Direttore responsabile Paolo Carli Direttore Costantino Paolicchi
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MARMO Rivista annuale Numero 6, 2017 Aprile
Editoriale Paolo Carli
Vice Direttore Aldo Colonetti
Coordinamento Manuela Della Ducata
Il marmo secondo Gillo Dorfles Gillo Dorfles
Redazione Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Nicola Gnesi
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Coordinamento editoriale Eleonora Caracciolo di Torchiarolo
Testi Michela e Paolo Baldessari, Luca Beatrice, Paolo Carli, Aldo Colonetti, Craig Copeland, Gillo Dorfles, Marva Griffin Wilshire, Nicola Micieli, Costantino Paolicchi, Alessandra Scappini
Traduzioni Arcadia Lingue, NTL Firenze
Nicola Micieli
Marmo e ricerche dell’arte concettuale in Italia Salvo, Luciano Fabro, Antonio Trotta: tre protagonisti Luca Beatrice
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Interviste Mario Botta a cura di Aldo Colonetti, Marco Casamonti a cura di Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Mimmo Paladino a cura di Flavio Arensi, Daniele Guidugli, Kim De Ruysscher e Mat Chivers a cura di Rosi Fontana
Riflessioni sulla scultura da Marmo 5 a Marmo 6
Fotografie Archivio Henraux, Hélène Binet, Germano Borrelli, Enrico Cano, Craig Copeland, Valentina Fogher, Veronica Gaido, Nicola Gnesi, Carola Merello, Pino Musi, Agostino Osio, Lorenzo Palmieri, Alessandro Russotti, Pietro Savorelli, Gregor Spänle, F. Tarabella
Mario Botta La gravità come forza architettonica Aldo Colonetti
Disegnare il marmo Michela e Paolo Baldessari
Registrazione presso il Tribunale di Lucca no 3/2017 del 24/02/2017
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Copertina Nicola Gnesi, tutti i diritti riservati
“Stampato sotto gli auspici della Henraux SpA”
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Fotolito e Stampa Industrie Grafiche Pacini
Rivista Marmo: intenzioni per la scultura e per il design del XXI secolo Craig Copeland
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Editore Henraux SpA
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Grafica Silvia Cucurnia, Thetis
Mimmo Paladino Dall’arcaismo al neoclassicismo geometrico
I vent’anni del SaloneSatellite Marva Griffin Wilshire
Design e marmo: essere dovunque senza dimenticare da dove veniamo
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Aldo Colonetti
1517- 2017 Cinquecentenario di Michelangelo all’Altissimo Costantino Paolicchi
Marmo ad arte con le nuove tecnologie Alessandra Scappini
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Flavio Arensi
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Eleonora Caracciolo di Torchiarolo
Notiziario Henraux
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Marco Casamonti Il marmo tra design, arte, architettura
DI PAOLO CARLI PRESIDENTE DI HENRAUX E FONDAZIONE HENRAUX
che lo accompagna, gli interventi in certi casi diventano eco l’uno dell’altro risuonando all’unisono su alcuni punti, come le riflessioni sul concetto di “gravità” o sul senso della contrapposizione tra arte e design, e differendo su altri. Grande spazio è naturalmente dedicato al dibattito sulla scultura contemporanea, ambito nel quale oggi si aprono scenari inediti grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Scenari anche, in certi casi, controversi, di grande complessità e nello stesso tempo di grande stimolo per chi, come Henraux, cerca di coniugare unicità artistica e serialità, industria e cultura, superandone la divisione, come fece a suo tempo Adriano Olivetti, come ha fatto poco dopo Erminio Cidonio e come oggi tentiamo di fare anche noi con la nostra produzione, le nostre collaborazioni e le nostre iniziative. Il tema dell’innovazione tecnica lascia poi il posto ad approfondimenti di carattere storico, a saggi di critica d’arte dedicati all’opera di alcuni scultori, viventi e non, a riflessioni talvolta anche autobiografiche focalizzate su specifici progetti. Chiudo questa mia introduzione menzionando in particolare colui che già intervenne in Marmo 1 nel 1962 e che ancora oggi ci onora con la sua attenzione: Gillo Dorfles, che qui ci regala una testimonianza impareggiabile del passato, aprendo però – sorprendentemente – una finestra sul futuro. Ne terremo sempre a mente la lezione.
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Bentornati. È questa la prima parola che sento di pronunciare alla riapertura di un progetto editoriale e culturale, la rivista Marmo dell’Henraux, rimasto fermo per oltre quarant’anni e che oggi, con il numero 6, riprende con cadenza annuale le sue pubblicazioni. “Bentornati” perché Marmo 6 riapre la porta di casa Henraux e consente al mondo dell’arte, del design, dell’architettura di riaffacciarvisi per scoprire quanto salde siano rimaste le volontà di un’azienda nata nel 1821 che, negli anni Sessanta, con l’illuminato Erminio Cidonio, aveva sentito “… suo dovere essere presente nel campo della cultura figurativa della nostra società, laddove i fermenti artistici e le innovazioni del disegno industriale si fondono per dar vita alle forme del mondo d’oggi” e quanto radicate nel presente e protese ancor più verso il futuro siano le idee che le danno vita oggi. Artisti, architetti, designer, critici d’arte e del design saranno qui raccolti per dare conto di ciò che negli ambiti del progetto e delle manifestazioni artistiche di tutto il mondo si distingue per qualità, innovazione – tema carissimo a Henraux –, intrinseca contemporaneità. Con un’attenzione particolare ai materiali. Marmo è dunque strumento di comunicazione, spazio di dialogo, terreno di dibattito. Sorprendente quanto ciò si sia rivelato vero nel numero attuale: chiamati a una riflessione sull’utilizzo del marmo e sui cambiamenti avvenuti in questi quarant’anni nella sua percezione, nel suo utilizzo, nella cultura
DI GILLO DORFLES FOTOGRAFIE DI NICOLA GNESI
IL MARMO SECONDO GILLO DORFLES L
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Il marmo per me è sempre stato, soprattutto, un’esperienza legata alle Apuane, il monte Altissimo in particolare dove sono stato spesse volte con amici a fare passeggiate, con il mare che si vede in lontananza. Ma il marmo appartiene alla mia memoria anche per un’altra ragione: uno degli scultori che più ho amato e che ritengo, tuttora, una delle più alte espressioni dell’arte del Novecento è Henry Moore. Un artista che ho incontrato alcune volte, anche in Italia, dal lontano 1948, quando era alla ricerca del suo “marmo”, proprio nelle cave delle Apuane. Moore è un mirabile artigiano, un artefice consumatissimo nell’uso dei più svariati materiali; il suo carving nel marmo rappresenta un modello forse unico, questo anche per la collaborazione prima degli scalpellini toscani, poi delle macchine di alcuni studi e aziende, tra Carrara, Pietrasanta e Querceta, che sono in grado di ripro-
mato la natura in una serie di sculture “artificiali”, perché l’uomo le ha scavate all’interno della montagna, visibili anche in lontananza, soprattutto quando si percorre l’autostrada da Sarzana a Viareggio. Sono spettacoli straordinari che cambiano da stagione a stagione, una sorta di grande mostra di Land Art, tra valli, strapiombi, pareti verticali, profondità inattese, proprio perché sono il risultato di un lavoro centenario di uomini. Certamente le nuove tecnologie hanno permesso scavi e ricerche, prima impossibili, ma è l’intera scenografia che abbiamo di fronte che mi fa dire che “natura e artificio” sono certamente tra loro qualche volta conflittuali, ma che comunque, senza la volontà dell’uomo di andare oltre la superficie della natura immacolata, sarebbe stato impossibile scoprire un materiale unico, insieme a questo paesaggio che sembra giungere fino a noi da molto lontano: come se fosse sempre esistito. Il marmo possiede un’altra qualità: non esiste replica possibile al fatto che ogni millimetro quadro è solo stesso, originale, sempre diverso, al massimo si può fotografare una lastra e cercare di
Un’altra caratteristica del marmo è la sua “rarità”, ovvero è destinato, in un futuro molto ma molto lontano, a esaurirsi. Questo significa che è necessario utilizzarlo al meglio, nell’arte, nell’architettura e nel design.
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durre perfettamente il lavoro manuale. Ma il marmo è anche un materiale insostituibile per l’architettura contemporanea, in modo particolare quando le facciate verticali hanno bisogno, oltre che del vetro, di un linguaggio materico, capace di parlare, contemporaneamente, le tendenze della grande tradizione classica ma anche quelle di una contemporaneità che vuole esprimere una specifica “monumentalità”, accanto alla transitorietà, alcune volte effimera, tipica dello stato dell’arte della città moderna. Un altro grande mio amico, che ritengo uno degli architetti italiani più originali del ‘900, Angelo Mangiarotti, quando aveva necessità di affidare a forme particolari la propria ricerca espressiva, si affidava al marmo, conoscendo anche la straordinaria capacità delle macchine di tradurre il proprio segno, continuo e già compiuto, in sculture. Ricordo, a questo proposito, la scultura posta davanti alla Triennale di Milano, gli oggetti di design vincitori del Compasso d’Oro, e gli elementi costruttivi per le sue architetture. Ma esiste anche un altro aspetto, unico, del marmo delle Apuane: l’aver trasfor-
Emilio Isgrò, Il seme dell’Altissimo, 2015, marmo Bianco Altissimo, Milano Expo
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realizzare una superficie simile, ma non sarà mai perfettamente uguale all’originale. Ecco, nell’epoca della riproducibilità infinita, siamo di fronte a una sorta di unicum che la terra ci offre, ogni giorno, ci fa scoprire, come se affermasse che la creatività non appartiene solo all’uomo, ma è presente in alcuni materiali naturali, nel nostro caso, il marmo, dove il processo creativo non si pone limiti di alcun genere: ogni disegno è possibile, ogni accostamento cromatico è diverso dai precedenti, i colori vanno e vengono, sfumano, le vene costruiscono forme imprevedibili. Non mi sono mai stancato di guardare, sempre con sorpresa, la varietà infinita delle forme lapidee. Un’altra caratteristica del marmo, che ritengo unica rispetto a tutti gli altri materiali, è la sua “rarità”, ovvero è destinato, in un futuro comunque molto ma molto lontano, a esaurirsi. Questo significa che è necessario utilizzarlo al meglio, nell’arte, nell’architettura e nel design. Certamente il territorio di cui stiamo parlando possiede tutte queste qualità, in quanto è una vera e propria filiera unica al mondo – dalle cave, alla trasformazione, alla lavorazione industriale e artigianale –, in grado di rispondere a tutte le esigenze delle discipline progettuali. Per questa ragione le Apuane appartengono a una storia esemplare, da preservare nella sua totalità, attraverso il lavoro, dall’estrazione
alla commercializzazione a livello internazionale: fanno parte del Made in Italy che qui ritroviamo all’interno di un paesaggio che sembra già parlare il linguaggio estetico, rintracciabile nella città e nei paesi sparsi nel territorio, come se non aspettasse altro che l’intervento della mano dell’uomo. Per questa ragione non è casuale il fatto che l’unica presenza, nell’Expo di Milano, del marmo, sul piano dell’espressione artistica, sia rappresentata dalla scultura di Emilio Isgrò, Il seme dell’Altissimo, da un disegno originario dedicato al seme d’arancio, trasformato nel nostro caso in una grande scultura in marmo Bianco Altissimo, alta sette metri, realizzata dall’azienda Henraux. Anche in questo caso è stata la straordinaria qualità esecutiva, ma direi anche “creativa”, da parte degli uomini e delle macchine che hanno reso possibile una sorta di ricontestualizzazione e riposizionamento totalmente originale dal punto di vista percettivo e interpretativo. Il marmo è tutto questo, è in grado di andare al di là delle intenzioni del progettista, restituendo allo spettatore, ma direi soprattutto alla storia dell’arte, opere che sarebbero rimaste, in parte, solo nella mente dell’artista: idea e azione, disegno e realizzazione sono un tutt’uno, quando si affronta un materiale come il nostro.
Vista del Monte Altissimo con la cava Cervaiole
DI NICOLA MICIELI
RIFLESSIONI SULLA SCULTURA DA MARMO 5 A MARMO 6
Henry Moore, bozzetto per Oggetto affusolato (Spindle piece), 1968-1969, Querceta. Collezione Henraux Foto di Veronica Gaido
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Con la ripresa di Marmo è parso giusto seguitare per sommi capi il ragionamento di Marchiori sulla scultura del Novecento dal ’45 al ’70. 15 | Arte
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La Rivista internazionale d’arte e d’architettura Marmo della Henraux cessava le pubblicazioni nel novembre 1971 con il numero 5, monografico in sei sezioni: Venticinque anni di scultura nel mondo, curato da Pier Carlo Santini. Lo firmava integralmente Giuseppe Marchiori con due saggi inediti di introduzione generale (Una conversazione sulla scultura moderna e La scultura italiana moderna), scritti riproposti come “Pagine di Diario” dal 1948 al 1970 e dieci messe a fuoco su Consagra, Serrano, Lardera, Pevsner, Lipsi, Gilioli, Kemeny, Ipoustéguy, Jacobsen ed Etienne Martin, Mirko. Con la ripresa di Marmo è parso giusto seguitare per sommi capi il ragionamento di Marchiori sulla scultura del Novecento dal ’45 al ’70. La conversazione d’apertura, travalicando in retrospezione i limiti temporali dichiarati, è un excursus agile quanto puntuale su origini e linee evolutive della scultura moderna. A far data dall’Impressionismo, e sue derivazioni “post”. L’emancipazione dagli ormai estenuati modelli accademici, l’avviavano nel loro lavoro plastico i pittori (Renoir, Degas, Gauguin, Matisse), prima di Rodin, e soprattutto Medardo Rosso, scultori certamente avvertiti dei principi impressionisti. Con il modellato sensibile all’incidenza della luce e l’animazione della forma plastica nello spazio, che la compenetra, quei pittori affidavano la scultura al naturale fenomenico, al relativismo percettivo e alla soggettività della restituzione visiva. Irrompe l’accidentale della vita nella scultura. Il corpo plastico finalmente non occupa lo spazio/ambiente ma lo abita, ne subisce l’influenza come materia, forma e figura, e a sua volta lo “modella” con la propria morfologia. La scultura cominciava a pretendere una concreta identità, su valori materici, formali e strutturali che dal sensibilismo epiteliale di Rosso avrebbero portato alle “forme uniche della continuità nello spazio” di Boccioni e oltre. Fino al costruttivismo raggista di Pevsner e a quello cinetico del fratello Gabo, i cui impianti si percepiscono quali puri piani di luce (Marchiori).
Su questa linea, seguiranno i “mobiles” di Calder, sculture smaterializzate per riduzione della massa in morfemi a lamelle collegate da giunti lineari e sospese, come sistri animati dall’ala del vento; gli impalcati filiformi e musicali di Melotti, egualmente senza peso; l’evoluzione aerea del tubo al neon generatore di luce di Fontana spazialista. Queste esperienze, peraltro, arricchivano la gamma dei materiali eteronomi – prodotti di sintesi, neon, oggetti industriali – accolti e legittimati nel laboratorio della scultura. Ricordo che il primo ready made di Duchamp è del 1913. Ma con Fontana siamo ormai a metà secolo e la ricerca scultorea ha compiuto un lungo cammino. È del 1946 il “Manifiesto blanco” nel quale, considerando i traguardi raggiunti dalla fisica delle particelle, Fontana dichiarava ormai ineludibile, in arte, la dimensione dello spazio/tempo anticipata da Boccioni. Con i “tagli”, quella dimensione Fontana la schiude anche sulla superficie della tela, il luogo canonico della pittura, se vogliamo ancora parlare di pittura per i suoi monocromi. Lo Spazialismo si fa trampolino di lancio, attraverso il diaframma della tela, nello spazio infinito. Del resto, il 4 ottobre 1957 sarebbe stato lanciato lo Sputnik, primo satellite artificiale. Con gli impressionisti, dunque, l’originario “punto di crisi e di rinnovamento” (Marchiori) della scultura, ancora esclusivamente antropomorfa, cominciava a svincolarsi dalla forma classica. Il disegno già ordinatore esclusivo della partitura, cederà spazio operativo ad altri elementi formatori. Intanto la materia, nei diversi suoi stati, e i materiali di produzione industriale e di recupero. Quindi la struttura meccanica e quella lineare, che sfidano la statica protendendosi nello spazio, come la ciclopica torre a spirale (400 metri) costruttivista progettata nel 1919 da Tatlin per la Terza Internazionale e mai realizzata, oppure il possente cubo-futurista Monumento alla Resistenza (Cuneo, 1969) di Mastroianni, il cui moto virtuale si sviluppa da nuclei generatori di linee-forza. Infine lo stesso spazio che da “contenitore” della scultura si fa attivo
del cubismo, con memorie egizie, greco-arcaiche e medievali toscane. Braque e Picasso cubisti per la prima volta rappresentano nel teatro della scultura l’oggetto scomposto in piani ribaltati e compenetrati. Boccioni scompone la forma plastica visualizzandone come in un cronogramma la trasformazione e la durata nello spazio/tempo. A questi scultori di matrice pittorica, dunque, si devono, per così dire, gli etimi dei linguaggi della scultura moderna. Per la cui fondazione fu peraltro decisivo il contributo di uno scultore come il Brancusi totemico, sacerdote della religione primigenia della natura, che apriva alla scultura il territorio delle forme primarie di arcaico sedimento antropologico, figure e luoghi del collegamento tra l’infero e il supero. Brancusi non mancò di operare la sintesi e la scomposizione lineare delle forme piane e solide, così come la modulazione di quelle sinuosamente svolte nello spazio, esse pure, in definitiva, ricondotte per astrazione a un primario biomorfo delle creature. Nell’arco che dagli impressionisti va a Brancusi e Duchamp, erano già tutte poste, e presto le metteranno in opera gli scultori più aperti al nuovo, le linee portanti della scultura moderna. La cui proteiforme fisionomia si è articolata, fino agli anni Settanta, sui versanti della ricerca e le linee di tendenza stilistiche desumibili dalle pagine di Marchiori. Versanti e linee che hanno seguitato a dipanarsi nei decenni successivi, transitando aggiornati nel nuovo secolo e millennio. Mentre si apriva una vasta area di pratiche artistiche a base concettuale e translinguistica, che chiamerei “dello sconfinamento”, esperienze condotte nel segno della contaminazione e dello slittamento semantico di ambiti espressivi e media, di materiali e tecniche, di generi e linguaggi. Per la diversità e la sinergia dei modi operativi e dei codici attivati, sono quindi cambiati, nel senso che hanno assunto altre e più sfuggenti accezioni, lo statuto plurimillenario e la 17 | Arte
antagonista dei suoi andamenti e ritmi, asperità e corrosioni, concorrendo a definire la forma dei pieni e dei vuoti, il profilo dei piani e la morfologia della loro modulazione concava e convessa. Si vedano, per fare qualche esempio, le “figure distese” e le “forme animali” altrimenti geologiche di Moore; la purezza delle modulazioni di Arp che rimandano a forme della natura o de L’uccello solare di Mirò (1968), che Marchiori sceglieva per la copertina di Marmo 5; le superfici flesse di Alberto Viani, estrema astrazione simbolica biomorfa che par rivelata dal morbido scorrere della luce. Potremmo seguitare con gli sviluppi tra cubismo e costruttivismo di Archypenko; le sintesi plastiche di Noguchi che riecheggiano forme simboliche e figure mitiche delle civiltà; gli Slanci e le Apparizioni di Lardera, sculture planari in lamiera profilata alla fiamma ossidrica e montata, e quelle frontali di Consagra, nelle cui lacerazioni plasticamente erompe, dal sommerso, l’informale. A proposito di informale, ricordo qui che nella complessa fenomenologia della scultura moderna, i sacchi lacerati e le plastiche combuste di Burri, per i valori primordiali, vorrei dire tellurici della materia, appaiono luoghi terremotati nei quali pittura e scultura si incontrano. L’ibridazione è un altro significativo aspetto della scultura novecentesca. Dall’Italia all’America, questa volta in chiave pop di risonanza neodada, altre soluzioni di continuità tra pittura e scultura sono le inclusioni di materiali extrapittorici nei dipinti di Rauschenberg o, per altro verso, il gigantismo degli oggetti dei quali Oldenburg fa “monumenti” alla quotidianità anonima, dipingendoli con colori interi segnaletici da cartellonismo urbano. I percorsi della scultura, insomma, si moltiplicano nel corso del Novecento fino e oltre il ’70 della ricognizione di Marchiori, inseminati tutti da ricerche antesignane per buona parte dovute a pittori che hanno lavorato anche nella scultura. Modigliani coniuga il linguaggio intuitivo delle maschere tribali, così importanti per la nascita
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Hans Arp, Femme-paysage, 1966 ca, Querceta. Collezione Henraux Foto di Veronica Gaido
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Joan Mirò, Oiseau Solaire realizzata nel laboratorio Henraux nel 1968 Collezione Henraux Foto di Veronica Gaido
Gli antichi materiali hanno tenuto e tengono assai bene il passo della scultura moderna e contemporanea. Sulla grande scala delle installazioni monumentali non più connotate in modo retorico, ma di pura e libera scultura creativa, il marmo tiene il campo nel mondo senza apprezzabile concorrenza.
