il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano
San Antonio
V i a ggi o a t t ra v e r s o l a s qua dr a c o n i l m ig li o r r e c o r d d e ll a L e g a
Spurs
IL LIBRO SULLA ST ORIA RECEN TE DELLA JUVECASERTA IN VENDITA ANCHE ON LINE SCRIVENDO A info@a40m inutidalparadiso.c om
FOC US - TEXA NI N OI OSA MEN TE V IN CEN TI
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L’ANALISI IL RITI RO DI SLO AN
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IL PERSONAGGIO 1LOU WILLIAMS
Stars ‘N’ Stripes ideato da: scritto da:
Domenico Pezzella Alessandro delli Paoli
Mirko Furbatto
Bennedetto Giardina
OCCHI PUNTATI SU LUO L DENG
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IL PROFILO KEV IN LOVE
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IL PERSONAGGIO 2 ANDRAY BLATCHE
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Raffaele Valentino
Nicolò Fiumi
Domenico Landolfo
Stefano Panza
Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco Stefano Livi
info, contatti e collaborazioni:
Lorenzo de Santis
domenicopezzella@hotmail.it
LO STUDIO LOS ANGELES CLIPPERS
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LA RUBRICA UP&DOWN
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S T A R S ‘ N ’ S T RI P E S
FOCUS
Dopo la deludente stagione scorsa, i texani di coach Popovich hanno il miglior record della Lega e sono ormai candidati ad essere gli anti Los Angeles Lakers nella prossima corsa al titolo “E’ come se non avessi più un lavoro. Sta diventando terribilmente noioso, ma almeno posso dedicarmi maggiormente alle mie passioni: il vino e la lettura”. San Antonio è reduce da due vittorie esterne consecutive (la quarta e quinta in sei gare sulle nove totali della classica trafserta dovuta al Rodeo), 100-89 a Detroit, 111-100 a Toronto. E le parole che avete letto in apertura sono quelle del loro allenatore, Gregg Popovich. Tale è il livello di efficienza raggiunto dai suoi giocatori che ormai diventa quasi superflua la presenza dell’allenatore in certe partite. Dopo 46 vittorie in 55 gare lo stesso Popovich comincia a nutrire la sensazione di avere per le mani un gruppo vicinissimo a quel concetto di perfezione che, per definizione, dovrebbe essere irraggiungibile per l’uomo. Ma gli Spurs di quest’anno lo stanno insidiando più di quanto abbia mai fatto nessun’altra squadra negli ultimi anni. E per cogliere i perché di questo exploit bisogna andare a trovare un’ideale punto di partenza, collocato, probabilmente, al termine della scorsa stagione. Quando l’esaltazione per aver eliminato al primo turno i Mavericks aveva subito lasciato spazio al bruciante 0-4 inflitto a
San Anto ‘noiosam
Duncan e compagni dai Phoenix Suns, aprendo una serie di interrogativi sulla franchigia del Texas. Dall’età e le condizioni fisiche di Tim Duncan e Manu Ginobili (pur se fresco di rinnovo triennale), alle sirene Newyorchesi che richiamavano l’attenzione di Tony Parker, passando per l’annus horribilis di Richard Jefferson, acquisizione dell’estate 2009 che aveva dato scarsissimi frutti in termini di rendimento. Qui è d’uopo fare il primo disitnguo del
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DI
N ICOLÒ ICOLÒ F IUMI IUMI
onio Spurs: mente’ vincenti caso. Gli Spurs sono sì una franchigia del dorato mondo della Nba, ma si muovono in maniera piuttosto differente dalla stragrande maggioranza di tutte le altre ventinove. La moda, infatti, in una situazione come quella degli Speroni di fine 2010, sarebbe di sacrificare i grandi veterani giunti al limite delle proprie capacità fisiche (leggi Duncan, Ginobili e McDyess) o dei propri stimoli mentali (leggi Parker e volendo Jefferson), liberando spazio salariale e investendo da subito di grandi responsabilità i giovani
in rampa di lancio, George Hill e DaJuan Blair, molto positivi ai loro esordi. Se questo dovesse coincidere con una brutta annata, o anche più d’una, poco male, perché buone posizioni di scelta al draft sarebbero pronte a compensare le sconfitte arrivate sul campo. A San Antonio, invece, questa è una mentalità che non è penetrata. Vuoi per le capacità manageriali di RC Buford, vuoi per la durezza di Gregg Popovich, lo staff dirigenziale dei nero-argento non si è lasciato prendere dal panico e dalla smania di smobili-
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tazione. Ma ha operato una serie di scelte razionali. Pericolose, questo sì, ma razionali. Chiaro che parlare a posteriori è esercizio molto semplice, ma se si va ad analizzare a fondo la condizione in c u i e r a n o g l i S p u r s s u b i to dopo l’eliminazione negli ultimi playoffs, ci si accorge che il margine di manovra c’era, eccome. Era solo da sfruttare al meglio, cosa fatta mirabilmente. Infatti, il trio di stelle Parker – Ginobili – Duncan, nonostante l’età, poteva ancora essere considerato uno dei top della Lega se non esposto a minutaggi eccessivi. Hill e Blair avevano dimostrato (Hill specialmente, giocando una serie di playoffs stellare contro Dallas) di essere all’altezza delle richieste dello staff. Jefferson avrebbe certamente avuto tutte le motivazioni d e l m o n d o p e r r i s c a t tare un’annata da dimenticare. Il tutto contando sull’apporto per una quindicina di minuti di qualità da parte di Totò McDyess e sull’arrivo del tanto atteso lungo brasiliano, Tiago Splitter. L’equazione è stata semplice. Se nel 2009/2010 con un gruppo con almeno tre nov i tà ri le v anti (Hi ll, B lai r e Jefferson) abbiamo vinto 50 partite e raggiunto il secondo turno di playoffs, è probabilmente più costruttivo vedere cosa ci può offrire questo stesso nucleo con un’anno in più di convivenza alle spalle, piuttosto che tentare di ine rp i c a rc i p e r n u o v e s t r a de. Detto fatto e i risultati sono arrivati molto più veloci di quanto non ci si potesse attendere. Tredici vittorie nelle prime quattordici
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partite, due striscie di vittorie consecutive in doppia cifra (una da dodici partite e una da dieci), mai due sconfitte filate, il dominio assoluto e mai in discussione della Western Conference e in generale quello sulla intera Lega. Nel momento in cui a South Beach prende corpo la moda del Triumvirato, all’ombra dell’Alamo si (stra)vince con una democrazia fondata su regole ferree e ben chiare: Parker e Ginobili al comando del governo, con il senatore Tim Duncan a elargire saggi consigli, rigosoramente tutti con minutaggi contenuti (Parker è quello che gioca di più con 32.6 minuti a gara, Duncan non arriva a 29) per salvaguardare le gambe e i il fisico per aprile-maggio-giugno, quando i tempi si faranno duri. Richard Jefferson nel ruolo del figliol prodigo redento. Appresi i fondamenti del sistema e con un estate per rifletterci sopra, l’ex Bucks oggi è il terzo/quarto violino dall’efficacia sperata al momento della sua acquisizione (12 punti e il 43% da tre punti, contro il 31% dello scorso anno, in 31 minuti, tanti in ottica Spurs). DeJuan Blair a ruggire a centr’area dal basso dei suoi due metri scarsi, accumulando, come al solito, quantità di rimbalzi pazzesche (7,5 di media) in relazione ai minuti giocati (22,3). George Hill che si conferma come esterno polifunzionale (playmaker e guardia), segna in doppia cifra ed è il sesto uomo designato. Poi la strana coppia McDyess – Splitter, con il primo che viene utiliz-
