Il Santo Natale
Irlanda: l’Isola smeraldo dove la Fede nasce spontanea
di Mary Murphy
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In ogni epoca, il Santo Natale apre una schiarita di allegria e di pace nel duro affanno della vita quotidiana. Come si celebra il Natale in altri paesi europei? Ecco, cari lettori, alcuni pezzi che descrivono, con semplicità e leggerezza, alcune tradizioni natalizie. A cominciare dall’Irlanda.
l Natale è la festa più importante del calendario irlandese, attesa con grande fervore da anziani e piccini. Le preparazioni iniziano con mesi di anticipo, a cominciare dal cibo.
La Christmas cake, la torta natalizia – fatta con frutta, spezie e un impasto di farina e noci inzuppato nel whisky irlandese –, si comincia a preparare già dai primi di ottobre, affinché abbia tutto il tempo di maturare correttamente prima del Natale. La tradizione vuole che tutti in casa partecipino alla preparazione dell’impasto prima che vada in forno. La torta va quindi lasciata riposare al caldo, affinché tutti i sapori si possano amalgamare. Una settimana prima del Natale, la torta viene ricoperta da uno strato di pasta di mandorle. Un paio di giorni prima, si copre ancora con della glassa, che va poi decorata secondo le usanze di ogni famiglia. Non possono mancare l’agrifoglio verde, simbolo della vita eterna e anche della nostra Isola, né le bacche rosse, che simboleggiano il sangue del nostro Divino Salvatore fattosi Uomo.
Cinque settimane prima si comincia a preparare anche il Christmas pudding, il budino di Natale. È una torta di frutta e noci, bollita e poi lasciata a macerare nel brandy. Il pudding va servito caldo. Durante il pranzo di Natale, viene bagnato con brandy e introdotto trionfalmente flambé nella sala da pranzo lasciata al buio. È un momento di grande esultanza. Su ogni singolo piatto si aggiungono poi burro e crema al brandy. L’Irlanda dei nostri bisnonni era un Paese fiero di sé ma piuttosto povero. Si viveva in modo assai austero. In attesa delle festività natalizie, già da ottobre si cominciava a risparmiare. Le signore organizzavano il Christmas Savings Clubs (Club di risparmio natalizio), e vendevano vecchi oggetti in modo da poter acquistare il tacchino, il prosciutto, il maiale e le spezie. Questa tradizione, ormai in un ambiente di relativo benessere, si continua oggi col Christmas Hamper.
Ad ottobre iniziavano pure le prove dei cori religiosi per prepararsi a cantare alle varie Messe di Natale. Nelle chiese, però, si cantava poco durante l’Avvento, poiché era considerato un periodo penitenziale e di attesa.
All’inizio di dicembre si respirava già un’aria natalizia. Nella Festa dell’Immacolata Concezione, dopo aver partecipato alla Santa Messa, di solito solenne, le famiglie che abitavano in campagna si recavano in città per fare acquisti. Le piazze erano affollate di gente. Le donne si scambiavano segreti di cucina e suggerimenti per i regali ai bambini e la decorazione della casa. La sera del 24 dicembre, al calar del buio, il membro più giovane della famiglia accendeva una candela, che era poi posta dal genitore sul davan-
zale della finestra che dava sulla strada. La candela era un cenno di benvenuto a Maria e Giuseppe, in altre parole, un annuncio che in quella casa c’era posto per loro. Non avere una candela sulla finestra implicava assumere la colpa dei giudei di Betlemme che rifiutarono ospitalità alla Sacra Famiglia.
Il Natale iniziava con la Messa di mezzanotte. Tutti erano vestiti col Sunday best, l’abito migliore. Le musiche, sia liturgiche sia popolari, allettavano i fedeli, proclamando la tanto attesa venuta del Nostro Salvatore. Alla fine, il sacerdote portava in processione il Bambino Gesù deponendolo nel presepio, che era quindi benedetto. Prima di tornare a casa, i fedeli si inginocchiavano davanti al presepe, in preghiera silenziosa, e prendevano alcuni fili di paglia benedetta per portarli a casa.
Le decorazioni delle case erano allora molto semplici, con rametti di agrifoglio ed edera appesi alle finestre e sopra le cornici dei quadri. Le cartoline di Natale ricevute erano infilate con uno spago e appese ai muri.
L’albero di Natale era decorato da tutta la famiglia, fino alla vigilia di Natale. Ma il centro delle attenzioni era, ovviamente, il presepe, nel quale il giorno di Natale veniva deposto il Bambino Gesù. Le famiglie povere si potevano permettere appena qualche statua: Gesù Bambino, Maria e San Giuseppe. Quelle più agiate avevano presepi più elaborati. Curiosamente, i tre Re Magi erano molto difficili da trovare.
Nel secolo XIX ebbe inizio nelle case aristocratiche un’usanza che poi fu adottata da tutte le classi sociali: i Christmas crackers. Erano rotoli di carta legati alle due estremità da nastri e contenenti piccoli regali: una penna, una matita, dei dolci e via dicendo. I crackers sono facili da confezionare e ognuno li può personalizzare come vuole. Erano messi su ogni piatto a tavola e segnati col nome della persona, che così sapeva anche quale fosse il suo posto. I cracker vanno aperti da due persone tirando ciascuna da un’estremità del pacco. Questo si rompe, producendo un rumore tipico (crack!) che è motivo di grande allegria per tutti. L’indomani, l’intera giornata di Natale era di solito trascorsa in casa. In quel tempo nemmeno ci si sognava di aprire i negozi. Perfino i tradizionali pub restavano chiusi. Le famiglie erano felici di trascorrere il tempo senza preoccuparsi né del lavoro né dell’orologio, godendosi vicendevolmente la compagnia. Il
pranzo variava da famiglia a famiglia. Le portate classiche, comunque, erano rappresentate sempre dal tacchino al forno ripieno, il prosciutto arrosto, la carne speziata, verdure, patate, ecc. Il tutto servito con gravy (sugo di carne). Alla fine appariva il pudding, la cake e anche lo sherry triffle, una sorta di tiramisù ai frutti di bosco. Il tutto rigorosamente innaffiato con la tradizionale birra Guinness per gli adulti e bevande analcoliche per i più giovani.
Il pomeriggio era normalmente dedicato a visitare parenti e amici, assaggiando le delizie preparate in quella casa.
Il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, i ragazzi si vestivano con vecchi vestiti e si coprivano il capo con paglia per mascherarsi. Andavano poi in gruppi di casa in casa e, cantando, suonando musica, ballando raccoglievano qualche spicciolo (foto sotto). La canzone più comune era “The wren, the wren, king of all birds”.
St. Avold: Natali d’altri tempi
di Pascal Flaus
Siamo in Francia, ma si parla molto il tedesco. La zona attorno a St. Avold, nella Lorena, nota come pays naborien, è sul confine tra Francia e Germania. Zona bilingue e biculturale, attinge le sue tradizioni natalizie da due grandi Paesi. Abbiamo chiesto a un noto esperto della storia locale come fossero i Natali d’altri tempi.
I
nostri antenati davano alla celebrazione natalizia, o “Chrichdaa”, un’importanza capitale. Il Natale era preceduto dall’Avvento, un periodo di riflessione spirituale e di introspezione, digiuno e astinenza. Fino al Concilio Vaticano II, non si celebravano matrimoni durante questo periodo, e tutte le attività ludiche erano proibite. Questo messaggio di attesa e di preparazione spirituale è simboleggiato dal colore liturgico viola. Ogni sabato, all’alba, con la chiesa illuminata solo da candele in onore della Vergine Maria, si celebravano le “Rorate Messen”, cantando il “Rorate coeli”.
Le nostre tradizioni religiose secolari sono state arricchite da certe usanze importate dai protestanti. La corona d’Avvento, fatta di quattro candele, è una tradizione di Amburgo, concepita nel 1839 da Johann Heinrich Wichern, un pastore protestante, e in seguito accettata dalla Chiesa cattolica nei paesi germanici. La corona è adornata con tre candele viola e una rosa per la domenica di “Gaudete”.
La vigilia di Natale
Fino al 24 dicembre, i nostri antenati praticavano il digiuno. Quel giorno era piuttosto normale,
con gli adulti che preparavano le celebrazioni. La sera, le famiglie si riunivano attorno al caminetto nella stanza principale. Nella regione di Bouzonville si aggiungevano tre sedie simboliche perché Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù potessero venire a scaldarsi. La sera si mangiava poco: una zuppa e un piatto leggero, seguiti dai biscotti di Natale accompagnati da Glühwein, vino caldo speziato. Il padre di famiglia benediva, con acqua santa e vino, un ceppo di legno scelto durante l’estate, chiamato “Christbrand”, che veniva bruciato nel camino. Le sue ceneri erano poi sparse nella casa e nei campi. I contadini mettevano un sacco di grano di frumento davanti alla porta per essere benedetto da Gesù Bambino. In attesa della mezzanotte, i bambini giocavano al “Kohlespiel”: appendevano un pezzo di legno carbonizzato al soffitto e soffiavano su di esso in modo che toccasse il viso del vicino, annerendolo. Il perdente doveva cedere il suo pezzo di torta. Gli animali erano nutriti con fieno e sale. Nel mio villaggio, a Rosbruck, gli animali erano liberati durante la Messa di mezzanotte in modo che potessero comunicare tra loro e venerare il Bambino Gesù. Questa tradizione, persa intorno al 1880, causava un grande disordine perché verso le due di notte era necessario ritrovare il proprio bestiame, cosa non facile soprattutto in condizioni di neve!
