the new's room - n0

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INTERNAZIONALE

Vite parallele, destini incrociati

SCUOLA E UNIVERSITÀ Dalla laurea al lavoro, cosa c’è e cosa manca

issue 00

bimestrale tematico marzo - aprile 2017

Generazione liquida Né neet né choosy. Quale futuro per la Generazione y.

LIFESTYLE Gender fluid




cover story

editoriale

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Francesco Bei

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Vite parallele, destini incrociati Carlo Cauti

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Per i giovani tunisini è sempre primavera Simone Rubini

17

Generazione Trump Nicolò Scarano

19

Giovani e partecipazione politica Gerardo Fortuna

20

A riveder le stelle sotto un altro cielo Matteo Di Paolo

21

Voucher & Welfare Maurizio Franco

rubriche

la parola ai direttori 6

30

Innovazione e territorio Mariastella Ruvolo

31 32

Il punto di vista delle aziende Scuola e università Andrea Palazzo

33 Start up world Velia Angiolillo 34 I lavori del futuro Antonio Carnevale

8

Informazione liquida: a fare 36 la differenza è ancora la qualità Sofia Gorgoni 37 Generazione liquida Sara D’Agati

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I numeri dei giovani e la sfida degli under 30 Lorenzo Castellani

Health & science Barbara Hugonin Policy room Reti


approfondimenti 22 23

L’amministrazione liquida di Trump

24

Il tramonto dei leader Davide Bartoccini

The H factor Maria Genovesi

26 Fantasmi Ilaria Danesi 27

Cyber generation Claudia Cavaliere

28

The world needs more poetry Elena C. Stein

in the mood 40

Food & Furious Cinzia Caserio

41 L’unicorno Luigi Rossiello 42 Amore liquido Marta Leggio 43 Amore liquido Cosimo Rubino 44 Lifestyle Niccolò Piccioni 46

Il personaggio Luigi Rossiello



il coach

EDITORIALE Ci siamo, dunque. La sfida è iniziata. Sfida anzitutto a noi stessi, per la riconquista del lettore e della credibilità del giornalismo, in un momento storico – l’era della post-verità - in cui tutto è rimesso in discussione e nulla può essere dato per scontato. Per questo affrontiamo la battaglia del racconto con un metodo nuovo. Una squadra di giornalisti giovani, trentenni o meno, per avere un punto di vista diverso, un’angolatura si spera non banale, da cui guardare il mondo in cambiamento. E soprattutto una squadra selezionata ex novo con un rigido criterio meritocratico, senza amicizie, padrinaggi politici, nepotismi. Tutto in streaming, si direbbe. Per fare cosa? Per provare una lettura lunga del reale con uno strumento apparentemente antico, ma per questo modernissimo, come un bimestrale. A cui si affianca una fruizione e un aggiornamento quotidiano digitale. Con questo primo numero proviamo a stringere l’inquadratura sulla “generazione liquida”, la Generazione Y, quella di chi non ha avuto nulla in eredità dai padri se non un mondo da ricostruire dalle fondamenta. E nel nostro Occidente che, come prediceva Spengler, ci sembra avviato a un ineluttabile tramonto, sarà proprio questa generazione a dover affrontare le due minacce mortali che ci si parano di fronte. L’Occidente, il nostro oikos, i nostri valori costituzionali e repubblicani, subiscono infatti un duplice attacco. Dall’esterno, con il jihadismo del Califfato, e dall’interno, con il populismo (ma quanto ormai ci sembra inservibile e logora questa definizione) che rimette in circolo persino quei veleni etnici e razzisti che speravamo esserci lasciati alle spalle con la fine della seconda guerra mondiale. Tutto è in movimento, tutto cambia. Sono in crisi gli Stati nazionali nel Medio Oriente ed è saltato l’equilibrio posticcio di Sykes-Picot - è in crisi persino la geografia! -, le vecchie idee ci sembrano inservibili, la sinistra e la destra, le vecchie ricette, l’Unione europea, che ci sembrava un porto sicuro, è rimessa in discussione ogni giorno. È in crisi, dicevamo all’inizio, la stessa possibilità di un racconto “oggettivo”, univoco della realtà. Ma il nostro compito è non arrenderci al pessimismo, altrimenti non saremmo qui oggi. In questa era del caos sono proprio questi giovani giornalisti a indicare una via d’uscita, con il loro sforzo di offrirci – nelle pagine che seguono e in quelle che verranno – una nuova architettura di senso, una nuova chiave di lettura del reale. Nella società liquida di Bauman è nata e cresciuta questa generazione, in cerca del suo Occidente ma senza bussola. Si naviga a vista. E tuttavia la caratteristica dei liquidi, a differenza delle strutture rigide, è che non si possono rompere. Anzi, un liquido può entrare negli interstizi, infilarsi dove altri non arrivano, prendere forme inaspettate. Ciò che è liquido si può adattare meglio, può resistere, plasmarsi. Ha una resilienza maggiore, non si spezza. Noi restiamo ottimisti, nonostante tutto. E ci proviamo con questa News Room. È l’ottimismo della scimmia nuda, direte voi, quello di Gabbani a Sanremo. Ma siamo in ballo e ci vogliamo divertire.

Francesco Bei

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La sfida di The new’s room

INFORMAZIONE LIQUIDA: A FARE LA DIFFERENZA È ANCORA LA QUALITÀ Sofia Gorgoni

La rete ha rivoluzionato la nostra esistenza, ha fatto scomparire mestieri e ne ha inventati altri. I social network ci hanno fornito un modo per riprogettare le nostre identità, interagiamo in modo diverso e con il meccanismo dei “mi piace” abbiamo riscontri immediati per qualsiasi piccolo aggiustamento identitario. Ogni gesto quotidiano è stato rivoluzionato, incluso il modo in cui apprendiamo le notizie. Le informazioni oggi passano dalla rete o, meglio, dai social network. I giornali se ne stanno facendo una ragione. Quello di internet non è un giornalismo di serie B, perché la differenza la fa la qualità. Quando gli editori digitali vendono la pubblicità sulla base del numero di visualizzazioni, qualunque contenuto ha lo stesso valore. Un’inchiesta d’approfondimento vale quanto un post su un blog pieno di video raccolti qua e là, per questo ci vuole ancora più coraggio a creare contenuti di qualità e costosi, in un mondo in cui ogni minuto vengono prodotte 72 ore di video, 204 milioni di email e 277mila tweet. La carta stampata è ancora viva, ma oggi da sola non può esistere. C’è una frase molto bella di Shingy (un web evangelist) che dice “Technology changes behavior, not needs”. Il bisogno d’informazione c’è, cambiano solo i comportamenti. I giornali non possono più considerarsi semplici contenitori, ma strumenti capaci di imporre tematiche. Inutile piangersi addosso, il giornalismo del passato non esiste più e l’unica soluzione è adeguarsi al nuovo, riorganizzando la nostra conoscenza e cambiando la prospettiva. In un momento in cui il problema dei giornali è diffondere i contenuti, Google ha gli 6

strumenti per farlo e lo stesso vale per Facebook, Snapchat, Twitter e per tutti gli altri. In Europa questi players vengono ancora visti come una minaccia. Ogni giorno ci piombano addosso fiumi di articoli, video, fotografie e informazioni che non abbiamo mai cercato, Wikipedia ha dedicato una voce al fenomeno dell’’Information Overloading’ (sovraccarico cognitivo), l’incapacità di scemare il flusso di notizie di cui si viene a conoscenza.

È qui che la figura del giornalista riassume un ruolo centrale, quello di moderatore che dà un ordine e un’interpretazione alle cose e riconosce le bufale messe sui siti a caccia di click. Le false notizie, infatti, vengono rilanciate e condivise dagli utenti attraverso i profili social. L’algoritmo di facebook fa il resto, riproponendo, tendenzialmente, siti simili agli stessi utenti (negli ultimi tempi sta correndo ai ripari proprio per limitare le fake news). Si salta da un sito all’altro e spesso non si riesce a ricordare le informazioni, perché tutto viene percepito come una sorta di “rumore”. Bauman diceva che abbiamo a disposizione un’enorme quantità di informazione, in byte, come mai prima nella storia, ma abbiamo una minore capacità di comprendere cosa sta accadendo rispetto ai nostri antenati che godevano di una salutare ignoranza relativa.


Foto Matthew Guay

Oggi una delle sfide più difficili per le società editoriali è quella di riuscire a convincere i lettori a pagare contenuti giornalistici online. Con il digitale nascono nuove esperienze di lettura, possiamo creare una sorta di rassegna stampa personalizzata. Applicazioni come Blendle riuniscono su un’unica piattaforma i contenuti di diversi giornali (L’utente iscritto, paga con un unico portafogli virtuale, Blendle trattiene una parte e gira il resto all’editore) o come quella di Adriano Farano, 37 anni, l’ideatore di Watchup, un’app che consente di creare il proprio telegiornale personalizzato, con un collage di video news da diversi emittenti (L’applicazione è piaciuta ai big dell’hitech, come Microsoft e ha raccolto 4,3 milioni di dollari). Joshua Topolsky, cofondatore di the verge e di vox media, ha detto che il business dei media tradizionali non sarà salvato dai video, dagli algoritmi o dalle newsletter. Non servono nemmeno nuove app, esperienze innovative di lettura su iPad, live video, infodata, integrazioni con i social, canali su Snapchat, gruppi su Telegram o partnership con Twitter. Il futuro dei giornali non è inseguire i lettori e le mode, abbassando il livello dell’offerta nel tentativo di ampliare la base, il futuro deve partire dal proprio passato, puntando sulla storia e sulla credibilità delle testate. La qualità dei contenuti deve sempre essere priorità e ogni storia va scritta bene, analizzando gli eventi, e puntando su nuove idee interessanti per i lettori. È questa la scommessa di the new’s room: qualità e multimedialità (perché avrà una web radio e una web tv, oltre al sito). E parlerà a tutti con un linguaggio nuovo, quello dei giovani che amano l’Italia. 7


GENERAZIONE LIQUIDA Sara D’Agati

Generazione y, Net generation, Echo boomers, Millennials che io per un lungo periodo ho creduto fossero quelli nati nel duemila, e invece poi ho letto un articolo che spiegava che ci rientrano anche quelli nati, come me, negli anni ottanta. Le generazioni precedenti di appellativi non ne avevano, o ne avevano uno soltanto, e spesso gli veniva attribuito a posteriori; in un periodo storico successivo e serviva soltanto per fare un bilancio. Per dire, che so: “i sessantottini hanno sbagliato tutto, e guardate che mondo ci hanno consegnato” o roba del genere. Invece, non saremo sommersi dalle offerte di lavoro, ma quanto a definizioni abbiamo l’imbarazzo della scelta.

Spogliati da leader, maestri e ideologie di riferimento, ci muoviamo in uno spazio fluido dove il ventaglio di opzioni è potenzialmente infinito, senza che lo siano altrettanto le indicazioni sulla strada da seguire. In questo numero cercheremo di portarvi in viaggio in questo spazio caotico dove coesiste tutto e il contrario di tutto. Dove i giovani fuggono, si, ma a volte ritornano e realizzano cose meravigliose, dove la partecipazione politica non si cancella, ma si trasforma, dove start-up non è necessariamente sinonimo di “bene”, dove tecnologizzazione non è uguale disumanizzazione, dove il web produce veleni ma anche i suoi antidoti. Dove tutto: il lavoro, l’identità, l’amore, sono in una fase di profonda, rivoluzionaria, ri-definizione.

Forse è dovuto al fatto che di noi giovani, in Italia, se ne parla un sacco: ne parlano i giornali, ne parlano Siamo una generazione a cavallo tra due mondi, ai convegni, ne parla il professore all’università che eppure in grado di leggerli entrambi, e assistiamo oggi ha 150 anni, ne parlano i vari esponenti del governo ad una transizione sistemica che somiglia più a una che si chiedono come bisogna fare a far tornare i distruzione di portata Shumpeteriana. Forse iniziamo cervelli che sono fuggiti, ne parla qualche giornalista soltanto adesso a prendere consapevolezza reale dei attempato alla tv, che fa il solito servizio sulla nostri strumenti. Forse, questo nuovo mondo che Generazione Erasmus. E poi scopri che al convegno avanza lo sappiamo leggere in questione i diretti interessati meglio noi, che non abbiamo c’erano andati, solo che quando Liquidi come il nostro dimenticato com’era quando dopo l’intervento durato sette si camminava senza la testa ore del demografo di turno, il tempo, rifuggiamo china sullo smartphone, ma millennial ha alzato la mano semplificazioni alterniamo twitter, snapchat per dire qualcosa, non gli hanno e categorizzazioni proprio e medium con la disinvoltura dato la parola perché “non perché siamo insieme il di un prestigiatore, che c’era più tempo.” E che quello portiamo il kindle in viaggio, dei cervelli in fuga non è un prodotto e lo specchio ma non rinunceremmo fenomeno soltanto italiano, ma della complessità all’odore della carta per nulla un trend globale, e il problema contemporanea. al mondo. Noi che abbiamo in Italia non sono tanto quelli visto vecchi muri cadere, e non vogliamo vederne che se ne vanno, ma il fatto che da fuori entrino in sorgere di nuovi, che di certezze non ne abbiamo mai pochi. E scopri anche che l’Erasmus lo fa si e no il 2% avute, e non ci facciamo paralizzare dal caos, perché della nostra generazione. Così, quando si è trattato sappiamo che è lì che nascono le idee migliori. Noi di scegliere il nome per il numero ‘0’ di questa rivista che non siamo vittime della paura di perdere ciò che che si caratterizza, tra l’altro, per una redazione dove, abbiamo costruito, perché tutto è ancora da costruire. tra editore, direttori, e giornalisti, il più “vecchio” ha 31 anni e il più giovane 19, ci siamo scervellati per trovare Siamo liquidi in una modernità liquida, e sta a noi un termine che ci definisse, che non fosse già stato più di quanto pensiamo navigare a vista o incanalare usato. Poi è venuto liquida, e ci è parso non esistesse questo mare in una direzione che ci piace di più. E nulla in grado di definirci meglio. Liquidi come il nostro se non ci riusciremo, avremo lottato, e quando di tempo, rifuggiamo semplificazioni e categorizzazioni noi faranno un bilancio storico, non avranno che proprio perché siamo insieme il prodotto e lo specchio l’imbarazzo della scelta su come chiamarci. della complessità contemporanea. 8




La terza via per governare la globalizzazione.