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Mikayel Ohanjanyan, Materialità dell’invisibile, opera vincitrice della seconda edizione Premio Fondazione Henraux, estate 2014 Collezione Henraux Foto di Nicola Gnesi
stessa definizione della scultura come entità fisica e forma plastica, volumetrica, strutturale, variamente sviluppata nella terza dimensione e collocata più o meno stabilmente nello spazio. Si è continuato certo a fare scultura identificabile come tale, utilizzando i materiali della tradizione plurimillenaria e quelli moderni della più diversa provenienza e destinazione d’uso originario. Gli scultori hanno operato in modo artigianale, con l’ausilio di macchine o affidandosi integralmente alle macchine, che con la robotica e la stampa in 3D sono oggi capaci di prestazioni inconcepibili appena qualche lustro fa. Ma saranno da ascrivere alla proprietà mutagena della scultura opere e operazioni del “transito” per così dire, alle quali concorrono più ambiti artistici, strumenti espressivi, modalità esecutive tecniche e comportamentali, in situazioni statiche o dinamiche, umane o meccaniche, reali o virtuali, che comunque investono la terza dimensione, si sviluppano nello spazio, non di rado avendo come veicolo la persona fisica dell’artista. Tra gli anni Settanta e Novanta Ontani eseguiva i Tableaux vivants mettendo in scena attori in costume immobili e silenziosi. Tra fine anni Ottanta e primi Novanta la “body artista” Orlan sceglieva il proprio corpo, segnatamente la testa, come materiale da plasmare e modellare chirurgicamente e mediante protesi. Pratica già tribale di
manipolazione estetica e mascheramento, quella alterazione in progress del soma apriva una pagina nuova di antropologia metropolitana, e poteva ben dirsi scultura in mutazione. Forme e figure avanzate della trasversalità e dell’ibridazione, queste che contrassegnano la scultura degli ultimi decenni del Novecento. Le loro premesse erano già nello spirito, negli atteggiamenti e nella stessa prassi degli artisti delle avanguardie storiche. Le incubazioni e le prime loro manifestazioni si intuiscono e si riconoscono disseminate nei versanti della ricerca e lungo le linee di tendenza desumibili dagli scritti di Marchiori. E diamo uno sguardo rapido a quei versanti, nella continuità/ discontinuità delle linee di tendenza d’onda lunga e nelle nuove modalità operative che raccolgono lungo il cammino. A cominciare dalla linea organica e bio-antropomorfa, risalente alle sintesi di Brancusi, d’una certa turgida purezza legata al principio vitale che fa crescere la forma nello spazio, da Arp a Mirò, Moore, Viani, Hepworth. L’antropomorfismo richiama il versante della scultura figurativa di ascendenza espressionista, incentrata sull’uomo e la sua corporeità portatrice e testimone della condizione esistenziale, da Giacometti a Richier, Marini, Manzù, Ipoustéguy, Perez. Il corpo come “materia” e conformazione plastica, scultura vi-
Daniele Guidugli, Moby Dick (vertebra) particolare opera vincitrice della terza edizione Premio Fondazione Henraux, estate 2016 Collezione Henraux Foto di Nicola Gnesi
materiali o semplicemente contrassegnano come opere: César li comprimerà in presse da sfasciacarrozze, Arman li accumulerà interi o sezionati, Spoerri li comporrà su un piano a trompe l’oeil scultoreo, Manzoni li concettualizzerà appropriandosene per segnatura digitale o come oggetti/contenitori del proprio fiato o dei propri escrementi. Ulteriori modalità d’uso tecnico e di concezione linguista ed espressiva della materia anche vivente e dell’oggetto, le metteranno in campo con un ritorno di interesse internazionale, gli scultori italiani che allo scorcio degli anni Sessanta, Celant annovererà nelle file dell’Arte Povera. Fabro, Kounellis, Merz, Pascali, Pistoletto e altri, “poveristi” perché utilizzano i più diversi materiali poveri di recupero della “fabbrica” umana e naturali, praticano frequentemente l’installazione che estende nell’ambiente la forma “scultura”. Se vogliamo, una forma di arte povera, su grande scala ambientale, è la Land Art praticata dagli anni Settanta da Christo, De Maria, Heizer, Penone, Smithson, che segnando con interventi diretti il terreno, invadendo il paesaggio e alterando aspetti anche monumentali di quello urbano con macroimpianti temporanei, stabiliscono una continuità arte-vita e inducono un godimento e una lettura finalmente non antropizzata in modo deteriore, dell’ambiente. Infine, sulla scena globalizzata del sistema artistico degli ultimi anni, l’installazione rimane la forma scultorea più frequentata e rispondente agli interessi del pubblico, che il marketing sapientemente costruito predispone all’aspettativa di operazioni provocatorie e clamorose. Artisti come Koons con l’appariscenza delle sue sculture pneumatiche di animali in acciaio specchiante; come Hirst con le sue teche da museo di anatomia zoologica in formalina, che attraggono sollecitando il fondo necrofilo della natura umana; come Cattelan con le sue installazioni di animali e papi e dittatori, siparietti pupazzeschi a effetto sorpresa, tra macabri, catastrofisti e surreali, mettono in gioco situazioni che il clamore mediatico del prima e del dopo sancisce come eventi “epocali”. La grande offerta tipologica dei mate-
riali e dei linguaggi altri registrata nella scultura degli ultimi decenni, farebbe pensare per lo meno a una crisi riduttiva della scultura figurativa o astratta affidata al marmo e al bronzo tradizionali, che nella continuità/discontinuità del Novecento sono sicuramente i materiali più frequentati e durevoli, avendo non da ieri trovato il centro mondiale di concentrazione operativa nei laboratori marmiferi e nelle fonderie del comprensorio apuo-versiliese. In realtà, scorrendo l’entità delle opere e il ventaglio delle personalità che hanno lavorato e lavorano in quel contesto, si scopre che gli antichi materiali hanno tenuto e tengono assai bene il passo della scultura moderna e contemporanea. Sulla grande scala delle installazioni monumentali non più connotate in modo retorico, ma di pura e libera scultura creativa, il marmo tiene il campo nel mondo senza apprezzabile concorrenza. Non posso che fare dei nomi, alcuni già ricordati, come mi vengono a mente, e servirebbe un’intera pagina per esaurirli. Si pensi a Poncet, Moore, Adam, Lipsi, Mitoraj, Nivola, Mirò, Yasuda, Finotti, Ogata, Atchugarry, Paladino, Bourgeois, Gilioli, Cardenas, Penalba, Andrea e Pietro Cascella, Sha, Eun Sun, Capotondi, Dereida, Cragg, Theimer, Vangi, Consagra, Ipoustéguy, Noguchi, Botero, Tarabella, Bill, LeWitt, Morris… Qui mi fermo per ricordare soltanto che buona parte degli scultori operativi con materiali altri non hanno mancato di visitare con la dovuta proprietà il marmo, da Arman a César, Cattelan, Pistoletto, Parmiggiani... Attesta infine la vitalità del marmo la stessa Henraux, che riapre oggi la rivista Marmo, nella cui collezione compaiono opere di artisti del calibro di Moore, Mirò, Poncet, Arp, Adam, Noguchi, Ruzic, Mormorelli, Stahly, Gilioli, Vantongerloo, ecc. Le opere di giovani talenti di sicuro avvenire si sono aggiunte negli ultimi anni, come quelle di Fabio Viale, Mikayel Ohanjanyan, Daniele Guidugli. E altre si aggiungeranno in futuro: quelle dei vincitori del Premio Internazionale di Scultura Henraux, intitolato alla memoria di Erminio Cidonio, biennale, riservato a scultori “under 45”.
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vente che muta e agisce nello spazio/ tempo, si fa veicolo dell’operazione artistica nelle esperienze che abbiamo detto del transito interlinguistico, sotto specie di Body Art, Arte d’Azione, Arte Concettuale, come nelle performance di Pane e Abramovic e di Beuys, le cui sculture sono i materiali e gli oggetti manipolati, assemblati e disposti nel corso delle azioni. In antitesi alla pesantezza espressionista del corpo testimone della condizione umana e alla funzione autoreferente della manifestazione corporale come scultura vivente, comunque carica di sensi e implicazioni antropologiche, porrei ora la linea di ascendenza mentale della forma che Filiberto Menna diceva analitica, di impianto costruttivista relazionato allo spazio/tempo, oppure astratto-concreta fondata sull’ordine della geometria, da Tatlin, Gabo, Pevsner alle ricerche del Bauhaus, a Moholy Nagi, Sol LeWitt, Bill, Arnaldo e Giò Pomodoro. A questa linea rimandano anche le semplificate forme geometriche e figure solide del Minimalismo, nel quale si incrociano la scultura e il design, dai cubi di LeWitt ai tubi al neon di Flavin, alle poderose e ponderose installazioni metalliche di Serra, sotto specie anche di mastodontiche strutture primarie inserite nell’ambiente in funzione di sbarramento e di allarme. Composito versante, inclusivo di movimenti e ricerche rinnovatisi dagli anni Cinquanta a oggi, è quello relativo alla matericità, ai materiali e agli oggetti in cui consiste lo statuto fisico della scultura, essendo altresì componenti semanticamente attive del linguaggio. A cominciare dalla poetica della materia degli Informali, da Burri a Dubuffet, Fautrier, Fontana, Leoncillo. Poi i Neo Dada americani di fine anni Cinquanta, Johns e Rauschenberg recuperano alla pittura, o per meglio dire alla pitto-scultura, gli oggetti ready made di Duchamp. In versione Pop Art, Oldenburg trasporrà quegli oggetti in megasculture dipinte da cartellonismo urbano; mentre gli scultori del Nouveau Réalisme teorizzato da Restany, utilizzeranno un intero repertorio di oggetti, che recuperano dopo l’uso, manipolano, traspongono in altri
DI LUCA BEATRICE
MARMO E RICERCHE DELL’ARTE CONCETTUALE IN ITALIA Salvo, Luciano Fabro, Antonio Trotta: tre protagonisti S
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È normativa la convinzione che nella ricerca attorno alla scultura, l’utilizzo di materiali caldi, fortemente connotato nel rapporto con la tradizione, rappresenti un ostacolo verso l’approccio più contemporaneo, in particolare in direzione dell’arte concettuale. Pur nella sua straordinaria magniloquenza, il marmo, sinonimo di bellezza che inevitabilmente tende al neoclassicismo e al monumentale, ha subito quella stessa mutazione genetica che altri materiali, magari meno nobili, sono stati costretti ad affrontare per guadagnarsi la patente di accettazione all’interno del cosiddetto contemporaneo. Necessaria però una premessa. Quell’atteggiamento di assurda diffidenza nei confronti della storia tende a modificarsi con l’ingresso nell’era postmoderna, quando finalmente il passato diventa un archivio della memoria con cui fare i conti, quan-
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do si può scegliere di prendere e utilizzare ciò che serve in chiave di rivisitazione di stile e linguaggio. La pittura forse ci arriva prima, ma è indubbio che verso la fine degli anni Settanta si rovescia il paradigma ideologico di un’arte (e di una cultura) incentrata sull’effetto evoluzionistico. Il che non vuol dire, necessariamente, un atteggiamento nostalgico verso il passato, semmai una nuova presa di coscienza. Con il prima non siamo più conflittuali e anche il ritorno alla manualità del fare può infine dispiegarsi con maggior serenità. Di tale cambiamento, paradigmatica e anticipatrice fu la mostra “La ripetizione differente” curata da Renato Barilli allo Studio Marconi di Milano nel 1974. Il critico bolognese, nell’accostare le esperienze della Pop all’Arte Povera, la pittura figurativa alla citazione del classico, puntò il dito sulla necessità di una svolta. Tra gli artisti invitati, Salvo compì la definitiva scelta
Luca Beatrice Foto di Nicola Gnesi
della pittura, cominciata nel 1973 e mai più abbandonata, fino alla morte avvenuta nel settembre 2015. Ancor prima, 1970, Salvo eseguì Lapidi in marmo su cui incise parole o frasi, enigmatiche e appunto lapidarie, quali “Idiota”, “Respirare il padre”, “Io sono il migliore”. Oppure l’elenco di quaranta nomi comprendenti pittori, filosofi, poeti, scrittori, primo Aristotele e per ultimo, maliziosamente, il proprio. Pur maturate nel contesto dell’Arte Povera, che Salvo fiancheggiò senza mai appartenervi, le Lapidi “mostrano nelle connotazioni monumentali e arcaizzanti un carattere peculiare e precorritore della sua futura ricerca”. Una serie breve, continuata fino al 1972, con iscrizioni varie, dal testo assiro del Lamento di Assurbanipal alla parabola di Esopo per La tartaruga e l’aquila. Sono le premesse del Salvo archivista, mnemonico, catalogatore, che sceglie di
Antonio Trotta, Altri tempi, 2012 Marmo bianco: Spiegato, cm 100x70 e Piegato, ø 50 cm Courtesy Flora Bigai Arte Contemporanea, Pietrasanta. Collezione Henraux
In basso, Luciano Fabro, Crono, 1991, Fondazione Beyeler, Riehen-Basilea Foto di Agostino Osio
classificare prima che pensare. Con lui l’arte concettuale che rimanda ai lavori di Joseph Kosuth si fonda con la monumentalità mediterranea del marmo. Tra i protagonisti dell’Arte Povera, Luciano Fabro è tra i pochi ad aver insistentemente indagato sul classico. Nato a Torino nel 1936 e scomparso a Milano nel 2007, il solo del gruppo a scegliere di vivere e operare in Lombardia, Fabro si definì senza dubbio uno scultore, termine tabù per l’epoca così fortemente connotata nel segno della novità a ogni costo.
Coeve di Salvo le sue prime esperienze col marmo: Spirato, 1973, è la prima scultura realizzata con il nostro materiale. “Lo scultore – diceva – calcola il rapporto tra l’immagine e il lavoro, deve vedere nel ferro, anche se non lo sa, che è battuto e nella ghisa, deve sentire invece che è colata e nel marmo deve sentire che la figura è dentro, battuta dentro”. Nei lavori in marmo, che lo accompagneranno a tratti per tutto il percorso, Fabro sosteneva che di fronte a “diffusi sintomi di inselvatichimento della caduta concet27 | Arte
In alto, Luciano Fabro, Nido, 1994, due tronchi di colonna dorica, Ø 90 cm
In alto, Salvo, 40 nomi, 1971, marmo
A destra, Salvo, Io sono il migliore, 1970, marmo
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tuale” si poteva parlare sottovoce, tornando al “pensiero puro”. Gli bastava anche solo una meravigliosa grande scaglia di marmo per cogliere l’essenza. Nel 1982 Flaminio Gualdoni curò al PAC, ancora Milano, l’importante mostra “La sovrana inattualità”. Riflessione sulle ricerche plastiche degli anni Settanta. Apposta non si parlava di scultura, condizionato dal dogma martiniano della “scultura lingua morta”. Perché inattuale, dunque? “È, appunto, la scelta dell’inattualità, il rischio sollecitato e accettato di fare arte per se stessa, la volontà di contraddire nei fatti (e quindi senza ricreare alternative ideologiche e teoriche) quel falso stato di necessità che la ingabbia dall’esterno. Del resto non si tratta di un atteggiamento affatto nuovo, frutto di riflessioni recenti e di una reazione magari contingente: piuttosto, è il recente collasso della ricerca artistica e della critica commilitante che ha fatto maturare spunti e fattori presenti almeno da quelli che abitualmente si considerano gli inizi dell’arte moderna”. Tutto il contrario della riserva indiana, secondo Gualdoni la scultura pulsa d’energia. Alla mostra partecipò Antonio Trotta, che pochi anni dopo, nel 1990, realizzò una
Pur maturate nel contesto dell’Arte Povera, che Salvo fiancheggiò senza mai appartenervi, le Lapidi “mostrano nelle connotazioni monumentali e arcaizzanti un carattere peculiare e precorritore della sua futura ricerca”.
grande sala personale alla Biennale di Venezia. Nato nel 1937 a Stio in Cilento, “italiano d’argentina” cresciuto a Jorge Luis Borges e Omar Sivori, Trotta vive da diversi decenni a Pietrasanta dove ha ulteriormente sviluppato il suo amore laicamente fideistico per la scultura. È lì che lo incontrai per la prima volta, inizio anni Novanta, mentre preparavo una rassegna sui Disegni di scultura, ed è sempre lì che ho raccolto i suoi pensieri per il catalogo della personale da Enrico Astuni in un’intervista senza fine e senza filo conduttore apparente. Persona difficile, controcorrente, scomodo, asistemico e altrettanto geniale, Trotta ha lavorato un’idea di plastica fintamente arcaica, attraversata da solide matrici letterarie e filosofiche, dimostrando come anche un’immagine può rinsaldare il legame con il contemporaneo. Il suo amore per il marmo, classicamente ancorato al fare, non gli ha certo impedito di sviluppare un pensiero teorico che, almeno da noi, rappresenta la fierezza di unicum. Artifex è tra i lavori che meglio ne rappresenta la sua predisposizione a giocare con l’enigma. Oltre il tempo, presente e passato. In fuga dalla storia.
DI ALDO COLONETTI
MARIO BOTTA
LA GRAVITÀ COME FORZA ARCHITETTONICA I
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L’architettura di Mario Botta è da sempre l’espressione più diretta della relazione tra uomo e territorio. I materiali con i quali si costruisce la nostra “casa” rappresentano la testimonianza che veniamo da lontano: il marmo, tra questi, è tra i più antichi e soprattutto in grado di dialogare con la cultura progettuale contemporanea, senza dimenticare le sue origini e il suo straordinario patrimonio simbolico.
Mario Botta Foto di Nicola Gnesi
Il marmo è il materiale da costruzione per antonomasia. La pietra è la parte della montagna che viene scavata per ricevere una manomissione da parte dell’uomo, in seguito alla quale diventa architettura.
