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inchiesta / M&A

di Alberto Pattono

Uniti per competere Il denaro costa poco, la domanda in Europa è ferma, i mercati sono sempre più globali: per crescere le imprese, soprattutto svizzere, scelgono sempre di più la strada delle acquisizioni e delle fusioni. Nel 2014 il loro controvalore ha toccato i 3500 miliardi di dollari nel mondo e i 180 miliardi in Svizzera. Il 2015 non sarà da meno. Anche perché la forza del franco rende più facile per le imprese svizzere acquistare concorrenti europei.

I

l 2014 è stato un anno record per le operazioni di merger and acquisition (M&A in sigla). A livello mondiale il loro controvalore è stato di 3500 miliardi di dollari, quasi 100 miliardi per ogni giorno dell’anno: il 47% in più rispetto al 2013. Ed è ancora poco, nota uno studio firmato dall’analista Dan Scott di Credit Suisse Global Research: «Perché, anche ai livelli attuali, il rapporto fra i volumi di M&A e la capitalizzazione dei mercati azionari rimane comunque basso». Nel 2014 quasi 100 operazioni hanno superato i 5 miliardi di controvalore. Tre hanno superato i 60 miliardi (i dati quando

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si parla di M&A sono quasi sempre espressi in dollari statunitensi): l’acquisto delle attività nella tv via cavo di Time Warner da parte di Comcast (70,7 miliardi), l’acquisizione di DirecTv da parte di AT&T e la cessione della casa farmaceutica Allergan ad Actavis. Dieci delle 15 operazioni più importanti hanno riguardato gli Stati Uniti, che rappresentano circa il 50% del mercato; l’Europa è salita del 55% e l’Asia ha raggiunto un record con 716 miliardi di controvalore. La Svizzera è uno dei Paesi leader per quanto riguarda merger e acquisizioni, sia per l’attività delle aziende ‘di casa’, sia perché ospita le holding

di gruppi globali. L’Università di San Gallo mantiene un M&A database che contiene dati su 70 mila operazioni di almeno 7 milioni di dollari di valore svolte dal 1985 in poi, nelle quali almeno uno dei contraenti aveva sede in Paesi di lingua tedesca (Svizzera, Germania e Austria). Secondo questo database, dal 2007 alla fine del 2014, in media ogni giorno, è stata conclusa una cessione o una acquisizione relativa a una impresa svizzera. Nel 2014 si è arrivati al record di 420 operazioni. «In Svizzera nel 2014 si è visto un significativo aumento nelle transazioni M&A»,


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L’inatteso rialzo del franco rende più difficile cedere attività relative al private banking rivolto alla clientela italiana, che diventano più costose e meno redditizie: i ricavi sono soprattutto commissioni su asset in euro e i costi sono quasi interamente in franchi. In compenso avvantaggia non poco chi ha investito in immobili o in asset in franchi Adelio Lardi, titolare della Lardi & Partners di Lugano

sottolinea Anna Samanta, partner di Deloitte e responsabile del team di consulenti di Deloitte dedicato alla Post Merger Integration, «secondo lo studio che abbiamo condotto insieme all’Università di San Gallo, intitolato ‘Serial acquirers: Getting your ducks in a row’, il loro controvalore è aumentato dai 27 miliardi di franchi del 2013 ai 178 miliardi del 2014, il livello più alto dal 2007. Soprattutto

sono tornati i ‘mega-deal’ e le ristrutturazioni del portafoglio da parte delle imprese del settore life science». Secondo uno studio di KPMG, le operazioni con acquirente svizzero di aziende straniere sono passate da 137 del 2013 a 201 del 2014, quelle che hanno visto aziende o rami di azienda elvetici ceduti ad imprese estere sono salite da 73 a 89, mentre le M&A interne, in cui compra-

tore e venditore battono ambedue bandiera rossocrociata, sono rimaste intorno alle 100. L’operazione più importante del 2014 in Svizzera è stata l’acquisizione da parte di Holcim del 100% di Lafarge per quasi 40 miliardi, seguita dall’acquisizione del 55% del gruppo farmaceutico e distributivo Alliance Boots con sede a Zugo, ma presente soprattutto in Regno Unito, per quasi 24 miliardi.

Il trend continuerà almeno per la prima parte del 2015 grazie alla solidità degli utili aziendali, a qualche modesto miglioramento nello scenario economico e al perdurare di bassi tassi di interesse. Ma l’attività M&A tende a ridursi quando c’è incertezza sull’andamento delle economie Anna Samanta, partner di Deloitte e responsabile del dipartimento dedicato alla Post Merger Integration

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Si profila un 2015 da record. L’anno in corso si presenta altrettanto interessante per le operazioni di finanza straordinaria. «Non essendo cambiate le tendenze di fondo, ci si può attendere per il 2015 la prosecuzione del livello di attività cui abbiamo assistito nel 2014», afferma Patrik Kerler, responsabile del dipartimento M&A di KPMG Svizzera. «Il trend continuerà almeno per la prima parte del 2015 grazie alla solidità degli utili aziendali, a qualche modesto miglioramento nello scenario economico e al perdurare di un contesto di bassi tassi di interesse», concorda Anna Samanta. «ma teniamo presente che l’attività nel settore M&A tende a ridursi quando si diffonde un clima di incertezza sull’andamento delle economie». In Europa Credit Suisse ritiene che i settori più attivi nel 2015 saranno la chimica, il settore healthcare e le telecom. UBS aggiunge l’industria e l’alimentare-bevande. «Mi attendo anche molto interesse per le banche popolari italiane nella seconda parte dell’anno», aggiunge Bert Jansen, european equity

Paesi d’origine delle imprese acquisite da imprese svizzere Paese

Numero acquisizioni (2014)

Germania

44

Stati Uniti

31

Francia

13

Italia

10

Paesi Bassi

10

Gran Bretagna

10

Spagna Altri Paesi Totale

8 80 206

Fonte: The Corporate Finance Group

strategist di UBS CIO Wealth Management. Deloitte prevede un aumento dell’attività di M&A in numerosi settori anche in Svizzera, «dove storicamente i comparti più attivi sono stati quello delle life science e dell’healthcare, i prodotti di largo consumo e i servizi finanziari», ricorda la partner di Deloitte in Svizzera.