I NUMERI DEI GIOVANI E LA SFIDA DEGLI UNDER 30 Lorenzo Castellani

La crisi economica, iniziata oramai otto anni fa, ha colpito prevalentemente le giovani generazioni diminuendo radicalmente le opportunità per chi si è affacciato sul mercato del lavoro in questo periodo. I giovani che non studiano e non lavorano (NEET) sono passati dal 19,3% al 25,7% dei 15-29enni tra 2008 e 2015. A crescere è soprattutto la quota di ragazzi (dal 15,6% al 24,2%) anche se quella femminile, comunque in aumento dal 23,0% al 27,1%, risulta costantemente superiore. Nel 2015 l’Italia ha la più alta quota di NEET d’Europa per entrambi i sessi, seguita da Grecia (22,2 % maschi, 26,1 % femmine), Croazia (20,8% maschi) e Romania (26,1% femmine). È opportuno porsi una domanda e cioè se investimento in istruzione produce ancora dei benefici monetari per gli individui che lo affrontano. Secondo l’Ocse, Il tasso di rendimento implicito dell’investimento effettuato quando si consegue un titolo di istruzione terziaria rispetto ad uno di secondaria superiore nel 2012 è stato pari all’8,8% per i ragazzi italiani e all’11,4% in media Ocse. Per le ragazze italiane la situazione è ancora più svantaggiata: 7,6% contro 11,6%. I bassi tassi italiani testimoniano che l’investimento in istruzione in tutto l’arco della vita attiva fornisce rendimenti inferiori nel nostro Paese rispetto agli altri paesi Ocse.

In media, in Italia come altrove, i laureati hanno redditi da lavoro più alti rispetto ai lavoratori con un livello d’istruzione inferiore Tuttavia, in Italia, la laurea rende meno poiché redditi rispettivi sono inferiori alla media dei principali paesi sviluppati: 143% rispetto alla media OCSE del 160%. Nel 2014, solo il 62% dei laureati tra 25 e 34 anni era occupato in Italia, 5 punti percentuali in meno rispetto al tasso di occupazione del 2010. Questo è un livello paragonabile a quello della Grecia ed è il più basso tra i Paesi dell’OCSE (la media dell’OCSE è dell’82%). Se ne deduce che gli studenti che si iscrivono all’istruzione terziaria potrebbero dover aspettare a lungo un ritorno d’investimento sul mercato del lavoro.

Nel 2012, secondo gli ultimi dati disponibili, per l’istruzione terziaria l’Italia ha speso 10.0712 dollari statunitensi per studente. Si tratta di un livello di spesa pari a solo due terzi della media OCSE. Il finanziamento delle istituzioni del settore d’istruzione terziario rappresentava lo 0.9% del prodotto interno lordo (PIL) del Paese mentre in paesi come Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti, hanno dedicato quasi il 2%, o una quota superiore, del PIL all’istruzione terziaria. Per concludere, il nostro Paese tende a concentrare troppe risorse pubbliche sul welfare pensionistico e da disoccupazione. Soprattutto nel caso della disoccupazione si tende a finanziare chi ha perso il proprio lavoro senza offrire nulla in cambio come seri percorsi di formazione , riqualificazione e incentivi alla mobilità. Lo stesso avviene con le fasce più giovani della popolazione a cui vengono offerti bonus e pezzi di carta troppo spesso senza valore. Al contrario un investimento di lungo periodo sulla formazione, l’internazionalizzazione dell’istruzione e rigorose valutazioni sulla qualità degli istituti e degli atenei potrebbe migliorare il sistema d’istruzione e rafforzare la mobilità sociale. La globalizzazione ha portato a tutti gli iPhone, Amazon, Facebook, Ryanair e Google, ma ha tolto ad alcune fasce l’opportunità di trovare un lavoro adeguato o di accedere ad un’istruzione di eccellenza. Troppo spesso la risposta della politica, a destra e sinistra,è togliamo iPhone, Amazon, Facebook, Ryanair e Google (leggere fermiamo la tecnologia/ sviluppo/mobilità globale) per avere il lavoro oppure teniamoci una società di disoccupati con gli iPhone, Amazon, Facebook, Ryanair e Google (leggere status quo). La nostra sfida generazionale globale, invece, dovrebbe suonare così: teniamoci gli iPhone, Amazon, Facebook, Ryanair, Google e tutto ciò che verrà, ma cambiamo il sistema in uno in cui ci sia abbondanza di formazione e lavoro per tutti.

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cover story

Carlo Cauti

Vite parallele,

DESTINI INCROCIATI

I giovani italiani della Generazione Y affrontano gli identici problemi dei loro coetanei di gran parte del mondo: lavori che scompaiono, stipendi che si contraggono, progetti di vita rimandati o annullati per sempre. Solo che mentre da noi li si insulta, all’estero si cerca di affrontare la questione alla radice. Quando la politica e la stampa del nostro Paese decidono di parlare dei giovani italiani di solito tirano fuori il lanciafiamme. Giornalisti, opinionisti, ministri o anche il tizio del bar sotto casa bistrattano spesso e volentieri le giovani generazioni. Un mantra, al pari di disquisire del tempo o della finale di Sanremo. I ragazzi italiani sono stati bollati come “choosy” da Elsa Fornero, definiti “sfigati” da Michel Martone, marchiati come “bamboccioni” da Tommaso Padoa-Schioppa e se “andassero fuori dai piedi” per Giuliano Poletti renderebbero un servizio alla patria. Tutte condanne senza appello. Certo, non è un mistero per nessuno che la condizione dei giovani 12

italiani sia drammatica. Disoccupazione giovanile al 40,1%, NEET (Not in Employment, Education or Training, sigla che identifica i giovani che non lavorano né studiano) al 26,9%, età media alla laurea di 26,5 anni, e percentuale di laureati al 24%. Tuttavia, senza voler assolvere a tutti i costi la Generazione Y nostrana dalle sue (tante) mancanze, è lecito guardarsi un po’ intorno e domandarsi se i millennials italiani siano davvero una legione di imbecilli o se i loro coetanei in giro per il mondo affrontino gli stessi problemi. Prendiamo la prima accusa, l’ormai leggendario “bamboccioni” Termine coniato dall’ex-ministro dell’Economia Padoa-Schioppa esattamente dieci anni fa, quando accusò i giovani di voler rimanere a casa dei genitori il più a lungo possibile. È vero, il 67,3% dei giovani in Italia vive ancora con mamma e papà. Ma depurando questa percentuale italiana da una tradizione familiare tra le più forti del pianeta, noteremmo che altrove la tendenza non è molto diversa: negli USA sono il 40%, in Germania il 43%, in Brasile il 30%, nel sudest asiatico addirittura i due terzi, con Hong Kong che svetta al 76%. Bamboccioni senza frontiere? Ovviamente no. In tutto il mondo il problema è lo stesso: costi abitativi che crescono e stipendi che non li accom-

pagnano. In Italia dal 2001 al 2016 il prezzo delle abitazioni è aumentato del 60%. Una tendenza in linea con il resto del mondo. Mentre da trent’anni le retribuzioni sono al palo. Ovunque. E se da noi la questione “bamboccioni” è ampiamente dibattuta da decenni, all’estero è un fenomeno di cui apparentemente le opinioni pubbliche si sono accorte solo ora. Ad esempio, solo quando nel 2011 mezzo milione di ragazzi occuparono le strade di Tel Aviv, protestando contro il caro-immobili, che la stampa israeliana si accorse del problema dei giovani che rimangono a casa con i genitori. In Brasile, invece, è da poco sorto il termine “Geração Canguru”: Generazione Canguro. Una metafora per i sempre più numerosi giovani brasiliani che rimangono a vivere nel “caldo marsupio dei genitori” non riuscendo a far fronte alle folli pretese del mercato immobiliare verde-oro. Il problema quindi esiste dappertutto. Ma quando si parla di questo argomento la stampa italiana si trincera dietro al paragone con i Paesi del nord Europa, dove le percentuali di giovani che vivono con i genitori sono sicuramente più basse (ad esempio la Danimarca al 19,7%). Dimenticandosi però che a quelle latitudini esiste un poderoso Stato sociale che foraggia generosamente chi va a vivere da solo,


Foto Scott Webb

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Foto Charlotte Coneybeer

sostanzialmente pagando l’affitto e concedendo numerosi benefit. Politica economica corretta? Se ne può discutere. Ma almeno vicino al Circolo Polare hanno provato ad affrontare il problema in qualche modo. Appare quantomeno bizzarro, invece, picchiare duro in patria puntando il dito verso nord, senza minimamente considerare la colpevole latitanza del welfare italiano. Passiamo poi ai “choosy” della Fornero, secondo cui i giovani italiani sarebbero troppo schizzinosi nel cercare lavoro, non trovando l’impiego dei sogni e finendo per ingrossare le fila dei NEET. Premesso che l’ex-ministro del Lavoro è stata smentita dai fatti, come ad esempio dimostrano le decine candidature di giovani laureati arrivate al Comune di Palermo per un posto da lustrascarpe. Comunque le statistiche in Italia rimangono allarmanti. Ma là fuori come va? Negli USA il tasso di NEET è al 14,4% in Francia al 17,2%, in Irlanda al 16,2%, in Brasile al 22,5% e in Israele al 15,2%. Dati non troppo distanti da quelli italiani, che vanno sempre depurati dall’altissima incidenza del lavoro nero, che invece all’estero non c’è. E allora come la mettiamo: un villaggio globale di lavativi? Ovviamente no. Esistono problemi gravi comuni a tutti giovani del mondo. Uno su tutti, la scomparsa di interi settori 14

professionali a causa dello sviluppo tecnologico e della concorrenza asiatica a basso costo. Pur cercando con forsennata disperazione, certi lavori non esistono più. La tecnologia li ha resi obsoleti. Oppure sono diventati impossibili da svolgere in quello spicchio di mondo che non fa dumping sociale. Cioè da noi. E non si tratta solo della manodopera non qualificata. Ad esempio, un ragazzo europeo, americano o australiano che cinque anni fa ha scelto di studiare informatica, settore che all’epoca pareva garanzia di successo professionale, oggi, da programmatore laureato, deve fare i conti con qualche milione di concorrenti pachistani, che per gli stessi identici servizi chiedono un decimo della retribuzione, lavorando comodamente da Peshawar. Tanto bit e codici non hanno frontiere. A condizioni del genere la concorrenza muore al primo preventivo. Ed ecco che si finisce ad ingrossare le fila dei disoccupati. Pur vantando la lode alla laurea e dieci stage sul curriculum. E esistono milioni di esempi del genere per altrettanti settori economici. Infine, analizziamo gli “sfigati” di Martone, ovvero quei ragazzi che si laureano a 28 anni e che quindi sarebbero tagliati fuori dal mercato del lavoro ancora prima di affacciarvisi. È vero, se fino a quell’età si è solo gozzovigliato la

laurea non solo è inutile ma diventa dannosa. Tuttavia, capovolgendo il ragionamento e considerando i giovani che a quell’età arrivano ad un dottorato, ovvero il massimo titolo di studio superiore, scopriremo che non se la passano poi così bene. In media, la differenza salariale tra un dottorato o un laureto è quasi nulla in Italia e assai scarsa nel resto del mondo. E molto spesso in tutti questi Paesi i giovani devono affrontare carriere traballanti, impieghi saltuari o un vero e proprio mismatch lavorativo, avendo competenze troppo elevate per i lavori richiesti dal mercato. E quindi rimanendone fuori. Tanto che su internet proliferano articoli in diverse lingue dai titoli drammaticamente cristallini: “Entrando nella generazione dei dottorati disoccupati”, “Perché il dottorato è stata una delle peggiori scelte della mia vita” o “Quale vita dopo il dottorato?”. Risultato: anche chi ha corso tanto, si è sacrificato molto ed ha raggiunto il massimo possibile a quell’età si trova con un pugno di mosche in mano. E si potrebbe andare avanti all’infinito con esempi di ogni genere, dal numero di figli fatti, a quello delle automobili acquistate, da quanti mutui vengono concessi dalle banche, fino ai matrimoni celebrati. Tutti dati che accomunano i giovani di mezzo mondo. Costretti


16,2 % Irlanda

Tasso di NEET 14,4 % Stati Uniti

17,2 % Francia 15,2 Israele

22,5 Brasile

a rimandare o addirittura ad abdicare a progetti di lungo periodo. E questo perché si assiste ad un cambiamento strutturale del mercato e ad una riallocazione mondiale della ricchezza. Ed è per questo che giovani di tutto il mondo si ingegnano per trovare soluzioni alternative.

Uber, Airbnb, Spotify, la sharing economy altro non sono che tentativi di difendere un tenore di vita che altrimenti non si potrebbe sostenere. Ci si limita ad usare perché non hanno i mezzi per possedere. Ovunque la Generazione Y é costretta ad affrontare mercati del lavoro sempre più ostili, che richiedono titoli di studio sempre più alti, un sempre maggiore numero di lingue conosciute ad un’età sempre più bassa, per poi offrire stipendi sempre più miserabili, spesso condannando a cerchi danteschi di stage infiniti senza alcuna prospettiva. Bruxelles, New York, São Paulo, Sydney, Roma, in tutto il mondo si arriva a trent’anni con pochi soldi in tasca e carriere zoppicanti. Eccezion fatta per settori specifici come i pubblici dipendenti o l’alta finanza (ovviamente

fino al prossimo crack bancario e relativi licenziamenti di massa). Quindi, quando i media o i politici nostrani usano la mannaia parlando dei giovani esibiscono solo il loro elevato grado di provincialità e scarsa capacità di analisi. La Generazione Y affronta ovunque le stesse problematiche, e reagisce ovunque allo stesso modo. Vite parallele, ma destini incrociati. Certo, esistono peculiarità tutte italiane e i pelandroni vanno additati come pessimi esempi. Ma bisogna avere ben chiaro che in tutto il mondo occidentale per la prima volta nella storia i figli avranno meno opportunità rispetto ai loro genitori. Pur essendo la generazione più istruita di sempre. Cercare di comprendere le radici del problema piuttosto che starnazzare scempiaggini è probabilmente il modo più intelligente per tentare di risolverlo. Ma soprattutto, potrebbe evitare il montare del sentimento che un’intera generazione, la nostra, prova sempre di più per l’attuale classe politica: un profondo e rabbioso disprezzo.

Dedicato a Michele, morto suicida ad Udine. Il significato del tuo gesto non sarà dimenticato. 15


cover story

Simone Rubino

Per i giovani tunisini è sempre primavera

A SEI ANNI DALLA CACCIATA DI BEN ALI, IN TUNISIA BRUCIA ANCORA LO SCONTENTO.

