del governo è imprescindibile. Come cantava Pearl Bailey in una delle sue canzonette, per ballare il tango bisogna essere in due, e se Roma e Milano non avanzeranno guancia a guancia, a dirigere le danze finirà per essere qualcun altro. 26
C’erano una volta i campioni nazionali dell’energia. Erano tempi, quelli, in cui un po’ tutti in Europa si dotavano di compagnie nazionalizzate, inattaccabili da tentativi di scalata stranieri. Si trattava di società verticalmente integrate, con una funzione interna di realizzazione delle infrastrutture chiave sul territorio e una esterna di azione sui mercati internazionali, che perseguivano spesso interessi politici generali. I successi imprenditoriali avevano così ricadute anche sull’immagine del Paese di bandiera e il controllo statale garantiva una forte identità nazionale. Poi il mondo è cambiato e abbiamo optato per mercati maggiormente integrati a livello europeo, una scelta che ha investito anche il comparto energetico. Alla fine del processo di liberalizzazione, lo Stato italiano ha comunque mantenuto quote di controllo sia degli ex campioni nazionali Enel ed Eni, sia degli operatori di rete Terna e Snam. È il quadro energetico ad essersi frammentato: la rottura del monopolio ha permesso a nuove realtà di emergere e anche l’azione esterna ha trovato nuovi “ambasciatori”. Ancora oggi, grazie al suo sistema di imprese, l’Italia riesce a giocare un ruolo di influencer internazionale dell’energia. D’altronde la politica estera di una media potenza ha bisogno di poggiarsi sul suo cosmo imprenditoriale. E così, i governi hanno continuato a mettere ben
in vista il tricolore su alcuni progetti degli stessi ex campioni nazionali, oggi diventati multinazionali dell’energia. Al di là di un utilizzo come biglietto da visita, l’iniziativa privata può coprire anche spazi di tutela degli interessi nazionali. È ad esempio una strategia quasi diplomatica quella imprenditoriale di intendere l’Italia come corridoio energetico con l’Africa e, a breve, anche con l’area caucasica tramite il Tap, progetto di cui Snam è azionista al 20 per cento, mentre Saipem si occupa della posa dei tubi nel tratto offshore. D’altra parte, l’internazionalizzazione può affievolire il legame con l’Italia. Una maggiore presenza all’estero reca con sé il rischio di spostare l’asse degli affari verso mercati emergenti. Se pensiamo ad Enel, metà dei suoi ricavi sono generati all’estero, dove sono concentrati anche tre quarti della produzione. Non vuol dire che le nostre eccellenze stiano prendendo il largo, ma che è necessario continuare a mantenere saldo il legame, anche sfruttando i loro risultati per raccontare all’estero un certo modo di fare le cose “all’italiana”. E se in questa narrazione gli interpreti (le nostre imprese) sono già di primo livello, non resta che lavorare sul messaggio. Si potrebbe guardare proprio a uno degli strumenti principali di soft power: l’aspetto culturale. Oggi trascurata, la “cultura” energetica in passato ha permesso la diffusione di nozioni complesse in modo semplice e immediato. È il caso della campagna “metano ti dà una mano”, slogan che
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ha spopolato negli anni Ottanta e ha fatto prendere confidenza con l’opera di metanizzazione della penisola. Le grandi sfide dell’energia si affrontano anche sul piano culturale, in termini di consapevolezza della fase di cambiamento che stiamo vivendo. Transizione, efficienza e decarbonizzazione sono concetti difficili da comprendere appieno, ma che assumono sempre più rilevanza. È proprio qui che le nostre eccellenze stanno già giocando la loro partita. Sta al nostro sistema Paese riuscire a “metterci la faccia” proponendosi come modello e rivendicando il nesso “culturale” con i suoi ambasciatori energetici.
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Qual è il contributo di Snam come ambasciatore energetico italiano? Negli anni Snam ha maturato una sua credibilità internazionale, anche grazie al contributo attivo che sta fornendo alla creazione di un mercato integrato europeo del gas e dell’energia in generale. Abbiamo intrapreso un percorso di internazionalizzazione perché riteniamo che il mercato unico dell’energia dia un beneficio reale ai consumatori. Siamo convinti che i progetti a cui stiamo lavorando, come il TAP o le prospettive di reverse flow (la possibilità di esportare il gas dall’Italia), portino un vantaggio concreto ai cittadini e al settore industriale in termini di decarbonizzazione dell’economia e di maggiore concorrenza e competitività, favorendo un utilizzo più efficiente delle risorse energetiche. Quanto è necessaria oggi una battaglia “culturale” sull’energia? C’è un deficit culturale che nasce da una certa “abitudine” all’energia, ad averla sempre disponibile perdendo la percezione di ciò che serva per averla materialmente. Si è diffusa negli anni una vulgata semplificatoria che lascia i temi di dibattito troppo in superficie e per questo anche noi stiamo cercando di raccontarci meglio. Oggi è più difficile per via della frammentazione del sistema, ma deve essere un ulteriore stimolo per noi a fare di più. La sfida è riuscire a creare una cultura nuova del metano come soluzione immediatamente disponibile, efficace e sostenibile. Ma sostenibile non solo dal punto di vista ambientale, anche economico per imprese e famiglie.
Dispacciamento Snam rete gas e Sede di San Donato Milanese ©Snam
Andrea Stegher, SVP Corporate Strategy di Snam risponde alle domande di The New’s Room.
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Matteo Di Paolo
Non si mangiano spaghetti con le polpette qui! Il mondo è invaso da prodotti che rimandano a tipicità italiane, più o meno velatamente, senza essere davvero italiani. È il cosiddetto Italian sounding, l’utilizzo improprio dell’italianità nei settori più disparati, particolarmente evidente nel settore agroalimentare. La scena più famosa di Lilli e il Vagabondo, capolavoro della Disney, raffigura i personaggi intenti a divorare un piatto di spaghetti con le polpette da Tony, ristorante italiano. Roba da far rabbrividire qualsiasi purista del cibo nostrano, eppure gli Spaghetti Meatballs sono un piatto diffuso ed apprezzato all’estero, e largamente associato alla cucina del Belpaese. Il brand Italia è così attraente da garantire accesso al mercato a qualsiasi prodotto che sia associato ad esso, a prescindere dalla qualità dello stesso. Un fenomeno che dimostra la forza relativa del nostro paese rispetto ad altri paesi esportatori quali, ad esempio, la Francia; e tuttavia pone interrogativi, contemporaneamente, sul mancato sfruttamento dello stesso a vantaggio del nostro export. 28
Facciamo ordine. Il fenomeno di cui si parla differisce dalla contraffazione. Non si tratta di utilizzare marchi, loghi o prodotti registrati ma di indurre in errore il cliente utilizzando metodi tra i più disparati: dalla bandiera italiana sul packaging a nomi quali Parmesan o Parmesao, che rimandano al nome dell’originale; dall’inserire diciture quali 100% Italian standard all’associare nomi comuni di prodotti e provenienze geografiche in assoluta libertà (es. Mortadella siciliana). L’endemicità del problema si può facilmente riassumere in numeri: secondo l’Osservatorio Internazionale sull’Italian Sounding Alimentare, 7 prodotti su 8 venduti negli Stati Uniti con riferimento all’Italia non hanno nulla a che fare con l’Italia stessa. I dati di Assocamerestero stimano una cifra di quasi 60 miliardi come giro d’affari dei prodotti finto made in Italy nell’alimentare. Per avere un ordine di grandezza, l’intero comparto agro-alimentare fattura (dati per il 2015 di Coldiretti) circa 135 miliardi, con prodotti esportati per circa 37 miliardi. Combattere contro Parmesan & co è una impresa titanica. I marchi di qualità garantiscono una certa protezione, ma per un numero di tipologie di prodotto limitato. La regolamentazione delle D.O.P. (Denominazione di Origi-
ne Protetta), delle I.G.P. (Indicazione Geografica Protetta) e delle attestazioni di specificità S.T.G. (Specialità Tradizionale Garantita) è avvenuta con i Regolamenti CEE n. 2081/91 e n. 2082/92. I marchi son validi nella UE e, nel quadro di accordi commerciali bilaterali quali il recentissimo CETA tra Unione e Canada, in paesi terzi. Con Ottawa, ad esempio, si è ottenuto che per i prodotti DOP sia vietata la riproduzione di simboli che richiamino l’Italia, ma non si è ancora ottenuto il divieto all’utilizzo di nomi fuorvianti (es Parmesan). E, comunque, le violazioni vanno anche scovate e punite, non soltanto vietate. Alcuni prodotti Italian sounding sono venduti in quantità largamente superiori all’intera produzione del nostro paese. Domandarsi se ci sia abbastanza Italia nel mondo, tanto da soddisfare la voglia di Italia, è naturale. La risposta è che probabilmente non saremmo in grado di produrre abbastanza Parmigiano per coprire l’intero giro d’affari di Parmesan, ma la cattiva pubblicità e la scarsa educazione alla qualità dei clienti internazionali sviliscono e impoveriscono il valore aggiunto che il brand Italia, un tesoro inestimabile, è ancora oggi in grado di apportare.
