Maurizio Ascari intervista Vittorio Giardino

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Intervista a Vittorio Giardino by Maurizio Ascari

Vittorio Giardino è oggi uno dei più noti romanzieri a fumetti italiani, celebrato per il suo uso della “linea chiara”. Le sue numerose opere spaziano per generi e temi in vasti territori narrativi. Il detective seriale Sam Pezzo, la cui prima avventura – Piombo di mancia – risale al 1979, opera sullo sfondo di una Bologna ibridata con gli scenari hard-boiled. La saga dell’agente segreto Max Fridman, apertasi con Rapsodia ungherese nel 1982 e proseguita con La porta d’oriente nel 1985, è di recente culminata nella trilogia No Pasarán (2000-2008), ambientata in Spagna all’epoca della guerra civile. I primi due volumi della trilogia di Jonas Fink (1991, 1998) – un giovane ebreo di estrazione borghese, destinato a crescere in una Praga post-bellica a lui ostile per le sue appartenenze sociali e religiose – stanno trovando la logica conclusione nel terzo episodio, cui l’autore lavora attualmente. I libri di Giardino sono tradotti in tutto il mondo e qui in Italia sono stati in parte ripubblicati in anni recenti dal Gruppo Editoriale L’Espresso in una edizione che costituisce di per sé un omaggio alla carriera. Incontro l’autore nella sua casa, a pochi giorni dal suo ritorno da un festival letterario in Francia. MA: Innanzitutto grazie per avere accettato di rilasciare questa intervista. La prima domanda che ti rivolgerò è per te scontata, ma serve a dare ai nostri lettori una cornice. Iniziamo dalla tua conversione sulla via di Damasco, quando hai deciso di abbandonare la carriera di ingegnere per diventare fumettista. Secondo te che rapporto c’è tra mentalità scientifica e umanistica ovvero tra le due forme di creatività che hai sperimentato? VG: Dal punto di vista della forma mentale è vero il vecchio luogo comune che le differenze sono minori di quanto sembra, perché le doti che servono sia in un caso che nell’altro sono simili – e parlo della parte tecnicoscientifica del mestiere di ingegnere, non della parte commerciale. In altre parole, la fatica mentale dell’immaginare storie che abbiano un senso e una struttura compiuta non è molto diversa dalla fatica mentale di immaginare una macchina che risolva un determinato problema pratico. Naturalmente il background che ci vuole per operare nella scienza non è strettamente necessario per operare nella letteratura e nell’arte. Le due attività


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richiedono competenze diverse, ma neanche troppo, perché io credo poco agli artisti naif. In ogni caso, io sono molto contento di avere una certa competenza tecnico-scientifica perché questo mi permette – o mi dà l’illusione – di decifrare meglio il mondo attuale così dominato dalla tecnologia. Una parentesi: l’immagine che ho io del mio lavoro è quella di uno scrittore che si esprime sia con parole sia con disegni, e che quindi ha anche i problemi dello scrittore, di tipo narrativo prima ancora che esteticofigurativo. Torniamo però al punto: secondo me la fatica mentale è molto simile e deriva ad esempio dal fatto di restare fondamentalmente seduto, o tutt’al più passeggiare nello studio, per ore, giorni, settimane, a volte mesi. Sembra una cosa da ridere, eppure persone che fanno lavori usuranti con le mani dicono che non resisterebbero un giorno fermi a pensare senza fare alcuna fatica muscolare. Poi però c’è una dimensione dell’ingegneria – di cui forse si può trovare l’analogo anche in letteratura – che è la dimensione applicativa-commerciale, e risponde a un’esigenza economica di rendimento; in sé è più che legittima, ma spesso obbedisce a regole che legittime non sono. Anche nel campo scientifico non sempre viene premiata l’idea e la produzione più valida, intelligente ed efficace. Una delle ragioni per cui ho abbandonato l’ingegneria è stato proprio perché dopo nove anni di lavoro la sopravvivenza economico-commerciale di quel che facevo era legata in modo indissolubile a una pratica di affari che non mi piaceva. Naturalmente c’era anche una passione innata per il disegno, nel senso che fin da bambino mi divertivo a disegnare, e come tutti i bambini mi raccontavo così delle storie. Ma ai tempi della mia giovinezza era diffusa l’idea che il lavoro – quello che permetteva di mantenerti – era una cosa seria e in quanto tale non poteva essere divertente. Erano tempi in cui l’Italia era un paese molto più povero e si poteva permettere meno lussi. Tieni presente che io mi sono laureato nel ’69 e quindi ho vissuto il ’68 quando ormai tutte le mie scelte