Sono passati sei anni ma le rivoluzioni arabe, che in Occidente sono conosciute come “primavere” (termine che in loco viene rigettato perché culturalmente non proprio), hanno lasciato, comunque sia, il segno, nonostante il processo di trasformazione della sponda africana del Mediterraneo non possa essere considerato concluso, soprattutto alla luce delle complessità dei Paesi dove sono avvenute le defenestrazioni dei rais. L’ha evidenziato anche l’Onu. Il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, nel suo ultimo “Rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo”, ha dedicato pagine importanti sulle condizioni dei giovani in Nord Africa e Medio Oriente, ipotizzando una nuova ondata di sollevazioni popolari, come quelle del 2011: il 60% della popolazione dell’area ha meno di 30 anni, “è istruita, attiva e connessa”, perciò, “più consapevole di quanto le sue capacità e i suoi diritti collidano con una realtà che li marginalizza”. Si contraddistingue ancora la Tunisia, che fu il centro dal quale si diradò la rivolta, dopo la clamorosa protesta di Mohamed Bouazizi, e che oggi rappresenta la base di un esperimento epocale. Non è solo una questione di flussi migratori ma anche di investimenti e sicurezze: l’Unione Europea ha elargito un prestito di 500 milioni di euro, mentre il Fondo Monetario Inter16

nazionale ha promesso 2,8 miliardi di dollari. Il Paese nordafricano è, dal 2008, nella zona di libero scambio con l’Ue. Le diplomazie europee vorrebbero “la Tunisia come modello”. Anche se la contraddizioni nel Paese non mancano secondo Gabriele Proglio, assistant professor all’Université El Manar di Tunisi: «Nonostante i Nobel per la Pace e i tentativi di normalizzazione, che passano anche dalle retoriche dello sviluppo e dalle eloquenze contro l’islamismo, la realtà è tutt’altro che pacificata. La situazione è incandescente, ancora di più che nel 2011». I numeri sul tavolo, per i giovani tunisini, che vantano in media un livello di istruzione elevato, sono drammatici: la disoccupazione è oltre il 15% e quella giovanile è al 30% (dati infomercatiesteri.it). Anche ciò spinge molti a prendere la strada del mar Mediterraneo, nel tentativo di

raggiungere l’Europa per cercare un riscatto non ancora trovato. Debora Del Pistoia, responsabile per la Tunisia dell’Ong Cospe, descrive così la gioventù cresciuta con la rivoluzione: «È una generazione nuova, che rivendica un’identità legata al conflitto generazionale. Vuole rompere con il passato, si ribella ai padri, ritenuti colpevoli di essersi piegati al regime di Ben Ali, di aver vissuto nell’attendismo, senza ribellarsi. Il prezzo di ciò viene pagato ancora oggi, perché non è cambiata la situazione dei giovani: sei anni dopo tutto l’apparato poliziesco e l’ossatura dell’ancien régime è ancora al potere». Impera quindi il dilemma che arrovella tanti ragazzi: “meglio scappare via o restare in Tunisia?” In casa o in trasferta, nel frattempo, si prepara il secondo tempo della rivoluzione.

Foto Manfredi Pantanella


cover story

NICOLÒ SCARANO

Generazione Trump THAT’S DEMOCRACY BABY

“ Trump? Ho supportato

Trump, certo che sì. Perché Donald Trump vuole lasciarci liberi. Io non sono come quelli che vogliono far controllare tutto al governo

Chiosa orgoglioso Logan poco prima del 51° Super Bowl, uno dei più eccitanti della storia del football americano. Ha 25 anni, una laurea in Computer Science, e lavora nel campo della sicurezza: al pensiero di un Presidente “law and order”, ha sentito il proverbiale odore del sangue. Ma allora perché anche Will, specializzato in Sport Journalism, appassionato di scrittura, assistente in una scuola pubblica, ha preferito Trump alla Clinton? “Per la pura e semplice, minima chance, che qualcosa cambi. Hillary sarebbe stata sempre la stessa storia. E non è stato mica facile parlarne a casa”. Facile credergli: negli Stati Uniti, al di fuori di talk show, giornali, e spazi ben delimitati della realtà fisica e virtuale, la politica è fondamentalmente un argomento off-limits. Uno degli aspetti positivi del fenomeno Trump è stato proprio

quello di ridare respiro al dibattito pubblico, liberandone un’anima pop, indisciplinata, in fuga dai confini a tratti asfissianti del “politically correct”. È stato sorprendente ritrovarsi in un pub, con un gruppo di ufficiali della Marina, a discutere le ultime dalla Casa Bianca. Almeno fino a quando qualcuno non ha chiesto: “Stiamo davvero parlando di politica il venerdì sera?” Il “risveglio Trumpiano”, che poi è il risveglio della politica in globovisione, ha trovato la generazione Y statunitense, quella dei millennials, pronta solo fino ad un certo punto. E se Hillary Clinton ha accumulato il voto del 55% dei cittadini tra i 18 e i 29 anni, la loro affluenza totale è rimasta al palo del 50%, più o meno al pari del 2012. Una ricerca dell’Università di Harvard ci consegna la fotografia della polarizzazione tra i giovani Democratici, spaventati da un Paese che stentano a riconoscere, e i Repubblicani, che vivono un momento di eccitazione per la “Grande America” profetizzata da The Donald. Di questi ultimi, prevalentemente bianchi e di provincia, ho avvertito un palpabile entusiasmo tra la folla che a Washington, il 20 gennaio,

ha inaugurato il nuovo Commander in Chief. La generazione Y in Europa appare vittima di un sentimento crepuscolare, di una rassegnata malinconia per un’età dell’oro più vagheggiata che realmente vissuta sulla propria pelle. Di un “meglio” ideale che sarebbe dovuto arrivare, e che non verrà. Pare invece che la gioventù d’oltreoceano, o perlomeno una buona parte di questa, seppur attraversata da quella dolce apatia da età di mezzo (lo slack, in gergo), non abbia rinunciato a quello spirito di frontiera che era dei nonni e dei padri. Quello per cui, in un modo o nell’altro, nel bene e nel male, la ricerca dell’oro non finisce mai. L’avvento di Trump è, in fondo, un’altra manifestazione di quel qualcosa che non gli puoi proprio togliere: libertà. Qualunque significato ciascuno voglia dargli. Libertà di fare il proprio lavoro, libertà “to make money” (ripetuto come un mantra, di continuo), libertà di opporsi allo status quo, libertà di dire (ma non fare) un po’ quel che si vuole. E libertà di ergere muri, infine, anche a scapito di libertà altrui. That’s democracy, baby! 17


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DA CLICK ACTIVISM A CITTADINANZA REALE

giovani

e partecipazione politica Apatici e individualisti fino al parossismo. Anzi fino al narcisismo. E in politica disinteressati, dediti all’astensionismo scriteriato. Non nascondiamoci, almeno una volta ci è capitato di sentir descritti i giovani in questo modo. Eppure non sembrano mancare i valori alla generazione Y, anche se diversi da quelli dei loro genitori. Un recente studio Ancc-Coop ci dice che la cura dell’ambiente, ad esempio, è al primo posto nella scala valoriale dei millennials italiani. Ma guardano di buon occhio anche le idee di sostenibilità, condivisione, beni comuni. E partecipano, sempre in modo differente da chi li ha preceduti. Resta la sfiducia nelle forme tradizionali di rappresentanza, soprattutto partitica, anche per via di una progressiva de-ideologizzazione. Emily Ekins del Cato Institute ha recuperato un termine da guerra fredda per descriverli, quello di non allineati. Che calza loro a pennello. Sfiducia nei partiti tradizionali non vuol dire necessariamente disinteresse.

Modi di partecipazione non convenzionali, specie attorno a problemi del territorio, restano tra i più gettonati dagli under 35 secondo un’indagine Demos, mentre l’attivismo politico si canalizza soprattutto in manifestazioni di protesta, volontariato e associazionismo. D’altronde sono le lunghe, spesso estenuanti, sessioni di dibattito in tempo reale sui social a dimostrare che, in politica, la generazione Y vuole dire la sua. In un sondaggio Eurobarometro il 42% dei giovani europei ha affermato di esprimere le proprie idee politiche principalmente sui social. Lo spazio virtuale motiva i millennials perché in fondo li rappresenta, li fa sentire a proprio agio. Con il rischio però che click activism e cittadinanza digitale portino a forme di partecipazione poco incisive, se non sterili. Perché, al netto della crisi del sistema partitico, l’impatto maggiore sul processo decisionale lo si dà ancora attraverso il voto. L’astensionismo ha un prezzo, quello di restare intrappolati in un loop: i giovani snobbano le elezioni e chi fa politica evita di puntare sul cavallo perdente. Senza politiche mirate, i giovani si allontano sempre di più e il loop si rialimenta. A complicare il quadro, altri due dati strutturali. Primo, se

alle ultime presidenziali i millennials Usa erano già tanti quanti i loro genitori, in Italia la piramide demografica rovesciata e la maggiore aspettativa di vita terranno gli attuali under 35 ancora a lungo al palo. Secondo, ed è anche il motivo per cui restano un enigma per la classe politica, la generazione Y resta fortemente disomogenea al suo interno. Questo rende difficile per gli altri inquadrarla, ma anche per i loro membri coalizzarsi. Ci si può emancipare da questa spirale di marginalità politica cercando appigli comuni per ricomporre le diversità nello stesso blocco generazionale. Precarizzazione, ma anche essere nati con la tecnologia ed essere cresciuti con la crisi, possono essere punti di partenza affinché ciò che li unisce, compensi anche la loro subalternità numerica. Soprattutto non deve essere la poca fiducia nel futuro a far cadere i giovani nell’immobilismo. L’alternativa è una rabbia perenne che non si sfoga mai, almeno non in forme politiche attive. Il loop si può spezzare, ma solo reagendo.

GERARDO FORTUNA 19


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MATTEO DI PAOLO

Cronaca di un disastro annunciato che può essere fermato

A riveder le stelle sotto un altro cielo Cristoforo Colombo scoprì l’America mentre cercava un passaggio a Ovest per le Indie e seguì la rotta guardando le stelle.

Oggi le stelle non si guardano più, si usa il GPS. Ma cosa succederebbe se un hacker russo spegnesse il GPS? Come navigherebbero le portaerei della US Navy? Il problema ad Annapolis, sede dell’Accademia della Marina statunitense, se lo sono posto. E la soluzione, in fondo, è parsa semplice: tornare ad insegnare ai marinai la navigazione astronomica. Peccato sia passato così tanto tempo che non ci siano più uomini in grado di farlo. Alessandro Rinaldi, 46 anni, siciliano, Capitano di Fregata della Marina Militare Italiana, è lui ad insegnare, oggi, ai cadetti di Annapolis a navigare, armati di sestante, guardando le stelle. Rinaldi viene dall’Accademia di Livorno, dove si formano i marinai italiani. Lì non si è mai smesso di insegnare a navigare alla maniera di Colombo, un aspetto che sembra il simbolo della tra20

dizione di conservatorismo del mondo accademico nazionale. I ricercatori, gli accademici, i manager, gli scienziati italiani, formatisi nell’università italiana, sono apprezzati in tutto il mondo. E non è il campanilismo o l’inutile eulogia da dedurre dal caso singolo, come quello del Capitano Rinaldi, chiamato ad insegnare un’arte che in America era perduta da vent’anni. Il refrain dei cervelli in fuga, a guardarlo bene, è un Giano bifronte: da un lato mostra la mancanza di opportunità che il paese garantisce, ben oltre quel livello fisiologico di mobilità in uscita e in entrata che dovrebbe essere l’obiettivo del sistema; dall’altra mostra l’appetibilità dei nostri fisici, ingegneri, filologi. Grandi talenti che non sarebbero mai emersi se non fossero stati coltivati in questa società, in questo sistema. Succede allora che anche nell’era dell’elettronica, puntare sulla propria tradizione ripaghi, tanto da costringere l’US Navy a ripristinare una materia d’insegnamento, mandata in letargo due decenni fa. L’università italiana è in grado di garantire una preparazione d’eccellenza al livello delle best practice in-

ternazionali. La mancanza di fondi, la mancanza di infrastruttura, i vincoli burocratici, di cui spesso ci si lamenta, possono essere abbattuti, anche in un tempo breve. Ma il deterioramento del capitale umano ha un ciclo di ricostituzione che, invece, non è breve. La mancanza di insegnanti all’interno della Marina americana ce lo mostra. Affrontando le difficoltà di inserimento dei millennials nel mondo del lavoro, la necessità di una formazione continua, il ruolo fondamentale della specializzazione nel mondo che incontrerà robot e intelligenza artificiale, dobbiamo guardarci in faccia: diamo per scontato che la china intrapresa sia inarrestabile, che siano minate le fondamenta della nostra formula vincente. Al contrario, invece, il vantaggio competitivo che un paese come l’Italia detiene è immutato, enorme. Tornare a dispiegarlo ed utilizzarlo, senza ingabbiarlo, senza ucciderlo, senza vanificarlo, è cosa impegnativa. Negarlo, invece, è un crimine.


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1.380.030

9.000.000

numero di lavoratori pagati con i voucher nel 2015

numero di voucher venduti nel gennaio 2017

100%

2008

2015

incremento dei lavoratori pagati con i voucher

MAURIZIO FRANCO

Voucher& Welfare

GENERAZIONE SOTTOCOSTO?

Valgono 10 euro e servono a remunerare le prestazioni di lavoro accessorio. I voucher, la “via” italiana per l’emersione del lavoro nero, incarnano un elemento peculiare della nostra generazione.