Hanno concluso relativamente poche operazioni nel 2014 le materie prime, dove il calo dei prezzi ha messo sotto pressione molte medie e piccole imprese che potrebbero essere cedute alle trading company in cerca di integrazione, e la produzione e distribuzione elettrica, dove la scelta di non proseguire con la generazione nucleare rende necessario agli operatori locali acquisire capacità produttive. Anche KPMG ritiene probabile una crescita dei M&A nel farmaceutico (dove - superati i problemi legati alla scadenza dei brevetti - oggi la sfida è la pressione dei pagatori pubblici e privati sui prezzi dei farmaci e dei dispositivi medici) e nei servizi finanziari svizzeri. Si prevedono soprattutto acquisizioni di banche minori, portafogli di clienti, e asset manager indipendenti confrontati con costi e rischi regolatori e operativi crescenti. «Ma l’inatteso rialzo del franco svizzero rende più difficile la cessione delle attività relative al private banking rivolto alla clientela italiana, che diventano insieme

Attivo di notte.

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© UBS 2015. Tutti i diritti riservati.


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più costose e meno redditizie», fa notare Adelio Lardi, titolare della Lardi & Partners di Lugano, «visto che i ricavi sono soprattutto commissioni su asset in euro e i costi sono quasi interamente in franchi. In compenso avvantaggia non poco chi ha investito in immobili o in asset in franchi». Un comparto che si è mosso molto in Svizzera nel 2014 è quello assicurativo. La Nazionale è stata comprata da Helvetia, che ha acquistato anche le attività in Austria della Basilese. SwissRe ha pagato 122 milioni di dollari per comprare Sun Alliance, autorizzata a vendere polizze alle aziende cinesi. E a queste si sono aggiunte diverse operazioni minori sia nell’assicurativo vero e proprio sia nel real estate legato al settore. Inoltre, aggiunge lo studio di KPMG intitolato ‘Clarity on Merger & Acquisitions 2015’, ci si attende un consolidamento nel settore delle cliniche e dei laboratori privati. Non è chiaro invece come si evolverà il settore del lusso. Molte aziende familiari sono state acquistate negli scorsi anni. Nel 2014 SMH ha preferito la crescita interna men-

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Controvalore in miliardi di dollari delle operazioni M&A internazionali che hanno interessato la Svizzera nel 2014 Aziende svizzere acquistano aziende europee

67

Aziende svizzere vendute ad aziende europee

20

Aziende svizzere che comprano aziende nordamericane

42

Aziende svizzere vendute ad aziende nordamericane

24

Aziende svizzere acquistano aziende latino-americane

2

Aziende svizzere vendute ad aziende latino-americane

2

Aziende svizzere acquistano aziende asiatiche

4

Aziende svizzere vendute ad aziende asiatiche Aziende svizzere che acquistano aziende francesi Aziende svizzere vendute ad aziende francesi

7 40 7

Fonte: KPMG

tre Kering ha comprato una delle non molte griffe indipendenti rimaste nell’orologeria, assicurandosi il 100% di Ulysse Nardin per una somma pari a 13 volte l’Ebitda. Svizzera nel mondo... Curiosamente, nonostante il grosso delle esportazioni e delle importazioni svizzere avvenga con

i Paesi dell’area euro, un numero molto significativo di transazioni si svolge con gli Stati Uniti. Questo avviene da una parte perché le aziende statunitensi sono più spesso globali di quelle europee ed espongono quindi ai mercati asiatici e di tutto il mondo, in secondo luogo perché le aziende americane hanno più spesso

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L’economia cresce poco. In Europa ci si può attende al massimo l’1,5% nominale. Questo significa che la crescita degli utili difficilmente verrà dalla crescita organica della ‘top line’, cioè del fatturato. Da qui l’interesse per una crescita su linee esterne Bert Jansen, european equity strategist di UBS CIO Wealth Management

tecnologie o brevetti immediatamente utilizzabili. … ma non in Italia. Al riguardo è significativo notare quante poche operazioni riguardino l’Italia, dove pure la Svizzera ha una presenza industriale di antica data e significativa. «In Italia, e noi in Ticino lo sappiamo bene», afferma Adelio Lardi, «ci sono dei veri gioielli dal punto di vista industriale, ma la loro acquisizione non è semplice. Quando si prospetta una operazione di finanza straordinaria, occorre ridurre al minimo le incognite. E, quando si tratta dell’Italia, le incognite sono diverse - sotto il profilo fiscale per esempio - o per quel che riguarda la possibilità di modificare le strutture produttive. Questa incertezza si traduce in una barriera all’entrata elevata». «In generale», commenta Markus Prinzen, responsabile della sede di Lugano di PricewaterhouseCoopers (PWC), «acquistare un’azienda nel Sud Europa può essere difficile. In Italia il mercato è aperto: non ci sono ostacoli di natura politica, come accade in Francia, dove le acquisizioni da parte di soggetti esteri non sono ben tollerate, ma ci sono comunque delle difficoltà. Non sempre è chiaro quale sarà il profilo fiscale di un’operazione, né tanto meno se sarà possibile procedere a licenziamenti e a chiusure di stabilimenti, anche qualora fosse strettamente necessario. Inoltre le PMI italiane, per quanto performanti, hanno spesso delle manchevolezze in materia di compliance relativa alle normative e ciò rende la due diligence - cioè la fase di ana30 · TM Marzo 2015