Chiesa di Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro Foto di Enrico Cano
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Chiesa di Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro Schizzo di Mario Botta
Particolare della chiesa di Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro Foto di Enrico Cano
«Il marmo è il materiale da costruzione per antonomasia. La pietra è la parte della montagna che viene scavata per ricevere una manomissione da parte dell’uomo, in seguito alla quale diventa architettura. Louis Kahn parla di quel momento magico in cui chiede alla montagna cosa vuole diventare e lei risponde: “Sarei contenta se tu mi trasformassi in conci di pietra per dare forma allo spirito dell’uomo”. Il marmo declinato nella nostra collettività è una forma di resistenza al mercato della globalizzazione. La nostra generazione ha creduto nei valori della globalizzazione che, pur avendo molti aspetti positivi, ha però ridotto tutto al mercato. Questo grande mercato ha inglobato una serie di surrogati che sembra abbiano ottime caratteristiche che poi alla fine non hanno. Quindi l’uso del marmo è una forma di resistenza alle degenerazioni portate dalla globalizzazione. Da architetto il marmo mi interessa perché lavora “a gravità” che è parte della forza
architettonica. Il ruolo finale dell’architettura è quello di trasmettere i carichi al suolo, e tutti questi nuovi materiali surrogati aspirerebbero a essere pietra, ma non lo sono. Inoltre bisogna fare attenzione a non perdere la nostra cultura mediterranea che a partire dalla Magna Grecia si è servita di questa forza che solo questo materiale straordinario sa dare». Il marmo ha anche una memoria di grande fascinazione e contraddizione... «Il marmo come pietra porta la memoria del lavoro dell’uomo. La pietra prende una nuova bellezza attraverso il lavoro dell’uomo. Da questo punto di vista è doppiamente interessante per l’architetto. In primo luogo perché – come già detto – porta la cultura della gravità, in secondo luogo, perché porta la memoria dell’uomo. Inoltre il marmo ha l’aspetto positivo di durare nel tempo. Tutto finisce, anche le Piramidi d’Egitto un giorno svaniranno, ma il marmo, rispetto alla durata media della vita dell’uomo, è di gran lunga più longevo ed è più longevo anche delle stesse culture che nei secoli lo hanno usato per affermare i loro valori tramite chiese, monumenti, ecc.». 33 | Architettura
Mario, tu lavori con molti materiali e hai da sempre una visione dell’architettura come “espressione della gravità”. Credo che il marmo sia molto importante in questo senso...
Quindi l’architettura e il marmo sono portatori di culture... «L’architettura è l’espressione formale della storia e ogni espressione architettonica parla della storia del proprio tempo. Noi per affrontare le contraddizioni del presente abbiamo bisogno di sentire che veniamo dal passato e il marmo in questo processo svolge una funzione importantissima». Ma il marmo è in grado di interpretare il contemporaneo? «Non del tutto. Se il contemporaneo elogia l’effimero evidentemente trova nel marmo
Chiesa di San Giovanni Battista, Mogno Schizzi di Mario Botta
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L’interno della chiesa di San Giovanni Battista, Mogno Foto di Pino Musi
un materiale muto. Ma se invece cerca la durata e la testimonianza alle generazioni future di quello che l’uomo fa oggi allora il marmo diventa di grandissima attualità. Ogni settimana i tavoli degli architetti sono subissati di proposte di nuovi materiali come la plastica o surrogati che non potranno mai competere con questo materiale. Un altro aspetto interessante è anche la ricerca della leggerezza che in architettura è una contraddizione in termini. L’architettura ha la sua forza nella pesantezza. La contraddizione nasce dall’equivoco postmoderno che deriva dall’aver assimilato l’assunto letterario di Calvino sull’importanza della leggerezza nell’architettura.
Fiore di Pietra, Monte Generoso Schizzo di Mario Botta
Cercare la leggerezza nell’architettura non ha nessun senso. Non scordiamoci che l’architettura, prima di essere un fatto decorativo, ha la funzione di portare carichi a terra».
marmo non è il materiale adatto per fare degli orologi. Anche se questo esempio ci fa capire come la tecnologia del marmo oggi sia quasi chirurgica». Nelle tue architetture usi marmo?
Disporre di tanti materiali vuol dire avere una cultura della scelta molto elevata...
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«Spesso i materiali vengono scelti impropriamente, anche il marmo. Ciò avviene quando riduci questo materiale solo alla sua apparenza: allora degenera totalmente. L’altro giorno ad esempio sono venute da me alcune persone che volevano fare degli orologi in marmo ed io ho fatto capire loro che erano totalmente fuori strada perché il
«Quando posso sì. L’uso del marmo è ricerca di bellezza e per l’architetto è una frustrazione quando è obbligato a ricorrere a un suo sostituto per ragioni d’economia. Penso che la cultura del moderno non abbia la capacità di eguagliare il marmo. Io ho fatto musei e chiese in cui il marmo gioca un ruolo fondamentale. Esso rimarrà per sempre principe del mattone».
Mario Botta Foto di Nicola Gnesi
Michela e Paolo Baldessari Foto di Nicola Gnesi
DI MICHELA E PAOLO BALDESSARI
DISEGNARE IL MARMO R
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Quando si è presentata l’occasione di lavorare con il marmo, abbiamo provato una sensazione di entusiasmo accompagnata dal peso della responsabilità di confrontarci con un materiale pregiato. Per approcciarsi al marmo serve, infatti, la consapevolezza che le risorse naturali vadano usate con “sapienza”. Se da un lato, dunque, l’attività estrattiva trasforma il territorio, incide il paesaggio, dall’altra il prodotto industriale o artigianale che si ricava dalla lavorazione del marmo deve riuscire a compensare il “segno” lasciato dall’uomo. Lavorare il marmo impone l’alta qualità del prodotto finito che deve trasmettere bellezza, armonia e testimoniare in tal modo le nuove “forme” della contemporaneità. Affiorano, così, nuovi oggetti, nuovi prodotti, seriali o a piccola tiratura, che sanno esprimere il “sigillo” del luogo, delle tradizioni, della storia, della capacità manifatturiera.
Inoltre, la responsabilità si deve coniugare con un atteggiamento laico che consenta alla creatività di saper cogliere il potenziale figurativo delle cave come “nuovi spazi architettonici” che estrinsecano nuovi profili, nuovi dettagli, inediti colori, chiaroscuri e contrasti che valorizzano una nuova bellezza, esaltando una nuova relazione virtuosa con gli altri elementi mutevoli del paesaggio, siano questi cieli, boschi, conoidi o prati. L’esperienza con il marmo ci ha visti protagonisti di progetti architettonici, di architettura d’interni e di design, quest’ultimo prova più impegnativa. Il design, infatti, si muove, nel caso del marmo, su un confine molto labile in cui si incontrano arte e tecnologia, utopia ed artigianato. Da sempre l’architettura, l’interior ed il design, si confrontano con il marmo, dando vita a pezzi bellissimi. Come non ricordare ad esempio le magistrali prove dei tanti architetti e designer, per la maggior parte italiani, che si sono
Lavorare il marmo impone l’alta qualità del prodotto finito che deve trasmettere bellezza, armonia e testimoniare in tal modo le nuove “forme” della contemporaneità.
Tavolo Filo (limited edition, Salone del Mobile 2015), piano in vetro extrachiaro, base assemblata in tre elementi in marmo Versailles Foto di Nicola Gnesi
Tavolo alto e basso Filo, piano in vetro extrachiaro, base assemblata in due elementi in marmo Versilys Foto di Germano Borrelli
Vassoio centrotavola Tray con piatto in marmo Statuarietto e legno di cedro grezzo Foto di Germano Borrelli
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misurati sia con la grande che con la piccola scala, con analogia di metodo, facendo affiorare quella forma già presente all’interno del marmo? L’assoluta bellezza dei blocchi, delle lastre, i loro colori, le incantevoli sfumature, i reticoli delle venature, mai identici, sono espressione plastica di architetture “finite”, già loro stesse bellissime, verso le quali muove alternativamente il rispetto della “perfezione” e dunque la volontà “di nulla toccare”, quanto un’insopprimibile voglia di incidere, tagliare, segare, scavare per capire e liberare l’anima della pietra e di chi la lavora. Il marmo è un materiale antico
sì, ma indiscutibilmente molto contemporaneo, perché l’uomo ed i progettisti l’hanno reso protagonista in tutte le epoche. Disegnare con il marmo vuol dire rimuovere la percezione generale che lo associa alla statuaria e ad un valore di gravità ed è solo spostando l’angolo di visuale che il materiale può essere associato al concetto di leggerezza, capace quindi di andare oltre il luogo comune. Per fare ciò, come sempre, è fondamentale avviare quel cortocircuito collaborativo dell’occhio, della mano e della mente, muovendosi dentro il perimetro che il materiale stesso definisce e che si trasforma in magnifico ambito di progetto,
Vassoio centrotavola Tray con calendario perpetuo in pietra di Stazzema Foto di Germano Borrelli
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Il design, infatti, si muove nel caso del marmo, su un confine molto labile in cui si incontrano arte e tecnologia, utopia ed artigianato. Da sempre l’architettura, l’interior ed il design, si confrontano con il marmo, dando vita a pezzi bellissimi.
Filotto, vaso in Statuario Altissimo Foto di Nicola Gnesi
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L’abilità del progettista è tutta nella capacità di saper rispettare il materiale senza snaturarne l’essenza, per non rompere l’equilibrio tra natura e utilizzo della stessa.
ricercando nuove potenzialità espressive ed infinite forme possibili, andando “oltre”, non accettando passivamente ciò che tradizionalmente il materiale è in grado di esprimere. I materiali appartengono alla natura e alle sue trasformazioni tecnologiche. Gli oggetti, al contrario, sono la rappresentazione e la sedimentazione del gusto e della dimensione estetica. L’abilità del progettista è tutta nella capacità di saper rispettare il materiale senza snaturarne l’essenza, per non rompere l’equilibrio tra natura e utilizzo della stessa. Così, ci siamo incamminati sul sentiero progettuale con il nostro abituale approccio artigianale, partendo da semplici schiz-
zi, per giungere poi ai successivi disegni, ai modelli in cartone, fino ad approdare alla realtà del fondamentale “sapere dell’artigiano esecutore”, tornando poi al disegno per le opportune modifiche. S’innesca così, quella magica circolarità che è il luogo dell’esercizio disciplinare, nel quale affiorano le potenzialità espressive, le nuove combinazioni capaci di rappresentare il rinnovato fattore emotivo, estetico e funzionale. La sfida di dare forma, funzione, plasticità e scale diverse ai pezzi, tavoli, tavoli bassi, complementi che costituiscono la collezione Filo disegnata per Luce di Carrara, ha portato a lavorare su una forma aperta e libera, ricavata dalla lavorazio-
Filomena, alzata per centrotavola in Statuario Altissimo Foto di Nicola Gnesi
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ne al filo, da cui il nome della collezione. Dai grandi blocchi se ne trae una sorta di ala che posta in alzato e differentemente accoppiata con due o tre pezzi sempre uguali crea la base autoportante di tavoli di grande dimensione, con piani di forma rettangolare e circolare e posta in piano diventa in formati più piccoli, vassoio, centrotavola, svuota tasche ed altro ancora. Un lavoro certamente sulla forma, ma che genera al contempo anche diverse varianti, a partire da un unico tipo. Un lavoro teso soprattutto a conoscere i limiti propri del materiale, le sue mai uguali caratteristiche per arrivare ad affinare gli spessori: così nasce Filomena. Una nuova alzata centrotavola, scomponibile (base e piatto di portata separati) dove lo spessore del marmo è diventato esilissimo (6mm) e le forme “aperte” del piedistallo assumono levità in senso plastico strutturale. Una sorta di quintessenza
materica, “un gioco d’intreccio”, un nastro di marmo che sfida le potenzialità espressive del materiale. Un lavoro impegnativo, intrigante, condotto in continuo confronto con i tecnici di Henraux-Luce di Carrara, per arrivare ad incrociare le due forme aperte, saldandole alla base, in un raffinato incastro invisibile, consentendo alla composizione “madre”, una diversa e più libera modalità di portata. Il processo di lavorazione, che dal piccolo blocco, con la lavorazione al filo, ha ottenuto i due pezzi esilissimi, ha generosamente restituito un ulteriore corpo, questo di grande presenza materica, che interpretato e lavorato con successive raffinate levigature, assottigliando le estremità ed i bordi e praticando puntuali scavi sulle teste ha dato l’idea che questa elegante matrice potesse essere un ulteriore nuovo prodotto ed oggetto per abitare la casa: un vaso.
DI CRAIG COPELAND
RIVISTA MARMO:
INTENZIONI PER LA SCULTURA E PER IL DESIGN DEL XXI SECOLO
Veduta della Cava Cervaiole Monte Altissimo Foto di Craig Copeland
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Il ritorno del marmo nel mondo moderno sarà uno degli avvenimenti più clamorosi della seconda metà del secolo. Bruno Alfieri, Marmo 1 51 | Architettura
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Marmo 1-5: la visione lungimirante di Henraux
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Ufficio della vecchia “Palazzina” Henraux Foto di Craig Copeland
Nel 1962, Bruno Alfieri proclamava che il mondo dell’edilizia e il mondo dell’arte si sarebbero riaperti al marmo come a un materiale significativo per le opere di grande architettura e scultura alla fine del XX secolo. Allora erano state investite enormi speranze nella missione di Henraux SpA, guidata da Erminio Cidonio, per la promozione dell’uso del marmo nelle più grandi opere d’arte e nell’ambiente costruito. Era più di un’attività commerciale apparentemente finalizzata ai propri interessi: era un’impresa culturale. D’altra parte, già all’inizio degli anni Sessanta, Henraux riusciva – con i suoi marmi unici e le sue risorse straordinarie – ad attirare e a collaborare con i più grandi artisti e architetti di tutto il mondo, da Henry Moore a Isamu Noguchi.
Marmo sarebbe stata la pubblicazione, avviata nel 1961, che avrebbe fornito un resoconto e ulteriormente promosso la missione di Henraux. Scegliendo Alfieri come curatore del primo numero, Cidonio si assicurava il punto di vista di uno dei più importanti critici del design, individuando e immaginando opportunità di incorporare opere in marmo che contribuissero ad un più ampio continuum culturale. In totale, sarebbero state pubblicate 5 edizioni, l’ultima, Marmo 5, nel 1971. Venni a conoscenza di queste pubblicazioni per caso, oltre 30 anni dopo, nel 2004, mentre esploravo un angolo abbandonato della Henraux nella “Palazzina”, sontuosa quanto polverosa. In precedenza, Paolo Carli mi aveva corte-
La segheria Henraux prima della ristrutturazione Foto di Craig Copeland
Nei dieci anni successivi, avrei rivisitato la Palazzina molte volte, letto le edizioni di Marmo, rivisto la collezione di sculture e anche contribuito a progettare una riconfigurazione degli edifici per ospitare un giorno la Fondazione Henraux. Ricordo molte conversazioni tra me e Carli, con altri della Henraux, e, di ritorno a New York, riflettevo su cosa potesse significare una versione contemporanea della pubblicazione Marmo per la valorizzazione del marmo nell’arte. Ci vollero altri dieci anni perché tale possibilità venisse alla luce. È quindi con grande attesa ed entusiasmo che ho accettato l’invito di Henraux a partecipare alla ripresa della pubblicazione, a partire da questo Marmo 6. 53 | Architettura
semente portato a fare un giro completo dello stabilimento – compresi i piazzali e le linee di lavorazione – e mi aveva mostrato la piccola ma significativa raccolta aziendale di sculture e modelli in gesso rimasta dall’era di Cidonio. Carli mi aveva lasciato nella Palazzina per dare un’occhiata da solo in giro. Qui, tra vecchie fotografie in bianco e nero e piccoli accessori di design in pietra, scoprii due diverse edizioni della collana Marmo. Si trattava di un piccolo campione, ma più che sufficiente per affascinare me e la mia immaginazione. Quelle pubblicazioni divennero per me un mistero. Carli ne era a conoscenza, ma, come me, sapeva poco del loro scopo o del loro significato più ampio.
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Marmo 6 e oltre: un nuovo inizio e una nuova affermazione per la missione di Henraux e della Fondazione Henraux
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Nature holds the key to our aesthetic, intellectual, cognitive and even spiritual satisfaction. (La natura è la chiave per la nostra soddisfazione estetica, intellettuale e anche spirituale) E. O. Wilson, Biophilia
Nello spirito della dichiarazione di Alfieri su Marmo 1 e in occasione della rinascita di questa serie con Marmo 6, è opportuno riconsiderare come e perché il marmo possa contribuire al mondo dell’arte, dell’architettura e del design contemporaneo, soprattutto oggi. Al tempo di Alfieri, il marmo era stato messo da parte per le sue associazioni culturali negative con il mondo aristocratico. Il marmo rappresentava un bene esclusivamente di lusso, come l’oro; e questa connotazione si opponeva alla comparsa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, di una visione democratica del mondo. Materiali come il cemento e il legno erano più economici, facili da reperire e modellare, e quindi attiravano le correnti culturali più egalitarie. Negli anni Sessanta, Henraux cercò di cambiare la percezione e la realtà e, nonostante l’intenso decennio di lavoro e promozione sotto la guida di Cidonio, la missione non era allora culturalmente o finanziariamente sostenibile. Ci sarebbero voluti decenni prima che le associazioni negative postbelliche del bene materiale svanissero e la tecnologia avanzasse a un punto tale da poter cercare il marmo più attivamente e reperirlo più facilmente. All’inizio del XXI secolo, due eventi importanti – benché in qualche modo contraddittori – avrebbero contribuito a sostenere la diffusione dell’uso del marmo: l’avanzamento della tecnologia digitale e il movimento del design sostenibile – e specificamente il Biophilic Design, o progettazione biofilica. In 14 Modelli per la Progettazione Biofilica, Terrapin Bright Green spiega: “Il ter-
mine ‘biofilia’ è stato coniato per la prima volta dallo psicanalista Erich Fromm (The Heart of Man, 1964), per poi, più tardi, diventare popolare grazie al biologo Edward Wilson (Biophilia, 1984). I vari riferimenti – che si sono sviluppati prima nel campo della biologia e della psicologia, per poi essere ripresi dalle neuroscienze, dall’endocrinologia, dall’architettura, ecc. – sono tutti legati al desiderio di una (ri)connessione con la natura e con i sistemi naturali”. Proponendo un contatto diretto con la terra e con il mondo naturale, il marmo contribuisce a legare le opere d’arte e le esperienze artistiche al mondo naturale e a quello reale. Si tratta di un contrappunto particolarmente importante nell’universo sempre più irreale di oggi con i suoi ambienti di plastica, artificiali e posticci. Anche se è stimolante vivere una realtà aumentata grazie a esperienze che si avvalgono dei mondi digitali delle nuvole di Internet, secondo gli studi di vari gruppi di ricerca, come Terrapin Bright Green, il nostro massimo sostentamento ha origine dalle connessioni terrene, tra noi e il mondo naturale. Il marmo, sia quello sulle montagne che quello rimosso e forgiato secondo i nostri progetti, appartiene comunque alla natura e offre questo rapporto con la terra. Chiaramente, il marmo è soltanto uno dei tanti possibili materiali naturali con cui possiamo realizzare le nostre opere d’arte, i nostri progetti, i nostri luoghi e le nostre architetture. Ma il marmo si distingue dagli altri materiali naturali per la presenza diretta nella terra, per la sua durevolezza
senza pari, per l’estrema varietà delle sue forme e dei suoi colori. Persistente e apparentemente imperituro nella percezione del nostro tempo, non è un caso che le nostre architetture e le nostre opere d’arte più antiche siano state fatte quasi completamente in marmo. Il marmo sfida il tempo, sia le intemperie naturali che quelle culturali. Attualmente, le nostre sculture e i nostri edifici più antichi sono di marmo. Forse c’è qualcosa di istintivo nell’uso di un materiale così durevole, per far sopravvivere i segni della nostra cultura apparentemente per sempre o almeno per un periodo molto lungo. Poi c’è la tecnologia, la lama a doppio taglio della nostra civiltà, un pacchetto di pro e contro. È importante riconoscere le contraddizioni insite nella tecnologia e poi cercare di cogliere le migliori qualità che presenta. L’avvento dell’universo digitale ci ha allontanati gli uni dagli altri in molti modi – attraverso le creazioni virtuali – e dal mondo naturale. Ironicamente, ha anche facilitato le comunicazioni a distanza e il contatto reciproco. Uno degli scopi di questo articolo è quello di individuare il motivo per cui ritengo che il marmo sia un materiale del nostro tempo, l’inizio del XXI secolo, l’altro è quello di offrire esempi tangibili e personali per illustrare come ho scelto questo materiale e i metodi di lavorazione moderni, per dare un contributo al continuum culturale. Propongo due delle mie esperienze personali riguardanti l’uso prevalente del marmo: la scultura e il design.