Tra il 2008 e il 2015 la quota di giovani retribuiti con il buono lavoro sul totale dei lavoratori occasionali è aumentata vertiginosamente, passando dal 12,9% al 43,1%. Solo nel 2015 infatti 1.380.030 di lavoratori – con un’età media di 36 anni – è stato pagato a voucher. A gennaio 2017 ne sono stati venduti 9 milioni. L’attuale normativa, secondo cui “è possibile utilizzare i buoni in tutti i settori di attività e per tutte le categorie di prestatori” è conseguenza della loro progressiva liberalizzazione, messa in campo con la riforma Fornero del 2012 e con il Jobs Act. “Il problema dei voucher non è l’uso, ma l’abuso” ha dichiarato invece il presidente dell’Inps Tito Boeri in

audizione in Commissione Lavoro alla Camera. Secondo Riccardo Magi e Michele Capano, esponenti di spicco dei Radicali italiani, i voucher sono invece “una misura utile e necessaria a far entrare in una cornice di legalità categorie di lavoratori che altrimenti sarebbero state consegnate al sommerso”. Tuttavia i voucher non devono diventare un escamotage per sostituire i regolari rapporti di lavoro e ridurre i costi per le imprese, con l’abbattimento dei diritti e la compressione dei salari. Un uso distorto, infatti, alimenterebbe il lavoro sottocosto senza fornire strumenti a una generazione che si arrabatta tra collaborazioni e prestazioni occasionali in ossequio ad una maggiore flessibilità del lavoro. Anche se le iniziative sono spesso dettate da richieste da parte dell’Europa, negli altri stati membri i modelli utilizzati non sono complementari a quello italiano. Ma quali sono le differenze in Europa dove questo sistema sembra funzionare? In Francia, ad esempio, il lavoro accessorio è pagato tramite i Cesu – chèque emploi service universal – per prestazioni di lavoro a domicilio di brevissima durata. Il lavoratore “occasionale”

è concepito come un lavoratore subordinato - cosa che non succede con il buono lavoro italiano - e gli vengono riconosciuti gli stessi diritti – indennità, malattie, ferie – e il salario minimo. Il modello belga, invece, si avvale dei Tires service, utilizzabili unicamente per i servizi di stiratura e pulizia. Il committente e il lavoratore non entrano in contatto diretto ma la stipula del rapporto di lavoro avviene tramite un’agenzia convenzionata. Simile al nostro lavoro in somministrazione, il lavoratore è un “dipendente” dell’agenzia, nonostante ci siano dei ticket che certificano la prestazione effettuata. Il minijob tedesco invece è un vero e proprio contratto di lavoro minimo – per durata o stipendio – con cui regolamentare gli impieghi secondari. Anche in questo caso persiste un salario minimo. Il minijob è considerato un lavoro temporaneo ed è strettamente legato a corsi di formazione (Ausbildung). I voucher italiani rappresentano, quindi, un unicum del Vecchio Continente che potrebbe essere ripensato proprio attingendo dalle esperienze europee.

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Foto Roya-Ann-Miller

In collaborazione con

L’amministrazione liquida di TRUMP

Dal 20 gennaio 2017 è ufficialmente entrata in carica l’Amministrazione guidata dal 45° Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump, e promette di essere profondamente diversa rispetto alla precedente guidata per otto anni da Barack Obama. Il primo aspetto su cui la distanza tra i due Presidenti è forte è il “tasso di liquidità”: Obama, e il suo governo, è stato sempre guidato da una solida “ideologia” di apertura a ogni costo, cercando a volte di imporre la sua visione del mondo sulla realtà effettiva. Trump opera in modo diverso, con un alto tasso di pragmatismo, il che spiega alcune forti posizioni in materia di politica estera o commerciale che contrastano l’idea mainstream. Leggendo il memorandum presidenziale del 23 gennaio 2017, il Presidente Trump ha dato seguito alla promessa, espressa nel corso della campagna elettorale, di “ritirare” la partecipazione degli Stati Uniti dal TPP (Trans-Pacific Partnership), accordo commerciale che coinvolge 12 Paesi dell’Area del Pacifico (tra cui il Giappone) siglato da Obama per contrastare l’espansionismo economico cinese in quell’area, annullando di fatto uno dei cardini della politica estera e commerciale di Obama. Inoltre, anche la nomina di Wilbur Ross come Segretario del Commercio - che ha recentemente dichiarato al Financial Times come la Cina sia il Paese più protezionista al mondo, in risposta alle dichiarazioni del Presidente cinese Xi Jinping nel corso del World Economic Forum chiarifica ulteriormente la nuova frontiera americana in questa materia: volontà di rinegoziare gli accordi esistenti a nuove condizioni più favorevoli agli Stati Uniti - gravati da una bilancia commerciale in deficit - senza preclusioni nei confronti di nessuno. Finisce l’epoca dell’imposizione dell’idea americana di libertà, inizia l’era in cui al centro della politica americana vi sono gli “interessi nazionali”, da perseguire con negoziati, accordi e strategie 22

anche profondamente diverse rispetto al passato, come dimostrano le intenzioni di apertura a nuove relazioni con la Russia e l’idea di sviluppare una politica commerciale basata sui Trattati bilaterali e non più su mega accordi regionali: un cambio di paradigma che ha visto i suoi primi frutti nell’incontro con il Primo Ministro britannico Theresa May, ricostruendo quella “special relationship” che da sempre ha permesso di parlare di Anglosfera. Si lega a questo progetto politico l’interpretazione del memorandum presidenziale del 24 gennaio scorso, in cui si annuncia l’intenzione di stimolare la produzione industriale “made in USA” con importanti azioni di deregulation e taglio fiscale, chiedendo in cambio alle principali imprese manifatturiere di investire e creare posti di lavoro. Il meeting avvenuto il 23 gennaio con i più importanti vertici della principali imprese industriali americane e quello del giorno successivo con i principali player dell’industria automobilistica confermano l’idea pilastro di questa Amministrazione in materia industriale: produrre negli Stati Uniti, assumere americani. Un concetto considerato dal mainstream come protezionista, che però è stato al centro della narrazione di Trump lungo tutto l’arco della campagna elettorale e che è stato ripreso nel suo discorso di insediamento. Come insegnano i manuali di teoria sulla “guerra” geo-economica, per rafforzare il suo impegno in merito Trump ha anche minacciato di introdurre dazi mirati su alcuni settori industriali rispetto all’importazione di merci, in modo da disincentivare il processo di delocalizzazione: in sintesi “America first”, l’idea centrale di un Presidente liquido, imprevedibile ma frutto dei tempi odierni.


Maria Genovesi

The H factor

L’UOMO AL CENTRO DI TUTTO

Si sente un gran parlare di start-up, digitalizzazione, innovazione. La verità è che se non ci fossero delle “Beautiful Mind” dietro, nulla di tutto questo sarebbe possibile. Il fattore umano è fondamentale, quando si parla d’innovazione, così come lo è quello generazionale. A fronte di tanti ostacoli, i giovani che sanno rischiare, oggi si trovano a vivere un’epoca d’oro senza esserne del tutto coscienti. C’è un universo di nuovi mecenati là fuori, pronti a sostenere e a finanziare idee valide, consapevoli che è nella capacità di inventare, e innovare, che risiede il futuro. Sull’onda di questa consapevolezza, già 12 anni fa, Riccardo Donadon ha fondato H-FARM: H, come human e Farm perché tutto è iniziato da una enorme fattoria immersa nelle campagne trevigiane. Architetti e designer futuristici ne hanno preso in carico la ristrutturazione. Pur mantenendo la sua natura originaria, sono stati in grado di trasformare stalle, serre e cascine che la componevano, in un polo d’innovazione tecnologica nel quale, ad oggi, sono state accelerate più di 85 giovani startup per un giro di oltre 24 milioni di euro. Biciclette e mini auto elettriche sono messe a disposizione degli ospiti e delle 550 persone che vi lavorano per muoversi liberamente dentro questo immenso parco verde, circondato da campi di grano e ruscelli. Questa “fattoria” ha innescato un processo virtuoso che ha dato impulso, in breve tempo, a realtà come H-ART, azienda unica nel suo genere nel panorama italiano, che idea e realizza soluzioni innovative per supportare i brand nei processi di trasformazione digitale. I progetti proposti migliorano le esperienze degli utenti attraverso l’inclusione di tecnologie digitali all’interno di servizi e prodotti.

H-FARM è andata oltre, dando vita a progetti come H-ACK, maratone di sviluppo della durata di 24 ore alle quale partecipano giovani nerd dell’informatica tra cui sviluppatori, grafici e programmatori, con l’obiettivo/il compito di avvicinare le imprese al mondo del digitale. È assegnato loro un tema da pare delle aziende e devono risolverlo con proposte tangibili (i team di lavoro arrivano anche a sviluppare app, software, interfacce). Altro aspetto importante è quello della formazione: attraverso H-FARM Education è stato dato vita a un progetto progetto unico a livello nazionale ed internazionale, finalizzato a creare un percorso completo di formazione K-12, che va dai primi anni di età scolare fino al diploma superiore, al quale si aggiunge la formazione post diploma, dalla laurea ai master, che permetterà ai giovani di oggi e alle generazioni future di affrontare ed interpretare in maniera consapevole gli enormi cambiamenti che il digitale sta apportando nei sistemi e nei processi a livello globale. Con la sua espansione H-FARM ha rivilitalizzato l’economia di un luogo che è stato nominato H-CAMPUS: un progetto in costante crescita che ha come obiettivo la creazione di un polo dedicato all’innovazione in cui imprese, startup e studenti si incontrano accompagnandosi vicendevolmente in un percorso che le vedrà sempre più impegnati a costruire e comunicare tramite strumenti e modelli digitali. Il fattore umano è comune a tutte queste realtà perché l’innovazione ha lo scopo primario di migliorare la vita delle persone e sono le persone stesse, in team, che la creano. Dall’aiutare chi vuole guadagnare nel tempo libero (PonyU), alla costruzione di soluzioni digitali per persone disabili (Henable.me), alla piattaforma multiservizio a supporto dei piccoli produttori di cibo artigianale italiano (Eattiamo) ad un Social Sport Network che aiuta ad organizzare e gestire partite (Fubles), gli esempi concreti sono tanti perché il futuro è davvero limitless.

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Foto Teddy Kelley

Davide Bartoccini

Il tramonto dei LEADER La colonia del futuro per la nostra generazione è uno scoglio virtuoso nella modernità liquida

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Startuppari su Forbes, fashion blogger ad Harvard, youtubers come testimonial, e trendsetter vari nei talk show: sono questi i giovani di successo che ci propinano e ripropinano come ‘leader’ della generazione Millennial; ma questi soggetti dal successo più o meno sudato, questi esempi più o meno choosy, influiscono davvero sui giovani della generazione Y? Sono davvero fonte d’ispirazione? Oppure sono solo un palliativo per dimostrare che dopotutto qualcosa c’è oltre a NEET e precari, uno specchietto per le allodole, un antidoto social all’evidente immobilismo, 2000 battute di autoreferenzialità in un’intervista ampollosa e piena di inglesismi per farci compagnia seduti sul water closet prima di scaricare e uscire per andare a combattere con la realtà reale. Viviamo in un’epoca particolare noi millennial, un’epoca di congiunzione tra due mondi: quello ancora diviso da una cortina di ferro invalicabile, e quello nel quale si può comperare l’autobiografia di un dittatore e riceverla comodamente in 24h nella camera del proprio college dall’altra parte del pianeta; quella nel quale usavamo il telefono con il filo, e quella in cui non riusciamo più a vivere senza Wi-Fi per accedere freneticamente a tutti i nostri social: per condividere continuamente gusti, pensieri e feedback - Proprio come Mark Zuckerberg ci ha insegnato, forse a lungo andare costretto. È attraverso questi ultimi che possiamo osservare un fenomeno preoccupante: la maggior parte delle volte i nostri punti di riferimento, i nostri veri idoli, non sono minimamente dei nostri coetanei blasonati, ma sono gli stessi dei nostri genitori: quei cinquantenni agli sgoccioli che appartengono alla generazione X e ci hanno allevato nella loro cinica disillusione. I nostri leader sono troppo spesso gli stessi della generazione che riteniamo colpevole di averci “rubato il futuro”: figlia di quel Baby Boom che grosso modo ha delineato la forma del nostro presente, che ha smesso di credere presto in un sogno tradito, che nutriva poca fiducia nel futuro e rifiutava i valori del passato. Nonostante un nichilismo già ampiamente diffuso, la generazione X continuava a trovare forza ed ispirazione dei propri contemporanei. Lottava e manifestava per qualcosa che forse sperava ancora di ottenere e consegnarci, ma che ancora oggi, dato lo stato delle cose evidentemente non esiste. La post-modernità, come ha teorizzato Bauman, si è pian piano liquefatta per mancanza di punti di riferimento solidi ed ovunque si è sviluppata più che altro la tendenza del voler solo ed esclusivamente “apparire”. Non a caso i giovani successi che ci vengono proposti oggi sono perfetti per posare in una vetrina o dentro una telecamera che scatta un

selfie, ma non riescono a colpirci davvero; e nello scontro Vittorio Sgarbi vs. coetaneo status symbol di un programma di MTV, ci troviamo più concordi con il primo che con il secondo. I nostri giovani ‘leader’ troppo spesso sono ridotti ad essere celebrità di passaggio che non ci riguardano né sarebbero capaci di guidarci. Sono il frutto liofilizzato della profezia di Andy Wharol - i famosi quindici minuti di notorietà . E seppure la generazione alla quale appartengono è stata proiettata per gentile concessione della tecnologia e della stabilità in un mondo pieno di opportunità, pioniera del progresso, della globalizzazione, e scevra di gran parte dei limiti spaziali e sociali, essa si è ridotta quasi ad essere una dispersa: “Lost in worldwideweb”. Priva di vecchie regole e protesa nel abbracciare ogni cultura, ogni concetto, invece di trovare le sue consapevolezze si è spezzata tra vecchio e nuovo e non riesce a trovare più nulla da emulare. I giovani protagonisti della politica, dell’arte, della letteratura sono bollati come raccomandati e vuote trovate pubblicitarie. Patetici tentativi di svecchiamento per mezzo di burattini senza anima. E il resto della loro generazione, disillusa riguardo il proprio futuro e tradita in qualche modo dal passato, si barcamena in un’esistenza all’insegna dei vecchi ideali e delle nuove pulsioni, trovandosi ancora una volta a descriverei come una generazione perduta. Proprio come la precedente. Sarà per questo forse che ci troviamo cosi a nostro agio in abiti vintage anni ’80, ci scopriamo nelle strofe di Guccini, e condividiamo ancora i pensieri rivoluzionari di Gramsci e di Evola. Noi giovani millennial immobili siamo più simili ai nostri genitori di quanto non pensiamo: persi, delusi e nostalgici; e possiamo tentare solo una mossa per uscire da questa fase di stallo: cercare dentro di noi e attraverso la condivisione qualcosa di nuovo e veramente virtuoso. Basta MTV. Basta sognare “Saranno famosi”. I tempi sono maturi per creare qualcosa di solido al quale aggrapparsi: uno scoglio nel mare post-moderno sul quale fondare il nostro futuro senza affogare nella ricerca del passato.