lisi puntuale dell’azienda che si sta per acquisire - molto difficile e dispendiosa». Perché le aziende ricorrono alle acquisizioni? Se esistono queste incognite ci si può chiedere per quale ragione le aziende preferiscano le acquisizioni alla crescita ‘organica’ delle attività. «Quando i mercati si muovono velocemente», risponde Anna Samanta di Deloitte, «le acquisizioni sono utilizzate soprattutto per velocizzare la crescita, per difendere la posizione nei confronti della concorrenza su un segmento del mercato, per diversificare in nuovi mercati e o in nuove aree geografiche, guadagnare accesso a nuovi clienti, acquisire tecnologie, capacità o contatti o prodotti e servizi, accelerare il time to market. L’acquisizione può riguardare anche fornitori: in quel caso ci si assicura un maggior controllo sulla supply chain». «Un’azienda cresce attraverso linee esterne a causa della globalizzazione dei mercati e quindi della concorrenza internazionale, della pressione sui margini e della necessità di difendere il proprio vantaggio competitivo acquisendo tecnologie», aggiunge Kerler. «Teniamo presente che l’economia cresce poco: in Europa ci si può attende al massimo l’1,5% nominale», specifica Bert Jansen di UBS CIO Wealth management, «questo significa che il miglioramento degli utili aziendali difficilmente verrà dalla crescita organica della ‘top line’, cioè del fatturato. Da qui l’interesse per una crescita su linee esterne». Anche perché le aziende quotate hanno abituato i loro azionisti a una redditività superiore alle

medie storiche, raggiunta, in una prima fase, grazie alle tecnologie, poi con la compressione del costo del lavoro, prima attraverso la delocalizzazione e quindi con la riduzione dei salari reali. Un ultimo aiuto è venuto dal calo delle materie prime ma ora, non potendo alzare i prezzi, risulta difficile al management promettere quanto gli analisti si attendono senza delle operazioni di finanza straordinaria. «In questa fase l’interesse è dato dalla compresenza di fiducia nelle prospettive di crescita dell’economia e nel fatto che molte società, svizzere e non, hanno ancora riserve di cash che permettono loro di investire nella crescita. Molte di loro hanno scelto le operazioni M&A come strumento per crescere e cooperare», specifica Patrik Kerler. Va detto inoltre che il principale ostacolo alle operazioni di acquisizione, il costo e la disponibilità del finanziamento, è stato rimosso. «Grazie alla bassissima inflazione e al quantitative easing», fa notare l’analista di UBS CIO Wealth Management, «il costo del denaro è incredibilmente basso. I corporate bond a 10 anni in euro danno un rendimento dell’1,4% in euro. In Svizzera praticamente il finanziamento è a costo zero. E comunque la gran parte delle aziende ha bilanci non solo solidi, ma con della cassa in eccesso». Rispetto a qualche decennio fa, oggi la stragrande maggioranza delle operazioni sono regolate per contanti. L’offerta di azioni dell’acquirente è una strada meno seguita. «Oggi», nota Patrik Kerler, «le aziende hanno molta liquidità da spendere, mentre offrire azioni proprie andrebbe a turbare gli equilibri fra gli azionisti esistenti». L’acquisizione logora chi la fa. In passato, nella stragrande maggioranza dei casi, il mercato reagiva ad ogni acquisizione annunciata o ventilata acquistando le azioni dell’impresa target e facendo scendere la quotazione dell’acquirente. «In effetti ci sono studi secondo i quali la gran parte dei M&A distruggono valore. L’azienda acquirente non trae dall’operazione i vantaggi previsti, soprattutto per difficoltà nella fase di integrazione», nota Jansen. «Ma non è sempre così e peraltro ci studi che affermano il contrario. Ci sono fasi in cui i mercati sono molto conservativi e temono che le aziende abbiano ‘strapagato’ i loro target», interviene Kerler di KPMG, «ma non è quello


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Nonostante la crescita avvenuta nel 2014 e prevista per l’anno in corso, il volume dei merger & acquisitions è destinato ad aumentare perché, anche ai livelli attuali, il rapporto fra i volumi di M&A e la capitalizzazione dei mercati azionari rimane comunque basso Dan Scott, analista, Credit Suisse Global Research che accade oggi. Oggi gli azionisti vogliono vedere al lavoro il denaro che le aziende hanno in cassa». «E infatti», aggiunge Anna Samanta, «molti takeover sono apprezzati dal mercato come un modo veloce per far crescere l’azienda». Per esempio quando ha annunciato l’acquisto di Nuance, le azioni della basilese Dufry sono salite del 7,9% in un giorno. Eppure il prezzo pagato al fondo di venture capital PAI e alla Gecos della famiglia italiana Bastianello per i 360 negozi (1,7 miliardi di dollari) era significativo. Ogni operazione ha le sue giustificazioni. Un merger può servire a razionalizzare produzione e logistica: pensiamo

alla fusione fra i due giganti del cemento e dei materiali per l’edilizia Holcim e Lafarge. Altre servono a dotarsi di tecnologie, come nelle acquisizioni che vediamo nel settore ICT, oppure a difendere il proprio mercato, «o a togliere di mezzo un concorrente, come avviene nel settore Telecom europeo ad esempio», ricorda Jansen, dove 70 aziende operano in 28 Paesi vendendo sostanzialmente lo stesso prodotto. Sinergie, non licenziamenti. L’annuncio di una operazione di finanza straordinaria, soprattutto se relativa a una azienda quotata, è accompagnato da un’analisi delle possibili ‘sinergie’ che l’operazione rende

possibili. I calcoli prodotti dall’azienda che ha promosso l’operazione sono letti con attenzione sia dagli analisti delle case di investimento, che temono una valutazione troppo generosa di queste ‘economie’, sia dagli altri stakeholder, in primo luogo fornitori e dipendenti, che sospettano che l’azienda abbia in animo licenziamenti e richieste di sconti. «Gli analisti», ammette Bert Jansen, «sono generalmente scettici quando sentono parlare dei vantaggi di un’acquisizione. In realtà sia le sinergie, intese come risparmi, sia le nuove opportunità sono molto difficili da quantificare». Secondo Anna Samanta, gli stakeholder

