Letteratura mondo e/o francofonia

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Letteratura-mondo e/o francofonia by Lucia Quaquarelli

J’ai perdu trop de temps à commenter le fait que j’écris en français. Et à debattre du fait que ce ne soit pas ma langue maternelle. Dany Laferrière, 2007

Il 16 marzo del 2007 è uscito sul quotidiano francese Le Monde un manifesto letterario. Tale manifesto, che passa sotto il nome di Manifeste des 44 e che s’intitola Pour une littérature-monde en français, ha il tono e il passo di una denuncia, di una rivendicazione e di una provocazione. Anzitutto nella tempistica. Viene pubblicato infatti in piena Settimana della francofonia, iniziativa promossa ogni anno dal Ministero della cultura per promuovere l’uso della lingua francese nel mondo, iniziativa che segue quell’anno, di poco, un altro evento ufficiale, il Salone del libro di Parigi, dedicato, sempre per volere e sostegno del Ministero della cultura, alle Francofffonies (con tre f e al plurale), salone che a sua volta viene inaugurato solo qualche mese dopo la pubblicazione, sempre sulle colonne di Le Monde, di un altro intervento infuocato, e ampiamente discusso, firmato da uno dei 44, Alain Mabanckou, e intitolato: La francophonie, oui, le ghetto: non!. Ancora e soprattutto, tale manifesto esce poco dopo l’assegnazione di cinque tra i più importanti premi letterari francesi (Goncourt, Grand Prix du roman de l’Académie française, Renaudot, Femina et Goncourt des lycéens)1 a scrittori «d’outre France», ovvero a scrittori francofoni, di origine non-francese. Ed è proprio su tale annuncio che si apre il manifesto con l’ormai celebre incipit: «Plus tard, on dira peut-être que ce fut un moment historique». 1

Il Goncourt e le Grand Prix du roman de l’Académie française Jonathan Littell, le Renaudot a Alain Mabalckou, il Femina a Nancy Huston e il Goncourt des lycées a Leonora Miano.


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Insomma, il manifesto dei 44 si presenta esplicitamente, nei tempi nei modi e nei contenuti, come annuncio pubblico della morte della francofonia in vista dell’emergenza di una letteratura, scritta in francese, aperta al mondo e transnazionale: Che sia chiaro: l’emergenza di una letteratura-mondo in lingua francese consapevolmente affermata, aperta sul mondo, transnazionale, segna l’atto di decesso della francofonia. Nessuno parla il francofono, né scrive in francofonia.2

Affermazione di un’ironia tagliente, che fa eco, da lontano, ad una riflessione di Salman Rushdie 3 che suonava più o meno così: «Sembra che la letteratura del Commonwealth sia quell’insieme di scritture create, credo, in lingua inglese, da persone che non sono né inglesi bianchi, né irlandesi, né cittadini degli Stati Uniti d’America» e che risuona, da più vicino, anche nelle parole di Jacques Godbout, scrittore e cineasta di Montréal, quando dice: «I francofoni, mi pare, sono quella razza che potremmo eventualmente incontrare in Africa o nelle Americhe, o in alcuni territori periferici come il Belgio o la Svizzera. Ma certo non in Francia».4 Si tratta dunque, prima di ogni altra considerazione, dell’annuncio solenne della fine della francofonia, intesa come fine della divisione e della posizione egemonica della letteratura franco-francese (quella prodotta entro il perimetro linguistico nazionale ristretto, ovvero continentale) rispetto ad una letteratura in lingua francese, subalterna, prodotta ai quattro angoli del mondo. E si tratta, anche, di un atto di liberazione della lingua dal suo patto esclusivo con la nazione, sullo sfondo di un ribaltamento dei rapporti di forza centro-periferia sui quali pesa una lunga storia coloniale. «Il centro – leggiamo ancora nel manifesto – quel punto dal quale sembravano partire i raggi luminosi di una letteratura franco-francese, non è più centro. Quel centro, che obbligava gli autori venuti da altre parti del mondo a spogliarsi dei loro bagagli per fondersi alla lingua e alla storia nazionali, […] quel centro, ci dicono i