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Ilaria Danesi

Fantasmi

I nuovi italiani e quella legge che non può più aspettare

Lo spiega con una metafora Kwanza, promotrice del gruppo Italiani Senza Cittadinanza, cosa significhi per un giovane figlio d’immigrati nascere e crescere in Italia senza esserne cittadino. Sono quasi un milione i minori di “seconda generazione”, italiani di fatto ma non di diritto. Fantasmi, come si sono definiti durante la manifestazione dello scorso ottobre per sensibilizzare sulla propria condizione e sull’urgenza di una riforma che attendono da troppo tempo. La legge in vigore, datata 1992 e tra le più restrittive d’Europa, si basa sullo ius sanguinis, ovvero la trasmissione di cittadinanza

dal genitore al figlio, costringendo la maggioranza di loro ad attendere i 18 anni per richiedere quella italiana. Il nuovo progetto di legge, che prevede uno ius soli “moderato”, si è arenato al Senato dopo l’approvazione alla Camera dell’ottobre 2015 e tante promesse non mantenute. “Siamo delusi. L’onorevole Finocchiaro, Presidente della Commissione Affari Istituzionali, ci assicurò la calendarizzazione della riforma dopo il referendum costituzionale, ma da quel momento è venuto meno il dialogo con le parti politiche”. Il referendum è una ferita aperta: “Votano persone disinformate o italiani all’estero che ignorano la lingua, per noi era in gioco il futuro ma non abbiamo potuto votare”. Solo una delle tante privazioni. C’è poi l’assurdità, dopo anni di attesa, del dover richiedere cittadinanza tra i 18 e i 19 anni d’età: “Porti tutta la tua vita rinchiusa in un faldone e se c’è stato qualche errore o non hai reddito sufficiente i tempi diventano biblici”. Nel frattempo rimani scoperto da tutti i vantaggi, i diritti, che essere cittadino italiano ed europeo ti assicura, vincolato alle relazioni diplomatiche del Paese di origine. Fino al timore più grande: diventare tu stes-

cosa dice la riforma

per saperne di più

Concentrati sull’emergenza del fenomeno migratorio in atto e le sue miserie, e arroccati in difesa delle proprie posizioni a riguardo, media e politica hanno lasciato indietro questi ragazzi, figli dell’integrazione eppure vittime di mancanze strutturali e diffidenze quotidiane.

“Sai chi è tua madre, ma non puoi portare il suo cognome”

cittadinanza per nascita ai nati in Italia se il genitore ha un permesso di soggiorno UE di lunga durata (richiede 5 anni di residenza e requisiti linguistici, di reddito e alloggio) cittadinanza per frequenza scolastica ai nati o arrivati entro i 12 anni di età, se hanno frequentato regolarmente per 5 anni uno o più cicli di studi, oppure se hanno concluso positivamente un corso di formazione primaria. cittadinanza per naturalizzazione ai minori arrivati in Italia tra i 12 e i 18 anni, se risiedono legalmente da 6 anni oppure hanno frequentato regolarmente fino a conclusione un ciclo di studi in Italia.

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so un irregolare se i tuoi genitori perdono il permesso di soggiorno. Ma non è solo la burocrazia, né il mancato riconoscimento dei propri diritti. La questione della cittadinanza affonda le radici nella completezza dell’individuo, nella costruzione della sua stessa identità. Per Kwanza, italo-brasiliana, questa duplice origine è stata un valore, ma talvolta è difficile per chi viene da Paesi culturalmente lontani: “puoi ricevere in eredità dalla famiglia un’impronta tradizionale forte, così come puoi visitare il tuo Paese d’origine e sentirti estraneo”. Voglia di rivalsa e senso di appartenenza, disincanto e rifiuto delle etichette: le emozioni di chi attende cittadinanza sono più che mai personali. In comune ci sono delusione e senso d’incertezza, perché per molti di loro, ragazzi nell’età della formazione dei valori, è difficile accettare la distanza tra status giuridico e identità personale sancita dalla legge. Per questo chiedono una riflessione. Sono i nuovi italiani, vogliono essere riconosciuti dalla propria madre patria. E portarne il cognome.

legge n°91 del 1992 Ddl 2092 “ius Soli” #italianisenzacittadinanza www.litaliasonoanchio.it

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Claudia Cavaliere

Cyber generation Il male e l’antidoto

“Ma magari ti stuprano” “Sei brutta e grassa” “Ti faccio arrivare a casa in una bara” Sono i Millennials, usano Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat, e con un clic possono rovinare la vita di un coetaneo, oppure capire che il momento della responsabilità di fronte alla violenza online è arrivato. È l’eterno conflitto tra il bene e il male, la dualità che è nella natura umana, resa visibile dai social ed estremizzata dalla protezione dell’anonimato. Protagonista: una generazione che ha in sé la malattia e la cura. Le brutture della società e il coraggio di mettersi in prima linea quando si crede in qualcosa. Un’indagine dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo dimostra che la maggior parte dei giovani tra i 20 e i 34 anni è presente online: il 90,3 per cento è registrato su Facebook, il 56,6 segue Instagram, il 39,9 commenta Twitter, il 27,4 per cento degli under 22 è su Snapchat. Le principali attività svolte sono: lettura dei post degli amici, ricerca delle ultime news e conversazioni private su Messenger. Il commento dei post tocca il 49,1 per cento delle attività preferite dagli utenti e la violenza espressa in molte di queste note è esponenziale. La rete è una giungla incontrollata in cui ognuno è libero di “violentare” e umiliare l’altro senza filtri, senza valutare la ferita, a volte mortale, delle parole per chi le riceve. “Perché non ti uccidi? Ucciditi”. Questa violenza da giovani contro i giovani è un fatto quotidiano. È ritrovare su Fb una pagina colma di foto rubate, in cui offese e umiliazioni diventano un cappio al collo. È inviare un video privato in chat e vederlo pubblicato online, essere riconosciuti, poi derisi e spegnersi. In Italia non esiste una legge contro il cyberbullismo, solo un disegno di legge rimpallato da Camera e Senato che non introduce un nuovo reato, ma cerca di contrastare il fenomeno in chiave preventiva. L’obiettivo è cancellare le foto e i video apparsi online ed educare all’uso della rete. Gli unici interventi normativi in materia sono stati elaborati dalle Regioni Lazio e Lombardia. Ma i giovani alzano la voce: come quelli di MABASTA, per dimostrare alle bulle e ai bulli che loro sono più numerosi, e quelli di Parole O_Stili, un progetto di sensibilizzazione contro la violenza 2.0 e di confronto sullo stile con cui approcciarsi alla rete. Il male nella rete e l’antidoto fuori, le persone che si danno la spinta le une con le altre.

Rosy Russo, ideatrice di Paole O_Stili, ha risposto ad alcune domande sul valore del progetto. Quando avete capito fosse necessario un cambiamento? Il progetto è nato da persone che volevano fare qualcosa di buono. Parole O_Stili nasce dal basso: la spinta al cambiamento è venuta dagli utenti, riguarda tutti e la condivisione di un sentiero comune è la sua fortuna. Cosa celebra Il Manifesto della comunicazione non ostile? Il cuore del progetto è stata la stesura del manifesto, scritto a più di 100 mani. È doveroso lavorare sulla responsabilità, educare all’uso dei social le nuove generazioni. Qual è il pubblico di Parole O_Stili? Esiste differenza tra vita reale e virtuale? Sono bambini, giovani e adulti. Non c’è più distinzione tra reale e virtuale. Online si è più liberi di usare dei toni che altrimenti non si toccherebbero. I social permettono di nascondersi, ma si è sempre le stesse persone.

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In your chest I thought it was my end I was burying instead it was seeds.

- Bloom, by Elena C. Stein

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innovazione e territorio

In collaborazione con

MARIASTELLA RUVOLO

A colazione con Leonardo Adami, il sindaco più giovane d’Italia Cos’hanno in comune Ben Campbell, protagonista del film “21” da cui è tratta la frase del titolo, e Leonardo Adami? Non molto, a parte il numero 21. A 21 anni Leonardo (oggi 23), conquista il primato del sindaco più giovane d’Italia. Ci sentiamo per telefono alle 9 del mattino. Io sono a Roma, lui probabilmente da buon veneto sarà operativo già da qualche ora. Per rompere il ghiaccio gli chiedo quale sia stata la prima cosa che ha pensato, non appena diventato sindaco. Le prime due notti non ho dormito. Sapevo che c’era molto da lavorare: sentivo di dover dimostrare a tutti che potevo farcela e ripagarli della fiducia. Ho immediatamente avvertito la responsabilità di adempiere agli impegni assunti con la cittadinanza. Sei un sindaco giovane, anzi giovanissimo, su quali ambiti ti sei maggiormente concentrato? Mi sono concentrato prevalentemente nella gestione del personale e nei lavori pubblici. Pur essendo il nostro un piccolo comune siamo negli anni riusciti ad ottenere importanti contributi a favore dell’edilizia pubblica ed in particolare strade, cimiteri, percorso pedonale che attraversa il territorio comunale ed un centro di aggregazione giovanile. Da un punto di vista di politiche giovanili, quali sono le attività messe in atto in questa prima parte del tuo mandato? Abbiamo lavorato molto con la consulta giovanile con la quale stiamo realizzando un cortometraggio finanziato dalla Regione Veneto. Abbiamo partecipato a due call del progetto Erasmus e ne abbiamo per ora vinta e attuata una. Portiamo avanti corsi di musica e inglese per i ragazzi. Stiamo promuovendo, con le associazioni sportive, nuovi corsi per dare sempre maggiori possibilità a tutti i ragazzi del territorio per passare in modo sano e costruttivo le ore che passano fuori scuola, inoltre, a breve consegneremo alla nostra comunità un centro di aggregazione sociale recentemente costruito grazie ad un contributo statale. 30

Penso poi che un ragazzo cresciuto nell’era di Facebook e degli smartphone debba per forza aver pensato il suo comune in ottica hi-tech o sbaglio? Beh, sì. Ci sono molte cose che se venissero fatte direttamente su internet accorcerebbero i tempi e ridurrebbero molti sprechi quindi, ad esempio, sto tentando di informatizzare diverse procedure come moduli, metodi di pagamento, gestione della mensa scolastica e molto altro ancora. Inoltre, ritengo che l’alfabetizzazione informatica sia molto importante per allineare tutti su una stessa mentalità, per questo motivo, in collaborazione con le associazioni del paese, abbiamo organizzato dei corsi di informatica. Un altro risultato importante in questo ambito è stato anche di avere dotato ogni aula della nostra scuola primaria con una lavagna informatica multimediale connessa ad internet. Parlando di nuove tecnologie e innovazioni, ci sono esempi particolarmente brillanti nella tua zona di giovani particolarmente brillanti che magari hanno lanciato progetti di start-up? In un comune da 1600 abitanti?? Non proprio, anche se abbiamo un’associazione che si occupa di divulgare e raccogliere idee nell’ambito dell’applicazione di “Arduino” e di stampanti 3D. Da sindaco giovane come vorresti trasformare il tuo territorio e la tua città se potessi proiettarlo nel futuro? Da un punto di assetto del territorio siamo davvero a buon punto. Ci manca ancora qualche servizio importante a favore di fasce più deboli e sicuramente aiuterebbe avere più coesione e maggior senso di comunità. Mi piacerebbe che vi fossero più attività imprenditoriali legate al settore del turismo e che la gente ci credesse un pochino di più. Pian piano ci lavoriamo comunque.


il punto di vista delle aziende

Crowdfunding e talenti digitali: arriva la “bit generation” di Poste Italiane Sono molte le aziende che, negli ultimi anni, hanno saputo autorigenerarsi nel segno dell’innovazione e del progresso tecnologico per offrire risposte convincenti, tra gli altri, ai Millennials. Tra queste spicca Poste Italiane che, sia all’interno degli uffici fisici, che sul sito offre iniziative attente alle esigenze dei nativi digitali.

Due, in particolare, le iniziative orientate a cambiare la percezione di un’azienda che appare agli occhi di molti come affidabile ed inclusiva, ma legata ad un passato “analogico” e cartaceo. La prima è “PostepayCrowd”, la piattaforma di crowdfunding realizzata in collaborazione con Eppela e Visa, legata ad un marchio di successo come Postepay, la carta di pagamento ricaricabile più diffusa in Europa. Un’iniziativa lanciata nel 2014, che ha già premiato numerose startup italiane co-finanziando i loro progetti innovativi. Il programma di finanziamento col-

lettivo permette agli utenti di internet di contribuire al lancio di una iniziativa o di un progetto innovativo devolvendo piccole o grandi somme. Per favorire il crowdfunding, Poste ha aperto un proprio sito internet (postepaycrowd.it) che permette il match tra progetti in cerca di sostegno finanziario e giovani sponsor intenzionati a investire sulle idee, usando la propria Postepay come carta di pagamento. Dallo scorso anno sono stati presentati circa 50 progetti che nel 70% dei casi hanno raggiunto il budget previsto. Tra i progetti che hanno raggiunto la meta emergono “Cervellotik”, la piattaforma di e-learning che permette l’incontro tra studenti in difficoltà e cervelloni brillantemente laureati in grado di aiutarli. E, per la sua attenzione alla sostenibilità ambientale “Energy switch”, dispositivo che commuta la fonte di energia elettrica utilizzata da un’utenza domestica e consente di scegliere quali dispositivi alimentare col fotovoltaico. L’altra iniziativa, punta sulle idee dei giovani talenti per sviluppare soluzioni tecnologiche avanzate e amiche”. Poste ha siglato una partnership con Digital Magics, incubatore e acceleratore di imprese innovative in campo digitale, dando vita al Talent Garden di Roma e mettendo loro a disposizione uno spazio di “co-working” in uno dei palazzi postali storici nel centro della città: il TaG di Roma è stato inaugurato ad aprile dello scorso anno. Offre spazi di lavoro e servizi ai talenti del digitale. Ospita inoltre gli “hackathon”, vere e proprie gare tra giovani maghi dei bit che si sfidano ad elaborare soluzioni innovative per gli uffici postali.