Le più importanti M&A svizzere del 2014 Data

Obiettivo

Paese dell’obiettivo

Offerente

Paese dell’offerente

Prezzo (milioni Usd)

Aprile 2014

Lafarge SA

Francia

Holcim

Svizzera

39’968

Agosto 2014

Alliance Boots

Svizzera

Walgreen Company

Stati Uniti

23’794

Aprile 2014

Oncology Products (GlaxoSmithKline)

Regno Unito

Novartis

Svizzera

16’000

Agosto 2014

InterMune Inc

Stati Uniti

Roche Holding

Svizzera

8’315

Febbraio 2014

Share Buy-Back L’Oréal / Galderma

Francia

L’Oréal

Francia

8’220

Aprile 2014

Vaccines Division (Novartis)

Svizzera

GlaxoSmithKline

Regno Unito

7’100

Maggio 2014

Las Bambas copper mine (Glencore International)

Svizzera

Consorzio guidato da MMG

Cina

6’250

Aprile 2014

Animal Health Division (Novartis)

Svizzera

Eli Lilly & Co.

Stati Uniti

5’400

Novembre 2014

SIG Combibloc Group

Svizzera

Onex Corporation

Canada

4’658

Febbraio 2014

MultiPlan

Stati Uniti

Partners Group Holding; Starr Investments Holdings

Svizzera, Stati Uniti

4’400

Fonte: KPMG

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Da una parte alcuni operatori minori, negativamente impattati dal cambio, potrebbero essere disposti ad essere acquisiti, e le imprese svizzere avranno una ragione in più per diversificare le loro basi produttive in Paesi legati all’euro facendo un hedging ‘industriale’ del cambio Patrik Kerler, responsabile del dipartimento M&A di KPMG Svizzera (azienda, analisti e dipendenti-fornitori) quando valutano un M&A «prendono in considerazione la logica dell’operazione, la compatibilità strategica fra i business e il rapporto fra il prezzo e il valore che l’acquisizione può generare. Ma le questioni chiave si materializzano solo dopo, nella fase di integrazione vera e propria. Lo studio di Deloitte mostra che la maggior parte degli errori avviene non nella transazione, ma nella integrazione». «L’azienda che promuove un’acquisizione compra la possibilità di crescere», sottolinea il responsabile delle attività di consulenza di KPMG Svizzera nel campo dei M&A, «è su questo che ci si concentra

visto un caso in cui le sinergie siano consistite solamente in una riduzione degli organici. Le sinergie si realizzano sia sul fronte dei costi, sia della crescita, e la riduzione dei costi va oltre la questione degli organici: significa ottimizzazione negli acquisti, utilizzo più razionale delle infrastrutture, maggiore efficienza generale e perfino risparmi fiscali. Ci sono casi in cui l’operazione si giustifica anche senza riduzione dei costi. Io ho lavorato in progetti nei quali l’interesse della operazione, la ‘sinergia’ stava solo nella crescita. E questo avviene in modo particolare in Svizzera». Lo scoglio dell’anti-trust. Certo, dove

più che sulla riduzione dei costi. Detto questo, è vero che a un’acquisizione può far seguito una ristrutturazione che può prevedere la chiusura di certe attività e quindi di conseguenza dei licenziamenti. Ma non si compra per licenziare. Quando un’acquisizione si profila come problematica sotto il profilo occupazionale, l’azienda preferisce lasciar perdere». Insomma, sinergie non vuol dire licenziamenti, almeno non nel tessuto industriale di oggi, già ampiamente ottimizzato sotto il profilo della forza lavoro. «Io ho seguito oltre 30 integrazioni», ricorda la responsabile del dipartimento Post Merger Integration di Deloitte in Svizzera, «e non ho mai

M&A Svizzera-Italia 2014 Impresa acquirente (Svizzera)

Impresa acquisita (Italia)

Settore

Prezzo transazione (in mio. Fr)

ABB, Zurigo

Terman

Industria

n.d.

Accu Holding, Emmenbrücke

Cieffe Holding

Industria

14.8

AFG Arbonia-Forster-Holding, Arbon

Sabiana

Industria

n.d.

Capvis Equity Partners, Zürich

Faster

Industria

253.7

Curaden International, Kriens

Gerho

Servizi sanitari

n.d.

Da Vinci Invest, Unterägeri

Bruno Magli

Generi di consumo e commercio al dettaglio

n.d.

Datacolor, Luzern

Media Logic

IT, media e telecomunicazione

n.d.

Neoperl, Reinach

Parigi Industry

Industria

n.d.

Pictet & Cie, Ginevra

Gabriel Fiduciaria

Servizi finanziari

n.d.

Syngenta, Basilea

Società Produttori Sementi

Chimica, coltivazioni, materie prime

49.0

Fonte: The Corporate Finance Group

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l’operazione ha fini prevalentemente difensivi, il merger può incontrare il veto delle autorità anti-trust. «Oggi vediamo meno operazioni bloccate dalle autorità anti-trust perché gli operatori sono più professionali e la giurisprudenza è più chiara. Si può quindi prevedere la probabilità di incorrere in veti da parte delle autorità», nota Patrik Kerler, «un veto a una operazione già conclusa distrugge valore e sia l’acquirente sia il target hanno interesse a evitarlo». Detto questo, è chiaro che alcune operazioni richiederanno una trattativa con diverse autorità per la protezione della concorrenza, e vengono risolte in genere attraverso la cessione di parte degli asset. «Attendiamo per esempio le decisioni sulla fusione fra Holcim e Lafarge», nota Anna Samanta. In effetti da altri studi risulta che in molti Paesi, fra cui la Francia, il gruppo possiede una quota superiore al 60% del mercato. Il fisco non c’entra. Negli ultimi anni si era profilata un’altra motivazione per le acquisizioni: l’azienda acquirente pre-

sentava l’operazione come un merger fra eguali o una reverse acquisition, «e poteva così spostare la sede fiscale in un Paese a tassazione più agevolata», ricorda Kerler, o evitare l’aliquota del 35/40% prevista dal fisco americano sugli utili realizzati all’estero e rimpatriati. Come ricorda Markus Prinzen, il quale, oltre a dirigere la sede di Lugano, è responsabile del settore M&A fiscale e legale di PwC Svizzera, «non si possono fare operazioni di questo tipo e volume solo per motivi fiscali». Un’azienda ristrutturata solo per motivi fiscali è sottoposta ad un elevato rischio di insuccesso, in quanto si fonda su una base debole: la struttura fiscale deve infatti adattarsi e adeguarsi alla struttura operativa per costruire un’azienda solida. Se questa condizione non viene rispettata, da un punto di vista sia fiscale che politico, vi è il rischio di incorrere in sanzioni. Negli Stati Uniti, a seguito del verificarsi di tali situazioni, il Congresso ha messo il veto a questa pratica. «E comunque queste operazioni, chia-