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Tutte le traduzioni del manifesto sono mie. S. Rushdie, Patrie immaginarie (81-91), Mondadori, Milano 1994, p. 79. 4 J. Godbout, La question préalable, in M. Le Bris e J. Rouaud (a cura di), Pour une littérature-monde, Paris, Gallimard, 2007, p. 105 (traduzione mia). 3


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premi di quest’inverno, è ormai dappertutto, ai quattro angoli del mondo. Fine della francofonia e nascita di una letteratura-mondo in francese». Il «mondo» di letteratura-mondo che si evince dalle prime battute del manifesto, insomma, è un mondo tutto sommato assai ristretto, circoscritto cioè a quella parte del globo che parla francese e che include, per la prima volta con pari diritto di cittadinanza (e di autorevolezza), paesi come la Francia, il Sengal, l’Algeria, il Belgio, il Canada e altri ancora. Un mondo «francofono» in senso proprio, dunque, che non vuole avere più nulla da spartire con la «francophonie» del geografo Onésime Reclus, evocata per la prima volta nel 1880 in un contesto fortemente colonialista, per celebrare l’uso trionfante della lingua francese in Algeria, né con quella rivendicata dagli scrittori della négritude, e nemmeno con quella francofonia, oggi predominante, intesa come «territorio» letterario di espressione francese distinto da quello franco-francese poiché extra-nazionale e, quasi sempre, postcoloniale. Un mondo «francofono» in senso proprio, etimologico, che vuole spogliarsi, via celebrazione di funerali, di ogni connotazione coloniale e etno-centrica per diventare un mondo-in-francese. Non vorrei tuttavia, con queste considerazioni, ammorbidire la portata polemica, e profondamente politica, della posizione dei firmatari del manifesto. Cosa che ha fatto per esempio Alexandre Najjar, avvocato, scrittore e responsabile della rivista Orient littéraire, in una delle tante reazioni al manifesto, quando ha scritto, sempre su Le Monde, che nel Manifesto dei 44 non vede altro che una «perifrasi della francofonia», che è per lui un «denominatore comune che non ha bisogno di alcuna integrazione, poiché già svolge un ruolo fondamentale di integrazione».5 Vorrei anzi che fosse chiaro che è una certa idea di francofonia ad essere qui messa in discussione, un’idea ancora profondamente coloniale che, come scrive Michel Le Bris (nel saggio introduttivo al volume miscellaneo che segue la pubblicazione del manifesto e porta lo stesso nome), fa della francofonia non soltanto una zona letteraria distinta da quella franco-francese, ma anche e soprattutto una zona letteraria subordinata, subalterna, dunque letterariamente inferiore, una zona sulla quale la Francia sembra voler proiettare «la sua luce, scrive Le Bris, a beneficio di masse ancora ottenebrate». «Come è possibile, si chiede, non accorgersi che la parola stessa, 5

A. Najjar, La francophonie est une chance, in Le Monde des livres, 30 mars 2006.


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francofonia, formalizza una subordinazione e una segregazione?» e aggiunge: «L’epoca in cui viviamo ci obbliga a pensare a un cambiamento di coordinate mentali, dunque di parole».6 Una trasformazione terminologica che nasce, anche, dal riconoscimento di una svolta storica, epocale, e che supera pertanto lo stretto perimetro evenemenziale franco-francese, fatto di premi e saloni letterari, per aprirsi a una riflessione allargata, che trova in parte spazio anche nel manifesto, e che inserisce la rivendicazione dei 44 in un più ampio panorama geo-storico che coinciderebbe, stando sempre al manifesto, con «il crollo delle grandi ideologie, […] e l’effervescenza dei movimenti antitotalitari, all’Ovest come all’Est, che ha portato alla caduta del muro di Berlino». Una svolta che ha quindi una data precisa e il mondo tutto come sfondo, un mondo attraversato da profonde e diffuse lotte antimperialiste, come se, leggiamo ancora, «una volta cadute le catene, fosse necessario a ciascuno ricominciare a camminare». Come se, ancora, il patto coloniale fosse rotto una volta per tutte e la lingua, e la letteratura, diventassero «affare di tutti» (un affaire de tous). Ma si tratta anche, e soprattutto, di una svolta letteraria. Perché il «mondo» di letteratura-mondo è anche qualcosa di diverso. Sempre nella prima parte del manifesto troviamo un’altra affermazione divenuta ormai celebre: «Il mondo fa il suo ritorno. Ed è la notizia più bella» (Le monde revient. Et c’est la meilleure des nouvelles). Quel mondo che da tempo era il grande assente della letteratura francese, quel mondo messo tra parentesi «dai maître-penseurs, inventori di una letteratura senza altro oggetto che se stessa, che faceva, […] “la propria critica nel movimento stesso della sua enunciazione”. […] Quel mondo dimenticato da scrittori diventati linguisti, “i cui testi rinviavano ad altri testi in un gioco combinatorio senza fine”, quel mondo ritorna in forza, “per vie traverse” e “sentieri vagabondi”, entro lo spazio letterario». La letteratura-mondo, dunque, è anche e soprattutto, una letteratura aperta al mondo, «che ha ritrovato l’ambizione di dire il mondo, di dare un senso all’esistenza, di interrogare l’umana condizione»7 scrive Michel Le Bris, una letteratura che sa e vuole dire il mondo, una letteratura qui se frotte au monde, che si strofina contro il mondo, al di là e contro la tradizione franco-francese. Una certa tradizione franco-francese, certo, dal perimetro 6 7