Alle 11,30 suonavano le campane chiamando i fedeli alla Messa di mezzanotte, che durava fino alle due. Restavano a casa solo i malati, i bambini troppo piccoli e alcune persone di servizio. La scena era meravigliosa: tutti si recavano portando lanterne accese, che scintillavano sulla neve creando un’atmosfera magica. La chiesa brillava con mille candele. I colori liturgici erano bianco e giallo. Molti canti natalizi erano eseguiti in tedesco, tra cui il famoso “Stille Nacht”, composto nel 1840.
Dopo il servizio, i fedeli si scambiavano gli auguri e tornavano a casa per mangiare prosciutto, secondo la parola biblica “Und das Wort ist Fleisch” (il Verbo si fece carne). Era anche il momento di scoprire cosa si nascondeva nei calzini appesi al camino e anche sotto l’albero di Natale: dolci, mele, noci e qualche giocattolo. Erano stati portati, mentre tutti erano fuori alla Messa, da “Christkindche” (Gesù Bambino). Anche questo personaggio proviene dalla tradizione protestante, creato nel secolo XVIII per sostituire San Nicola. In seguito, però, fu assunto dalla Chiesa cattolica in Germania, Austria, Alsazia e Lorena. In alcuni luoghi il “Christkindche” appariva di persona. Era di solito una giovane ragazza vestita di bianco, con il volto velato all’orientale e con una
Strasburgo, capitale dell’Alsazia
corona in testa, metà angelo metà Gesù Bambino, che avvisava del suo arrivo suonando una campana. I bambini cadevano in ginocchio e recitavano una preghiera o una poesia. “Christkinche” lodava chi si era comportato bene, e ammoniva invece i più monelli. Poi distribuiva giocattoli in legno. In alcuni villaggi nel paese di Bitche, chierichetti travestiti da pastori, chiamati “Weihnachts Buben”, vagavano per le strade nella notte di Natale, dopo la Messa, esclamando: “O Christ wach auf!” (Signore, svegliati!).
Tramandando la tradizione
La parrocchia era il cuore della società rurale tradizionale. Il calendario religioso e quello agrario si compenetravano, scandendo le feste civiche e religiose, momenti di riposo, convivialità e affermazioni identitarie.
Il 25 e il 26 dicembre erano festivi, come oggi. Malgrado si dovesse preparare i vari pasti e ricevere gli ospiti, si cercava di mantenere un ambiente di festa religiosa. Ci si recava numerosi alla Messa la mattina e ai Vespri la sera. Molti assistevano alle tre Messe natalizie. Una Messa, la “Hirtenmesse”, era dedicata ai pastori. Il pranzo di Natale era copioso.
Abbondavano la selvaggina, il pollame e gli affettati, accompagnati da patate e verdure. Alla fine si mangiavano diversi dolci fatti in casa e si beveva Spritz zuccherato. A tavola c’era sempre un posto in più per un eventuale viaggiante di passaggio per il paese.
Il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano (“Stefensdaa”), patrono della Diocesi di Metz, si benediva l’avena. Il 28, “aux Saints Innocents”, si benedivano i bambini nati quell’anno. Le giovani madri offrivano i propri pargoli al Bambino Gesù.
Di ritorno a casa, le famiglie cantavano canti natalizi, di solito canzoni religiose tedesche, lette da libri o tramandate oralmente dalla tradizione.
Il Natale ha avuto un ruolo chiave nel repertorio musicale della Mosella di lingua tedesca. La maggior parte delle canzoni ricorda i misteri del Medioevo, e mettono l’accento su due temi principali: la povertà del Bambino nella mangiatoia, e Cristo che si è fatto uomo per condividere il nostro destino. Queste canzoni popolari sono conformi al vangelo di San Luca. Erano certamente interpretati in chiesa molto prima della diffusione dei messali diocesani.
L’albero di Natale
La tradizione dell’albero di Natale si diffuse nel mondo germanico nel secolo XIV, e arrivò in Alsazia nel 1521. All’origine, esso non aveva un senso cristologico. Per le tribù germaniche, prima dell’avvento del cristianesimo, l’abete era il simbolo della luce e del rinnovamento. Il suo verde perdurava anche nel periodo più buio dell’anno, intorno al solstizio di inverno, il 21 dicembre. Era la promessa della primavera, ancora lontana. Nel Medioevo, la Chiesa lo accettò come segno della luce del Bambino Gesù. La tradizione degli abeti fu introdotta in Lorena dai tedeschi intorno al 1880. I primi alberi che decoravano i salotti della borghesia erano pieni di noci avvolte in carta lucida, capelli di angeli, biscotti, ghirlande tagliate in carta d’argento e candele. Era allestito il 24 dicembre nel salotto, e tenuto nascosto ai bambini fino all’arrivo di “Christkindche”. L’albero rimaneva fino alla “Maria Lichtmess” (Candelora), il 2 febbraio. Una volta smantellato, era gettato dalla finestra, e non portato fuori dalla porta, poiché si credeva che ciò portasse sfortuna.
Tallin, la capitale
Estonia: nel buio della notte artica brilla la luce di Cristo
I
n Estonia, il Natale è il periodo più buio dell’anno. Nell’era pre-cristiana in questi giorni si celebrava la festa del sole, poiché le giornate cominciavano a diventare più lunghe e la luce iniziava a vincere l’oscurità. Anche la parola estone per Natale - jõul - viene dal vecchio scandinavo hjul, cioè “sole”.
Poco sappiamo sulle abitudini pagane in quel periodo dell’anno. Si sa, comunque, che i poveri si mascheravano come animali e andavano di casa in casa urtando le persone e spruzzandole con acqua. Per far cessare questo scherzo dovevano ricevere un
di Varro Vooglaid
regalo, per esempio una mela, una pagnotta di pane, un paio di calzini o una manciata di noci. Questa usanza è persistita fino alla fine del XIX secolo.
Un’altra abitudine pagana sopravissuta fino a non molto tempo fa è la costruzione di figure di paglia con fattezze umane. Queste figure erano poi introdotte segretamente nelle case e nei cortili dei vicini. Il gioco consisteva nello scoprirle e portarle fuori quanto prima. Altrimenti, la famiglia sarebbe stata infettata dalla pigrizia. Chi le trovava poteva portarla in altre case. E così il gioco andava avanti con grande gioia di tutti.
Il cristianesimo ha poi introdotto molti bei costumi natalizi nell’Estonia rurale, oggi per lo più dimenticati con la scomparsa della cultura del villaggio. Naturalmente, il cuore delle celebrazioni di Natale erano le Sante Messe. Le cronache raccontano che le chiese erano così affollate che, nel secolo XIX, hanno dovuto costruire balconi e strutture adiacenti per accogliere tutti.
Si trascorreva il mese di Dicembre, tempo di Avvento, nell’attesa del Natale. C’erano tantissime piccole usanze, come quella di addobbare il cavallo e la slitta con motivi natalizi, per portare in chiesa tutta la famiglia, anche in luoghi assai lontani. Uno dei più bei momenti dell’anno era proprio quando le famiglie, ognuna nella sua slitta adornata e illuminata, e suonando campanelli mentre avanzavano, si indirizzavano verso le chiese per la Messa di mezzanotte, e poi facevano ritorno (foto sotto).
Persiste ancor oggi il costume di visitare i cimiteri il giorno di Natale, accendendo candele sulle tombe dei parenti defunti. Fino alla fine del secolo XIX, si usava mettere un po’ di fieno nel salotto di casa per commemorare la nascita di Gesù in una stalla, e la sua mangiatoia. Le persone costruivano anche corone di fieno decorate con gusci d’uovo,
piume e pezzi di stoffa. Queste corone erano ispirate ai candelabri delle chiese.
Nel secolo XIX arrivò dalla Germania l’uso dell’albero di Natale, posto nel salotto principale poco prima della festa e tenuto fino all’Epifania. Erano splendidamente decorati con candele e pezzi di vari colori. Ancor oggi la famiglia si riunisce ai piedi dell’albero per cantare canzoni natalizie. Invece, il pomeriggio del 25, giorno di Natale, le famiglie si visitano a vicenda. Ci sono dei giochi sociali che si usa fare in quell’occasione, mentre si sorseggia qualcosa e si mangiano biscotti.
Un’altra bella usanza: rientrando a casa dopo la Messa di Natale, si serviva agli animali nella stalla pane con un po’ di sale, segno di augurio per il Natale. In questo modo anche loro erano invitati a prendere parte alla gioia della nascita del Salvatore. Addirittura alcune persone portavano cibo nelle foreste, per condividere la loro gioia con le bestie feroci.
D’altronde, per tutto il Natale era severamente proibito ogni lavoro manuale non direttamente legato alle celebrazioni. Si doveva mantenere un clima di raccoglimento spirituale in attesa che la luce di Cristo brillasse nella notte artica.
Catalogna: el cant de la Sibil·la
“L
di Jordi Fonxols
o jorn del Judici parrà el qui haurà fet servici. Jesucrist, Rei universal, home i ver Déu eternal, del cel vindrà per a jutjar i a cada u lo just darà”.
“Il giorno del giudizio apparirà Colui che avrà servito. Gesù Cristo Re universale, uomo e vero Dio eterno, dal Cielo verrà per giudicare e per dare ad ognuno ciò che gli spetta per giustizia”.
Nella cattedrale di Palma di Maiorca, la notte di Natale, dall’alto del pulpito, una giovane vestita da Dama medievale, in mano una grande spada, proclama in gregoriano antico la venuta del Salvatore e l’imminenza del Giudizio Finale. I tamburi, le trombe e l’organo sottolineano ogni sua frase con suoni maestosi, creando un ambiente quasi surreale che sembra uscire dalla notte dei tempi. Oggi questo antichissimo dramma liturgico, chiamato il Canto della Sibilla, è rappresentato solo in alcune chiese del mondo catalano, nonché ad Alghero in Sardegna.