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zato nelle gare contro gli avversari più impegnativi e meglio attrezzati in area, salvo riposarsi e lasciar spazio al brasiliano, di sicuro avvenire, per farsi le ossa contro le squadre di fascia medio bassa. A chiudere, i due veri misteri di questo mix perfetto: Matt Bonner e Gary Neal. Il primo non riceverebbe credito da nessuno a una prima occhiata. Ma all’interno degli Spurs ha un ruolo fondamentale e al momento è il miglior tiratore da 3 punti di tutta la Lega, con il 50% preciso da dietro l’arco. Su tutto il resto meglio lasciar perdere, come fa notare il suo coach “Bonner deve tirare da tre punti. Per il resto, quando fa qualcosa di diverso, mi copro gli occhi con le mani perché non voglio vedere”, ma con quelle percentuali si può anche accettare il sacrificio. L’ex trevigiano è invece la sorpresa dell’anno. Pescato quasi più per mancanza di alternative che per altro dopo una Summer League condotta con percentuali altissime, Neal si è preso a forza il posto all’interno della rotazione, come fa notare Tim Duncan: “Non si è guadagnato la nostra fiducia, se l’è letteralmente presa.” Oggi sta in campo quasi 20 minuti a incontro, segna 9 punti a partita e spara con il 40% da tre. Esattamente quello che la dirigenza cercava. Tutto questo si trasforma sul campo in un basket molto diverso da quello a cui gli Spurs ci hanno abituato per degli anni e per cui erano diventati famosi. E qui operiamo un seco ndo d istinguo. Dimenticatevi del Popovich irremovibile sulle proprie posizioni. Il coach di San Antonio ha dimostrato grande apertura mentale, ma soprattutto grande conoscenza del gioco nel capire la metamorfosi che la sua creatura stava subendo e l’ha assecondata, forgiando una squadra che vive su assunti differenti, ma che, forse, è ancora più letale di quella dei 4 titoli tra 1999 e 2007. Quella era una squadra che viveva di punteggi bassi, bassissimi. Difese asfissianti seguite da attacchi controllati. Esterni appiccicati ai propri uomini e lunghi pronti a spedire al mittente i tiri di chi provasse ad avventurarsi in area, per trasferirsi poi in attacco e ruotare tutti attorno alla boa Tim Duncan, playmaker occulto (ma neanche tanto) della squadra. Una pallacanestro che tutto concedeva all’efficacia e poco, pochissimo, lasciava allo spettacolo. Nel 2011, invece, gli Spurs sono forse la squadra che gioca il basket più bello della Lega (sesti per punti segnati, quarti nella percentuale dal campo e secondi nel tiro da tre). Il timone, ora, è nelle mani di Parker e Ginobili che dettano i ritmi, inevitabilmente più alti di quelli di Duncan, che si limita alle giocate essenziali pur mantenendo un ruolo preminente. La freschezza atletica dei vari Hill, Jefferson, Neal consente alla squadra di essere molto efficace, con i tiratori che sguazzano grazie alle praterie aperte dalle penetrazioni del duo franco-argentino. La solidità all’interno dell’area è comunque salvaguardata dallo stesso Duncan, il quale seleziona accuratamente i minuti in cui giocare al massimo risultando ancora un fattore determinante in difesa nello sporcare i tiri avversari, dalla voglia di Blair, da McDyess e da Splitter che
comincia a rivelarsi in tutta la sua completezza. E’ il momento del terzo distinguo. I “vecchi” Spurs, non prendevano troppo sul serio la regular season, e davano poi il massimo nei playoff, dove diventavano spietati. L’assunto non vale più nel 2010/2011. Ci si è accorti in Texas come il fattore campo abbia un valore importante a maggio inoltrato, inizio giugno. Nel primo decennio del 2000, su undici edizioni delle Finals, nove volte il titolo è andato alla squadra con il vantaggio del fattore campo (2003, 2005 e 2007 proprio agli Spurs con vittoria in gara 7 nel 2005 contro i Pistons). Quindi non aspettatevi degli Spurs appagati del primo posto ormai assicurato ad Ovest, perché l’obiettivo vero è quello di avere il fattore campo per tutta la durata della post season. Ultimo atto incluso. “Non possiamo essere soddisfatti – chiosa Tony Parker – Vogliamo sempre migliorare, questo è il nostro obiettivo in ogni partita. A questo punto non possiamo rovinare il nostro record”. Implicitamente, la dimostrazione di come nulla sia lasciato al caso è di pochi giorni fa, a seguito di una brutta sconfitta (77-71) a Philadelphia. Fino a quel momento Popovich aveva sempre schierato lo stesso quintetto per tutte le 53 partite disputate. Nella gara successiva, a Washington contro i Wizards, è arrivato il primo cambio stagionale nello starting lineup, con Hill dentro al posto di Ginobili, tenuto a riposarsi in panchina avendo denunciato un po’ di fatica. Non che ci fosse particolare bisogno dell’ex Virtus Bologna, altra dimostrazione della voglia di vincere immutata di San Antonio, visto che la gara coi Wizards è durata meno di un quarto, con gli uomini di Popovich che hanno letteralmente aggredito John Wall e soci asfaltandoli fino ad arrivare al +41. Uno sforzo volendo non necessario (tante altre volte, contro avversari del genere, gli Spurs hanno dimostrato di poter vincere con il minimo impegno necessario), ma necessario per mandare un segnale forte e chiaro. Solo sei squadre nella storia della NBA hanno avuto un record migliore degli Spurs dopo 52 partite (44-8) e tutte e sei sono arrivate alla conquista del titolo. Ma c’è anche, incredibile ma vero, un lato oscuro della luna. “Solo perché abbiamo il miglior record, non vuol dire che siamo la miglior squadra. Per diventarlo dobbiamo assolutamente migliorare in difesa.” Ovviamente parla Gregg Popovich, messo di fronte alla statistica che vede gli Spurs concedere in media 96 punti agli avversari, solo il dodicesimo rilievo in tutta la Lega. Statistica che, osservata meglio, presta il fianco a più di una critica. Se i “vecchi” Spurs giocavano un basket con molti meno possessi, risulta logico attendersi un aumento dei punti subiti una volta che il numero dei possessi si alza. Cade l’occhio allora più sul fatto che San Antonio sia balzata al sesto posto come attacco (103,6 punti a incontro) e sia seconda nel differenziale tra punti fatti e punti subiti in media. Tutti ragionamenti che, in fondo, siamo certi Popovich abbia già fatto e ben sappia. Ma d’altronde, cosa non si fa per rendere meno noiosa una stagione del genere?