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fondamentali erano state fatte. Oggi si fatica a immaginare com’era l’Italia – e mi verrebbe da dire il mondo – prima del ’68. Con tutti i difetti che ha avuto, il ’68 è stata una rivoluzione mondiale nelle mentalità. Ecco perché la mia scelta è stata così tardiva. Malgrado ciò non sono affatto pentito. MA: Ho l’impressione che in volumi come Rapsodia ungherese tu utilizzi la formula della spy story anche per prendere all’amo i tuoi lettori, per conquistare la loro attenzione e parlare della storia con la S maiuscola: dall’espansione del nazismo alle persecuzioni degli ebrei alla guerra di Spagna all’atteggiamento dei partiti comunisti. Che rapporto c’è nei tuoi libri tra la formula narrativa, la storia e l’ideologia? VG: Faccio relativamente fatica a pensare ai generi narrativi, come si dice, anche se riconosco la validità di una classificazione per comodità di linguaggio, ma mi sembra chiaro che all’interno dello stesso genere – dal noir alla fantascienza – si danno libri di qualità e di ambizioni estremamente diverse. Entro certi limiti, anche Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana è un giallo, però l’interesse per il libro non è esattamente quello di scoprire chi è l’assassino. Perciò, dato che io sono molto ambizioso e presuntuoso, spero di avere usato alcuni agganci, come hai detto tu giustamente, per dare tensione al racconto, anche se forse la parte più importante non è data dallo scoprire chi è l’assassino. D’altra parte, avendo voglia di raccontare una vicenda ambientata in un’epoca passata, e avendo voglia di mostrare anche gli aspetti di quella situazione che sono meno noti, più nascosti, e ancora di più avendo voglia di mostrare quanto quella situazione abbia legami stretti col presente, ecco: tutte queste cose insieme rischiano di produrre qualcosa di noiosissimo. Sento la necessità di creare tensione, anche perché io non sto scrivendo dei saggi, ma opere di fantasia, in cui però mi interessa offrire certe mie analisi personali. Lasciami sottolineare a questo proposito un elemento che oggi mi sembra particolarmente importante. Ho l’impressione che nei fumetti, ma anche in letteratura, sia molto diffusa una forma più o meno spinta di autobiografismo, cioè in sostanza: “ti racconto quel che mi è successo”. Ora, per mia fortuna o disgrazia, io credo che non mi sia successo – in modo diretto – praticamente niente che possa interessare un altro. Anche da questo nasce la necessità di inventare una trama che sostenga narrativamente il tutto, creando dei personaggi che, malgrado l’apparenza, non sono affatto io. Cioè, sono io nel senso di Flaubert, ma non ho vissuto mai nessuna avventura di quelle che racconto nei libri. Naturalmente amici e famigliari riconoscono episodi e riferimenti della mia vita reale, poiché ciascuno pesca dalla sua esperienza, ma nel mio caso mai in forma diaristica.


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Però hai centrato in pieno una cosa che per me è importante – non in tutte, ma forse nelle più impegnative cose che ho fatto – e cioè il tentativo di indagare sulle cause degli avvenimenti dietro le apparenze, sia nella storia – con la S maiuscola o minuscola, come vuoi –, ma soprattutto di mostrare analogie e differenze con quel che succede oggi. Non è una fuga nel passato, ma è un servirsi del passato per indagare sul presente, e chissà, forse anche sul futuro. MA: Questo tuo porre l’accento sulla storia mi porta verso la successiva domanda. No Pasarán – una trilogia dedicata alla guerra civile spagnola – è lo sviluppo più recente della saga di Max Fridman. Mi hanno colpito molto le tue prefazioni, dove mescoli le fotografie in bianco e nero di Robert Capa con tue tavole che imitano le foto dell’epoca, presentandoci i personaggi che hai creato. Per di più, affianchi a queste immagini un tuo testo che ha un valore anche documentario perché descrive e discute eventi storici, dando ai lettori alcune coordinate fondamentali per affrontare il racconto che segue come una riflessione sul passato. Mi sembra qui importante il tema della memoria, anche perché la prefazione al primo volume si conclude con la frase “Io non li ho dimenticati”, riferita ai combattenti della guerra di Spagna e al loro eroismo, scaturito da vite che prima potevano essere magari comuni, ma che sono passate attraverso un processo di metamorfosi. C’è dunque un messaggio forte nel tuo racconto per immagini… VG: Sono domande complesse e, ahimè, non sono capace di dare risposte lapidarie… Intanto, voglio dirti che un certo intento “didattico” nei miei libri c’è sempre, soprattutto nelle prefazioni, dove posso essere didattico senza annoiare troppo, ma anche nella narrazione vera e propria c’è da parte mia la voglia di raccontare cose che sono spesso ignorate o mistificate. Si dice che oggi la gente non ha più la capacità di indignarsi, ma io mi indigno anche troppo… Mentre ero all’inizio di questo lavoro, lessi la prefazione di Sergio Romano a un libro sulla guerra civile spagnola, in cui Romano sosteneva che Franco – per quanto dittatore – aveva avuto il grande merito di aver evitato alla Spagna un destino simile a quello che avrebbero conosciuto i paesi dell’Est dopo la seconda guerra mondiale. Credo che sia un incredibile falso storico, non un’interpretazione personale, poiché esistono lettere di Stalin ai propri referenti in Spagna, come il console sovietico accreditato presso la Repubblica, in cui Stalin si raccomanda che non venga instaurata assolutamente una dittatura del proletariato. Anche se il partito comunista spagnolo aveva sempre più peso verso la fine della guerra, in quel momento Stalin era preoccupato di conservare buoni rapporti con le democrazie occidentali per arginare Hitler. Siamo ancora ben lontani dal patto Ribbentrop-