Gerardo Fortuna
Alta velocità, eccellenza italiana
David Bruyndonckx@unsplash
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UK, Grecia, India e Iran: FS verso una nuova fase di internazionalizzazione
Corre veloce l’espansione del gruppo Fs al di fuori dei confini nazionali. Nel piano industriale decennale da 94 miliardi di euro presentato a settembre, l’internazionalizzazione è uno dei 5 pilastri di crescita: se l’obiettivo è portare il fatturato da asset esteri a 4 miliardi di euro, l’ambizione è quella di affermarsi come azienda internazionale di mobilità integrata. La società guarda ovviamente a Paesi con lacune infrastrutturali, proponendosi come general contractor. In questo senso gioca un ruolo attrattivo l’alta velocità, non solo eccellenza italiana ma prezioso know how che solo pochi operatori possono dispensare. Fa gola all’estero anche l’altro fiore all’occhiello dell’offerta, la digitalizzazione e le tecnologie di gestione già sperimentate sul servizio nazionale come sistemi evoluti di biglietteria e servizio clienti grazie principalmente alle App di Trenitalia. Pietra miliare dell’internazionalizzazione di FS Italiane è stata l’acquisizione di Netinera, secondo operatore nel mercato tedesco (6%), che offre servizi passeggeri su ferro e su gomma, con oltre 4.300 dipendenti, una flotta di 362 treni e 732 bus e un fatturato, nel 2015, di 573 milioni di euro. Operazione che ha aperto a altre acquisizioni come Thello che oggi è una società controllata al 100 per cento da Trenitalia, e che svolge servizi passeggeri notturni Parigi – Milano – Venezia e collegamenti diurni da Milano a Nizza e Marsiglia.
Da anni FS Italiane è presente sul mercato internazionale anche con Italferr e Italcertifer, rispettivamente società di ingegneria e di certificazione ferroviaria del Gruppo che svolgono attività in tutto il mondo: oltre che nel vecchio continente in Sud e Nord America, Medio Oriente, Asia, e Australia. A inizio 2017 si è aperta una nuova fase di espansione in Europa. A gennaio è stata acquisita Trainose, società greca di trasporto ferroviario che gestisce anche la suggestiva Salonicco-Atene. Quello in Grecia è un ingresso strategico, non solo per il bacino annuale di 16 milioni di passeggeri, ma anche perché apre le porte a uno sviluppo nell’est Europa lungo il corridoio balcanico. Con il closing da 72,6 milioni di sterline di febbraio per il servizio C2C sulla tratta da Londra alle coste dell’Essex, è stato invece compiuto il primo passo per un inserimento duraturo nel mercato ferroviario britannico. Forte dei buoni rapporti con il Dipartimento dei Trasporti, il gruppo ha già annunciato la partecipazione, in joint venture con FirstGroup, alle gare per le rotte delle East Midlands e della West Coast che saranno assegnate dal 2018. Ma il piatto forte resta la gara per la Londra-Edimburgo che si aprirà a fine anno. Le due acquisizioni di inizio anno, in Grecia e in UK, rappresentano dunque tappe intermedie per traguardi più ambiziosi. Lo stesso ad del gruppo Renato Mazzoncini ha definito l’Europa come un mercato domestico allargato. Fs vuole farsi trovare pronta all’appun-
tamento del 2020, quando sarà realtà la liberalizzazione dello spazio ferroviario prevista dal quarto pacchetto Ue in materia, puntando in particolare a rotte prestigiose come la Parigi-Bruxelles o la nuova Milano-Zurigo-Francoforte che partirà a fine 2017 grazie alla completa apertura del Gottardo. L’internazionalizzazione non si ferma all’Europa, ma si muove ovunque ci siano opportunità di cooperazione per esportare know how , esperienza, competenza e capacità innovative. A luglio 2016, per esempio, è stata raggiunta un’intesa con Russian Railways per la modernizzazione delle infrastrutture ferroviarie russe, prevedendo anche una collaborazione per la costruzione di linee AV. Tornando al 2017, a febbraio, è stato firmato un accordo di cooperazione con Indian Railways per l’upgrade, soprattutto in sicurezza, dell’obsoleta rete ferroviaria indiana risalente al dominio britannico. Tra le altre aree prioritarie ci sono anche il Sud Est asiatico, le Americhe, l’Africa e il Medio Oriente. Proprio qui, nell’ambito di un contratto quadro stipulato con le ferrovie iraniane, è prevista la realizzazione di due linee Alta Velocità, Teheran – Hamedan e Qom – Arak, da parte di FS Italiane, in qualità di general contractor e leader di un consorzio di imprese italiane. L’espansione è appena iniziata e Fs sa di essere un player polivalente come pochi altri operatori ferroviari nel mondo, potendo contare sul contributo differenziato delle sue molte partecipate. 29
l’inchiesta
Maurizio Franco
Dietro le quinte del Made in Italy:
Foto Roya-Ann-Miller
agroalimentare tra narrazione e realtà “Non è un granché...” “Ah, tu non capisci nulla di bollicine!” [ribatte Farinetti] e inizia a raccontarci di questo vino che praticamente […] erano bottiglie che aveva trovato come invendute, e lui ci stava raccontando che avendogli messo il nome giusto, sapendolo raccontare, ora quel vino lì andava tantissimo. Wolf Bukowski, La danza delle mozzarelle Nei Passages Walter Benjamin conia la definizione di “sex appeal dell’inorganico” riferendosi al feticismo delle merci per il capitalismo contemporaneo. Il filosofo tedesco si rifà a Karl Marx che aveva intuito il carattere enigmatico e arcano di questo processo di valorizzazione ben ottant’anni prima del pensatore berlinese. Una coreografia di immagini che rende più appetibile il prodotto sul mercato, lo rende unico ed inestimabile, nonostante il suo valore d’uso rimanga lo stesso. Una fantasmagoria di narrazioni seducenti che avvinghiano il “consumatore” alla merce e che occultano – in molti casi – le reali condizioni di lavoro alla base della produzione. Specchio riflesso, lo scintillio del palcoscenico e lo sfruttamento dietro le quinte.
Il palcoscenico
Oggi in Italia il “mangiare bene” è un marchio che macina terreno, un brand vendibile e da trapiantare in tutto il mondo. Il consumatore straniero è sempre più desideroso di acquistare l’agroalimentare made in Italy. Nel solo 2016 sono stati esportati 5 miliardi di euro di prodotti ortofrutticoli - un +6% rispetto all’anno precedente. È quanto emerge da un’analisi della Coldiretti, presentata alla fiera berlinese della Fruit logistica, che saluta un 2017 carico di aspettative, dove l’industria della frutta e della verdura rappresenta il volano della produzione italiana. “Mangiare bene, mangiare italiano”. Il soft power, il potere morbido 30
del cibo che oltre alla diplomazia crea profitto per le imprese. «È la prima volta che la diplomazia entra in cucina con questo impegno in una grande operazione diplomatica, politica e culturale – dichiarava Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri nel 2016, durante la presentazione a Villa Madama della Prima Settimana della Cucina Italiana nel mondo – dietro il marchio Italia c’è un mondo straordinario, di grande importanza economica, con decine di miliardi di export».