Il Canto della Sibilla altro non è che la versione in lingua volgare (provenzale e catalano) del Judicii signum, cioè la traduzione al latino fatta da Sant’Agostino delle vecchie profezie sul Giudizio Finale. Viene usato nella liturgia medievale provenzale come parte della Procession des prophètes come anche in quella mozarabica, in Spagna. Nella sua forma attuale sembra sia stato eseguito per la liturgia di Natale per la prima volta nel Monastero di Ripoll, nei Pirinei catalani, nel secolo X. Trecento anni dopo, Giacomo I lo introdusse a Maiorca durante la conquista delle Isole Baleari e, successivamente, in Sardegna. Caduta in disuso all’epoca della Contro-Riforma, questa tradizione è stata ripresa negli ultimi anni, soprattutto nella cattedrale di Palma di Maiorca (sotto), nella chiesa di Santa Maria a Ontiyent, a Valenza e nella basilica di Santa Maria del Mare a Barcellona.
L
La raffigurazione più antica
a raffigurazione più antica della Vergine con il Bambino in braccio si può ammirare nella catacomba di Priscilla a Roma, in via Salaria. Il disegno, sulla parete, in colore sanguigno, si può far risalire all’anno 230-240. Emerge ben visibile la figura della Madonna, immortalata nella delicatezza del gesto materno di accogliere il Figlio al seno. Ella è coperta in testa da un manto e sembra indossare una stola. Di fianco ad Ella, alla sinistra di chi guarda, vi è ritratta una figura maschile, nell’atto di indicare la Stella, al centro della scena. Gli studiosi propendono verso l’ipotesi che costui sia un profeta (forse Balaam) in quanto, nell’iconografia della Natività, san Giuseppe appare in era successiva, a partire dalla prima metà del V secolo. Nella stessa catacomba troviamo la raffigurazione più antica dei Re Magi mentre portano i doni al Bambino Gesù, tenuto sulle ginocchia dalla Madonna. Da notare che già allora si riteneva che fossero rappresentanti di tre razze diverse.
Il primo presepio L’amore di S. Francesco d’Assisi per Nostro Signore Gesù Cristo e il conseguente anelito di imitarLo in modo perfetto, conformando tutto il suo essere a quello del Divino Salvatore, erano tali che egli giunse ad assomigliarGli perfino fisicamente. Il suo era un amore fatto di tenera ammirazione, di profonda consonanza spirituale, intellettuale e perfino temperamentale. Questo portava il Poverello d’Assisi a voler non solo conoscere, amare e servire Gesù ma, possiamo dire, a voler quasi “sentirLo” in modo tangibile.
Proprio per poter vivere il Santo Natale in questa profondità, egli ebbe l’idea di riprodurre la scena di Betlemme nella città di Greccio. Siamo nell’anno 1224. Ecco come racconta l’episodio suo biografo fra’ Tommaso da Celano:
L
a sua (di s. Francesco) aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo.
Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro. A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo
realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore.
C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati
cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù infervorato di amore celeste lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole. Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa
discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.
Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero è avvenuto che in quella regione, giumenti e altri animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durante un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute.
Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell’anima e santificazione del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.
P
Arrivano gli zampognari! È Natale a Roma
di Alfredo Monteverdi
arlare delle tradizioni natalizie della città di Roma richiederebbe troppo tempo. La Città Sacra per eccellenza, la sede del Romano Pontefice, festeggia la Nascita di Nostro Signore in maniera solenne. Tutto il mondo segue e conosce la benedizione Urbi et Orbi che il Papa impartisce il 25 dicembre a mezzogiorno dal loggiato principale della Basilica vaticana. Tutti conoscono l’albero di Natale e il presepe che troneggiano nel centro di Piazza Sa Pietro, attorno all’obelisco.
Ma oltre a ciò, vi è forse un aspetto delle arcaiche tradizioni natalizie romane che non tutti hanno presente. Pensiamo ad esempio agli zampognari, detti anche “pifferari”. Si trattava di pastori che erano soliti cantare davanti alle edi-
cole sacre della città. In genere gli zampognari cantavano le cosiddette novene, per la durata quindi di nove giorni. Arrivavano a Roma il 25 novembre, giorno di Santa Caterina, e venivano invitati nelle case, dove ricevevano cibo e denaro. Spesso erano chiamati anche “orsanti”, perché si spostavano portando animali che danzavano, come orsi, scimmiette, cani o uccelli. La novena prevedeva un’introduzione, la cantata, la pastorale ed infine il saltarello. Nella Roma papalina, alcune famiglie erano per generazioni clienti abituali di zampognari. Purtroppo, con l’invasione e occupazione delle truppe sabaude, le autorizzazioni ai pifferari vennero negate e così la tradizione della novena scomparve, nonostante le proteste dei romani e dei giornali del tempo.
Roma poi è anche la città dei presepi. Nella Basilica di Santa Maria Maggiore si conserva quello che viene ritenuto il presepio più antico fatto con statue. Si tratta di un’Adorazione dei Magi in pietra, opera di Arnolfo di Cambio su commissione di Papa Niccolò V nel 1288. Tuttavia, le origini di questo tipo di sacra rappresentazione risalgono al 432, quando Papa Sisto III creò nella primitiva basilica una “grotta della Natività” simile a quella di Betlemme. Non è un caso peraltro che proprio a Santa Maria Maggiore si veneri la Sacra Culla, ovvero la mangiatoia dove la Madonna depose il Bambino Gesù subito dopo la nascita.
Passando poi a tempi più recenti, non si può non ricordare il Presepe dei Netturbini, che alcuni chiamano anche Presepe dei Romani o Presepe dei Papi, uno dei più celebri di Roma. Giovanni Paolo II si recava a visitarlo ogni Natale e da quando, nel 1972, è stato allestito la prima volta, ha ricevuto oltre due milioni di visitatori. L’opera è composta di 100 casette tutte illuminate co-
Roma, un presepio ambientato nella murgia materana
struite in pietra di tufo e sampietrini, 54 strade, 3 fiumi lunghi complessivamente 9,5 metri, 7 ponti e 4 acquedotti. L’acquedotto più piccolo è realizzato in tufo romano, gli altri tre con frammenti di marmo del colonnato e della facciata della Basilica di San Pietro donati nel 1979 dal cardinale Virgilio Noè in occasione del restauro del colonnato del Bernini. E ancora vi sono 4 sorgenti d’acqua, 2 pareti umide che formano stalattiti, 1 pozzo con acqua sorgiva, 730 gradini, dei quali oltre 400 realizzati con il marmo proveniente dal colonnato di San Pietro e i restanti con pietre della Birmania, di Betlemme e degli storici Santuari di Greccio e di San Giovanni Rotondo. Poi 24 grotte scavate nella roccia, adibite a stalle o ripari per i pastori con le loro greggi e a magazzini contenenti damigiane di vino e di olio; 50 sacchi colmi di cereali, sale e farina; 270 personaggi, 163 pecorelle, 12 cammelli, 8 asinelli, 8 buoi e 4 cani. Più un sistema che fa scendere gli angeli e alterna il giorno con la notte. Inoltre, sopra la grotta della Natività nel 2009 è stato collocato
un frammento del sacro Scoglio, ove Santa Rita da Cascia si inginocchiava in preghiera.
I mille Natali delle Marche
di Federico Catani
N
elle Marche vi sono tanti modi di festeggiare il Natale. In ossequio allo stesso nome della Regione, declinato al plurale, le tradizioni natalizie, anche e forse soprattutto dal punto di vista gastronomico, variano non solo da provincia a provincia, ma da città a città e quasi da famiglia a famiglia. A tavola comunque, tra i piatti più diffusi c’è il brodetto di pesce, tipico dell’anconetano, per la sera della Vigilia, mentre per il pranzo della festa si mangiano cappelletti in brodo e cappone bollito.
Altra usanza che accomuna un po’ tutto il territorio è quella dei mercatini di Natale, che si svolgono nella molteplicità dei vari contesti paesaggistici marchigiani: dai castelli, come a Frontone o a Gradara (dove si consumò la triste vicenda di Paolo e Francesca raccontata da Dante nel Canto V dell’Inferno), ai borghi medievali dell’entroterra, sino ad arrivare al mare, come ad Ancona, Pesaro o Senigallia. Il brodetto marchigiano
Le città d’arte si illuminano a festa ed è un incanto contemplare le luminarie per esempio nei centri storici di Fermo o Ascoli Piceno.
Da qualche parte si accendono anche alberi di Natale particolari: a Castelbellino (Ancona) l’albero luminoso è disposto su tutta la superficie del lato a nord della collina del paese ed è il più grande albero natalizio delle Marche.
Un modo originale di prepararsi al Natale è poi la manifestazione “Candele a Candelara” (in provincia di Pesaro). Si tratta di un mercatino che si svolge… a lume di candela. Per alcuni giorni, di sera, a intervalli tutte le luci del piccolo borgo medievale si spengono lasciando il posto alle candele, creando così un’atmosfera suggestiva e unica, quasi un ritorno al passato, quando non esisteva l’illuminazione artificiale. E poi non mancano i presepi viventi, secondo la più pura tradizione francescana, così radicata nelle Marche. Quello di Genga (provincia di Ancona), ad esempio, è per estensione il più grande al mondo; occupa infatti una superficie di circa 30.000 metri quadrati all’interno della Gola di Frasassi, dove si trovano le celebri Grotte, una delle mete turistiche più frequentate della Regione. L’idea di allestire il presepe risale al 1981. La rappresentazione sacra coinvolge ogni anno circa 300 figuranti che sono impegnati a far rivivere le tradizioni che hanno sostenuto ed animato la vita quotidiana di questo territorio, che peraltro ha dato i natali a papa Leone XII, che regnò dal 1823 al 1829. La manifestazione finora è stata visitata da oltre 380.000 persone. E se quello di Genga è il presepe vivente più grande al mondo
Il mercatino di Natale a Gradara
per estensione, quello di San Severino Marche (Macerata) è probabilmente quello marchigiano più antico, perché venne allestito per la prima volta nel 1957.