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Molotov, quindi siamo ancora al tentativo di frenare il nazi-fascismo creando quell’alleanza che poi si formerà nel corso della seconda guerra mondiale, e ci sono documenti che io – senza essere uno storico o aver fatto ricerche d’archivio – ho però trovato riportati in diversi studi. Basta che un libro come quello che citavo abbia successo perché si diffonda la convinzione che Franco abbia evitato che la Spagna diventasse un paese comunista prima della guerra. Cercare di combattere queste menzogne è qualcosa che tento, nel mio piccolo, di fare, anche perché la generale ignoranza della storia è impressionante. Pensa che, quando No pasarán è stato pubblicato in Spagna, là ho trovato spesso persone della mia età che mi hanno detto di averlo apprezzato soprattutto perché permetteva ai loro figli, che rifiutavano qualsiasi lettura storiografica, di conoscere meglio il passato. MA: Questa risposta mi porta a chiederti che ruolo ha assunto in anni recenti, anche in Italia, il graphic novel, etichetta che vuole proprio superare la connotazione escapista tradizionalmente associata al fumetto, dimostrando che con questo linguaggio si possono affrontare argomenti di rilievo per la comunità dei lettori. Tu hai “confessato” che esiste nei tuoi testi una volontà didattica, nel senso di suscitare spirito critico, e mentre tu mi parlavi della guerra di Spagna a me venivano in mente testi come quelli di Will Eisner – penso in particolare a Il Complotto: la storia segreta dei protocolli dei savi di Sion – oppure di Art Spiegelman, da Maus a All’ombra delle torri. E mi veniva in mente anche uno dei tuoi lavori più commoventi, poetici e intensi: Jonas Fink, che ci porta in Cecoslovacchia nel periodo post-bellico. Si fa fin troppa autobiografia, ci hai detto, ma qui tu decidi di fare biografia – Jonas Fink è un romanzo di formazione, e la tua scelta di dedicare a questo soggetto una trilogia, quindi di adottare una forma narrativa ampia, che permette di raccontare storie incisive, ti avvicina ancora una volta al


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romanziere. Come provocazione, ti chiedo: tu ti riconosceresti nell’etichetta di graphic novelist? E cosa mi potresti dire da un lato sull’ispirazione che porta a scrivere un romanzo per immagini come Jonas Fink e dall’altro sulla documentazione che c’è dietro questo romanzo. VG: Vorrei cominciare col dirti che dietro la trilogia non c’è nessun progetto complesso, ma banali ragioni editoriali… Esiste però un secondo livello, che contraddice quel che ti ho appena detto, poiché io questa storia l’ho pensata fin dall’inizio divisa in tre parti distinte, però il fatto che siano state pubblicate a tanto tempo di distanza dipende solo dalla mia lentezza nel lavorare. Invece a proposito del graphic novel vorrei precisare due o tre cose che forse non tutti sanno, e cioè: la patria del fumetto propriamente detto sono gli Stati Uniti, dove i primi veri fumetti nascono negli anni Novanta dell’Ottocento, più o meno in parallelo al cinema. Nascono per un’esigenza pratica sui grandi quotidiani americani rivolti alla grande massa di immigrati che arrivano a fine Ottocento e che non hanno una conoscenza così buona della lingua inglese. Quindi una lingua più semplificata, molto parlata, aiutata dalle immagini, permette di seguire le storie e nello stesso tempo svolge una funzione didattico-sociale, insegnando l’inglese a queste persone giunte da tutti i paesi del mondo. Per molti anni la patria del fumetto sono gli Stati Uniti. Negli anni Sessanta, invece, negli Stati Uniti si verifica una stasi editoriale e creativa, mentre in Europa c’è un enorme rinascimento. Nasce cioè il fumetto d’autore, che in parte accoglie in Europa alcuni autori americani, cui negli Stati Uniti viene dato molto meno ascolto. In quegli anni Eisner era molto più famoso in Europa che negli Stati Uniti, e io ricordo, quando lo vidi la prima volta a un festival di Lucca in cui ricevette una standing ovation, la sua sorpresa perché negli Stati Uniti era quasi uno qualunque… La rivista Linus fu la prima rivista di fumetto d’autore al mondo e questo è uno dei pochi vanti dell’Italia in questo settore editoriale. Naturalmente esisteva anche in Europa un fumetto più popolare, che ha un’altissima dignità ma che ha caratteristiche editoriali diverse, poiché nasce dall’idea di produrre un certo numero di pagine ogni mese per essere presente in edicola. Quindi è qualcosa che ha a che fare con le pubblicazioni periodiche e come tale non si può permettere, se non molto raramente, un vero lavoro di scrittura, per ragioni ovvie di tempo. Non si tratta di dare un giudizio di qualità, ma è una maniera diversa di lavorare. Dunque, negli anni Sessanta si ha un rinascimento del fumetto europeo, con grande varietà di stili e di tematiche, cui l’Italia dà un notevole contributo con Hugo Pratt, Crepax, Battaglia… Nello stesso momento, negli Stati Uniti esistono solo i comics, che pubblicano Super-eroi, e queste serie nate molto prima conoscono un momento di