Veduta della Cava Cervaiole Monte Altissimo Foto di Nicola Gnesi
3 Il marmo nella scultura Si dice che la pietra sia l’amore degli uomini anziani. Può darsi. È la più complicata da lavorare. Ne segue un dialogo tra caso e non caso, tra errori e non errori. Non è possibile nessuna cancellazione o riproduzione, almeno nel modo in cui lavoro io, lasciando l’impronta della natura. È unica e definitiva. Isamu Noguchi
Sopra, dal disegno alla realizzazione di Big-Sprout Foto di Craig Copeland
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A destra, Craig Copeland al lavoro su Anello-Eco Foto di Gregor Spänle
Ho cominciato a scolpire il marmo quando avevo già più di 40 anni, nel laboratorio di Renzo Maggi, a Pietrasanta, in Italia. In quattro mesi, appresi le nozioni di base nella modellazione dell’argilla, nella forma persa e nella scultura della pietra, e specificamente la messa ai punti. Mi occupai di un’opera che intitolai Anello Ritorto. Anello Ritorto era emersa da uno studio in corso che avevo realizzato in argille plastiche negli anni di interazioni e lotte tra forma toroidale e organica. Volevo sfruttare i tratti sinuosi intrinseci al marmo per alludere alla forma e allo spirito dell’uomo nel profilo figurativo dell’anello contorto. Per me, la torsione evocava il movimento e lo slancio, una forza eterna, interna. Le varianti dell’Anello Ritorto avrebbero compreso l’apertura e la moltiplicazione degli anelli o degli occhielli. La scultura realizzata con la messa ai punti comportava un tedioso processo di misurazione e traduzione dei punti tra il mio modello in gesso e il blocco di marmo – un riporto tridimensionale dei riferimenti della superficie lapidea, che conteneva centinaia
di punti. Mi ci vollero più di sei settimane soltanto per completare la sbozzatura. E, anche se fui soddisfatto dell’opera una volta terminata, il procedimento era stato snervante. Quell’esperienza mi fece apprezzare enormemente il metodo artigianale di scultura del marmo, ma decisi che quella lavorazione non faceva per me. Dopo la mia permanenza al laboratorio Maggi, tornai a New York dove ebbi la fortuna di continuare a scolpire il marmo presso lo studio Venske & Spänle. Sia Julia Venske che Gregor Spänle mi erano venuti a trovare quando ero a Pietrasanta. Accortisi della mia nuova passione, mi invitarono a scolpire insieme a loro nel loro laboratorio di Brooklyn. Per i cinque anni successivi, lavorai part time a una serie di piccole opere figurative astratte. Grazie a Venske & Spänle, imparai a scolpire in modo più diretto ed efficiente con vari utensili manuali, dallo scalpello pneumatico alle frese manuali e alle smerigliatrici angolari. E, con l’incoraggiamento di Phillip Grausman, per tanto tempo mio maestro di disegno e scultura all’università,
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proposi e fui co-curatore di una mostra di quelle prime sculture in marmo, insieme a quelle di Venske & Spänle, presso la Washington Art Association di Washington, Connecticut. Intitolata “Liquid Stone”, fu la mia prima mostra di sculture in marmo e questa occasione portò il mio lavoro ad essere selezionato per la 186° Invitational al National Academy Museum di New York. L’anno successivo, lo studio Venske & Spänle chiuse i battenti. Nel frattempo, mi furono proposte un paio di occasioni per iniziare a fare sculture più grandi in Italia. Cominciai con un’opera alta 120 cm, che intitolai Big Sprout, presso Henraux. Sei mesi dopo, iniziai la mia prima scultura monumentale, Anello Eco, da Travertini Paradiso, appena fuori Siena. Sapevo, dalle innumerevoli visite fatte al laboratorio di scultura Grausman, che avrei avuto bisogno di un programma più facilmente misurabile per cominciare e ultimare l’opera più grande nel migliore dei modi. Dopo i
modelli iniziali in argilla e gesso e dopo avere scelto due blocchi gemelli di travertino Silver, feci una scansione del modello e misurai i blocchi per poi unirli insieme in un unico modello digitale tridimensionale. Era questa la fase critica che univa metodi di scultura tradizionali con le tecniche più moderne di verifica, regolazione e mappatura virtuale. Mi ci sarebbero voluti quattro anni di scultura manuale part time per completare la sbozzatura. Anello Eco emerse da Anello Ritorto. Le fondamentali ondulazioni circolari più intime e morbide di Anello Ritorto si svilupparono in gesti monumentali di piani ritorti, creando un ciclo interno, ripetitivo, un’eco. Come col più piccolo Anello Ritorto di dieci anni prima, ero soddisfatto dell’opera compiuta, ma il procedimento era stato snervante. Decisi che anche questa lavorazione non faceva per me e che forse in futuro, nelle sculture, si sarebbe dovuto fare maggior uso dei robot per la sbozzatura.
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Anello-Eco (a sinistra) e Big-Sprout (a destra) Foto di Craig Copeland
È mia intenzione andare avanti con la scultura manuale e le concettualizzazioni di sculture in marmo con robot per continuare ad esplorare le potenzialità della tecnica e della materia. Per me, lavorare con il marmo rappresenta sempre un viaggio incredibile.
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Particolare e render del padiglione modulare “Hybrid+Flexible” Foto di Craig Copeland
Disegno e realizzazione di HX-DNA Foto di Craig Copeland
4 Dopo avere parlato al convegno “Designing with Stone” in occasione del Marmomacc del 2008, fui invitato da Paolo Carli a collaborare alla progettazione di un padiglione fieristico con Turan Duda (caro amico ed ex collega da Cesar Pelli & Associates). Henraux era stata invitata a partecipare a un programma relativamente nuovo a Verona, chiamato Marmomacc Meets Design, per il suo contributo storico al settore lapideo internazionale. Il nostro scopo, nell’affrontare il tema “Hybrid + Flexible”, era quello di mostrare nuovi modi di avvicinarsi e interpretare le potenzialità della pietra nell’ambito di un comparto industriale contemporaneo e ispirare futuri esperimenti per dirimere la questione su “Come poter sfruttare la produzione di massa resa possibile dalla tecnologia, con materiali e sistemi ibridi, per creare forme e relazioni architettoniche infinitamente uniche”. Mi occupai della questione “Hybrid + Flexible”, progettando un padiglione modulare e arredi composti da pannelli ibridi rivestiti in marmo e rovere. Duda si occupò dei rivestimenti. Erano i rivestimenti che mi incuriosivano di più, perché erano progettati in un modo che sfruttava così efficientemente la tecnologia del taglio a filo diamantato che si riusciva a produrre forme volumetriche con un minimo impiego di materiale. Dopo due anni di esposizione di “Hybrid + Flexible” di Henraux, progettai una seconda mostra, sempre per Henraux, presso la stessa fiera internazionale del marmo di
Verona. Il progetto, intitolato Stone Basket Weave, vinse il premio “Best Communicator” alla fiera Marmomacc 2011. Stone Basket Weave includeva schemi ripetitivi geometrico-biomorfici su pannelli a bassorilievo in marmo bianco statuario dell’Altissimo, nello spirito di Jean Arp. Fu la mia prima esperienza nella realizzazione di un progetto con scultura a controllo numerico. Nel 2012, collaborai nuovamente con Henraux per Marmomacc. Questa volta, l’idea era quella di illustrare l’interfaccia tra la modellazione digitale e la scultura con robot. Volevo dimostrare che, anche se la pietra è inorganica, gran parte della sua bellezza proviene dai movimenti strutturati e apparentemente organici dei minerali terrestri, catturati e rivelati in una ricca varietà di colorazioni e venature. Le forme HX-DNA sviluppate nel progetto erano costruite su giochi concettuali di forme nascoste e mattoncini elementari del nostro mondo fisico: il DNA. Il padiglione fu chiamato “HX: il DNA della pietra”, prendendo ispirazione dalla metafora organica della struttura biologica, cioè il DNA. La struttura caratteristica del DNA, la doppia elica, fu l’ispirazione per le varie strutture autonome e i pannelli a bassorilievo presenti nelle forme HX–DNA. Unendo verticalmente le iterazioni tridimensionali della H e della X presenti nel marchio Henraux, i filamenti lapidei ondulati salivano in ricche forme figurative simili a spirali di DNA.
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Il marmo nel design
Progetto per EMc2: Essential Marmo Collection
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Il marmo nelle applicazioni collettive: Situcraft
A destra, Stone Basket Weave, marmo bianco Statuario dell’Altissimo Foto di Craig Copeland
Nel 2016, dopo dieci anni di intense esplorazioni e ricerche pratiche sul marmo – dalle sculture realizzate personalmente alle collaborazioni progettate al computer nella fresatura con robot –, aprii una nuova azienda chiamata Situcraft. Nel lanciare l’attività, l’obiettivo era quello di creare un’azienda di design culturalmente e finanziariamente sostenibile che si occupasse principalmente di progetti e prodotti in marmo. Lo scopo iniziale era quello di realizzare una linea di arredi chiamata EMc2: Essential Marmo Collection. Il concetto si basava sulla creazione di una serie firmata di uno o più elementi in marmo, essenziali e centrali, per ogni stanza della casa e/o dell’ufficio: un tavolo da pranzo in marmo, un mobile da bagno in marmo, un telaio
letto in marmo, una scrivania in marmo. Esistono ora prototipi che mettono a punto kit di parti pronte all’uso, per cui tutti i pezzi possono essere realizzati su commissione per specifiche dimensioni come eleganti composizioni di marmi particolari. Mentre Situcraft si evolve, è mia intenzione andare avanti con la scultura manuale e le concettualizzazioni di sculture in marmo con robot per continuare ad esplorare le potenzialità della tecnica e della materia. Per me, lavorare con il marmo rappresenta sempre un viaggio incredibile. Spero quindi che la mia passione possa ispirare altri a cercare e conservare – a proprio modo – l’entusiasmo che ho provato personalmente grazie al marmo.
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DI ELEONORA CARACCIOLO DI TORCHIAROLO
MARCO CASAMONTI IL MARMO TRA DESIGN, ARTE, ARCHITETTURA
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Nel suo studio di Firenze incontriamo il Prof. Marco Casamonti. Una carriera, la sua, che combina progettazione, ricerca e riflessione critica. Socio fondatore dello Studio Archea, dislocato a Firenze, Roma, Milano, oltre che fuori confine a Dubai, Pechino e San Paolo, l’architetto Marco Casamonti svolge, con un articolato gruppo di lavoro composto da architetti, designer e ricercatori, attività progettuale in ambito architettonico, urbanistico, paesaggistico e dell’industrial design. All’attività come progettista e a quella didattica – nel 2004 diviene titolare
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della cattedra presso la Facoltà di Architettura di Genova e all’estero viene chiamato come visiting professor e critic a Barcellona, Graz, Mendrisio, Zurigo, San Paolo, Pechino, Vancouver – associa negli anni un intenso lavoro di approfondimento critico sui temi dell’architettura pubblicando saggi e scritti. Infine, un importante percorso anche in ambito editoriale: dal 1995 diviene direttore responsabile della rivista internazionale di architettura Area ed è stato fino al 2012 responsabile scientifico per l’architettura di Federico Motta Editore.
A sinistra Schizzo di Terreria/Marmeria Marco Casamonti, Studio Archea A destra Marmeria, Marco Casamonti, Studio Archea Foto Nicola Gnesi
«Nel campo delle arti creative, a mio giudizio, non c’è nessuna differenza tra arte, architettura e design perché si tratta, in tutti e tre i casi, di arti del progetto, l’approccio creativo rispetto all’uso di un determinato materiale è lo stesso». Possiamo allora ribaltare la domanda: un materiale può condizionare, guidare o essere di aiuto in un progetto di architettura, di design o d’arte? «Io credo che la materia con cui si lavora influisca molto sul progetto. Non si progettano architetture, oggetti di design o di arte indipendentemente dagli strumenti e dalla materia con cui si realizzano. Il marmo, come tutti i materiali lapidei, offre delle straordinarie opportunità. Ovviamente bisogna lavorare pensando che quella materia ha una sua sostanza, ha una sua “anima”, ha un suo codice genetico che non deve essere alterato, ma anzi deve essere utilizzato quale occasione progettuale. Tutte le volte che ci troviamo a lavorare con un materiale come il marmo cerchiamo innanzitutto di esaltarne le qualità materico-superficiali: nel caso dei marmi di Carrara è ovvio, per esempio, che il bianco sia una componente fondamentale all’interno del progetto. O ancora, il fatto che non esista un marmo o una pietra uguale all’altra: non si può chiedere al marmo di comportarsi come un qualsiasi materiale che può essere verniciato o laccato, cioè di essere costante, ma bisogna lavorare sul principio della variazione. Questa leggera variazione della materia è un valore fondamentale quando si usano materiali naturali. Sarebbe come chiedere al legno di presen-
tare tutte le medesime venature alla medesima distanza, senza imperfezioni. Che non sono imperfezioni, ma la testimonianza che il materiale appartiene alla natura. Qualunque progettista che si trovi a lavorare con il marmo deve tenere conto delle sue caratteristiche peculiari che riguardano la resistenza, la durezza, la sua capacità di adattarsi». Perché usare questa materia nel design e quali sono i limiti che porta con sé? «Ci sono molti oggetti d’uso che richiedono le caratteristiche intrinseche del marmo. Pensiamo per esempio all’arredo urbano che richiede la durata, l’inerzia termica, l’adattabilità di un materiale come il marmo. Ovvio che ci sono sempre delle eccezioni. Aldo Rossi, per esempio, per la storica azienda Up & Up prese un oggetto di uso comune – il tavolo di campagna della nonna – e lo trasformò in un tavolo di marmo: attraverso la materia rese prezioso un oggetto di uso quotidiano. In quel caso c’è stato uno sfalsamento: questo sfalsamento è già un’operazione creativa, artistica, un’operazione che porta il design a scoprire nuovi ambiti. In quello del design, credo che attraverso il marmo ci sia una gamma di opportunità straordinarie che vanno dalla possibilità di reinterpretare attraverso una materia diversa oggetti tradizionalmente pensati in altra consistenza, alla risoluzione di problemi che altri materiali non potrebbero fornire». Ci parli della Marmeria, progetto pensato per Henraux. «La Marmeria è la testimonianza di ciò di cui parlavo prima. La Marmeria è una trasposizione di senso, ovvero la traspo-
Bisogna lavorare pensando che quella materia ha una sua sostanza, ha una sua “anima”, ha un suo codice genetico che non deve essere alterato, ma anzi deve essere utilizzato quale occasione progettuale.
A sinistra Marmeria, Marco Casamonti, Studio Archea Foto Nicola Gnesi
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Quale relazione c’è tra arte, architettura e design e quale ruolo può giocare il marmo all’interno di queste tre diverse discipline?
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Terreria progetto dello Studio Archea per Moroso
sizione in marmo della Terreria, progetto che abbiamo disegnato per Moroso e che Henraux produce su loro licenza. La Terreria non è altro che la realizzazione in terra di una libreria normalmente realizzata in legno. Questo spostamento di senso, questo sfalsamento di orizzonti, introduce una variazione straordinaria nell’ambito creativo. Credo che questo sia il valore di questo progetto. La Marmeria è una libreria fatta per moduli che, contrariamente a tutte le altre librerie, non ha un vincolo dimensionale: a seconda di come si montano uno sugli altri i vari componenti, la libreria si adatta a tutte le esigenze di spazio, sia esso una casa, un ufficio, un museo. I moduli della libreria sono solo cinque e con questi cinque elementi si possono ottenere un’infinità di combinazioni. Del resto il desiderio di un fruitore di design è quello di avere un oggetto di industrial design – quindi un oggetto perfetto – che sia al contempo unico. L’industrial design non è mai riuscito a fare questo. La serialità è un valore per l’oggetto di design, ma anche un limite. L’industrial design produce oggetti che sono sempre uguali a loro stessi. Esattamente il contrario dell’oggetto d’arte che assume valore per la sua unicità e non ripetibilità. Noi abbiamo tentato di costruire un progetto di design, una libreria, che fosse in
ogni suo componente unico e che, per questo, sconfina nell’oggetto d’arte: a seconda di come si montano i moduli, a seconda della loro combinazione, otteniamo oggetti diversi. Il principio è il medesimo che si applica negli edifici attraverso i mattoni: il mattone, combinato in infiniti modi, può farci ottenere infinite architetture. Il componente è sempre lo stesso, ma il risultato è sempre diverso. Ecco, questa è l’idea di questo oggetto di design che sta a metà tra un oggetto di architettura – perché abbiamo costruito un mattone, o se volete cinque mattoni –, un oggetto d’arte – perché di fatto sono costruzioni sempre uniche – ed è certamente un oggetto di design perché è un oggetto d’uso per la casa. Il marmo ha conferito a questo oggetto comune una straordinarietà che già avevamo dato a Moroso quando abbiamo deciso di trasformare una normale libreria in un oggetto di terra chiamandola Terreria». Com’è nata l’idea della Terreria e quindi, successivamente, della Marmeria? «Dal mio punto di vista uno dei più straordinari oggetti di design è la Vespa disegnata da Corradino D’Ascanio. Corradino D’Ascanio si è trovato a dover pensare, nel dopoguerra, a un nuovo mezzo di loco-
Moroso, Terreria Foto di Pietro Savorelli
mozione. Piaggio produceva aerei e combinando le piccole ruote del carrello degli aerei con il motorino di avviamento, D’Ascanio ha inventato qualcosa di nuovo che dura nel tempo. Come molti progetti di design, la Vespa è dunque nata da un’occasione. Noi in fondo abbiamo fatto un’operazione molto simile: dovendo progettare la Cantina Antinori e dovendo lavorare con la terra, abbiamo pensato che l’intero “parco” delle librerie dell’azienda non dovesse essere di legno, quindi di una materia recisa, ma di una materia viva, che potesse dare vita, idealmente, a qualcos’altro. Quindi abbiamo preso l’argilla delle vigne, l’abbiamo impastata con acqua, cotta in fuoco e prodotto gli elementi della Terreria. Abbiamo operato una trasposizione di senso, nata come la Vespa, da una necessità. In questo progetto della Terreria si è inserita Henraux pensando di poter produrre lo stesso oggetto in marmo. Ho ritenuto inizialmente che fosse impossibile prendere dei blocchi di marmo e tagliarli fino a farli diventare esili come pareti di un castello di carte, ma Henraux ci ha dimostrato che invece era possibile. Anzi, questi componenti erano resistenti e leggeri e attraverso la tecnologia del taglio a filo Henraux è riuscita a produrre, con nostra piacevole sorpresa, la Marmeria. Penso che questo progetto possa avere evoluzioni anche in altri materiali, ma per adesso ci fermiamo al marmo perché quello che abbiamo ottenuto con il marmo è qualcosa di eccezionale». Può indicarci un luogo dove avete utilizzato la Marmeria?
