MARMO Rivista annuale Numero 7, 2018 Aprile Direttore responsabile Paolo Carli Direttore Costantino Paolicchi Vice Direttore Aldo Colonetti
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Costantino Paolicchi
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Coordinamento Manuela Della Ducata Redazione Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Nicola Gnesi
Editore Henraux SpA Fotolito e Stampa Industrie Grafiche Pacini Contributor Flavio Arensi, Elena Arzani, Jean Blanchaert, Gianluigi Colin, Aldo Colonetti, Turan Duda, Costantino Paolicchi, Gianluigi Ricuperati, Maurizio Riva, Scholten & Baijings, Andrea Tenerini, Piergiorgio Valente
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Copertina Scholten & Baijings, tutti i diritti riservati
LA GLOBALIZZAZIONE COME VANTAGGIO CREATIVO Flavio Arensi
MICHELANGELO, MICHELANGELO, DAMMI LA LUCE! Gianluigi Colin
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Traduzioni Romina Bicicchi Fotografie Archivio Henraux, Aurelio Amendola, Robert Benson Photography, Manfredi Cirlinci, Davide Curatola Soprana (Urban Reports), Gianluca Di Ioia, Veronica Gaido, Nicola Gnesi, Sasha Gusov, Mario Liguigli, Lorenzo Palmieri, Pasquale Palmieri, Francesco Paolucci , Scheltens & Abbenes
Paolo Carli
MIKAYEL OHANJANYAN IL SENTIMENTO DELL’APPARTENENZA
Coordinamento editoriale Eleonora Caracciolo di Torchiarolo
Grafica Silvia Cucurnia, Thetis
EDITORIALE
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ARAZZO DI TRAVERTINO Turan Duda
IL MARMO E L’(IN)SOSTENIBILE LEGGEREZZA Piergiorgio Valente
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“Stampato sotto gli auspici della Henraux SpA” Registrazione presso il Tribunale di Lucca no 3/2017 del 24/02/2017
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DAI PATTERN AL MARMO Scholten & Baijings
PREMIO HENRAUX: L’ARTE COME RESPONSABILITÀ Jean Blanchaert
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L’ITALIA È UN ARCIPELAGO IL PADIGLIONE ITALIA DI MARIO CUCINELLA ALLA BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA Aldo Colonetti
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KATHELIN GRAY L’AMICA DI BURROUGHS Gianluigi Ricuperati
GIOVANNI ALLEVI DALLA TRADIZIONE AD UNA MUSICA CLASSICA CONTEMPORANEA Elena Arzani
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LEGNO E MARMO, LA NATURA PRENDE FORMA Maurizio Riva
IL MONTE ALTISSIMO ANCORA ALLA RIBALTA DEL GRANDE CINEMA Costantino Paolicchi
LA RIPRESA DELL’ESCAVAZIONE SUL MONTE ALTISSIMO NELL’OTTOCENTO NELL’OPERA DEL PITTORE SVIZZERO JEAN CHARLES MÜLLER Andrea Tenerini
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LO SHOWROOM LUCE DI CARRARA: MOLTEPLICI FUNZIONI PER MOLTEPLICI IDENTITÀ Aldo Colonetti
DI PAOLO CARLI PRESIDENTE DI HENRAUX E FONDAZIONE HENRAUX
simo dialogo su William Burroughs con una delle sue amiche più fidate, Kathelin Gray. E poi, come sempre, scultura, fotografia, architettura e design. La cultura ci piace e ne facciamo una bandiera. Il nostro sentito ringraziamento va ai contributor che hanno messo a disposizione le loro competenze con generosità trasformando questo numero in una scatola magica da scoprire, ricca di approfondimenti e di sapere, e rendendolo un nuovo tassello della storia di Henraux. Henraux è un’azienda efficiente, proiettata su orizzonti internazionali, ma anche una grande famiglia, in cui oltre ad esperienze professionali importanti, convergono persone dalle grandi qualità umane. Marmo è il luogo dove questo mix irripetibile di ingredienti confluisce e viene condiviso con i lettori, che sono invitati a farne parte. Buona lettura!
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Marmo è per Henraux terreno di sperimentazione. Del resto, in tutti gli ambiti in cui l’azienda si muove – l’architettura, il design, l’arte – l’approccio è il medesimo: sperimentare, scoprire, evolversi. Lo facciamo anche sul fronte editoriale, nel rispetto del progetto originario che rimane sempre di grande attualità nei temi e nell’estetica. Nel nuovo numero di Marmo abbiamo quindi voluto inserire un elemento di novità allargando il concetto di ‘arte’ ad un’idea più ampia che non comprenda solo l’arte visiva, ma che includa anche altre forme espressive: la musica, il cinema, la letteratura. Ed ecco perché i lettori troveranno un’intervista a Giovanni Allevi, che ci rivela alcuni dettagli della sua storia familiare oltre che professionale, il report di un incontro con il grande cineasta Andrej Končalovskij che ha visto l’Henraux protagonista, un raffinatis-
DI COSTANTINO PAOLICCHI
MIKAYEL OHANJANYAN IL SENTIMENTO DELL’APPARTENENZA I
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FOTOGRAFIE DI NICOLA GNESI
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Nel 2014 l’artista ha vinto la seconda edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux con l’opera Materialità dell’invisibile.
Mikayel Ohanjanyan è un giovane scultore di origine armena che da oltre diciotto anni vive e lavora in Italia. Dopo essersi diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Yerevan, nel 1998 partecipa alla XIII Biennale Internazionale Dantesca di Ravenna, ottenendo il terzo premio, e in seguito si trasferisce a Firenze dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. “La chiamata all’arte – ha scritto Vazgen Pahlavuni Tadevosyan, in arte “Vazo”– ha spinto Ohanjanyan ad unirsi ai grandi movimenti storico-culturali in continuo passaggio tra Oriente e Occidente, tra nord e sud, tra centri e periferie”. È quella vasta e inarrestabile “circolarità” della cultura che – oggi più che mai – consente una visione cosmopolita, universale della realtà e dell’arte. Lo scultore si dichiara orgoglioso
della sua identità armena, della sua appartenenza ad una cultura e ad una tradizione millenaria: “Sono cittadino italiano, ma culturalmente appartengo all’Armenia. Semplicemente sono nato lì, le mie radici sono lì…” ha dichiarato nel corso di un’intervista rilasciata a Francesca Alix Nicoli (l’articolo, del 26 maggio 2015, è apparso su Artribune). E subito dopo precisa il significato di “appartenenza” che è qualcosa che non ha niente a che fare con i confini politici “inventati per gestire i popoli e i territori”, ma un legame profondo, quasi ancestrale, con la cultura e la storia di un popolo. “Dentro di me porto la mia cultura – ha confidato a Vazo – ma l’arricchisco continuamente con le mie nuove ricerche ed esperienze”. L’artista si sente proiettato in una dimensione universale, cosmica, in un percorso
A sinistra Mikayel Ohanjanyan Mikayel Ohanjanyan, Materialità dell’invisibile #1, 2015, Marmo Bianco Altissimo, cavi di acciaio
che riassume la dinamica e il significato di due luoghi distinti e tuttavia integrati nella sua ricerca e nella sua spiritualità: quello in cui vive, che corrisponde al livello di un’esperienza contemporanea che muta incessantemente, per latitudini e sensibilità diverse, e quello da cui proviene, l’Armenia, vibrante di suggestioni e di richiami e tuttavia fermo nel tempo con il suo epos, le sue tradizioni, le sedimentazioni storiche e antropologiche, la magia del suo paesaggio. Ohanjanyan – ha rilevato Vazo nel suo articolo Il cerchio del ritorno. A proposito dell’arte di Mikayel Ohanjanyan – agisce come in un viaggio “continuo e infinito” lungo un percorso a spirale che lo proietta nel futuro e lo restituisce in un eterno ritorno alla cultura delle sue origini.
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Vedute dell’opera Tasnerku (dodici), 2015, basalto, corten, cavi d’acciaio, esposta alla 56. Biennale di Venezia
rendo relazioni nuove, non solo fisiche ma anche psichiche e sensoriali. Dopo questo successo, nel 2015, insieme ad un gruppo di altri diciotto artisti, Mikayel ha vinto il Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale alla 56. Biennale di Venezia, con un progetto curato da Adelina von Fürstenberg presso Ca’ Zenobio (Isola San Lazzaro degli Armeni), sede della congregazione armena mechitarista da ormai 300 anni. La Biennale di Venezia è stata per certi versi l’occasione di ritrovare le ragioni di un sentimento, di una “vibrazione” – così la definisce lo scultore – “… un ritmo spaziale legato a quel luogo geografico, a quel posto dove sono nato e cresciuto che si chiama Armenia”, come si legge nell’articolo della Nicoli. Nel corso di un’intervista rilasciata in occasione della mostra organizzata dall’Università degli Studi di Milano, allestita nel chiostro e nel loggiato del palazzo della Sapienza nel 2016, l’artista ha dichiarato che fin da ragazzo, fin dai tempi dell’Accademia che frequen-
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Nel 2014 l’artista ha vinto la seconda edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux con l’opera Materialità dell’invisibile, dopo una severa selezione condotta da una commissione di esperti e da una prestigiosa giuria presieduta dal critico e storico dell’arte Philippe Daverio. Da quel momento in poi i laboratori dell’Henraux a Querceta sono divenuti abituale luogo di lavoro dello scultore che con l’utilizzo del marmo ha aperto una fase importante della sua già rilevante carriera. L’opera premiata raffigura lo spazio vuoto come forma, mentre la materia – compressa da cavi d’acciaio – crea nuove prospettive e nuovi rapporti spaziali. È simbolica lettura, come si legge nel sito ufficiale del Premio, della secolare attività delle cave apuane dove si estrae il marmo, stabilendo intime connessioni nel rapporto tra l’uomo, il suo lavoro e il territorio; tra la materia e lo spirito; fra staticità e dinamicità; fra dissonanza ed equilibrio. Un rapporto che plasma e modifica continuamente il paesaggio sugge-
Nelle opere di Ohanjanyan è sempre riconoscibile la civile volontà di trasmettere messaggi positivi: di pace, di libertà, di tolleranza, di condivisione e solidarietà. C’è un’ansia di armonia e di bellezza che pare rivolta ad assicurare una speranza agli uomini.
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Mikayel Ohanjanyan, Diario, 2016, Marmo Bianco Altissimo, ferro, cavi acciaio
tava nella sua terra d’origine, ha sempre sentito l’urgenza di una rottura, di una dissociazione netta rispetto all’estetica formale, alla percezione della forma e dello spazio, per azzerare tutto quello che aveva imparato e sperimentato in precedenza. Ricercava forme arcaiche, semplici e potenti, che venissero da dentro, dal profondo del suo animo, come messaggi decifrabili con un forte impegno di ricerca: “È così che decido di rigettare tutto e di partire dall’analisi di una forma semplice, essenziale: sono partito dal cubo”. Alla mostra di Milano Ohanjanyan ha partecipato con due opere: “Sculture della dissonanza”, dedicate alla musica, dove indaga il concetto di equilibrio della forma nello spazio. “Nel mio lavoro – ha detto – le ricerche sullo spazio e sulla forma sono sempre in relazione con l’essere umano”. È un concetto di nuovo umanesimo che l’autore cerca di definire attraverso proprie intuizioni e proposte formali. Nelle opere di Ohanjanyan è sempre riconoscibile questa matrice unitaria, la civile volontà di trasmettere messaggi positivi: di pace, di libertà, di tolleranza, di condivisione e solidarietà. C’è un’ansia di armonia e di bellezza che pare rivolta ad assicurare una speranza agli uomini, a tutti gli uomini di buona volontà, in questi tempi di grandi incertezze e di forti lacerazioni. Appare costante, del resto, in questo autore così sensibile e colto, la ricerca di un ritmo spaziale, la coniugazione di un equilibrio delle forme nello spazio, l’armonia tra vuoti e pieni, tra presenza ed assenza, con l’acquisizione di una prospettiva nuova in cui collocare le forme semplici della sua intuizione, quei cubi di marmo o di basalto uniti e deformati dalla tensione e dalle forze divergenti
che agiscono mediante la trazione di cavi tesi e ancorati a simboliche strutture essenziali. Dopo i successi di Parigi e di Londra, Mikayel Ohanjanyan ha realizzato in Armenia, nell’estate del 2017, un’opera monumentale dal titolo Le Porte di Mher, ispirata dall’epos armeno Sasna Tsrer (I folli di Sasun) dove si narra la storia di quattro generazioni di eroi e delle loro straordinarie imprese a difesa della libertà, della giustizia e dei valori morali. La leggenda ricomprende anche la tragica vicenda dell’ultimo eroe Pokr Mher che, sdegnato dalle ingiustizie che opprimono gli uomini, aprì e si chiuse dentro la roccia in cui era stata scolpita la Porta di Mher, nei pressi del lago Van, in attesa di uscire un giorno di nuovo alla luce, in un mondo migliore. L’opera è formata da quattro blocchi di basalto, che rappresentano i quattro punti cardinali. Ogni blocco a sua volta è stretto e quasi diviso in due parti da cavi d’acciaio, che deformano la pietra con una tensione dinamica innaturale e simbolica. Anche quest’opera – che richiama le scelte formali delle sculture più recenti – appare carica di una tensione non solo fisica ma anche psicologica, come ha sottolineato l’autore: sospesa tra il sogno e la materia, tra l’interiorità e l’esteriorità. Al centro della visione artistica e dell’ispirazione creativa di questo giovane artista c’è sempre l’essere umano con le sue aspirazioni e contraddizioni, con la sua energia capace di trasformare la realtà ma anche con le sue debolezze e il suo dolore. Per questo le sculture di Ohanjanyan tendono a dilatarsi in una dimensione cosmica, a ricercare l’equilibrio e l’armonia anche nelle dinamiche contrapposte delle forme nello spazio, che si ricongiungono e infine dialogano nella totalità dell’opera.
DI FLAVIO ARENSI
LA GLOBALIZZAZIONE COME VANTAGGIO CREATIVO
Roberto Fanari, Sei settembre duemilasedici, 2016, dimensioni ambientali
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Quando si ritiene che l’artista, come l’architetto, ma anche il poeta, debba attenersi con rigore a un preciso contesto di regione o luogo, si commette l’enorme fraintendimento di piegare lo sguardo in direzione del folklore più che dello sviluppo culturale.
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Mario Liguigli, veduta della mostra Rodin. Il marmo, la vita a Palazzo Reale di Milano, 2013
Nella contrapposizione sempre più aspra fra locale e globale si deve porre l’ampio tema dell’identità, che non significa soltanto la tutela o la riscoperta delle radici culturali della struttura sociale, ma s’identifica con una più ampia meditazione sull’uomo. Spesso l’architettura ha condotto la scelta sul materiale come valorizzazione del territorio di origine, in una sorta di difesa delle caratteristiche o del genius loci, a rivalsa del presunto svilimento condotto dalla tecnologia e dalla globalizzazione. In verità, nello stretto contesto artistico, i materiali – come il medium – passarono e passeranno sempre da un setaccio stretto di necessità e obblighi, da quello economico a quello di-
stinguente lo status symbol di certi prodotti rispetto ad altri, basti pensare al blu di lapislazzuli impiegato in pittura e sinonimo di grandi possibilità di ricchezza da parte delle committenze antiche. Quando si ritiene che l’artista, come l’architetto, ma anche il poeta, debba attenersi con rigore a un preciso contesto di regione o luogo, si commette l’enorme fraintendimento di piegare lo sguardo in direzione del folklore più che dello sviluppo culturale, né si pratica alcuna vera politica di salvaguardia delle tradizioni o delle culture. Le nuove possibilità di mercato, le frontiere ribassate e le dogane larghe, hanno permesso la veicolazione di tecnologie e prodotti più economi-
Deve infatti restare chiaro il primato dell’ingegno, dell’idea che sottende il manufatto e non la sua nota materiale.
disimpegno è andato di pari passo con la modifica del gradimento stilistico, potendo immaginare un giorno la sua riscoperta. Quello che tuttavia rimane è l’intento dell’artista, la sua volontà di comunicare un linguaggio che racconta per immagini, dunque la sua resa finale non può certo delimitarsi all’interno di una ristretta gamma di opzioni solo in virtù di una pretesa antimondialista. Altra cosa è invece riuscire a intuire il potere della propria tradizione e sottometterlo a un rinnovamento in grado di portarne i segni all’interno di un nuovo sistema linguistico, ossia un ammodernamento che mantenga tutta la vitalità della
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Augusto Perez, Testa d’uomo, 1960, bronzo, 56x23x23 cm (versione presentata alla XXX Biennale di Venezia, 1960), Collezione privata, Milano
ci rispetto al passato e non è sicuramente questo a svilire le opzioni artistiche. Deve infatti restare chiaro il primato dell’ingegno, dell’idea che sottende il manufatto e non la sua nota materiale. Se è vero che per le Piramidi di Giza i blocchi di granito venivano da ottocento chilometri di distanza, per essere poi rivestiti, oppure che le pietre e i preziosi per il Taj Mahal arrivavano da tutto l’Oriente, si comprende bene che il bisogno di individuare materiali locali è una falsa idea garantista se subordinata all’atto creativo. In Lombardia, per esempio, il cotto rispondeva a una modalità di gusto prima ancora che identificazione locale o facilità di reperimento, tanto che il
Lorenzo Palmieri, Giochi di bambini di Auguste Rodin (Rodin. Il marmo, la vita a Palazzo Reale di Milano, 2013)
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Non è pensabile che a svilirci sia l’intraprendere nuove forme di “mescolanza” culturale, perché alcuni artisti riescono a lavorare riferendosi a un mondo che sta prima di qualsiasi esperienza e in quello delineano i tracciati dei loro nuovi approdi.
storia. Difficile che la luce siciliana non abbia influenzato l’immaginario di Guttuso o quello di Guccione, come impossibile trovare le luci soffuse di Hammershøi nella pittura della Kahlo, ma il medium sfruttato è del tutto secondario. Piuttosto, la storia del secondo Novecento insegna che alcuni materiali precisi hanno trovato una loro avversione teorica da parte di alcune correnti artistiche in virtù del portato ideologico o ideale che a essi si attribuiva. Non di rado alcuni artisti degli anni Settanta hanno evitato o contestato il bronzo e il marmo come residuali di una temperie precedente assolutamente da avversare, salvo poi recuperarli nel tempo recente forse anche in risposta di una richiesta di mercato. Era difatti impensabile che i protagonisti dell’Arte povera potessero continuare lungo il percorso condotto da Vangi, Boldini, Perez e tanti altri autori impegnati in una sorta di mantenimento del linguaggio tradizionale, per questo accusati di accademismo. Capiscono che è tempo di recuperare – anzi liberare – le opzioni del materiale, i giovani autori che emergono negli anni Ottanta, quelli della Transavanguardia per esempio, e in particolare Paladino che torna a sfruttare le fonderie per rimettere in discussione un principio di
libertà totale e totalizzante. Quando Cragg ancora reperiva oggetti di plastica scartati per le sue colorate installazioni, gli italiani ritrovavano il senso di un’appartenenza alla storia dell’arte attraverso i materiali della tradizione non con intenti didascalici, ma per confermare un nuovo modello di indagine estetica. Che la pietra venisse dalle cave vicentine o fosse il tufo campano, per Paladino diventava importante il messaggio che scaturiva dall’immagine, piegando la tecnica e il medium al risultato. D’altra parte, anche un grande scultore come Rodin ricercava la pietra in base alle possibilità economiche dell’acquirente, talvolta truffandolo con l’uso di origine meno raffinata pur spacciandola per nobile, non certo per affinità protezionistica. Se il baricentro del problema fra quello che siamo e quello che saremo non è in che modo ci esprimeremo e con che mezzi, rimane fondamentale riconoscere che i confini entro i quali ci si deve muovere in ogni campo legato alla comunicazione dell’essere è la sua identità. Non è pensabile che a svilirci sia l’intraprendere nuove forme di “mescolanza” culturale, perché alcuni artisti riescono a lavorare riferendosi a un mondo che sta prima di qualsiasi esperienza e in quello delineano i traccia-
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Donato Piccolo, Sebastiano. The night owl, 2014, resina poliestere e gomma siliconica al platino, bracci meccanici, pennarello, sistema elettrico, courtesy Galleria Mazzoli, Berlino
Sta però in questo rimescolamento la possibilità di recuperare quello che la tradizione locale mette a disposizione, come vantaggio creativo e non svantaggio ideologico.