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stanchezza, tanto che il pubblico comincia a diminuire perché non ci sono nuove produzioni interessanti. In quegli anni in Europa il fumetto d’autore presenta già normalmente dei romanzi a fumetti, mentre negli Stati Uniti questo non esiste, se non da parte di qualche autore underground – come Robert Crumb. Finalmente negli anni Novanta, in parte perché c’è questa vena underground, anche di editori, e in parte perché ci sono alcuni “grandi” come Will Eisner, che ha uno studio grafico in cui si allevano personaggi come Jules Feiffer, oltre a Spiegelman, anche negli Stati Uniti comincia un rinnovamento culturale. Giovani autori, che si sono nutriti del fumetto d’autore europeo, cominciano a fare libri a fumetti, ma non sanno come chiamarli perché i comics non sono libri ma “giornalini”. Ed ecco che si diffonde il termine graphic novel, che indica questa forma di fumetti, totalmente nuova per il mercato americano, ma che in Europa esisteva dagli anni Trenta – in Francia per esempio, con Hergé e altri. Il successo mondiale della dizione graphic novel e la sua diffusione anche in Italia è dovuta sostanzialmente alla nostra sudditanza culturale verso la cultura americana piuttosto che non a una effettiva novità. La parola graphic novel, però, sta ormai assumendo una connotazione molto più determinata: non vuol dire più romanzo grafico, ma indica un fumetto con caratteristiche precise come l’uso del bianco e nero, piuttosto sporco, carta spessa e a poco prezzo, formato piccolo, un gran numero di pagine e anche un certo tipo di argomenti e montaggi, cioè in sostanza la formula stilistica che deriva direttamente dall’underground americano – penso soprattutto a Crumb, che oggi vive in Francia. Mentre però l’underground era sostanzialmente figlio della contestazione, il graphic novel attuale è un po’ una volgarizzazione di questi stilemi. Come ha detto Crumb, non basta disegnare male per fare un buon fumetto provocatore. Quindi, ci sono forme in cui non mi riconosco per niente. Per sintetizzare, nella definizione di romanzo a fumetti mi riconosco appieno, è proprio quello che tento di fare io da sempre. Se invece la definizione è stilisticamente più circoscritta, ecco che allora mi ci sentirei un po’ come in una prigione. Esiste poi anche la dimensione del racconto, che in letteratura ha una sua dignità, e discuto quindi il fatto che esistano dei formati standard. A parte questo, non sono interessato al fumetto che è pressoché esclusivamente didattico. Ovviamente un aspetto didattico è inevitabile, se fai qualcosa di nuovo, che ti sorprende e ti racconta delle cose che ancora non sapevi. Invece si stanno verificando nell’editoria due tendenze che non mi appartengono: una è quella di ridurre a fumetti i grandi testi della letteratura. Non sono d’accordo, nel senso che io personalmente non lo farò e che anche come lettore sono abbastanza poco interessato, a meno che


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non si tratti di un’opera, dal punto di vista grafico, estremamente originale. Cosa che di rado capita in queste riduzioni di classici a fumetti, che sono fondamentalmente operazioni commerciali. L’altro aspetto che non mi piace è quello che ha portato il fumetto sempre più di frequente a occuparsi dell’attualità, anche di fatti importanti, ma sostanzialmente senza creazione narrativa, quindi facendo un’opera di documentazione il cui significato un po’ mi sfugge. Se io faccio un libro sull’11 settembre e ridisegno delle foto prese dai giornali, dei fotogrammi presi dalla TV, e ti racconto quello che è successo secondo i resoconti, che cosa ho fatto in realtà? Ho prodotto un libro che può informare chi non è informato. Questa funzione può anche essere socialmente utile, ma a me interessa relativamente, perché i giornali io già li leggo. MA: Ti interrompo perché questo punto mi sembra importante. Penso a opere prodotte in contesti culturali diversi dal nostro, come Valzer con Bashir di Ari Folman e David Polonsky, nato come film d’animazione e trasferito poi in testo a fumetti, oppure Persepolis di Marjane Satrapi, dove c’è una componente di esperienza personale – quella del memoir, dell’autobiografia, del rapporto col vissuto. In questo caso, il romanzo a fumetti non si rivela uno strumento molto interessante proprio perché consente di offrire una rappresentazione della realtà che invece non è documentaristica, ma semmai affettiva? Con le tecniche narrative che può esprimere, il fumetto non è uno strumento duttile per raccontare l’individuo che si confronta con i grandi eventi? VG: La riposta è sì, certamente è vero, però facciamo qualche distinzione. I titoli cui hai fatto riferimento si inseriscono piuttosto nella diaristica che nella saggistica. Né Folman/Polonsky né la Satrapi intendono dare una visione globale degli eventi cui hanno partecipato, ma una testimonianza personale, senza nessuna pretesa di darti uno sguardo globale. Quindi c’è un atteggiamento molto partecipato ma anche molto personale, e non un atteggiamento critico in senso più ampio. Questo solo per marcare una piccola differenza, ad esempio, con le cose che tento di fare io, cioè favorire nel lettore un atteggiamento critico più ampio su tutte le parti in gioco. Senza con ciò escludere che io abbia delle opinioni o che i personaggi giochino certi ruoli, ma per fortuna, non avendo vissuto gli eventi storici che racconto, la mia visione non esprime un coinvolgimento personale. Il limite di operazioni come Valzer con Bashir è che possono avere un senso nella misura in cui tu sei stato veramente testimone di eventi importanti, cosa che può capitare o no, a meno che tu non faccia il fotoreporter e li vada a