TUTTE LE CIFRE DEL TEAM DEL TEXAS
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L’ANALISI
Uragan Jerry Alza bandie
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DI
S TEFANO
PANZA
Un fulmine a ciel sereno. Anzi, non troppo sereno a giudicare dagli ultimi risultati dei Jazz, ma comunque la decisione del coach dei Jazz, o meglio dell’ex coach dei Jazz (si fatica ancora ad abituarsi all’idea) di lasciare la squadra ha sconvolto tutti ed ha fatto il giro del
Venti anni trascorsi sulla panchina dei mormoni, prima di decidere di lasciare la poltrona definitivamente. Utah dice addio ad un altro pezzo della sua storia
no U t a h , Sloan era bianca
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mondo in brevissimo tempo. Ma andiamo con ordine. Salt Lake City, Energy Solution Arena. Da circa mezz’ora si è conclusa la sfida tra Utah Jazz e Chicago Bulls, che ha visto gli ospiti avere la meglio 91-86. Per i padroni di casa si tratta della decima sconfitta nelle ultime quattordici partite. In sala stampa la sensazione che non sia stata una sconfitta come le altre è forte, perché il sempre puntualissimo Jerry Sloan stavolta non si è presentato per tempo alla conferenza stampa di rito. Finchè, dopo un’attesa che sembrava eterna, eccolo lì, camicia blu scuro, il viso affranto, gli occhi gonfi, il viso scavato a testimonianza delle 69 primavere ormai trascorse, fazzoletto a portata di mano per asciugare qualche lacrima residua. L’annuncio è di quelli shock: “Il mio tempo qui è finito, è tempo di voltare pagina. Mi manca la quantità di energia necessaria per andare avanti”. Ovviamente la sorpresa è enorme. Chi poteva immaginare che il coach con la maggiore militanza in un club professionistico americano decida da un giorno all’altro di abbandonare la nave? I suoi Jazz erano in caduta libera, d’accordo, ed erano trapelate voci di rapporti non eccellenti tra lui e Deron Williams, il faro della squadra, ma la decisione di lasciare il timone dei Jazz, che legano a lui tutti i ricordi, belli e brutti, degli ultimi 23 anni, è clamorosa. È dunque finito uno di quei rapporti che sembravano davvero inossidabili. Si è concluso senza preavviso. Ma perché? Deron Williams sembra essere il principale indiziato cui gravano le ragioni della decisione di coach Sloan. Sembra infatti che al termine della sopracitata sconfitta contro i Bulls, negli spogliatoi sia esplosa una discussione senza precedenti tra i due con la partecipazione, pare, anche del gm O’Connor. Sembra addirittura che per un niente non si sia venuti alle mani. Le ragioni di tale discussione probabilmente non si sapranno mai, ma è chiaro che dinanzi ad una situazione del genere un allenatore difficilmente possa scegliere di proseguire come se niente fosse. Le smentite di Deron Williams, com’era ovvio, non hanno tardato ad arrivare: "Non avrei mai forzato il suo allontanamento da questa squadra. Per gli Utah Jazz e per questa città ha fatto molto più di me, e non avrei mai immaginato che si sarebbe allontanato a stagione in corso”. Anche perché era recente la notizia di un’estensione contrattuale per
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un altro anno. Dunque la decisione di lasciare la squadra è maturata in breve tempo, forse, chissà, proprio in quella mezz’ora seguente la fine della partita contro Chicago. E così il terzo allenatore più vincente della storia dell’NBA ha fatto le valigie, abbandonando quella panchina e quello spogliatoio che ha occupato per 23 anni, 27 considerando le quattro stagioni da assistente allenatore. A lui sono legati i momenti più alti della storia degli Utah Jazz, come le due finali perse contro i Bulls di Micheal Jordan, gli anni del mitico due Stockton-Malone, fino alla nascita ed alla maturazione di colui che probabilmente rappresenterà l’icona dei Jazz nel prossimo futuro, quel Deron Williams che, ironia della sorte, potrebbe essere stato proprio la causa del suo addio. La carriera da allenatore di Sloan si conclude quindi con 1221 vittorie e 803 sconfitte, compresi i tre anni di esordio sulla panchina dei Chicago Bulls, che guarda caso hanno rappresentato la prima panchina su cui ha seduto e l’ultima squadra contro cui ha allenato. Se poi sottolineiamo che proprio i Bulls hanno rappresentato l’ultimo ostacolo verso quell’Anello che non ha mai vinto, capiamo che questa squadra, per cui ha disputato 696 partite da giocatore in 10 anni, partecipando anche a due edizione dell’All Star Game, rappresenta qualcosa di molto importante nella sua vita, pari quasi ai quei Jazz recentemente traditi. Abbandona così il palcoscenico una delle figure più rappresentative di tutto il panorama NBA. Se ne va dopo aver dedicato a questa lega 43 anni della sua vita tra giocatore, allenatore e vice-allenatore.
Fonte foto: facebook.com
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IL PERSONAGGIO - 1
Lou Williams, il cannoniere della Pennsylvania
Stagione spettacolare per la guardia dei Sixers che dalla panchina sta dando un grande contributo a coach Collins a suon di triple
In quel di Philadelphia dopo una stagione decisamente sottotono si sta tornando a sentire odore di post season. Complice una Eastern Conference sempre meno competitiva, almeno per quanto riguarda le squadre che cercano di agganciare il treno playoff, i Sixers sono in lotta per un posto tra le prime otto, nonostante un pessimo inizio di stagione, con 8 sconfitte nelle prime 10 partite. In que-
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B ENNY ENNY G IARDINA IARDINA
sta squadra giovane, e con evidenti limiti dimostrati ampiamente nella prima metà di stagione, sembra aver trovato finalmente la dimensione ideale Louis Williams. 24 anni, combo guard alla sesta stagione in canotta Sixers, dopo anni passati alla ricerca del ruolo ideale (guardia o playmaker?) si sta affermando come elemento di spicco della panchina di Philadelphia, mantenendo cifre simili a quelle della passata stagione, nonostante un minutaggio inferiore. L'impatto di Williams dalla panchina si sta rivelando decisivo per una squadra che non riesce a trovare un go to guy, e che soffre il periodo no di quella che dovrebbe essere la stella della squadra, Andre Iguodala. Con 13.8 punti a partita è il terzo miglior realizzatore dei Sixers, e nel mese di febbraio si è reso protagonista di ottime prestazioni, che hanno guidato Philadelphia a confermarsi come una delle pretendenti ad una piazza d'onore per i playoff. 17 punti di media in 9 partite giocate, con 6 vittorie e 3 sconfitte, questo il ruolino di marcia della guardia nativa di Lithonia nell'ultimo mese, e un acuto personale nella vittoria contro i Nets, dove grazie ai suoi 26 punti i Sixers hanno portato a casa la prima vittoria nel mese di febbraio. Non ci si aspettava certo un campionato di questo spessore da parte di Williams, la cui “retrocessione” in panchina da parte di Doug Collins suonava come una netta bocciatura a favore di Jrue Holiday, ma dal pino il numero 23 dei Sixers è riuscito a cogliere un'occasione d'oro per costruirsi una nuova dimensione. A sottolineare l'importanza del nuovo ruolo di Williams ci pensa coach Collins: «Lou è il catalizzatore... Potrei ripeterlo all'infinito e mostrare tutte le cassette delle partite: quando Lou gioca bene ed è sul parquet nei finali di gara, diventa per noi il giocatore in grado di creare un buon tiro per sé stesso o una buona situazione per i compagni». Finora la fiducia è stata ben ripagata, e i risultati degli ultimi tempi lo confermano, visto che i Sixers si trovano in una condizione a dir poco insperata fino a pochi mesi fa. Il “nuovo” Lou Williams forse non sarà stato l'artefice principale di questo cambio di rotta per il team di Philadelphia, ma di sicuro si è mostrato un valido elemento nelle rotazioni di coach Collins, e senza il suo apporto dalla panchina probabilmente staremmo ancora a parlare di stagione fallimentare per i Sixers. Riusciremo a rivedere una partita di playoff al Wachovia Center? La risposta passa anche nelle mani di Williams.