Degno di nota è inoltre il presepe vivente di Urbino, che ricrea la Natività inserendola nel contesto rinascimentale, di cui il Palazzo Ducale della
città è una delle più splendide testimonianze. Nell’ambito degli eventi della Festa del Duca d’Inverno, nella patria dei Montefeltro, oltre al presepe che ripropone l’ambiente del XV secolo, si svolgono anche rievocazioni storiche, sfilate, concerti, spettacoli di tamburi e fuochi e ovviamente i mercatini di artigianato.
Presepio vivente a Genga
Una meditazione sul Natale secondo la scuola di S. Ignazio di Loyola
F
arò una meditazione sul Natale seguendo lo schema di S. Ignazio di Loyola. Cercherò, comunque, di adattarla un po’ al gusto delle nuove generazioni, aggiungendovi qualche adorno.
Egli dice che, col Natale, Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto dare agli uomini una lezione. Una lezione indirizzata, più concretamente, a chi non vive per Dio ma per se stesso, cioè una lezione per gli egoisti, che sono la stragrande maggioranza degli uomini, soprattutto in tempi di decadenza, come lo erano quando Nostro Signore è nato, e come lo sono anche oggi.
L’egoismo umano, secondo S. Ignazio, può tendere verso uno di questi tre obiettivi: le delizie, la ricchezza, e gli onori.
Per “delizie” egli intende i piaceri dei sensi, a cominciare da quelli sensuali, poi quelli della degustazione, della vista, dell’olfatto, dell’udito. Insomma, tutto ciò che il mondo può offrire di piacevole e di delizioso.
Per “ricchezza” egli intende il semplice possesso di denaro. È l’avidità di chi cerca i soldi non per i piaceri che questo può procurare, in questo caso il movente non sarebbe la sete di denaro, bensì quella delle delizie, il denaro sarebbe un mezzo, non un fine. S. Ignazio si riferisce a chi ha un debole per i soldi, cioè vuole essere ricco per il
di Plinio Corrêa de Oliveira *
solo fatto di esserlo. Tali persone spesso vivono in modo oscuro, banale, perfino miserabile, pur di avere la gioia di sentirsi continuamente in possesso di una grande fortuna.
Poi ci sono gli “onori”. Sono le persone che cercano non i soldi o la bella vita, bensì la considerazione degli altri, cioè vogliono essere oggetto di grandi attenzioni e di grande rispetto. In altre parole, cercano il prestigio. Questa classificazione è perfetta. L’egoismo degli uomini ha sempre come oggetto una di queste tre cose. Voi stessi potete notare, sia intorno a voi sia in voi stessi, quanto gli uomini possano essere attratti da questi tre poli.
Qualcuno dirà: la classificazione è troppo schematica, perché una persona potrebbe andare dietro ai tre poli allo stesso tempo. È vero. Ma è insito nello spirito umano tendere verso uno dei tre poli in modo preponderante. Dopo averli esperimentati tutti, la persona si fissa su di uno, facendolo diventare lo scopo della sua vita.
C’è nell’uomo una certa unità per la quale egli ha anche un’unità di intenti. Quando non cerca Dio come fine ultimo, finisce per cercare uno di questi tre tipi di piacere come il suo fine ultimo.
Con la Sua nascita, Nostro Signore Gesù Cristo dimostrò la vanità di questi piaceri. Egli venne al mondo per dimostrare agli uomini come questi piaceri non valgano nulla.
Questa prova, naturalmente, si applica solo ai cattolici. Essa assume come punto di partenza la convinzione che Nostro Signore Gesù Cristo sia l’Uomo-Dio e, di conseguenza, che le Sue lezioni siano infinitamente sagge e infinitamente vere. Un ateo, ovviamente, non può accettare questa evidenza. Come potremmo fare una meditazione di Natale per un ateo? È impossibile, poiché egli nega la stessa ipotesi del Natale. Queste considerazioni sono, dunque, per un cattolico.
Di più. Questa non è una meditazione per un cattolico qualunque, bensì per uno che abbia un certo fervore, al punto di essere in grado, almeno in qualche misura, di essere impressionato dalle cose della religione. Non è una meditazione per cattolici tiepidi, come se ne trovano tanti oggidì.
Gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio suppongono un cattolico che si lasci impressionare e toccare con i temi religiosi, un cattolico con la voglia di essere coerente con la propria fede, che deduca dai principi religiosi alcune conseguenze per la sua condotta personale, ritenendo intollerabile essere incoerente. Sant’Ignazio propone quindi una meditazione sul Natale, richiamando all’ordine quei cattolici che magari si possono sentire attirati da uno di questi tre obiettivi idolatrici, dimenticando Dio a causa del denaro, dei piaceri o degli onori.
Vanità delle ricchezze
Prendiamo il primo obiettivo – le ricchezze – e domandiamoci: a cosa valgono le ricchezze di questo mondo?
Nostro Signore Gesù Cristo è il creatore del cielo e della terra, è la seconda Persona della Santissima Trinità, è Dio. Egli ha creato l’universo, perché le operazioni di Dio sono fatte congiuntamente dalle tre Persone della Santissima Trinità. Le tre Persone hanno creato tutta la ricchezza che esiste sulla terra. Insomma, tutto ciò che esiste di splendido, di bello e di utile, in grado di sostenere la prosperità di un uomo, è stato creato da Dio.
Vera effige di s. Ignazio di Loyola
Nessuno può avere una ricchezza paragonabile a quella di Dio.
Dio non solo ha creato tutte le ricchezze che esistono, ma possiede la forza infinita di creare tutte quelle che vuole, senza nessuno sforzo. Egli è onnipotente ed esercita la Sua onnipotenza con una facilità perfetta. Basta guardare le stelle del cielo per capire quanto facilmente Dio crea tutto. Con la stessa facilità con cui Egli crea un granello di sabbia, avrebbe potuto creare mille universi. Inoltre, Dio è ricco nella Sua essenza, molto di più che per quello che Egli ha creato.
Ora, questo Dio così infinitamente ricco ha voluto venire sulla terra come un povero, nato da un padre falegname e da una madre casalinga. Ha voluto nascere in una mangiatoia, cioè nel luogo più povero che si possa immaginare, avendo per riscaldamento il respiro di alcuni animali e come riparo non una residenza per uomini ma una stalla. È lì che il Verbo di Dio è nato!
Con questo gesto, Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto insegnare che l’uomo deve essere indifferente nei confronti delle ricchezze, quando si tratta di confrontarle col servizio di Dio. L’uomo deve vivere non per essere ricco ma per amare, lo-
dare e servire Dio su questa terra, salvo poi goderLo in Cielo per tutta l’eternità.
Così, questi uomini che vediamo intorno a noi, correndo scatenati dietro i soldi, avendo il possesso del denaro come unica preoccupazione della loro vita e meta della loro felicità, a punto di parlare soltanto di soldi, questi uomini sono dei veri sciocchi. Per quanto possano possedere, tutte le loro ricchezze sono appena un atomo di ciò che esiste nell’universo. Per Dio non sono altro che polvere e fango.
Immaginiamo l’uomo più ricco del mondo. Così ricco che il semplice indice dei suoi beni è più lungo dell’elenco telefonico: immobili, denaro contante, azioni, oggetti preziosi e via dicendo. Che cosa vale tutto ciò in confronto con Nostro Signore Gesù Cristo? Assolutamente niente!
Queste persone che vivono solo, o principalmente, per i soldi e fanno del loro possesso l’unico scopo della loro vita, sono dei veri stupidi. Essi calpestano la lezione che Nostro Signore Gesù Cristo ci ha dato nella mangiatoia di Betlemme. Qual è questa lezione?
A Betlemme Nostro Signore ci ha insegnato che l’uomo può legittimamente ambire ricchezze, acquisirle e gestirle, purché non si trasformino nel fine supremo della sua vita. Questo dovrebbe essere la gloria di Dio e della Santa Chiesa cattolica, dunque la vittoria della Contro-Rivoluzione. Le preoccupazioni finanziarie devono essere collaterali, altrimenti il cattolico – da vero stolto – inverte l’ordine dei valori e passa ad amare di più quello che dovrebbe amare di meno, e viceversa.
La vanità delle delizie
Per quanto riguarda le delizie, Nostro Signore Gesù Cristo avrebbe potuto avere nella mangiatoia i tessuti più preziosi; avrebbe potuto ordinare agli angeli di portarGli i profumi più piacevoli; avrebbe potuto far venire i musicisti più squisiti; avrebbe potuto avere un abbigliamento super-caldo; avrebbe potuto essere alimentato con i migliori cibi. In una parola, essendo il Padrone di tutto, avrebbe potuto godere, sin dal primo istante della Sua vita, di tutte le delizie della terra. Che cosa fece, invece? L’esatto opposto! È nato sulla paglia, un materiale il cui contatto non
dà alcuna gioia al corpo; in una stalla, dove gli odori non sempre sono piacevoli; tremando di freddo in piena notte d’inverno; avendo per sola musica il muggito degli animali. Cioè, il contrario di ogni delizia! Ha fatto tutto questo per mostrare agli uomini quanto sia sbagliato fare delle delizie lo scopo principale della vita.