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cercare. Ma allora il rischio è un altro – come è successo con Palestina di Joe Sacco – ed è quello di essere assolutamente superficiale e di scambiare la propria esperienza con la situazione generale del luogo o della storia. Ci sono dei reportage a fumetti, come Il fotografo di Emmanuel Guibert, sulla guerra in Afganistan, un libro a fumetti fatto al seguito di un fotoreporter francese in Afganistan, ma il fotoreporter è facilmente un “turista” e se è una persona corretta non ne trae considerazioni generali. Io ho letto a suo tempo che Hemingway nella guerra di Spagna ha visto più i bar degli alberghi che il fronte, anche se ha lasciato articoli e corrispondenze estremamente belli, ma dal punto di vista storico sono più documenti su cui lavorare che testi da cui ricavare una visione critica degli eventi. Dunque, anche in questo giornalismo a fumetti non credo molto, nel senso che non è la mia partita. Considerando il fumetto come un’opera narrativa, i tempi della cronaca e della letteratura non sono gli stessi. Per comporre un libro ci vuole tanto di quel tempo che nel frattempo la cronaca è da un’altra parte, per cui è davvero difficile fare giornalismo a fumetti. Io non sarei capace, e non mi attira neanche. Io sono stato in Israele, per esempio, e ne ho ricavato emozioni molto forti e informazioni sorprendenti – per me. Pur essendo un paese di cui si parla tutti i giorni, molte cose importanti le ho scoperte solo andando là e spero un giorno di poterle raccontare , ma certo non l’episodio che è successo “oggi”, anche perché quello che è successo “oggi” io non lo conosco veramente. Parlando invece di Jonas Fink e di questa specie di bildungsroman che sto tentando di fare – perché sto lavorando proprio adesso alla fine – i motivi che mi hanno spinto in questa avventura sono tutti scritti, anche se in modo appena un po’ cifrato, nell’introduzione del primo libro. Diciamo che ci sono anche motivi di storia personale, ma l’ultimo elemento scatenante è stato il crollo del muro di Berlino, che io ho vissuto in realtà con diversi mesi di anticipo rispetto alla norma italiana. Avendo viaggiato un pochino, quando facevo l’ingegnere, in


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quei paesi, ho visto diversi segni cui nessuno allora dava importanza. Il primo segnale, che è scattato diversi mesi prima, se non sbaglio a fine primavera dell’89, fu il “buco” alla frontiera fra Ungheria e Austria, dove i turisti tedeschi dell’Est scoprirono che potevano uscire e andare in Austria e da lì in Germania. Allora ci fu la corsa di una marea di cittadini dall’Est verso l’Ovest. Quando sentii la notizia alla radio rimasi assai emozionato. Quella stessa estate vidi un’altra piccola cosa che non è citata nell’introduzione, ma che mi ha colpito e che cito per dirti di quanto spesso le spinte creative siano apparentemente irrilevanti. Andando a Venezia, vidi a piazzale Roma un pullman sfasciatissimo, da anni Cinquanta, con targa polacca e con turisti polacchi che sbarcavano a Venezia. Fra questi turisti c’era una signora tutta vestita di nero, vestito liso ma di antica eleganza, dall’età apparente di settant’anni o giù di lì, e io ho immaginato tutta una storia su questa donna. Aveva probabilmente dovuto aspettare quarant’anni per poter tornare a Venezia, perché magari da giovane era stata a Venezia con qualcuno passando giorni indimenticabili, e appena aveva avuto la possibilità, con quei pochi soldi che aveva da parte, era partita per raggiungere un sogno conservato con cura. Ora, tutto ciò probabilmente è falso. Quella signora era lì per tutt’altre ragioni, forse per caso, però ogni tanto capitano piccoli avvenimenti che ti dicono: su questo evento storicamente fondamentale, sconvolgente, e che conta così tanto nella vita di tante persone, bisognerà pure che qualcuno scriva qualcosa. Ti confesso che all’inizio non volevo scrivere niente e aspettavo che qualcun altro lo facesse, perché sapevo che ci avrei messo anni e anni di lavoro. In più – come puoi bene immaginare – io conoscevo la situazione di quei paesi davvero come un viaggiatore occasionale e distratto e quindi mi sentivo in un certo senso come uno che non ha il diritto di raccontare delle cose perché non le conosce abbastanza a fondo, però nessuno scriveva niente (parlo sempre di fumetti, s’intende) e allora ho cominciato a farlo io. Questa è l’origine di Jonas Fink. Naturalmente con queste idee in testa il problema della documentazione è stato mica male, perché appunto io ne sapevo piuttosto poco. Diciamo che sono ancora convinto che per il mio lavoro serva di più una documentazione letteraria che storica, nel senso che mi sono nutrito abbastanza di quella parte di letteratura cecoslovacca e dell’Est che è arrivata da noi, anche se non tutta e soprattutto non con lo stesso peso. Ci sono a volte autori che pesano molto di più all’estero che non in patria e viceversa, e io sono inesorabilmente condizionato da una visione da straniero, però sono autori, come vedi, che vanno da Jan Neruda ai fratelli Langer, Václav Havel, Bohumil Hrabal. Poi naturalmente i grandi narratori che una critica iniziale aveva considerato poco cecoslovacchi, come Kafka e Rilke, che scrivono in tedesco, però se uno ci guarda bene Praga conta nella loro vita