Effetti del franco forte Gli esperti intervistati da Ticino Management non ritengono che l’abbandono del muro di 1,20 franchi per euro avrà effetti diretti significativi sull’attività M&A da parte di aziende svizzere. «La forza del franco incentiva le aziende a fare acquisizioni e aumenta il costo delle imprese svizzere agli occhi di operatori europei», esordisce Bert Jansen, analista di UBS CIO Wealth Management, «ma anche a 1,20 il franco era forte, eppure nel 2014 sono avvenute acquisizioni di aziende svizzere. Il nuovo cambio è un handicap, ma vedremo comunque molta attività nel 2015». «Acquistare un’azienda svizzera comporta dei costi e non solo dal 15 gennaio. In questi anni non si sono viste molte acquisizioni di aziende svizzere da parte di imprese europee, mentre abbiamo visto un interesse da parte dei cinesi», concorda Markus Prinzen, responsabile delle attività di M&A fiscale e legale presso PriceWaterhouseCoopers, «d’altra parte una cessione o un’acquisizione sono eseguite sulla base di considerazioni strategiche, nelle quali il tasso cambio ha certamente un impatto, ma non è l’unico decisivo». Sul breve termine le aziende svizzere con franchi in cassa sembrano favorite. «La finestra di opportunità, il ‘colpaccio’ sta nel fatto che probabilmente nel medio o nel lungo termine il franco scenderà. E questo potrebbe catalizzare acquisizioni fatte per motivi strategici», nota Patrik Kerler, responsabile del dipartimento M&A di KPMG Svizzera. Se il cambio rimanesse quello attuale la convenienza di un’acquisizione sarebbe ridotta: «Se un’azienda svizzera compra una società estera la paga meno ma ottiene anche meno, dal punto di vista svizzero, perché le sue attività saranno in una valuta più debole del franco». Più significativo invece l’impatto indiretto del rialzo del franco. «Da una parte alcuni operatori minori, negativamente impattati dal cambio, potrebbero essere disposti ad essere acquisiti», nota Patrik Kerler, «e le imprese svizzere avranno una ragione in più per diversificare le loro basi produttive in Paesi legati all’euro, facendo un hedging ‘industriale’ del cambio». In questo senso l’acquisizione, pur avendo gli stessi effetti, è uno strumento politicamente più accettato rispetto alla delocalizzazione.

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mate ‘inversioni’, sono molto discusse: alcune operazioni non sono state concluse per evitare la reazione negativa dell’opinione pubblica e in molti Paesi sono in corso iniziative legislative tese a proibirle», ricorda Anna Samanta. Spostare la sede centrale del gruppo da Chicago a Berna era per Walgreen uno degli obiettivi dell’acquisto per 23,8 miliardi di dollari del 55% di Alliance Boots, il gruppo farmaceutico-distributivo svizzero ma con il cuore delle attività in Regno Unito (60 mila dipendenti e 2.500 punti vendita). Le reazioni indignate della stampa e dell’opinione pubblica americana hanno portato il management a rinunciare a questo obiettivo. L’accordo è stato portato a termine e Walgreen, che già aveva acquistato il 45% di Alliance Boots dal fondatore, ha acquisito comunque il controllo totale dell’azienda. «In ogni caso», ricorda Dan Scott, global analyst di Credit Suisse, «le operazioni di tax inversion hanno rappresentato in valore solo un decimo degli M&A condotti fino a novembre 2014». Meno merger, più acquisition. È vero che, come fa notare Markus Prinzen, «forse non è mai esistita una vera ‘fusione fra uguali’: uno dei contraenti risulta sempre ‘più uguale’ dell’altro». Ma la sensazione che la M di M&A sia ormai inutile, che insomma ci siano sempre più acquisizioni totali o maggioritarie e sempre meno ‘fusioni’ così come joint venture e prese di partecipazione di minoranza è data dal fatto che le operazioni con maggiore risalto sulla stampa sono quelle maggioritarie. «Al contrario, ci sono molti acquisti di quote di minoranza», sostiene Anna Samanta, «e negli ultimi anni noi di Deloitte abbiamo visto un aumento sia nelle joint venture, sia nelle alleanze, soprattutto nel settore life science. È vero che management e azionisti preferiscono in molti casi acquisire una quota di maggioranza che consente di avere più controllo e facilita la presa di decisioni, mentre joint venture e altri modelli di partnership chiedono più attenzione al management e sono meno prevedibili nella loro implementazione. Ma in certi settori la joint venture rappresenta la soluzione per sviluppare il mercato in maniera congiunta». Pensiamo al chimico, ad esempio, con la joint venture fra Ineos e Solvay per mettere in comune le attività nel clorovinile (la stessa Ineos è nata dalla messa