Dietro le quinte
Nel 2015, poco prima che venisse inaugurato Expo, le Ong del commercio etico di Norvegia e Danimarca avevano scritto una lettera al governo Renzi. “Una prevalenza – si legge nel testo – di lavoro irregolare e sommerso, come anche l’abuso di lavoratori migranti assunti per intermediazione illecita in gran parte del settore agricolo italiano, sono stati causa di crescente preoccupazione per rivenditori di generi alimentari in diversi paesi europei”. Tradotto: i consumatori del nord Europa stavano boicottando i prodotti ortofrutticoli italiani, in particolare il pomodoro, per le condizioni di sfruttamento dei braccianti. I lavoratori raggiungono a malapena i 20 euro di paga, per 12 ore al giorno nei campi. Una condizione lavorativa ed esistenziale che abbraccia centinaia di migliaia di lavoratori, che tutte le mattine, accasciati sui marciapiedi, appostati alle rotonde e agli svincoli, aspettano che il caporale arrivi, li recluti e li porti al lavoro. Ad oggi 430mila braccianti su un milione di lavoratori sono vittime di caporalato e sfruttamento (Dati Flai – Cgil). Le misure nazionali contro il caporalato e lo sfruttamento si sono rivelate insufficienti a causa del loro approccio prevalentemente repressivo, che non agisce sulle cause del fenomeno, ossia sui rapporti economici sbilanciati all’interno della filiera, e sulle questioni del lavoro. L’inchiesta transalpina “La raccolta della vergogna” - trasmessa sul canale nazionale francese France 2 – già aveva mostrato al mondo l’inferno di Foggia e Nardò, puntando il dito contro le grandi aziende agricole che esportano in tutto il globo e alcuni marchi della Grande Distribuzione Organizzata.
“L’unica cosa da fare è il boicottaggio nei confronti di quei supermercati che vendono prodotti raccolti dagli schiavi nelle campagne pugliesi” erano le parole di Yvan Sagnet, il megafono della rivolta dei lavoratori stranieri nei campi di Nardò.
L’ascesa della Grande Distribuzione Organizzata è stata inarrestabile. Il 72% del mercato è fagocitato dalle catene della Gdo che nel corso degli ultimi venti anni hanno acquisito un ruolo sempre più preponderante nella filiera dell’agroalimentare. L’Antitrust definisce nella sua indagine conoscitiva del settore il potere capillare delle grandi insegne della distribuzione come un “controllo monopsistico” sull’intera agricoltura nostrana. È la Gdo infatti ad imporre tempi e standard produttivi alle aziende agricole, dettando di conseguenza i prezzi dei prodotti. La saturazione dei canali distributivi – in mano a pochi e grandi marchi - e lo schiacciamento dei costi a ribasso delle merci hanno creato il terreno fertile per lo sfruttamento nei campi e la chiusura di milioni di aziende.
Thomas Martinsen @unsplash
La regia
La narrazione mitopoietica del made in Italy, l’eccellenza, la storia e la qualità, con un packaging scintillante e il sapore conturbante del tricolore nostrano e la morte di Paola Clemente, la bracciante pugliese di San Giorgio Jonico deceduta mentre lavorava all’acinellatura dell’uva. Un paradosso o la rappresentazione stilizzata di una filiera malata? Il “buono, pulito e giusto” sembra una chimera, un armamentario di retorica, uno storytelling fittizio da venditori incalliti o da teatranti in erba che debuttano sul palcoscenico internazionale della globalizzazione.
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Andrea Palazzo
Resilienza, l’arte Italiana di arrangiarsi Non si tratta di cadere per poi rialzarsi, ma di rimanere in equilibrio. Una delle caratteristiche che ci vengono maggiormente riconosciute e invidiate all’estero è la resilienza: l’arte di arrangiarsi. Già negli anni ‘50 ne raccontava il cinema, con l’omonima commedia di Luigi Zampa che aveva come protagonista Alberto Sordi, un gigante nella rappresentazione dell’italiano medio, capace di cavarsela schierandosi sempre dalla parte dei vincitori. Da non confondere con il becero trasformismo, l’arte di arrangiarsi è ciò che mette in luce la nostra straordinaria capacità di innovazione, reagendo alle emergenze e trasformandole in occasioni. È qualcosa di cui siamo consapevoli, lo rivela l’indagine LaST Community Media Research 2016 (in collaborazione con Intesa Sanpaolo per La Stampa): la sensazione di disunità dove «ognuno va per sé» (23,7%) è la prima peculiarità che gli italiani si riconoscono, «l’arte dell’arrangiarsi» (18,1%) è la seconda. Al di là delle Alpi, l’arte di arrangiarsi è proprio quello che ci unisce: Alberto, Mario e Davide ne sono dimostrazione. Sulle orme di Colombo. “Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori”. Come un novello Cristoforo Colombo, che andò con tre caravelle alla scoperta delle Americhe, Alberto tutti i giorni va alla scoperta delle isole del Madagascar, con un’imbarcazione da quattordici posti acquistata per l’occasione. Dopo aver lavorato per anni in ambito immobiliare e finanziario è arrivata l’idea di trasferirsi e avviare l’attività di trasporto turisti sulla sua imbarcazione. A raccontare la vicenda di Alberto è il portale Voglio Vivere Così, dove viene riportata anche la storia di Mario. Questa volta lo scenario è la Polinesia e il mezzo di trasporto si muove su strada; la costante, invece, è sempre la capacità di adattamento. Mario era assistente di un tour operator, messo in ginocchio dalla crisi economica, non ci ha pensato troppo a lungo e ha deciso di mettersi in proprio, lanciandosi in una nuova avventura. Nasce così la sua impresa di Safari 4X4: una guida prudente, una jeep confortevole, la degustazione delle marmellate e l’assaggio dell’ananas di Moorea per i turisti.
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Patria di buon cibo e… polpette. «Noi italiani spesso e volentieri abbiamo una marcia in più e poi, oltre all’impegno che è fondamentale, c’è l’inventiva che non ci manca mai»: sono le parole di Davide, conosciuto grazie al sito Vivi all’Estero, racconta la sua storia a The New’s Room. Davide vive in Thailandia, spiega come è nata la sua idea imprenditoriale: «era un po’ che nella testa mi girava l’idea, con degli amici abbiamo deciso di mettere su un chiosco che facesse solo polpette. Ne serviamo 4 tipi, con l’aggiunta della piccantissima killer meatball». Nasce così la sua polpetteria a Chiang Mai. E per la promozione del locale? Ecco un altro esempio dell’intuizione e della creatività made in italy: «Ci è venuto in mente un gioco – spiega Davide – una sfida che proponiamo ai nostri clienti: ordinate le 5 polpette che compongono una porzione, chi le mangia tutte vince maglietta e cappellino». Buone idee e forza di volontà. Le storie di Alberto, Mario e Davide raccontano il soft power ‘made in Italy’ del riuscire a cavarsela. Corsi e ricorsi storici narrano le vicende dei tanti connazionali che hanno lasciato il loro paese in cerca di nuove opportunità. La strategia giusta per riuscire? È sempre la stessa: intuito e voglia di rimboccarsi le maniche.