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In alto e a destra, Pasquale Palmieri, opere di Mimmo Paladino al Forte del Belvedere di Firenze, 1993
ti dei loro nuovi approdi. È il contenuto del messaggio che qualifica ogni espressione, la sua capacità di raggiungere il pubblico e convincerlo a un’adesione. La differenza rispetto al passato è la velocità con cui le culture si impastano e modificano, perché la tecnologia permette ai popoli di muoversi in maniera prodigiosa rispetto alle grandi migrazioni del passato. Sta però in questo rimescolamento la possibilità di recuperare quello che la tradizione locale mette a disposizione, come vantaggio creativo e non svantaggio ideologico. Sarebbe assai riduttivo ritenere che Noguchi non potesse usare il marmo di Carrara perché statunitense, così come implausibile pensare che certe pietre e certi colori siano a vantaggio solo di alcuni artisti. Nelle vetrate romaniche troviamo una prevalenza di verdi e gialli nel mondo germanico, di blu e rossi in quello francese, non per un pro-
blema di gusto, ma di reperibilità dei materiali in quel preciso periodo storico e sarebbe deleterio non avvantaggiarsi delle occasioni del nostro tempo, fin quando queste si intendano come secondarie rispetto al significato finale che si vuol trasferire. Per questo motivo il tema principale non è di che cosa ci serviamo ma chi siamo, perché nella rappresentazione della nostra esistenza troviamo la modalità migliore per sfruttare le risorse e le capacità. A metà degli anni Settanta il critico Gianfranco Bruno disegnò una mostra che da Rembrandt a Segal tracciava l’indirizzo identitario, che travalicava i confini, le storie locali, le loro tipicità per significare una situazione esistenziale entro i cui limiti ogni manifestazione rispondeva a un’esigenza collettiva, ossia si presentava. L’identità è un fatto di anima, non solo di costumi da indossare o pietre locali da sfruttare.
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DAMMI LA LUCE!
MICHELANGELO, MICHELANGELO,
DI GIANLUIGI COLIN
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Aurelio Amendola, La Pietà di Michelangelo, 1998
Come nessun altro ha fotografato la grande scultura di Michelangelo, Canova, Bernini. Le sue immagini sono riprodotte su tutti i volumi della storia dell’arte, il suo occhio certifica un modello di visione, quasi fosse una chiave per comprendere, davvero, lo stile più profondo di uno scultore.
Gianluigi Colin e Aurelio Amendola Foto di Nicola Gnesi
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C’è un autore, tra gli artisti italiani, che forse più di altri incarna l’identità della sua terra e al tempo stesso è capace di guardare all’universalità della creazione. D’altronde, basta sentire il suo accento da pistoiese doc e sentirlo invocare il suo vecchio compagno di viaggio ridendo: “Michelangelo, Michelangelo, dammi la luce…”. Non è una battuta: Amendola sente davvero il bisogno di parlare con Michelangelo. Con ironia lo ripete sempre: “È il mio angelo custode”. Amendola è così, diretto, autentico, irriverente. È come se in lui ci fossero due personalità: da una parte un uomo dal carattere solare, esplosivo, empatico. Un toscanaccio che gioca con le parole e che sembra non prendersi sul serio ironizzando su se stesso e sul mondo. Ma insieme, c’è anche un uomo di altissima professionalità, rigoroso, puntiglioso, esigente, severo. Quasi maniacale nel difendere la sua visione del mondo: una vera “disciplina dello sguardo”. Come nessun altro ha fotografato la grande scultura di Michelangelo, Canova, Bernini. Le sue immagini sono riprodotte su tutti i volumi della storia dell’arte, il suo occhio certifica un modello di visione, quasi fosse una chiave per comprendere, davvero, lo stile più profondo di uno scultore, il suo rapporto con la materia. E parlando di materia, Amendola ritorna alle origini, dove il marmo trova la luce:
ritornerà a fotografare le cave dell’Altissimo. Ma in primavera, con la luce giusta: “Vedi – dice parlando sottovoce – queste montagne quando cambia la luce ci parlano in modo diverso. Io prima di fotografare devo ascoltare la montagna. Mi metto lì e aspetto…”. Per tutte queste ragioni, per la sua passione, per la sua visione quasi mistica, per l’irrefrenabile entusiasmo e per la dedizione al lavoro, i più grandi direttori di musei e gli editori di libri d’arte vogliono lui, soprattutto lui. Nessuno come Amendola interpreta la materia del marmo trasformandola in qualcosa di vivo, di vibrante, una pelle delicata e sensuale da accarezzare con lo sguardo. Aurelio Amendola portando con sé il vento della letizia nell’arte, dona la magia dell’epifania, restituisce ciò che l’occhio non vede (ciò che talvolta non è proprio possibile vedere), ma soprattutto riesce a restituirci qualcosa di inconscio e non immediatamente percepibile: il senso del possesso. Guardando l’immagine di una “sua” scultura, sia il David di Michelangelo o le Grazie del Canova, si prova il privilegio di “possedere” l’idea stessa dell’invenzione, di poter quindi oltrepassare quell’aura di irraggiungibilità che accompagna ogni grande opera d’arte. Al museo della Galleria Borghese di Roma Amendola sta lavorando sulla scultura di Bernini. All’alba dei suoi ottant’anni (appena compiuti) il fotografo si muove con
l’entusiasmo di un ragazzo. Ha un assistente che lo segue e lo aiuta con devozione, ma è sempre lui a portare la valigia col banco ottico. Già, perché Aurelio è legato alla tradizione della fotografia: usa abitualmente una solida e pesante Sinar con lastre 4x5 cm, stampa personalmente le foto in camera oscura e si concede alla tecnologia solo per le scansioni e a rare stampe su raffinate carte di cotone. Si direbbe un uomo d’altri tempi, ma non è affatto così. Al contrario, è ben attento alle trasformazioni dei linguaggi e del gusto o meglio, come avrebbe detto Gillo Dorfles, ai modi e mode della moda. Amendola arriva puntuale alle 19, appena l’ultimo visitatore lascia uno dei musei più belli del mondo. Ci rimarrà sino alle due di questa notte. Attorno a noi, i capolavori del Rinascimento raccolti dal cardinale Scipione Borghese e oggi restituiti alla collettività: La Fornarina di Raffaello, l’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano, il Bacchino di Caravaggio, per fare solo qualche esempio. E al centro delle stanze, le meravigliose sculture della collezione. Quella celeberrima che ritrae Paolina Bonaparte di Canova, ad esempio, e molti altri capolavori del Bernini. Amendola entra spedito e senza perdere tempo, scherza col custode: “Sto cercando una signorina che si chiama Dafne. Sa dov’è?”. Per il fotografo è impossibile non scherzare: quel percorrere la vita con leggerezza e disincanto
Aurelio Amendola, David di Michelangelo, 2001
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Aurelio Amendola, Tre Grazie di Antonio Canova, 2008
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appare come un ingrediente essenziale del suo modo di vedere il mondo. Il custode sorride e accompagna il piccolo gruppo di fronte a una delle opere più intense di Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, realizzata dal 1622 al 1625, e che evoca la favola di Ovidio tratta dalle Metamorfosi. Apollo e Dafne sono davanti a noi. Come ricorda Thomas Mann: “Il mito è il fondamento della vita, lo schema senza tempo, la formula secondo cui la vita si esprime quando fugge al di fuori dell’inconscio”. Ed è per questo che il mito ci avvolge sempre e comunque. Lo sapevano bene gli artisti rinascimentali e lo sapeva benissimo anche Bernini: con questa scultura interpreta la storia di Apollo che a causa della vendetta di Eros è colpito da una freccia d’oro che lo fa innamorare d’incanto della bella Dafne, ninfa seguace di Diana. Anche Dafne viene colpita, ma da una freccia di piombo che rifiuta l’amore e chiede di poter cambiare sembianze. Eccola dunque fermata da Bernini nel momento culminante della metamorfosi: Dafne mentre si trasforma in un albero di alloro. Apollo raggiunge l’amata ma non riesce neanche a sfiorare il suo corpo già trasformato in albero. Una scena densa di poesia e tragedia. Da quel momento l’alloro entra nell’iconografia classica e apparirà come simbolo dell’arte e della poesia, di immortalità e gloria. Penso a come l’animo umano, soprattutto grazie alle arti, sia materia di narrazioni che superano i confini del tempo. E osservo con attenzione Aurelio al lavoro: guardo i suoi gesti, cerco di carpire i segreti di un maestro della fotografia. Perché Aurelio Amendola possiede una dote speciale, quella di conoscere l’Arte del racconto dell’arte. Da collezionista di “paesaggi interiori” Aurelio si ferma in uno stato di contemplazione. Poi, quasi a voler interrompere una magia troppo compassata, eccolo ritornare alla sua leggerezza: “Quel bucaiolo di Michelangelo sarà geloso che ora fotografo Bernini…” e giù una risata liberatoria, quasi a voler rendere più confidenziale la sacralità del luogo.
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Ma Aurelio, nonostante le battute, non perde mai la concentrazione, anzi. Non a caso, intorno a noi si fa subito un silenzio carico di tensione e promesse. Amendola vuole il buio assoluto: fa chiudere tutte le finestre, non vuole nessuna altra fonte di luce che non sia la sua. Non lascia nulla al caso. Lo vedo dare indicazioni rapide su come collocare le luci: due, tre lampade. Poi si ferma, osserva, sposta solo di qualche centimetro la posizione dell’illuminazione, più radente, meno radente, modella l’intensità, l’angolo, il punto dove la luce deve colpire. Sceglie solo due luci, una la tiene spenta. Non usa il flash, ma una fonte continua. E a poco a poco la scultura è come se prendesse vita. Amendola è un maestro dell’epifania. La sua più grande qualità è quella di far rivelare ciò che abitualmente è nascosto, quello che non riusciamo a vedere, quello che non riusciamo a comprendere. E allora, col timore di disturbare, chiedo: ma le luci le metti sempre nello stesso modo? Mi guarda come se lo avessi insultato. “Ma no, noooo… È la scultura a chiedermi la luce giusta e ogni volta è diversa… La maggior difficoltà è questa. Ogni artista scolpisce in modo diverso. Attraverso le luci, solo attraverso le luci, fai venir fuori il rilievo della scultura, la tecnica, la capacità di modellare la materia, il marmo in particolare. Se vai a vedere da turista il David a Firenze che cosa vedi? Una meravigliosa opera, è ovvio, ma solo con le luci si riesce a scoprire la sensualità che Michelangelo ha voluto regalarci. Solo con le luci”. Come ci insegna John Berger: “Il fascino della fotografia risiede nei suoi ingredienti: la luce e il tempo”. Ed è proprio nel controllo della luce e nel tempo, non tanto del tempo dell’otturatore, ma quello della meditazione dello sguardo, che la fotografia si rivela al mondo. È come se Aurelio cogliesse la sedimentazione di tutte le storie dell’arte e volesse cancellarne la stratificazione per ricominciare a ricostruire un nuovo senso. “Una brutta fotografia è una brutta scultura”, ripete dando alla voce un tono di assoluta consapevolezza. “Ogni volta che affronto uno scultore è come se cominciassi dacca-
immagini straordinarie, in cui emerge non solo l’opera nella sua eccezionale bellezza, ma soprattutto il nascosto, quello che noi non possiamo e non potremo mai scoprire: il dettaglio della forma, la morbidezza del marmo che si trasforma in carne viva, la tensione dei muscoli, le vene, e poi la dolcezza dello sguardo della Vergine, l’intenso volto del Cristo. Ma torniamo al suo modo di fotografare: “La pelle: credo che per Aurelio Amendola il punto focale, la difficoltà più grande, sia «capire» la pelle”, ha scritto lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle. Ed è vero: Aurelio riesce a regalare uno sguardo oltre l’invisibile. Lo ricordava anche una grande autrice come Diane Arbus: “Una fotografia è un segreto intorno a un segreto: più rivela e meno lascia capire”. Ebbene, Aurelio Amendola, soprattutto nel fotografare la Pietà, costruisce una scrittura fatta di ombre, di rivelazioni e di oscurità, quasi a volerci dire che anche la nostra vita è un insieme di luci e ombre. Ma Aurelio, visto che con Michelangelo ci parla tutti i giorni, sembra aver avuto qualche suggerimento di prima mano: è come se l’autore di quella straordinaria scultura dove la giovinezza della Madonna diventa potente dichiarazione teologica a prova della purezza e dell’immacolata concezione, abbia indirizzato l’amico pistoiese a rivelare la mano sul drappo, il profilo perfetto della Vergine, la struggente perfezione del volto di Gesù morto. Insomma, è come se Michelangelo avesse davvero guidato lo sguardo che il grande Vasari descrive così: “Alla quale opera non pensi mai scultore, né artefice raro, poter aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finitezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte”. Aurelio Amendola è un grande leone della fotografia, ma soprattutto è un toscanaccio burlone: io non so se davvero parla con Michelangelo. So soltanto che è un maestro. E che riesce, come nessun altro, a restituirmi l’emozione del vedere oltre il visibile. E so anche che, come ricorda Hermann Hesse: “Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”.