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e nella loro visione del mondo. Anche perché non si può dimenticare che, malgrado tutte le giuste aspirazioni all’indipendenza, quei paesi hanno fatto parte per secoli dell’impero austro-ungarico: è quella la cultura, è quello l’humus in cui cresce il buon soldato Schweik, che è molto ceco, ma è anche molto imperial-regio… E poi, non posso non ricordare Angelo Maria Ripellino, con cui ho un debito immenso. Naturalmente, ho fatto anche qualche lettura storica. Fra l’altro, a volte ho scoperto che la documentazione storica nel senso stretto è in realtà la più facile, perché è più reperibile attraverso le bibliografie e per molti aspetti è anche quella più completa. Ci sono avvenimenti che gli storici hanno già esplorato e che arrivano sulle pagine dei giornali vent’anni dopo, come una grande novità, solo quando c’è quell’elemento di cronaca che rende la notizia di attualità. Ci sono invece altri aspetti che sono molto più difficili da scoprire, e per ragioni di necessità io qui non posso che affidarmi al caso, almeno entro certi limiti. La Rivoluzione di Velluto avvenuta in Cecoslovacchia nell’89 – tra parentesi la definizione è di Havel, che era un grande appassionato dei Velvet Underground – nasce anche dalla musica americana. Pensa che dopo il ’68 un’organizzazione di circoli critici contro il regime aveva come denominazione Johna Lennona Club e in occidente non abbiamo ancora valutato quanto sia stata fondamentale l’influenza di certa musica rock per provocare un risveglio critico di massa… Dicevo che la Rivoluzione di Velluto è stata assolutamente incruenta. D’altronde, a parte la Romania e la ex Yugoslavia, anche negli altri paesi del’Est sono avvenute rivoluzioni non violente, ovvero cambiamenti così rapidi che le strutture di potere erano sempre in ritardo sulla società. Un effetto di questa rivoluzione a Praga è stata una totale onomoclastia. I nomi delle strade che avevano un riferimento con il socialismo reale sono stati tutti cambiati, molto rapidamente, per cui la ex piazza dell’Armata Rossa è oggi la piazza Jan Palach. Il problema per chi vuole scrivere una storia ambientata prima dell’89 è che qualsiasi guida di Praga oggi riporta nomi che non sono quelli dell’epoca. Per fortuna avevo conservato una guida che comperai quando andai là e che ha i vecchi nomi delle strade… Questi aspetti un po’ bizzarri, che però fanno parte di quello che sarebbe bene sapere per un romanzo, si trovano più facilmente nelle cronache dei giornali, ed ecco la ragione per cui anch’io, come tanti colleghi scrittori, ho la mania dei ritagli. Quando leggo qualcosa che un giorno forse potrà interessarmi, allora ritaglio, anche se il difficile è ritrovare poi questi ritagli. Per esempio, da un ritaglio ho scoperto che fine ha fatto l’ultimo monumento legato all’Unione Sovietica, che io ho visto quando andai a Praga nel ’91-’92. Era il monumento all’Armata Rossa, in una piazza di Smìchov. Avevano montato su un grande piedistallo il primo carro armato che era entrato a Praga