innovazione e territorio
MARIASTELLA RUVOLO
Palermo città della cultura 2018 L’aereo comincia ad abbassarsi e superata la barricata delle nuvole il mare appare ai piedi del velivolo. La pista sembra iniziare sulla battigia, appena superato lo shock dell’atterraggio quasi in acqua, di fronte al naso si staglia la montagna di Punta Raisi. L’aeroporto è soltanto la prima delle meravigliose contraddizioni di Palermo. All’arrivo in città, Palermo ti cattura con tutti i sensi, nessuno escluso. L’odore è forte e sa di mare , del pane ca’ meusa, di pannelle e crocchè. I colori sono intensi, non conoscono sfumature, solo stacchi netti, come il marrone della Cattedrale, il cui restauro è stato interrotto più volte per mancanza di fondi e che sembra più un gigantesco castello di sabbia contro l’azzurro del cielo. Sono tanti, ed evidenti le ragione che giustificano l’elezione di Palermo a Capitale della cultura 2018. Lo è la via Maqueda, asse Nord-Sud della città, costruita nel 1600. Lo è la Cattedrale, dichiarata nel 2015 Patrimonio dell’Unesco. Eppure il restauro della Cattedrale, dovuto quanto necessario, è stato interrotto più volte per mancanza di fondi, e per la riqualificazione di via Maqueda, l’Unesco ha dovuto stanziare 5 milioni di euro, nell’ambito del “Patto per Palermo”, per rifare asfalto e basolati, partendo dalla strada per sconfiggere il degrado fatto di droga e prostituzione di una delle arterie principali e centrali della città. Vi sono interi quartieri inaccessibili, come ZEN e Brancaccio e la Sicilia è sul podio tra le regioni per il più alto tasso di povertà assoluta e abbandono scolastico. Ecco perché questa nomina per il 2018 suona un po’ come un “ora o mai più”. Una grossa opportunità, forse l’ultima, reale e simbolica, per il capoluogo siciliano di risolvere le proprie contraddizioni. Lo sa il comune, che ha stanziato 6,5 milioni di euro di fondi per la valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Tra le opere di riqualifica più rilevanti si annoverano l’ex convento San Francesco, che diventerà centro culturale del Mediterraneo, i Cantieri Culturali alla Zisa e della Kalsa e il quartiere arabo simbolo del sincretismo della città, mai come oggi
testimonianza storica di integrazione culturale, che sarà uno dei palcoscenici di Manifesta 12, la biennale di arte contemporanea itinerante europea. Creative mediator della manifestazione sarà il siciliano Ippolito Pestellini Laparelli, architetto dello studio olandese OMA. Nelle parole della direttrice e fondatrice, Hedwig Fijen, “La città di Palermo è stata scelta da Manifesta perché incarna due temi importanti che identificano l’Europa contemporanea: la migrazione e il cambiamento climatico, nonché il loro impatto sulle nostre città”. “Manifesta 12 – continua – può favorire lo sviluppo di strumenti che permettano ai cittadini di rimpossessarsi della città”. L’idea di base, infatti, non è solo quella di organizzare mostre ed eventi, ma agire da incubatore e fornire ai cittadini gli strumenti per portare poi avanti il lavoro iniziato con questo progetto. La manifestazione promette, così, di essere molto più interattiva e di risvegliare la bellezza dormiente della città, offuscata da degrado e abbandono di beni storici di grande valore. Oltre alle istituzioni, sono entrati in campo anche i privati. Palazzo Butera è stato acquistato dal collezionista d’arte milanese Massimo Valsecchi, che nell’antichissimo palazzo nobiliare ospiterà parte della sua collezione privata con opere di Andy Warhol, Gerard Richter ed altri. E poi c’è il mondo dell’innovazione e delle start up. Il mese scorso PUSH, un progetto che sviluppa soluzioni creative e tecnologiche per l’innovazione sociale, ha raccolto a Palermo per una settimana tutte le migliori idee di gruppi e privati cittadini, da orti urbani, a percorsi di interazione con le opere attraverso il digitale, al ri-uso di spazi pubblici dismessi per progetti sociali. Il confronto è avvenuto attraverso workshops e seminari, e le idee migliori troveranno attuazione. Le energie in campo sono molte e la speranza è fare di Palermo, finalmente, quel ponte culturale tra Mediterraneo ed Europa, che ha le carte per essere.
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il punto di vista delle aziende
L’attrazione del sistema paese Italia passa dalla digitalizzazione Arte, cultura, cibo, design, moda sono solo alcune delle eccellenze del nostro Paese. Diciamo “nostro” perché da oltre 25 anni Samsung è presente in Italia, con l’obiettivo di migliorare l’esperienza delle persone e dare vita ad un orizzonte di nuove possibilità, attraverso soluzioni d’avanguardia capaci di ispirare il mondo. Ma queste eccellenze talvolta non sono propriamente valorizzate, non sono ben raccontate, non riescono ad essere del tutto attrattive per gli stranieri. Samsung crede che questa mancanza di attrazione sia fortemente legata alla digitalizzazione del Paese a tutti i livelli. In quest’ottica si inserisce l’impegno di Samsung ad agire da cittadino italiano, facendo leva su una forte presenza sul territorio e contribuendo all’evoluzione in senso digitale dell’Italia, diffondendo una cultura dell’innovazione e cercando di mettere in luce l’impatto positivo che le nuove tecnologie possono avere sulla vita delle persone, sia in ambito privato sia in ambito business. Tutto questo, in stretta collaborazione con istituzioni, associazioni, partner e cittadini. In linea con il proprio impegno globale, Samsung in Italia ha sviluppato iniziative altamente innovative nei principali ambiti socio-economici - dall’arte alla scuola, dalla sicurezza alla formazione professionale, dall’ambiente all’economia, dal Made in Italy alla cultura - volte a valorizzare il digitale a supporto di specifiche esigenze locali. Dal progetto Smart Future, dedicato alla digitalizzazione del sistema formativo ed edu-
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cativo italiano, a SCHEMA, ovvero all’utilizzo del tecnologia in ambito museale e artistico, da App Academy, dedicato ai giovani per aiutarli ad inserirsi nel mondo del lavoro grazie a competenze richieste dal mercato, a Wemogee, una soluzione dedicata chi soffre di alcune malattie quali ad esempio afasia. Sono tanti e diversi i progetti che hanno visto Samsung e il digitale mettersi al servizio della comunità. Ultimo in ordine di tempo ma non di importanza è Innovation Camp, il progetto promosso da Samsung che ha lo scopo di accompagnare le giovani generazioni in un viaggio attraverso l’innovazione, per trasformare il futuro in presente e aprire nuovi scenari professionali. Con Innovation Camp, Samsung mette a disposizione degli studenti una serie di lezioni e contenuti di approfondimento multimediali da fruire online, unita a quindici ore di sessioni creative e interattive in aula organizzate in partnership con alcune università italiane. Gli argomenti del corso toccano i temi più interessanti dello scenario digital contemporaneo, dalle nuove prospettive di marketing digitale agli elementi di business analytics e project managment. Innovation Camp forma una nuova figura professionale, l’Innovation Designer, che sarà il trait d’union tra marketing, comunicazione e tecnologia, aiutando le aziende a orientarsi nello scenario digital e a trovare nuove opportunità di business. E, ci auguriamo, a rendere più attrattivo il sistema paese Italia.
scuola e università MARTA LEGGIO
Non solo Erasmus
Il potere degli scambi tra persone Non esiste modo più semplice ed immediato, per apprezzare, comprendere, ed innamorarsi di un paese, che immergersi completamente nella sua realtà ed entrare a contatto con la sua popolazione. Allo stesso modo è vero il contrario, un’esperienza sbagliata, è in grado di pregiudicare anni di ben articolata promozione istituzionale di un paese all’estero. I rapporti e gli scambi tra persone, o people to people diplomacy, sono di fatto un elemento essenziale, forse il più importante, del soft power di un paese. Non a caso il programma di scambio accademico e culturale Fulbright fu identificato dagli americani come uno dei più efficaci strumenti di influenza durante la guerra fredda. Gli studenti stranieri che andavano a studiare negli Stati Uniti, nella maggior parte dei casi tornavano a casa con un’America diversa e migliore rispetto a quando erano partiti, e la veicolavano ai propri concittadini in maniera molto più efficace di quanto sarebbe stato in grado di fare la propaganda americana. Per quel che riguarda l’Europa, viene subito in mente il programma Erasmus, il cui nome deriva dall’umanista e teologo olandese Erasmo da Rotterdam, che per anni viaggiò in lungo e in largo per l’Europa per comprenderne le diverse culture. Istituito nel 1987, l’Erasmus, è senz’altro un’impareggiabile strumento di soft power nella possibilità che offre a studenti di tuffarsi a 360 gradi nella realtà di un paese e a dispetto delle tendenze centrifughe interessano l’Europa ultimamente, è in crescita il numero di studenti che scelgono studiare in un altro paese europeo. L’Italia è al quinto posto tra le mete preferite, nel 2015 21.564 studenti sono arrivati grazie al programma Erasmus, la maggior parte dalla dalla Spagna (6994) seguiti da Francia (2776) e Germania (2194). Secondo lo studio The Erasmus impact study regional analysis, la possibilità di incontrare persone diverse e costruire nuove relazioni, è il motivo principale per cui i giovani decidono di partecipare al programma Erasmus. Per quel che riguarda l’Italia in particolare, le sue bellezze artistiche rappresentano ancora il principale motivo di attrazione. Sono tanti infatti gli studenti che ritengono obbligatorio un periodo di studio in Italia per arricchire i propri studi umanistici. In