Aurelio Amendola in studio Foto di Nicola Gnesi A sinistra Aurelio Amendola al lavoro
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po. È la scultura che mi dà le luci. Ogni scultore ha un corpo differente. Michelangelo ha una grande sensualità. Bernini è più raffinato, più complesso. La schiena di Michelangelo non è la schiena di Bernini. Ma lo stesso vale anche per gli artisti contemporanei: penso a quando ho fotografato le opere di Pablo Atchugarry ai Mercati Traianei, penso a Pietro Cascella, ma anche a vecchi lavori con cui ho cominciato a fotografare la scultura, a Jacopo della Quercia, Giovanni Pisano, Marino Marini. Sono stato fortunato: ho cominciato a fotografare pietre e gessi e ora sono qui, di fronte a Dafne e Apollo”. Amendola ora si fa serio. Guarda intensamente la scultura: “È difficilissima! Una scultura piena di dettagli preziosi, ricca di frammenti sottili, è necessario far vedere le trasparenze delle foglie, mi chiedo come sia riuscito Bernini a creare questo effetto con il marmo. Un genio assoluto”. “Il colore dedrammatizza, il bianco e nero è più carico di sensi”, ricorda Jean Baudrillard. Forse per questo il suo vero linguaggio è il bianco e nero. La vita di Aurelio Amendola è una vita in bianco e nero. Il bianco e nero in fotografia evoca la memoria. La memoria delle immagini si deposita in noi ed è quella a cui leghiamo i sentimenti. Per questo guardando le foto in bianco e nero di Amendola proviamo un sentimento che ci riporta a una storia vissuta, a un senso di appartenenza, di identità e quindi di legami profondi. “Quali sono le sculture che amo di più? Sarà banale, ma la Pietà di San Pietro e la Pietà Rondanini: sono le mie preferite. Resto sempre incantato di fronte a questi due capolavori: penso all’età di Michelangelo quando l’ha scolpita: 23 anni. Penso alla sua potenza visionaria, al suo coraggio. E penso alla Pietà Rondanini: l’ha fatta alla fine, arrivando ad anticipare l’arte del nostro tempo. Ma poi, come si può mai scegliere? È come decidere tra donne bellissime…”. Non a caso in questi giorni Amendola è tornato a San Pietro su cui ha fatto recentemente un libro raffinatissimo per Franco Maria Ricci. È tornato, mi confessa, a rivedere uno dei suoi amori: la Pietà di Michelangelo. Su questa scultura ha realizzato
DI TURAN DUDA
ARAZZO DI TRAVERTINO P
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Il 601 di Massachusetts Avenue, un palazzo triangolare facente parte del progetto architettonico del 1792 di L’Enfant per Washington DC, è diventato sia fonte che ispirazione per riuscire a integrare arte e architettura. Le costrizioni date dalla forma cuneiforme dell’isolato hanno creato una configurazione particolare, con struttura a “L”, che ha portato a singolari vantaggi in termini di efficienza per quanto riguarda tutti i piani dell’edificio. La
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geometria di linee diagonali e ortogonali che si intersecano in piano, inoltre, ha definito naturalmente un atrio triangolare intagliato nel cuore dell’edificio. Una parte dell’ingresso è alta circa sei metri e mezzo, mentre l’altra è alta dieci piani. Insieme creano un ambiente unico in grado di armonizzare le due diverse altezze. Unificare questi due spazi in un intervento architettonico è stata una sfida importante e il travertino romano ha
A sinistra, 601 Massachusetts Avenue, schizzo Le vie della luce di Giovanni Balderi nella hall dell’edificio Foto di Robert Benson Photography
mento particolare, un filo diamantato su due ruote, riuscendo così a realizzare qualsiasi forma curva. “Vedere quei macchinari e la loro tecnologia”, ha detto Duda, “mi ha fatto pensare a come avremmo potuto trasformare, attraverso mezzi molto semplici, il travertino in qualcosa di fluido, lirico e molto simile al tessuto”. I designer di Duda|Paine hanno fabbricato un piccolo mockup del muro in legno, per mettere a punto la sua forma. Una volta sviluppata l’ultima replica, questo piccolo modello è stato utilizzato per creare un prototipo digitale tridimensionale. Per tagliare le forme curve del muro e dunque definire il percorso che avrebbe dovuto fare il robot, Henraux ha utilizzato il modulo digitale. Questo uso combinato di artigianato e tecnologia digitale offre numerose possibilità a designer, architetti e artisti. Tuttavia, la vera opera d’arte, per Henraux, è stata realizzare la sequenza dei blocchi di marmo in modo da creare una continuità visiva della pietra su più pareti. “Non è stata un’impresa facile”, ha detto Duda. “Ha richiesto molta abilità, soprattutto nel definire la sequenza dei materiali in modo tale che l’atrio ne uscisse fuori come se fossimo letteralmente andati in una cava e avessimo scavato un’intera stanza da un unico blocco di marmo. Oggi, nonostante qualsiasi cosa possa essere automatizzata e realizzata con un computer, c’è ancora bisogno dell’occhio umano. Il processo di creazione richiede ancora una conoscenza del materiale, delle sue capacità e delle sue possibilità espressive. Henraux riesce a distinguersi tra gli altri grazie alla base storico-culturale che dà ai suoi lavori. Hanno realizzato sculture per Henry Moore, Jean Arp e molti altri artisti contemporanei, i quali si sono presentati con un piccolo prototipo di argilla chiedendo a Henraux di produrlo su più scale. Henraux aveva una vasta conoscenza dei materiali e una forte consapevolezza del lavoro di questi scultori. Hanno sempre avuto anche artigiani in grado di prendere le informazioni fornite da un modello e tradurle in pietra. Ma, per trent’anni, quest’arte era andata perduta. Quando Paolo Carli ha rilevato la società, ha detto: ‘Questa è una
Paolo Carli di Henraux ci aveva mostrato questo travertino romano, chiamato Renna, che ha delle linee sedimentarie orizzontali molto forti e distintive. La cosa più drammatica che uno può fare con la linearità è piegarla, distorcerla, avvolgendola in pieghe come se fosse una tenda.
In alto, 601 Massachusetts Avenue, schizzo A sinistra, particolare della parete con la “tenda di pietra” Foto di Robert Benson Photography
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fornito la giusta soluzione. “Ho voluto stendere una magnifica trama tra le tre pareti dell’atrio, per creare un collegamento tra due volumi molto diversi”, ha detto il direttore del progetto, Turan Duda (FAIA) della Duda|Paine Architects. L’ingresso presenta due distinti momenti esperienziali: uno appena si entra dalla strada, l’altro uscendo dall’ascensore. L’asse dei due percorsi si incontra in un punto della hall contrassegnato da una scultura in marmo bianco dell’Altissimo di Giovanni Balderi Le vie della luce, alta circa sei metri. L’installazione artistica impone alle persone di girarle intorno, dando l’idea di avere una sorta di punto di riferimento all’interno dello spazio. All’altro capo dell’atrio, a far da contrappunto alla scultura, si ha il passaggio tra la parte bassa dell’ingresso e quella alta. Anziché collocare un altro oggetto scultoreo, Duda ha visto la possibilità di fondere arte e architettura. “Ho pensato di far sì che la parete diventasse l’opera da osservare”, ha detto Duda. “Volevo che il muro diventasse un’opera artistica in grado di attirare l’attenzione. Paolo Carli, all’Henraux, ci aveva mostrato questo travertino romano, chiamato Renna, che ha linee sedimentarie orizzontali molto decise e particolari. La cosa più drammatica che si possa fare con la linearità è arcuarla, curvarla, piegarla come fosse una tenda. Usando un singolo blocco nella cava, le striature potevano continuare tutto intorno allo spazio dell’atrio, da un’estremità all’altra, come la trama lineare di una stoffa. Quindi, abbiamo trattato la pietra in modo da farla quasi diventare un tessuto, facendola apparire come se avesse l’ondulazione delle linee. Abbiamo creato una tenda di pietra”. Il risultato è una serie di pareti che ondeggiano in grandi onde intorno all’ambiente dell’ingresso. Realizzare questa impresa estetica richiedeva specifiche abilità, capacità ed elevata sensibilità artistica. Duda|Paine ha intrattenuto una lunga collaborazione con Henraux a Querceta, in Italia, e ha capito che gli artigiani di Henraux avrebbero potuto trasformare un loro progetto in realtà. Henraux, per tagliare la pietra su qualsiasi asse, utilizza uno stru-
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Lo schizzo del panneggio di travertino
parte importante della nostra eredità’. Ed è stato proprio Carli a riportare in vita l’eredità di Henraux”. Per Duda|Paine (con sede a Durham, North Carolina), l’arte è un aspetto essenziale nella creazione degli ambienti, così come l’intesa tra due eminenti collaboratori. “Avere un’azienda partner come Henraux nel processo di progettazione è davvero essenziale, indipendentemente dal materiale”, ha detto Duda. “Tuttavia, quando si parla di marmo, nessuno comprende davvero il processo di creazione, che ha una relazione simbiotica con l’architettura. Henraux, invece, riesce a farlo. Anzi, è proprio la cosa che riesce a fare meglio”. Trentacinque anni fa, quando Duda|Paine e Henraux iniziarono a collaborare, la lavorazione del marmo era ancora artigianale, con maestri che scolpivano il materiale per ricavarne una forma. Ora, a causa del tempo impiegato e dell’enorme fatica, un robot esegue la maggior parte del lavoro di intaglio, e solo l’ultimo dieci-quindici per cento è lasciato all’artigiano. Per la scultura di Balderi nel progetto dell’edificio al 601 di Massachusetts Avenue, la maggior parte del marmo è stata rimossa con un braccio robotico, mentre la parte di rifinitura a mano è stata eseguita dall’artista. “Per Henraux preservare l’opera d’arte ha importanza quanto l’aspetto imprenditoriale. Carli vuole mantenere uno stretto legame tra arte e architettura. L’architetto,
o l’artista, in questo senso, può anche immaginare e disegnare progetti per tutto il giorno, ma se qualcuno con le competenze giuste non ne realizza le idee, queste sono costrette a rimanere solo visioni su carta”, ha detto Duda. “Prima è stato fatto un bozzetto iniziale del luogo, poi si è arrivati a decidere la forma dell’edificio e infine, una volta definito l’atrio, è stato realizzato uno schizzo della parete. L’ispirazione per il muro è nata dalla necessità di creare una soluzione per lo spazio di una parte dell’ingresso. Diversamente, sarebbe sembrato vuoto”. Anche se il marmo della regione viene utilizzato sin dai tempi di Michelangelo e della famiglia Medici, questa nuova tecnologia di intaglio ha reso possibile la creazione dell’atrio del 601 in Massachusetts Avenue. Per Duda, il design della hall al piano terra rientra nell’esperienza del passeggiare per le città osservando l’ingresso degli edifici. “Quando vedo un oggetto d’arte nell’atrio di qualcuno, penso che il proprietario o il progettista sia una persona di larghe vedute. Un’opera artistica comunica informazioni sull’azienda, sulla società, sul fatto che essa giudichi importante possedere un pezzo artistico nel proprio ambiente di lavoro. Comunica che il fine di quell’azienda non sta solo nella produzione e nel commercio, ma anche nel dare grande valore all’esposizione di opere d’arte al pubblico”.
Il rivestimento in marmo realizzato Foto di Robert Benson Photography
Particolare dall’opera “Egologo”, ideata da Piergiorgio Valente e realizzata da Renzo Maggi su marmo bianco Altissimo della Henraux. Fotografia di Nicola Gnesi, per concessione di Piergiorgio Valente
DI PIERGIORGIO VALENTE
IL MARMO E L’(IN)SOSTENIBILE LEGGEREZZA R
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FOTOGRAFIE DI NICOLA GNESI
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materia? Hegel aveva infatti scritto una storia dell’umanità attraverso la storia dell’arte. Fecondando di spirito la materia, aveva dipinto un grandioso affresco, un’opera d’arte filosofica che metteva in forma le infinite particolarità della storia dello spirito umano. Le sue lezioni sull’Estetica sono in effetti un capolavoro di sintesi in una figura.
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Nel contesto degli anni ’80 si interpretava L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera nel senso di una certa spensieratezza italiana. Che la leggerezza risultasse insostenibile non era considerato un problema. Occorreva essere leggeri proprio perché non si aveva bisogno di sostegni forti, di grandi narrazioni, di riferimenti a fondamenti ultimi. La leggerezza è insostenibile perché non chiede di essere sostenuta, si diceva. Non v’è bisogno di giustificarla, di legittimarla, di appoggiarla su qualcosa di stabile come si fa invece con le cose pesanti. Il postmoderno è proprio questo, no? Se poi Kundera voleva essere greve come i cieli boemi, e mostrare che la vita leggera non evitava quel peso specifico che ci fa ruotare in tondo, avvitare e andare a fondo, peggio per lui. Noi in Occidente volevamo cercare una nuova sintassi orizzontale, che evitasse le antiche trivellazioni nelle profondità dei fondamenti, per accedere a un giocoso e liberante legame con i messaggi della tradizione.
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Nella sua storia dell’arte (Estetica, ediz. it. a c. di N. Merker, Einaudi, Torino, 1997), Hegel riusciva a configurare l’intera storia dell’umanità secondo una linea che procedeva dalla immediata pesantezza materiale verso la lieve e agile mobilità dello spirito. Era la storia dell’emersione dell’intelligenza che media, interpreta e trasforma
l’immediatezza della natura. Su questa linea Hegel non svolgeva una storia per così dire ontica delle opere d’arte, con i loro dati puramente storici e materiali, su quando sono state realizzate, sui riferimenti interni, gli influssi. Ogni opera d’arte per Hegel era un microcosmo che racchiudeva il rapporto della sua epoca tra l’intelligenza e il mondo. E la storia dell’arte occidentale era la storia di una conoscenza che pian piano penetrava il mondo, fecondando di significati la sua pesante materia inerte. La quale pertanto si faceva animata, spogliando il suo carattere sensibile dell’impalcatura della semplice materialità. Perciò le epoche dell’arte procedevano da un prevalere della materia alla sua spiritualizzazione da parte dei significati. Non era forse una perfetta comprensione del passaggio poi compiutamente avvenuto negli anni ’80 del Novecento, dalla società del carbone e dell’acciaio, e del clangore dell’officina, alla società della ovattata comunicazione digitale, della rappresentazione spettacolare e della finanza, in cui si transita da un mondo di cose a un mondo di astratti segni delle cose? Hegel era appunto il pensatore del prevalere dell’astratto sul materiale concreto. E aveva descritto questo processo attraversando lui stesso la progressiva spiritualizzazione della materia, grazie al talento figurativo del suo pensiero: grazie a un modo artistico di fare filosofia. L’arte non immette forse significati nella
Come si presentava il quadro generale della storia dell’umanità visto attraverso gli eventi della storia dell’arte? Si trattava di una storia naturalmente tripartita, secondo il ritmo ternario del pensiero di Hegel. Il primo momento era sempre il momento del qui presente, il secondo era il momento del lì davanti, il terzo era il momento del là fuori. Erano le espressioni spaziali dei pronomi personali: Io, Tu, Egli. La – testarda – convinzione personale dell’Io, il confronto con un Tu che ti contraddice e ti dà torto, e infine la sfera del Terzo che può svolgere la funzione del testimone tra i due litiganti circa la definizione della verità. Il primo momento della storia dell’umanità era quindi il momento della prevalenza della presenza immediata della materia, con la sua pesantezza imponente. Era il mondo dell’arte simbolica, pre-classica, che trovava nell’antico Egitto la sua espressione più tipica, e nell’architettura la sua forma appropriata. Era un mondo di pietra, del quale i significati potevano al massimo grattare la superficie, negli infiniti geroglifici a nastro: ma quei significati non riuscivano a penetrare nella profondità della materia, per possederla, e ritornare poi a riemergere sui suoi pori vivificati. La grande massa rimaneva estranea alla mobile attività di significazione, proprio come il geroglifico rimane estraneo alla agile modularità della scrittura alfabetica. I significati rimanevano esteriori rispetto alla materia, proprio come le gigantesche statue dei Memnoni venivano fatte risuonare dall’esteriorità della luce del sole invece che dall’interiorità della luce del logos. L’arte simbolica è l’arte con la quale si costruiscono recinti (edifici) che alludono soltanto, in maniera esteriore, a un significato che sta là dentro, all’interno, e non
della statuaria marmorea, la quale raffigura individui sempre più particolari e accidentali. Il taglio classico del marmo è sempre un equilibrio tra la sostanzialità dell’universale e l’individualità dell’eroe. Sin dall’inizio il marmo è stato al servizio dello spirito che prendeva coscienza di se stesso, cercando un nuovo equilibrio tra il conosci te stesso del tempio di Delfi e l’appartenenza all’universalità della polis che custodisce i significati depositati. Non è strano che il marmo abbia dovuto di nuovo interrogare se stesso in epoca contemporanea, al termine di ogni neo-classicismo, cioè dopo l’estremo recupero del mondo classico operato dal fascismo. Solo allora il marmo è entrato davvero nella terza epoca dell’arte, quella che Hegel chiama romantica. In essa infatti viene meno, sempre più, l’equilibrio classico tra l’individuale e il sostanziale. Addirittura, la materia sensibile, nella sua pesantezza, diviene più indifferente, e viene in primo piano il significato che si vuole esprimere nell’opera d’arte. L’esteriore materia sensibile, nella storia dell’arte, si alleggerisce, si spiritualizza, si ritrae a favore dell’imponderabile dimensione del significato, che prende il sopravvento.
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Come si declina la leggerezza del marmo? Il design ha affrontato questo compito singolare, insieme a un’arte plastica emancipata dall’equilibrio greco tra il significato e la forma sensibile. Nell’età del globo dal tempo compatto, la leggerezza dello spirito tende a sublimare lo stato solido della materia nello stato gassoso dei segni e del loro flusso: nella comunicazione digitale, nelle pulsazioni finanziarie, nell’e-commerce. Ma si può sublimare il marmo? Il nuovo equilibrio formale dell’arte, in questa età dell’astrazione compiuta, sembra richiedere un percorso inverso rispetto al primo taglio. Non si tratta più di immettere intelligenza nella materia, ma semmai di dare corpo all’astrazione dei segni, e di dare forma alla loro nuova forza. In questo contesto è avvenuto il secondo taglio del marmo, dopo il primo dell’arte classica: il taglio contemporaneo del marmo fa prendere distanza dal recinto simbolico e dalla sua pretesa di rappresentare senza resti, in modo saturo, la realtà. In questo senso, l’estrazione dall’Al-
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viene esplicitamente in luce. Il significato della piramide non era forse la tomba, che stava muta e nascosta, sottoterra? Era un mondo nel quale la pesantezza della pietra conosceva, nelle piramidi, tagli di puro volume, e non di forma. Se la forma era il portato della coscienza, il simbolismo dell’architettura egizia era allora incosciente. La successiva architettura greca apparteneva sì all’universo simbolico, ma nel taglio del marmo si avviava già alla configurazione della forma individuale. Si avviava cioè a costruire recinti che non alludevano a un significato che rimaneva sottoterra come una tomba, muto come un animale, enigmatico come un felino. Il recinto del tempio greco circondava infatti la statua del dio nel suo venire a manifestazione nella sua configurazione individuale, alla luce del logos. Ecco il primo taglio: il momento dell’arte classica, che trova appunto nella scultura la sua forma d’arte più esplicita, e la sua acme nell’epoca classica dei Greci – l’Atene di Pericle del V secolo. Nel tempio greco, si fa allusione a un significato che sta là dentro, ma questa volta non più nascosto sottoterra, impenetrabile al significato come l’enigmatico mondo egizio. Il significato adesso è la statua del dio che sta bensì nella cella dei penetrali del tempio, ma che adombra la sua presenza attraverso la porosità tra l’interno e l’esterno, nel recinto pieno di varchi delle colonne. Lo spirito greco è sempre lo spirito del venire alla luce a partire dall’oscurità. Qui il marmo viene tagliato per dare una forma esplicita, non per sostanziare un muto volume. Con questo taglio si prende distanza dalla presenza immediata, qui, e ci si guarda per così dire dall’esterno, come farebbe un tu. E come si sa, solo uno sguardo dall’esterno configura una forma. Nei fregi, nelle metope e nei triglifi, nelle cornici, negli architravi, nelle colonne e nei capitelli, il taglio del marmo è già una scultura che prende distanza dalla presenza immediata della materia, e si avvia verso la forma individuale persino quando è un semplice materiale di rivestimento. In epoca ellenistica, e poi in tutte le riprese del classico, il blocco marmoreo di rivestimento esprime la solidità sostanziale che funge da bilanciamento e controcanto
Quando si dà a un grosso blocco di marmo la forma sinuosa di un sacchetto di carta, di un nastro flessibile, di una spugna o di un corallo, si ricerca nella “materialità dell’invisibile” la nuova sostanzialità di un’epoca che fa evaporare tutti gli antichi riferimenti sostanziali.