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«Potrei citare moltissimi esempi, ma vorrei ricordarne tre. Come da nostra prassi, abbiamo innanzitutto sperimentato per primi il progetto montandolo nello Spazio A, a Firenze, adiacente al nostro studio. La seconda installazione è stata compiuta
direttamente da Henraux alla fiera del marmo di Verona: in quell’occasione abbiamo trasformato la Marmeria in uno strumento per costruire le pareti di uno stand, con la funzione quindi di chiudere uno spazio. Abbiamo poi installato la Marmeria in uno spazio destinato all’arte, la galleria Tornabuoni Art di Parigi, in occasione di una mostra dedicata ad Alighiero Boetti. In qualche modo nell’opera di Boetti i temi dell’assemblaggio e della composizione hanno a che fare con il suo modo di lavorare. Se noi pensiamo agli alfabeti, agli aeroplani, alle copertine di Boetti sono accostamenti ed assemblaggi di oggetti leggermente variati: esattamente ciò che è la Marmeria. Per noi la Marmeria è come un’opera musicale: qualsiasi direttore d’orchestra suona la stessa musica, ma il concerto sarà sempre diverso. Allo stesso modo pensiamo che questi cinque elementi possano realizzare oggetti sempre diversi e straordinari». Come avete trasposto questi concetti che riguardano l’arte e il design nell’ambito dell’architettura e dell’interior design? Pensiamo in particolare al vostro progetto per Luce di Carrara. «Come ho detto inizialmente i processi creativi e ideativi sono sempre diversi perché nascono dalle occasioni, ma hanno al loro interno le medesime regole. E le regole sono: capire i luoghi, la sostanza, comprenderne l’anima profonda. In questo caso per Luce di Carrara non abbiamo progettato semplicemente uno showroom, ma abbiamo operato la trasformazione di un luogo, che precedentemente era un luogo di lavoro, in un luogo per esposizioni. Questa trasposizione è l’essenza di questo progetto: noi vogliamo che chiunque entri all’interno dello showroom di Luce di Carrara senta di non essere semplicemente in
Noi vorremmo che lo showroom di Luce di Carrara fosse questo ibrido: tra la fabbrica, luogo di lavoro, luogo di conoscenza di una tecnologia, di un materiale, e luogo di esposizione. Se lo spazio riuscirà ad esprimere tutto questo avremo fatto qualcosa di importante.
un negozio, ma senta l’anima del lavoro che in questi luoghi si è sempre svolto. Il lavoro è palpabile nelle capriate, nella dimensione dello spazio, nelle putrelle in acciaio che rimangono a vista, si percepisce che ciò che viene esposto è frutto di quel lavoro e di quella storia. Quindi all’interno del progetto si respira il mondo del lavoro, del design, dell’arte e si respira, in ultima analisi, il senso che per realizzare un prodotto dobbiamo anche farlo conoscere, spiegarlo, esattamente come si fa in un museo. Noi vorremmo che lo showroom di Luce di Carrara fosse questo ibrido: tra la fabbrica, luogo di lavoro, luogo di conoscenza di una tecnologia, di un materiale, e luogo di
esposizione. Se lo spazio riuscirà ad esprimere tutto questo avremo fatto qualcosa di importante. Certamente non vi si troveranno pavimenti in marmo, il marmo non lo si calpesta, è un materiale da trattare con grande accortezza. Il pavimento sarà di cemento come in un luogo industriale. Però si potranno vedere tante applicazioni del marmo all’interno dello spazio. Noi pensiamo che questa sorta di fabbrica-museo sia il modo migliore per celebrare il lavoro, la capacità nella lavorazione del marmo, ma soprattutto per raccontare la storia di come la natura attraverso l’ingegno umano diventi arte, architettura, design».
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Rendering del nuovo Show Room di Luce di Carrara, progetto dello Studio Archea, Firenze
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DI FLAVIO ARENSI
MIMMO PALADINO
DALL’ARCAISMO AL NEOCLASSICISMO GEOMETRICO I
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Dopo la frattura degli anni Settanta con la scultura di tradizione, Mimmo Paladino irrompe sulla scena internazionale aprendo una nuova fase dialettica col passato, con le avanguardie, ma soprattutto ristabilendo uno spazio di libertà creativa. Il recupero dei materiali, come il bronzo o la terracotta, la pietra, si svolge verso un rinnovato interesse per il lavoro manuale, che non delega alla tecnologia, e nel contempo vi è un proposito teorico che tiene conto dei risvolti innovativi acquisiti attraverso l’irruzione dei contesti sviluppati sulla scena americana ed europea. Paladino non cerca di tornare a un’idea accademica della scultura, anzi supera di un balzo anche le critiche che possono derivare dalle istanze poveristiche o concettuali; cerca piuttosto di volgere lo sguardo a un futuro diverso, motivando nelle scelte estetiche una presa di coscienza e di pensiero del tutto innovativa. Sdogana in questo modo materiali che
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le tendenze precedenti avevano segregato o disconosciuto (salvo poi essere riprese nel più recente posizionamento di mercato), ma le sfrutta in ragione di una diversa concezione artistica. Se in pittura il caso di Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro (opera di Paladino del 1977, n.d.r.) è l’affermazione del dipingere come ambito di libertà linguistica, come gesto di rivoluzione rispetto alla fine del mestiere pittorico, la scultura di Paladino segna un nuovo sentiero di sviluppo della forma plastica in cui lo spazio e l’architettura intervengono come elementi linguistici complementari di un territorio dove anche i confini con la pittura sono fragili. Nello studio di Paduli due grandi geometrie circolari – una rossa e una nera – sono ordinate sulle pareti lunghe dell’ingresso, altrettante sagome si appoggiano a partire dal centro, sospese non toccano terra.
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Mimmo Paladino con un particolare dell’installazione La croce, 2012, Piazza Santa Croce, Firenze Foto di Veronica Gaido
Mimmo, le tue geometrie, a partire da Non avrà titolo del 1985, sono il punto di congiunzione fra il tuo fare pittura e la scultura? «Il principio che le sottende riporta tutto a un’idea geometrica dell’opera, se vuoi a un rigore matematico preciso, tradendolo infine con incastri figurativi, che sono di volta in volta bronzo, alluminio, pennellate o piccoli oggetti». Alla fine dunque non vi è una distinzione fra le diverse tecniche, tutto serve a raggiungere uno scopo complessivo che travalica il senso di un linguaggio o dell’altro. «Non riesco a fare una distinzione netta fra scultura e pittura, né credo abbia senso si faccia, perché anche quando lavoro su un quadro sfocio spesso in materiali aggettanti, oggetti, masse; non ho mai fatto una pittura – o quasi mai – che si possa ritenere “levigata”, minima, mentre ho sempre cercato lo spessore scultoreo perché deve raccogliere la luce, con tutto quello che ne consegue». Il tuo primo incontro con la pietra? «La primissima scultura l’ho fatta più di trent’anni fa rubando un blocco di tufo bianco su una strada che passava qui vicino a Paduli, scappando perché pensavo mi stesse inseguendo il contadino. Arrivato in studio cominciai a scolpirla con martello e scalpello, poi la inserii in un quadro che si intitola Isola, probabilmente in una collezione austriaca». Il passo successivo?
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«Ordinai della pietra di Vicenza che mi feci trasportare a Milano e iniziai a lavorarla come si faceva anticamente. Si trattava di una curiosità che serviva a comprendere il materiale. L’approccio stava proprio
nel voler cavare da un parallelepipedo di pietra una forma che man mano emergeva. Ne uscì una specie di torso arcaico che poi dipinsi, come feci più tardi col primo bronzo (Giardino Chiuso (Hortus Conclusus), 1982, oggi al Castello di Rivoli, n.d.r), riprendendo la formula dei maestri antichi, così da eliminare subito una certa retorica che è stata fatta intorno al bronzo e al marmo». La scultura di Rivoli è il tuo primo bronzo vero e proprio. «Fino a quel momento non ero interessato a quel tipo di lavoro, ma come spesso succede mi ritrovai per caso a modellare, o comunque in seguito a una coincidenza fortuita. Quell’anno il gallerista Emilio Mazzoli mi chiese di provarci, consigliandomi di lavorare a Pietrasanta: ne uscì Giardino chiuso. Dovendo pensare alla scultura, il mio punto di riferimento naturale non poté che essere Arturo Martini con la sua composizione geometrica e la fissità arcaica delle sue figure, forse in maniera anche imprevedibile per un artista che lavorava in un periodo orientato verso altri maestri: ti assicuro che Martini era un dimenticato, e i suoi lavori lontano secoli dal gusto del momento, però forse intuii che alle spalle di una certa scultura italiana fosse imprescindibile passare dal suo genio». La “retorica” di cui parli è stata messa in crisi dai movimenti che a partire dagli anni Sessanta rifiutano la tradizione e i suoi materiali. Oggi è cambiato l’atteggiamento di confronto con il bronzo e soprattutto col marmo. «È cambiato il mondo intorno alla scultura. Trent’anni fa se ne faceva poca, e stiamo parlando dei grandi vecchi, Moo-
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Mimmo Paladino accanto all’opera Senza titolo, 1990, bronzo dipinto Foto di Lorenzo Palmieri
Mimmo Paladino, La croce, 2012, Piazza Santa Croce, Firenze Foto di Lorenzo Palmieri
Non riesco a fare una distinzione netta fra scultura e pittura, perché anche quando lavoro su un quadro sfocio spesso in materiali aggettanti; non ho mai fatto una pittura che si possa ritenere “levigata”, minima.
re, Caro – per fare degli esempi –, penso a Perez a Napoli, mentre i giovani si rivolgevano più alle installazioni. Va tenuto conto che nel circuito più d’avanguardia o ricerca era problematico parlare di bronzo, o peggio ancora dell’impiego del marmo. Oggi invece, anche per le nuove opportunità tecnologiche, chiunque è in grado di dare un file e farsi fare un’opera, senza doverci mettere nessun impegno personale, ma questo non è fare scultura, piuttosto si tratta di un gesto concettuale, pensare a un’idea, enunciarla e demandare ad altri la sua realizzazione». Anche fra i più giovani c’era chi cercava una strada vicina alla tradizione, in fondo non è mai stata abbandonata la scultura, né le cave hanno chiuso. «Certo, come ci sono sempre stati i pittori che dipingevano, ma erano di retroguardia rispetto a quello che stava succedendo, o era successo, a quello insomma che era una visione più contemporanea: non è un problema di mezzo o di metodo bensì di come organizzare le materie o la materia per fare questo mestiere. Il discrimine è con l’arte concettuale che giunge – seguendo forse una volontà duchampiana – ad azzerare le materie e anche le emozioni per veicolare un messaggio di tipo intellettuale che non tiene conto di altro».
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La chiesa di Santa Croce e l’installazione dell’artista Foto di Veronica Gaido
La svolta, dunque, non è stato ritornare a guardare con nostalgia a quanto si faceva, ma affermare diversamente un nuovo impegno di libertà totale. «Sì. Quando negli anni ‘80 si pensa che forse è bene si possa utilizzare quel che si vuole, allora è chiaro che si spalanca un portone chiuso dalle avanguardie per alcuni decenni e da lì esce di tutto, tra cui la possibilità di utilizzare dei materiali che erano stati messi da parte per un motivo teorico: marmo, bronzo o addirittura il vetro». Tu come concepisci il marmo? Alla fine ci hai fatto un’opera, Stele… «L’ho sempre ritenuto una materia legata al classicismo, mentre io cerco una materia che abbia più a che fare con il sapore arcaico della scultura, come il tufo. Quello che mi è interessato, fuori da questa logica, sono le nuove tecnologie che permettono di utilizzare con grande precisione la ripetizione di un modello, mentre io lavoro la pietra in presa diretta. Per il monolite Stele avevo un’idea progettuale fortemente geometrizzata e spigolosa, con le superfici perfettamente piallate, proprio per poter sfruttare al massimo non solo le qualità del materiale, ma anche le opportunità tecnologiche di riproduzione di una forma perfetta. Scherzando direi che si tratta di una sorta di neoclassicismo geometrico»
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A Firenze nel 2012, davanti a Santa Croce a Firenze, hai realizzato un’installazione che aveva come fulcro l’uso del marmo.
Questo tuo interesse per l’arcaismo comincia fin dai primi lavori fotografici degli anni Settanta?
«Tutta la piazza era invasa da blocchi informi forniti da Henraux che mi servivano per richiamare delle presenze antiche, arcaiche appunto, perché era il marmo nella sua prima natura, come viene cavato dalle Alpi Apuane. Su uno di quei blocchi avevo posizionato la Stele che stava in rapporto alla statua di Dante presente sul sagrato».
«Chiaramente non nasce nel medium, però la visione che avevo si legava all’antichità, a una sorta di elemento magico, legato al fuoco, alla luna, ai personaggi misteriosi nel buio o a una dimensione non tecnologica e metropolitana».
Quando organizzi uno spazio architettonico il confronto avviene anche con gli elementi presenti: nell’Hortus Conclusus di Benevento il visitatore fa i conti con il chiostro in cui sono inseriti i tuoi interventi. «Anche qui il caso è stato determinante. Non posso spostare una pianta secolare o un muro del Medioevo, posso invece piegarli, integrarli al mio scopo. Qui decisi di creare un luogo, e non una scultura, utilizzando degli elementi già dati cui aggiungere segni nuovi; però l’intento resta di poter cogliere delle suggestioni positive, perché c’è la luce del tramonto che gioca con la forma del cavallo, poi scopri la pietra incastonata, insomma, una specie di piccolo giardino delle meraviglie ma non barocco, estremamente rigoroso, meditato, minimale. E ogni persona che entra ne esce con un’esperienza personale, diversa da quelle vissute da chiunque altro».
Si trattava di una necessità teorica rispetto al sistema dell’arte di quel periodo o di un bisogno poetico? «Era un bagaglio di forme che potevano servirmi, pur’io partendo dalla Pop Art, o meglio dal neodadaismo di Rauschenberg, che avevo visto quattordicenne alla Biennale di Venezia (1964, n.d.r.), quindi da un gesto di rottura e di avanguardia non legato alla pittura tradizionale». Hai mantenuto lo sguardo fotografico nei tuoi lavori? Lo usi per costruirne le strutture?
Per il monolite Stele avevo un’idea progettuale fortemente geometrizzata e spigolosa, con le superfici perfettamente piallate, proprio per poter sfruttare al massimo non solo le qualità del materiale, ma anche le opportunità tecnologiche di riproduzione di una forma perfetta.
«Dipende dal lavoro. L’ultimo esposto alla Biennale potrei dire che è molto fotografico, perché grafico, perché può essere una linea tirata nell’aria, un segno, un bianconero. Altre cose, come i tufi appunto, hanno invece molto a che vedere con quello che essi stessi sono, ossia la porosità della materia».
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Mimmo Paladino, La croce, 2012, Piazza Santa Croce, Firenze (part.) Foto di Valentina Fogher
Marva Griffin Wilshire Foto di Nicola Gnesi
DI MARVA GRIFFIN WILSHIRE
I VENT’ANNI DEL SALONESATELLITE U
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Tutte le definizioni che il SaloneSatellite si è guadagnato – trampolino di lancio, palcoscenico, piattaforma, passerella, vetrina, capostipite – sono dovuti alla visibilità che questo conferisce ai giovani designer e ai loro progetti. 83 | Design
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Il SaloneSatellite non solo è stato il pioniere delle manifestazioni per i giovani designer e precursore nel profondo e nella modalità di presentazione, ma questa sua formula è stata anche copiata da diversi enti fieristici nel mondo.
Il mio percorso nel mondo del design inizia in un lontano mese di aprile degli anni Settanta con la C&B Italia (oggi B&B Italia), creata da due grandi imprenditori del mondo dell’arredamento: Piero Ambrogio Busnelli e Cesare Cassina. Assistente, interprete negli innumerevoli viaggi in giro per i cinque continenti prima, e responsabile della comunicazione dopo, è stata un’esperienza unica che ho continuato come corrispondente per l’Italia delle riviste Maison&Jardin e Vogue Décoration di Les Publications Condé Nast France e di House&Garden e American Vogue di The Condé Nast Publications USA. Negli anni ‘80 insieme a Beppe Modenese abbiamo organizzato per nove edizioni “Incontri Venezia – il tessuto nell’arredamento”, tenutosi a Palazzo Grassi, all’Hotel Excelsior-Lido e ai Giardini della Biennale di Venezia. Fu dopo quell’esperienza, negli anni ’90, che Manlio Armellini mi invitò a collaborare con lui all’organizzazione del Salone Internazionale del Mobile per occuparmi della stampa estera e dell’organizzazione del Salone del Complemento d’Arredo e, nel 1997, mi chiese di creare il SaloneSatellite. Armellini, allora AD di Cosmit Spa, la società che organizzava il Salone Internazionale del Mobile, mi chiese di creare un evento per aiutare la carriera dei giovani designer più promettenti
mettendoli in contatto diretto con gli espositori del Salone. Subito divenne un osservatorio ineguagliabile della creatività giovanile internazionale. Da allora, dal 1998, più di 10.000 ragazzi e 280 scuole internazionali di design si sono incontrati ogni aprile su questo palcoscenico. Il SaloneSatellite è per me come una scuola perché i giovani designer (sotto i 35 anni) arrivano all’inizio delle loro carriere - alcuni persino neolaureati - tramite le università e gli istituti di design invitati a partecipare. Da questa “scuola” ho ottenuto un’enorme soddisfazione per il grande numero di conferme dei suoi risultati. L’obiettivo iniziale, per il quale è stato creato, è infatti stato pienamente raggiunto: riportare al Salone del Mobile la parte più giovane, dinamica e creativa. L’obiettivo quotidiano del SaloneSatellite è mettere in contatto i designer con i produttori, i media e il pubblico. Il suo ruolo è quello di essere punto di riferimento, luogo d’incontro e di scambio tra imprenditori e nuovi talenti: in definitiva porsi come talent scout. I giovani arrivano per farsi notare dai produttori e dagli opinion leader e trovano un’opportunità per mostrare i propri prodotti e far conoscere la propria creatività, in seguito crescono fino a diventare star internazionali. Sono centinaia i progetti presentati come prototipi al SaloneSa-
Un allestimento del SaloneSatellite (Courtesy Salone del Mobile.Milano)
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Immagini del SaloneSatellite Foto di Carola Merello (Courtesy Salone del Mobile.Milano)
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tellite, realizzati in modo artigianale, e in seguito arrivati alla produzione industriale, soprattutto nelle imprese italiane. Alcuni già dal primo anno, altri dopo tre anni. Oggi posso vantare una lunga lista di designer di diversi Paesi che sono stati al SaloneSatellite e che oggi sono designer affermati come – tra gli altri – Lorenzo Damiani, Patrick Jouin, Nendo, Satyendra Pakhalé, Harri Koskinen, Xavier Lust. Tutte le definizioni che il SaloneSatellite si è guadagnato – “trampolino di lancio”, “palcoscenico”, “piattaforma”, “passerella”, “vetrina”, “capostipite” – sono dovuti alla visibilità che questo conferisce ai giovani designer e ai loro progetti. Il SaloneSatellite è, per i giovani, una piazza con ambiente internazionale ricco di complicità. L’opinione generale è
che ci sia un clima di freschezza, ricerca e inventiva. Non solo è stato il pioniere delle manifestazioni per i giovani designer e precursore nel profondo e nella modalità di presentazione, ma questa sua formula è stata anche copiata da diversi enti fieristici nel mondo. Nell’aprile 2017 il SaloneSatellite compie vent’anni e due eventi lo celebreranno: ai Padiglioni 22-24 della Fiera, designer affermati a livello internazionale tornano metaforicamente “a casa” presentando nuovi prodotti disegnati per le aziende, oppure di loro autoproduzione, per la “Collezione SaloneSatellite 20 Anni”; una mostra alla Fabbrica del Vapore intitolata “SaloneSatellite. 20 anni di nuova creatività” esporrà i prototipi che, dal 1998, i giovani designer hanno presentato e che sono stati e sono prodotti da aziende italiane ed estere.