M. Le Bris, Pour une littérature-monde en français, in Pour une littérature-monde, cit., p. 45, nota 1 (traduzione mia). M. Le Bris, Pour une littérature-monde en français, in M. Le Bris e J. Rouaud (a cura di), Pour une littérature-monde cit., p. 41.


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facilmente individuabile, contro cui i 44 si schierano con violenza, senza tuttavia nominarla: formalismo, strutturalismo, nouveau roman, oulipo.

Foto di Stefano Calanchi


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Una certa tradizione dagli effetti mortiferi, stando alle parole introduttive di Jean Rouaud al saggio miscellaneo, che ha consumato «il lutto del racconto», ritrovandosi moribonda, secca, incapace di rispondere a un mondo in cerca di racconto, «un mondo consapevole che senza racconto non c’è intelligenza del mondo».8 Ciò che mi pare importante sottolineare qui, è che il ribaltamento degli equilibri centro-periferia, l’annuncio della fine di un rapporto subalterno, ultimo baluardo colonialista, delle letterature periferiche rispetto a un centro letterario franco-francese a partire dal quale, e soltanto dal quale, le letterature periferiche deriverebbero la loro luce, sembra ora fondarsi su considerazioni di ordine letterario prima che politico, considerazioni che, semplificando parecchio, potrebbero essere riassunte così: la letteratura franco-francese altro non è che un grande corpo agonizzante incapace di dire il mondo, ma, «notizia straordinaria», assistiamo all’evidenza, all’emergenza, di una letteratura nuova, la letteratura francese d’Outre-France, che di quel mondo ha deciso di ereditare, dandogli nuova voce, permettendo che, scrive ancora Rouaud, «un’altra avventura poetica potesse cominciare». L’assunto solleva alcune difficoltà. La prima è che tale posizione, malgrado e al di là di qualsiasi annuncio della nascita di un «mondo in francese» tende a riproporre, seppur assai diversamente coniugata, l’irriducibile dicotomia letteratura francese continentale e letteratura francese, diciamo, extra-continentale, l’una moribonda e afona, l’altra in ottima salute e piena di «parole-mondo», se mi si passa il neologismo. La seconda è che tale vittoria della periferia sul centro si gioca, almeno formalmente, su un’evidenza fondata sull’assegnazione di 5 premi letterari francesi. Ora, in Francia come in Italia, i premi letterari sono riconoscimenti che rispondono a dinamiche opache e controverse, spesso non letterarie in senso stretto, e che, soprattutto quando consacrano autori provenienti dall’ex-impero coloniale, andrebbero interpretati nella triplice prospettiva individuata da Pascale Casanova,9 quella dei criteri commerciali, delle norme nazionali e delle preoccupazioni neo-coloniali. Stupisce insomma che l’evidenza dello spostamento del baricentro letterario passi attraverso canali, categorie e classificazioni letterarie eminentemente istituzionali e franco-centriche e tale attitudine, mi pare, finisce per ridurre la dimensione e la portata della «rivoluzione copernicana» annunciata nell’incipit del manifesto. 8 9

J. Rouaud, Mort d’une certaine idée, in M. Le Bris e J. Rouaud (a cura di), Pour une littérature-monde cit., p. 21. P. Casanova, La république mondiale des lettres (1999), Paris, Seuil, 2008, p. 182.