Qual è, dunque, la lezione? Se è per il bene dell’anima e per la gloria di Dio, dobbiamo sbarazzarci da ogni piacere terreno, cercando unicamente il bene di Dio, della Madonna e della Santa Chiesa, anche a costa di molto sacrificio.
La vanità degli onori
In terzo luogo, gli “onori”, vale a dire la voglia smoderata di avere prestigio, spinto dall’egoismo. Che cosa sono gli onori? Sono i gesti di omaggio a una persona perché è più degli altri: più intelligente, più abile, più divertente, più diplomatica, più interessante, più gentile e via dicendo. In altre parole, sono gli atti di ossequio che una persona ritiene di dover ricevere per reali o immaginarie qualità personali.
La miseria umana è tale che a volte una persona può lusingarsi di una qualità che possiede davvero. Il famoso san Paolo Eremita, che viveva isolato nel deserto, a un certo punto ebbe la tentazione di lusingarsi per il fatto di essere l’uomo più vecchio sulla terra. Ora l’uomo più vecchio è anche quello più vicino alla sepoltura. Non c’è da lusingarsene! Evidentemente, egli vinse la tentazione.
Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto nascere spogliato da tutto ciò di cui potrebbe lusingarsi. È vero che Egli era della Casa Reale di Davide. Egli era principe di questo casato che, però, aveva ormai perso il potere politico, la fortuna e anche il prestigio sociale. Nell’ordine umano, Nostro Signore non era nessuno. Il Suo padre era un falegname e Sua madre una casalinga, come ho già detto.
Egli è nato come un paria, fuori dalla città perché nessuno ha voluto accogliere i suoi genitori. Essi avevano bussato di casa in casa chiedendo ospitalità. Nessuno ha voluto riceverli. Così ha scelto di nascere in una mangiatoia, per dimostrare fino a che punto sono sciocchi quelli che
Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto nascere in povertà per insegnarci la vanità delle ricchezze terrene
A dx., l’adorazione del Bambino Gesù, Beato Angelico, Convento di s. Marco, Firenze
hanno l’idea fissa di sembrare più degli altri. Invece di cercare di servire la causa cattolica, fanno della presunzione lo scopo della loro vita.
Applicazione pratica delle lezioni
Come possiamo trarre profitto da queste lezioni? Prima applicandole a noi stessi, alla nostra vita concreta. E poi cercando di convincere anche altre persone.
Quando vediamo qualcuno che non vive secondo la legge di Dio, ma solo per se stesso, dobbiamo avere il coraggio di dirgli: No! La tua condotta non è d’accordo con la volontà di Nostro Signore nel Vangelo! Nostro Signore, che è il re della Sapienza, insegnava il contrario. Se continui a comportarti in modo irrazionale, ti condannerai. Dobbiamo invece proclamare: Beato chi rinuncia alla ricchezza, ai piaceri e agli onori. Oppure ha ricchezze, piaceri e onori, ma è sempre pronto a rinunciarvi, di un momento all’altro, per la causa cattolica. Io ammiro chi è pronto a qualsiasi rinuncia! Gli altri, invece, io li disprezzo. Io non posso ammirare una persona che vive come non dovrebbe.
Applicando le lezioni a noi stessi, dobbiamo domandarci: nei rapporti con gli altri, che cerco? Cerco di essere lusingato per la mia ricchezza? Per la vita di piaceri che conduco? Per un qualche titolo di superiorità? Se è così, allora non valgo niente! Io non dovrei desiderare le lusinghe degli altri, bensì che amino Dio sempre di più. Se io cerco di farmi lusingare invece di fare amare Dio, allora sto rubando a Dio ciò che Gli è dovuto. Io dovrei preoccuparmi esclusivamente di dedicare tutta la mia anima a Dio, alla Madonna e alla Santa Chiesa Cattolica.
Secondo la scuola di Sant’Ignazio, dovremmo giorno e notte avere queste considerazioni davanti agli occhi, eliminando dalla nostra anima, come uno che strappa le erbacce dal giardino, qualsiasi considerazione banale che mi possa portare ad amare il denaro, i piaceri o gli onori.
Ciò presuppone, naturalmente, molta preghiera perché, con le sole forze della sua volontà, l’uomo è incapace di non pensare alle banalità. Queste sono considerazioni spesso molto ardue, che abbiamo difficoltà nel mantenere sempre in vista. E anche se riusciamo a tenerle sempre in vista, abbiamo difficoltà nel rinunciare ad alcune cose. Per raggiungere tale obiettivo, serve preghiera e mortificazione.
Dobbiamo orientare tutta la nostra vita secondo questa idea: distacco dal denaro, dai piaceri e dagli onori.
Ecco una meditazione sul Natale fatta secondo la scuola di Sant’Ignazio di Loyola.
* Riunione per soci e cooperatori della TFP brasiliana, 29 dicembre 1973. Tratto dalla registrazione magnetofonica, senza revisione dell’autore.
La festa della venuta della Santa Casa di Maria a Loreto
di Federico Catani
L
Nelle Marche, le festività natalizie iniziano il 10 dicembre, con la festa della venuta della Santa Casa di Loreto e la tradizione dei “fuochi”, oggi per fortuna in ripresa.
e Marche – il cui nome stesso, al plurale, è indicativo – sono caratterizzate da una grande varietà di usanze, spesso diverse da paese a paese. Anche per quanto riguarda le festività natalizie è difficile individuare una tradizione comune, a parte, forse, quel che riguarda alcuni aspetti gastronomici.
Ce n’è però una che sembra accomunare maggiormente tutti i borghi e le città marchigiane, dal nord al sud: la festa della Madonna di Loreto o, come sarebbe meglio dire, della Traslazione della Santa Casa, il 10 dicembre. La Vergine Lauretana è la patrona della Regione e anche a livello laico, le istituzioni già da diversi anni hanno deciso di proclamare il 10 dicembre “Giornata delle Marche”.
A questa festa sono legate tradizioni secolari che purtroppo, a seguito dei profondi mutamenti sociali e culturali avvenuti a partire dalla fine degli anni Sessanta si sono andate perdendo. Bisogna però dire che negli ultimi tempi si è assistito ad una ripresa, dettata specialmente dal desiderio di conservare il prezioso e ricco patrimonio folkloristico locale.
Tradizionalmente è la sera e la notte della vigilia della Madonna di Loreto che avvengono le manifestazioni più importanti e caratteristiche. Quella del 9 dicembre, infatti, per i marchigiani è la sera della “Venuta”, ovvero la notte in cui si ricorda la Traslazione miracolosa, avvenuta per mano angelica, delle tre pareti integre della Santa Casa di Nazareth (dove visse la Santa Famiglia) sul colle lauretano. I fatti risalgono al 1296, anche se il misterioso viaggio della Santa Casa iniziò già nel 1291, contemplando in totale ben cinque traslazioni, di cui una a Tersatto (in Croazia) e le altre tra Ancona e Loreto.
A livello popolare e in maniera spontanea, i festeggiamenti per la venuta della Santa Casa incominciarono quasi subito, fin dal XIV secolo. Si ebbe però la loro ufficializzazione e celebrazione in maniera organizzata nel XVII secolo, soprattutto grazie alla predicazione e all’opera dei cappuccini padre Bonifazio di Ascoli e fra Tommaso di Ancona. Nel 1624, il comune di Recanati (cui Loreto allora apparteneva), dispose che la sera del 9 dicembre «con lo sparo dei mortari e col suono di tutte le campane, si faranno fuochi sopra la terra del comune e si metteranno i lumi a tutte le
finestre della città e si accenderanno fuochi da’ contadini di tutte le campagne».
Da qui è iniziata la tradizione dei “fuochi” (detti “focaracci” nel maceratese e fermano, “fugarò” nell’anconetano e “fochère” nell’ascolano) che si accendono nelle campagne, nei piazzali delle chiese e nei quartieri dei borghi di tutta la regione per illuminare la strada alla Madonna e a Gesù Bambino che arrivano in volo sulla loro casa. Non è un caso che in tantissime chiese marchigiane si conservino tipici gruppi scultorei, solitamente in legno, raffiguranti la Santa Casa a forma di chiesetta, munita di un piccolo campanile e con sopra la Vergine e il Bambino. Ecco perché nella regione la Madonna di Loreto è conosciuta anche come Madonna del “tettarello” (nel maceratese “de li cuppitti”), ovvero del tetto, perché è raffigurata sopra il tetto della casa.
Pur variando da paese a paese, da quartiere a quartiere e anche da famiglia a famiglia, generalmente i “fuochi della Venuta” venivano accesi prima o dopo cena ma comunque, ovvio, sempre di notte. La gente si radunava attorno al falò, recitava il Santo Rosario e cantava le litanie lauretane. Aggiungendo poi canzoni ed inni mariani di devozione popolare. Ogni casa ed abitazione, inoltre, metteva almeno un lumino alla finestra o sul davanzale.
Tutto ciò è stato recentemente e lodevolmente ripreso da numerose parrocchie e comunità locali. Un tempo era poi tradizione che i nonni o i genitori raccontassero ai più piccoli la storia della miracolosa Traslazione. E non è difficile immaginare quanto a tutti i bambini questo stimolasse la fantasia.
Il momento culminante comunque avveniva alle 3 di notte, l’ora in cui si riteneva che le tre Pareti fossero approdate nel punto in cui ancora si trovano e si venerano. Generalmente in quell’orario le campane suonavano a festa e molti capifamiglia sparavano diversi colpi di fucile dalle finestre per accogliere la Venuta. Poi ci si recava in chiesa per pregare e sovente era prevista la celebrazione della Messa.