Immagini del SaloneSatellite Foto di Alessandro Russotti e Carola Merello (Courtesy Salone del Mobile.Milano)
DI ALDO COLONETTI
DESIGN E MARMO:
ESSERE DOVUNQUE SENZA DIMENTICARE DA DOVE VENIAMO R
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Molletta, designed by Baldessari e Baldessari, in Collaborazione con Riva 1920 Foto di Nicola Gnesi
Certamente è necessario dialogare con la cultura contemporanea di materiali sempre più sofisticati, leggeri, quasi “metafisici”, ma tutto questo non significa che ciò che la natura trasforma, nei suoi tempi lunghi, non possieda qualità espressive e funzionali alla nostra società.
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I materiali rappresentano la condizione insostituibile per progettare oggetti e prodotti in grado di resistere al tempo; un tempo, il nostro, sempre più onnivoro e soprattutto refrattario alla memoria: e, senza memoria, non si va da nessuna parte. Certamente, è necessario dialogare con la cultura contemporanea di materiali sempre più sofisticati, leggeri, quasi “metafisici”, ma tutto questo non significa che ciò che la natura trasforma, nei suoi tempi lunghi, non possieda qualità espressive e funzionali alla nostra società. Il marmo è il materiale tra i più antichi
e, nello stesso tempo, tra i più utilizzati nell’architettura e nel design, soprattutto laddove è necessario esprimere valori e funzioni che devono resistere al consumo, non solo simbolico, del progetto contemporaneo. Che cosa significa, per esempio, far disegnare una seduta che sia capace di mantenere le qualità intrinseche del materiale lapideo e, nello stesso tempo, sia in grado di comunicare stabilità, leggerezza e soprattutto contemporaneità? Certamente si parte dalla scelta del tipo di marmo, lavorando con gli spessori e la “flessibilità” che anche questo materiale possiede, abbinando laddove è
volte ricco di fatti, narrazioni che appartengono alla tradizione. È necessario fare un’operazione prima concettuale, à la Duchamp, poi dialogare con tutti quei progettisti che vengono da lontano, non per ragioni geografiche o disciplinari ma per “fondamentali culturali”; ovvero possedere tutte quelle coordinate conoscitive che stanno alla base di qualsiasi gesto creativo, anche il più inaspettato e imprevedibile, perché solo così è possibile approdare a opere e progetti, apparentemente scontati, ma che possiedono, appunto, la “normalità” duchampiana. Osservare il mondo da altri punti di vista, partire dal dettaglio
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possibile disegni di superfici sempre diverse, che comunque devono produrre un effetto di sistema, fino ad arrivare a un risultato finale che parli il linguaggio del presente, senza perdere di vista il suo valore antico: come se fosse al di là della storia, sempre esistito. Difficile tutto questo – ma questa è la sfida – quando si progettano oggetti che vogliono resistere al consumo, sposando materiali come il marmo che, oltre ad avere il valore della “gravità”, come argomenta molto bene Mario Botta nel dialogo ospitato in questo numero di Marmo, possiede un repertorio simbolico, di forte significato storico, molte
La modernità di un materiale si misura non tanto nella sua capacità di mimetizzarsi, presentandosi sotto “mentite spoglie”, quanto nel sottoporsi a narrazioni diverse rispetto a quelle canoniche, in modo da essere, contemporaneamente, se stesso e il suo opposto.
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Cava Macchietta, Henraux Foto di Nicola Gnesi
per arrivare alla forma finale, mettendo al centro un’apparente normalità che è, invece, il massimo dell’inatteso. Il marmo, quando affronta il design del prodotto, ha bisogno di questa filosofia, senza che si debba tradire la sua identità; un’estetica che produca uno scarto nel significato, una sorta di “decontestualizzazione”, in modo tale da “riposizionarlo” nella memoria interpretativa, renderlo quindi più “laico” rispetto ai modelli tradizionali di riferimento. La modernità di un materiale si misura non tanto nella sua capacità di mimetizzarsi, presentandosi sotto “mentite spoglie”, quanto nel sottoporsi a narrazioni diverse rispetto a quelle canoniche, in modo da essere, contemporaneamente, se stesso e il suo opposto. Il marmo, come tutti i materiali che vengono da lontano, che hanno avuto grande fortuna e diffusione in epoche lontane, molto rituali, fondate su sistemi simbolici rassicuranti e riconoscibili,
possiede una straordinaria potenzialità, ovvero quella di nominare, insieme, passato e futuro, mentre il presente lo lasciamo, volentieri, a tutte quelle espressioni che appartengono più alla cronaca che alla storia: durare nel tempo, oggi, è un valore, a patto di essere sempre se stessi da un lato, e dall’altro lato, comunque capaci di vivere il proprio tempo, avendo sempre uno sguardo rivolto in avanti. È ciò che si vede, con gli occhi e la mente, quando, dall’alto del Monte Altissimo, guardiamo il mare, il suo orizzonte infinito e, nello stesso tempo, la costa, le case, i nostri paesi che si confondono con la luce del marmo: al centro, protagonista è sempre l’uomo, la sua capacità di trasformare un blocco di marmo in una serie di oggetti che, in seguito, viaggeranno nel mondo, anche se non potranno mai dimenticare da dove vengono.
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Monte Altissimo Foto di Nicola Gnesi
DI COSTANTINO PAOLICCHI
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CINQUECENTENARIO DI MICHELANGELO ALL’ALTISSIMO A
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Daniele da Volterra, Volto di un apostolo con le sembianze di Michelangelo, 1550-1552
ta Maria del Fiore, per compiere un sopralluogo e verificare se c’erano giacimenti di marmo bianco di buona qualità, com’era comune opinione, o se invece erano vere le voci giunte fino alle orecchie del papa che non valesse la pena perder tempo e denaro in quei luoghi impervi, tra gente che non aveva l’esperienza millenaria e le capacità dei cavatori di Carrara. L’Opera di Santa Maria del Fiore e il papa avevano bisogno di molto marmo per i cantieri fiorentini e romani e per questo avevano chiesto ed ottenuto, nel maggio del 1515, dalle Comunità di Seravezza e della Cappella un atto formale di donazione dei loro monti, a cominciare dall’Altissimo, dove si reputava che vi fossero marmi da cavare. Nel 1513 era morto Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, ed era salito al soglio pontificio il cardinale Giovanni dei Medici, che prese il nome di Leone X. Tra i primi atti di questo nuovo papa ci fu, in quello stesso anno, la sentenza (o lodo) con cui assegnava il Capitanato di Pietrasanta ai fiorentini, togliendolo ai lucchesi e ponendo fine ad annose vertenze. Nel territorio del Capitanato esistevano fin dal Medioevo, e forse ancora prima, delle modeste cave, conosciute come marmoraie, da cui erano stati estratti i marmi per la costruzione delle pievi romaniche di Santo Stefano di Vallecchia e di San Martino alla Cappella. Ma pochissimi erano gli scalpellini che lavoravano saltuariamente per l’Opera di Santa Maria del Fiore o per i cantieri pisani.
È una montagna che nel corso dei secoli ha affascinato scultori come lo stesso Michelangelo, come il Giambologna, come l’americano Hiram Powers a metà Ottocento, come il francese Auguste Rodin agli inizi del Novecento, come l’inglese Henry Moore negli anni Sessanta.
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Cinquecento anni fa Michelangelo Buonarroti saliva per la prima volta sul Monte Altissimo, imponente e suggestiva montagna posta nel Comune di Seravezza, che dal 1821 appartiene alla Società Henraux. Pur non essendo tra le cime più alte delle Alpi Apuane, l’Altissimo ha meritato questo nome, nella notte dei tempi, perché il suo versante meridionale – il più scenografico – sembra elevarsi vertiginosamente sul livello del mare ben oltre i suoi modesti 1550 metri. È una montagna che nel corso dei secoli ha affascinato scultori come lo stesso Michelangelo, come il Giambologna – che nel 1568 utilizzò il primo blocco di marmo statuario estratto dalle cave appena aperte per realizzare una Vittoria oggi esposta al museo del Bargello –; come l’americano Hiram Powers a metà Ottocento, come il francese Auguste Rodin agli inizi del Novecento, come l’inglese Henry Moore negli anni Sessanta, quando la società Henraux guidata da Erminio Cidonio creò a Querceta un polo internazionale della scultura contemporanea. Intorno al 20 di gennaio del 1517 Michelangelo era salito faticosamente fin lassù, per sentieri appena tracciati lungo le balze precipiti e selvagge della valle del torrente Serra, originato dalla sorgente della Polla che scaturisce proprio ai piedi della montagna. Non aveva compiuto un’impresa sportiva, non era un escursionista ante litteram. Era andato fin lassù perché ce l’avevano mandato il papa Leone X e l’Opera di San-
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Michelangelo, fin dai tempi della Pietà quando aveva appena ventiquattro anni, nel 1497, si era rifornito di marmo a Carrara dove vantava buoni rapporti con il marchese Alberico Malaspina. Ne aveva acquistato grandi quantità nel 1505 per la monumentale tomba di Giulio, un progetto che era naufragato con beffa e danno dello scultore fuggito drammaticamente a Firen-
ze. Poi, terminato il lavoro della Cappella Sistina e morto Giulio, lo scultore aveva predisposto nuovi progetti e sottoscritto nuovi contratti con gli eredi testamentari per realizzare la sepoltura, ridotta per numero di statue e per volumi ma ancora imponente, da collocare in San Pietro in Vaticano. Michelangelo s’era impegnato a non accettare altri lavori se prima non
Antonio Puccinelli (1822-1890), Michelangelo nelle cave di Carrara, 1860 ca. Foto Archivio Bessi, Carrara A destra Raffaello, Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1518
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Monte Altissimo Foto F. Tarabella 1960 ca
ebbe a dichiarare lo stesso Buonarroti. A quel punto, debitamente autorizzato da Leone X, Michelangelo si trovava impegnato contemporaneamente per la realizzazione di due importanti opere. Del tutto indifferente ai progetti a favore di Pietrasanta, lo scultore si accingeva a procurarsi tutti i marmi necessari dai suoi abituali fornitori di Carrara. Pertanto aveva formato una vera e propria società, aveva cioè fatto “compagnia” con alcuni cavatori carraresi con la prospettiva di dividersi le spese e i guadagni, ed aveva perfino tentato di fare la cresta ai prezzi che venivano praticati al Vaticano. Se ne accorse quasi subito Domenico Boninsegni, agente del papa, svolgendo una semplice analisi di mercato, e lo scultore fu costretto a recedere dalla compagnia e chiedere scusa. Siccome erano insistenti le voci che mira-
Lo scultore aveva formato una vera e propria società, aveva cioè fatto “compagnia” con alcuni cavatori carraresi con la prospettiva di dividersi le spese e i guadagni, ed aveva perfino tentato di fare la cresta ai prezzi che venivano praticati al Vaticano.
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avesse portato a compimento quell’opera. In occasione della sua fastosa visita a Firenze il 30 di novembre del 1515, il papa Leone X aveva pensato di legare il proprio nome ad un’opera importante a vantaggio della sua città e aveva pertanto deciso di far realizzare la facciata incompiuta di San Lorenzo, la chiesa della famiglia Medici in gran parte progettata dal Brunelleschi. Molti architetti e artisti di chiara fama, tra i quali Giuliano da Sangallo e Raffaello, predisposero subito dei disegni, ma Michelangelo – avuto sentore della cosa – si attivò prontamente e preparò una serie di schizzi. Alla metà di dicembre del 1516 si recò da Carrara a Roma per eseguire di persona un disegno della facciata che ottenne l’approvazione del pontefice. Sarebbe dovuta essere, d’architettura e di scultura, “la più bella opera che si sia mai fatta in Italia”, come
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Il cardinale era irremovibile. Messo da parte il rispetto e la stima che nutriva nei confronti dell’artista, lo avvertì che il papa voleva in ogni modo che, per tutte le opere che si dovevano realizzare in San Pietro a Roma, per Santa Reparata e per la facciata di San Lorenzo in Firenze, si prendessero “li marmi di Pietrasancta et non altri”.
vano a denigrare i marmi versiliesi, diffuse artatamente forse anche dal Buonarroti, ecco che nei primi giorni di gennaio del 1517 il papa e l’Opera disposero che una speciale commissione, formata da Iacopo Salviati, personaggio di spicco della Signoria, da Iacopo Sansovino, da Michelangelo, forse da Donato Benti e da altri esperti, si dovesse recare celermente sul Monte Altissimo per verificare se c’erano o no marmi adatti per opere di quadro, di architettura e di scultura. La Signoria e l’Opera di Santa Maria del Fiore volevano sottrarsi alla secolare dipendenza da Carrara, che deteneva il monopolio dell’escavazione e commercio del marmo, e dare avvio ad una industria nel Capitanato, anche a beneficio della popolazione locale che aveva ben poche risorse, specialmente in montagna, dove era possibile praticare soltanto un’agricoltura di sussistenza. Per questo motivo l’Opera aveva intrapreso, fin dai primi mesi del 1516, la costruzione della via nuova di Marina, per collegare direttamente le cave di Seravezza al mare. La Commissione aveva verificato che vi erano vasti giacimenti di marmo bianco, e addirittura scoperto dei filoni di statuario
di grana finissima, che non avevano niente da invidiare a quelli di Carrara. Dunque l’impresa doveva proseguire con adeguati finanziamenti, perché le prospettive erano buone. Fu allora che si cominciò a far pressione su Michelangelo perché abbandonasse Carrara e si recasse a Seravezza per mettere in esercizio le cave dell’Opera sul monte di Ceragiola, alla Cappella, in Trambiserra e sul Monte Altissimo. E gli chiedevano di occuparsi anche della costruzione della strada dei marmi per raggiungere le cave lungo la valle del Serra. Ma lo scultore faceva orecchi da mercante e non si muoveva, tanto da suscitare ben presto il risentimento di Leone X, del cardinale Giulio de’ Medici e della stessa Opera, che apertamente lo accusavano di pensare solo al proprio tornaconto. Il 2 febbraio 1517 il cardinale Giulio de’ Medici inviava a Michelangelo una lettera molto dura nella quale faceva intendere che era volere del papa e suo che si utilizzassero i marmi del Capitanato e che dunque lo scultore doveva sottomettersi a quella decisione eseguendo quanto gli veniva ordinato. Il cardinale contestava senza mezzi termini certe sue afferma-
Michelangelo, Progetto di alzato della facciata di San Lorenzo (progetto finale), Firenze, Casa Buonarroti
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Il Monte Altissimo oggi Foto di Nicola Gnesi
fosse parte in causa di quei maneggi gli divennero ostili e giunsero fino al punto di “assediarlo”, ossia gli impedirono di caricare sulla spiaggia dell’Avenza i marmi per la tomba di Giulio II che lì giacevano belli e pronti e già tutti pagati. Esasperato per il comportamento dei suoi ex compari, ma anche stanco delle ingiunzioni e dei rimbrotti dei committenti, agli inizi del 1518 Michelangelo – dopo aver stipulato il contratto per la facciata – accettò di mala voglia di trasferirsi a Seravezza per occuparsi delle nuove cave dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Il 15 marzo di quello stesso anno stipulava in Pietrasanta con un gruppo di scalpellini di Settignano e con un cavatore di Azzano, Bastiano d’Angiolo di Benedetto detto Angelotto, ai rogiti del notaio Giovanni Badessi, il primo di una serie di contratti per la fornitura di tutti i marmi destinati alla facciata di San Lorenzo. Era l’inizio del periodo più difficile e tormentato della sua vita, costretto ad occuparsi di strade e di cave, di scalpellini indolenti e incapaci, di trasporti via mare e via fiume, senza aver il tempo di fare il suo, di lavoro: quello di scultore.
Appena due anni dopo, con un inaspettato “breve”, il papa Leone X lo solleverà dall’incarico. La facciata di San Lorenzo, che rimase incompiuta, e la tomba di Giulio II, ultimata decenni più tardi in modo così ridotto e difforme dai suoi progetti e dalle sue intenzioni, posta non più in San Pietro in Vaticano ma in San Pietro in Vincoli, costituiranno le grandi “tragedie” della sua esperienza artistica e umana. Capirà, ormai quasi vecchio, di essere stato usato dal papa e dal cardinale di casa Medici. Di essere stato strumento inconsapevole di un preciso disegno politico: i Medici non volevano che si realizzasse la sepoltura del papa Della Rovere, parente prossimo dei duchi di Urbino che verranno ben presto spodestati. Affermerà malinconicamente e dolorosamente, in una lettera del 1542: “In questo tempo papa Leone, non volendo che io facessi detta sepoltura, finse di volere fare in Firenze la facciata di San Lorenzo…”. Anche lui, il grande scultore, l’inarrivabile pittore e architetto, alla fine era stato vittima della prepotenza e delle macchinazioni dei potenti.
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zioni che davano per inadatti quei marmi. Aveva letto la relazione del Salviati che era stato sulle cave di Seravezza e riferiva “esservi marmi in quantità grandissima, bellissimi et comodi al condurre”. Faceva dunque esplicito riferimento all’esito del sopralluogo sull’Altissimo al quale aveva partecipato lo stesso Michelangelo che aveva assunto, ora, un atteggiamento contradditorio a tutela dei propri interessi. Tuttavia il cardinale era irremovibile. Messo da parte il rispetto e la stima che nutriva nei confronti dell’artista, lo avvertì che il papa voleva in ogni modo che, per tutte le opere che si dovevano realizzare in San Pietro a Roma, per Santa Reparata e per la facciata di San Lorenzo in Firenze, si prendessero “li marmi di Pietrasancta et non altri”. Erano convinti che venissero a costare meno di quelli di Carrara. Ma anche qualora fossero costati di più, “vole ad omni modo Sua Santità che così si faccia, per indrizare et aviare questo maneggio di Pietrasancta per l’utile publico della città”. I carraresi però cominciarono a insospettirsi per quello che stava avvenendo a Pietrasanta, e pensando che Michelangelo
DI ALESSANDRA SCAPPINI
MARMO AD ARTE CON LE NUOVE TECNOLOGIE A
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Nell’ambito delle esperienze artistiche contemporanee l’integrazione delle nuove tecnologie ha comportato una velocizzazione delle ricerche alimentate e potenziate dai media soft assai sofisticati che si sono sostituiti alle macchine hard, pesanti ingranaggi meccanici tipici dei tempi di avvio della rivoluzione industriale e del mondo socioeconomico tra Ottocento e Novecento. Appare infatti sempre più consueto affidarsi alle applicazioni degli strumenti tecnologici nel fare arte, modificando anche la propria qualità di percepire e le modalità di creare in rapporto alla multimedialità interattiva che sollecita la “formulazione” di un nuovo sistema di valori estetici, nell’esigenza di riconfermare un’assunzione consapevole che non può ignorare - nella nostra epoca di transizione e di nomadismo culturale - il terreno di confronto tra etica e tecnologia di informatizzazione, automazione, telematica nei processi produttivi. Sembra quasi desueta l’immagine dell’artista intento ad
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operare attraverso la propria manualità per creare ed esprimere una poetica personale rispetto ad un prodotto seriale, frutto di un progetto e del lavoro industriale automatizzato e pronto per essere inserito nell’economia di mercato. Specialmente nell’arte del Novecento fino ad oggi emergono continue ibridazioni tra arte e macchina che suscitano interrogativi e perplessità, anche nell’ambito delle avanguardie che dagli inizi del secolo scorso hanno dialogato con i media tecnologici per assumerli in toto nell’ambito di tendenze che in alcuni casi hanno contraddetto e negato l’idea del bello, concentrandosi propriamente sul rapporto talora contrastante tra forma e funzione e prestando attenzione alle implicazioni e agli effetti del macchinismo. In verità, a petto ormai del perpetuarsi di una falsa credenza per cui nei processi della ripetitività industriale sembra venir meno l’originalità del lavoro artistico, tanto da svilire il valore eterno dell’ideazione e della creazione individuale, quindi l’alo-
Particolare di Frappa, di Francesca Pasquali, durante le prime fasi di lavorazione alla contornatrice cnc 5 assi Foto Nicola Gnesi
Hans Arp e Erminio Cidonio presso Henraux S.p.A.