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Luol D il terzo del ‘tria
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PARTE FONDAMENTALE DEL ‘BIG THREE’ DEI BULLS CON ROSE E BOOZER
«Ci sono voluti 20 anni, ma non mi era mai successo di essere in un posto dove, mentre camminavo per strada, riuscivo a sentirmi a casa. Senza sentirmi, invece, un rifugiato». Per chi nasce a Waw, nel profondo Sudan meridionale, nel pieno della seconda guerra civile sudanese, probabilmente il basket è l'ultimo dei pensieri ed ancor meno non avrà la minima percezione di cosa possa essere la NBA se non magari per qualche racconto tra il reale e l'onirico riguardo le prime gesta tra i Pro del gigante buono Manute Bol, colui che da giovane aveva ucciso un leone con la sola lancia e che, anni dopo, proprio con una palla a spicchi ed un canestro e sfruttando
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Deng, o lato angolo’
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M IRKO IRKO F URBATTO URBATTO quella incredibile statura tipica dei componenti della tribù Dinka (la stessa di Deng), stava iniziando a conquistare fama, denaro e rispetto dall'altra pare dell'oceano, in un mondo difficile anche solo da immaginare per chi si trova a vivere un presente senza elettricità, senza acqua corrente con genocidi e violenze all'ordine del giorno che si apprestavano ad uccidere due milioni di persone negli anni a venire. Non proprio il vissuto medio di un giocatore della national basketball association insomma, roba da far apparire il Bronx un tranquillo cantone svizzero. La storia di Deng (termine che significa "pioggia" derivante dal nome della divinità africana del cielo e della pioggia) ha inizio proprio in questo contesto, nel 1985, ottavo di nove fratelli e figlio del ministro dei trasporti sudanese che per trascinare la sua famiglia fuori dalla palude di guerra e d'intolleranza che attanaglia il Sudan decide di trasferire baracca e burattini in Egitto agli albori degli anni novanta. Da questo momento in poi Deng non metterà mai più piede nella sua terra natia fino a vent'anni più tardi. Proprio in Egitto qualche anno più tardi inizierà a giocare a pallacanestro nella scuola egiziana aperta proprio da Manute Bol all'inizio degli anni 90. Ottenuto, non con poca fatica, il visto, Luol e famiglia si trasferiscono a Brixton, Inghilterra, dove il ragazzo (proprio come Bol) inizia a cimentarsi anche con il calcio pur non trascurando la palla a spicchi. In inghilterra il ragazzo otterrà la doppia nazionalità che gli permetterà in seguito di poter giocare per la nazionale Inglese ("un riconoscimento dovuto a chi l'ha accolto" dirà poi il ragazzo) e riceverà il battesimo cristiano e una suora da lui conosciuta, che gli darà il nome di Michael. A 13 anni gioca il primo torneo nazionale europeo Juniores dove avrà un'alquanto soddisfacente media di 34 punti ed il titolo di MVP. Da questo momento in poi inizierà l'avventura a stelle e striscie di Luol inversamente proporzionale a quella del padre Aldo, che invece dalla Gran Bretagna tornerà in Sudan per aiutare il proprio paese nella ricostruzione. Il Destino di Luol è in New Jersey, alla Blair Accademy, dove in squadra con l'ala dei Detroit Pistons Charlie Villanueva, sarà considerato negli anni uno dei più promettenti giocatori dell'intero panorama nazionale. Tra le varie università che provano ad accaparrarselo Luol sceglie di "farsi insegnare basket" da "coach K" a Duke University dove, nonostante la breve permanenza, assimila la dedizione al lavoro ed il carattere tipici degli allievi di coach Krzyzewski. Nel suo anno da freshman Deng raccoglie cifre a dir poco soddisfacenti con 15,1 punti, 6,8 rimbalzi, 1,8 assist ed 1 stoppata ad allacciata di scarpa. Dopo la prima stagione decide di dichiararsi subito elegibile e la chiamata arriva dai Phoenix Suns alla numero 7; ma Deng non giocherà mai in Arizona visto che la dirigenza Suns lo spedisce ai Bulls in cambio d'una first round pick
QUESTE LE CIFRE IN CARRIERA
...LE CIFRE IN QUESTA STAGIONE...
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nel 2005 e di Jackson Vroman (non proprio la trade del secolo...). Paxson, gm dei Bulls, sceglie di portare in Illinois un altro prodotto di Duke, Chris Duhon e Ben Gordon (Connecticut) in un draft che si rivelerà fondamentale per la costruzione del nuovo nucleo dei Bulls del quadriennio successivo. Sotto la guida di coach Scott Skiles il ragazzone del Sudan nel suo primo anno da pro si alterna nel ruolo di shooting forward titolare con un altro neo arrivato, "El Chapu" Andres Nocioni in una squadra che annovera tra le proprie file già dall'anno precedente il playmaker Kirk Hinrich e che vedeva la presenza nel roster dei due pivottoni Tyson Chandler e Eddy Curry. Deng ottiene ottimi risultati nel suo anno da rookie chiudendo la stagione ai playoff con 11,7 punti e 5,3 rimbalzi in 27 minuti di media a partita con un high stagionale di 30 punti segnati nella vittoria contro i Dallas Mavericks e l'inserimento nel primo quintetto della stagione dei rookie del 2004; arriva anche l'accesso alla post-season alla quale non potrà partecipare per un infortunio al legamento del polso destro e playoff in cui la truppa di Skiles non sfrutta il fattore campo favorevole uscendo abbastanza mestamente nel primo turno con i Washington Wizards di Gilbert Arenas. Nell'anno da sophomore l'ex Blue Devils chiude a 14,3 punti e 6,6 a partita in 34 minuti di media in un anno dove Chicago (che in estate aveva perso Eddy Curry approdato ai Knicks ed aveva acquisito l'abbondante mole di Michael Sweetney da depositare sotto le plance) non fa i progressi sperati e chiude la stagione ai playoff eliminata dai Miami Heat di Wade e Shaq che diventeranno poi i vincitori dell'anello. Nella stagione 2006-2007 arriva la grande crescita del ragazzo di Waw che gioca tutte le 82 partite di regular season partendo in quintetto base e mostrando evidenti miglioramenti nel mid-range shot, in penetrazione e spalle a canestro, inizia a crescere anche la sua difesa individuale (dovuto anche al miglioramento collettivo dovuto all'inserimento di Ben Wallace e di PJ Brown sotto le plance al posto di Tyson Chandler, passato agli Hornets) mentre sceglie di trascurare completamente il tiro da oltre l'arco (solo sette tentativi in tutta la stagione). I Bulls arrivano alla post-season in una "revenge" dell'edizione precedente dove asfaltano i Miami Heat per 4-0 salvo poi essere sconfitti dai Pistons per 4-2 in semifinale di conference. Deng chiuderà la stagione con 18,8 punti a partita e 7,1 rimbalzi a partita. I Bulls e Deng sembrano ormai pronti sulla rampa di lancio per arrivare a giocarsi una finale di conference ma la stagione non va secondo gli auspici. Il draft 2007 porta a Chicago Joakim Noah fresco vincitore di due campionati NCAA con i Florida Gators, ma la stagione è fallimentare. Wallace è il fantasma di quello visto a Detroit ed
anche nella prima stagione nell'Illinois, Hinrich dimostra sempre più i suoi limiti fisici e la sua mancanza di leadership e lo stesso Deng, causa anche un infortunio che lo terrà fuori per una ventina di partite tra gennaio e febbraio non riesce a dare lo stesso apporto dell'anno precedente. Skiles non è capace d'invertire il trand negativo d'inizio stagione e viene licenziato, sostituito da Jim Boylan. Deng chiude la stagione a 17 punti e 6,3 rimbalzi di media, ma i Bulls non riescono ad agguantare nessun posto per i playoff. In estate arriva per Deng l'estensione contrattuale da 70 milioni di dollari fino al 2014 con i Chicago Bulls, insomma, il contratto che ti cambia la vita. Nell'estate del 2008 arrivano a Chicago Vinny Del Negro come head coach e Derrick Rose draftato come prima scelta assoluta. La stagione di Deng non è tra le migliori (14,1 punti e 6 rimbalzi di media) anche per via di vari infortuni il più grave dei quali (frattura da stress alla tibia) lo costringe a saltare la parte finale della stagione con annessi playoff (in cui Chicago darà filo da torcere ai Celtics perdendo solo in gara 7). Deng torna l'anno successivo in un roster senza il suo cannoniere principe degli ultimi cinque anni passato a Detroit (Ben Gordon, ndr) e con una squadra presa sempre più per mano dall'atletismo debordante di Rose e dalla determinazione del figlio del grande Yannick. Quì inizia il nuovo ciclo Bulls, quello in cui Deng ha in pratica il ruolo di