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alla fine della seconda guerra mondiale. Oggi non c’è più. Allora era l’unico ricordo rimasto, a parte le divise e le medaglie che si vendevano sul ponte Carlo. Da questo articolo di giornale ho scoperto che c’era una larga fetta di opinione pubblica che voleva togliere questo carro armato, ma dato che si riferiva al ruolo positivo dell’Unione Sovietica nella liberazione di Praga, l’amministrazione non si decideva mai. Allora qualcuno di notte verniciò il carro armato di rosa. Il giorno dopo, il carro armato venne ripulito, ma una settimana dopo era stato dipinto di verde a pallini rossi, finché le autorità si convinsero a togliere il carro armato, perché costava troppo ripulirlo. Io credo che questa cosa sia nel più puro spirito ceco, di Jaroslav Hašek, di Hrabal. Forse un giorno questo evento verrà riportato in un libro di storia, magari in una nota a piè di pagina, ma non credo di più, perché è più significativo per uno scrittore che per uno storico. Dunque la mia ricerca di documentazione è molto aperta, e a parte uno zoccolo duro che è necessario – fatto fondamentalmente di letteratura, cinema e storiografia – è legata molto al caso, al fatto che io sono andato in un certo luogo in un certo momento e per caso ho visto certe cose. Magari non rientreranno quelle stesse cose direttamente in quello che scriverò, però contribuiranno anche loro. Certo questa parte di documentazione è molto cospicua e anche difficile, e prende molto tempo, tanto che sogno di dedicarmi un po’ al contemporaneo locale, che sarebbe molto più facile per certi versi, ma mi trattiene in questo l’ambizione che ho sempre di fare qualcosa che possa interessare tutti. MA: Tu mi hai parlato molto finora della dimensione narrativa del tuo lavoro. Ti concepisci come un romanziere e quindi il problema di costruire storie è un aspetto centrale della tua ispirazione, al di là del fatto di “illustrarle”. La domanda che vorrei farti ora è relativa alla scelta della forma breve del racconto che caratterizza la raccolta Viaggi e miraggi. Inoltre, mi ha colpito il fatto che alcuni di questi racconti sono molto estetizzanti rispetto ad altri tuoi lavori perché trattano il tema dell’arte. Penso non solo a “Il ritrovamento di Paride”, ma anche a “Restauri”, incentrato sui restauri delle Storie della vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo. Affascina in questo racconto il fatto che tu utilizzi un mezzo grafico per restituire non solo la realtà, ma la rappresentazione pittorica della realtà, in particolare gli affreschi di Piero, che hanno un ruolo centrale nella vicenda.


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VG: Viaggi e miraggi è una raccolta di racconti brevi di lunghezza molto varia, da un minimo di quattro pagine a un massimo di una trentina. Anche l’origine di questi racconti è molto varia, ma la maggioranza sono racconti d’occasione, che hanno un filo conduttore ma che furono pubblicati la prima volta su periodici in tempi diversi. C’erano da una parte dei vincoli di lunghezza – dovevano essere racconti brevi – e dall’altra spesso vincoli di argomento. Siccome questi lavori vengono richiesti soprattutto d’estate, quando i giornali sono vuoti e il fumetto viene richiesto per il suo aspetto ludico, questo condiziona anche l’argomento, cioè viaggi, vacanze eccetera. Comunque qualcosa di leggero e non troppo impegnativo. Allora io, dopo i primi tre o quattro, vedendo che c’era un filo comune, ho tentato di lavorare proprio su questo filo, che è sintetizzato dal titolo della prima raccolta in cui sono confluiti: Vacanze fatali. Si tratta di testi leggeri, con aspetti ironici e un minimo di satira sociale, ma con una trama che arriva anche al dramma. Qui bisognerebbe vedere per ogni racconto qual è l’origine. Per esempio, “Restauri” ha un’origine bizzarra perché nasce dalla proposta della Banca che aveva sponsorizzato i restauri degli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Siccome io ho sempre amato moltissimo quegli affreschi, ho detto subito sì, come racconto nell’introduzione. Gli affreschi erano coperti dalle impalcature e io chiesi proprio di salire sulle impalcature: una volta lì la storia è venuta da sola, perché quando si vedono da vicino certe cose non si può restare indifferenti. Allora, come problema tecnico a cui hai accennato prima, c’era il problema di distinguere – nella rappresentazione che io ne davo – la vicenda in corso dagli affreschi. La scelta è stata abbastanza semplice: rappresentare gli affreschi direttamente ad acquerello senza segni di contorno, che invece identificano il mondo reale, come è reso nel testo. Posso ricordare un solo dettaglio curioso, per dirti come queste scelte anche banali nascondono sempre qualche pezzettino avvelenato all’interno. Per spiegarti la cosa devo fare una premessa. Io mi considero un narratore di immagini, perché nella mia mente nasce sempre prima la narrazione, che nasce con le immagini di una storia. Questo perlomeno quando faccio fumetti – diverso è il caso dei manifesti, ma quando faccio fumetti io sono in primo luogo un narratore – e ho in mente gli avvenimenti come se fossi lì, come se si stessero svolgendo attorno a me, come se il personaggio entrasse da quella porta e mi dicesse buongiorno. Quindi il problema dell’espressione e della lingua – diciamo così – viene dopo, anche se in realtà le cose si intrecciano dal punto di vista temporale, perché a volte i personaggi vengono definiti proprio dalla scrittura. In generale però, come gerarchia d’importanza, la narrazione viene prima della scrittura, e naturalmente nel mio caso determina il disegno, e quindi il punto di vista dell’immagine. Ora, se tu prendi un libro d’arte trovi – anche sulle scatole di