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in comune di stabilimenti e attività da parte di diverse aziende chimiche europee). «Ci sono poi compratori che preferiscono limitarsi a quote di minoranza, come i sovereign wealth funds per esempio, o le aziende cinesi, che spesso entrano con partecipazioni di minoranza magari destinate a crescere nel tempo», ricorda Kerler. È avvenuta invece una certa pulizia nelle partecipazioni incrociate, mal viste dai mercati e dai regolatori. Per esempio lo scorso anno Nestlé ha preferito chiarire i suoi rapporti con L’Oreal scambiando l’8% che possedeva del gruppo cosmetico francese con il completo controllo di Galderma, nata come joint venture nel settore dermatologico. Anche le acquisizioni ostili sono in diminuzione. «I takeover ‘ostili’, o comunque non preceduti da accordi formali con il management o con il consiglio di amministrazione, richiedono più tempo per essere portati a termine, potrebbero non andare a buon fine e possono risultare più onerosi del previsto», nota Anna Samanta. «A volte questi takeover comportano rischi di immagine e di reputazione o il ricorso ai cosiddetti ‘paracadute dorati’ per il management dell’azienda acquisita. Nonostante questo», continua la partner di Deloitte, «secondo il nostro studio i takeover ostili possono portare alla creazione di maggiore valore. Uno dei motivi è che la direzione dell’integrazione è chiara e il decision making è più veloce di quanto non accada nelle acquisizioni amichevoli o ‘tiepide’». Come nascono queste acquisizioni? Sicuramente non per caso o per l’impulso del momento. Certo l’attualità e il flusso di notizie può anticipare o ritardare un deal. Per esempio un’azienda potrebbe aver più fretta di comprare o di vendere per rispondere alle attese degli azionisti o per sfruttare un vantaggio temporaneo o per rispondere a uno standard. Ma questo riguarda soprattutto il timing delle operazioni. La maggioranza dei ‘serial acquirer’ svizzeri, rivela lo studio di Deloitte intitolato ‘Serial acquirers. Getting your ducks in a row’, dispone di team che tengono sotto controllo liste di potenziali ‘target’. Lo stesso team o altri team si dedicano alla transazione vera e propria: definiscono l’offerta, curano i contatti preliminari, la due diligence, la comunicazione e portano a termine l’accordo.

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Un anno di M&A per il Ticino Il Ticino nel 2014 è stato profondamente impattato dai venti del M&A. L’acquisto di BSI per 1,7 miliardi da parte della brasiliana BTG Banco Pactual è stata la principale operazione svizzera nel settore finanza dello scorso anno e si inserisce in un trend di vendita della partecipazioni di gruppi internazionali nel settore del private equity. BSI peraltro veniva da una integrazione considerata ‘da manuale’ con la concorrente Banca del Gottardo. In settembre il pacchetto di controllo della più grande società di trading del Cantone, la Duferco, è stato venduto al leader siderurgico cinese Hebei Iron and Steel Group per 400 milioni di dollari. Hebei possedeva già il 10% dell’azienda creata oltre 35 anni fa da Bruno Bolfo, che aveva pagato 78 milioni. Il 2015 si apre con la cessione della clinica Moncucco di Lugano da parte della Congregazione delle suore infermiere dell’Addolorata al fine di salvare l’Ospedale Valduce di Como dal dissesto finanziario. A parte le operazioni ‘di casa’, che peraltro vedono il Ticino generalmente venditore più che compratore, nel Cantone non si intermediano molte operazioni. «In effetti», ammette Patrik Kerler, responsabile attività M&A di KPMG, «non si può dire che Lugano sia una grande piazza di M&A come lo è nel private banking, nella consulenza legale e fiduciaria e in certi settori del bancario commerciale. Il fatto è che il M&A è un club ristretto con attività concentrate in poche piazze: Zurigo, per esempio, e ovviamente Londra e New York, dove hanno sede le grandi società di private equity e le divisioni corporate banking dei gruppi internazionali».

«Le società più esperte nelle acquisizioni», spiega Anna Samanta, «sono sempre alla ricerca di target potenziali. Una situazione favorevole - pensiamo oggi alla forza del franco svizzero nei confronti dell’euro - può catalizzare l’esecuzione di alcuni accordi. Ma la logica alla base di un M&A è sempre di lungo termine». Secondo lo studio di Deloitte alcune acquisizioni nascono per iniziativa del compratore, altre - una minoranza - per iniziativa dell’azienda target e un buon numero per opera di mediatori. «Ma non solo: se il ruolo dei corporate banker nel matchmaking fra acquirenti e venditori è ben noto, quello delle società di consulenza non è meno importante, soprattutto nei deal che riguardano piccole e medie imprese», ricorda Markus Prinzen, «le grandi società di consulenza internazionale dispongono di settori dedicati alla ricerca sia di target che di acquirenti. A differenza del corporate banker, la società di consulenza può affiancare a questo servizio altri servizi essenziali, che vanno dalla strategia alla valutazione, dalla transazione - con i suoi aspetti finanziari, fiscali, societari e legali alla due diligence fino all’integrazione». Rispetto alla corporate bank, la società di consulenza si dimostra un partner più flessibile: «L’incentivo a concludere non è così forte in una società di consulenza come nelle corporate bank, e ci accade di 36 · TM Marzo 2015

sconsigliare al cliente la chiusura di un’operazione che non riteniamo - anche strategicamente - appropriata», aggiunge il responsabile del settore M&A di PwC Svizzera, «la società di consulenza, proprio perché può integrare il deal in un pacchetto di servizi, è in grado di seguire anche operazioni minori». Vendo un ramo. Le operazioni di finanza eccezionale, se si fanno più semplici sotto il profilo finanziario grazie alla grande liquidità esistente e alla anomala quantità di cassa presente nei bilanci delle aziende, sono sempre più sofisticate sotto il profilo industriale. Prendiamo ad esempio l’operazione più complessa fra i big deal svizzeri del 2014: GSK (sigla di GlaxoSmithKline) e Novartis hanno creato una divisione Consumer healthcare (prodotti da banco) nella quale il gruppo inglese avrà il 63% delle azioni. Contemporaneamente GSK ha acquistato la divisione vaccini di Novartis per 7 miliardi e ha venduto le sue attività in oncologia: portafoglio prodotti, attività di ricerca e sviluppo e i diritti su un nuovo tipo di farmaco per 16 miliardi. Il saldo cash dell’operazione è di 4 miliardi. Ma nessuna delle due aziende ha chiuso il deal per ragioni finanziarie. L’interesse stava nel risistemare le proprie aree di azione concentrandosi su quelle che strategicamente sembravano più promettenti e dove l’azienda già aveva una posizione importan-