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scuola e università

ANDREA PALAZZO

Dalla laurea al lavoro, cosa c’è e cosa manca Giovani, talentuosi e con un adeguato bagaglio di conoscenze apprese nei loro percorsi universitari. Eppure non del tutto pronti ad entrare nel mondo del lavoro. È il ritratto dei neolaureati italiani. Cos’è che manca. Le discrepanze più rilevanti tra domanda e offerta - come emerge dall’indagine “I neolaureati nel mondo del lavoro - Canali di reclutamento, profili, esigenze delle imprese” realizzata da Almalaurea in collaborazione con Centromarca - si riscontrano a livello di obiettivi e ambizioni professionali, conoscenza del settore di attività dell’azienda e competenze trasversali. Sul tema delle competenze trasversali, le cosiddette soft skills, l’ultimo rapporto del World Economic Forum indica le dieci qualità indispensabili da qui al 2020: problem solving; pensiero critico; creatività; gestione delle persone; lavoro in gruppo; intelligenza emotiva; capacità decisionale; orientamento al servizio; negoziazione; flessibilità. Voce all’azienda, parla FS. Per capire meglio i profili ricercati dalle aziende The New’s Room ha contattato proprio l’azienda più desiderata dai giovani laureati: il gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, vincitore del “Best Employer of Choice 2016”. «Le Università italiane formano bene i nostri giovani ma spesso il collegamento reale con il mondo del lavoro non è evidente» - spiega Mauro Ghilardi, Direttore Risorse Umane e Organizzazione del Gruppo FS - «Le soft skills più importanti? Comunicazione e networking, vivacità intellettuale e capacità di gestire situazioni mutevoli e complesse e, quindi, flessibilità. Per avere successo occorre saper affrontare in modo aperto le situazioni con rapidità di pensiero e idee vincenti, avvalendosi 32

anche dell’esperienza altrui. Poi ovviamente c’è la comunicazione, imprescindibile per collaborare e allineare le persone verso scopi e obiettivi comuni, moderando le divergenze». Maggiore conoscenza dell’inglese e ricorso a metodologie e tecnologie innovative (business game, case study, coopetition), infine, sono le richieste al mondo accademico. L’Università risponde. Evidenziato cosa serve, la parola passa alle Università e abbiamo contattato l’Università Cattolica per farci raccontare ragioni e soluzioni di questo gap. «Da sempre le aziende cercano ragazzi in gamba: persone che sappiano fare e non semplicemente che sappiano. Il focus va quindi posto sulle competenze e non solo sulle conoscenze» - risponde Roberto Reggiani, Responsabile Placement dell’ufficio di Milano - «Per supportare i ragazzi le Università hanno arricchito le classiche modalità di trasmissione del sapere con attività didattiche molto più interattive e partecipate, spesso in collaborazione con le imprese. Lo strumento principale resta comunque lo stage». Come misurare allora il risultato di queste iniziative? «Le Università hanno strumenti di valutazione dell’efficacia dell’apprendimento by doing. Ogni corso di laurea ha modalità proprie di progettazione e misurazione delle competenze in uscita» - ci racconta Reggiani - «E c’è poi un tema culturale di un cambio di prospettiva da parte degli studenti, gli uffici di placement su questo lavorano molto. L’obiettivo del percorso universitario non è il conseguimento del titolo ma è la costruzione di un’identità professionale e di un’ipotesi di percorso di carriera. L’obiettivo finale? Non deve essere il giorno del conseguimento del titolo, ma il giorno dopo».


start-up world

VELIA ANGIOLILLO

Ma i permessi ce li avete? CoContest e le sabbie mobili dell’innovazione all’italiana L’Italia punta sulle startup. Nel paese dove i disoccupati under 35 sono il 40,1% e dove i giovani sono esortati ad “inventarsi il lavoro”, la volontà dei governi di aumentare la competitività e tamponare lo spreco di cervelli ha partorito diverse iniziative, fra cui il pacchetto” industria 4.0” del DPEF 2016. Ma a volte chi raccoglie la sfida si trova ad affrontare anche l’ira di politica e associazioni di categoria. Accade a CoContest, una piattaforma web che mette in contatto diretto l’utente in cerca un’idea di ristrutturazione edilizia con architetti di tutto il mondo. La novità del progetto sta in un’idea semplice: applicare al privato il metodo della gara pubblica. Si caricano richieste e planimetrie sul portale e si sceglie in un pool internazionale di proposte, ottimizzando tempi e costi. E bypassando i canali classici della committenza. Se ci attaccano è anche per paura della concorrenza spiega Alessandro Rossi, cofondatore con Federico e Filippo Schiano di Pepe (quest’ultimo sospeso dall’Ordine degli Architetti proprio a causa della vicenda) Il crowdosurcing offre ai provider di servizi la possibilità di raggiungere più clienti e di gestiri in totale autonomia, altro che schiavitù. Questo agli studi di architettura non piace perché sottrae loro forza lavoro a basso costo. Il giovane che entra in uno studio spesso lavora solo alla parte operativa, senza mai spostarsi sulla fase creativa dei progetti. E il suo lavoro richiede skills, come l’uso di AutoCAD, che spesso mancano ad architetti “più grandi”. Riportando l’idea progettuale al centro del rapporto architetto-cliente in un’ottica meritocratica, CoContest gli permette di convogliare le sue idee in contest che gli interessano. Guadagnando.

Ma c’è anche un nodo culturale: L’Italia è tradizionalista, non riusciamo a slegarci da una concezione del lavoro di tipo datore-dipendente. C’è l’idea paternalistica per cui fuori dagli schemi ordinari del posto fisso e del sindacato non ci sia tutela possibile. Argomenti che per l’architettura italiana, in crisi strutturale di sovraofferta (dati ACE parlano di 2,6 architetti per 1000 abitanti) e redditi in calo dal 2010, non reggono: il sistema così com’è non tiene, con o senza di noi. Insomma, si vuole innovazione ma senza i cambiamenti sociali che ne derivano. Prendi la legge sull’Home Restaurant o sulla Sharing Economy. Porre tetti a fatturati e numero di erogazioni significa impedire deliberatamente l’uso di app di crowdsourcing per scopi professionali e limitarle all’uso amatorale. Stranamente succede solo quando protesta qualcuno. Ma anche perché si fatica a vedere queste realtà come fonti di lavoro. Intanto CoContest vola a San Francisco, dove si respira un clima più dinamico: Gli USA investono in progetti realmente innovativi perché lo scopo non è quello di entrare in un mercato ma di crearne di nuovi e diventarne leader. In Italia l’innovazione, quella vera, è percepita come rischiosa, quindi si investe in modelli di business già visti, rassicuranti, come l’e-commerce di beni. I pochi fondi italiani sono piccoli e diretti da ex dirigenti bancari o assicurativi, di certo non famosi per la propensione al rischio. Servirebbero interventi in questo senso. Ma prima di tutto, serve un cambio di mentalità.

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i lavori del futuro

ANTONIO CARNEVALE

Lavorare con i videogiochi La rivincita dei nerd Programmatori, designer e sceneggiatori sono tra i lavori migliori al mondo. Lo dice “Cnn Money”, lo confermano i dati: retribuzioni alte, bassi livelli di stress e margini di crescita del settore elevatissimi. E poi ci sono gli eSports, un mercato da oltre mezzo miliardo di dollari. Un giro d’affari enorme insomma, che crea occupazione. A patto che non vogliate lavorare (per forza) in Italia. Il videogioco non è più solo un passatempo per ragazzini timidi e impacciati. E, diciamo la verità, non lo è mai stato. Ci troviamo di fronte infatti, ad un prodotto culturale ormai maturo e ad un’industria che, soltanto nel nostro paese, muove qualcosa come un miliardo di euro (dati AESVI). In Italia, sempre secondo l’Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani, ci sono circa 30 milioni di videogiocatori. Non solo. La crescita del settore in termini produttivi avvenuta negli ultimi anni – la stessa AESVI ha attuato una serie di politiche per incentivare l’avvio di team di sviluppo indipendenti sul territorio nazionale – ha portato alla nascita di corsi di laurea e scuole specializzate, sia pubbliche che private. A scuola di videogames. L’offerta è già abbastanza significativa. Tra gli altri, possiamo citare la laurea in Informatica con percorso “Videogame” dell’Università Statale di Milano. Ma anche corsi universitari privati, come la Vigamus Academy di Roma (della quale abbiamo incontrato il direttore, Marco Accordi Rickards, vd. box “L’intervista”) o la Digital Bros Academy. Tutte realtà nate per formare i futuri professionisti del settore. Un bacino di potenziali lavoratori dal quale stanno attingendo a piene mani aziende come Ubisoft, Milestone e Cd Projekt Red, che negli anni hanno realizzato partnership con le diver34

se realtà formative. L’obiettivo, vista anche la grande richiesta, è quello di formare dei profili “job ready”. Anche (se non soprattutto) a livello internazionale. Perché lavorare con i videogiochi può essere il lavoro migliore del mondo. Ma forse non (ancora) in Italia. Tra i lavori migliori al mondo. “Cnn Money”, già nel 2013, inseriva programmatori, designer e sceneggiatori videoludici tra le professioni più appetibili, visti i margini di crescita del settore. A tutt’oggi, il game designer occupa un posto d’onore tra le 100 migliori professioni in America, con uno stipendio medio di oltre 80mila dollari annui. Segno che quello dei videogames è un comparto forte e duraturo. In Italia però, le retribuzioni cambiano. Secondo l’ultimo “Developer Survey” di Stack Overflow, gli sviluppatori italiani con più di 5 anni di esperienza risultano trentesimi - su un campione di 36 paesi - “per valore dello stipendio rapportato al potere d’acquisto”. In pratica, guadagnano oltre 10mila euro l’anno meno degli altri. Vuoi per le contingenze economiche, vuoi per le dimensioni (e i rispettivi budget) delle software house presenti sul nostro territorio. La rivincita dei nerd. Resta il fatto che, mentre il World Economic Forum annuncia una perdita di 7 milioni di posti di lavoro entro il 2020 per via dell’automazione, il settore dei videogames continua a registrare numeri da capogiro. Le ultime stime di Newzoo parlano di circa 100 miliardi di dollari annui di fatturato, il dato più alto tra tutte le industrie dell’intrattenimento. Se questo non vi sembra abbastanza, sempre Newzoo ci fornisce i dati relativi al fenomeno eSports. Un mercato che sfiora il mezzo miliardo di dollari. Ed è pronto a sfondare il tetto del miliardo nel giro di soli tre anni.


Parliamo di una vera e propria competizione sportiva che, negli Stati Uniti, sta trasformando diversi (cosiddetti) nerd in vere e proprie celebrità. Sbeffeggiati e vituperati per anni dunque, questi giovanotti che hanno “perso tempo” in passato con i loro “stupidi” giochini elettronici, si stanno prendendo la loro rivincita. Il pubblico cresce, come anche i montepremi in palio e l’interesse di grandi sponsor, tra cui Red Bull, Monster e Coca Cola. Le piattaforme online come Youtube e Facebook, ma anche grandi emittenti, come Espn, Bbc e Fox, trasmettono i tornei in diretta. Si moltiplicano le community e proliferano anche scommesse e doping. Insomma, sembra il nostro campionato di calcio di serie A. Le star milionarie? Ci sono anche quelle. Il “Cristiano Ronaldo dei gamers” si chiama Peter “PPD” Dager, ha solo 24 anni e un patrimonio di 2,6 milioni di dollari incassati nei vari tornei. Tra gli italiani, il primo, Alessandro “Stermy” Avallone, è arrivato a guadagnare oltre 188mila dollari. E adesso, ve la sentite ancora di prenderli in giro?

Quando dite che lavorate con i videogiochi vi guardano male? Niente paura. Ci sono delle professioni che la generazione dei nostri genitori non è proprio in grado di comprendere. Ecco la top five delle professioni maggiormente fraintese, secondo la ricerca annuale “Bring In Your Parents”, condotta da Linkedin. 1. Attuario (86%) 2. Radio Producer (83%) 3. User Interface Designer (82%). 4. Data scientist (76%) 5. Social Media Manager (61%)

“No al pessimismo!”. Parola di Marco Accordi Rickards, direttore della Vigamus Academy, l’università del videogioco ospitata all’interno della Link Campus University a Roma. Lo abbiamo incontrato per fotografare lo stato di salute del mercato dei videogiochi. Un settore che, ci conferma, “guarda al futuro senza paura”.

Quindi Marco, siamo noi ad essere troppo pessimisti? Io credo di sì. Se continuiamo a dire che c’è la crisi, non ce la faremo mai, non risolveremo niente. Bisogna insegnare l’opposto. C’è sempre spazio per le persone davvero brave che si mettono in gioco con passione e impegno. Perché qualsiasi industria cerca sempre persone di talento che vogliono lavorare, tanto più in un settore in costante crescita come quello dei videogiochi. Anche in Italia? L’Italia del videogioco è in forte espansione. Come vendite, siamo appena sotto i super big europei - Inghilterra, Francia e Germania - e questo è un bene. Significa tante aziende, tante agenzie che si occupano di servizi collaterali al videogioco, tanti editori che pubblicano in Italia e fanno promozione. E quindi, tanti ragazzi che lavorano, proprio qui in Italia. Studiare nel campo dei videogiochi dunque, non significa automaticamente lavorare all’estero. Questo è, semmai, un valore aggiunto. Tu studi per poter lavorare anche in Italia, però sai che il mercato dei videogiochi è globale. Dunque quel “know how” diventa automaticamente spendibile altrove. Molti dei nostri studenti della Vigamus Academy, ad esempio, sono stati già assunti da grandi aziende, sia in Italia che a livello internazionale. E pensa che i primi laureati li avremo solo al termine di quest’anno. Questo vuol dire che c’è una grande fame di persone preparate e competenti nel nostro settore. Quali sono i profili più richiesti? Per quanto riguarda la parte di sviluppo c’è sempre grande richiesta. Ancor più ora, con l’esplosione della scena indipendente e la nascita di tante piccole software house. Cresce poi l’interesse per chi lavora nella comunicazione, per attività di ufficio stampa, product management, ma anche per i social e il community management. Tutti profili che stanno acquistando sempre più importanza. In conclusione, possiamo dire che lavorare nei videogiochi è il business del futuro? O sarebbe meglio dire del presente? Hai detto una cosa giustissima. Non è più sensato dire “del futuro”. Anzi, io direi il business del passato. Che però, per fortuna, continua ad essere vincente. La cosa giusta da dire allora è “siete arrivati tardi” . Quindi cominciate a correre! 35


health & science

BARBARA HUGONIN

La medicina del futuro Il DNA ci salverà La medicina del futuro parte dalla prevenzione. La generazione di scienziati under 40 lavora su un binario parallelo, da un lato la tecnologia più sofisticata a scopo diagnostico e dall’altro una medicina sempre più personalizzata. La genetica oggi consente, attraverso test specifici, di prevedere i potenziali rischi di una patologia in persone definite portatrici asintomatiche (quindi non malate) oppure geneticamente predisposte. Sono centinaia di migliaia le malattie genetiche rare o meno, oltre a quelle patologie complesse, per le quali si riscontra una predisposizione che viene poi influenzata dall’ambiente e dallo stile di vita (come per le cardiopatie, il diabete, le malattie neurodegenerative e il cancro).