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Infine, la letteratura francese contro cui si scagliano i 44 per disegnare la loro vittoria, quella dell’«avventura della scrittura», del romanzo comodamente seduto davanti a uno specchio che gli impedisce di vedere il mondo, ha certo variamente informato di sé gli anni 60/70 (e con effetti assai meno mortiferi, mi sembra, di quanto si dica nel manifesto), ma non mi pare dominare la scena attuale franco-francese. Tuttavia, al di là dei limiti della retorica rivendicativa che attraversa l’intera argomentazione, il Manifesto dei 44 prende atto, e pubblicamente denuncia, una particolarità del sistema letterario francese, quella di continuare a relegare su un piano e a uno statuto subalterno la letteratura d’Outre-France, finanche sugli scaffali delle librerie, dove Kundera e Beckett sono sistemati tra gli scrittori francesi, Rushdie e Naipul tra gli inglesi, ma Waberi e Mabankou tra quelli post-coloniali o, ancora più grossolanamente, tra gli scrittori africani variamente confusi. Il manifesto insomma presenta una diagnosi giusta, come scrive Jean-Marc Moura,10 sull’organizzazione delle lettere di lingua francese, inserendosi in un’ottica postcoloniale che tenta di rilevare, e rendere pubblica, la parte di essenzialismo e franco-centrismo presente ancora oggi nell’organizzazione, nella produzione e nella ricezione della cultura in Francia. Nel manifesto dei 44, poi, c’è ancora qualcosa altro di importante. L’idea cioè di poter e dover liberare la lingua dal suo contratto esclusivo con una nazione e una cultura specifiche. Quell’idea di «autonomisation de la langue» – ovvero di uno statuto sempre più autonomo e transnazionale della lingua – che ritorna più volte nel manifesto e nel volume miscellaneo. Una lingua autonoma, libera, nutrita da avventure culturali, sociali e letterarie diverse. Una lingua creola nel senso indicato da Eduard Glissant (che è del resto uno dei firmatari del manifesto), ovvero una lingua che nasce, di volta in volta nuova e imprevedibile, dall’incontro, reale o immaginario, con altre lingue, altre culture, altre avventure, tutte equivalenti per valore, poiché, dice Glissant, «scriviamo sempre in presenza di tutte le lingue del mondo». Poiché, dice sempre Glissant, il multilinguismo che attraversa il nostro mondo, il Tout-monde, non suppone «la coesistenza delle lingue né la conoscenza di molteplici lingue ma la presenza delle lingue del mondo nella pratica della propria lingua».11 10

J.M. Moura, Le postcolonial dans les études littéraires en France, in M.C. Smouts (a cura di), La situation postcoloniale, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 2007, p. 108. 11 E. Glissant, Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard, 1996, p. 41 (traduzione mia).


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A tale proposito, c’è una considerazione abbastanza forte nel saggio di Michel Le Bris che vale la pena di essere evocata. Quella cioè che l’occidentalizzazione del mondo sia un processo «à double détente» (a doppio scoppio, o a doppia azione): nel momento in cui l’Occidente si sparge sul mondo, dice Le Bris, il mondo lo assorbe, lo digerisce e, in ultima analisi, lo dissolve attraverso un processo continuo di ibridazioni multiple.12 L’idea cioè che il trionfo dell’Occidente sul mondo coincida, anche, con la dissoluzione dell’Occidente nel mondo, con la sua diluizione in un mondo variamente e incessantemente polifonico. Dal punto di vista linguistico, ciò corrisponde a qualcosa di diverso dal fenomeno di «glottofagia», di cannibalismo linguistico coloniale, descritto da Louis-Jean Calvet alla metà degli anni ’70. Alla sparizione e marginalizzazione delle lingue subalterne e periferiche di cui parla Calvet, letteralmente e letterariamente mangiate dalle lingue della colonizzazione, sembra corrispondere anche un processo di ri-appropriazione linguistica da parte delle popolazioni colonizzate che forza e trasforma, dall’interno, la lingua dei coloni fino a causarne la dissoluzione in un reticolo di forme linguistiche ibride e delocalizzate e, dunque, fino anche a riscriverne gli equilibri di potere. Si tratta di una posizione largamente condivisa dai firmatari del manifesto. Jean Rouaud parla di una lingua francese finalmente liberata dal laccio della lingua-madre, nutrita di altre avventure, senza più conti da saldare con gli antichi maestri13 e Alain Mabanckou va ancora più lontano dicendo che gli autori d’Outre-France non hanno il ruolo di arricchire dall’esterno la lingua francese, il che negherebbe loro ogni autonomia in nome di una funzione utilitaria di «salvataggio linguistico» (funzione spesso riconosciuta oggi dalla critica franco-francese), ma bensì il ruolo preciso di crearne una nuova e autonoma.14 È un’idea forte e fortemente positiva. Che corre tuttavia il rischio di rimuovere il sostrato di conflittualità, profonda, sul quale si fonda, anche, la pratica linguistica di quegli stessi scrittori. Che corre insomma lo stesso rischio che taglia diagonalmente la posizione di Eduard Glissant, quello cioè di sostituire l’idea di relazione a