Oggi purtroppo questa tradizione è totalmente scomparsa, fatta eccezione – a conoscenza di chi scrive – di un volenteroso abitante di Tolentino (Mc), che ogni anno si reca in chiesa per salutare la Vergine Maria con qualche tocco di campana ed un Rosario cui si uniscono alcuni fedeli devoti. Sotto, il Santuario della Madonna di Loreto a Natale
Pagina precedente, la Santa Casa all’interno della Basilica: “Hic Verbum caro factum est”
A Milano l’ambiente natalizio si fa già sentire dal 7 dicembre con la Festa di sant’Ambrogio, Patrono della Città, e con la popolare Fiera degli Oh Bej Oh Bej, risalente al secolo XIII
M
ediolanum, ovvero il “luogo in mezzo alla terra”, è da sempre una grande città occidentale che fa l’occhiolino all’Oriente. Ce lo racconta non solo la sua vocazione da sempre multiculturale e cosmopolita, da non confondersi con le correnti accezioni, ma da interpretarsi in modo “imperiale”: ossia, con quell’ampio respiro che ha fatto grande Milano in questi secoli, annoverandola talvolta fra le capitali – non solo morali – d’Europa. E quest’inclinazione ad essere un crocevia ce lo testimonia anche la liturgia ambrosiana, con il suo Avvento lungo sei settimane (esattamente come nelle tradizioni liturgiche orientali): un cammino di preparazione alla Natività del Signore ed ai suoi misteri. Sei settimane che ricordano al popolo cristiano la Prima Venuta del Signore, e che richiamano il cuore e la mente a riflettere sul suo Secondo e definitivo Avvento. Ma non poteva non avere, in questo percorso, un ruolo fondamentale Nostra Signora: l’ultima domenica di Avvento la Chiesa Ambrosiana celebra la Divina Maternità
della Beata Vergine Maria, quasi a sottolineare (nell’imminenza della festa vera e propria del Natale del Signore) che ogni volta che celebriamo la Madre, celebriamo anche il Figlio.
Questo lungo periodo che parte dalla prima domenica dopo la festa di San Martino fa brillare Milano di festose luci: il 7 dicembre la Città celebra il suo Patrono, Ambrogio, con solenni celebrazioni e belle tradizioni. Spicca, fra queste la Fiera degli Oh Bej! Oh Bej!, da sempre il mercatino natalizio dei milanesi.
Se le prime attestazioni storiche di questa festa risalgono al 1288, quando – narrano le cronache – si svolgeva una festa in onore di sant’Ambrogio nella zona dell’antica santa Maria Maggiore (la Basilica Vetus, adibita dai milanesi alla funzione di cattedrale invernale prima della costruzione del Duomo), a buon diritto possiamo pensare che le origini del mercato fossero ben più arcaiche, e forse anche paleo-cristiane.
Comunque sia, il nome della festa come oggi la conosciamo, con le sue luci, le sue bancarelle e i suoi colori debbono essere fatte risalire al 1510 e coincidono con l’arrivo in città di Giannetto Castiglioni, alto dignitario dell’Ordine di San Lazzaro, incaricato dal Papa Pio IV (zio di san Carlo Borromeo) di recarsi nella città ambrosiana con la precisa missione di riaccendere nei fedeli milanesi la devozione e la fede verso i Santi.
Narra la tradizione che, giunto nei pressi della città, Giannetto ebbe il timore di non esser accolto con molto favore dalla popolazione milanese, piuttosto fredda nei confronti del Papa: era il 7 dicembre, giorno in cui Milano festeggiava il suo patrono Ambrogio. Quale captatio benevolentiae, Giannetto decise allora di approntare un gran numero di pacchi, riempiti con dolciumi e giocattoli. Varcate le porte di Milano, iniziò con il suo seguito a distribuire il contenuto dei pacchi ai bambini milanesi, che al ricevere i graditi e golosi doni, proruppero in esclamazioni di gioia gridando: “Oh bej! Oh bej!” (“Oh belli! Oh belli!”), accettando così di buon grado i doni del messo pontificio. Con lui, tutti coloro che si erano radunati intorno al corteo insieme ad una gran folla di cittadini raggiunsero dunque la Basilica di sant’Ambrogio attorniati da una folla festante.
Per questo, da allora, l’antica e già esistente fiera che si teneva nel periodo della festa dedicata a sant’Ambrogio divenne la fiera degli Oh bej! Oh bej!
Venivano allestite bancarelle di vestiti, vecchi giocattoli, e soprattutto di prodotti gastronomici tipici dell’epoca e di cui i milanesi andavano, e ancora vanno, ghiotti: mostarda di frutta, castagnaccio e gli immancabili firòn: castagne affumicate al forno, bagnate nel vino bianco e infilate in lunghi spaghi.
Questa bella fiera, che apre la stagione na-
talizia milanese, ha vissuto traslochi importanti: nata in prossimità di santa Maria Maggiore, dal 1886 fino ad alcuni anni or sono si era spostata attorno alla Basilica di Sant’Ambrogio, collocazione che regalava un fascino unico nel suo genere; oggi si svolge a Piazza Castello. E sebbene la Fiera assuma sempre più caratteristiche internazionali, la “milanesità” della festa si gusta con ancora le castagne, il vino, la mostarda e il castagnaccio: sapori tradizionali e immancabili, perché ogni festa richiede ed è fatta anche dalla sua dimensione materialmente umana. Non per nulla, la Divina Maternità di Maria e il Natale alle porte, ci ricordano che Nostro Signore ha voluto assumere la nostra natura umana in tutto e per tutto, eccetto il peccato: e dunque anche aspetti materiali come il gusto, forse molto terreni, ma certamente piacevoli, sono meritevoli anch’essi di santificazione. E santificare la festa significa condividere con chi amiamo il gusto di cibi semplici e nel contempo speciali, e particolarmente gradevoli. A proposito: nell’aria, già sembra di sentire il profumo del panettone: ma questa è un’altra storia natalizia, tutta milanese. Sotto, l’albero di Natale a piazza Duomo
Pagina precedente, la Fiera degli Oh Bej Oh Bej in piazza Castello, davanti all’imponente Torre del Filaretto
Il presepe napoletano di Nicla Cesaro
L
a parola presepe significa mangiatoia, greppia. Dal 1200, la parola sta ad indicare le rappresentazioni a tutto tondo sia della Natività sia di scene successive, quali l’Adorazione dei pastori, dei Magi, ecc.
Il presepe a Napoli diventa, col passar dei secoli, sempre più lontano dalla rappresentazione pedissequa dell’evento storico, e più rappresentativo della condizione di vita del popolo napoletano. La sofferenza di Cristo, nato povero e adagiato in una greppia, raccoglie l’anelito di un popolo che aspetta la Redenzione. Per questo nel presepe napoletano compaiono tante figure, tante scene. Il popolo tutto, di tutte le classi sociali, commosso dall’umanità Divina e cosciente del Sommo Sacrificio a cui Cristo, fatto Uomo, si offre, è presente ed adora il Divino Neonato. Nel 1205, a Napoli, nella chiesa di Santa Maria (che poi si chiamerà del Presepe) viene allestito il primo presepe di cui si ha notizia. Nel 1324, ad Amalfi (Salerno), esisteva in casa d’Alagni una cappella del presepe mentre nel 1340 la regina Sancia dona alle Clarisse un presepe ligneo di cui rimane solo la Madonna Giacente (Museo di San Martino).
Nei secoli successivi la produzione presepiale fu varia ed affidata ad artisti di grande spessore. Si ricordano gli Alemanno (presepe ligneo di 41 statue, per la chiesa di San Giovanni Carbonara nel 1478), il Berverte (San Domenico Maggiore), il
Rossellino (Sant’Anna dei Lombardi). Di grande spessore artistico il Marigliano, detto Giovanni da Nola, che scolpì un presepe ligneo, commissionatogli da Jacopo Sannazzaro in occasione della pubblicazione del poema “De partu Virginis”. Alla fine del ‘500, in pieno clima di Controriforma, ad opera di Teatini, Francescani, Gesuiti e Scolopi, il presepe ebbe a Napoli un impulso notevolissimo, con scopo didattico liturgico, poiché erano presepi poliscenici e smontabili e rappresentavano diverse tappe della narrazione evangelica.
Nel XVIII secolo, l’arte presepiale napoletana conosce il suo massimo fulgore. Il fiorire delle arti, del diritto, della filosofia, della cultura tutta, rese Napoli una delle città più brillanti d’Europa e la presenza di sovrani capaci e ispirati da valori cattolici, diede impulso a questa consolidata tradizione. Già Filippo V, nel 1702, rientrò in Spagna da Napoli, portando con sé diverse figure di “pastori” e allestiva ogni anno, nel palazzo del Buen Retiro, il presepe. Suo figlio, Carlo III e sua moglie, Maria Amalia di Sassonia, ereditarono dal sovrano questa devota consuetudine e, spinti da grandissima fede religiosa e consigliati dal domenicano padre Rocco, favorirono il diffondersi dell’arte presepiale, dedicandosi essi stessi all’allestimento delle scenografie e alla confezione di statuine e vestiti Tale abitudine fu conservata, dopo la partenza di re Carlo per la Spagna, da suo figlio Ferdinando IV e da Ferdinando II, nelle regge di Caserta, Portici, Carditello, San Leucio, e dovunque i sovrani decidessero di trascorrere il Natale.
Naturalmente la corte imitò i sovrani e la connotazione del presepe diventò presto “cortese”.