Questa visione nuova della medicina punta a realizzare una sorta di prevenzione personalizzata, basata sulle informazioni del nostro Dna, per migliorare la qualità della vita dei cittadini e garantire il diritto alla salute. I costi di assistenza sanitaria per malattie complesse, che spesso diventano croniche e che il più delle volte vengono diagnosticate a sintomi già avanzati, sono piuttosto elevati per il Sistema Sanitario Nazionale. I test preventivi e di screening genetico, accusati di essere dispendiosi, offrirebbero, invece, un vantaggio notevole, individuando i soggetti più a rischio e consentendone l’inserimento in programmi preventivi e, dove possibile, anche in terapie sperimentali. Il Progetto Genoma Umano (nato 36

con l’obiettivo di conoscere la sequenza dei geni della specie umana e la loro posizione sui vari cromosomi, costruendo così una mappa del genoma) ha cambiato di molto la visione della scienza medica, fornendo la possibilità di leggere, attraverso una sofisticata serie di test, il contenuto del Dna umano, come in una sorta di biblioteca virtuale. Si tratta di una sfida e un’opportunità unica, perché una diagnosi in largo anticipo, quando i sintomi non sono ancora evidenti, offre una speranza in più a qualsiasi persona, soprattutto in relazione ad aree geografiche più a rischio. L’ambiente in cui viviamo, infatti, influenza fortemente il nostro stato di salute. In alcune aree, in particolare, è stata riscontrata una maggiore frequenza di alcune gravi patologie che si manifestano attraverso una modificazione dell’espressione del nostro patrimonio genetico. Uno degli esempi è l’aumento di forme tumorali e di malformazioni congenite in popolazioni residenti in aree industriali o inquinate da rifiuti tossici. Tuttavia, nonostante le enormi potenzialità di una medicina sempre più a misura d’uomo, le resistenze da parte dei comitati etici di tutto il mondo sono ancora tantissime. Si tende a pensare che non sia necessario sottoporre ad un esame accurato persone che potrebbero non sviluppare mai una malattia. Ma è utile conoscere in anticipo l’ eventuale predisposizione genetica ad una malattia? Rientra nel diritto alla salute di un cittadino ? Di sicuro é auspicabile che una medicina, nobile e sempre piú innovativa, metta a disposizione i suoi strumenti per salvaguardare lo stato di salute della comunità e aumentare la qualità della vita degli stessi.


policy room

A CURA DI RETI

Jobs act ultima puntata: lavoro autonomo e smart Il disegno di legge di iniziativa governativa sulle attività professionali autonome e il lavoro agile è collegato alla manovra di finanza pubblica per l’anno 2016. Il provvedimento, che interessa oltre due milioni di partita Iva e collaboratori, è stato approvato in sede di esame preliminare dal Consiglio dei Ministri nel gennaio 2016. Successivamente ha poi ricevuto il primo semaforo verde dal Senato della Repubblica lo scorso novembre ed ora è all’esame della Camera dei Deputati. Il disegno di legge si compone di 22 articoli riguardanti due insieme di norme complementari, volte, da un lato, ad introdurre un sistema di interventi che assicuri un complessivo rafforzamento delle tutele per i lavoratori autonomi e, dall’altro, a sviluppare, all’interno dei rapporti di lavoro subordinato, modalità flessibili di esecuzione delle prestazioni lavorative.

Il testo è un “mix” di norme dispositive e di deleghe al Governo, che quindi rimettono all’esecutivo l’onere di legiferare attraverso l’emanazione di appositi decreti legislativi, prima in forma di schema, da inviarsi alle camere per il parere, e solo dopo in via definitiva.

In particolare, si segnalano le seguenti misure: previsione che i centri per l’impiego si dotino di uno sportello dedicato al lavoro autonomo; estensione delle norme relative al ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali tra imprese anche alle transazioni commerciali tra lavoratori autonomi e imprese, tra lavoratori autonomi e amministrazione pubbliche e tra lavoratori autonomi; riconoscimento permanente del diritto dei professionisti di accedere ai fondi strutturali europei; deducibilità ai fini Irpef da reddito di lavoro autonomo delle spese per la formazione o per l’aggiornamento professionale; delega per la rimessione degli atti pubblici alle professioni ordinistiche; delega per la sicurezza e la protezione sociale delle professioni ordinistiche; delega per semplificazione delle disposizioni sulla salute e sicurezza degli studi professionali; inquadramento giuridico del lavoro agile inteso come un modello innovativo di organizzazione del lavoro alternativo al telelavoro, in linea con la riflessione sul tema dalla “disconnessione”, già sviluppatasi in altri contesti europei. Al testo sono state depositate numerose proposte emendative, tuttavia, da quanto si apprende, il relatore (Cesare Damiano n.d.r.) e il governo intendono limitare il più possibile, se non addirittura scongiurare, ulteriori modifiche al provvedimento, al fine di velocizzare il percorso di approvazione definitiva.

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il personaggio food and furious amore liquido

lifestyle

l’unicorno


amore liquido say hello to the girl

marta lieggio

Amori Sfigati Chiara Rapaccini

Amore liquido: perché preferiamo le connessioni alle relazioni Internet ha cambiato le abitudini di coppia. Fiumi di conversazioni scorrono sulle chat istantanee a tutte le ore del giorno e della notte. Ci sono relazioni che hanno inizio con un messaggio e con un altro possono finire. E quando non si ha la voglia o il coraggio di esprimere parole, vengono incontro le emoji (i famosi simboli pittografici utilizzati nelle chat), eredi della nuova comunicazione non verbale. C’è chi riveste i panni di un investigatore segreto analizzando l’andamento di spunte e doppie spunte, orari di connessione e in quanto tempo il partner riesce a rispondere a un messaggio. C’è chi, invece, mantiene relazioni digitali, senza farle mai evolvere, più per una forma di auto gratificazione che per un interesse reale nei confronti dell’altro (in America le chiamano “Long digital relationship”). Le parole di Zygmunt Bauman, aiutano a comprendere qual è il rischio di affidare a questi aggeggi digitali le nostre relazioni sentimentali. Con i social network si possono avere migliaia di amici, premendo semplicemente dei tasti, senza troppo coinvolgimento. “Così come è apparentemente e infantilmente facile trovare un partner”, afferma uno dei più grandi sociologi contemporanei, “è altrettanto facile abbandonarlo e chiudere la conversazione”. Si smette di cinguettare, di mandare messaggi vocali, e magari si cancella l’amicizia, senza bisogno di inventare delle scuse. In questo tipo di amore, è possibile ottenere un bel po’ di libertà individuale, passando da una persona all’altra, senza pre40

occuparsi delle conseguenze. È proprio questo “l’amore liquido” teorizzato dal sociologo scomparso all’inizio di quest’anno, in cui si consuma l’appagamento che porta quel determinato rapporto, ben diverso dall’amore come impegno continuo, che deve essere rigenerato, ricreato ogni giorno. Vivere una relazione reale fa scatenare un processo evolutivo, mentre delegare le scelte così come la comunicazione ai WhatsApp, non può che dare un piacere tempestivo, ma più infantile. Per questo motivo le relazioni umane vengono sostituite sempre più dalle connessioni. Per fortuna, esistono artisti che riescono con ironia a far riflettere gli utenti sulla contemporaneità, piena di fraintendimenti, doppie spunte blu e “amori sfigati”. Chiara Rapaccini, in arte Rap, ha deciso di riportare alcune situazioni di equivoci, goffaggini e sfortune degli innamorati, prima su carta e poi sui social, attraverso i suoi disegni. La sua pagina Facebook “Amori sfigati” oggi ha raggiunto più di 170.000 affezionati followers. “In amore la scrittura letteraria anche di una mail, permette di capire meglio l’altro e di esprimere i sentimenti, invece la velocità di WhatsApp impoverisce e superficializza”. Con Amori Sfigati, si vuole denunciare proprio gli amori liquidi, come la stessa artista ci spiega: “L’amore vero si costruisce solo quando ci sono due unità complete, la donna che ha capito chi è e fa da sola e l’uomo che ha capito chi è e fa da solo. Queste due unità mature se si incontrano, possono amarsi. Gli uomini che disegno io, sono vittime di cinismo, di stereotipi e di iper romanticismo. Io con i miei personaggi, invito il pubblico a fare diversamente e vivere l’amore in modo maturo e indipendente”. Per amare gli altri bisogna prima amare se stessi, ed è proprio questa, la vera sfida.


amore liquido ask to the gentleman

cosimo rubino

Fenomenologia dello stato WhatsApp Stretta di mano decisa, segno di forte personalità. Un monito ricorrente, da quando la psicologia ha evidenziato le corrispondenze fra le modalità del più comune gesto di presentazione e gli aspetti tipici del carattere umano. Ma in tempi in cui le relazioni vis-àvis subiscono l’erosione dei rapporti virtuali, l’uomo ha saputo trovare in questi ultimi, un indicatore della personalità rapido ed efficace quanto la stretta di mano. Social network come Twitter e Instagram assegnano questa funzione alla cosiddetta bio, ma il nostro studio di caso vuole analizzare la struttura più essenziale in assoluto: lo stato Whatsapp. L’app di messaggistica istantanea più usata al mondo consente di creare un profilo minimo, composto da nome, immagine del profilo e appunto dal cosiddetto stato.

Una volta creato l’account, il sistema imposta automaticamente uno stato che recita testualmente “Hey there! I am using Whatsapp”. Una rilevante percentuale di utenti decide di mantenerlo, evidenziando, nella maggior parte dei casi, totale (e ingiustificato!) disinteresse, o in alternativa una tattica molto prudente che mira a non dare punti di riferimento al nemico. Al contrario, coloro che vogliono personalizzare il proprio stato si trovano davanti a un bivio campale: scriverne uno originale o approfittare di quelli che Whatsapp paternalisticamente suggerisce.

esprimono grande pragmatismo e massima serietà; grande eccezione la simpaticissima variante “In palestra”, molto comune fra gli olimpionici di corsa al buffet. Una volta esclusi l’ignavo “Hey there!” e la seriosa lista, si staglia dinnanzi all’utente un vero e proprio oceano di possibilità, entro cui è necessario fare ordine, per arginare la dilagante e preoccupante agorafobia che porta a rifugiarsi in nichilismi come “***nessuno stato***”. Innanzitutto, è necessario registrare gli stati composti esclusivamente da emoji, che possono formare un frizzante rebus o espletare la funzione di descrivere lucidamente la persona attraverso il musetto stilizzato di un maialino. Se invece si opta per le parole, la distinzione fondamentale è basata sulla lingua, con italiano e inglese che dominano la scena a mani basse. Dulcis in fundo, i contenuti. A fare da padrone le citazioni, in particolare quelle musicali. Pare che dal Dakota di Manhattan, Yoko Ono abbia dichiarato di provare immensa stima per coloro che hanno scelto una frase di “Imagine”. Citazioni, ma non solo autoreferenziali. Una recente indagine statistica ha evidenziato che la maggior parte degli utenti ammette di scrivere la frase di presentazione in funzione di un destinatario ben preciso, spesso corrispondente al partner sentimentale. Uno stato sempre più decisivo, dunque, capace di essere demiurgo o killer di una relazione. Fra le ragioni del cuore e le ragioni sociali, insomma, a dominare è la ragion di stato.

La scelta all’interno del menu fisso va da “Disponibile” a “In riunione”, passando per “Batteria quasi scarica” e numerosi altri dello stesso tono, che 41


food and furious alcuni piaceri, fra cui quelli della carne

cinzia caserio

Paninaro? No, street food artist il cibo di strada torna ad essere trendy

Un chiosco nell’oscurità, luci al neon, il profumo delle salamelle messe sulla piastra, maionese e ketchup quanto basta. In origine furono i paninari, trionfo di gusto e grassi saturi, appuntamento immancabile dopo le serate nei locali. Ma da qualche anno il cibo di strada è diventato più glamour e non a caso si fa chiamare street food. L’immagine è diventata fondamentale, la qualità fa la differenza e nessuno vuole più il panino unto e spartano, ma la tradizione o le nuove cucine, purché siano gourmet. Certo, i paninari continuano per la loro strada, ma la tendenza adesso è un’altra. Il mondo degli street food artists è variegato, ma soprattutto è giovane. Come quello di Lu Bar, slow street food siciliano nato nel 2014 dall’idea di tre fratelli. Lucrezia e Ludovico Bonaccorsi, 29 anni lei e 26 lui, raccontano la storia e i retroscena di un lavoro sempre più amato dagli under 35. «Tutto è iniziato con un chiringuito in spiaggia nell’oasi di Vendicari vicino Noto (Siracusa): l’idea è piaciuta e così abbiamo deciso di dare un seguito a quel progetto. Il nostro trampolino di lancio è stato il Salone del Mobile di Milano, e da lì in poi non ci siamo più fermati. Andiamo alle fiere e alle feste private con l’Ape per gli arancini, la bicicletta per le caldarroste e il motorino che porta gelati e granite. Tutto è curato nei minimi dettagli, la qualità dei cibi in primis: gli arancini sono fatti a mano in una rosticceria di Noto con prodotti locali. Al tradizionale arancino al ragù si aggiungono poi quelli alla norma, al nero di seppia, con pesce spada e melanzane, pistacchio e gamberi, senza contare tutte le varianti stagionali». Dietro al successo, però, non mancano i sacrifici, ricordano Lucrezia e Ludovico. «Per fare street food bisogna essere giovani, perché i turni possono essere massacranti. Bisogna crederci, non mollare mai e dedicarsi solo a quello. Ogni giorno ci si deve rimettere in gioco e reinventarsi, essere un po’ artisti». 42

Una variante sempre più in voga è anche quella dello street food itinerante, come dimostra El Caminante, che offre una cucina gourmet italo-venezuelana su ruote a Milano. Pedro Hernandez racconta la sua storia davanti alle arepas, panini di forma circolare fatti con la farina di mais. «Durante l’Expo, io e mia moglie abbiamo pensato di unire le nostre cucine, e grazie a un prestito per giovani imprenditori siamo partiti con il progetto. L’idea era di offrire cibo di qualità a un costo contenuto, infatti compriamo gli ingredienti direttamente dai produttori. Le nostre arepas, poi, sono perfette per i celiaci, visto che nell’impasto c’è solo mais, acqua e sale». Il cavallo di battaglia de El Caminante è Caracas, con pollo cotto a basse temperature, avocado, succo di limone, maionese, senape e pepe. Intanto Coldiretti conferma il trend: nel 2016 lo street food è schizzato al +13%, e la Lombardia è in testa con 288 realtà (+26% annuo). Per tutti loro, vale la ricetta del successo di Giannasi, simbolo dei chioschi di strada a Milano da 50 anni: alimenti di buona qualità, ben cucinati e a un prezzo adeguato. Secondo il proprietario, presto ne vedremo di nuove nel campo dello street food.