termini di esperienza, aldilà del rito del caffè e del gesticolare in modo convulso mentre si parla, ci sono alcune cose che chi vive l’Italia sufficientemente a lungo finisce per ammirare di noi italiani. Diversi ragazzi intervistati sottolineano il calore dell’accoglienza, la capacita di lasciarsi andare e godersi la vita, l’amore per il bello e la cura del particolare, la capacita di sdrammatizzare e l’intensità dei legami familiari. “Una cosa che invidio degli italiani è che nonostante il lavoro e le responsabilità, quando arriva il weekend chiudono tutto e vanno a bere uno Spritz”, racconta Sona, una ragazza armena che è venuta a vivere in Italia dopo aver partecipato al programma Erasmus. Tra luoghi comuni smentiti, ed altri rafforzati dall’esperienza diretta, una cosa è certa: al ritorno dall’esperienza, non soltanto la maggior parte dei ragazzi porta con se un ricordo positivo e multisfaccettato dell’Italia, che condivide con amici e parenti, ma la maggior parte di questi proseguono nello studio della lingua e ritornano nel belpaese, per periodi più o meno lunghi. Alcuni poi, scelgono di tronarci a vivere. Purtroppo però, si tratta di una percentuale ancora irrisoria. Se sono molti gli studenti che scelgono di passare un periodo di studio, infatti, non si può dire lo stesso di coloro che scelgono l’Italia come meta per propri studi in pianta stabile. Il rapporto Migrantes vede infatti l’Italia largamente al di sotto dei paesi OCSE per numero di studenti stranieri regolarmente iscritti negli atenei Italiani, questi sono meno del 3 per cento degli iscritti contro il 10 per cento della media OCSE con picchi come il Regno Unito (17 per cento) la Germania e la Francia (11 per cento). In conclusione, se è necessario che l’Europa investa somme sempre crescenti nel programma Erasmus, che è allo stesso tempo uno dei principali pilastri dell’integrazione, nonché della promozione esterna di ciascun Paese, è altrettanto necessario che l’Italia investa in programmi in grado di attrarre studenti stranieri e per l’intero arco di studi. Poiché la cosiddetta fuga di cervelli, non è un problema in se, ma lo diventa laddove non siamo in grado di attrarre cervelli dall’estero. Lavorare perché l’Italia diventi attrattiva per i giovani, e perché la fuga si trasformi in circolazione, è una scelta obbligata che non si può più rimandare. 35
start-up world
VELIA ANGIOLILLO
L’assenza di tecnologia nel Piano Straordinario del Made in Italy
Non conta che se ne parli bene o male, purché se ne parli. Con un aforisma Oscar Wilde gettava, senza saperlo, una delle principali basi teoriche dello shockvertising, la pubblicità che attira il consumatore schiaffeggiandolo con immagini sgradevoli e provocatorie. Elevato a forma artistica da fotografi come Oliviero Toscani e Chris Buck, lo shockvertising è stato l’arma di una più recente marca di abbigliamento americana, divenuta celebre più per la singolare carica sessuale delle sue pubblicità che per la sua filiera produttiva verticale e 100 per cento USA (una rarità, in un settore dove l’outsourcing è la norma). Finita nei guai proprio per le modelle ammiccanti (e per il modello societario insostenibile), nel 2014 ha smesso di colpire i consumatori solo sotto alla cintola, tornando ad una comunicazione più sobria ed incentrata sulla produzione etica dei suoi capi. Il perché è chiaro: un’indagine sul mercato statunitense di Mintel (agenzia internazionale di marketing) ha scoperto che nel 2015 il 56% degli intervistati affermava di rinunciare ad acquistare marche “non etiche” e il 35% diceva di farlo anche in assenza di prodotti analoghi sostitutivi. Segno che i tempi stanno cambiando e che in futuro il marketing dovrà corteggiare sempre più il raziocinio del consumatore. Alla base di questa intuizione ci sono progetti come Sourcemap e Project Provenance, accomunati dall’obiettivo di usare la tecnologia della blockchain (la stessa di Bitcoin, virtualmente infallibile ed inattaccabile dagli hacker) per rendere immediatamente visibile l’intera filiera dei prodotti, dalla materia prima al punto vendita. Il primo è una mappa interattiva che individua ciascun fornitore, fabbrica, grossista e punto ven36
dita coinvolti nel ciclo di vita di un prodotto, calcolando anche impatto ambientale e affidabilità della filiera. Nato da un’idea di Leonardo Bonanni, Sourcemap si rivolge alle aziende che vogliono più chiarezza sui loro fornitori per stabilire reti di sourcing stabili, permettendo inoltre alle più virtuose di dare ai propri sistemi di produzione maggiore visibilità. Provenance è al tempo stesso simile ma molto più ambizioso, perché va oltre la dimensione prettamente B2B di Soucemap . Oltre a mettere in contatto fra loro i produttori, infatti, la micro startup britannica punta a creare una piattaforma (accessibile da un’app mobile) che permetta alle aziende di raccontarsi al cliente direttamente in negozio. Basta scattare una foto al codice sull’etichetta di un prodotto per scoprirne subito l’intera storia, accedendo a info tecniche e contenuti multimediali. Il progetto è in fase di sperimentazione dal 2016 grazie a un partenariato con Co-Op, la maggiore cooperativa del Regno Unito, con la quale sta mettendo a punto sistemi per la tracciatura dei beni in tempo reale nei rami ittico e agroalimentare. Oltre ad ovvie applicazioni nella lotta all’italian sounding, la blockchain può diventare un’importante risorsa per allargare il capitale reputazionale delle imprese italiane. La narrativa ufficiale del Made in Italy infatti poggia ancora tutta sul martellamento ossessivo di un paese da cartolina, e nel Piano Straordinario per l’Internazionalizzazione varato dal governo nel 2015 il termine “tecnologia” compare a stento una volta. Se bellezza e tradizione rappresentano ancora il punto di forza dei nostri prodotti, è anche importante capire che lo sviluppo dei sistemi di comunicazione sposterà inevitabilmente parte dell’attenzione su fattori come sicurezza, sostenibilità ambientale e tutela dei diritti dei lavoratori. Ignorare la rivoluzione blockchain vuol dire rischiare di privarsi della capacità di costruire con i consumatori un rapporto di fiducia che vada oltre la pura celebrazione del bello. E come sostiene sempre Wilde, ciò che non abbiamo osato, abbiamo certamente perduto.
i lavori del futuro
ANTONIO CARNEVALE
iCub e i suoi fratelli: i robot italiani alla conquista del mondo Ci sono personaggi insospettabili che costruiscono un racconto positivo dell’Italia all’estero. Si chiamano iCub, ma anche Walkman, Andy e R1. E sono i fiori all’occhiello della robotica italiana che sta conquistando il mondo. Sono loro i veri rappresentanti dell’innovazione italiana all’estero. Personaggi insospettabili che costruiscono un racconto positivo del nostro paese. E che presto rivoluzioneranno le nostre vite (e l’intera economia mondiale). Eppure uno di loro è solo un bambino. Anche se un po’ speciale. Il suo corpo è ricoperto di circuiti e sensori. Si chiama iCub ed è un robot umanoide in grado di camminare, afferrare oggetti, imparare dagli errori ed esprimere emozioni. Adottato da ben 34 laboratori tra Europa, Asia e Stati Uniti, è al momento la piattaforma di ricerca per la robotica umanoide più diffusa al mondo. Ma ci sono anche Walkman (primo robot italiano a partecipare al Darpa Robotics Challenge), Andy, R1. Sono i fiori all’occhiello della robotica italiana che sta conquistando il mondo. E arrivano tutti da Genova, dai laboratori dell’Istituto Italiano di Tecnologia. «La tecnologia italiana e la nostra visione per il futuro suscita un grande interesse oltreoceano», racconta Giorgio Metta, “papà” di iCub e Vice Direttore Scientifico dell’IIT. Nell’attuale scenario della robotica mondiale infatti, l’Italia (e in generale l’Europa) hanno acquisito un ruolo di primo piano, al pari di colossi come Giappone e USA. E il 2017 potrebbe essere davvero il nostro anno. Cinque robot sviluppati da ricercatori italiani hanno ottenuto infatti i finanziamenti Horizon 2020 della Commissione Europea. Arrivano dall’IIT (Andy), ma anche dall’Università di Milano e dalla scuola superiore Sant’Anna di Pisa. «In Italia si contano numerosi istituti e Università di eccellenza – racconta Metta – che contribuiscono, insieme all’IIT, alla
costruzione di un racconto positivo dell’Italia nel panorama internazionale della robotica». Già, la robotica. Un settore che, nel 2020 sfiorerà i 150 miliardi di dollari. «Per il prossimo futuro – continua Giorgio Metta - vedo una robotica sempre più a stretto contatto con nuovi materiali, tanto lavoro da fare sull’intelligenza artificiale, senza dimenticarci che dobbiamo anche lavorare sull’approvvigionamento energetico di queste macchine, per cui batterie (o altre soluzioni) più efficienti». Il tempo però è dalla parte dei robot. Tanto per cominciare, dal 1 luglio 2017 la Virginia sarà il primo stato al mondo ad avere una legislazione apposita per i robot addetti alle consegne. E siamo solo all’inizio. iCub e i suoi fratelli sono ormai prossimi ad entrare nelle nostre case, aiutare anziani e disabili, prendere il nostro posto in situazioni di pericolo. Ma noi, siamo pronti ad accoglierli? Non proprio. Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Social Science Computer Review, si sta facendo largo nella popolazione (i dati sono riferiti agli Stati Uniti, ndr.) una crescente tecnofobia. Il terrore più grande? Perdere il posto di lavoro a causa dei robot. «Sicuramente ci sono questioni connesse all’impatto di una robotica personale diffusa», spiega Metta. «Ma esiste un’altra realtà: l’invecchiamento della popolazione». È un dato di fatto: nel 2060 in Europa un terzo degli europei avrà più di 65 anni. Insomma, meglio farsene una ragione: nel prossimo futuro, i robot saranno una tecnologia indispensabile. E l’Italia, che nella robotica investe da tempo, avrà un ruolo da protagonista in questa storia. «E se arriverà l’investimento che speriamo, Genova potrebbe diventare la “robot valley”.» Il grande laboratorio mondiale dove definire gli standard della tecnologia che rivoluzionerà le nostre vite.