te. Per esempio, sempre nel 2014, Novartis ha venduto la sua divisione veterinaria a Eli Lilly. Il fatto è che oggi una parte crescente dei costi per un’azienda farmaceutica si genera nella fase di marketing dei prodotti (reti di informatori, acquisire la fiducia degli opinion leader e dei prescrittori, contatto con gli enti pubblici e privati che acquistano i farmaci): le case farmaceutiche preferiscono quindi creare sinergie e concentrarsi su poche categorie di prodotti. Questi accordi richiedono un lavoro molto complesso a monte. «La vendita di rami d’azienda», nota Markus Prinzen, «richiede un grosso lavoro iniziale. Occorre capire, prima ancora di cercare un potenziale compratore, come sia possibile configurare il ramo d’azienda, ossia il cosiddetto carving out. È ancora più difficile allocare i costi in modo da capire quale sia la vera redditività del ramo d’azienda in questione. In questi casi il venditore deve prevedere delle garanzie e delle clausole che permettano al compratore di ridurre i rischi connessi con l’acquisizione». Nell’accordo GSK-Novartis, ad esempio, 1,5 dei 16 miliardi promessi per la cessione della divisione oncologia dipendono dal successo dei trial clinici su un farmaco in sperimentazione. Sempre nello stesso accordo, GSK pagherà a Novartis per la divisione vaccini 5,25 miliardi di dollari, ma altri 1,8 miliardi di dollari saranno versati negli anni a seguire se si verificheranno certe condizioni. Novartis riceverà inoltre delle royalty. Operazioni di questo tipo non servono tanto a ritardare i pagamenti, quanto a ridurre l’incertezza presente in ogni transazione. Integrare stanca. Deloitte e l’Università di San Gallo hanno condotto uno studio intervistando il senior management di 25 ‘serial acquirer’, ossia aziende basate in Svizzera che negli ultimi 12 anni hanno effettuato almeno 8 acquisizioni, con un fatturato di almeno 1 miliardo di franchi, per analizzare come organizzano le attività di M&A, gestiscono le sfide più importanti e quali sono i fattori di successo. “Un ‘costo nascosto’ di ogni acquisizione, e ancora di più nelle fusioni, è l’attenzione che queste operazioni richiedono ai vertici aziendali che sono concentrati sulla conduzione delle loro aziende”, sottolinea lo studio di Deloitte dedicato al comportamento dei serial acquirer. Lo


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Acquistare un’azienda svizzera costa, e non solo dal 15 gennaio. In questi anni non si sono viste molte acquisizioni di aziende svizzere da parte di imprese europee. Queste operazioni sono eseguite sulla base di considerazioni strategiche: il cambio non è decisivo Markus Prinzen, responsabile del settore M&A fiscale e legale di PricewaterhouseCoopers Svizzera

stesso vale per il middle management e per molte funzioni operative. Ogni acquisizione richiede un grosso sforzo ai dipartimenti IT, risorse umane e contabilità e controllo. «Di rado esiste uno standard, una procedura o una ‘roadmap’ relativa al processo di integrazione, insomma a quel che accade dopo la transazione», nota Anna Samanta, che dirige il dipartimento di consulenza dedicato proprio ad assistere le imprese nella fase di integrazione, «la gran parte delle società non hanno team dedicati a materializzare il valore dell’accordo. Anche i serial acquirer svizzeri gestiscono in modo strutturato il processo di acquisizione, ma meno quello di inte-

grazione». Ciò detto, come nota Jansen di UBS, «ci sono aziende più efficaci di altre nell’integrazione di aziende acquisite, così come ci sono aziende più efficaci di altre nel cedere controllate». Roche per esempio non solo ha firmato la più grande acquisizione semplice del 2014 nel settore spendendo 8,3 miliardi per assicurarsi il 100% della americana Intermune, ma è in grado di mettere in atto raffiche di acquisizioni. Il gigante basilese per esempio ha comunicato l’acquisto di Dutalys il 19 dicembre 2014, di Bina Technologies il 20 dicembre e della francese Trophos il 16 gennaio 2015. Un affare per l’investitore. Avere in

La Cina protagonista Ricca di cash, costretta a salire velocemente la catena del valore per posizionarsi su prodotti e servizi di livello medio e alto, la Cina «fino ad ora ha investito soprattutto in Stati Uniti, Germania e Regno Unito, ma è già attiva in Svizzera. I cinesi puntano soprattutto sui leader di tecnologia per rafforzare la loro competitività globale», nota Anna Samanta, partner e responsabile del dipartimento ‘Post Merger Integration’ di Deloitte in Svizzera, «e nel nostro Paese ci sono interessanti società nel settore della tecnologia e nella ingegneria meccanica. Ma vediamo un interesse cinese anche per settori come il turismo o il lusso, l’alimentare e la componentistica auto». Nel 2014 i cinesi hanno acquistato da Glencore le miniere di rame peruviane di La Bamba (pare che questa fosse una condizione posta dal Ministero del commercio cinese per non ostacolare la acquisizione di Xstrata da parte di Glencore). Anche il 2015 si è aperto all’insegna del Regno di Mezzo: in febbraio Dalian Wanda Group, principale operatore immobiliare cinese e proprietario della più grande catena di cinema in Cina, ha acquisito dal private equity Bridgepoint il completo controllo per 1,2 miliardi di dollari della svizzera InFront, leader nel trading e nello sviluppo dei diritti televisivi degli eventi sportivi.