È vero che la simbologia presente nel presepe settecentesco indica il trionfo del cristianesimo sul paganesimo (il tempio in rovina vicino alla grotta, gli angeli che annunziano ai pastori la nascita del Signore, deposto nella mangiatoia, umile come loro) ma il presepe perse la valenza ieraticamente evocativa che aveva avuto finora. Forse proprio per questo, un Dottore della chiesa, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nel dicembre del 1754 scrive il canto “Quanno nascette ninno” di cui scriverà anche una versione italiana il cui nome è “Tu scendi dalle stelle”.
Nelle strofe della versione in napoletano, accanto alla spontaneità con cui poteva avvenire l’adorazione della nascita di Cristo ad opera del popolo, vi è chiarissimo l’intento di affermare il prodigio della Nascita di Cristo. Nell’uso delle parole, il miracolo della Sua nascita è delineato non come un “risorgere” in un ciclo naturalistico continuo e necessario, ma è un evento storico, un atto d’AMORE voluto e libero. Il VERBO si è fatto Carne. Non è uno dei tanti dei della natura arcadica e bucolica che sembrava avere tanta presa nell’immaginario settecentesco. GESÙ è DIO. Ha creato la natura, si incarna e tutti, Madonna, Angeli, pastori intonano canti e nenie per questo DIO Bambino. Nelle strofe del canto di sant’Alfonso, è chiaro l’intento morale, l’allocuzione al popolo che deve seguire l’esempio dei pastori e deve pentirsi dei peccati, per presentarsi al Dio Bambino
Luce. Le ultime strofe del canto sono inequivocabili. Il peccatore è nero come la pece ma se pentito, la misericordia di Dio può ricondurlo alla luce, allo splendore morale.
Ed è per questo che gli ultimi quattro versi sono rivolti a Maria. Maria Speranza. Maria Madre. Madre di Dio fatto Uomo. Madre anche di noi uomini, peccatori.
Storia del presepe
di Giovanna Patti
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Le origini del presepe
L’Italia è la culla del presepe. Da quando, nel Natale del 1223, il Poverello di Assisi allestì il primo presepe, l’usanza di rappresentare le scene natalizie con statue, o figure dal vivo, si è diffusa su tutta la Terra. Il nostro Paese vanta una ricchezza impareggiabile nell’arte natalizia. Ma, forse, nessuna è più preziosa del presepe napoletano, vero capolavoro dell’artigianato italiano
in dai primordi dell’Era cristiana la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, evento centrale della redenzione del genere umano, fu raffigurata per mezzo di affreschi, bassorilievi, incisioni, su pareti, sarcofagi e formelle inseriti in edifici del culto. Tali testimonianze sono numerosissime e anche molto importanti perché l’evoluzione della loro iconografia interesserà anche lo sviluppo del presepe.
Nel corso dei secoli il termine presepe (dal latino praesaepium, che significa greppia, mangiatoia) è stato attribuito via via soltanto alle rappresentazioni plastiche a tutto tondo sia della sola scena della Natività sia di quelle aggiunte nel tempo, come l’Adorazione dei pastori, l’Adorazione dei tre Re Magi, l’Annuncio ai pastori e via dicendo. Ma nessun reperto o testimonianza scritta sulle opere dedicate alla Natività ci è giunto se non fino alla prima metà del 1200.
D’altra parte una sorta di presepe embrionale può essere individuato nella “tettoia” di legno retta da tronchi d’albero che già Papa Liberio (352-355) fece erigere a Roma nella Basilica detta appunto “Santa Maria ad praesepe”, oggi nota come Santa Maria Maggiore.
Una tettoia siffatta, quasi lo schema essenziale di una stalla, fu posta davanti all’altare presso il quale, il 24 dicembre di ogni anno, si celebrava la Santa Messa di mezzanotte. Altre “tettoie” furono erette in numerose chiese a Roma (Santa Maria in Trastevere), a Napoli (Santa Maria della Rotonda) e certamente in molte altre città.
Si sa pure che Papa Gregorio II (731-734) fece sistemare sotto la tettoia di Santa Maria Maggiore una statua d’oro della Madonna con il Bambino e che anche in altre chiese furono collocati sotto tali tettoie statue o decori che ricordavano il Sacro Evento.
Secondo un’antica tradizione fu san Francesco d’Assisi (1182-1226) ad ideare il presepio, nella santa notte di Natale del 1223 a Greccio, nella conca reatina. Seguendo una profonda ispirazione, il Santo si fece portare nella grotta dove si sarebbe svolta la celebrazione liturgica una mangiatoia piena di fieno dove c’erano un asino e un bue vivi, e poi fece suonare le campane per chiamare i pastori e i contadini dei dintorni. Nella commozione del momento, tra i canti e la solennità del rito, gli astanti videro tra le braccia di san Francesco un bambinello, fulgido per la bellezza e l’intensa luce che da esso promanava. Via, via, poi, il presepe si è andato formando attraverso un insieme di usi, tradizioni, costumi, addobbi, quadri nelle chiese e sacre rappresentazioni.
Il primo presepe con personaggi risale al 1283: un’opera poderosa scolpita da Arnolfo di Cambio, su committenza di Papa Onorio IV, al secolo Giacomo Savelli (1210-1287). Di essa restano, oggi, solo cinque figure originali. L’Ordine religioso che per primo favorirà la diffusione del presepe fu, senza dubbio, quello francescano, ma a partire dall’epoca della ControRiforma saranno anche i
Teatini e gli Scolopi diedero il loro contributo.
Il presepe napoletano
A Napoli la prima notizia dell’allestimento di un presepe risale al 1025, realizzato nella chiesa di Santa Maria del presepe. In un documento del 1324 è, poi, citata ad Amalfi una “cappella del presepe di casa d’Alagni”. Nel 1340 il primo presepe ligneo fu donato dalla regina Sancia alle Clarisse: di esso rimane solo la Madonna giacente.
Nel 1400 compaiono i primi presepi scolpiti in legno, quelli in terracotta nel 1500.
Verso la prima metà del XVI secolo il presepe napoletano assume la propria forma caratteristica. Il primo presepio plastico moderno, merito, secondo la tradizione, di San Gaetano da Thiene (1480-1547) sarà realizzato, intorno al 1530, nell’oratorio di Santa Maria della Stelletta, presso l’Ospedale degli Incurabili, con figure di legno abbigliate secondo la foggia del tempo.
Ma è il patriziato locale a favorirne la diffusione, fino a farlo diventare popolare: ogni famiglia per Natale allestiva il suo presepe domestico.
Nel secolo della Controriforma inizia a comparire il paesaggio in rilievo che sostituisce quello del fondale dipinto; e al bue e all’asinello - unici animali rappresentati - si aggiungono man mano cani, pecore, capre e altri animali. Si intensifica anche la costruzione di presepi con figure di dimensioni sempre più ridotte fino a giungere alla realizzazione del primo presepe mobile a figure articolabili, allestito dai padri Scolopi nel 1627.
Il secolo d’oro del presepio a Napoli è, però, il Settecento, che coincide con il regno di Carlo III di Borbone. Il Sovrano mecenate riportò la città partenopea al livello delle più ferventi capitali europee, alimentando una meravigliosa fioritura culturale e artistica, testimoniata anche dalla magnifica produzione di presepi. Il tradizionale presepe napoletano era, ed è, costituito da statuine con un’anima di ferro imbottita, testa in terracotta e vestiti in stoffa.
In questo periodo cambiano, invero, le tecniche di realizzazione del “pastore” - termine con il quale s’individua qualsiasi personaggio del presepio - sostituendo la statua scolpita, la cui fattura richiedeva troppo tempo, con manichini costituiti da un’anima di fil di ferro, arti in legno e teste di terracotta ricavate da piccoli stampi, che avevano anche il pregio di poter essere articolati come richiedeva il personaggio, rappresentato nell’atto in cui veniva colto, dando l’impressione del movimento. Il “figurinaio” diviene una vera e propria professione, che coinvolge anche le donne di casa adibite al taglio e cucito delle vesti, con specializzazioni diverse, nella realizzazione di pastori, di animali, di strumenti di lavoro e musicali, di prodotti dell’orto e minuterie varie, tutto riprodotto in scala. Nella creazione di figure insuperabile è Giuseppe Sammartino, mentre Saverio Vassallo eccelle nell’esecuzione degli animali. Nasce lo “scoglio”, una sorta di sperone roccioso che, a seconda delle di-
mensioni può ospitare la scena del “Mistero” (Maria, Giuseppe, il Bambino Gesù, Angeli, bue e asinello) o costituire la base per tutto il paesaggio presepiale.
La grotta, con una miriade di Angeli che scendono dall’alto viene sempre più spesso sostituita con le rovine di un tempio antico; la scena della Natività è sempre più defilata e quasi soffocata nello scenario circostante sovrabbondante di personaggi e paesaggi, nei quali spicca il corteo dei Magi reso più esotico dal seguito dei “mori” abbigliati con vesti orientali dai colori sgargianti. Aumenta il numero dei personaggi che diventano folla di contadini, pastori, pescatori, artigiani, mendicanti, popolo minuto e notabili, tutti colti nelle loro attività quotidiane o in momenti di svago, nei mercati, nelle botteghe, taverne, vie e piazze in scorci di vita cittadina o paesana.
Il presepe diventa moda
Lo stesso Re, abile nei lavori manuali e nella realizzazione di congegni, si circonda di scenografi, artisti e architetti. Tra questi Giovan Battista Nauclerio che, attraverso tecniche di illuminazione, simulava il passaggio dal giorno alla notte e viceversa. E ancora Cappello e De Fazio, nonché il dilettante Mosca, impiegato e geniale presepista. La Regina e le dame di corte confezionano minuscoli abiti per i manichini con le stoffe tessute negli opifici reali di San Leucio. Un grandioso presepe viene allestito in alcuni saloni del Palazzo reale di Napoli, con centinaia di personaggi e una gran cura per i dettagli.