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Henry Moore alle Cave Cervaiole di Seravezza
ne misterioso1, così da alimentare l’annosa discussione e diremmo ormai secolare querelle tra estetica e funzione, tra arte, artigianato e industria, si è ormai diffusa la concezione di un nuovo statuto dell’arte che, attraverso una sostanziale revisione, ribadisce il fatto che l’immaginazione e la poetica dell’artista non vengono raffreddate o limitate dal tecnicismo del mezzo, anzi, talora quest’ultimo può alimentare nuovi spazi mentali attraverso la sua potenzialità illimitata e inesauribile. L’integrazione del mezzo elettronico nella ricerca artistica dai primi tentativi di “umanizzare la tecnologia”, propri dell’artista coreano Nam June Paik negli anni Sessanta, si connota come esplorazione innovativa e ricerca applicata che nel decennio successivo attraversa la fase più azzerante della riflessione analitica e tautologica dell’arte confermando, con le esperienze della Minimal e Conceptual art, il rilievo di una progettualità ideativa volta ad escludere l’intervento soggettivo, dal momento che l’artista affida rigorosamente l’esecuzione dell’opera agli aiutanti in studio, limitandosi alla sola elaborazione del progetto2. Se tale processo agli occhi del fruitore potrebbe stimolare una riflessione sulla riduzione dell’arte a solo concetto escludendo ogni manualità, permette altresì di rivolgere la nostra attenzione alla figura dell’artista attuale, intento ad ideare e ad implementare la sua ricerca a fronte
della sperimentazione scientifico-tecnologica da cui non può esimersi, come naturale percorso da affrontare nel proprio itinerario, coniugando concezione poetica e applicazione tecnologica, senza separazioni e antiquate fratture tra “io emozionale” e “io tecnologico”, ma anzi fruendo delle possibilità manifeste e implicite dei media digitali, dell’hi-tech, per creare un’opera, dal video alla performance, dalla fotografia all’installazione, o dedicarsi in ogni caso ad un’operazione prettamente artistica calibrando ogni volta il rapporto tra “libertà di tecnologia e libertà di immaginazione”3 . La telematica e le tecnologie di informatizzazione e automazione dei processi produttivi permettono oggi non solo di implementare o alimentare l’ideazione dell’artista, ma anche, come anzidetto, di velocizzare i processi di produzione dell’opera. Gli esempi di videoarte e di fotografia digitale sono diventati in pochi anni gli esiti mood della comunicazione mediatica, aprendo il campo a sconfinamenti e processi osmotici e ad una pluralità di sperimentazioni che si incrociano e confrontano, moltiplicando embricazioni e ibridazioni, mentre i “prodotti” delle cosiddette “arti tradizionali”, un tempo “arti maggiori”, come la scultura e la pittura, attualmente nell’ambito più dilatato delle arti visive assumono una veste installativa e si distinguono per la realizzazione anche attraverso strumenti d’avan-
anni Cinquanta Henry Moore propose il modello in minime dimensioni di una sua scultura, Reclining figure, all’attenzione delle maestranze, “una maquette in gesso non più grande di venti centimetri, da cui doveva essere ricavata una statua di oltre quattro metri”6, suscitò perplessità, ma stimolò anche a cimentarsi per vincere una sfida apportando solo opportune modifiche sul piano dell’esecuzione così da costituire gli antecedenti relativi ad una sperimentazione orientata verso nuove modalità di creare. In sede odierna la moltiplicazione e l’aumento delle dimensioni dell’opera rispetto all’abbozzo o al progetto grafico è affidata al computer che attraverso uno scanner rende il modello matematico del volume scultoreo direttamente come immagine tridimensionale. Chiaramente si tratta di un modello virtuale, ma l’artista può raffigurarsi e visualizzare direttamente il proprio esito artistico all’interno del blocco marmoreo dimensionato in base alla scultura. Ogni funzione matematica corrisponde ad una data superficie nello spazio come trascrizione in numeri, in base al sistema binario, dei corrispettivi punti fissati sul disegno del modello per identificare l’area da togliere relativa al volume, delimitata da linee tracciate che congiungono precisamente anche le minime distanze l’uno dall’altro per eliminare il superfluo. Alcune sculture di Rabarama, al secolo Pa-
Modello matematico di una scultura di Rabarama
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guardia, dal pennello computerizzato già presente nella sezione Tecnologia e Informatica alla Biennale veneziana del 19864 al taglio del marmo attraverso l’informazione elettronica in codice binario come avviene attualmente in una delle industrie più rinomate a livello nazionale, quale la Henraux S.p.A. di Querceta. Ormai conosciuta come impresa d’eccellenza in ambito internazionale per la lavorazione del marmo mirata alla realizzazione di opere monumentali che offrono testimonianza oggi in varie parti del mondo di una operosità costante capace di coniugare artigianato, arte e design nel cuore delle Apuane, tale azienda si pone sul filo di una continuità storica che, ripercorrendo il corso del tempo, riconferma la mentalità lungimirante di Erminio Cidonio, impegnato come amministratore unico dell’azienda tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento a riscoprire il valore pregnante del fare scultura, nell’intento di proiettare l’industria marmifera verso l’arte contemporanea, la produzione di serie, l’architettura, il design, rispetto ai settori tradizionali, per poi proseguire le sue sperimentazioni nel laboratorio “Officina”5. Le sculture realizzate recentemente presso l’Henraux S.p.A. sono esiti di progetti disegnati dagli artisti e realizzati in massima parte da macchine computerizzate per la sbozzatura prevedendo l’intervento fabrile per la finitura. Quando alla metà degli
Braccio robotico antropomorfico in azione per la realizzazione di una scultura progettata da Rabarama Scultura di Rabarama installata negli spazi esterni dell’Aeroporto Galileo Galilei di Pisa in occasione dell’evento “Volarearte 2013” Foto di Veronica Gaido
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Rabarama, Alis Grave Nil Foto di Veronica Gaido
ola Epifani7, nel 2013 e 2014 ambientate dalla Henraux negli spazi antistanti ed interni all’aeroporto Galileo Galilei di Pisa, come altre collocate in alcuni stabilimenti balneari a Forte dei Marmi e nella città di Lucca, sono state realizzate proprio adottando tale modello che permette attraverso l’invio delle sue informazioni garantito attraverso un software di traduzione, di avviare e modificare il movimento di un braccio robotico antropomorfico intorno alla piastra su cui è collocato il blocco marmoreo. Sembrerebbe una contraddizione rispetto a quanto afferma George S. Bolge, direttore esecutivo del Boca Raton Museum negli Stati Uniti che, commentando le sculture di Rabarama, sottolinea il suo rifiuto di influenze dettate dalla macchina, pur affrontandone i dilemmi che ha suscitato così da porsi in “collisione frontale” con essa, per attribuire rilievo alle “qualità umanistiche” come “cuore della vita e dell’esperienza”8. In realtà nelle sculture maestose come presenze assolute che rendono l’universalità dell’identità umana trapelano in superficie i “segni” della civiltà tecnologica, autentici pattern che costituiscono un tessuto di lettere e di cifrari impressi sul corpo che rinviano a significanti nascosti. L’integrazione dei mezzi informatici e robotici è un dato imprescindibile e interagisce nel processo di realizzazio-
ne come modalità e metodologia di lavoro. Electronic work e hand work si congiungono, quindi, nell’elaborazione dell’opera, al di là di possibili interrogativi riguardo alla creazione artistica come operazione ab origine e applicazione tecnologica nella produzione affidata ad altri esecutori: questioni dibattute che ormai sono diventate pressoché ordinarie a fronte degli orientamenti dell’arte contemporanea. Al medium elettronico è collegato, come anzidetto, un braccio antropomorfico, realizzato dalla Fabrica Machinale s.r.l. presente nel territorio pisano9, che raggiunge la potenza nominale di 30 Kw e consente di sbozzare dall’alto, ma anche di lato secondo diverse inclinazioni, il blocco posato sulla piastra, sezionando per togliere anche parti minime, così da svolgere l’operazione propria del “levare” tipica della scultura, come prima fase di un’esecuzione che prosegue a livello manuale. In un secondo momento interviene infatti l’artigiano per la “finitura” nell’atto di “migliorare” la superficie laddove il marmo è stato più cedevole. In verità, rispetto al taglio “a filo” del blocco, rimane sempre un limitato spessore di protezione, in quanto che il braccio robotico sbozza lasciando un centimetro ulteriore o di “contorno” rispetto al volume della forma finita, così da limitare i rischi di ottenere un profilo irregolare o inadeguato,
viate da appositi comandi. Nel connubio tra arte e macchina, industria e design, i confini sono estremamente labili tra creazione e esecuzione, e si cancellano a favore dell’interazione e della complementarietà di più aspetti che li rendono “opere di design”, espressione caratterizzata da un accostamento linguistico che potrebbe sembrare un bisticcio semantico, ma che è assai appropriato se poniamo attenzione alla finitezza e lucentezza dei lavori di Anastassiades, alla sperimentazione progettuale, al gusto estetico che non indugia verso lo styling. Anzi mantiene un’adeguata commistione tra arte e design, in cui, potremmo dire, l’estetica rimane comunque la componente privilegiata, nella rigorosa pulitezza della forma sintetica e semplice, quasi a risemantizzare l’oggetto di design e ad elevarlo al gradino di opera artistica oltre l’oggettualità funzionale, smentita altresì se ogni elemento viene riprodotto secondo una “finitura” sempre diversa della superficie marmorea, per cui può ogni volta risultare non identico al modello, avvicinandosi al criterio di irripetibilità e di unicum anche se soggetto all’iterazione elettromeccanica. L’artista, oltretutto, producendo lavori in quantità limitate, offre rilievo in ogni caso alla singolarità dell’opera “finita” dalle abilità manifatturiere e dall’aiuto sapiente del maestro artigiano per realizzare un capo-
Michael Anastassiades, Miracle Chips realizzate presso Henraux S.p.A. Foto di Hélène Binet
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e da poter “correggere” eventuali errori, rispetto alle indicazioni del modello matematico, apportando anche “variazioni” come eventuali, ancorché limitate, reinterpretazioni rispetto al progetto. Anche Miracle Chips, un’installazione costituita di elementi distinti ideati da Michael Anastassiades, è stata realizzata attraverso un modello computerizzato che invia istruzioni al braccio robotico. Appaiono incredibili fogli sottili di marmo, come se tale materiale potesse essere sfogliato al modo stesso delle pagine di un libro, tanto da estrarne una pellicola finissima addirittura piegabile, in parte incurvata come un cartiglio o, secondo l’ironica titolazione, come un’autentica chip. L’originalità del lavoro consiste proprio nella particolarità di questa raffinata “pellicola” marmorea che suscita la perplessità dell’osservatore, sorpreso talmente da chiedersi come sia possibile che la durezza del materiale generi tali effetti, come se diventasse da un momento all’altro flessibile. Sembrano accartocciarsi, infatti, come foglie al vento mentre planano a terra, ed al tempo stesso, come dischi e deschi, sono perfetta espressione di un lavoro industriale che predilige la sottigliezza e la curvilinearità, oggetti finiti in base ad un progetto elaborato dall’artista e consegnato alla macchina che opera secondo istruzioni in codici elettronici in-
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lavoro della produzione marmorea di linea elegante, garantita dalla focalizzazione sul dettaglio che acquisisce un elevato valore estetico. Dall’oggetto di design all’installazione monumentale la Società Henraux ha offerto la materia prima anche per la possente e sorprendente installazione monumentale site specific di Mimmo Paladino10 in Piazza Santa Croce a Firenze presentata in occasione della Biennale Florens 2012, ennesima testimonianza di precisi intenti che vanno al di là della lavorazione industriale corrispondente ad una consistente e ingente richiesta sul mercato che confluisce nelle esportazioni internazionali. Ben cinquanta blocchi marmorei tagliati e sezionati dalle macchine automatiche sono stati posati per formare una croce gigantesca, con una molteplicità inesauribile di segni incisi dall’artista che rinviano ad un linguaggio arcano e simbolico, caratteristica che contraddistingue il suo lavoro artistico, dall’iconografia cristiana all’alchimia, all’esoterismo, in una commistio-
ne che instaura un dialogo ininterrotto con l’edificio sacro antistante, la Chiesa di Santa Croce, per instaurare un confronto tra passato e presente, come a rendere vive e onnipresenti nel sincretismo di un mosaico di culture le tracce della storia e alimentare la ricerca di misteriosi segreti, di indizi rivelatori per un percorso interiore di edificazione. Un’opera, dunque, che può implicare una molteplicità di relazioni: “dai marmi che sono il patrimonio che nei secoli ha costruito Firenze fino alle simbologie geometriche”, come sottolinea l’artista11, mentre i suoi “segni” esprimono e significano la dimensione quotidiana che si vanifica di fronte al fondamento spirituale ed umanistico del luogo. Il lavoro prosegue su questi versanti presso la Società e la Fondazione Henraux ogni giorno, come espressione, step by step, di volontà e di passione intrinseche per avanzare verso nuove strade e su molteplici fronti di esplorazione e innovazione continua con il portato della tradizione storica e dell’esperienza quotidiana.
NOTE 1 Dalle origini della fotografia e dai tempi del dadaismo una lavorazione simile a quella seriale, per la realizzazione di multipli, ha determinato la perdita dell’aura ponendo in crisi il concetto di unicum e consegnando l’opera all’estetica della ripetizione. Cfr. W.Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit), (1936), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1955, Einaudi. Torino, 1966. 2 Nam June Paik, che nel 1965 realizza la prima ripresa mobile in diretta, Café Gogo, come ready made video, è considerato uno dei pionieri della video arte. Sol Lewitt nel 1967 scrive Paragraphs on Conceptual art pubblicati su Artforum. 3 F. Bernardelli, Dal film alla video arte, in G. Celant (a cura di), Vertigo. Il secolo di arte off media dal Futurismo al web, Bologna, Museo d’Arte Moderna, 6 maggio – 4 novembre 2007, Skira, Milano, 2007, p. 290. 4 È quanto scrive Roy Ascott in occasione della presentazione alla Biennale veneziana del 1986 della sezione dedicata alla Tecnologia e Informatica, in Arte, tecnologia e computer, AA. VV., Arte e Biologia. Tecnologia e Informatica, XLII Esposizione Internazionale d’arte, La Biennale di Venezia, Edizioni La Biennale, Electa, Milano, 1986, p. 33. 5 Si veda in proposito: L. Conte, L’Henraux: i progetti, i protagonisti (1956 – 1972), in Henraux dal 1821: progetto e materiali per un museo d’impresa, Complesso monumentale di San Micheletto, Lucca, 14 – 20 gennaio 2006, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2006, pp. 3738. 6 Testimonianza su Henry Moore di V. D’Angiolo, in Henry Moore a Forte dei Marmi e in Versilia. L’uomo, l’artista, catalogo della mostra (Forte dei Marmi, Lucca, Galleria Civica d’Arte Moderna, 1998), Pisa, 1998, p. 47. 7 L. Beatrice, Rabarama. Ortissa percorsi dorta 2010, Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2010; L. Beatrice, G. Bolge, Firenze antico informe 2011, Padova, Vecchiato Art Galleries, 2011; www.rabarama.com. 8 G. Bolge, in L. Beatrice, G. Bolge, op. cit., 2011. 9 Il Gruppo Scienzia Machinale che ha la sede legale a Navacchio nella provincia pisana progetta e realizza soluzioni robotiche avanzate attraverso la tecnologia hardware e software per la lavorazione artistica. 10 Cfr. E. Di Martino, Mimmo Paladino. Opera grafica (1974 – 2001), Art of this Century, New York, Parigi, 2001; B. Di Marino, M. Meneguzzo, A. La Porta (a cura di), Lo sguardo espanso. Cinema d’artista italiano 1912 – 2012, Silvana editoriale, 2012, oltre a numerosi cataloghi e documentazioni librarie; www.mimmopaladino. com. 11 M. Paladino, Intervista in La “croce in cui si cammina” e le esposizioni di Florens 2012, “Floraviva”, 3 novembre 2012
otiziario
DI ROSI FONTANA
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“PREMIO FONDAZIONE HENRAUX IN MEMORIA DI ERMINIO CIDONIO” CONVERSAZIONE CON I TRE FINALISTI DELLA III EDIZIONE
114 | Notiziario
DANIELE GUIDUGLI, OPERA MOBY DICK (VERTEBRA) Il titolo della tua scultura è fortemente evocativo. Come nasce l’idea di Moby Dick (Vertebra)? «La balena, il terribile leviatano che ci riporta alla memoria le pagine straordinarie del romanzo di Melville, nasce da un incontro casuale con il relitto di una vertebra del gigante marino per eccellenza. Questa visione ha fatto crescere in me, al contempo, figura e astrazione, immagine e poetica, qui unite in una singola figura. Trattandosi di una scultura, l’analogia tra il mio Moby Dick e la balena bianca è lo statuario, il bianco per eccellenza. Il mio pensiero, nel suo percorso creativo, ha unito l’opera al materiale, così ho immaginato che il bianco statuario e Moby Dick fossero la stessa cosa. Come in Melville, l’uomo è sempre a caccia del bianco, del suo bianco. Noi scultori, pur nella drammaticità, a volte, di questa “caccia”, cerchiamo il bianco sempre più bianco, perfetto e candido. È l’oro con cui desideriamo plasmare le nostre creazioni, quel materiale prezioso che le fa risaltare come nessun altro. La mia opera è un’installazione, sono cinque vertebre affiancate l’una all’altra: da una parte rappresentano quell’incontro che ha determinato la nascita e la creazione dell’opera, dall’altra rappresentano questo senso mai smarrito dell’uomo che sopravvive a se stesso uccidendo l’altro. C’è poesia nel vedere ciò che rimane di ciò che era, ma vi è anche dolenza e denuncia. L’arte è sempre fedele a se stessa, e spero anche questa mia opera lo sia, rappresenta la bellezza ma anche un pensiero che vuole creare nello spettatore una profonda
riflessione sul mondo e su ciò di cui il mondo è composto. Nell’integrità o nella non integrità». Qual è la tua esperienza nella lavorazione del marmo? «Ho fatto l’Accademia di Belle Arti di Carrara, il marmo in questo contesto è l’aria stessa che si respira, si vive di marmo, oserei dire che si “mangia” il marmo. Ho avuto professori come Balocchi e Cremoni che mi hanno indirizzato fin da subito alla scultura in marmo poiché avevano intuito una mia determinata manualità. Mi sento decisamente a mio agio con la pietra scultorea per eccellenza, è un materiale che amo e che sento particolarmente». La Giuria del Premio nello scegliere i tre progetti finalisti ha evidenziato un filo conduttore, una sorta di connessione fra le tre sculture finaliste, puntualizzando come le opere di questa edizione si leghino ad un tema di grande attualità: il dramma dell’immigrazione, quello “spiaggiamento” continuo di essere umani alla ricerca di un futuro. Come interpreti questa lettura della Giuria, riconosci questa simbologia nella tua opera? «Credo che la Giuria abbia fatto un gran lavoro, ha capito perfettamente il dramma dei nostri giorni, e riconosco questa lettura nella mia opera. Lo scheletro della balena, così mastodontico, rimanda alle proporzioni del gigante marino, dunque alle reali dimensioni di ciò che desidero rappresentare. In questa attualità, così drammatica, vedo la stessa analogia, dallo scheletro – le persone alla deriva della società – possiamo immaginare l’ampiezza di questa tragedia che sta coinvolgendo l’umanità. Trovo molto logico e particolarmente importante il fatto che la Giuria abbia individuato nei tre
lavori una direzione unica. Certamente il lavoro della Giuria è anche quello di individuare connessioni e legami fra i progetti proposti, ancora di più lo è per un Premio che deve certamente rappresentare l’espressività e la creatività degli artisti contemporanei, ma soprattutto identificare se stesso». Dunque, possiamo dire anche, per ciò che concerne la tua opera, che nel Premio Henraux di quest’anno troviamo nei fatti di attualità l’urgenza dell’arte di scrivere un suo capitolo in scultura? «Certamente, il titolo della mia opera lo accentua, particolarmente. Moby Dick è un simbolo, è l’immaginario di una certa storia moderna, nasce dalla letteratura ma come sempre nelle arti si esprimono i concetti più stringenti e assoluti delle società rappresentate». Cosa ha significato per te lavorare in Henraux? «È stata un’esperienza unica, soprattutto perché non avevo mai lavorato con l’ausilio dei robot. Mi sono reso conto dell’importanza della tecnologia applicata alla creazione di un’opera d’arte. Tecnologia che dimostra il più incredibile degli avanzamenti nella realizzazione e che ha creato un grande gioco di squadra! Conoscendo la storia del marmo potrei dire che il robot rappresenta in chiave tecnologica quelle braccia che qui, in questo territorio, hanno creato la storia, quella storia che è unica, come il bianco delle sue Apuane». Ti aspettavi di arrivare in finale? «No, è stata una sorpresa. Lavorare il Bianco dell’Altissimo è un grande onore per uno scultore, un materiale che è forma, già prima ancora di essere immaginata. In questo sento di aver raggiunto un obiettivo importante».