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tissimo dell’Henraux (il monte del sogno di Michelangelo “così ripieno di marmi in tutte le parti che ve n’è da cavare fino al giorno del Giudizio”) offre una metafora perfetta, per uscire dalla rappresentazione di un Senso che garantisca un ordine a tutto tondo. Si tratta di un taglio che non decide più una presa di distanza dalla dura e pesante materialità dei blocchi delle piramidi: non è più un taglio di mera spiritualizzazione della materia, per prendere distanza dalla legge materiale della biologia, del sangue, del ciclo della natura. Non è più soltanto un taglio che interrompe il ciclo vendicativo della natura, che fa morire quanto ha fatto nascere. Il secondo taglio del marmo non è solo per introdurre il conosci te stesso di Edipo contro l’animalità della Sfinge: non è solo per introdurre la legge della polis, come legge meno sanguinaria di quella della terribile Madre Natura generatrice. Il secondo taglio, attuale, del marmo introduce qualcosa di radicalmente innovativo. Ci espone a un’esteriorità, a una protuberanza scandalosa, che procura un inciampo al procedere normale delle cose nella
loro gravità, dalla presenza alla scomparsa, dal corpo al loro segno di memoria.
marmo hanno qualcosa da dire, al riguardo?
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Se non vi è materia sensibile, non vi è arte, e il marmo è il rappresentante storico-artistico della materia sensibile. Ma proprio per il suo essere storico-artistico, l’insostenibile leggerezza del marmo non ripresenta in modo tautologico la materia organica nella sua qualità originaria, alle origini del cosmo, come la materia informe prima dell’azione del Demiurgo. Quando si dà a un grosso blocco di marmo la forma sinuosa di un sacchetto di carta, di un nastro flessibile, di una spugna o di un corallo, di un seme a elica, di un morbido cuscino, si ricerca nella “materialità dell’invisibile” ovvero nella voluttuosità delle frappe plastiche la nuova sostanzialità di un’epoca che fa evaporare tutti gli antichi riferimenti sostanziali. Si ripropone la questione di ciò che ci sorregge come membri di una società dotata di un progetto politico, nell’epoca dell’astrazione compiuta, dei flussi digitali globali di informazioni e denaro che mobilitano persone e merci. Le paradossali forme leggere del pesante
Le forme con cui rappresentiamo il mondo non sono nell’interiorità della mente, ma sono là fuori. Le forme appartengono alla vita del mondo, sono concetti che si vedono, anche se si tratta di una percezione sui generis, non riducibile ai dati sensoriali. Ci si aprono in un’esperienza di rottura delle nostre abitudini e delle nostre aspettative, nell’incontro con una esteriorità traumatica che possiede qualche tratto del corpo. In questo impasto tra logos e fisicità, tra l’elemento normativo e il costituente somatico, sta il dono decisivo della sorprendente dimensione contemporanea del marmo, che si fa vita nelle stupefacenti creazioni dell’artista-uomo.
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Può una statua raccogliere in sé il senso dell’esistenza? Inscrivere nel corpo suo la cifra, il pathos e il climax? E, animata, lasciar trasparire il suo significato spirituale, trasposto dall’umana intelligenza sui pori del marmo?
che fa girare il ciclo di negazione del tempo e che sviluppa la tecnica, avviando il viaggio interstellare del Pioneer. È il messaggio dell’umanismo, attraverso il culmine della tecnica spaziale, e dei segni iscritti su quella piastra d’oro, come geroglifici allusivi, in attesa dell’intelligenza di civiltà aliene. La sonda spaziale del Pioneer – incisa sull’EgoLogo – è il messaggio del Logos, nel viaggio misterioso che – col nostro Ego – intraprendiamo come alieni, che proseguiamo come guerrieri e che desideriamo concludere come saggi. Rispetto al mondo della perfetta armonia pitagorica a tutto tondo, l’EgoLogo ci dice che l’idealizzazione del mondo classico è il sogno di ciò che non è. Proprio in questo consiste l’idealizzazione: nella prosecuzione indefinita della presenza fisica in una forma che non conosca corruzione. L’EgoLogo è qualcosa di altro da un segno di memoria. Se dovessimo rappresentare in una statua la nostra condizione spirituale, gli antichi simboli della presa di possesso di noi stessi porterebbero
dentro di sé il travaglio della nascita di qualcosa di nuovo.
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A conclusione di queste brevi note desidero ringraziare tre amici cari. Renzo Maggi, che rappresenta i sogni del marmo nel mondo dell’uomo e realizza i sogni dell’uomo nelle cose del marmo. Luca Bagetto, che interpreta i segni del marmo nelle cose dell’uomo e i sogni dell’uomo nei segni che nel marmo ci scrivono dentro. Paolo Carli, che (ri)produce i sogni dell’uomo e i segni del marmo e li sa vivere entrambi con la leggerezza dell’essere. Per lui – artista e imprenditore – l’orizzonte non è mai chiuso: è orientato lungo un vettore di uscita dallo stato di fatto, verso l’apertura dello spazio e del tempo, verso la sfida, verso un punto di fuga oltre le colonne d’Ercole. E tutti insieme siamo protesi verso l’ulteriorità di quanto ancora non si vede. Ma che sappiamo esistere invisibile racchiuso nel marmo.
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E ancora farne esperienza propria, e vivificarla nella fusione di materia e anima, nel marmo creato da tempo e pressione? E personificare così l’Ego e il Logo? Sintetizzare l’insieme dell’esperienza, l’inizio nel suo essere, l’evoluzione nel suo farsi, la parabola nell’adolescenza e la prospettiva, nel crescere nobile e nel lento ritrarsi, lungo il crinale declinante verso l’Occidente e la notte? Oggi sappiamo che l’Io non è più padrone a casa propria e che il legame logico posto tra le cose non ha più i tratti del rispecchiamento di una realtà che stia là fuori. Gli antichi termini ultimi dell’esperienza sono stati revocati in dubbio. Una statua – quella perduta dell’EgoLogo – potrebbe rappresentare la memoria di quel che non siamo più, il segno del ricordo interrotto dal tempo passato, e dell’attesa di quel che possiamo diventare. L’EgoLogo è la nostalgia di una padronanza che non abbiamo più: il simbolo problematico di una mano che si impadronisce della verità dell’umano e la difende. Ne afferra l’essenza. È la mano
SB DAI PATTERN AL MARMO P
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SCHOLTEN & BAIJINGS
Un percorso visivo illustra il percorso progettuale che ha portato Scholten & Baijings a lavorare con il marmo, in collaborazione con Luce di Carrara e Itlas, azienda italiana specializzata nell’uso del legno massiccio e naturale. I pattern, utilizzati dai designer olandesi sui più svariati supporti – dai tessuti, al legno, alla ceramica – e diventati loro cifra stilistica, vengono qui applicati al prezioso materiale lapideo per realizzare una linea per il bagno composta da cassettoni, pensili a specchio, lavabi e ripiani. Un telaio in alluminio brevettato, pannelli in legno a incastro e la nuova “Marbled Pattern Series” danno vita a un progetto raffinato e armonioso, reso possibile grazie all’esperienza, all’artigianalità e alle tecniche all’avanguardia di Luce di Carrara e di Itlas.
BLOCKS & GRID SCHOLTEN & BAIJINGS FOR MAHARAM Photography Scheltens & Abbenes
COLOUR WOOD SCHOLTEN & BAIJINGS FOR KARIMOKU NEW STANDARD Photography Scheltens & Abbenes
SOLID PATTERNS SCHOLTEN & BAIJINGS FOR LUCE DI CARRARA Photography Scheltens & Abbenes
SOLID PATTERNS SCHOLTEN & BAIJINGS FOR LUCE DI CARRARA Photography Scheltens & Abbenes
MARBLED PATTERN SERIES ‘Stripe’ Versilys - White filler SCHOLTEN & BAIJINGS FOR HENRAUX
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BATHROOM PROJECT ‘Stripe’ Versilys - White filler SCHOLTEN & BAIJINGS FOR LUCE DI CARRARA AND ITLAS
MARBLED PATTERN SERIES ‘Dot’ Arabescato Cervaiole Black filler SCHOLTEN & BAIJINGS FOR HENRAUX
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BATHROOM PROJECT ‘Dot’ Arabescato Cervaiole - Black filler SCHOLTEN & BAIJINGS FOR LUCE DI CARRARA AND ITLAS
DI JEAN BLANCHAERT
PREMIO HENRAUX: L’ARTE COME RESPONSABILITÀ R
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Quando da bambini venivamo condotti al mare a Poveromo, ai Ronchi di Massa, per le vacanze estive, ogni volta ci stupivamo, mio fratello e io, nel vedere la neve, nel torrido agosto, attaccata alle montagne. Nonostante sapessimo dai genitori che era marmo, questo stupore si rinnovava ogni volta, proprio come nel caso dello spettatore naïf di cui parla il drammaturgo Alessandro Fersen, quello spettatore che ha paura, si commuove e ride, anche quando guarda un film per la quinta volta.
La neve perenne delle Alpi Apuane sarà sempre lì ad accoglierci, a pochi chilometri dalla spiaggia dove la gente si gode il meritato riposo estivo. Dall’alto – nelle brevi pause – bennisti, cavatori, fillisti, gruisti, autisti, danno ogni tanto un rapido sguardo al mare e alla spiaggia con gli ombrelloni per tornare subito alle loro nevi perenni fatte di marmo, in un paesaggio unico che a una prima occhiata sembra più lontano del Tibet. È qui, sulle pendici del Monte Altissimo, che da più di cinquecen-
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Jean Blanchaert Foto di Nicola Gnesi
Kim De Ruysscher, Canotto, 2016 Foto di Nicola Gnesi
Daniele Guidugli, Moby Dick, 2016 Foto di Nicola Gnesi
Mat Chivers, Newave, 2016 Foto di Nicola Gnesi
stantino Paolicchi sono stati preziosi amici e consulenti di Paolo Carli sin dagli albori di questa impresa. L’obiettivo era di riportare nelle accademie, fra gli scultori, fra i designer, fra gli architetti, l’abitudine di pensare in marmo. L’impresa poteva apparire utopica: riproporre il marmo nel suo ruolo di grande protagonista come medium dell’arte contemporanea. La parola medium va letta nelle due accezioni del termine: sia nel suo significato strettamente etimologico cioè mezzo attraverso il quale ci si esprime, sia nella sua accezione esoterica, interpretare in marmo l’inconscio della difficile realtà di oggi. Per la prima edizione del Premio, della quale ho avuto l’onore di essere segretario generale e coordinatore, Paolo Carli e Philippe Daverio, presidente della giuria per le prime tre edizioni, decisero di nominare diciassette Giurati, poi definiti “Accademici”, che a loro volta avrebbero segnalato un artista adatto a confrontarsi con il blocco di venti tonnellate di marmo dell’Altissimo. È nata così l’“Accademia dell’Altissimo”, definita da Philippe Daverio una “consulta di dotti Accademici” composta da nomi importanti del mondo dell’arte, del giornalismo, dell’architettura, del collezionismo.
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L’obiettivo era di riportare nelle accademie, fra gli scultori, fra i designer, fra gli architetti, l’abitudine di pensare in marmo. L’impresa poteva apparire utopica: riproporre il marmo nel suo ruolo di grande protagonista come medium dell’arte contemporanea.
to anni i grandi scultori vanno a scegliersi i marmi per le loro opere, molte delle quali sono diventate capolavori noti in tutto il mondo. Giunto nei laboratori, il marmo verrà trattato dagli sbozzatori, dagli scalpellini, dai rifinitori, dagli ornatisti, dai pannisti e anche dagli ingegneri programmatori di quei robot che al giorno d’oggi hanno la capacità di rendere tridimensionale un disegno. Non dimentichiamo che il grande regista di tutte queste operazione resta lo scultore, colui che firmerà l’opera. Paolo Carli, presidente di Henraux, ispirandosi a Erminio Cidonio, amministratore unico dell’azienda negli anni ’50 e ’60, colui che portò sul Monte Altissimo scultori del calibro di Henry Moore, si pone oggi come punto di riferimento per molti artisti, giovani e non. Quando, nel 2012, il presidente Carli decise di ricreare il matrimonio fra Henraux e gli artisti, si consultò con Philippe Daverio e, di comune accordo, pensarono di istituire il Premio Internazionale di Scultura Fondazione Henraux, un premio innovativo con cadenza biennale, dedicato ad artisti di età inferiore ai 45 anni. Lo scultore Giovanni Maria Manganelli, prematuramente scomparso, e lo storico dell’arte Co-
Mikayel Ohanjanyan, Materialità dell’invisibile, 2014 Foto di Nicola Gnesi
Fabio Viale, Arrivederci e Grazie, 2012 Foto di Veronica Gaido
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Nel corso degli anni, durante le tre edizioni del Premio, fra Accademici e Giurati, i membri del “secondo grado di giudizio” che determina i tre finalisti e il vincitore, Henraux ha ospitato personalità italiane e straniere che, dopo quest’esperienza, sono diventate ambasciatori del marmo e della Henraux nel mondo. I primi Accademici, quelli del 2012, sono stati: Gabriella Belli, Mario Botta, Michele De Lucchi, Jan Fabre, Beppe Finessi, Christos Joachimides,
Alessandro Mendini, Marco Meneguzzo, Giuseppina Panza di Biumo Caccia Dominioni, Franco Raggi, Rosa Sandretto, Luca Scacchetti, Pinuccio Sciola, Pino Spagnulo, Ivan Theimer, Giovanna Bernardini, Rossana Orlandi. La Giuria del primo Premio era composta da Paolo Carli, Philippe Daverio, Michele Bonuomo, Marco Carminati, Veronica Gaido, Patty Nicoli, Daniele Pescali, Vito Tongiani, Giuliano Vangi e Kan Yasuda.
Filippo Ciavoli Cortelli, Corallo, 2014, particolare Foto di Nicola Gnesi
Massimiliano Pelletti, Back To Basic, 2014, particolare Foto di Nicola Gnesi
è cambiata, Accademici e Giuria si sono limitati a giudicare i progetti pervenuti. Giovanna Bernardini, Jean Blanchaert, Marco Carminati, Aldo Colonetti, Dakin Art, Renzo Maggi, Giovanni Maria Manganelli, Mimmo Paladino, Giuseppina Panza di Biumo, Eun Sun Park, Franco Raggi, Rosa Sandretto, Luca Scacchetti, Pinuccio Sciola, Betony Vernon, hanno composto l’Accademia dell’Altissimo, mentre in Giuria, oltre naturalmente a Paolo Carli e a Philip-
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Il vincitore del primo Premio è stato Fabio Viale con l’opera Arrivederci e grazie, lavoro spiritoso ed evocativo di una vicenda scabrosa newyorkese. Al secondo posto, ex aequo, Sàmara, di Alex Bombardieri, una foglia d’acero così trasparente e leggera da sembrare in volo, e la scultura Bue Tractor di Mattia Bosco, profilo in altorilievo dell’animale che per secoli ha trasportato i marmi. Dalla seconda edizione in avanti la formula
pe Daverio, c’erano Chiara Beria d’Argentine, Michele Bonuomo, Gianluigi Colin, Stefano Contini, Novello Finotti, Daniele Pescali, Arnaldo Pomodoro, Fabio Viale. Vincitore del Premio Henraux 2014 è risultato essere Mikayel Ohanjanyan con l’opera Materialità dell’invisibile, con cui l’artista armeno è riuscito a fare intuire a chi guarda la presenza dei cavi d’acciaio che strizzano, schiacciano, costringono il marmo nella volontà di domare la materia, quando avviene l’estrazione. Seconda classificata, Francesca Pasquali. Nell’opera Frappa dimostra di aver compreso appieno le potenzialità del robot. Porta il marmo a essere merletto. Al terzo posto, ex aequo, sono stati premiati Filippo Ciavoli Cortelli con l’opera Corallo che ricorda sia lo scheletro calcareo dei preziosi esseri marini, sia delle mani umane in movimento, e Massimiliano Pelletti con la scultura Back to Basic, una “testa classica” crivellata e trattata con gli acidi. Nel 2016 la terza edizione ha alle spalle due importanti soddisfazioni: Fabio Viale si è aggiudicato il Premio Cairo nel 2015 e Mikayel Ohanjanyan vince nello stesso anno, insieme ad altri diciotto artisti armeni e alla curatrice Adelina von Fürstenberg, il Leone d’Oro – Padiglione Armenia – alla Biennale di Venezia. L’Accademia dell’Altissimo questa volta è composta da Adriano Berengo, Jean Blanchaert, Gilda Bojardi, Marco Casamonti, Aldo Cibic, Aldo Colonetti, Marino Folin, Andrej Končalovskij, Daniele Lombardi, Francesco Morena, Giuseppina Panza di Biumo Caccia Dominioni, Mi Qiu, Franco Raggi, Rosa Sandretto. In Giuria, oltre a Paolo Carli e Philippe Daverio, Aurelio Amendola, Roberto Bernabò, Mario Botta, Gianluigi Colin,
Marva Griffin Wilshire, Francesca Nicoli, Mikayel Ohanjanyan, Claudio Pescio. I tre finalisti di questa edizione sono stati Daniele Guidugli, che si è aggiudicato il primo Premio con l’opera Moby Dick, cinque vertebre di balena che si presentano come una grande installazione; al secondo posto, l’artista belga Kim De Ruysscher con Il Canotto, imbarcazione di gomma “spiaggiata”, come se ne sono viste tante in questi anni a Pozzallo e a Lampedusa; infine, al terzo posto, lo scultore inglese Mat Chivers con l’opera optical Newave, con la quale, grazie all’uso di marmo bianco statuario dell’Altissimo e al Nero Marquina affiancati, riesce a dare il senso del movimento marino. Erminio Cidonio, che ci guarda dall’alto, non può che essere lieto. Il suo insegnamento non è stato dimenticato. Lo stabilimento Henraux a Querceta negli ultimi sei anni, grazie al Premio, ha dato inizio a una collaborazione fruttuosa, non soltanto con i nove vincitori, ma anche con moltissimi altri artisti, provenienti da ogni parte del mondo. Nel 2018 dopo tre edizioni condotte magistralmente, alla presidenza del Premio è avvenuto il passaggio del testimone fra Philippe Daverio, direttore di Art e Dossier, il mensile d’arte più venduto in Italia, ed Edoardo Bonaspetti, direttore di Mousse, la rivista d’arte italiana nota in tutto il mondo fra i conoscitori, i collezionisti e le gallerie che contano. È una pubblicazione bimestrale in sintonia con la giovane arte internazionale di tendenza. “I grandi scultori che sono passati di qui, da Michelangelo a Henry Moore – dice Mikayel Ohanjanyan, vincitore della seconda edizione – hanno lasciato vibrazioni speciali che ci danno una grande responsabilità”.