I nobili naturalmente imitano il sovrano rivaleggiando tra loro per sontuosità e ricchezza dei materiali utilizzati: gemme preziose, magnifiche stoffe catturano l’attenzione del “popolino”, ammesso nelle case patrizie per ammirare il presepio.
Famosi i presepi allestiti per il principe di Ischitella, con i Magi abbigliati con vesti dove brillavano innumerevoli gioielli.
Il presepio si diffonde anche presso il popolo partenopeo, in forma ovviamente meno sontuosa: ogni casa ha comunque il suo presepio, seppure con pochi “pastori” raggruppati su un minuscolo “scoglio” o dentro la “scarabattola”, una teca da appendere al muro o tenere sul comò.
È tale la frenesia del presepe di Napoli, da suscitare le critiche, pur bonarie, dell’architetto Luigi
Vanvitelli che, nel 1752 scrivendo al fratello Urbano a Roma, definisce il presepe una “ragazzata” pur rilevando “l’abilità” e la “efficace applicazione” dei napoletani.
Il presepe settecentesco, non a caso definito cortese, di sacro, ormai, conservava ben poco. Si rivela più un’esperienza mondana: l’avvenimento e il passatempo principale delle festività natalizie, quando il Re e la corte visitavano i presepi più rinomati della Capitale del regno che, talvolta, riuscivano a stupire anche la Regina, come accadde a Carolina nel 1768, alla vista del presepe allestito nella chiesa di Gesù Nuovo.
Tuttavia l’universalità e la spettacolarità che si accompagnano all’evento presepio nel ‘700 e le critiche che ne conseguirono, nulla tolgono alla valutazione del fenomeno come concreta espressione d’arte barocca, né ai suoi caratteri di tangibile documento storico, descrittivo dei costumi, delle usanze e delle tradizioni del popolo napoletano in un’epoca che vide Napoli splendida capitale di cultura e d’arte e meta irrinunciabile di colti viaggiatori italiani e stranieri.
Dopo il regno di Ferdinando IV (1751-1825) il presepe comincia a decadere. La maggior parte di essi viene definitivamente smontata, i pastori venduti o dispersi. Tra i pochi salvati, va ricordato quello, magnifico, donato dallo scrittore Michele Cuciniello alla città di Napoli e conservato nel Museo della Certosa di San Martino.
Il presepe napoletano oggi
A Napoli il presepe è una delle tradizioni natalizie, rimasta inalterata nei secoli, tra le più consolidate e seguite. Teatrale, maestoso, allegro, vivace e festaiolo: nella realizzazione del tipico presepe napoletano vi è ancor oggi la tendenza ad ispirarsi al Settecento, la cui portata ed il lascito culturale risiede nel realismo delle sue rappresentazioni, con un misto di sacro e profano.
Non più solo simbolo religioso, il presepe è anche uno strumento descrittivo, unificante e identificativo della comunità cui una persona appartiene, nella sua dettagliata composizione. Si potrebbe affermare che il presepe napoletano è stato, e rimane, un veicolo di identificazione della “gens napoletana”
e l’antesignano di quel realismo che ha caratterizzato le rappresentazioni teatrali e le produzioni cinematografiche partenopee.
Oggi molti maestri artigiani costruiscono, oltre alle classiche statuette, anche pastori che rispecchiano personaggi dei nostri tempi, specialmente del mondo della politica e anche di quello dello sport. Quindi non c’è da meravigliarsi quando si trovano nelle vetrine.
In molte località della Campania, varie associazioni promuovono nel periodo natalizio l’apertura delle botteghe al pubblico, che può così vedere gli artigiani all’opera, ed esposizioni di presepi antichi e contemporanei. Famose, per esempio, quelle della zona di S. Gregorio Armeno, nel Centro storico di Napoli, con i suoi mercatini di strada.
Una storia di Natale bavarese
P
“Sono Gesù. Vengo a visitarti!”
aul è seduto sui freddi gradini di pietra della chiesa di S. Giacomo, in una piccola città della Baviera, in Germania. Come sempre, chiede elemosine. Con gesto mesto e gentile, apre la porta ai fedeli, regalandogli un sorriso che mostra una bocca quasi priva di denti.
Paul ha 50 anni. È un mendicante senza fissa dimora che lotta per sopravvivere. Il suo corpo è consumato non solo dal freddo e dalla fame, ma anche dall’eccesso di alcol. Sembra molto più vecchio di quanto non sia in realtà. “Se solo avessi la forza di combattere questa dipendenza!”, pensa di continuo... E, ogni giorno, fa il fermo proposito di smettere di bere.
Ma quando arriva la sera, e con essa il ricordo della sua famiglia persa in un brutto incidente, non resiste, e ricorre al conforto fallace della bottiglia. La bottiglia di vino è la sua compagna fedele. L’alcol lenisce il vuoto nella sua anima, ma è solo per un po’. La cirrosi epatica e altre malattie, inesorabili, vanno poco a poco, consumando il suo corpo. Per gli abitanti del villaggio, Paul è diventato una parte integrante dei gradini della chiesa, quasi come fosse una statua in più. E lo trattano proprio così. A mala pena lo guardano. Tutti si domandano per quanto tempo potrà ancora campare.
Il parroco e il suo assistente pastorale si prendono cura di lui. Ma è soprattutto Suor Petra, una giovane missionaria venuta da Monaco, a fargli ogni giorno una visita. Paul è contento delle visite di Suor Petra, che gli porta sempre qualcosa da mangiare. Ma nemmeno la religiosa riesce a convincere Paul ad abbandonare la strada e a venire in Canonica per mangiare meglio e lavarsi. * * *
Ogni sera dopo il tramonto, senza che nessuno lo veda, Paul s’intrufola nella chiesa ormai al buio, e si siede al primo banco, proprio di fronte al Tabernacolo. Vi resta in silenzio, quasi senza muoversi, per circa un’ora. Poi si alza e, trascinando i piedi, esce dalla chiesa e scompare nella notte. Dove va? Nessuno lo sa. Il giorno dopo, eccolo lì, ancora seduto sui gradini del sagrato come una statua.
E così passano i giorni, i mesi, gli anni… Un giorno, Suor Petra gli chiede: “Paul, vedo che tu entri in chiesa ogni sera. Cosa ci fai fino a notte fonda? Forse preghi?”.
“Non prego – risponde Paul – Come potrei pregare? Io non prego da quando ero ragazzo e andavo al Catechismo. Ho dimenticato tutte le preghiere. Non ricordo più niente. Cosa ci fac-
Suor Petra si siede vicino a Paul, gli prende la mano e prega a lungo. Poi, deve tornare in chiesa per addobbarla per le cerimonie di Natale. Il giorno dopo torna in ospedale, psicologicamente preparata per ricevere la brutta notizia della morte di Paul. E invece…
La giovane missionaria non crede ai suoi occhi: Paul è seduto sul letto, rasato e pulito, con gli occhi aperti e vivaci. Vedendo la Suora, un’espressione di gioia ineffabile lampeggia sul suo viso radioso. Suor Petra non riesce nemmeno a parlare, e pensa: “Questo è davvero l’uomo che ieri combatteva con la morte?”. Alla fine, esce dallo stupore: “Paul, è incredibile! Sei risorto! Sei irriconoscibile! Cosa ti è successo?”.
cio in chiesa? È molto semplice. Vado al Tabernacolo, dove Gesù si trova solo nel suo piccolo santuario, e Gli dico: ‘Gesù, sono io, Paul, vengo a visitarti. Così almeno qualcuno ti fa un po’ di compagnia’”.
La mattina della vigilia di Natale, i gradini del sagrato sono vuoti. Paul non c’è più! Preoccupata, Suor Petra comincia a cercarlo in giro. Alla fine lo trova nell’ospedale del paese vicino. Nelle prime ore del mattino, alcuni passanti lo hanno trovato incosciente sotto un ponte e hanno chiamato l’ambulanza. Paul è stato ricoverato.
Vedendolo, la missionaria è impallidita. Paul è collegato a diversi tubi, il suo respiro è debole. Il volto ha il tipico colore giallastro dei moribondi. Una voce la distoglie dal turbamento: “Lei è una parente?”. È il medico curante. “No, non lo sono – risponde Suor Petra – ma mi prenderò cura di lui”. Il dottore scuote la testa: “Purtroppo non c’è molto da fare, sta morendo”.
“È successo ieri notte dopo che tu te ne sei andata – rispose Paul con voce ferma – Stavo malissimo e temevo proprio di non farcela. Improvvisamente, ho visto qualcuno accanto al mio letto. Era un uomo giovane bellissimo, magnifico, raggiante. Non puoi nemmeno immaginare! Mi ha detto, sorridendo: ‘Paul, io sono Gesù, vengo a visitarti’. Mi sono addormentato e, proprio oggi, giorno di Natale, mentre suonavano le campane, mi sono risvegliato guarito”. * * *
Da quel giorno Paul non ha assaggiato più una goccia di alcol. Suor Petra ha trovato per lui un’occupazione come giardiniere e una stanzetta nella casa parrocchiale. Da quel Natale, la sua vita è cambiata del tutto. Paul ha trovato nuovi amici nella parrocchia. Se può, dà una mano a Suor Petra nei lavori. Una cosa, però, non è cambiata. Quando cala la notte, Paul s’intrufola in chiesa, si siede di fronte al Tabernacolo e dice: “Gesù, sono io, Paul, vengo a visitarti”.
(Breve storia pubblicata come veridica in Wöchentliche Depesche Christlicher Nachrichten, N° 50, 2010)
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