secondo violino offensivo, colui che deve realizzare sugli scarichi di Rose (ricomincia a prendere confidenza con il tiro da 3 punti), che deve mettere punti a difesa schierata poichè in pratica il miglior attaccante o quantomeno, quello con maggiore feeling naturale con il canestro, assieme al prodotto di Memphis; anche in difesa l'ex Duke inizia a migliorare sensibilmente sfruttando l'esperienza di questi primi anni NBA oltre ad usufruire di un fisico che sembra fatto apposta per questo sport, che gli consente gran velocità sui movimenti laterali, braccia lunghe ed una spaventosa apertura "alare" che fanno si di poter marcare in maniera più che discreta tanto la guardia quanto l'ala o il 4 avversario in situazioni di mismatch. Chiude la stagione con 17,7 punti e 7,4 rimbalzi a partita finendo con i suoi Bulls all'ottavo posto playoff ed eliminati al primo turno per mezzo di Lebron nella sua ultima versione Cavaliers. Arriviamo così alla stagione corrente con l'approdo degli ex Jazz Carlos Boozer e Ronnie Brewer ai Tori dell'Illinois e con l'esponenziale crescita di Joakim Noah e soprattutto Derrick Rose a prendere i titoli dei giornali e l'attenzione degli addetti ai lavori. In pochi hanno notato come probabilmente lo stesso Deng stia disputando al momento la sua migliore stagione da quando è approdato in NBA; i miglioramenti in ogni aspetto del gioco sono notevoli facendo di lui forse uno dei migliori all-around dei parquet a stelle e striscie. Fa canestro in tutti i modi, ha preso grande fiducia nel tiro da tre punti non limitandosi soltanto al catch and shoot sugli scarichi di Rose ed a tiri con molto spazio, ma inizia a bucare la retina anche con arresto e tiro da lontano e soprattutto, probabilmente merito del neo coanch di Chicago Tom Thibodeau, è diventato, a detta di gran parte degli addetti ai lavori, il vero collante difensivo di questi strepitosi Bulls versione 2010-2011. Di certo la triangle offense messa in opera dall'ex assistent coach dei Celtics è una delle più immarcabili dell'intero lotto. La capacità di mettere punti a referto e la fisicità che permette a Boozer di occupare tutta l'area pitturata, unite alle accelerazione spezza caviglie di D-Rose danno modo al terzo componente di questo triangolo, il nostro Deng, d'avere molto spazio a disposizione per i suoi long-two o per sfruttare atletismo ed agilità in connubio con i suoi 206 cm in uno contro uno. Tutto questo fa di Luol Deng il vero equilibratore della banda di Thibodeau. Nonostante ciò negli ultimi mesi è circolato più di un roumor di mercato che lo riguarda, prima inserito in una possibile trade per portare Anthony ai Bulls, poi in volo verso Philadelphia per arrivare ad Andre Iguodala e di nuovo invischiato nel tentativo estremo di accaparrarsi Melo. A prescindere dalle valutazioni tecniche su questa possibilità, di certo al momento Luol Deng è una delle ali piccole pure più forti, complete e versatili dell'intero panorama cestistico mondiale e non sarebbe facile fare a meno di lui anche se il suo sostituto fosse un fuoriclasse certamente più redditizio offensivamente come l'ex Syracuse, ma certamente meno giocatore di sistema.
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Lealtà e correttezza il credo di Deng Ma Luol Michael Deng non è solo questo. Oltre ad essere uno dei giocatori più apprezzati per lealtà sportiva e correttezza, Luol Deng è un rifugiato, più fortunato di moltissimi altri, ma pur sempre un rifugiato che non ha dimenticato la sua terra d'origine. Per più di venti anni Luol è rimasto lontano dal suo Sudan, fantasticando un ritorno che finalmente quest'estate è arrivato. Luol è tornato tra la sua gente, è tornato a vedere ciò che restava della sua Waw, della sua casa, della sua stanza d'infanzia; ma il tutto non si è limitato certo ad una visita di piacere. In uno dei paesi più arretrati dell'intero globo, dove la mortalità per le donne durante il parto è la più alta in assoluto, dove un bambino su cinque muore prima del quinto compleanno, dove l'insegnamento è ai minimi termini, Deng, attraverso la sua fondazione "The Luol Deng Foundation ( quì il sito, theluoldengfoundation.org) ha iniziato la costruzione di edifici scolastici, a finanziare l'istruzione le scuole già esistenti, ha collaborato con United Nations refugee Agency. Con il suo ritorno ha portato gioia nel suo popolo, immedesimandosi nei loro, anzi nei suoi, antichissimi riti parlando, attraverso il megafono a migliaia di bambini che lo accoglievano festanti e gioiosi, di un mondo migliore possibile, fatto di sacrificio, di studio e di voglia di emergere. Strano pensare a come poco tempo dopo il ritorno di Luol a casa se
ne sia andato il suo mentore, Manute Bol, colui che prima di tutti ha fatto della ricostruzione del proprio paese il suo obbiettivo di vita, cercando fondi nei modi più disparati, per dare un futuro ai suoi fratelli. Un sudanese, un Dinka come lui. Forse aspettava che qualcuno prendesse il suo posto per potersene andare serenamente.
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IL PROFILO
Minnesota su spalle di Kevin
Poniate caso che l’All Star Weekend si disputi nella vostra città natale, e voi siate un più che papabile candidato per partecipare a quest’evento e alla fine veniate scelti niente meno che dal commissioner in persona. E’ quello che sta accadendo proprio quest’anno a Kevin Love, nativo di Santa Monica, (ricco) sobborgo di Los Angeles, dove si
svolgerà l’evento principe di quel grande mercato comunicativo che si chiama National Basketball Association. E’ stato proprio il grande capo di questa organizzazione, David Stern, a chiamare Love come sostituto di Yao Ming, il cinese che si è gravemente infortunato ad inizio stagione. Per la verità Love doveva essere precedentemen-
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R AFFAELE AFFAELE VALENTINO ALENTINO DI
ulle Love
te selezionato come riserva dagli allenatori della Western Conference, in quanto i suoi numeri dicono che è il miglior rimbalzista della lega a 15.5 di media partita, per non parlare dei 21.4 punti ad allacciata, il 44% da 3
punti e le 38 doppie-doppie consecutive collezionate in stagione (battendo il record di franchigia appartenuto a un certo Kevin Garnett). Quest’anno in una partita contro i Knicks segnando 31 punti e catturando 31 rimbalzi, Love è stato il primo giocatore a fare 30+30 dai tempi di Moses Malone nel 1982, diventando così il 19° giocatore in assoluto a fare una roba del genere. Ma se d’altronde queste statistiche sono rese possibili giocando nei Timberwolves che puntano a far migliorare e a far crescere i propri giovani, è altrettanto vero che certi numeri bisogna sempre metterli su. Se pensiamo che il nostro, seppur bravissimo, connazionale Andrea Bargnani nel deserto canadese segna poco più dei punti di Love (21.9) ma che cattura 10 rimbalzi in meno a partita (5.5), possiamo capire quanto siano straordinarie le capacità del lungo ex Ucla (sempre Los Angeles, ndr). La scorsa estate, il GM dei Timberwolves David Khan e il coach Kurt Rambis (guarda caso ex giocatore e assistente allenatore dei Los Angeles Lakers) hanno deciso di scambiare Al Jefferson, lasciando definitivamente esplodere tutto il talento di Kevin Love, mettendogli accanto un giocatore a lui compatibile (e dall’indiscusso talento) come Micheal Beasley. Nonostante il record poco felice (13-43 che vale un misero ultimo posto nella Western Conference) non si può dire che non sia stata una scelta azzeccata. I numeri di Love li abbiamo elencati prima, mentre Beasley viaggia a quasi 20 punti e 5.5 rimbalzi a partita. Il nucleo centrale, presente e futuro, dei Timberwolves sono loro due, anche se abbiamo sentito lo stesso Love, qualche mese addietro, che parlava di un suo futuro lontano dalle steppe del Minnesota, paventando tra qualche anno di formare un nuovo “Big Three” a Oklahoma, insieme al suo amico dai tempi del college Russell Westbrook e ovviamente a Kevin Durant. Prima di immaginare cosa potrà accadere tra qualche tempo, consigliamo vivamente a Kevin Love di migliorare soprattutto in fase difensiva, dove le sue lacune sono davvero enormi, e magari di pensare di poter costruire una squadra vincente, dove lui è la punta di diamante, proprio nel Minnesota. D’altronde per uno così speciale, che ha come zio il cantante dei Beach Boys e che a 22 anni ha già dimostrato di cosa è può essere capace, nulla è precluso.