Nella foto Giorgio Metta, papà di I Cub
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BARBARA HUGONIN
Dieta mediterranea e longevità un connubio unico al mondo l’educazione nutrizionale come strumento per la salute
In Italia si vive a lungo, lo dice l’ultima indagine di Bloomberg. Il segreto della longevità è nascosto nell’eccellenza della nostra dieta mediterranea. Di questo se ne era reso conto, già negli anni sessanta, il biologo statunitense Ancel Keys, studiando le caratteristiche nutrizionali delle tradizioni alimentari dell’area del Mediterraneo.
Nel 2010 la dieta Mediterranea è stata dichiarata patrimonio culturale dell’umanità dall’UNESCO, poiché essa rappresenta non solo un patrimonio dal punto di vista gastronomico e nutrizionale, ma anche la base della longevità dei popoli che la seguono. Gli studi successivi hanno dimostrato il ruolo preventivo dello “stile di vita mediterraneo”, in grado di ridurre l’incidenza di patologie croniche metaboliche (obesità, diabete, ipercolesterolemia), di malattie cardiovascolari e di tumori. Problemi che a livello mondiale determinano il 60% di morti premature. Se l’allungamento medio dell’aspettativa di vita, favorito da abitudini alimentari e di vita corrette, espone ad una maggiore probabilità di ammalarsi in un arco di tempo più lungo, la dieta mediterranea aiuta anche a vivere bene, perché oltre a nutrire il corpo, protegge la mente da fenomeni neurodegenerativi e depressivi, 38
stimolando i neuroni che con il passare del tempo tendono a ridursi e morire. Gli elementi base della nostra dieta contengono principi antiossidanti, ossia molecole dalla funzione protettiva ed anti-infiammatoria nei confronti delle cellule. Il consumo di frutta e verdura, in cinque porzioni totali nell’arco della giornata, di cereali che sono ricchi di minerali non assimilabili altrimenti, la preferenza di pesce e carni bianche a scapito di carni rosse e lavorate (pericolose per colesterolo, come le uova in eccesso), rappresenta un regime dietetico in grado di migliorare la qualità di vita della popolazione. La riduzione dell’impatto di importanti malattie metaboliche quali il diabete così come l’incidenza dell’infarto e delle loro conseguenze è una realtà, con una ricaduta positiva sulla salute pubblica e sui costi di trattamento delle malattie croniche. Si stima che a breve la popolazione over 60 rappresenterà la maggioranza ed è opportuno educare ad uno stile di vita il più possibile attento a prevenire patologie di grande impatto sociale. Di contro i cardini della nostra dieta mediterranea, dalla piramide alimentare all’abbinamento tra cibi salutari e colori, studiati e decantati dai più autorevoli scienziati, non sono seguiti dalla popolazione più giovane e l’obesità, con le sue conseguenze, è in crescita esponenziale. Ecco perché si tende a parlare di educazione allo stile di vita mediterraneo, una sorta di pedagogia alimentare, affinché questo prezioso patrimonio possa davvero incidere sulla qualità di vita e di salute delle generazioni future.
Geo Darwin@unsplash
health & science
policy room
A CURA DI RETI
Quali leggi per favorire l’ibridazione pubblico privato nella tutela e promozione delle attività culturali? In questa legislatura sono stati numerosi gli interventi normativi in materia di beni e di attività culturali. Dopo l’introduzione dell’Art-bonus, le modifiche al Fondo unico per lo spettacolo e l’approvazione della legge sul cinema e l’audiovisivo, la cultura e il miglioramento delle forme di integrazione tra pubblico e privato nel settore tornano al centro del dibattito parlamentare. Le Commissioni Cultura di Camera e Senato sono infatti impegnate nell’esame di due provvedimenti finalizzati a revisionare l’attuale normativa in materia di spettacolo dal vivo e a favorire lo sviluppo di imprese culturali e creative. In particolare, è all’esame di Palazzo Madama la Delega al Governo per il Codice dello spettacolo, disegno di legge di iniziativa governativa che delega l’Esecutivo a riformare l’attuale disciplina in materia di fondazioni lirico-sinfoniche, teatro, danza, spettacoli viaggianti e attività circensi, per conferire al settore un assetto più organico, razionalizzare gli interventi di sostegno dello Stato e introdurre misure volte a favorire l’intervento congiunto di soggetti pubblici e privati, sostenendo la loro capacità di operare in rete. Per incentivare ulteriormente la partecipazione dei privati, è inoltre prevista l’introduzione di disposizioni finalizzate ad ampliare a ulteriori ambiti il credito d’imposta per le erogazioni liberali a sostegno della cultura (c.d. Art-bonus), estendendo un’importante strumento di sostegno già previsto per la tutela dei beni culturali. Dopo un nutrito ciclo di audizioni sul provvedimento, la Commissione è ora impegnata nell’esame delle numerose proposte di modifica presentate al testo. Passaggio decisivo nella definizione finale della proposta, poiché l’accordo politico tra i due rami del Parlamento per accelerare l’iter d’esame e consentire l’approvazione entro la fine della legislatura, prevede che il te-
sto licenziato dal Senato sia poi approvato alla Camera senza subire ulteriori modifiche. Presso la Commissione Cultura della Camera è, invece, in corso l’esame della proposta di legge dell’On. Ascani (PD), che interviene sulla disciplina e la promozione delle imprese culturali e creative. Il provvedimento è volto a rafforzare l’offerta culturale e artistica nazionale, incentivando la nuova imprenditorialità in questi settori.