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M. Le Bris, Pour une littérature-monde en français cit., p. 40. J. Rouaud, Mort d’une certaine idée cit. p. 21. 14 A. Mabanckou, Le chant de l’oiseau migrateur, in M. Le Bris e J. Rouaud (a cura di), Pour une littérature-monde, cit., p. 61. 13


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quella di conflitto in una dimensione, talvolta, di pericolosa apologia della creolità. Sulla portata di tale rischio hanno di recente scritto Sandro Mezzadra e Etienne Balibar e alle loro importanti considerazioni rimando.15 Vorrei solo rilevare che tale posizione mina dall’interno l’impalcatura straordinaria di un testo oggi considerato imprescindibile per la riflessione sulla nozione di letteratura mondiale, quello cioè di Pascale Casanova, secondo il quale la triade indissolubile nazione/lingua/letteratura costituisce l’unità minima per l’analisi della rete combinatoria/concorrenziale che passa sotto il nome di Repubblica mondiale delle lettere. Poiché anche quando Casanova – suscitando per altro molte perplessità – presenta Parigi come capitale mondiale delle lettere, dunque capitale denazionalizzata, non dimentica di aggiungere che si tratta di un caso particolare, poiché, dice, «non bisogna dimenticare che il capitale letterario è nazionale e questo in nome del suo legame costitutivo con la lingua».16 Quello che vale per la città dei lumi, insomma, non può valere per il resto del mondo, che rimane imprigionato, sembra, nei lacci della nazione. Vorrei insomma rilevare che dall’interno di quello stesso sistema mondo di cui parla Casanova si levano voci che quell’indissolubilità combattono proprio in nome di un sistema letterario sovra-nazionale e che essa forse andrebbe ri-discussa, problematizzata, aperta e certo meglio giustificata. Infine, prima di concludere, vorrei aggiungere ancora alcune rapide riflessioni sul Manifesto. Circa a metà, una volta dunque uccisi i padri afoni della letteratura francese, i firmatari del manifesto riconoscono una nuova famiglia letteraria di appartenenza, che sembra prendere forma sulla scia, si legge, di un vento nuovo, «un vento d’Outre-Manche». Un vento inglese «bidirezionale», in cui riconosciamo una generazione di scrittori-viaggiatori, travel-writers nel testo, (Bruce Chatwin in testa) e una di «uomini tradotti», di cui naturalmente Salman Rushdie regge le fila. Due generazioni che, si legge, hanno smesso di vivere «nella nostalgia di un paese perduto per sempre» e che,

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E. Balibar, Nous citoyens d’Europe? Les frontières, l’Etat, le peuple, Paris, La Découverte, 2001; S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008. 16 P. Casanova, La république mondiale des lettres cit., p. 62.