RISTORAZIONE AMBULANTE IN ITALIA Regione

Imprese registrate al 30 marzo 2016

Imprese registrate al 30 marzo 2015

ABRUZZO BASILICATA CALABRIA CAMPANIA EMILIA ROMAGNA FRIULI-V.GIULIA LAZIO LIGURIA LOMBARDIA MARCHE MOLISE PIEMONTE PUGLIA SARDEGNA SICILIA TOSCANA TRENTINO – A.A. UMBRIA VALLE D'AOSTA VENETO

68 28 56 189 137 33 237 18 288 45 15 187 271 128 201 142 41 21 5 161

64 23 41 169 133 29 218 16 228 36 13 172 261 108 191 17 36 19 3 140

ITALIA

2.271

2.017

Fonte: Elaborazioni Coldiretti su Unioncamere

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l’unicorno la chimera del posto fisso

luigi rossiello

Il posto fisso Ha ancora senso parlarne?

Il posto fisso appare una chimera, desiderato quanto inafferrabile rimane per alcuni ancora un obiettivo. Ma siamo sicuri che abbia ancora senso parlare di posto fisso? “Ferma lì, non muoverti, resta al tuo posto. Al tuo posto fisso!”. Sono queste le parole che Alice sente ripetersi da quel maledetto giorno in cui ha vinto il concorso come ricercatore e firmato un contratto a tempo indeterminato. Sì avete capito bene. Uno di quei contratti su cui dopo la voce “dal...” non c’è nient’altro, non c’è scritto “fino al...”, ma solo “data” e “firma”. “Lei firma signorina?” – con tono perentorio la segretaria di amministrazione. E Alice – che impugna una di quelle Bic nere con anima d’inchiostro a vista: “Sì sì, firmo”. La sicurezza in quel gesto è durata solo il tempo necessario alla scrittura del suo nome. Dalla settimana successiva, sarebbe stata vita: vita vera. Perché la condizione di chi cerca un lavoro, per quanto frustrante, alienante, spesso massacrante, porta con sé un brivido di eccitazione per le infinite possibilità di vita che essa nasconde. Per le centinaia di vite differenti che, a seconda di che posizione, e spesso (nell’era globale) di che Paese si scelga, ci troveremmo (potenzialmente) a sperimentare.

Al lavoro “per la vita”, Alice, non ci aveva mai davvero pensato, al contrario. Ha seguito la sua passione, la ricerca, in barba a quanti le dicevano “La ricerca? Ma sei pazza? Ti condanni a un futuro di precarietà”.

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La verità, si è trovata a pensare, è che se esiste un momento storico in cui seguire le proprie passioni abbia un senso, è proprio questo, dove nulla è più certo. Dove anche chi studia giurisprudenza, o medicina, con ogni probabilità si troverà ad essere precario. Allora tanto vale scegliere ciò che amiamo, no? Fatto sta che, superate brillantemente le varie tappe: dalla laurea in Scienze Biologiche a Roma, una borsa di Studio all’Università di Madrid, vincitrice di alcuni bandi e di un premio in campo scientifico, fino al concorso, il tanto ambìto quanto improbabile posto fisso è divenuto realtà. Adesso, appunto, era vita, la sua; e non una possibilità di vita tra le tante più o meno disponibili. Il mantra “devo prima stabilizzarmi lavorativamente” lasciava ora spazio a tutto ciò che sarebbe venuto dopo. A volte le storie, quella di Alice, per esempio, valgono più di dati e percentuali. Servono a ricordare che nonostante il 40% di disoccupazione giovanile, nessun obbiettivo è davvero irraggiungibile, e che determinazione e competenza, seppur sul lungo periodo, premiano. Servono anche a raccontare che dietro la precarietà dell’attuale mondo del lavoro si nascondono infinite possibilità. Mai come oggi, grazie all’ausilio del digitale, i giovani hanno fatto impresa, dalle startup alle PMI innovative, molte falliscono prima ancora di nascere, altre ce la fanno. È questa flessibilità, anche di fronte al fallimento che alla lunga si trasforma in un valore aggiunto. L’evoluzione del mondo del lavoro procede a velocità incontrollabile, un terreno accidentato pieno di imprevisti dove solo chi è dotato di sospensioni flessibili, rodate da precedenti esperienze, è grado di reinventarsi, scorgere nuove opportunità prima di altri. Mai come oggi i ragazzi che hanno qualcosa da dire possono trovare un canale per esprimersi senza intermediazione, e in certi casi riuscire. Ha ancora senso, allora, parlare di posto fisso?


lifestyle essere se stessi nel mondo

niccolò piccioni

Sesso, Libido e Libertà nell’Era del Gender Fluid

Cosa succederebbe se, d’un tratto, ci svegliassimo sprovvisti di punti di riferimento e delimitazioni sessuali? Siamo sicuri che l’apparato riproduttore, tanto utilizzato per assolvere ai bisogni fisiologici, non sia invece un complemento superfluo per la definizione di un’identità? Benvenuti nell’Era del Gender Fluid.

dell’Identità, perché “L’Identità non esiste, [...] è soltanto una (co)costruzione destinata a essere continuamente superata nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi” (Flavia Monceri). Un costrutto sociale - l’identità - che si evolve in linea con la libertà di ciascuno di esprimere sé stesso. Oggi, sempre di più, le etichette classiche appaiono inadeguate e c’è chi ne rivendica di nuove: ogni preconcetto viene rifiutato, per andare all’esplorazione di nuove definizioni, liquide.

Luglio 2016, Tim Walker, fotografo di moda londinese riconosciuto tra i più talentuosi degli ultimi anni, firma il servizio “Boy/Girl/Boy” per conto di Vogue Italia: negli scatti, mascolinità e femminilità sono fuse e confuse tra loro, in un gioco di luci e colori capace di far risaltare i veri protagonisti della composizione: gli abiti. A distanza di pochi mesi, precisamente nell’ottobre 2016, è il Web ad offrire un nuovo spunto: “Mio Figlio in Rosa”, blog creato da Mamma Camilla, che racconta di “L.” suo figlio “che vorrebbe essere (anche) una bambina pur essendo biologicamente maschio”; un diario digitale che, a prescindere da come la si voglia vedere, punta il riflettore non solo sulla libertà di ciascuno di “essere”, ma sul valore che chi ama è, o dovrebbe essere in grado di dare, a questa libertà.

Nell’individualismo esasperato della modernità, il corpo diventa manifesto della ribellione: non più gabbia, ma strumento per la ricerca di sé stessi. Il sesso biologico non è più un vincolo, né un ostacolo alla fantasiosa – e più coerente – versione del proprio essere. La materia organica diventa il media per esprimere dissenso, per infastidire, per innescare una reazione che porti ad un processo di crescita. Nell’era della modernità liquida, plasmata dall’integralismo e dalla xenofobia, un numero crescente di individui che sceglie di andare nella direzione opposta, contrapponendosi all’ignoranza attraverso un’apertura estrema, senza confini, a qualsiasi possibilità dell’essere. Con la fluidità del genere, tutto è lecito perché non importa più cosa pensano gli altri: la priorità è essere e liberi.

Nel 1948 uno dei primi resoconti sull’orientamento di genere, il Rapporto Kinsey, dichiarava che la relazione eterosessualità-omosessualità era 1 a 10. Nello stesso report, lo studioso dichiarò che il 46% degli individui di sesso maschile aveva avuto rapporti sessuali, in età adulta, con persone dello stesso sesso. Dopo quasi cinquant’anni, con la rivoluzione identitaria femminista e la nascita delle associazioni LGBT (Lesbo, gay, bisex, trans), non si fatica a credere che tali informazioni siano variate. Dunque, la società sta cambiando (o, forse, è già cambiata). Ogni evoluzione porta ad una riformulazione

E se il Gender Fluid fosse uno dei primi passi verso una vera e propria rivoluzione dell’identità? Se fosse il modo per indagare, veramente, chi siamo? Se fosse l’unica arma a disposizione per contrastare l’invasione dell’ignoranza? La società sta cambiando (o, forse, è già cambiata). Margaret Mazzantini nella presentazione del libro “Splendore” scrive “[...] Il vero scandalo sarebbe non aver cercato sé stessi. E alla fine sappiamo che ognuno di noi può essere soltanto quello che è. E che il vero splendore è la nostra singola, sofferta, diversità”.

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il personaggio una conversazione informale

luigi rossiello

Pappa pronta, no grazie! Giordano Riello, presidente della Nplus discende da generazioni di imprenditori. Tra innovazione e nuove sfide ci racconta la sua realtà. Ereditare un impero industriale sviluppato negli anni dalla propria famiglia e che conta, ad oggi, dieci aziende e circa 1.600 collaboratori, non è certo semplice. Non basta mantenere quanto raggiunto, la voglia di perseguire obbiettivi ambiziosi deve essere l’attidudine di un imprenditore di successo. Così il 27enne Giordano Riello fondatore, insieme a due soci, della EN srls, presidente della Nplus, membro del consiglio di amministrazione della RPM e della Aermec - entrambe aziende di famiglia fondate rispettivamente dal padre e dal nonno - e presidente dei giovani imprenditori di Confindustria Veneto ha una visione tutt’altro che statica di fare impresa. “Ritengo che si debba creare l’esigenza nelle persone, cioè creare un prodotto che poi il cliente chiede. Una sfida bellissima, soprattutto in questo periodo storico in cui c’è innovazione continua, un fermento così interessante che bisogna essere in grado di cavalcare. Farsi inseguire e non essere noi a dover inseguire gli altri. Nell’imminente futuro – rivela Riello – l’azienda conta di investire nei sistemi IOT (Internet of things, ndr). Stiamo valutando con il nostro gruppo industriale di avviare un progetto di ricerca per mettere a punto un sistema di dialogo e comunicazione tra i sistemi di condizionamento e tutto ciò che riguarda l’elettronica e il mondo esterno. È questo il comparto nel quale investire”, afferma. Inoltre la Nplus scorporata in Nplus Lighting che si occupa di illuminotecnica e nella Nplus Marine&Rail che realizzerà cablaggi speciali per applicazioni ferroviarie e navali si è da poco trasferita nel nuovo Polo Meccatronica a Rovereto ed è pronta ad incrementare il fatturato. “Siamo partiti con risultati modesti”, spiega Riello parlando della sua creatura. “Fino all’anno scorso abbiamo fatturato mezzo milione di euro all’anno... adesso abbiamo fatto investimenti importanti in linee produttive e in sistemi di collaudo estremamente avanzati che ci permettono di in-

serirci in nicchie di mercato molto interessanti. Ad oggi, abbiamo in pancia per questo 2017 circa un milione e mezzo di ordini e abbiamo stimato un bilancio cautelativo ad 1,7 milioni per il 2017. Conto però già nel giro di un anno e mezzo di arrivare a 5 milioni di euro di fatturato. Quindi la crescita c’è, però – precisa – è direttamente proporzionale agli investimenti che abbiamo fatto”. La Nplus, che opera attualmente in tutta Europa, sta inoltre ampliando i propri orizzonti. Sarà l’India il nuovo mercato di riferimento dove verrà realizzato un progetto in ambito ferroviario. Giordano Riello, in una cordiale conversazione telefonica, dà tutta l’aria di essere quanto più lontano possibile dallo stereotipo del figlio di papà. Parte di un gruppo che su 11 elementi conta nove under35 ha dovuto superare una dura prova prima di entrare nell’azienda di famiglia. “Non è scontato che noi figli, entriamo a lavorare in azienda. C’è un banco di prova che dobbiamo superare. Io, tre anni fa, con due amici, ho creato un’azienda nel lighting (En ora Nplus, ndr), perchè di regola i figli prima di entrare in azienda con ruoli dirigenziali devono creare una start-up con le loro finanze o comunque trovando fondi in modo autonomo, farla funzionare e solo quando l’azienda genera utile i figli sono legittimati a poter entrare nelle aziende del gruppo con ruoli anche dirigenziali”. Inoltre a chi gli chiede se sia stato facile partire da una condizione vantaggiosa, Riello junior risponde così: “Sarebbe ipocrita nascondere di aver sfruttato la mia condizione famigliare per fare business. Però se da una parte è vero che uno inizia con le spalle coperte, dall’altra è costretto a puntare molto in alto, non può permettersi di commettere un minimo errore perchè danneggerebbe sè stesso e l’azienda di famiglia. Quindi essere figli d’arte non è facile. È complesso, ma bisogna essere in grado di cogliere gli aspetti positivi per trarre vantaggi per le proprie aziende e per il proprio tessuto sociale”. Il Gruppo Riello ha, poi, tra i suoi punti di forza la coesione familiare basata sul continuo confronto generazionale dove tutti imparano dagli altri al fine di ridurre al minimo i margini di errore, ma nella quale le intuizioni dei giovani sono spesso illuminanti... 47


the new’s room bimestrale tematico anno 1 - numero 0 marzo - aprile 2017 Fondatore Pierangelo Fabiano

Art direction e progetto grafico Anna Mercurio

Editore The New’s room srl Resp. segreteria organizzativa Flaminia Di Meo

Art direction e progetto digital Blind Sight

Coach Francesco Bei

Responsabile PR Stefano Ragugini

Direttore responsabile Sofia Gorgoni

Artwork e poesia Giulio Battelli - Elena C. Stein

Direttori editoriali Sara D’Agati Lorenzo Castellani

Crediti Fotografici Unsplash Manfredi Pantanella Creative Commons Pixabay Copertina Elaborazione grafica di ritratto di Zygmunt Baumann liberamente ispirata a fonti reperite sulla rete

Team supervisor Claudio Velardi Giornalisti Carlo Cauti Simone Rubino Nicolò Scarano Mario Di Paolo Gerardo Fortuna Maurizio Franco Maria Genovesi Davide Bartoccini Ilaria Danesi Claudia Cavaliere Mariastella Ruvolo Andrea Palazzo Velia Angiolillo Antonio Carnevale Barbara Hugonin Cinzia Caserio Luigi Rossiello Marta Leggio Cosimo Rubino Niccolò Piccioni

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Responsabile comunicazione Sofia Piomboni (Blind Sight)

Stampato presso Rotoform S.r.l. Via dei Tamarindi, 14 - 00134 S. Palomba Roma Numero 0 in attesa di registrazione




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