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portafoglio un’azienda che diviene oggetto di un’acquisizione è per un investitore come vincere alla lotteria. E questo non è vero solo nel settore delle biotecnologie o dell’hi-tech. Lo scorso autunno Geberit ha offerto al gruppo Wallenberg, azionista di maggioranza, e agli azionisti della svedese-finlandese Sanitec 97 corone per azione, cioè un prezzo del 55% superiore al valore di borsa del giorno precedente all’annuncio. E il business di Sanitec - i sanitari e l’arredo bagno - è quanto di più lontano si possa immaginare dalle alte tecnologie. «I premium, vale a dire la differenza fra il prezzo offerto dall’acquirente e la media dei pezzi di borsa precedenti, sono cresciuti. Nel primo trimestre del 2014 si aggiravano in media sul 25%, ora siamo intorno al 40%», afferma Bert Jansen di UBS, «fare del M&A un tema di investimento significa creare un portafoglio di aziende potenziali target. Questa è una attività altamente speculativa, perché le aziende in portafoglio potrebbero non essere acquisite o potrebbero esserlo solo in un orizzonte medio-lungo. D’altra parte se si indovina il target ci si porta a casa un capital gain significativo». L’investitore che, non volendo fare ricerche per conto suo, intende appoggiarsi al lavoro di team di analisti può acquistare un indice o un basket. UBS Mergers & Acquisitions - Europe Investable Index Total Return è un indice investibile basato sulla UBS M&A ‘watch list’ gestita dal team European Special Situation di UBS Research ed è quotato al SIX.


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Credit Suisse ha creato un indice gestito in maniera attiva, CS M&A 15, composto da una selezione di aziende considerate dagli analisti di CS dei potenziali target. «L’indice, nato nel settembre 2012, ha offerto un rendimento a oggi doppio rispetto all’indice MSCI world: 90% contro 45%, in particolare grazie alla sovraperformance ottenuta nel 2013», nota Dan Scott, che segue il tema per conto di CS. Il ruolo del private equity. I professionisti del capital gain legato alla compravendita di aziende sono però i fondi di private equity. Da 12-18 mesi il ruolo del private equity è tornato a essere importante. Hanno raccolto molto denaro e devono consegnare ai loro finanziatori ritorni significativamente superiori a quelli che il mercato dei capitali offre. Secondo PitchBook nel 2014 il private equity ha raccolto 291 miliardi e ha iniziato a investire i 353 miliardi raccolti nel 2013. Ad esempio la svizzera CapVis Equity Partner ha raccolto 720 milioni per il suo fondo CapVis IV dedicato alla presa di partecipazioni in aziende ‘mittelstand’ in Europa. In Svizzera, un mercato preferito proprio perché liberista e prevedibile, si nota una crescente attività da parte dei fondi nordamericani. La casa di private equity canadese Onex ha acquistato per 3,75 miliardi di euro la svizzera SIG Combibloc leader nel packaging. Sempre nel 2014 il gruppo di private equity KKR e il fondatore Hans Peters Wild hanno venduto per 2,2 miliardi di euro al colosso agroalimentare Archer-Daniels-Midland la Wild Flavors, presente nel mercato consumer con i succhio di frutta Capri ma soprattutto nel settore degli ingredienti naturali. Orange, che controlla il 20% del mercato telefonico svizzero, è stata acquistata dal miliardario francese Xavier Niel per 2,8 miliardi di franchi. A vendere è stato il private equity Apax partner, che l’aveva acquistata per 2 miliardi di franchi. Visto in dollari (acquisto 1,6 miliardi, vendita 2,9 miliardi), il capital gain ottenuto da Apax partner appare ancora più interessante. Secondo i dati di Thomson Reuters, nel 2014 i fondi di private equity rappresentano il 22% dell’attività globale M&A (il livello più alto di sempre). Secondo PitchBook hanno venduto aziende per 445 miliardi di dollari, un altro record,

concentrandosi soprattutto nella fascia media: affari da 1 a 3 miliardi di dollari. « In questa fase molti private equity stanno cedendo le società acquisite», sottolinea Anna Samanta, «i private equity sono uno dei catalizzatori del mercato M&A e sono alla ricerca di aziende interessanti spesso non considerate dai big». La partner di Deloitte spiega che il private equity può agire come investitore finanziario e in quel caso privilegia società ben gestite con una solida redditività storica e un forte potenziale di crescita, oppure come investitore strategico. In questo caso cerca di creare valore migliorando la gestione e l’efficienza dell’impresa. «Il fondo di private equity non si limita a comprare, mantenere e vendere. In genere esso acquista aziende in difficoltà, o comunque che ristagnano al di sotto del loro potenziale, e imposta veri e propri turn-around», interviene Prinzen, «in vista di una cessione sotto forma di collocamento in borsa o a un’azienda del settore. Ci si potrebbe chiedere come mai l’azienda che acquista dal private equity non abbia avviato prima il processo di acquisto. La ragione risiede nel fatto che questi turn-around possono comportare licenziamenti, chiusura di sedi e impianti, nuovi accordi con fornitori, distributori e clienti… tutte operazioni che comportano un rischio e una potenziale perdita reputazionale. E poi la transazione potrebbe anche fallire. Non è detto che un’azienda sia disposta a correre questi rischi. E, anche in questo caso, tali attività probabilmente distrarrebbero il management dalla gestione del business principale. Quindi anche se ad un costo maggiore, l’azienda preferisce acquistare l’impresa dal fondo di private equity ‘dopo la cura’». Va infine accennato il caso frequente in cui il fondo di private equity combina diversi business, creando un’azienda praticamente ex novo. Insomma, il manager di private equity di oggi non assomiglia più all’Edward Lewis, il corporate raider interpretato da Richard Gere in ‘Pretty Woman’. Non acquista le aziende per spezzettarle, svuotarle e rivendere magari i terreni su cui sorgevano gli stabilimenti. Oggi è un imprenditore che affianca la sua competenza e i suoi contatti alle capacità imprenditoriali dell’azienda nella quale è entrato per renderla più grande. Del resto non è questo anche l’happy ending di ‘Pretty Woman’? ❏

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