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Maurizio Ascari

cioccolatini – gli affreschi della Leggenda della Vera Croce, ma li trovi ovviamente fotografati come si deve, quindi frontalmente, senza aberrazioni prospettiche, con grande probabilità fotografati con un teleobiettivo. Io invece avevo bisogno di rappresentarli visti di scorcio, con gli occhi di qualcuno che è a un metro di distanza sulle impalcature e li vede perciò tutti in prospettiva. Non è banalissimo, dal punto di vista tecnico, partire dall’immagine di un libro d’arte – perché non avevo preso fotografie – e immaginarla in prospettiva, come si vedrebbe l’affresco dalle impalcature. Il problema dal punto di vista pratico è assurdo, anche perché finiti i restauri le impalcature sono state smontate e quindi nessuno vedrà più gli affreschi in quel modo. Nessuno quindi potrà controllare se ho fatto un’operazione corretta o no, ma io lo so, e allora non potevo ingannare me stesso… Ti vorrei però citare, visto il campo di cui ti occupi, che all’interno di quella raccolta c’è un racconto che avrebbe dovuto farti suonare un campanello d’allarme e che si chiama “Il maestro”, perché lì si parla di letteratura americana. Questa storia è in realtà rubata da un racconto di un famoso scrittore americano, di cui non voglio dirti il nome per non toglierti il piacere di scoprirlo, mescolata a pagine di un altro scrittore americano che in Italia conoscono in tre, credo, e che fra l’altro viene citato – tramite alcune sue frasi – all’interno del testo. Nota bene che il racconto è abbastanza diverso dal testo originale, non è la riscrittura a fumetti, ma contiene un riferimento preciso. Questo è un tipico caso di intrecci, se vuoi, di passioni che io ho. Al liceo ho avuto – per un breve periodo, purtroppo – un grande professore di latino, che tenne una lezione che non ho mai più dimenticato sull’arte allusiva in Orazio. Questo ha fatto sì che una delle cose che mi divertono, a parte la postmodernità di questa strategia, è infilare dentro alle mie opere certe cose della letteratura che ho amato, possibilmente in modo tale che non sia necessario riconoscerle per apprezzare l’opera, ma che se per caso tu le riconosci diano qualcosa in più. E allora i miei libri sono pieni di riferimenti alla letteratura e al cinema, e pochissimo al fumetto. Ad esempio, Jonas Fink è una storia piena di riferimenti letterari, alcuni espliciti, come qualche verso di Anna Achmatova o alcune righe di Kafka, che fanno parte della storia, altri più nascosti, ma comunque abbastanza evidenti, come il personaggio dell’idraulico, Slavěk, che parla come Schweik, e il nome stesso è un’assonanza che ne fa il mio personale Schweik. Per dirti l’importanza di altri linguaggi dentro le cose che faccio, la seconda parte di Jonas Fink si apre con una sequenza di paesaggi e una poesia, una canzone che poi ricorre più tardi a metà del libro, quando la canta la birraia, la signora Kopelka, che è il nome della birraia di Schweik. La canzone, che io nel libro spaccio come un canto tradizionale cecoslovacco, è in realtà la Ballata della Moldava di Brecht in Schweik nella seconda


Intervista a Vittorio Giardino

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guerra mondiale, esattamente quella, i primi versi. Tutta la storia è intrecciata di queste cose. Ripeto, spero che non siano citazioni necessarie, e non è neanche uno sfoggio di cultura. Semplicemente, secondo me Brecht forse non era il gigante della letteratura mondiale di tutti i tempi, ma era certo uno che sapeva scrivere bene, e Vita di Galileo e Schweik nella seconda guerra mondiale sono grossi testi teatrali; sono contento di aver rubato da lì. Una volta un recensore mi fece un grande complimento ripreso da Eliot, secondo cui i grandi artisti rubano mentre i mediocri copiano. E allora io sono molto fiero di aver rubato, per non parlare delle molte citazioni cinematografiche che ci sono dentro le mie storie. Attenzione: non sono mai citazioni iconiche, ma sempre narrative, cioè non è il fotogramma, anche famoso, che viene copiato in disegno e inserito nel testo, ma è la sequenza, la situazione, che viene inserita come una sorta di omaggio, anche ripresa da film che non sono necessariamente capolavori. A un certo punto, in No pasarán c’è un ufficiale ferito, ricoverato in ospedale e bendato perché ha perso la vista. Tutto quell’episodio è rubato dal film I giovani leoni, dove Marlon Brando va a trovare il suo vecchio ufficiale Maximilian Schell, ferito e sfigurato in un letto d’ospedale. E’ un piccolo dettaglio, ma come questo te ne potrei citare altri, tanto che si era pensato di fare una mostra dedicata al rapporto tra i miei fumetti e il cinema. Però non ritrovi l’immagine, ritrovi il racconto, la situazione, e allora questi intrecci secondo me sono assolutamente necessari – a me – perché dentro la mia vita ci sta anche la letteratura. Probabilmente io conosco più personaggi letterari che non persone reali, se guardiamo ai numeri, e quindi se le persone reali in qualche modo rientrano nei miei libri anche i personaggi rientrano nei miei libri, è inevitabile. Almeno quelli che sono vivi… poi ci sono anche quelli che non sono mai nati, che sono rimasti sulla carta, ma ci sono altri da cui non potrò mai liberarmi, che sono più vivi di certa gente viva che incontro… MA: Vittorio, mi hai detto delle cose bellissime! Grazie.


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