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Francesca Pasquali Frappa, 2014 Foto di Nicola Gnesi
Nell’opera Frappa dimostra di aver compreso appieno le potenzialità del robot. Porta il marmo a essere merletto.
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DI ALDO COLONETTI
L’ITALIA È UN ARCIPELAGO IL PADIGLIONE ITALIA DI MARIO CUCINELLA
ALLA BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA I
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Schizzo dell’allestimento di Mario Cucinella A sinistra, primo workshop per l’elaborazione delle cinque proposte architettoniche, Bologna: Mario Cucinella introduce le tematiche e le aree al Collettivo Foto di Francesco Paolucci
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La mostra sarà un viaggio nel nostro Paese che privilegia le piccole e medie città, gli insediamenti isolati rispetto ai grandi processi di urbanizzazione.
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Arcipelago Italia è il titolo del Padiglione Italia della 16. Biennale di Architettura di Venezia che si terrà dal 26 maggio al 25 novembre 2018, a cura di Mario Cucinella. Aldo Colonetti: Cosa significa il termine “Arcipelago” quando si parla dello stato dell’arte dell’architettura italiana, a fronte dei problemi ambientali, dell’instabilità della politica e della committenza, soprattutto alla luce di temi come il post-terremoto? Mario Cucinella: Sai, l’architettura può essere pericolosa se non siamo in grado di ascoltare le voci di una determinata comunità, di rispondere ai bisogni reali di un territorio, anche perché il risultato del nostro lavoro non è un’opera d’arte o un libro che decidi liberamente di leggere: ce l’hai davanti agli occhi tutti i giorni, non puoi fare a meno di vederla ma soprattutto di abitarla.
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A.C.: La mostra sarà un viaggio nel nostro Paese che privilegia le piccole e medie città, gli insediamenti isolati rispetto ai grandi processi di urbanizzazione. In sostanza il suo scopo è far emergere il 60% del territorio non coinvolto dalle grandi aree metropolitane dove abita solo il 25% della popolazione, mentre il restante 75% risiede nelle città... M.C.: È molto interessante questa relazione tra territorio e abitanti, tra insediamenti abitativi e natura, tra nuove architetture e tradizioni storiche. Da qui è necessario ripartire senza ricette precostituite. Per questa ragione ho preferito, con i miei collaboratori, individuare, su 650 studi di architettura contattati, 65 progetti che saranno esposti come una sorta di campione
rappresentativo dello stato dell’arte della nostra professione, relativo ai centri italiani minori. Accanto a questo lavoro di selezione, proprio in virtù del fatto che vorrei che fosse una Biennale più “laboratorio” che spazio espositivo di opere compiute, ho individuato cinque luoghi da “ridefinire”, dove fino ad ora le criticità sono state rilevanti, come una sorta di altrettante tipologie progettuali, presenti in altre realtà del nostro Paese. A.C.: In sostanza cinque progetti i cui risultati potrebbero essere utili per risolvere problemi analoghi: il recupero del Teatro di Consagra a Gibellina, in Sicilia; la ricostruzione dopo il terremoto di Camerino dove il centro storico è completamente inagibile; la Casa della Salute pensata per Ottana, in Sardegna, nota per lo sviluppo industriale mancato; una nuova attività di lavoro, una segheria, per sviluppare l’economia delle foreste del Casentino, tra Emilia Romagna e Toscana, facendo in modo che questa tenga conto anche della cura dei boschi; gli scali ferroviari abbandonati di Ferrandina e Grassano, nell’area di Matera. M.C.: Come vedi, piccoli interventi come segnali che è possibile intervenire con una logica riformistica, senza eccedere in linguaggi simbolici ed estetici autoreferenziali. Ho sempre cercato di lavorare secondo questo modello che tenesse conto di tutti i processi di innovazione tecnologica e di vecchi e soprattutto nuovi materiali, senza dimenticare, comunque, che l’architettura è il linguaggio che costruisce la grammatica e la sintassi del nostro territorio, in un contesto già ricco e “pieno” di autori e di opere.
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Attività di partecipazione a Gibellina Nuova, Trapani 14.01.2018: una pagina del taccuino dell’artista Hu-Be
Ho sempre cercato di lavorare secondo questo modello che tenesse conto di tutti i processi di innovazione tecnologica e di vecchi e soprattutto nuovi materiali, senza dimenticare, comunque, che l’architettura è il linguaggio che costruisce la grammatica e la sintassi del nostro territorio.
Dall’alto, in senso orario: Belice: il cretto di Burri a Gibellina Vecchia Belice: la spazialità del mai completato Teatro di Consagra a Gibellina Nuova Foto di Davide Curatola Soprana (Urban Reports) Schizzo degli itinerari di Mario Cucinella
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A destra Attività di partecipazione a Gibellina Nuova, Trapani 14.01.2018: l’artista Hu-Be al lavoro all’interno del Teatro di Consagra
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Render Tesa 2, Sala dell’Arcipelago
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Accanto a questo lavoro di selezione, proprio in virtù del fatto che vorrei che fosse una Biennale più “laboratorio” che spazio espositivo, ho individuato cinque luoghi da “ridefinire”, dove fino ad ora le criticità sono state rilevanti, come una sorta di altrettante tipologie progettuali, presenti in altre realtà del nostro Paese.
Terzo workshop per l’elaborazione delle cinque proposte architettoniche, Bologna: uno dei team del Collettivo a lavoro con Mario Cucinella e Massimo Alvisi
A sinistra, dettaglio modello, Sala degli itinerari
Non è un caso che i cinque tavoli sui quali sarà possibile leggere i progetti siano stati disegnati dallo stesso Cucinella e realizzati in legno massello da Riva 1920. Appaiono nello spazio del Padiglione come isole che galleggiano sospese nell’aria, ciascuna delle quali possiede una propria morfologia, diversa da tutte le altre, ma in ogni modo rico-
noscibile in quanto appartenente a una stessa storia. Architettura e design come linguaggio della differenza: l’unità progettuale è sempre il risultato di differenze, mai di identità replicabili in ogni luogo. L’Italia è un arcipelago dove ogni isola è, contemporaneamente, se stessa e parte di un tutto.
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Attività di partecipazione a Gibellina Nuova, Trapani 14.01.2018
DI GIANLUIGI RICUPERATI
KATHELIN GRAY
L’AMICA DI BURROUGHS
William Burroughs
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- Com’era, visto da vicino? - Un continente: difficile definirlo in poche parole. Era un uomo dai modi straordinariamente formali, ma dotato di uno humour quasi extraterrestre.
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Senza di lui non avrei mai posseduto la libertà e il coraggio che ci vuole per imbarcarsi in imprese assurde e ambiziose. La sua era un’investigazione continua della mente umana e della tecnologia della vita.
Confidente di William Burroughs, musa di Keith Jarrett e Ornette Coleman, la sessantasettenne Kathelin Gray è una meravigliosa testimone della storia segreta della cultura degli ultimi decenni. Nel suo lavoro di produttrice visionaria, dalla nave scientifica Eraklitus al ‘bioparco planetario’ Biosphere in Arizona, permane il senso di sperimentazione e dialogo fra discipline che ha caratterizzato l’atmosfera mentale degli anni Sessanta. Gianluigi Ricuperati: La sua vita sembra la Mille e una Notte del viaggiatore culturale: come ha fatto a entrare in contatto con queste personalità così straordinarie e diverse tra loro? Kathelin Gray: Mio padre insegnava scienza dei computer a Stanford negli anni Quaranta. Mia madre era un’intellettuale curiosa: uno dei suoi migliori amici era Neal Cassady. Già da bambina respiravo l’aria anticonformista della San Francisco dell’epoca. Ma il momento fondamentale è stato quando i miei mi hanno lasciata da sola, sulla West Coast, per trasferirsi a New York, nel 1966.
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G.R.: Quanti anni aveva? K.G.: Quindici. È stato lì che è iniziato tutto: avevo l’età giusta ed era il tempo giusto per sperimentare. Amavo la musica e suonavo il pianoforte: rimasi incantata la prima volta che un’amica mi fece ascoltare un disco di Cecil Taylor. Frequentando i concerti capitavano cose strane. Andammo ad ascoltare una band: io ero in prima fila e portavo sulla fronte il segno indiano che poi avrebbero adottato tanti giovani occidentali dopo il ’67, e così il batterista cominciò a osservarmi, e al termine del
concerto mi invitò a salire sul palco. Disse: “Ti presento una persona con cui andrai d’accordo: si chiama Keith e fa il pianista”. Era Keith Jarrett. Iniziò allora un’amicizia lunghissima che mi portò addirittura ad aiutarlo a registrare il famoso disco con le musiche di Gurdjeff. G.R.: Gurdjeff l’esoterista? K.G.: Ci capitarono tra le mani questi spartiti rarissimi di composizioni. Il cosmo dei seguaci di Gurdjeff era strano e misterioso: così mi ritrovai a Parigi alla fine degli anni Settanta per chiedere l’autorizzazione a registrare quelle musiche per la ECM, nella splendida casa della più importante allieva di Gurdjeff, la mistica svizzera-francese Jeanne De Salzmann. G.R.: Fu allora che conobbe Burroughs. K.G.: Un po’ prima: nel 1974. Avevamo cominciato insieme ad alcuni amici a lavorare a questa specie di santuario delle idee nel deserto, in un ranch a Santa Fe, dove viviamo ancora oggi. Tra le personalità invitate ci fu appunto William Burroughs. G.R.: E Burroughs rispose subito? K.G.: Mi aspettavo di incontrare il Dr. Benway di Nova Express o l’inquietante autore in impermeabile delle foto che circolavano allora. Quando il volo atterrò, non vedendo nessuno vestito in quel modo pensai che ci avesse dato buca: finché non mi accorsi che in fondo alla sala d’aspetto, con una valigia molto ordinaria e i pantaloni corti e la camicia da turista, c’era un uomo che assomigliava molto all’autore del Pasto Nudo. Salimmo in auto e la prima cosa che ci chiese fu di andare a comprare vodka e coca-cola.
K G.R.: Ed era vero? K.G.: Glielo chiesi, un giorno, mentre eravamo lì in New Mexico, durante quel primo incontro: fu grazie alla mia curiosità che nacque la nostra amicizia, perché per qualche ragione l’innocenza o la sguaiatezza delle mie parole riuscirono a infrangere la sua strabiliante impenetrabilità: mi guardò e scoppiò a piangere abbracciandomi fortissimo. Disse che sua moglie l’amava moltissimo, che non avrebbe mai voluto farle del male, e che quell’incidente era la cosa peggiore che gli fosse mai capitata. Da lì scattò qualcosa tra di noi. Non ci separammo più fino alla sua morte. G.R.: Qual era il rapporto di Burroughs con i soldi? K.G.: Tutti pensano che Burroughs venisse da una famiglia ricca, e in effetti aveva una specie di rendita, ma non era poi così importante: era un mito che circolava, al quale di certo a lui faceva piacere dare credito. La realtà è che con i libri Burroughs non
ha mai guadagnato granché, e in generale non era molto bravo con il denaro. Le cose erano cambiate realmente solo negli ultimi dieci anni, quando era ormai diventato una leggenda pop e lo invitavano le rockstar. Dopo la morte di Gysin, il suo amico-ispiratore artista, iniziò a dipingere e sicuramente i quadri rendevano più dei romanzi sperimentali. Mi diceva sempre di aver fatto più soldi con il famoso spot della Nike che lo ritraeva come mito vivente piuttosto che con tutte le imprese artistiche di una vita. G.R.: Cosa lo aveva colpito di più di quella visita nel Sud-Ovest degli Stati Uniti nel 1974? K.G.: Il fatto che fossimo vicinissimi al laboratorio di Los Alamos. Era un elemento fondamentale dell’immaginario di quegli anni, ed era un elemento fondamentale della distopia pervasiva che animava il suo personale immaginario. G.R.: Cosa rimane in lei di Burroughs, a vent’anni dalla sua morte? K.G.: C’è qualcosa di Burroughs in tutti noi, credo: era un rabdomante. Per questo gli piaceva il deserto. Senza di lui non avrei mai posseduto la libertà e il coraggio che ci vuole per imbarcarsi in imprese assurde e ambiziose, come Eraklitus o Biosphere. La sua era un’investigazione continua della mente umana e della tecnologia della vita. Conservo ancora un dipinto che mi ha regalato, due mani su sfondo argenteo che mirano alle stelle.
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G.R.: Com’era visto da vicino? K.G.: Un continente: difficile definirlo in poche parole. Era un uomo dai modi straordinariamente formali, ma dotato di uno humour quasi extraterrestre, come se vedesse le cose dal punto di vista di un rettile o di uno strano animale. Non amava molto le persone, e pensavo anche che avesse un problema con le donne, un problema di misoginia, forse dovuto al famoso incidente con la moglie. Era il 1951. Il giovane Burroughs e la moglie, in preda a droghe e alcol, stavano giocando a ‘Guglielmo Tell’ e lei morì a causa di un colpo sparato dal fucile di lui.
DI ELENA ARZANI
GIOVANNI ALLEVI
DALLA TRADIZIONE AD UNA MUSICA CLASSICA CONTEMPORANEA I
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Protagonista di una luminosa carriera ventennale, contraddistinta da un’originale frattura con la tradizione, Giovanni Allevi ha conquistato la scena musicale internazionale aggiudicandosi ovunque non solo riconoscimenti ed onorificenze, ma soprattutto sviluppando un linguaggio artistico moderno. Superando le iniziali critiche del mondo accademico, il pianista e compositore ha ridisegnato i confini del genere, creando una “musica classica contemporanea” e poggiando così le basi per una sperimentazione odierna e futura più libera dai canoni.
Giovanni Allevi, cava Cervaiole, Monte Altissimo, Seravezza. Foto di Veronica Gaido
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La composizione non rinnega la tradizione secolare classica, al contrario si arricchisce e compenetra di esperienze sonore attuali, influenzata dalla commistione di generi rock e pop. Tale scelta stilistica si potrebbe analogamente associare a quella attuata nella scultura, che pur necessitando di una ferrea conoscenza accademica di parametri estetici, geometrici e matematici, permette all’artista di essere reinterpretata continuamente. L’architettura del suono di nuova concezione si inserisce in contesti urbani dal pubblico eterogeneo, senza divenire estranea al lustro dei teatri.
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Giovanni Allevi con Paolo Carli, presidente Henraux Foto di Nicola Gnesi
Elena Arzani: Scopriamo, sorprendentemente, che la vita della sua famiglia è legata a un tema che ci sta particolarmente a cuore: quello della pietra e della sua lavorazione. Ci vuole raccontare brevemente in che modo? Ricorda qualche aneddoto particolare in merito? Giovanni Allevi: I miei antenati hanno lavorato per generazioni nelle cave di travertino nell’acquasantano, in provincia di Ascoli Piceno, dove sono nato. Da piccolo ho ascoltato rapito i racconti dei miei parenti sul durissimo lavoro nella cava, su come fosse un filo d’acciaio a tagliare la pietra, sulla polvere che ti entra dappertutto. Mio padre, che era diventato professore di musica, un giorno andò a trovare un suo zio alla cava che sorpreso gli chiese: “Cosa ci fai qui? Non dovresti essere a scuola?”