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IL PERSONAGGIO - 2
Andray Blatche
Le storie della NBA non finiscono mai di stupire. Andray Blatche poteva essere una ragazzo di colore della periferia di newyorkese con tanti sogni e un buon fisico. Ora si erge a corifeo di una squadra in crescita e con tanti giovani che valgono un buon futuro nell’arena a pochi kilometri dalla Casa Bianca. Venticinque anni, maturo e solido, sempre con numeri in crescita, uscito fuori dalle High School prima di Syracuse e poi di Kent, dove i suoi mezzi tecnici lo
portano a essere una scelta importante al draft, saltando il college. Gli scout lo vogliono come stella nascente, come buona chiamata per qualche squadra di alto livello nella parte bassa della lottery, ma le scelte scorrono e non si sentono le sue iniziali. Nessuno sembra credere in questi 210 cm di potenza e in questi 110 Kili di muscoli pronti a esprimere grandi potenziali. E’ passata ormai più di un’ora e mezza e la maggior parte dei cappellini che contano sono
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D OMENICO OMENICO L ANDOLFO ANDOLFO DI
già stati distribuiti, quando col numero 49, sul far della sera i Washington Wizard spendono il suo nome e se ne assicurano i servigi. Il “giocatore maledetto” raccoglie le sue cose e cambia costa, cambia vita e si lancia alla conquista di un sogno, di qualcosa che vada oltre la semplice <buona panchina>. La sua fama però le precede e subito dopo il training camp a poco dall’inizio del campionato, rimane coinvolto in una sparatoria nella capitale quando gli cercano di rubare l’automobile. Già lo spogliatoio è un clima pittoresco, con Arenas e il suo ego, seguito dai suoi adepti, da una parte, mentre la solidità e la durezza di Jamison e Butler si schiera su fronte opposto. Nonostante i tanti problemi, Andray sceglie di mettersi al servizio della squadra con solidità e grinta, ma dopo 4 partite viene prematuramente bocciato e mandato a fare le ossa in D_league. Ci rimarrà solo una settimana o poco più. Alla squadra serve solidità e anche un pizzico di incoscienza giovanile. Gli infortuni che riducono Washington all’osso permettono un maggiore spazio al nostro 210 dalla mano educata. Con tanto minutaggio a disposizione, Blatche cresce e affina i mezzi. Diventa devastante nell’area pitturata, in cui cresce di anno in anno con rimbalzi e stoppate. Ma la sua grande capacità di rendersi utile lo porta anche a trovare non saltuariamente la sua mano da tre punti. Via Arenas, via Butler, via Jamison, è assieme a Wall il leader designato di una squadra in fieri che non vuole voltarsi indietro e vuole provare a recitare un ruolo da protagonista in una squadra che non vede i playoff dall’ultimo anno Nba di Air Jordan. I numeri gli danno ragione, con oltre 15 punti e 8 rimbalzi di media, che ne fanno una stella in ascesa del palcoscenico americano. Non contano solo l’esplosività di Bosh, il fisico di Dwight, la mano di Garnett: il giocatore maledetto sa essere essenziale e risultare decisivo, formando con l’eclettico McGee un duo che forse fuori dal campo fa scintille, e infatti entrambi hanno beccato sospensioni, ma che sul parquet regala ai tifosi, tra cui spesso siede anche Mr Obama, tanto spettacolo e solidità.
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LO STUDIO...
Los Angeles, a un derby vero
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Fonte foto: facebook.com
avrà o?
L ORENZO
DI
DE
S ANTIS
Prendete una città come Los Angeles, prendete un bacino d'utenza tra i più importanti d'America, poi prendete una squadra come i Lakers, prendete 16 titoli vinti, alcuni dei giocatori ed allenatori più famosi della storia, prendete una miriade di star di Holliwod che vedono le loro partite e abbonamenti che vanno via solo per cifre con diversi zeri. Ora prendete l'altra squadra della città, 40 anni di storia e appena 6 stagioni vincenti, di cui la pochezza di due dal trasloco nella città degli angeli nel lontano 1984, agiungete
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pochi o quasi nessun giocatore rimasto nell'immaginario collettivo e avrete i Los Angeles Clippers, forse la franchigia più sfigata dell'intera lega, completamente surclassata dalla fama e dalle vittorie dei cugini ricchi dei Lakers. Ora dovete prendere il draft del 2009, con la prima scelta assoluta arrivata dopo una stagione da appena 19 vittorie a fronte di 63 sconfitte e un ragazzone di 2.06 proveniente dalla lontana Oklahoma chiamato a cambiare per sempre le sorti degli sfortunati Clippers, che si confermano tali dopo l'infortunio al ginocchio di questo fenomeno che rende deludente l'ultima stagione con un record di 29-53. Poi però arriva ottobre 2010, e un Blake Griffin finalmente e completamente recuperato, altri giocatori promettenti come Eric Gordon, Al-Farouq Aminu e DeAndre Jordan oltre alla vecchia volpe Baron Davis e avrete perlomeno la speranza di un futuro più che roseo. Certo anche quest'anno non inizia nel migliore dei modi, con dieci sconfitte sulle prime 11 partite giocate, dovute anche agli infortuni di Chris Kaman e dello stesso Davis,
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ma piano piano con vittorie importanti contro Thunder, Hornets, Spurs, Heat e sugli acerrimi rivali dei Lakers, l'attenzione si sposta sulla cenerentola delle squadre, con Griffin che mostra a pieno il suo enorme potenziale, affermandosi come il giocatore più spettacolare dell'intera lega, tanto da essere chiamato come riserva all'All Star Game, onore più unico che raro per un rookie, se pensiamo che nemmeno LeBron James o Kobe Bryant vi sono riusciti. Adesso le vittorie sono 21 su 56 partite giocate, certo non un record da squadra di primo livello, ma possiamo decisamente dire che se quest'anno sarà di transizione, già dalla prossima stagione le aspettative saranno sicuramente più alte, con l'obbiettivo playoff alla portata, a patto che Griffin confermi le sue prestazioni e che Mo Williams rimanga il giocatore motivato visto nelle stagioni migliori a Cleveland, arrivato al posto del tanto osannato Baron Davis. Già perchè dopo l'arrivo in pompa magna nell'estate 2008, con un contratto di 5 anni da 13 milioni di euro a stagione, il Barone ha deluso le aspettative, giocando in due anni solo
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95 partite, passando da essere il grande protagonista della storica stagione dei Warriors culminata con l'eliminazione dei favoritissimi Mavericks nel primo turno dei playoff a oggetto misterioso, svogliato, e incapace di diventare il leader della squadra della sua città. Chiaro che il prodotto di UCLA non sarà mai la stella che si pensava dovesse diventare dopo le prime stagioni a Charlotte, ma può sicuramente confermarsi come un punto fermo nel quintetto dei Clippers, capace di innescare Griffin per le sue devastanti schiacciate. Altro punto fermo dovrà senza dubbio essere Eric Gordon, infatti il terzo anno da Indiana è letteralmente esploso, diventando il miglior realizzatore della squadra e il nono della lega con 24,1 punti ad allacciata di scarpe, e mostran-
do una grande capacità di andare in lunetta nei momenti caldi della gara. Certo l'attitudine difensiva è quella che è, ma stiamo parlando di un classe 88, che potrà ulteriormente migliorare. Ora non resta che aspettare, perchè dal draft potranno arrivare altre pedine importanti e il ritorno di Chris Kaman, uno dei miglori centri della lega, non possono far altro che rendere ancora più competitiva la squadra a disposizione di Vinny Del Negro, allenatore sicuramente più adatto a gestire una franchigia da ricostruire che non una con ambizioni di vincere come erano i Chicago Bulls. Ora all'ex playmaker della Benetton Treviso spetta il compito di far diventare diversi giovani di talento una formazione coesa in grado di far paura alle corazzate della Western Conference.
QUEST LE CIFRE DI BLAKE GRIFFIN NELLE ULTIME USCITE
...LE CIFRE IN QUESTA STAGIONE...
QUEST LE CIFRE DI MO WILLIAMS NELLE ULTIME USCITE
...LE CIFRE IN QUESTA STAGIONE...