La proposta introduce la definizione di impresa culturale e creativa, individuando specifici benefici in favore delle Pmi culturali, mutuati dalle agevolazioni previste per le start-up innovative. Oltre agli incentivi fiscali in favore di soggetti che investono nelle imprese culturali, si prevede anche la possibilità di effettuare la raccolta di capitali di rischio tramite portali on line (c.d. crowdfunding). Dopo l’approvazione alla Camera, non è escluso che la proposta possa confluire al Senato nel testo della Delega per il Codice dello spettacolo, tramite un emendamento che potrebbe essere presentato dalla stessa relatrice al Codice, la Sen. Di Giorgi, integrando così le misure in un unico provvedimento. La ratio delle proposte, la cui approvazione è particolarmente attesa dai diversi soggetti che operano nel mondo della cultura, è infatti quella di promuovere lo sviluppo del patrimonio nazionale artistico e culturale, incentivando la sinergia tra soggetti pubblici e privati per valorizzare asset di importanza strategica per il nostro Paese. 39
con gli interventi di
marco bardazzi (Direttore comunicazione ENI) federico fabretti (Direttore relazioni esterne Leonardo) antonio funiciello (Capo staff del Presidente del Consiglio) maurizio gasparri (Vice Presidente del Senato) mario sechi (Giornalista ) carlotta ventura (Direttore Centrale Brand Strategy e Comunicazione) in tutte le migliori librerie
l’unicorno food and furious fashion
lifestyle
l’unicorno
FASHION Niccolò Piccioni
Filantropia e Tendenza il capitale economico e sociale di Fendi La Città Eterna smise di respirare, gli archetti cominciarono ad accarezzare le corde dei violini e, in un crescendo emozionale, le luci tornarono ad accendersi: Fendi stava scrivendo una nuova pagina della storia della maison, e non solo. Ottobre 2015. Fendi firmò un nuovo patto con la sua terra natale, Roma. Un sodalizio volto al rilancio del territorio ed all’implicita accettazione di un accostamento tra la città e la maison, a distanza di 90 anni dall’apertura di quel piccolo negozio di pellicce in Via del Plebiscito. Un’ascesa creativa, artistica e commerciale che ha portato il marchio ad essere, oggi, uno dei più importanti al mondo. Dopo qualche giorno dall’inaugurazione del nuovo Headquarter, il Palazzo della Civiltà Italiana, Fendi presentò la nuova Fontana di Trevi: il bagliore del marmo fu lambito dai flash della stampa nazionale ed internazionale, come a voler render noto in ogni angolo del globo che innovazione e tradizione si fondevano lì, dove la bellezza delle forme ha avuto origine e continua a risorgere. Un anno dopo, Fontana di Trevi tornò ad essere protagonista delle cronache attraverso una sfilata ‘sospesa’ firmata dalla Maison, che vantava la presenza delle più importanti modelle del palcoscenico mondiale, e che attirò l’attenzione di addetti ai lavori e non. Il focus mediatico avvolse tanto l’azienda di moda, quanto Roma, facendola entrare, per qualche ora, nei Trend Topics. «Il nome Fendi diventerà famoso perché è breve, musicale e si pronuncia facilmente in tutte le lingue del mondo» affermò Edoardo Fendi, fondatore dell’azienda 42
insieme alla moglie Adele Casagrande. La notorietà di cui parlava lo stilista, ricopre un ruolo fondamentale nella percezione dell’Italia all’estero. Attraverso le sue creazioni esporta in tutto il mondo il marchio Italia, sinonimo di bellezza ed eleganza. Secondo i risultati economici del 2016 presentati da LVMH, gruppo francese leader nel mercato del lusso, di cui fanno parte anche Bulgari, Louis Vuitton e Dior, la crescita economica della maison è dettata, tra gli altri fattori, anche dalla filantropia, finanziamento di interventi di riqualifica del patrimonio artistico Romano. Nell’ambito del progetto “Fendi for Fountains”, il mecenate ha investito 320mila euro per il restauro del Complesso delle Quattro Fontane; in cantiere vi è anche la volontà di riportare alla luce l’antico splendore della Fontana del Gianicolo, la Fontana del Ninfeo al Pincio e quella del Peschiera a Piazzale Clodio a Roma. Sono invece 2,18 milioni di Euro quelli impegnati dall’Azienda per il restauro completo della Fontana di Trevi, emblema della Dolce Vita e della Hollywood sul Tevere. Poi è toccato al “Colosseo Quadrato”, che dopo 72 anni di abbandono è stato affittato a Fendi per 2,8 Milioni di Euro l’anno. Ora sono condensate al suo interno tutte le attività dell’azienda. Fendi non è la prima azienda di moda ad agire da mecenate. Ad interpretare i panni del pioniere nella collaborazione tra Pubblico e Privato per il rinnovamento di beni pubblici fu Biagiotti che, nel 1998, sostenne il restauro della Scala Cordonata del Campidoglio e, nel 2007, quello delle due fontane di Piazza Farnese. Il Fashion System, in antitesi con le tendenze contemporanee, sceglie di investire sull’atemporalità ed immortalità del patrimonio artistico, perché è da esso che prende ispirazione. Fendi, in questo senso, si prostra al potere dell’Arte.
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food and furious Cinzia Caserio
Fate gli chef, non fate la guerra «La via più semplice per vincere cuori e cervelli passa dallo stomaco», dice Paul Rockower, gastronomo ed esperto di diplomazia pubblica. Pasquale Terracciano, attuale ambasciatore italiano a Londra, concorda: «è nella natura umana essere più aperti di fronte a una discussione se si ha a disposizione del buon cibo». In effetti, la gastro-diplomazia non è una moda dell’ultimo momento, ma la versione più irresistibile e appetitosa del soft power, ben nota a molti Paesi asiatici e americani che la praticano ormai da anni. La Thailandia è stata la prima a scendere in campo (nel 2002) con un programma governativo incentrato sull’aumento del numero di ristoranti Thai nel mondo. Qualche anno dopo, la Corea del Sud, la Malaysia, il Perù e gli Stati Uniti l’hanno seguita, portando avanti iniziative simili, con qualche tocco di colore in più. Sono nati così i festival internazionali e le scuole di cucina malesi, i food truck sudcoreani itineranti, le catene di ristoranti peruviani e le missioni dei migliori chef americani nelle ambasciate di tutto il mondo. Intanto l’Italia affila i coltelli (in cucina): pur non avendo mai lanciato dei programmi nazionali di gastro-diplomazia in passato, quando si parla di gastronomia, non è seconda a nessuno e vuole dimostrarlo. Per dirla con le parole di Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly: «noi italiani siamo i più bravi al mondo a fare le cose, e i meno bravi a raccontarle». Così è nata Eataly, esattamente dieci anni fa: buon cibo e marketing, gusto e storytelling. L’intuizione di Farinetti era semplice ma geniale: diffondere nel mondo un’idea di cibo raffinato, di qualità, sostenibile, tutto rigorosamente made in Italy. Al momento, i 33 punti vendita sparsi in Europa, Asia e America, sono un grande strumento di gastro-diplomazia o di soft power applicato alla tavola. Il perché è presto detto: i consumatori 44
non vogliono acquistare semplicemente un prodotto di qualità, ma anche una storia, il racconto delle eccellenze regionali, uno stile di vita, dei valori.
Farinetti è stato uno dei primi imprenditori del food a puntare sul soft power, ma gli italiani oggi sono sempre più consapevoli che “saper fare” non basta: serve una strategia comunicativa ben precisa. Expo è stato decisivo in questo senso, perché ha mostrato al mondo il volto migliore dell’Italia, stimolando una serie di iniziative volte a promuovere i nostri prodotti all’estero; il processo creativo continua ancora adesso. È stato varato il Food act: un piano che tocca 10 punti nodali della questione, tra cui la valorizzazione del vero Made in Italy e il coinvolgimento degli chef italiani in iniziative all’estero. L’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto è nata proprio per soddisfare questa esigenza. In seguito è stata organizzata la “Prima settimana della cucina italiana nel mondo”, tenutasi dal 21 al 27 novembre 2016 in 105 Paesi. In quei giorni si sono susseguiti dibattiti, conferenze, cene a tema, mostre e rappresentazioni teatrali legate al cibo, seminari tecnico-scientifici, master class e cooking show, organizzati dagli chef italiani che lavorano all’estero. In occasione dell’evento, il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, aveva detto: «Il cibo è un fatto anche politico». Intanto l’export agroalimentare, che già nel 2015 aveva toccato i 37 miliardi di euro, come ricorda Coldiretti, punta ad arrivare a 50 nel 2020.
IL LIBRO
Gabriele Gurrola@unsplash
Poi ci sono gli chef: Vissani che spesso è impegnato in conferenze e lezioni di gastronomia all’estero e Massimo Bottura che ha alle spalle una presenza di tutto rilievo nella stampa anglosassone. Quest’ultimo è stato descritto dal Guardian come: “Il brillante chef che ha reinventato la cucina italiana, un poeta in cucina e un artista nel piatto”. Nel 2015, il Telegraph gli aveva dedicato un articolo per l’apertura di un ristorante pop-up (a tempo) a Sotheby’s, la famosa casa d’aste del Regno Unito. Di ristoranti pop-up parla anche Danilo Cortellini, cuoco presso l’ambasciata italiana a Londra, che ha scritto il libro “4 Grosvenor Square – the menu of the italian embassy in London”. Si tratta di un altro grande strumento di soft power: qui Cortellini parla delle sue tradizioni culinarie, dà risalto ad alcuni marchi del made in Italy, descrive le ricette che prepara in ambasciata. Il libro si apre con una prefazione dell’ambasciatore Pasquale Terracciano che esalta il ruolo del cibo e del vino durante una conversazione di politica o di finanza. Dopodiché, Cortellini dà avvio a uno storytelling che parte dalle sue radici e tocca le tradizioni di famiglia, i piatti tipici abruzzesi, fino ad arrivare all’autenticità della vita di campagna e alla qualità dei prodotti. “Non si tratta solo di cibo – scrive – si può parlare di pranzo quando la famiglia si riunisce tutta insieme”. Dopo un excursus sulla sua formazione e sull’approdo a Masterchef, lo chef si sofferma più volte sul lavoro in ambasciata, consapevole di rappresentare la cucina e i prodotti italiani. I suoi piatti cambiano a seconda delle occasioni: colazioni di lavoro, pranzi domenicali, ricevimenti e aperitivi, pranzi a buffet e di gala. La presentazione del cibo deve seguire delle regole precise anche a seconda degli invitati, ma l’etichetta non è tutto. Cortellini reinterpreta piatti tipici regionali sublimandoli e raccontandone la storia. Dietro ognuno di loro si nasconde un “C’era una volta” che conquista il palato, ma anche la mente.