“È il mio giorno libero...” “Giorno libero?! E che cos’è?” Quando sul Monte Altissimo sono tornato di nuovo in una cava, ho provato una forte commozione nel vedere quegli scarponi impolverati, quegli oggetti da lavoro, quei lavoratori che ho sentito parte di me. È emozionante pensare che dal loro faticoso lavoro possa essere regalato al mondo un distillato di bellezza. E.A.: Da 13 dita, il primo album prodotto da Jovanotti, a Equilibrium, l’ultimo nato, sono passati esattamente vent’anni. Non le chiedo un bilancio, ma un commento su come ha visto evolversi la musica, anche la sua, in questo lungo periodo e come pensa che si evolverà in futuro. G.A.: Se posso rintracciare una logica in questo assurdo percorso, mi sembra che la
La copertina di Equilibrium
E.A.: Sedici dischi, quattro libri tra cui un best seller ed innumerevoli riconoscimenti mondiali. Un genio creativo dall’inarrestabile energia. Einstein disse: “Se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”. È una frase che la può rappresentare? G.A.: Mi è capitato di recente di riflettere proprio su questa frase di Einstein, e nel leggerla ho provato una certa ansia. Non riesco a riconoscermi nell’invito a muovermi. Ho sempre avuto bisogno di tempo per riflettere, di silenzio. Il meglio di me l’ho sempre dato dopo lunghi periodi di incubazione, in cui tutto sembrava immobile. E.A.: Nella copertina di Equilibrium sono raffigurati un Giovanni blackblock ed uno direttore d’orchestra, rappresentazione perfetta della sua “musica classica contemporanea” che combina la perfezione del linguaggio accademico formale ad uno stile e suoni moderni. Una rivoluzione in ambito musicale che ha affascinato personalità molto diverse tra loro, tra cui Spike Lee, Papa Francesco e Papa Benedetto XVI, riuscendo ad avvicinare un vasto pubblico eterogeneo e promuovendo a livello internazionale la conoscenza stessa del genere. Si rivede in questo ritratto? G.A.: Vorrei aggiungere che nella copertina il mio volto è percorso da un sorriso,
ad evidenziare una leggerezza finalmente raggiunta. Considero quel sorriso un traguardo, dopo un doloroso percorso che mi ha portato, dall’incoscienza dell’inizio, attraverso momenti travagliati di buio. È molto lusinghiero pensare che la mia opera stia muovendo dei cambiamenti così importanti, ma al tempo stesso continuo a ritenermi un umile e instancabile manovale della musica, curvo sulla partitura, inconsapevole delle conseguenze delle mie azioni. E.A.: Michelangelo ha donato all’umanità opere di inestimabile valore e bellezza ed affermava che “Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla”. Analogamente il brano No Words è stato composto dando voce ad un dolore intimo per le vittime del terremoto in centro Italia. Qual è il suo processo creativo? Cambia a seconda del messaggio che vuole legare a una particolare composizione o ha un tratto comune? G.A.: Quando vivi l’esperienza del terremoto molto da vicino, quel movimento sussultorio continua a scuoterti dentro anche quando la scossa è finita. Quindi in No Words è come se la musica fosse emanata direttamente dal mio corpo ancora tremante, la mattina dopo il sisma. A pensarci bene, è raro che una mia composizione musicale nasca da un’esperienza vissuta. In genere le note raggiungono la mia mente senza un apparente motivo. E.A.: Un’isola nell’Atlantico con un vecchio cellulare, lontano dalle tecnologie moderne. Il buio post operazione agli oc85 | Arte
Quando sul Monte Altissimo sono tornato di nuovo in una cava, ho provato una forte commozione nel vedere quegli scarponi impolverati, quegli oggetti da lavoro, quei lavoratori che ho sentito parte di me.
mia musica si sia fatta sempre più libera ed abbia conquistato forme sempre più estese e complesse. Mentre nel mondo, mi sembra che la musica stia percorrendo la strada diametralmente opposta, dell’uniformità e della semplificazione.
Il consiglio è di essere consapevoli che quando si mette in gioco la passione bruciante, la tenacia, il coraggio, le conseguenze arrivano inevitabilmente, anche se tutto attorno a noi appare immobile.
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Giovanni Allevi durante il concerto “Uniti per l’Arte”, evento legato a VolareArte 2013, in collaborazione con Rabarama e Vecchiato Art Galleries, cava Cervaiole
chi, da cui elabora il recente album. Da una parte una scelta volontaria di isolamento, dall’altra una conseguenza di un difficile momento di vita. Reputa che l’iperstimolazione mediatica dei nuovi mezzi di comunicazione possa incidere negativamente sulla produzione artistica di un musicista? G.A.: Incide negativamente sulla felicità delle persone, sulla loro serenità. Sarà perché sono sfiancato dal lato mediatico della mia attività, comincio a credere che l’essere social sia una follia. Sono convinto che in un futuro anche lontano, avverrà una totale inversione di tendenza, verso la discrezione, il recupero di sé. E.A.: A 28 anni ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo alla sua passione. L’acclamato successo ha confermato la correttezza della sua scelta, ripagando i suoi sforzi. Il suo coraggio e la sua tenacia sono un esempio positivo per chiunque tenti di realizzare le proprie ambizioni. Quale consiglio darebbe a chi oggigiorno tenta di intraprendere un cammino altrettanto temerario? G.A.: Il consiglio è di essere consapevoli che quando si mette in gioco la passione bruciante, la tenacia, il coraggio, le conseguenze arrivano inevitabilmente, anche se tutto attorno a noi appare immobile e sembra che nessuno sia pronto a ricevere la nostra voce.
E.A.: Che cosa ama fare Giovanni Allevi nel tempo libero? Quali artisti ascolta, parlando di musica, o quali artisti in generale la appassionano? G.A.: Amo sempre più dedicarmi alla corsa, una disciplina che affronto in solitudine, senza alcuna finalità né agonistica, né salutistica. Corro per ingannare la mia inquietudine ed illudermi che essa resti dietro di me; per pensare, o meglio per lasciar fluire i pensieri ed osservarli da ogni angolazione. Quanto alla musica, essendovi perennemente immerso, preferisco a volte ascoltare il silenzio. E.A.: La nomina di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, l’onorificenza di “Bösendorfer Artist”, il premio Elsa Morante Ragazzi, il Premio America della Fondazione Italia USA e molti altri. C’è chi si monterebbe la testa, ma non lei. Come gestisce questi riconoscimenti, tra i quali il più curioso, la dedica di un asteroide? G.A.: È impossibile che mi monti la testa, perché io aspiro a diventare nulla, pur continuando ad inseguire il mio sogno con tutta la passione, cioè scrivere musica. Pensare di essere nulla, di non lasciare traccia al mio passaggio, per un qualche nascosto motivo, mi regala un grande sollievo.
DI MAURIZIO RIVA
LEGNO E MARMO, LA NATURA PRENDE FORMA C
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88 | Design
Sono tanti i punti di incontro tra il legno e il marmo, due straordinari materiali, massima espressione di quella natura che stupisce in una maniera sempre sorprendente. La natura soprattutto trasforma, lavora autonomamente, a volte secondo quel caso spontaneo ed evoluzionistico che porta a buone forme identificate da tanti nella storia delle arti. La natura fa evolvere l’uomo, l’uomo fa evolvere il progetto e il progetto prova a far evolvere la natura, e così in questo circolo continuo si alimentano le relazioni e le ricerche che rendono la natura un sistema a disposizione di chi lo sa interpretare e usare. In forma di aggettivo, naturale, indica cose spontanee e logiche, intelligenti e belle, con una funzione ben precisa e un loro senso nascosto. Per Riva 1920 la natura è legata al legno con le sue forme, le sue venature, i suoi
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profumi, una storia che dura da quasi cent’anni. Tutto nasce nel 1920 a Cantù, nel cuore della Brianza, in una piccola bottega artigianale a conduzione famigliare fondata da mio nonno e poi passata nelle mani di mio padre. Inevitabile per me e per mio fratello dedicarci al business di famiglia arrivando a seguire più di 1.600 clienti privati. Negli anni inizia un lungo processo di impegno e valorizzazione del legno naturale e della lavorazione manuale che diventerà il tratto distintivo di Riva 1920 ed è proprio in occasione di un mio viaggio a New York che avviene un passaggio fondamentale in quanto ho l’opportunità di avvicinarmi alla cultura nordamericana della comunità religiosa degli Amish/Shaker d’America. È stata una scoperta che mi ha aperto la mente e ha cambiato radicalmente il mio modo di concepire il mobile.
Un artigiano di Riva 1920 al lavoro
Erano gli anni ’90, anni in cui avere attenzione verso l’ambiente non era una tematica prioritaria ed attuale. Ho deciso di rischiare ed ho iniziato a comprare legno di ciliegio americano proveniente da aree riforestate e a finire i mobili solo con olii e cere di origine naturale. Non è stato facile all’inizio in un mondo affollato di nuovi materiali sintetici. Stavo portando l’azienda ad assumere una posizione assolutamente rivoluzionaria ed in netta contrapposizione rispetto al trend del mercato dell’arredo: per fortuna il tempo e la tenacia mi hanno dato ragione. Inizia a definirsi una precisa identità progettuale che si concretizza in un prodotto al massimo della qualità e della naturalità attraverso l’impiego di collanti, cere e olii completamente naturali. Nel mentre si avviano importanti collaborazioni con architetti di fama internazionale tra i quali Renzo Piano, Michele De
Cedro profumato del Libano
Kauri millenario delle paludi della Nuova Zelanda
Cedro profumato del Libano
battuti da enormi cataclismi durante le ere geologiche precedenti e riportati alla luce dal sottosuolo: miniere di legno sommerse che hanno saputo conservarsi intatte fino ai giorni nostri con le stesse caratteristiche di un albero appena tagliato. Legni di recupero come le briccole, pali in rovere di quercia conficcati nella laguna veneziana che assolvono alla funzione di guidare le imbarcazioni e segnalare le maree. Una fitta trama composta da piccolissime cavità circolari ricopre la superficie e gli spessori di questo legno: esse sono 91 | Design
Lucchi, Karim Rashid, Mario Botta, Paolo Pininfarina, Matteo Thun, Terry Dwan, Alessandro Mendini, Marc Sadler, Mario Bellini, Claudio Bellini e Giuliano Cappelletti che segnano l’evoluzione verso il mondo del design, un design sempre sostenibile però. Ed è per questo che decido di iniziare ad implementare nella collezione l’utilizzo di legni di riuso che avessero un basso impatto sull’ambiente. Legni millenari come il Kauri della Nuova Zelanda datato 50.000 anni, tronchi ab-
il risultato della lavorazione di piccoli molluschi che, nutrendosi del materiale, lasciano la traccia del loro passaggio. Ed infine legni profumati come il cedro del Libano, grandi alberi abbattuti a causa di smottamenti, eventi climatici o tagli programmati. La sostenibilità viene sempre messa al centro degli standard produttivi per tramandare e non dimenticare che il legno è una risorsa rinnovabile, ma non infinita. Questo vale per tutti i materiali naturali ed è per questo motivo che tutto ciò che ci viene messo a disposizione dalla natura va utilizzato con cura e rispetto. Si tratta di materie prime preziose, irripetibili e mai uguali (la natura non si ripete mai), vere e autentiche. Il design assolve ad una funzione primaria: plasmare il materiale, di qualsiasi natura esso sia, e imprigionarlo in una forma. È l’uomo a farsi erede di tale nobile compito, grazie a lavorazioni artigianali unite alla più innovativa tecnologia. Il legno di cedro dotato di un intenso profumo aromatico viene lavorato grazie a macchinari ad altissima tecnologia a 5 e 6 assi con la medesima lavorazione che si utilizza per scolpire il marmo. Plasmare la materia naturale rappresenta sempre una sfida entusiasmante. Ogni lavorazione restituisce una creazione che ha un’anima che ha tutti i colori della natura. Un prodotto che ha saputo armonizzare legno e marmo, unendo il mondo di Riva 1920 a quello di Henraux, è la panca Molletta disegnata da Baldessari e Baldessari. Il progetto è stato realizzato nel 2012 e da subito ha saputo imporsi per lo stile inimitabile, tanto da diventare un best seller
dell’azienda universalmente riconosciuto e riconducibile alla produzione di Riva 1920. Caratterizzata da un design scultoreo che gioca con il tipico fuori scala dell’arte Pop, non assolve più e soltanto alla funzione primaria per la quale è stata concepita ma si eleva a elemento iconico. Cedro profumato del libano e marmo lavorati da blocchi unici, insieme vanno a comporre un oggetto di uso comune, la molletta da bucato, che spazia dalla soluzione morfologica a quella funzionale. Una vera e propria opera d’arte scolpita nella natura. Sì, perché è la natura la vera protagonista: la capacità sta nel lasciare la materia prima il più naturale possibile. Si tratta di una scelta tesa alla valorizzazione e alla conservazione del patrimonio naturale. Come nel caso di Henraux, che ha saputo dare il giusto valore al territorio da cui ha tratto la propria fortuna attraverso un vasto e articolato progetto di adeguamento e potenziamento produttivo e di riqualificazione ambientale. Le due aziende sono inoltre accomunate dal desiderio di custodire le tradizioni e dalla voglia di tramandare: da qui nascono i musei aziendali, la volontà di comunicare agli addetti del settore, quali architetti e designer, e alcuni importanti progetti che collegano la realtà imprenditoriale a quelle dell’arte, dell’architettura, del design, della cultura e che toccano la coscienza sociale, la sostenibilità e la cura per l’ambiente ponendo grande attenzione nei confronti dei giovani e del loro futuro. Non si tratta più di fare solo impresa, ma di promuovere la cultura sia dei materiali che del bello.
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Molletta, panca in marmo statuario Macchietta e legno di cedro profumato del Libano, design di Baldessari e Baldessari
Una fase di lavorazione
DI COSTANTINO PAOLICCHI
IL MONTE ALTISSIMO ANCORA ALLA RIBALTA DEL GRANDE CINEMA
Il regista Andrej Končalovskij con un operatore durante le riprese del film
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Il peccato, del regista russo, è ispirato alle vicende di Michelangelo Buonarroti nel periodo 1516 - 1520, quando lo scultore faticava sulle cave di Carrara e Seravezza.
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L’attore Alberto Testone nel ruolo di Michelangelo
Nell’estate del 2017 il Monte Altissimo ha ospitato vari set del film Il peccato del regista russo Andrej Končalovskij, ispirato alle vicende di Michelangelo Buonarroti nel periodo 1516-1520, quando lo scultore faticava sulle cave di Carrara e poi di Seravezza per procurarsi i marmi di cui aveva necessità. Lo scorso anno Henraux ha celebrato il quinto centenario della prima ascesa di Michelangelo sul Monte Altissimo. Nel gennaio del 1517 lo scultore saliva per la prima volta su questa montagna, posta nel Comune di Seravezza, che dal 1821 appartiene alla Società Henraux. L’Altissimo e i suoi marmi, a partire da Michelangelo, hanno attratto nel corso dei secoli molti grandi scultori: come il Giambologna, che nel 1568 utilizzò il primo blocco di marmo statuario estratto dalle cave appena aperte per realizzare una Vittoria, oggi esposta al museo del Bargello; come Vincenzo Danti e il Vasari; come l’americano Hiram Powers a metà Ottocento e il francese Auguste Rodin agli inizi del Novecen-
to; come l’inglese Henry Moore negli anni Sessanta, quando la società Henraux guidata da Erminio Cidonio creò a Querceta un polo internazionale della scultura contemporanea. Il Buonarroti, fin dai tempi della Pietà, aveva stabilito stretti rapporti con i cavatori di Carrara. Ma questi rapporti si guastarono proprio in quell’anno 1517, poiché a Carrara si temeva che l’apertura di nuove cave avrebbe danneggiato il secolare monopolio del marmo della città. Ha inizio, a quel punto, uno dei periodi più difficili e tormentati dell’intera vita di Michelangelo, anche perché lo scultore s’era impegnato con i Della Rovere e con il papa Leone X a realizzare contemporaneamente due opere colossali: la tomba di Giulio II e la facciata della basilica fiorentina di San Lorenzo. Nella tarda primavera del 2010, Končalovskij mi contattò telefonicamente per manifestarmi l’intenzione di girare un film sulle vicende di Michelangelo nel periodo anzidetto ispi-
Durante le riprese: la scena della lizzatura Foto di Sasha Gusov Courtesy Jean Vigo Italia Andrei KonÄ?alovskij Studios
Durante le riprese: la scena della lizzatura Foto di Sasha Gusov Courtesy Jean Vigo Italia Andrei KonÄ?alovskij Studios
“Quello che vorrei trasmettere – ha dichiarato – non è solo l’essenza della figura di Michelangelo, ma anche sapori e odori di quell’epoca, carica sì di ispirazione e bellezza, ma anche di momenti sanguinosi e spietati.