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LA RUBRICA
NBA Up
& Down
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DI
D OMENICO OMENICO P EZZELLA EZZELLA
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SEM PRESTI Due parole per il giovane giemme dei Thunder, Sam Presti, vanno spese. Ancora una volta si è dimostrato il grande artefice di una squadra che negli ultimi tre-quattro anni è diventata una realtà dello scenario della Western Conference. Una serie di scelte azzeccate portando a casa giocatori complementari. Da Durant a Westbrook, da Harden (in quello stesso Draft era opzionabile Tyreke Evans con la numero 3) a Serge Ibaka. Ma dopo i playoff della passata stagione e dopo la prima parte di questa, la mente dei Thunder si è accorto che mancava qualcosa. «Dobbiamo essere più cinici e concentrati in difesa» . Parole di Kevin Durant che gli saranno ronzate per la testa fino all’All Star Game, fino al momento in cui non ha capito che si poteva fare qualcosa. Ora Durant ha quello che gli mancava: difensori al centro dell’area. Uomini di quantità a rimbalzo e
preziosi nelle stoppate. Uomini che possono dare una spinta in più rispetto al passato. PHILADELPHIA 76’ERS La vera sorpresa ta chi non ti aspetti dietro il gruppone di testa della Eastern Conference. Una squadra che ha iniziato nei peggiori dei modi la propria stagione e che invece, sta andando avanti come un treno. L’arrivo in panchina, in estate di Doug Collins non ha certo lasciato tanti addetti ai lavori contenti di avere un coach fermo da tanti anni in cui ha passato più tempo con una cuffia in testa a commentare che con una lavagnetta in mano ad allenare. Ma alla fine il coach del titolo dei Chicago Bulls e quello dle primo ritorno in campo di Michael Jordan con i Washington Wizards, è riuscito a sorprendere tutto e tutti. Con le sue idee, con le sue rotazioni (altro allenatore che non sembra amare il platoon system con girandole di cambi ridotti praticamente all’osso) a dare un senso ad una squadra che sembrava essere invece allo sbando. Brand ha più cittadinanza in questa squadra di quanta ne aveva in precedenza, Iguodala si è scrollato di dosso il ruolo di ‘salvatore della patria’ e ha iniziato a giocare come sa, mentre le buone notizie sono arrivate dai vari Lou Williams (divenuto sempre più tiratore terrificante dalla distanza ed idolo della folla del Wells Fargo Center di Philly), Thaddeus Young e soprattutto Jrue Holiday.
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BOSTON CELTICS Brutta mossa. Certo alla base di tutto ci potrà pur essere un primo passo di svecchiamento in attesa che i veterani alzino bandiera bianca in un futuro che tutti si immaginano al quanto lontano. Ma mandare via colui che era stato considerato la pedina mancante del titolo dello scorso anno dei biancoverdi, proprio è una cosa difficile da capire e comprendere fino in fondo. Non solo perchè Perkins era appena rientrato dall’infortunio grave della scorsa finale (ma al momento ancora in injured list ad Oklahoma ndr), ma anche perchè in questo modo i Celtics prendono una decisione ed una posizione chiara: affidarsi da qui alla fine alle mani di Kevin Garnett, ma soprattutto alle mani della coppia di O’Neal. Passi per la decisione di rimettersi nelle mani di The Big Ticket per quello che sta facendo vedere fino ad ora, ma siamo proprio sicuri che sia Jermaine che Shaquille
da fine aprile in poi saranno gli uomini giusti per poter far pensare ai ‘vecchiotti’ di poter smettere con un altro titolo in più? Siamo sicuri che la coppia di O’Neal possa garantire quella presenza difensiva che riusciva a garantire Perkins senza chiudere troppo anche dall’altra parte o particolari aggiustamenti in termini di schemi? Beh al momento la risposta è stata che con Jeff Green in più, quella attuale è una squadra molto più simile a quella del titolo del 2008 e che l’infortunio di Daniels abbia fatto propendere allo scambio più di quanto l’importanza di KPerkins aveva all’interno dello spogliatoio. DERON WILLIAMS Era il lato buono dei Jazz. L’uomo della rinascita accostato più volte a quel John Stockton che aveva fatta grande la città dei Mormoni. Ed invece. Ed invece alla lunga e dopo stagioni di pace e di baci ed abbracci con tutti, Deron Williams erutta come un vulcano. Ormai sono una specie di segreto di pulcinella le sue controversie con l’ex coach storico dei Jazz, Jerry Sloan, cosi come è un segreto di pulcinella che quest’ultimo abbia mollato per evitare che la squadra si smantellasse. Ma poi lui ha continuato e alla fine la cessione è stata inevitabile. ora ai Nets imparerà cosa vuol dire essere effettivamente un una squadra perdente.
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NBA NEWS
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T TU UT TTO TOBA BAS SK KE ET T. .N NE ET T
SEZIONE SEZIONE A A CURA CURA DELLA DELLA REDAZIONE REDAZIONE DI DI
Tutti gli scambi ai ‘Raggi X’ Ogni anno di questi tempi, cioè in prossimità dell'All Star Game, se non proprio in corrispondenza del weekend delle stelle, la NBA si anima con scambi che movimentano i roster di un certo numero (solitamente elevato) di franchigie. Il Febbraio del 2011 non è stato da meno, anche se si ha la sensazione che ogni scambio effettuato sia niente rispetto ai botti avvenuti nell'estate 2010. Vediamo, dunque, quali sono state le trades principali realizzate a ridosso della trade deadline. SCAMBIO NEW YORK – DENVER: Carmelo Anthony, Chauncey Billups. Anthony Carter, Renaldo Balkman e Shelden Williams per Wilson Chandler, Danilo Gallinari, Raymond Felton, Timofey Mozgov e scelte future. È senza dubbio la trade più importante, sia perchè riguarda Carmelo Anthony, ovvero uno dei protagonisti del Draft del 2003 che in ogni caso era in attesa di cambiare aria dall'inizio della stagione, sia perchè rimane coinvolto uno degli italiani, ovvero Danilo Gallinari. A guadagnarci è senza dubbio New York, che nello spot di ala piccola inserisce una delle stelle principali della Lega, a discapito di un giocatore (e cioè proprio il Gallo) che magari stella lo deve ancora diventare. Diverso è il discorso del play. Appare strano che i Knicks, nel cambio Felton – Billups, abbiano scelto di rinunciare ad un play certamente più giovane, magari più adatto al gioco di D'Antoni, ma altrettanto certamente senza l'esperienza dell'ex Detroit: tutto sommato, la bilancia sembra propendere per Felton, tra l'altro arrivato in estate. Anthony Carter farà quello che faceva a Denver, ovvero il back up di Billups, e continuerà ad avere, presumibilmente, poco spazio, così come Balkman (di ritorno alla Grande Mela) e Shelden Williams. Denver è riuscita a limitare i danni: sostituisce, infatti, Billups con Felton e Melo con Gallinari. Dal punto di vista realizzativo, i Nuggets possono comunque contare su J.R. Smith, più volte dimostratosi all'altezza, pur partendo costantemente dalla panchina; Gallinari può dare sicuramente il suo apporto e Chandler va a rafforzare il settore guardie formato, anche prima dello scambio, dai soli Afflalo e Forbes, non proprio il massimo. Mozgov è un incognita, essendo stato impiegato da D'Antoni col contagocce.