4 Grosvenor Square Hardcover Danilo Cortellini, Rachel Heward 2016
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lifestyle Davide Bartoccini
Il cinema italiano tra potere morbido e spirito gattopardiano Chi ha visto The Talented Mr.Reply, capolavoro dell’italo-britannico Anthony Minghella, saprà di cosa stiamo parlando: quel potere dolce che un tempo il nostro Paese ha saputo adoperare così finemente, oltre confini e oltre oceano, per attrarre a sé l’attenzione di imponenti ammiratori. Nella pellicola di Minghella, tratta dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith, è un bel giovane americano della Ivy league a lasciarsi ammaliare dall’Italia, tanto da decidere di trascorrerci il resto della sua via in un esilio dorato. Quel film trasmise al mondo, in modo così persuasivo, il delicato senso della bellezza italiana. La stessa “grande bellezza” scatenata da Sorrentino non ci è riuscita, o forse sì. Perché del resto la bellezza è risultato di estremi, di contraddizioni.
Come disse nel suo celebre paragone Orson Wells, regista del miglior film americano di sempre: «Cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.» Allora forse tutto torna nell’oscar di Sorrentino e nella nostra Italia piccola e oscena, che pur esercitando un soft power negativo nelle sue pellicole, continua a stregare attraverso il sogno perduto della “dolce vita”. Miseria e splendore rivivono in Sciuscià di Vittorio De Sica (primo regista italiano ad aggiudicarsi un premio oscar), La dolce vita di Federico Fellini (palma 46
d’oro al Festival di Cannes), nei palazzi del Gattopardo di Luchino Visconti e nei drammi circensi de La Strada. A fare da sfondo agli antipodi della commedia umana, il più delle volte, la bellezza marmorea di Roma, delle campagne monumentali, delle costellazioni di frazioni rurali e i tramonti che spengono le isole minute, dai nomi grezzi e le vedute mozzafiato. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 il cinema italiano (che allora eguagliava e stregava Hollywood) ha condizionato, attraverso il talento dei propri registi, l’immaginario del mondo intero, raccontando l’Italia così com’era. Il neorealismo di quegli anni era apprezzato dagli americani e non meno dagli europei. Tutti accorrevano a trascorrere le loro “vacanze romane”: affittavano una vecchia vespa e si sentivano subito come Gregory Peck e Audrey Hepburn nei vicoli delle nostre città d’arte. Si avvicinavano allo specchio d’acqua di fontana di Trevi e gridavano “Marcello come here”, volevano assaggiare la pizza e gli spaghetti nelle osterie, come insegnerà poi il primo passo del percorso salvifico raccontato anni dopo in Eat, pray, love. Mentre la Gilbert scriveva a macchina il suo best seller on-the-road, la stagnazione e la rassegnazione del nostro cinema lo spingevano a rinunciare ad essere grande nel mondo. Cessava d’essere arte a beneficio di un pubblico sempre meno pretenzioso e dotato di spirito critico: “il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante” (La Ricotta, P.Pasolini ndr). Ormai il dato era tratto, nell’immaginario collettivo l’Italia era quella: fuorviante e affascinante. Non è un caso infatti se Paolo Sorrentino, regista della recente e acclamata serie The Young Pope, premio oscar per la sopracitata La Grande Bellezza e premio della giuria di Cannes per Il Divo, sia riuscito a riportare alla ribalta il cinema italiano nel mondo, percorrendo lo stesso solco lasciato dai suoi grandi predecessori. Se il soft power del cinema italiano è stato in grado di vivere di rendita per quasi ’40 anni , la soluzione per tornare ai vecchi fasti appare semplice, come diceva il magnifico Alain Delon nei panni di Tancredi di Lampedusa: «Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima».
lifestyle Cosimo Rubino
Serie a, ultima chiamata: le big d’Europa scappano
Appurato l’enorme valore di soft power del calcio, è inevitabile chiedersi perché l’Italia, Paese di straordinaria tradizione in questo sport, non riesca a sfruttarlo in tutto il suo potenziale. Il rapporto Deloitte 2017 sui ricavi delle principali squadre europee segnala un ulteriore campanello d’allarme per la nostra Serie A: la Juventus è decima ed è l’unica italiana presente nella top ten, con un fatturato di 341,1 milioni di euro. Bisogna poi scendere fino alla quindicesima posizione per trovare la Roma (seconda del nostro campionato), con un fatturato di 218,2 milioni, seguita dal Milan che è sedicesimo con 214,7 milioni complessivi. Ultima italiana fra le migliori venti è l’Inter dell’era pre-Suning, che occupa la casella numero diciannove con i suoi 179,2 milioni di fatturato. Dati preoccupanti, soprattutto se rapportati a quelli dei primi anni 2000, quando l’Italia presentava cinque squadre nelle prime dieci e Juve e Milan si assestavano addirittura nella top 5. Addentrandosi ulteriormente nel rapporto, poi, si nota come i ricavi delle squadre di Serie A siano forte-
mente sbilanciati. Fra le fonti analizzate, ci sono: ricavi da stadio, commerciali e diritti tv, ma la bilancia pende fortemente dalla parte di questi ultimi, che pesano il 61 per cento del totale, una fetta più ampia rispetto a quella dei maggiori campionati stranieri. Ma anche se su questa voce le squadre di casa nostra sembrano poter competere con i top team europei, il prossimo anno dovranno fare i conti con i rinnovi al rialzo ottenuti da Liga e Premier League. E proprio i diritti tv sono argomento di grande polemica all’interno dell’assemblea di Lega Calcio, dopo che una fronda di squadre medio-piccole, con a capo il presidente della Lazio Claudio Lotito, ha chiesto una più equa distribuzione dei compensi, ricevendo come risposta un secco no dalle sei big (Juve, Milan, Inter, Roma, Napoli e Fiorentina). Attualmente le prime cinque si dividono il 44 per cento del totale, con la prima classificata che incassa 4,7 volte di più dell’ultima in classifica. Una ripartizione che contribuisce ad aumentare il divario, a danno, ovviamente, della competitività. A peggiorare ancor di più la condizione del nostro calcio poi, si aggiungono settori marketing notevolmente indietro nella corsa all’oro orientale (in questo senso l’Inter della nuova proprietà cinese dovrebbe avere buone prospettive) e soprattutto un drastico calo delle presenza allo stadio. L’aumento dei prezzi, le politiche repressive del tifo organizzato e la condizione fatiscente della maggior parte degli impianti italiani hanno avuto l’effetto di allontanare sempre di più i tifosi dagli spalti, con una conseguente perdita di fascino del prodotto anche agli occhi degli spettatori esteri. Per invertire la tendenza c’è bisogno di rilanciare la competizione del nostro campionato, di fare stadi all’altezza degli standard europei, oltre a operazioni commerciali che strizzino l’occhio a mercati in espansione come quelli asiatici. C’è bisogno, insomma, di scelte politiche finalmente coraggiose ed unitarie, per poter sfruttare appieno un potenziale in grado di rappresentare egregiamente l’Italia nel mondo.
Peter Glaser e Mpho Mojapelo@unsplash
“Uno dei due guardiani, il più religioso, è venuto da me esterrefatto per Totti. Lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta ‘liberate Giuliana’ sulla maglietta”, era il marzo del 2005 e la giornalista Giuliana Sgrena, alla luce della sua liberazione dopo un mese nelle mani di un gruppo di jihadisti iracheni, scriveva queste parole su Il Manifesto. L’episodio, apparentemente surreale, si inserisce nella lunga lista di casi in cui il calcio ha rappresentato un linguaggio condiviso in ogni angolo del mondo, capace di aiutare a dirimere situazioni per cui l’uso della forza non garantisce risultati soddisfacenti.
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The New’s Room bimestrale tematico anno 1 - numero 1 maggio - giugno 2017 Fondatore Pierangelo Fabiano
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