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Nella pagina accanto, il regista Končalovskij con il presidente dell’Henraux Paolo Carli
randosi al libro da me pubblicato nel 2005 (Michelangelo. Sogni di marmo, Bandecchi & Vivaldi Ed.): aveva ricevuto in dono una copia da alcuni amici russi a Forte dei Marmi e ne era rimasto molto colpito. Già a settembre inviava in Versilia due sceneggiatori (uno di questi era Stanislav Günter di Berlino), incaricati di compiere le prime verifiche sui luoghi dove il film sarebbe stato ambientato. Dopo aver visitato le cave di Carrara (Cava Sponda, Polvaccio, Ravaccione, ecc.), si sono convinti che difficilmente avrebbero potuto fornire la location di alcune scene del film, per via dell’ambiente naturale così sconvolto dalle escavazioni al punto da non essere più riconducibile all’aspetto dei luoghi nella seconda decade del Cinquecento. Li ho quindi accompagnati sulle cave di Seravezza, a Trambiserra e alla Cappella, e poi sul Monte Altissimo. Lì hanno avuto un’impressione assolutamente favorevole, anche perché i requisiti delle location che il regista pretendeva presupponevano una natura ancora intatta e selvaggia, un forte impatto emotivo dovuto alla verticalità della montagna e alla drammaticità del paesaggio aperto fino all’orizzonte del mare. Requisiti che il Monte Altissimo possiede in larga misura. Quattro anni fa, a inizio estate, dopo vari scambi epistolari, incontrai Končalovsky a Pietrasanta trascorrendo quasi tre giorni con lui, rivisitando le cave di Carrara – che il regista già conosceva – e poi accompagnandolo sul Monte Altissimo con il prezioso apporto tecnico di Henraux. Sostando in varie località, dalla Polla alla cava Mossa, il regista mi sottopose a una serie interminabile di domande precise, puntuali, su problemi di carattere storico o inerenti alle tecnologie di estrazione e trasporto del marmo. Nell’agosto del 2016 Končalovskij mi inviò la prima bozza del copione del
film Il peccato, che rapidamente entrava nella fase della produzione e dell’organizzazione. Il regista ha ribadito più volte che non era affatto sua intenzione realizzare un “documentario” su Michelangelo e sulle cave, ma un film, ovvero un’opera d’arte, che si inquadrasse in un preciso periodo storico per poi seguire un percorso creativo autonomo, in linea con le vocazioni artistiche e il carattere “visionario” delle sue opere, in specie quelle degli ultimi anni premiate a Venezia con il Leone d’Oro e il Leone d’Argento. “Quello che vorrei trasmettere – ha dichiarato – non è solo l’essenza della figura di Michelangelo, ma anche sapori e odori di quell’epoca, carica sì di ispirazione e bellezza, ma anche di momenti sanguinosi e spietati. La poetica del film intreccia la barbarie ancora presente e la meravigliosa capacità dell’occhio umano di vedere l’inesauribile bellezza del mondo e dell’uomo per trasmetterla alle future generazioni”. Venivano stabiliti i primi contatti operativi con lo scenografo Maurizio Sabatini, che ha ottenuto numerosi premi tra cui il David di Donatello nel 2013 per la migliore scenografia con il film La migliore offerta e con i responsabili del casting, poi con i dirigenti della produzione italiana (Jean Vigo Italia). Contatti che si sono intensificati a partire dalla primavera dell’anno passato, quando Končalovskij e i suoi collaboratori effettuavano nuovi sopralluoghi sul Monte Altissimo, a cui facevano seguito le trattative e gli accordi con Henraux S.p.A. e la Fondazione Henraux per la gestione dei complessi problemi riguardanti l’allestimento di vari set all’Altissimo, presso la cava della Mossa, nel canale detto della “Cabina nera”, in un tratto dell’antica via di lizza delle cave Macchietta e Fitta, e alle Cervaiole. Così, oltre cinquant’anni dopo le se-
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quenze di cava nel celebre film Il tormento e l’estasi del regista Carol Reed (1965) con Rex Harrison nella parte di Giulio II e Charlton Heston nella parte di Michelangelo, girate sul Monte Altissimo, la celebre montagna ha visto per alcuni mesi un grande movimento di tecnici, mezzi, maestranze, attori e comparse per il film su Michelangelo di Andrej Končalovskij. Le scenografie davvero splendide di Maurizio Sabatini; il casting eccezionale con attori professionisti e non, ma soprattutto con i cavatori e la gente di Carrara e della Versilia; i costumi bellissimi e la poderosa macchina organizzativa hanno destato ammirazione e in alcuni momenti delle riprese anche un’intensa commozione. La rievocazione del lavoro di cava, con protagonisti gli stessi cavatori di Carrara, l’incredibile somiglianza dell’attore Alberto Testone nei panni di Michelangelo, la partecipazione di numerose comparse nel ruolo di popolani (accorsi – come avveniva un tempo – quando un giovane cavatore, in una delle scene più drammatiche del film, è rimasto ucciso durante una fase spettacolare della lizzatura), la vista di numerose paia di buoi e di carri ricostruiti fedelmente, hanno lasciato un ricordo indelebile in chi era impegnato a vario titolo ma anche in quei pochi fortunati che hanno potuto assistere alle riprese. Il film, prodotto da “The Andrei Konchalovsky Foundation for Support of Cinema and Scenic Arts” e dalla “Jean Vigo Italia” con Rai Cinema, sarà pronto nella seconda metà del 2018, intanto Henraux, lieta e orgogliosa di aver contribuito alla realizzazione di questa importante opera del regista russo, augura tutto il meritato successo alla produzione italo-russa, ai tecnici, agli attori e a tutti coloro che hanno avuto un ruolo nel film.
DI ANDREA TENERINI
LA RIPRESA DELL’ESCAVAZIONE SUL MONTE ALTISSIMO NELL’OTTOCENTO NELL’OPERA DEL PITTORE SVIZZERO JEAN CHARLES MÜLLER S
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In apertura, la cava di Vasajone in un acquerello di Jean Charles MĂźller, 1821 (fig. 1)
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In alto, la via di lizza della cava di Vasajone in un acquerello di Jean Charles MĂźller che indicava la data del 1821 sebbene si ritenga che sia stata eseguita alcuni anni piĂš tardi
riapertura delle cave vennero perciò quasi subito affiancate una serie di attività complementari, come la diffusione di articoli sulla stampa europea in merito all’andamento dei lavori, l’apertura di uno studio di scultura a Seravezza e l’invio ai massimi scultori del periodo di lettere d’esortazione affinché sperimentassero l’alta qualità della materia estratta nel Monte Altissimo, ritenuta – come scriveva lo stesso Borrini a Berthel Thorvaldsen nel marzo 1821 – dal “Divino Michel-Agniolo […] la sola che potesse rimpiazzare il bello statuario che anticamente si scavava nell’esaurita Cava del Polvaccio a Carrara”2. È possibile includere nel progetto di Borrini e Henraux, mirato alla propaganda e alla divulgazione del mito delle cave Apuane, anche il mandato ricevuto da Müller d’illustrare alcuni momenti delle attività da loro gestite. Nato a Losanna nel 1768, Müller verso i vent’anni si era spostato in Italia, sistemandosi a Napoli e a Roma. Trasferitosi a Parigi negli anni del Consolato, aveva stabilito una solida amicizia con Luigi Angiolini, all’epoca incaricato d’affari del Granduca di Toscana. Con lui, attorno al 1809, era rientrato in Italia e si era stabilito a Seravezza, città d’origine dell’Angiolini, collaborando nell’amministrazione dei beni di famiglia. Alla morte del protettore e dopo il matrimonio di Luisetta, l’artista si era trasferito a Firenze aprendo uno studio frequentato dai maggiori esponenti della nobiltà e della borghesia italiana ed euro-
Il proposito era quello di avviare un’azienda in grado di contrastare il monopolio carrarese e fornire marmo pregiato ai principali studi di scultura e ornato d’Italia e d’oltralpe.
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Le marbre qu’on en extrait, sous être absolument sans taches, ce qui ne se savoir jamais vu, sont infiniment plus beaux que ceux de Carrare1. Così in una lettera inviata da Seravezza a Firenze il 13 ottobre 1822, il pittore svizzero Jean Charles Müller informava Luisetta, giovane figlia dell’amico e protettore Luigi Angiolini, da poco deceduto, delle novità riguardanti le cave del Monte Altissimo. Müller era particolarmente aggiornato sulle vicende legate alla ripresa dell’attività di estrazione dei marmi, iniziata un paio di anni prima da Marco Borrini e Jean Baptiste Alexandre Henraux, non solo perché amico e frequentatore di entrambi, ma anche in quanto impegnato nella realizzazione di una serie di vedute dei lavori in cava, probabilmente su diretto incarico del primo. Funzionario statale ben inserito a corte, Borrini aveva ottenuto un consistente prestito per la ricostruzione della strada dei marmi e la riapertura di alcuni siti estrattivi, unendosi in società con Henraux, ufficiale napoleonico arrivato a Carrara con l’incarico di gestire l’acquisto e l’invio di blocchi di marmo a Parigi e, dopo la caduta di Bonaparte, agente di Luigi XVIII per il reperimento del materiale per opere di scultura in Italia. Il proposito era quello di avviare un’azienda in grado di contrastare il monopolio carrarese e fornire marmo pregiato ai principali studi di scultura e ornato d’Italia e d’oltralpe. Per promuovere il prodotto alla
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pea. Interessato a comporre un viaggio pittorico della Toscana, Müller si recò in Maremma dove nel 1832 morì tocco di morte improvvisa, nel suo stesso calesse, sulla via che da Manciano conduce a Pitigliano3. Alla scomparsa del pittore, grazie all’intervento di alcuni amici, diversi dei disegni realizzati furono incisi in un album, edito nel 1835 con il titolo Viaggio pittorico nel-
le Maremme toscane e all’isola d’Elba4. Dagli anni Quaranta dell’Ottocento la figura di Müller venne progressivamente dimenticata e, verosimilmente prima della fine del secolo, le tante opere composte sui monti della Versilia e di Carrara, disperse. Per fortuna, prima della scomparsa della raccolta, appartenuta in gran parte a Borrini, la fotografia di alcuni degli acquarelli
In alto e a destra, la fase della lizzatura nella cava di Vasajone in due acquerelli di Jean Charles Müller, 1821 (figg. 2 e 3)
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Veduta delle cave di Ravaccione a Carrara durante la lizzatura del blocco di marmo destinato alla realizzazione della scultura di Luigi XIII in un acquerello di Jean Charles Müller, 1821
su modello di Charles Dupaty. Gli originali dei lavori relativi alle Apuane versiliesi, realizzati da Müller a partire dal 1821, illustrano il lavoro nelle cave del Vasajone, al momento della ripresa della lavorazione sul Monte Altissimo e la “lizzatura” di un blocco di marmo. La prima veduta (fig. 1) mostra la parte centrale della cava, in piena attività, con una trentina di lapicidi e scalpellini occupati a estrarre e riquadrare i blocchi e sulla sinistra due personaggi seduti intenti a dialogare, da identificare, probabilmente, in Borrini e Henraux. La seconda stampa (fig. 2) raffigura l’area dedicata allo stoccaggio dei semilavorati e, in lontananza, la via di lizza, con un pezzo riquadrato in fase di discesa. La terza immagine (fig. 3) mostra in una visione frontale il medesimo blocco, mentre sta scendendo. Una xilografia molto simile a questa, raffigurante il trasporto dello
Le opere raffigurano due tra gli episodi più importanti avvenuti a cavallo dei primi anni Venti dell’Ottocento sulle Apuane: la riapertura delle cave del Monte Altissimo e il trasporto e l’imbarco del marmo destinato alla realizzazione della scultura di Luigi XIII.
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realizzati dal pittore venne in mano all’ingegnere minerario marsigliese Louis Laurent Simonin autore, nel dicembre 1863, di una visita alle cave Apuane confluita in un lungo reportage, edito l’anno successivo, privo di immagini, sulla prestigiosa rivista parigina Revue des Deux Mondes5. La riedizione del testo nel 1869, all’interno del ricco volume Les pierres. Esquisses minéralogiques6 permise a Simonin di pubblicare ben cinque xilografie a piena pagina incise da Charles Laplante e tratte, come ricordano le didascalie, dagli acquerelli inediti di Müller. Le opere raffigurano due tra gli episodi più importanti avvenuti a cavallo dei primi anni Venti dell’Ottocento sulle Apuane: la riapertura della cave del Monte Altissimo e il trasporto e l’imbarco del marmo destinato alla realizzazione della scultura di Luigi XIII da parte di Jean-Pierre Cortot,
L’operazione di estrazione, spostamento e spedizione, gestita direttamente da Henraux e durata complessivamente un lustro, fu l’episodio più impegnativo che interessò le cave apuane nel periodo a cavallo del secondo e del terzo decennio del secolo.
stesso elemento visto in un momento di poco successivo, che possiamo ipotizzare provenga dal gruppo delle opere in possesso di Simonin, ma non utilizzata, verrà inserita dall’anno successivo su dizionari enciclopedici stampati in Germania e in Italia, a corredo della voce relativa agli Appennini7. Le restanti due tavole tratte da lavori del pittore svizzero edite nel 1869 raffigurano, come anticipato, un episodio avvenuto a Carrara nel 1823: il trasporto, dalle cave di Ravaccione alla spiaggia di Avenza, del gigantesco blocco di marmo servito per la statua equestre di Luigi XIII, oggi in Place des Vosges a Parigi. L’operazione di estrazione, spostamento e spedizione, gestita direttamente da Henraux e durata complessivamente un lustro, fu l’episodio più impegnativo che interessò le cave apuane nel periodo a cavallo del secondo e del terzo decennio del secolo. L’esemplare imbarcato è considerato ancora oggi il blocco più grande trasportato oltralpe. Grazie ai riferimenti al Müller contenuti nel volume di Simonin è possibile attribuire al pittore svizzero un altro disegno, conservato oggi al Museo Thorvaldsen di Copenaghen,
noto con il titolo Ship loading Marble Blocks at the edge of the Sea at Carrara8, pubblicato spesso con riferimento fantasioso ad un artista fiammingo del XVIII secolo. Anche in questo caso l’immagine riprodotta da Simonin e il disegno della galleria danese, non solo rappresentano lo stesso soggetto, ma in quanto realizzati nello stretto intervallo temporale, dimostrano le grandi doti dell’autore, la cui velocità nel tratto non faceva venir meno l’incisività nel raffigurare – attraverso i contrasti del disegno e la scelta del punto di osservazione – sia la complessità del soggetto e del vasto paesaggio sia l’essenzialità dei piccoli gesti dell’umanità che li componeva. Diversamente dalle opere realizzate sulla spiaggia di Avenza, nelle prove dal vero sulle Apuane la scelta dei punti di vista sembra tesa non tanto a marcare l’immediatezza e l’autenticità della visione quanto a cercare di offrire la migliore completezza essenziale del visibile. Impegnato nella ricerca di una restituzione minuziosa calligrafica e topografica dei luoghi, in queste opere lo spirito appassionato di Müller si stempera e la naturalezza e la ge-
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La spiaggia di Carrara durante l’imbarco del marmo in un acquerello di Jean Charles Müller, 1821
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nuinità della visione – riconoscibili nella serie delle vedute maremmane e nelle poche altre opere note – lascia il posto ad un effetto più decisamente didascalico. Le difficoltà riscontrate dall’artista nel realizzare i disegni sulle cave sono peraltro ben specificate in un brano contenuto in un’altra missiva inviata, sempre a Luisetta Angiolini, il 7 luglio 1822, laddove Müller confessa: “Je continue toujours l’ouvrage de l’Altissimo, mais les sortes de sujets là sont froid à epeinter (sic). Les compositions, ou les cites bien choisis d’aprés nature, me sont bien plus agreeable à faire”9. Novant’anni fa nel volume sulla Versilia della serie L’Italia artistica10 Augusto Dalgas presentava le fotografie degli originali di tre delle cinque opere inserite nel lavoro di Simonin senza alcun riferimento all’au-
tore. Nello stesso testo Dalgas pubblicava un acquerello raffigurante il trasporto di un blocco di marmo con la didascalia: “Uno dei primi blocchi scavati al M. Altissimo nelle cave del Cav. Borrini (da un quadro del pittore Müller esistente in casa Borrini)”. È questa al momento l’unica altra tessera nota del corpus d’immagini realizzate dal pittore losannese sulle Apuane, i cui originali sono oggi purtroppo, come abbiamo visto, quasi tutti perduti. Un gruppo di vedute che, al valore più puramente artistico, affianca una valenza storica e documentaria preziosa, fatta di intrecci e rapporti tra industria e arte, oggi ancora tutti da indagare e che, anche per questo, speriamo non sia andato distrutto e possa presto riemergere dall’oblio nel quale da oltre un secolo è stato confinato.
1 Archivio Bagni Amadei, Seravezza, Lettera di Jean Charles Müller a Luisetta Angiolini, Seravezza, 13 ottobre 1822. 2 Archivio Thorvaldsen Museum, Copenaghen, Lettera di Marco Borrini a Berthel Thorvaldsen, Seravezza, 4 marzo 1821 (erroneamente la lettera è archiviata con la data del 4 marzo 1825). 3 X [Gino Capponi], Carlo Müller, in “Antologia”, XLVI, 1832, pp. 238-239. 4 Viaggio pittorico nelle Maremme Toscane e all’Isola d’Elba disegnato da Carlo Müller pittore paesista svizzero inciso e pubblicato da Fortunato de Fournier, Firenze, 1835. 5 Louis Laurent Simonin, Les marbres de l’Altissimo et de Carrare, in “Revue des Deux Mondes”, 52, 1erJuillet 1864, pp. 125-161. 6 Louis Laurent Simonin, Les pierres. Esquisses minéralogiques, Paris, 1869. 7 In Germania ad esempio venne pubblicata con il titolo Ninenbeim Marmorbruch Vasajoneam Monte Altissimo nel primo volume dell’Illustrirtes KonversationsLexikon stampato a Leipzig nel 1870 (coll. 779-780). 8 Anonimo (Jean Charles Müller), Ship loading Marble Blocks at the edge of the Sea at Carrara, Thorvaldsen Museum, Copenaghen, Inv. D906. Si tratta di un lavoro su carta delle dimensioni di cm. 43x56, eseguito con carboncino, penna, pennello, inchiostro e gessetto bianco. 9 Archivio Bagni Amadei, Seravezza, Lettera di Jean Charles Müller a Luisetta Angiolini, Seravezza, 7 luglio 1822. 10 Augusto Dalgas, La Versilia, Bergamo, 1928.
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Jean Charles Müller, acquerello, 1821, particolare
DI ALDO COLONETTI
LO SHOWROOM LUCE DI CARRARA: MOLTEPLICI FUNZIONI PER MOLTEPLICI IDENTITÀ P
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L’antica segheria Henraux – una palazzina realizzata intorno al 1890 che sta come una sorta di occhio vigile a controllare il flusso dei movimenti dei blocchi di marmo che arrivano dalle Apuane per poi ripartire, dopo essere stati lavorati, plasmati, ridisegnati, sempre dallo stesso cancello, verso il mondo – rappresenta da sempre, pur attraverso funzioni diverse che via via sono state ospitate, la cerniera tra il “dentro” e il “fuori”
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dell’azienda. Da qui la decisione di affidare il progetto di ristrutturazione a Marco Casamonti, proprio per marcare, nel rispetto della struttura e della tessitura esterna dell’edificio, il fatto che la storia è in grado di parlare ai contemporanei, se viene interpretata attraverso il linguaggio estetico attuale. Henraux è un’azienda che progetta e lavora su tre fronti: l’architettura, il design con il brand Luce di Carrara e l’arte con
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Render del nuovo showroom Luce di Carrara, progetto Studio Archea, Firenze
Render del nuovo showroom Luce di Carrara, progetto Studio Archea, Firenze
Gli architetti si dividono in due grandi categorie: progettisti molto professionali che rispettano le regole del gioco, cercando di declinare la propria identità con i diversi movimenti e sollecitazioni che provengono dal dibattito culturale e progettuale, e architetti che hanno sempre rivolto lo sguardo verso altre discipline, dal design alla cultura materiale, dalla ricerca teorica – magari
dirigendo anche riviste internazionali – all’organizzazione di mostre, soprattutto curiosi di qualsiasi cambiamento che provenga dal mondo della ricerca applicata, e quindi dalla produzione, senza dimenticare mai che la forma di qualsiasi artefatto rappresenta l’imprinting della propria identità. Marco Casamonti appartiene alla seconda categoria, per frequentazioni culturali, perché l’arte contemporanea fa parte del suo dna storico e famigliare, perché ha diretto e dirige riviste internazionali come Area, ma soprattutto perché la relazione tra progetto e sistema industriale, sul piano della ricerca applicata, l’ha sempre accompagnato in qualsiasi avventura professionale. Come sottolinea lo stesso Casamonti: “L’architetto o il designer può rispondere, al di fuori degli schemi consolidati, alle diverse esigenze della committenza, tramite il supporto di realtà industriali che non hanno perso quella qualità artigianale che consente a molti produttori di componenti per l’architettura d’interpretare creativamente, soprattutto dal punto di vista tecnologico, temi e progetti particolarmente complessi”. Ecco una delle caratteristiche fondamentali di Casamonti, come lui stesso la definisce: l’“extra-ordinario”, ovvero rispondere alle sollecitazioni della committenza – in senso lato, perché può essere anche la partecipazione a un
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la Fondazione. Tre ambiti strategici del Made in Italy al centro dei quali il marmo gioca un ruolo di assoluto protagonista: era dunque necessario raccontare e presentare queste identità diverse ma fortemente complementari. Lo spazio interno, disegnato dall’arch. Marco Casamonti, consente sia attività espositive che lavorative: un’area vuota al centro che sviluppa lungo il perimetro interno dell’edificio le scale e una passerella, anche per consentire l’accesso al piano superiore. Progetto flessibile, ma realizzato intorno ad alcuni punti fermi: il rispetto dell’architettura preesistente e la definizione di un nuovo spazio che utilizza tutta la verticalità dell’antica segheria, permettendo al visitatore diversi punti di vista, fondamentali quando si parla di volumi e di superfici che derivano dalle variabili infinite della natura, perché il marmo è espressione di “artificio e natura”.