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trovandosi «tra due mondi e su due sedie», tentano strenuamente di mettere in scena un mondo nuovo e una nuova identità plurale «nel territorio ambiguo e mobile di questa frizione». Due veloci considerazioni. La prima è che la genealogia letteraria di questi scrittori non si limita ad abbracciare l’area francese del mondo, il mondo-in-francese del titolo, ma si costituisce al di là e oltre ogni appartenenza nazionale e linguistica, inserendosi in un sistema effettivamente più largo delle lettere che obbliga lo studioso ad un approccio mondialista. Secondo, che all’interno di questo sistema mondiale, sembra disegnarsi una zona letteraria specifica, quella degli scrittori della diaspora, reale o simbolica, degli scrittori che scrivono «in situazione», e dal cuore delle asimmetrie, entro lo spazio oscillatorio di frontiere che si muovono e conflitti che si aprono. Scrittori che grazie alla loro posizione «situata» rinnovano, oggi probabilmente più di altri, una delle funzioni essenziali della parola letteraria, che non è tanto quella di dire il mondo, ma quella di restituirne, dall’interno, una possibile configurazione, ovvero un possibile orizzonte di senso, e scongiurando anche, oggi probabilmente più di altri, il rischio, riconosciuto anche da Casanova, che la letteratura mondiale diventi «l’invenzione più diabolica del centro, in nome del diniego della struttura antagonista e gerarchica del mondo, sotto l’egida dell’uguaglianza di tutti in letteratura».17

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Ivi, p. 227.


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ABSTRACT

Lo studio propone una lettura del Manifesto dei 44, uscito il 16 marzo del 2007 sulle colonne del quotidiano francese Le Monde, con il titolo Pour une littérature-monde en français, poco dopo l’assegnazione dei cinque più importanti premi letterari francesi (Goncourt, Grand Prix du roman de l’Académie française, Renaudot, Femina et Goncourt des lycéens) a scrittori «d’outre France», ovvero a scrittori francofoni, di origine non-francese. Al di là dei limiti della retorica rivendicativa del testo, il Manifesto dei 44 prende atto, e pubblicamente denuncia, una particolarità del sistema letterario francese, quella cioè di fare della francofonia non soltanto una zona letteraria distinta da quella franco-francese, ma anche e soprattutto una zona letteraria subordinata, subalterna, dunque letterariamente inferiore. Il Manifesto si presenta così, anzitutto, come annuncio solenne della fine della posizione egemonica della letteratura franco-francese (quella prodotta entro il perimetro linguistico nazionale ristretto, ovvero continentale) rispetto ad una letteratura in lingua francese, prodotta ai quattro angoli del mondo. Intorno a tale assunto centrale, si articolano tuttavia altre importanti considerazioni, che il saggio si propone di interrogare e di mettere alla prova di un approccio critico-lettario sovranazionale: 1. liberazione della lingua dal suo patto esclusivo con la nazione (autonomisation de la langue), sullo sfondo di un ribaltamento dei rapporti di forza centro-periferia; 2. emergenza di una letteratura “nuova”, «che ha ritrovato l’ambizione di dire il mondo, di dare un senso all’esistenza, di interrogare l’umana condizione»; 3. emergenza di una comunità extranazionale di scrittori: gli scrittori della diaspora (reale o simbolica), scrittori che scrivono «in situazione», dal cuore delle assimetrie, entro lo spazio oscillatorio di frontiere che si muovono e conflitti che si aprono.

This paper proposes a reading of the Manifeste des 44, published the 16 March 2007 on the French newspaper Le Monde, with the title of Pour une littérature-monde en français, and this shortly after the assignation of the five major French literary prizes (Goncourt, Grand Prix du roman de l'Académie française, Renaudot, Femina and Goncourt des Lycéens to writers «d’outre France», that is to say French-writing authors with non-French origin.


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Beyond the limits of the claim rhetoric of the text, the Manifeste publicly denounces a peculiarity of the French literary system: the Francophonie seems not only a literary area separate from the French littĂŠrature, but also an area literary subordinate, literary inferior. Therefor the Manifeste is a solemn announcement of the death of the hegemonic position of the French literature (the one produced within the small national linguistic perimeter) regards to the literature written in French and produced in the four corners of the world. Around this central assumption, however, there are other important considerations the paper aims to question and test starting from a supranational critical approach: 1. the liberation of language from its exclusive ontract with the nation (autonomisation de la langue); 2. the emergence of a "new" literature, "who found again the ambition to tell the world, to give meaning to existence, to question the human condition"; 3. the emergence of a community of writers: the writers of the diaspora (real or symbolic), writers who write "in situation", from the heart of asymmetries, within the oscillating space of mouving boundaries and renovating conflicts.


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