SCAM BIO NEW YORK – M INNESOT A: Eddy Curry ed Anthony Randolph per Corey Brewer. Scambio secondario, con cui i Knicks smaltiscono il settore esterni facendo quadrato attorno a Melo e
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rinunciando ad un giocatore impiegato pochissimo come Curry, in cambio di un altro esterno (Brewer) di cui si parlava per un ulteriore scambio poi non andato in porto, segno che non gode della fiducia dei vertici della franchigia di New York. I T-Wolves aggiungono un po' di peso sotto canestro, settore troppo limitato a Love e Milicic. S C A M B I O U T A H – N E W J E R S E Y : Deron Williams per Devin Harris, Derrick Favors e scelte future. Scambio dettato più che altro per i malumori che si sono venuti a creare tra D-Will e i Jazz che, pare, siano il motivo che abbiano portato alle dimissioni di Sloan. I Jazz tra l'estate 2010 e Febbraio 2011 hanno perso Boozer, Korver, Ronnie Brewer ed ora anche Williams, mettendo in atto una vera e propria rifondazione: questo non ha impedito alla franchigia di Salt Lake City di mettere in piedi una stagione più che dignitosa, tuttavia bisognerà valutare l'impatto degli effetti di questi ultimi scambi. Perdendo Williams ed acquisendo Harris, i Jazz hanno perso un play più votato al gioco di squadra (del resto il grande numero di assist che Williams smazza ogni partita ne è la dimostrazione; tuttavia dà anche un discreto contributo in termini di punti), per un play più realizzatore. Probabilmente, vista anche la presenza di Earl Watson (e cioè di un play ragionatore) nel roster di Utah, Harris potrebbe ben integrarsi nei meccanismi dei Jazz, facendo compiere alla squadra un certo salto di qualità. Ovviamente il discorso inverso lo si fa per i Nets. Nets che rispetto alla disastrosa stagione 2009/10 hanno una squadra molto più interessante, che tuttavia fino ad ora non è riuscita a girare a dovere proprio per la mancanza di un cervello come Williams. Anche in questo caso, la presenza degli ex Lakers Vujacic e Farmar, rendono il pacchetto dei play di New
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Jersey più assortito. Favors è un rookie, quindi un giocatore tutto da valutare per Utah. S C AM B I O N E W O RL E A N S – S A C RA M EN T O : Carl Landry per Marcus Thornton. Scambio riguardante un giocatore come Landry che, seppur impiegato sempre da sesto uomo fin dai tempi di Houston, negli ultimi tempi a Sacramento appariva chiuso dal rookie Cousins (che ha ben figurato fino a questo punto) e dall'esperto Dalembert, in considerazione del fatto che i Kings normalmente giocano con Thompson nello spot di 4: fanno, dunque, tre giocatori per un solo ruolo. Landry è un giocatore che si avvicina molto a David West e ne costituisce, quindi, la naturale alternativa, lasciando agli Hornates, però, anche la possibilità di giocare con entrambi quando Okafor deve rifiatare (o, come in questo periodo, quando l'ex Charlotte è fuori per infortunio). Sacramento, invece, con Thornton e Marquis Daniels (arrivato assieme a cash considerations da Boston in cambio di scelte future), attribuisce esperienza e talento ad un reparto esterni formato essenzialmente da Evans e Casspi. S C AMB IO BO S T ON – O KL AH OM A C IT Y T H UND ER: Kendrick Perkins e Nate Robinson per Jeff Green, Nenad Krstic, una scelta futura e soldi. Scambio che, lo diciamo in partenza, favorisce nettamente i Celtics, non per il valore dei giocatori, ma per l'effettiva funzionalità di questi. Considerando che Krstic avrà presumibilmente poco spazio, con Green i Celtics acquisiscono, per il reparto lunghi, atletismo e tiro da tre, che prima dello scambio i Trifogli non avevano, vuoi per caratteristiche (Perkins, Davis e i due O'Neal), vuoi per
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età (Garnett); inoltre, Boston riesce a sopperire alla partenza di un play di riserva (ovvero Robinson) con la soluzione interna, rappresentata da Delonte West. Ancora una volta un mercato intelligente per i Celtics, quindi, dopo quello del Febbraio 2010. Scelte discutibili da parte dei Thunder, che necessitavano di un lungo con una certa presenza sotto canestro; tuttavia, questo ruolo sembrava potesse essere coperto ottimamente da Ibaka, esploso quest'anno. Ecco perchè l'arrivo di Perkins sembra ridondante, a maggior ragione se si considera che l'ex Boston è un lungo interno proprio come lo stesso Ibaka e Collison e tutti e tre sono diversi da Jeff Green. Anche l'arrivo di Robinson non era strettamente necessario. Sicuramente Nate andrà ad occupare un ruolo (ovvero quello del play di ricambio) fino a questo momento parzialmente scoperto, infatti poteva essere ricoperto anche da James Harden. Adesso ci sono Westbrook e Robinson per il ruolo di play e Sefolosha ed Harden per il ruolo di guardia, con il settore ali indebolito dalla partenza di Green. Robinson non era proprio la priorità, insomma.
SCAMBIO CHARL OT TE – P ORTL AND: Gerald Wallace per Joel Przybilla, Dante Cunningham, Sean Marks e scelte future. Gerald Wallace era l'ultimo giocatore ad essere presente nei Bobcats fin dalla loro creazione, nel 2004. Lo scambio avvantaggia certamente i Blazers, che con un ottimo giocatore come Wallace possono allungare un roster perennemente disastrato dagli infortuni, in cambio di pedine secondarie (Przybilla e Marks) o giovani (Cunningham). Portland può comunque sopperire a queste partenze sotto canestro con Camby (attualmente infortunato) ed Oden (per il quale la speranza è sempre l'ultima a morire), fermo restando che anche Wallace può dare minuti da ala grande. S CA M B I O CL E V E L A N D – C L I P P E R S : Mo Williams e Jamario Moon per Baron Davis e scelte future. Scambio secondario, anche questo, fra una squadra all'anno zero ed un'altra in ascesa. Non si capisce, infatti, quale sia la squadra a guadagnarci e quale a perderci. I Clippers cedono Davis probabilmente per permettere la crescita dei giovani Gordon e Bledsoe, anche in considerazione del fatto che
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anche Foye si è ben disimpegnato, con l'infortunio dello stesso Gordon. E comunque da adesso c'è anche Williams. I Cavs, invece, acquisiscono il Barone, ma avrebbero potuto prendere qualsiasi giocatore, tanto la stagione è andata ampiamente e segnali di ripresa si avranno solo nel lungo termine, non certo con l'ingaggio di Davis o chi per lui. Quanto a Jamario Moon, terminata la favola del giocatore proveniente dalle minors, del saltatore che dal nulla partecipa allo Slam Dunk Contest facendo un'ottima figura, rimane un giocatore normale che si è andato a perdere nel roster della squadra col peggior roster della Lega. Difficile prevedere se avrà spazio ai Clippers, con molta probabilità no. Cleveland taglia anche Powe, campione con i Celtics non più tardi di tre anni fa. SCAMBIO HOUSTON – PHOENIX: Aaron Brooks per Goran Dragic e scelte future. Scambio che somiglia molto a quello che ha portato al trasferimento di Deron Williams, con un giocatore in rotta con la propria squadra (Brooks) che va ad inserirsi in un contesto dove magari può rendere di più, facendo esaltare maggiormente le doti di finalizzatore, ovvero ai Suns con o al fianco di Nash. Ciò che è strano, però, è che proprio i Suns si siano provati di Dragic, che aveva ed ha tutte le possibilità di diventare il degno erede del canadese (a questo punto lontano dall'Arizona, semmai accadrà). Tra l'altro, anche Dragic potrebbe rendere di più ai Rockets, dove i realizzatori non mancano (Martin e Scola su tutti). S C A M B I O H O U S T O N – M E M P H I S : Shane Battier ed Ishmael Smith per Hasheem Thabeet, DeMarre Carroll ed una scelta futura. Lo scambio vero, in questo caso, riguarda Battier e Thabeet, con gli altri giocatori a fare da contorno. In pratica, i Grizzlies recuperano un giocatore, perchè inseriscono nel roster un difensore e tiratore da tre come Battier, in cambio di un altro che in quasi due anni è stato utilizzato pochissimo, nonostante sia stata la seconda scelta assoluta del Draft del 2009, dietro Griffin. Lo stesso Thabeet, viceversa, va ad aumentare il tasso di atletismo dei Suns, sempre ammesso che riesca finalmente ad esplodere (e qui Nash potrebbe giocare un ruolo chiave).
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