Il futuro del progetto sta tutto dentro questa apertura verso la dimensione individuale riconducibile soprattutto al territorio e alle capacità artigianali, declinata comunque all’interno di tutte quelle nuove regole che derivano da processi produttivi innovativi e dal dialogo tra le diverse discipline.
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Render del nuovo showroom Luce di Carrara, progetto Studio Archea, Firenze
concorso che pone domande progettuali “straordinarie” – sapendo di trovare sempre una soluzione coerente. Il passaggio da una dimensione all’altra, da un materiale all’altro, è possibile solo se si assume un atteggiamento flessibile, capace d’individuare nella potenzialità di una forma, di un linguaggio compositivo come di un materiale, altre possibilità espressive. Uno dei migliori progetti di Marco Casamonti è la cantina Bargino per gli Antinori, a San Casciano Val di Pesa: “Un nuovo modo per abitare e vivere nella terra: più di 500 metri di strade interrate, parcheggi di sosta che non si vedono, migliaia di metri quadri di aree di manovra e di lavoro oltre i 15 metri sotto il livello della collina. Il tutto come se fosse sempre esistito, impiegando materiali come la terracotta, l’acciaio corten, insieme a una serie di cementi che hanno la tonalità della terra”, precisa Marco. Ecco, però, svilupparsi l’idea quando nasce la necessità di progettare una libreria dove si raccolgono anche ricordi, fotografie, oggetti che non si vogliono dimenticare, e dialogare con una serie di prototipi studiati per gli interni della Cantina e da qui arrivare a disegnare un vero e proprio sistema componibile, in terracotta, per Moroso: Terreria, ovvero una libreria fatta di terra. “Architettura e design s’intrecciano, senza distinzione di
scala, il tutto mettendo in gioco i cromatismi, le tattilità che la ceramica ha messo a disposizione dell’uso domestico nel corso dei secoli, variando dalla ruvidità della terracotta alla lucentezza degli smalti”. Ma non è finita. Quando Casamonti incontra, per una serie di progetti Paolo Carli, presidente di Henraux, in particolare per la ridefinizione dell’antica segheria collocata all’interno dell’azienda a Querceta per trasformarla in uno spazio culturale e di presentazione istituzionale, immediatamente si sviluppa un altro concetto progettuale, nel rispetto della prima intuizione legata alla cantina: cambia il materiale, si utilizza il marmo, per cui dalla Terreria si passa a un sistema modulare per una nuova libreria – Marmeria – a dimostrazione che essere flessibili porta sempre a trovare un “filo rosso”, pur nelle differenze progettuali. Dalla terra al marmo fino al legno, sempre con la stessa filosofia: “Quando Itlas, un’azienda nota per la lavorazione del legno per pavimenti e rivestimenti, mi ha chiamato a disegnare oggetti e sistemi, ho pensato che la regola fondamentale per cominciare un nuovo percorso dovrebbe essere quella del rispetto del materiale, da un lato, e, dall’altro, della possibilità di pensarlo in modo nuovo, indagando nelle sue po-
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Render del nuovo showroom Luce di Carrara, progetto dello Studio Archea, Firenze
tenzialità non espresse. Il legno massivo possiede una forza straordinaria: essere sempre diverso, pur nel rispetto della serialità progettuale”. Da qui una serie di lavabi in legno massello, scavati dal pieno, un portagiornali che raccoglie oltre alle riviste anche il legno e le assi che le separano, “permettendone una comoda presa, una lampada, un vassoio, un vaso porta-fiore”. Dietro tutte questi progetti vi è lo sguardo oltre il proprio perimetro disciplinare che porta verso nuove esperienze senza mai dimenticare che la destinazione ultima di un oggetto, come di un’architettura, deve essere sempre la “persona” e non il narcisismo dell’architetto. “Come scrive Paul Valéry – precisa Casamonti – le opere ci parlano e ci trasmettono sensazioni e stimoli particolari, ciascuna delle quali appartiene a un singolo individuo. Se accettiamo tale ipotesi, e cioè la sovrapposizione dei giudizi, delle esperienze e delle attività, non possiamo
non riconoscere che il valore delle differenze che si oppone alla banalizzazione esprime con evidenza quanto sia priva di senso il diffondersi di un gusto internazionale che rifiuta le differenze culturali, che mortifica le specifiche identità, che non valorizza le tradizioni locali”. Il futuro del progetto sta tutto dentro questa apertura verso la dimensione individuale, riconducibile soprattutto al territorio e alle capacità artigianali, declinata comunque all’interno di tutte quelle nuove regole che derivano da processi produttivi innovativi, dal dialogo tra le diverse discipline che concorrono alla definizione delle “cose” e delle “relazioni”, sapendo che materiali naturali come il marmo, il legno, la ceramica esistono da sempre, anche se aspettano, sempre, qualcuno in grado di interpretarli in un modo diverso rispetto a tutti gli altri. Qui risiede il “valore della differenza”, e Marco Casamonti appartiene a questa categoria.
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999 UNA COLLEZIONE DI DOMANDE SULL’ABITARE CONTEMPORANEO MOSTRA ALLA TRIENNALE DI MILANO
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“Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”, diceva Confucio. Ed è proprio questo che la mostra 999 Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo tenutasi alla Triennale di Milano dal 12 gennaio al 2 aprile 2018 ha invitato a fare: guardare, toccare, provare. Una grande esposizione sull’abitare che si è strutturata innanzitutto come una grande casa, con i suoi vari ambienti, situazioni, attività e relazioni. Una casa intesa non tanto come luogo, ma come esperienza: un palinsesto di realtà italiane affiancate da ospiti internazionali hanno infatti coinvolto il grande pubblico in maniera interattiva
e partecipata grazie a una serie di ambientazioni fisiche, digitali e social. Il visitatore è stato invitato a compiere un vero e proprio viaggio nell’abitazione di un futuro che si è fatto presente, spostandosi da un ambiente all’altro e interagendo in prima persona con tutta una serie di nuovi modi di “abitare”. Un abitare che si apre al mondo, una casa che diventa città che accoglie forme e modalità diverse del vivere. In questo contesto Luce di Carrara, con lo studio di architettura e design BBMDS, ha voluto esplorare il concetto basilare di “casa”, lo spazio inteso come luogo in cui vivere e non solo: anche come contenitore di esperienze,
storie, memoria, reso unico da coloro che la abitano. La casa come modulo – ripetibile nella forma ma mai uguale nella sostanza – dal cui replicarsi nascono borghi, paesi, città. Da questa riflessione nasce 999 mini case in marmo, ognuna diversa, unica, non replicabile, con la propria personalità. 999 mini case esposte in modo seriale a creare un modello urbano ideale. Multiplo dalla forma essenziale, iconico oggetto di design, il progetto presentato alla Triennale di Milano è reso unico dal marmo, nobile e prezioso materiale che dona la sua essenza anche all’oggetto più minuto.
Al termine della mostra le 999 mini case in marmo sono diventate oggetti numerati venduti singolarmente. Il ricavato è stato destinato alle attività che la onlus ActionAid realizza in Centro Italia attraverso il progetto SIS.M.I.CO che sostiene le comunità colpite dal terremoto. Un piccolo gesto con un grande valore. Fuori scala, come le 999 mini case in marmo.
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SABATO 18 NOVEMBRE 2017, MILANO COLLOCAZIONE PERMANENTE DELLA SCULTURA IL SEME DELL’ALTISSIMO DI EMILIO ISGRÒ ALLA TRIENNALE
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La lavorazione de Il Seme dell’Altissimo all’Henraux
È un seme maestoso quello di Emilio Isgrò, sviluppato per un miliardo e cinquecento milioni di volte rispetto alla sua misura di origine. Una scultura di sette metri d’altezza realizzata da Henraux in marmo bianco Altissimo proveniente dalla cava delle Cervaiole sul Monte Altissimo. La scultura, composta da due elementi di 250 e da un elemento di cm 200 cm, è stata ricavata da due blocchi di cm 540x170x195 e 250x140x190. La realizzazione dell’opera ha richiesto circa 2 mesi di lavorazione, tempo in cui, sotto la supervisione di Isgrò, le maestranze e i tecnici di Henraux hanno saputo trasferire sul marmo il pensiero dell’artista. L’opera poggia su una pavimentazione circolare di 15 metri di diametro, realizzata in Versilys, pregiato marmo grigio venato anch’esso proveniente dal Monte
Emilio Isgrò e l’Assessore alla cultura di Milano Filippo Del Corno accanto alla scultura Foto di Manfredi Cirlinci
Altissimo, nella quale sono state intarsiate, in pietra del Cardoso, le diciture immaginate da Isgrò a corredo dell’opera. L’artista, di origini siciliane ma milanese di adozione, ha scelto un soggetto strettamente legato alla sua terra ed al Mediterraneo. La storia di questo seme parte infatti da Barcellona di Sicilia dove Isgrò creò nel 1998 il Protoseme, ovvero una gigantesca scultura in fiberglass, materiale povero, inserita in un sontuoso contesto di lava e scorie vulcaniche. Un seme che spaccava la terra per farsi vedere, interpretando perfettamente il tema centrale di Expo 2015 “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, esposizione per la quale nel 2015 Henraux ha realizzato l’opera immaginandone fin dall’inizio, in accordo con l’artista, la successiva donazione alla città di Milano.
Durante Expo 2015 Il Seme dell’Altissimo, unica opera monumentale in marmo presente, era stata sistemata all’ingresso principale di Expo Center, in una posizione privilegiata che l’ha resa visibile a tutti i visitatori dell’esposizione universale. Con la donazione dell’opera alla città di Milano, Il Seme dell’Altissimo trova collocazione permanente vicino alla Triennale, all’interno di Parco Sempione. La scultura rappresenta un elemento importante per l’azione di riqualificazione dell’area e con questa donazione al capoluogo lombardo, Henraux fa sì che ancora una volta essa diventi fruibile a un vasto pubblico. Per la posa e la protezione dell’opera sono stati utilizzati prodotti MAPEI, azienda vicina alle necessità di Henraux e sempre attenta al connubio industria/ arte.
Emilio Isgrò, Il Seme dell’Altissimo, 2015, marmo bianco Altissimo Foto di Gianluca Di Ioia
“Io non lavoro sulla clonazione planetaria. Non rappresento ciò che già di per sé è troppo vistoso e visibile e dunque non ha bisogno di rappresentazioni ulteriori. Io, più modestamente, rappresento il seme che non si vede. Ma c’è.” Emilio Isgrò, da Teoria del Seme, 1997
Emilio Isgrò, Il Seme dell’Altissimo, 2015, marmo bianco Altissimo
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MERCOLEDÌ 20 SETTEMBRE 2017, MILANO UNA GIORNATA PARTICOLARE
Il 20 settembre 2017 è stata, per Henraux, una giornata emblematica che ha saputo sintetizzare in poche ore la variegata essenza dell’azienda, la sua molteplice identità. È stato il giorno che da un lato ha segnato l’ingresso del brand Luce di Carrara, la linea di design di Henraux, nel territorio milanese con il pre-opening di un proprio corner nello showroom Gorlini e, dall’altro, ha confermato l’impegno dell’azienda versiliese a contribuire al dibattito intellettuale sui temi dell’architettura, dell’arte e del design attraverso una tavola rotonda tenutasi al Teatro Franco Parenti. Naturale è stata la scelta dello Showroom Santa Sofia 27, come vetrina privilegiata nella capitale del design: per entrambi i brand, infatti, è fondante l’idea della sartorialità. Se Luce di Carrara è concepito come prodotto riservato a interior designer e clienti esigenti che cercano nel marmo performance uniche e progetti su misura, allo stesso modo il concept store milanese si presenta come una vera e propria “sartoria” di interni. La presenza di LdC nello spazio è segnata da una straordinaria contaminazione tra marmo, vetro e legno: Marmeria, di Archea&Associati, è rac-
chiusa in un cubo di vetro dove la trasparenza e l’evanescenza di quest’ultimo dialogano con la durezza e la matericità del marmo. Si aggiunge in questo impianto espositivo PiGreco, di Francesco Meda, la seduta composta dal singolare accostamento di marmo e legno. L’opening in anteprima ha annoverato la presenza di ospiti importanti come Mario Botta, Maurizio Riva di Riva 1920, Aldo Colonetti e Jean Blanchaert. Sono proprio questi nomi illustri dell’architettura, del design e dell’arte a segnare il passaggio verso la seconda parte di questa giornata speciale: dallo showroom Gorlini gli ospiti sono stati infatti invitati a trasferirsi al Teatro Parenti dove si è tenuto un momento di dibattito sul marmo e sul suo utilizzo, cui è seguita la toccante pièce teatrale di Elisabetta Salvatori La bimba che aspetta. Dopo l’introduzione del presidente Paolo Carli, si sono alternati al microfono l’eloquio estroso e affascinante di Blanchaert, Aldo Colonetti con il suo bagaglio di solida competenza, la straordinaria esperienza personale e professionale di Maurizio Riva, l’arguzia illuminante di Mario Botta.
L’allestimento del corner di Luce di Carrara presso lo showroom Gorlini
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Elisabetta Salvatori nel suo camerino prima dello spettacolo L’ingresso del Teatro Franco Parenti
Elisabetta Salvatori in scena
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VOLAREARTE LA QUARTA EDIZIONE CON HELIDON XHIXHA
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Si è aperta il 29 giugno 2017 la quarta edizione di VolareArte, la manifestazione biennale promossa dalla Fondazione Henraux presso gli aeroporti di Pisa e Firenze con la preziosa collaborazione di Toscana Aeroporti. L’esposizione completa la ricca programmazione di attività pensate e realizzate da Henraux, che sempre di più acquisiscono carattere di istituzionalità diventando appuntamenti imprescindibili del carnet culturale del territorio toscano e non solo. L’attuale edizione, che proseguirà come d’abitudine per un altro anno, fino al 2019, vede protagonista Helidon Xhixha con le sue sculture di marmo, di acciaio e di luce. Tutte le undici opere – nove delle quali collocate all’aeroporto di Pisa e due all’aeroporto di Firenze – sono monumentali. Il percorso espositivo offre così al viaggiatore distratto un’esperienza d’immediato coinvolgimento emotivo: a Pisa, esposte
negli spazi esterni, si susseguono Nature in Bianco Altissimo, Carved Dream in Statuario Macchietta e Consciousness in Calacatta, e poi Oceano, Terra ferma, Sirena, Elliptical Reflection e Fiamma in acciaio. All’interno spicca Etere in acciaio inox lucidato a specchio. Firenze ospita invece New Beginnings in marmo Versilys e Diversity in acciaio lucido. La monumentalità delle opere dell’artista albanese, unite al lungo periodo di esposizione, trasformano la manifestazione da rassegna temporanea a vero e proprio landmark, raggiungendo così l’obiettivo di rendere il non-luogo per eccellenza, l’aeroporto, un punto di riferimento capace di comunicare sin dal primo sguardo i valori e l’identità del territorio, mettendo in primo piano gli artisti che in esso operano e le aziende più rappresentative. VolareArte ha acquisito negli anni un pro-
filo di sempre maggiore spessore anche da un punto di vista prettamente artistico, fino a concretizzare uno degli obiettivi più importanti che l’arte, e in particolare l’arte destinata a grandi aree pubbliche, si pone: unire le culture e le persone. E lo fa scegliendo di svolgersi in uno spazio non destinato ad accogliere arte; conferendogli, per quanto possibile, l’identità di meta dove poter ammirare opere dell’ingegno e della creatività; e selezionando artisti internazionali che racchiudono, nel loro stile di vita e nell’essenza del loro lavoro, il senso della parola “incontro”. Helidon Xhixha – di origine albanese, che lavora tra l’Italia e Dubai, instancabile esploratore di nuove possibilità creative – cui va la gratitudine di Henraux per aver accettato l’invito a partecipare all’attuale edizione di Volarearte, incarna completamente tale spirito.
Si ringrazia TENAX per l’importante attestato di stima e contributo alla manifestazione e Contini Art UK, l’Hotel Principe di Forte dei Marmi e la Travertini Paradiso per la loro collaborazione.
A sinistra Helidon Xhixha al lavoro Foto di Nicola Gnesi Oceano, 2014 Acciaio inox lucidato a specchio cm 150x90x300 Carved Dream, 2016 Marmo Statuario Macchietta cm 157x106x300
Nature, 2016 Marmo Bianco Altissimo cm 100x160x400
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