Daniele Guidugli a lavoro sul bozzetto di Moby Dick Foto di Nicola Gnesi
116 | Notiziario
KIM DE RUYSSCHER, OPERA CANOTTO Un canotto monumentale, un oggetto di gomma che si “incarna” nel marmo. Qual è il concept di un’opera così sorprendente? «Dietro quest’idea c’è la mia storia, ogni mia opera è percorsa dalle ricerche fatte nel passato. Nel Canotto per il Premio Henraux ho voluto riportare ancora una volta un oggetto in plastica, industriale e spesso molto povero, mettendolo in forte contrasto materico, un canotto scolpito nel marmo che rappresenti anche la bellezza della natura. La pietra ha una vita molto lunga, è il materiale scultoreo più antico fra quelli usati, da qui, anche, lo scontro con l’odierna cultura della plastica. Altro tema della mia opera sono gli opposti, le contrapposizioni: gonfio/ sgonfio, peso/leggerezza. Questa dicotomia è per me la cosa più importante. Mi piace immaginare il pensiero dello spettatore davanti alla mia opera che, da una parte riconosce l’oggetto, dall’altra ne disconosce la materia. Questo è il punto da cui inizia la storia di ogni mia opera, nel momento in cui chi la osserva si pone una serie di domande: questo è un canotto? È rotto, che cosa è successo? A me piace dare un’idea centrale, un input, ma è lo spettatore che deve creare la storia». L’interpretazione dell’opera spetta principalmente al pubblico, ma siamo comunque di fronte ad una forma singolare, ieratica, di una compostezza quasi solenne, però è un “relitto”, è piegato su se stesso, e anche questo è un contrasto. Perché hai immaginato così questa figura? È una frattura, un pensiero o, più semplicemente, una forma?
«Cerco sempre di capire la natura, di interpretarla, qui c’è una sorta di bilancia, c’è un gioco: gonfio/sgonfio, gravità/non gravità, e così è nata l’idea di questa bilancia fuori misura, per alleggerire quel masso di marmo che ho utilizzato e che inizialmente pesava circa 27 tonnellate. Sempre rispetto al pubblico, allo spettatore, mi piace immaginare che chi osserva la mia opera non ne senta più il “peso”. Immagino che il mio Canotto sia vissuto dall’osservatore attraverso un pensiero che unisca il marmo di cui è realmente composto e la plastica con cui è sempre stato vissuto. La mia opera è in un certo senso minimalista, pone l’accento sugli opposti, esalta una materia per negarne un’altra, ma la forma è quella che conosciamo». Com’è stato per te lavorare in Henraux per questa terza edizione del Premio? «Molto interessante, perché è stata la prima volta in cui ho lavorato con i robot ma, soprattutto, con un team di esperti della lavorazione del marmo, davvero una grande collaborazione se penso a quante persone sono state coinvolte nella realizzazione dell’opera. Ciò che mi ha colpito particolarmente è stato il “cambio di guardia” fra me e il robot, lui lavorava di notte e io di giorno, io dovevo capire i suoi ritmi e lui i miei». Dunque ti sei sentito come un modernissimo Michelangelo? «No, per fortuna, perché Michelangelo ha sofferto troppo nella vita». La Giuria nello scegliere le opere finaliste ha trovato un comune denominatore. Le tre opere sono state connesse all’attualità, all’emergenza umanitaria che ogni giorno ci riporta a imbarcazioni di fortuna. Il tuo Canotto può essere letto anche in questo senso?
«Sì, certo. Questo canotto è iniziato con delle bottiglie di plastica, tutti i giorni sentiamo storie terribili di persone rimaste in mare. Ho pensato ai gonfiabili, ho voluto dare un mio messaggio, che non è politico, ma poetico. Se nelle storie che gli osservatori vorranno scrivere sulla mia opera ci sarà anche questa non mi dispiacerà. Nel creare il Canotto, e non una barca, ho scelto l’estrema fragilità di quest’oggetto e il suo quasi “non essere”, una sottigliezza che il marmo sottolinea in modo significativo». La tua opera rappresenta anche questo fatto drammatico, dunque ancora una volta l’arte si congiunge con il mondo, con il vissuto? «Sì, certamente, c’è questa linea nella mia opera. Ho affrontato diversi temi nella mia carriera, in uno seguivo la linea fra passato e futuro, fra ciò che svanisce e ciò che resta, in questa direzione ho scelto di lavorare con il marmo proprio perché rappresenta il tempo futuro, in un certo senso l’immortalità. La pietra si conserva a lungo, è quasi eterna, questo canotto rotto, in marmo, conserverà quest’idea, sarà come la pagina di un libro su cui è stata scritta una storia che potrà essere letta a lungo, nel futuro. Così, ancora una volta, ritorno alla mia idea della storia da leggere nelle mie opere». È un dato di fatto, l’arte è immortale e in particolar maniera il marmo è un materiale che la trasporta nel futuro. Per chiudere, qual è la cosa più importante per te di questa partecipazione al Premio Henraux? «Aver fatto un buon lavoro, un’opera finita e fatta bene, presentarla al pubblico augurandomi che molti possano vederla e ammirarla».
Kim De Ruysscher a lavoro sull’opera Canotto Foto di Nicola Gnesi
118 | Notiziario
MAT CHIVERS, OPERA NEWAVE Newave, una nuova onda, fatta di opposti, un blocco di marmo bicolore, bianco e nero. Inizialmente si intitolava Polyphonic (what you want to see). Che cosa vediamo in quest’opera? «Ho iniziato a lavorare a quest’opera con il titolo Polyphonic, titolo che aveva molti significati. L’opera era inizialmente un’idea astratta, oggi, nella sua forma finale, il titolo è Newave, letteralmente “onda spezzata”, il frammento di un’onda. Sono particolarmente attratto dal movimento, dal divenire, dai fenomeni naturali. Fondamentalmente l’attimo in cui avviene qualcosa nel mondo naturale non si ripeterà più, è svanito nel momento stesso in cui si è manifestato. Quando osserviamo un’onda che si frange, che chiude il suo ciclo a riva, non vediamo mai la stessa cosa, non possiamo pensare di cristallizzare quel momento. Ecco, questa mia Newave è un piccolo grande gioco, è il tentativo di tradurre in pietra il movimento del moto infinito del mare, anche in direzioni diverse: la solidità, la massa, l’attimo che fugge. L’opera, invece, durerà a lungo ed è una congiunzione di opposti, la relazione fra qualcosa che non accadrà mai più e un oggetto che permarrà per sempre. Uno dei temi che più mi affascinano è il mondo digitale. In questo periodo storico la nostra società, strettamente legata alla digitalizzazione, ci conduce verso una straniante percezione della realtà. In Newave le fasce nere e bianche rappresentano anche il mondo digitale. Quello che ho fatto è di prendere la fisicità di un’onda che si spezza e ho creato l’illusione di quella forma. Guardando la scultura questo non si legge immediatamente, anche perché siamo di fronte all’isolamento di un frammento di questa forma». Hai realizzato questa scultura in un ambiente altamente specializzato e con una lunghissima storia alle spalle, la Henraux, che oggi ha un considerevole background tecnologico. Che cosa ha significato per te lavorare in una realtà così fortemente proiettata al futuro? «È una domanda molto interessante. Per me è stato come entrare in una
simbiosi perfetta, soprattutto perché il mio lavoro guarda alla storia del fare. Penso che l’opportunità di lavorare in Henraux sia stata piuttosto importante anche perché mi ha consentito di fare molte domande e di percepire la direzione nella lavorazione del marmo per il futuro. L’Henraux è un’azienda molto interessante, la Fondazione, che promuove e partecipa al mondo culturale con le sue attività, entra a pieno titolo in una fondamentale conversazione sul domani della scultura, sulle nuove direzioni». Confermo che questo è il vero senso del Premio. «Ho potuto vedere come in Henraux credano nel valore dell’arte e come questo valore possa fare la differenza. Anche per me questo è molto importante, l’arte, davvero, può fare la differenza. Nell’arte puoi trovare ciò che verrà, l’arte precorre i tempi ed è alla base di ogni società». L’arte è la prima interprete di ogni società, orienta il nostro pensiero al futuro. Ma parliamo di nuovo della tua scultura, l’effetto finito, così lucido e specchiante ha un significato? «Si, la superficie di Newave è come uno specchio, questo effetto che ho voluto per l’opera è molto importante per me. Quando si guarda qualcosa, se ci si può specchiare, quell’oggetto viene “riempito” di noi stessi». Possiamo riconoscerci nell’opera stessa, dunque? «Esattamente, si riempie un vuoto, si crea una connessione con la natura. In Newave il riflesso che si crea nell’opera nel momento in cui lo spettatore si avvicina è di fondamentale importanza. Ciò che si crea, tramite questo riflesso, questo specchio, è il concetto stesso dell’arte, poiché l’arte è lo specchio del tempo in cui stiamo vivendo». La giuria nello scegliere le tre opere finaliste ha immaginato una connessione con l’attualità. In particolare nella tua opera sono stati visti degli opposti, il bianco e nero, il nord e il sud. Pensi che questa lettura rispecchi ciò che realmente hai concepito in Newave? «È una domanda molto complicata. Non vedo una connessione “politica” nella mia opera. Per me l’arte, la grande arte, non è mai esplicita, è ambiguità, può essere qualsiasi cosa, potrebbe
essere anche non facile da comprendere. Dunque, mi sentirei un po’ forzato a dare un’interpretazione come questa alla mia opera. Penso sia molto importante l’esperienza personale, certamente lo spettatore è libero di leggere qualsiasi storia nella mia scultura, ma per me è difficile dettare una lettura specifica, ingabbiata. Non amo gli schemi e anche in questo lavoro non ho costruito uno schema specifico. Il mio lavoro è la congiunzione di opposti. Sono interessato a ciò che unisce, non a ciò che divide. Ciò che faccio è di prendere due opposti e creare una conversazione fra essi, fra elementi, in questo caso fra il bianco e il nero che compongono Newave. Il bianco e il nero, inoltre, hanno ulteriori significati, sono un punto “digitale”, un dialogo, un punto di partenza con molti significati. Fondamentalmente il mio lavoro è la celebrazione dell’ambiguità». Per realizzare quest’opera hai vissuto in un luogo dove si parla e si vive di marmo, com’è stata quest’esperienza? «Il mio rapporto con i luoghi in cui lavoro inizia sempre da una stretta relazione con il territorio. Quando sono arrivato qui per la prima volta, nel 2014, ho passato molto tempo ad esplorare queste zone, ho camminato a lungo, osservato gli spazi, volevo compenetrare il territorio ed entrare in sintonia con le persone che ci abitano, e mi sono innamorato dell’Italia. Nelle Apuane della Versilia c’è un’energia particolare. Per ciò che riguarda il Premio è stata una bellissima esperienza, soprattutto per il rapporto che si è creato con gli altri due finalisti, è stato come attraversare insieme un fiume, condividere una destinazione. Abbiamo compiuto lo stesso viaggio, è stato emozionante». La realizzazione della tua opera e il Premio in sé sono stati per te, dunque, un momento di condivisione e non di competizione? «Onestamente penso che siamo tutti vincitori del Premio, la nostra è stata una conversazione, una collaborazione. Ciò che conta è l’aver condiviso questa bellissima esperienza. Il Premio è di tutti ed è per tutti. I lavori vengono esposti, se ne parlerà, conta solo questo».
Mat Chivers supervisiona la sbozzatura dell’opera Newave Foto di Nicola Gnesi
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THE VISIONAIRE
New York, New York, USA 46.000 metri quadri Architetti: Pelli Clarke Pelli Architects (interior design) MAteriali: Travertino Bianco, Travertino Noce
120 | Notiziario
Il Visionaire è il grattacielo residenziale più “rispettoso” dell’ambiente di Battery Park City. Affacciato sul fiume Hudson e sul porto di New York, impone la sua presenza con i suoi 35 piani di altezza. Nell’atrio domina la pietra naturale, interamente fornita e lavorata dalla Henraux. Il senso d’imponenza, accentuato dalla pianta aperta delle stanze spaziose, è bilanciato dalla ricca varietà delle colorazioni di travertino e limestone. Le raffinate linee sinuose color crema, argento, oro e castano si alternano in senso orizzontale nei pannelli
a giunto aperto impreziosendo i quattro muri principali. L’atrio funge anche da foyer pubblico del Visionaire. Il banco in pietra della reception è di vitale importanza per l’accoglienza dei residenti e degli ospiti. All’interno di uno dei muri principali in travertino è stato inserito un acquario di tre metri e mezzo con acqua salata e coralli vivi che, con la sua vita acquatica, anima l’atrio e la sala giochi adiacente. Una panca incassata invita a sedersi per ammirare la vivace interazione di pesci, coralli e crostacei di notte e di giorno.
Nell’atrio del Visionaire campeggia inoltre Sirena, una scultura che ne completa la caratteristica espressione architettonica. Scolpita alla Henraux dall’artista Renzo Maggi e ricavata da un blocco di due tonnellate di travertino classico di Tivoli, Sirena racchiude in sé sia il materiale sia il tema di molte delle sculture pubbliche più note e amate di Roma – come la Fontana dei Quattro Fiumi e la Fontana di Trevi del Bernini – che furono realizzate con lo stesso travertino color crema e celebrano la potenza e la grazia durature dell’acqua.
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SEDE CENTRALE DELLA FIRST CITIZENS BANK
Columbia, South Carolina – USA Architetti: studio Duda Paine Architects LLP
122 | Notiziario
Situato nel centro di Columbia, ad appena un isolato dalla sede del governo statale, l’edificio di nove piani e oltre sedicimila metri quadri soddisfa il desiderio del committente di completare l’atmosfera storica di Main Street con un’importante struttura civica senza tempo. La continuità e il prestigio che contraddistinguono gli edifici pubblici si esprimono nell’uso dei materiali e nella cura dei dettagli: il rivestimento in “limestone”, gli articolatissimi regoli color bronzo e un atrio con un’imponente scalinata dalle ringhiere bronzee realizzate da artigiani locali. Per rispet-
tare l’impegno di costruire “un edificio moderno che sembra esistere da un secolo”, il progetto ha necessariamente previsto la creazione di superfici che rievocassero la manifattura del passato. Il volume dei blocchi di pietra, ad esempio, è stato ricreato mediante una struttura articolata in pannelli, scanalature, colonne e cornici. Anche altri elementi, come le ringhiere della scalinata e i portalampade, sono stati eseguiti con dettagli ornamentali degni dell’artigianato. I quasi 8000 metri quadri del rivestimento esterno sono composti da 1600 mq di vetro e 6000 mq di limestone Golden Beach del Portogal-
lo (interamente prodotti in Henraux). Il progetto comprende spazi per uffici, la sede della banca nell’atrio su tre piani e il parcheggio sotterraneo a due livelli con 400 posti auto. Collocare il parcheggio sottoterra era fondamentale affinché il sito avesse anche una funzione civica: la piazza antistante è stata infatti adibita a giardino pubblico. Rigoglioso e aperto a tutti, il nuovo spazio funge più da parco cittadino che da area privata e ha ottenuto nel 2006 il “Columbia Choice Design Award”.
Grazie a questo progetto, la Henraux si è aggiudicata il Premio d’eccellenza “Pinnacle 2007” del MIA (Marble Institute of America) con la seguente motivazione: “Il lavoro che ha vinto riflette gli altissimi standard dell’azienda e mostra all’intero settore la superiorità e la bellezza della pietra naturale!”
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LA GRANDE MOSCHEA DI ABU DHABI SHEIKH ZAYED BIN SULTAN AL NAYHAN THE 2ND
124 | Notiziario
Architetti: Studio Spatium Arch. Carmellini - Magnoli Joint venture: Henraux - Fantini Mosaici - Mosart
Come nella visione del suo fondatore, la Moschea troneggia all’ingresso di Abu Dhabi City Island, chiaramente visibile dai tre ponti principali che collegano l’isola alla terraferma, il Maqta, Mussafah e il Ponte di Sheikh Zayed. La posizione strategica della Moschea è un’espressione simbolica della connessione emotiva che esiste tra la Moschea stessa e tutti i cittadini degli Emirati Arabi, in particolare perché il luogo di sepoltura dello Sceicco Zayed
bin Sultan Al Nahyan, primo Presidente degli Emirati Arabi Uniti, si trova proprio accanto alla Moschea. La Grande Moschea è ben riconoscibile per il colore puro utilizzato per i suoi esterni ed ogni elemento di design artistico è stato attentamente studiato e ben si inserisce nel contesto globale del progetto. Henraux ha fornito i pavimenti in Bianco Lasa e marmi colorati, oltre 100 archi realizzati in Bianco Lasa, una pa-
rete interamente intagliata in marmo che dona all’ambiente la leggerezza di un fine ricamo ed ha realizzato il muro della “Qibla”, prodotto con tecnologia di ultima generazione e con l’inserimento di mosaici in oro. L’armonia nei colori delle pareti, delle colonne e del tappeto rendono l’intera Moschea un capolavoro artistico in una sinfonia di colori e sfumature.
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PROGETTO DEL NUOVO SHOWROOM LUCE DI CARRARA
Architetti: Studio ARCHEA ASSOCIATI, Firenze Ristrutturazione di porzione di fabbricato (ex officina Henraux) per la creazione di uno spazio commerciale/espositivo Inizio lavori: Febbraio 2017 Termine lavori: Luglio 2017
126 | Notiziario
«Con Luce di Carrara nasce la filosofia di “Abitare il Marmo” che oggi significa utilizzarlo e plasmarlo disegnando forme utili e necessarie per le nostre case: antico e contemporaneo, due valori non separabili per un design capace di interpretare l’estetica di un materiale così unico e straordi-
nario come quello dalle nostre Alpi Apuane. E grazie al marmo, che è al centro di ogni progettazione che voglia dialogare con la tradizione ma attraverso i linguaggi contemporanei, nascono tutti gli oggetti di Luce». (Aldo Colonetti, catalogo HX light)
Studio Archea Associati ha fatto propri questi valori ridisegnando lo spazio che ospiterà il primo Showroom Luce di Carrara.
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ISSN 0542-7487