Scritture dell’eccentrico nella letteratura postcoloniale by Federica Zullo
Il tema dell’alienazione emerge con forza nelle produzioni letterarie dei paesi che hanno fatto esperienza del trauma fisico e psichico del colonialismo. Lo stesso tema è strettamente interconnesso ad altre questioni di rilievo della letteratura postcoloniale, il senso del luogo, lo spaesamento, il conflitto legato alla ricerca d’identità e alla relazione esclusione/appartenenza. È questo il nucleo del discorso ampiamente analizzato durante il convegno Ex-centric Writing: Madness in Postcolonial Fiction in English, tenutosi all’Università di Verona l’1 e 2 dicembre 2011. L’esperienza o visione eccentrica della realtà disturba sempre la rappresentazione presumibilmente “centrale” della stessa, rendendola strana e straniante. Quando la condizione del soggetto alienato è indagata attraverso la lente della follia, emergono preoccupazioni generali di carattere morale, esistenziale e politico inerenti uno specifico contesto di riferimento. E’ da questa posizione “fuori dal centro”, in esilio permanente, che l’ideologia e la pratica del colonialismo chiede di essere riconsiderata come segno di una psicopatologia. Su tali premesse ruotavano gli interventi delle due giornate, incentrati su autori e autrici provenienti da diverse aree geografiche nel panorama delle letterature contemporanee di lingua inglese. Il focus iniziale era sul Sudafrica, privilegiando un autore indissolubilmente legato al problema dello spaesamento, fisico e psichico, il premio Nobel J.M. Coetzee. David Attwell, dell’Università di York (UK), ha scelto un romanzo del 1994, The Master of Petersburg (Il maestro di Pietroburgo), per delineare un percorso denso e frammentato riguardante le vicende del personaggio Dostoveskij sulle tracce di indizi che possano far luce sulla morte del figlio adottivo Pavel. La storia inventata dialoga senza dubbio con le vicende personali dello stesso Coetzee, ovvero la perdita del figlio Nicholas avvenuta nel 1992 in circostanze simili a quelle narrate nel romanzo. Attwell sottolinea la progressiva discesa agli inferi del protagonista, il suo incontro con la morte durante le peregrinazioni nella Pietroburgo degli anni Settanta dell’Ottocento. Si assiste ad una caduta verso l’oscenità, esasperata nei frequenti attacchi epilettici che colpiscono Dostoevskij, in relazione alla caduta vera e propria del
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giovane Pavel. Sembra che l’ultimo capitolo sia stato scritto per mettere in scena uno stato di follia permanente, un senso di angoscia destinato a durare nel tempo. Attwell è ben riuscito a evidenziare gli elementi per cui il romanzo debba essere letto anche come un documento personale, vista l’indagine non risolta e a tratti perturbante del rapporto fra padre e figlio. Alle difficili relazioni familiari ha fatto riferimento anche Carmen Concilio, dell’Università di Torino, nel suo intervento su In the Heart of the Country (Deserto, nella versione italiana), romanzo pubblicato da Coetzee nel 1976, confrontandolo con il film che ne fu tratto pochi anni dopo, dal titolo Dust. In questo caso è il rapporto padrefiglia al centro di un non-comune farm-novel, in cui Magda, la protagonista, esclusa dall’affetto del padre e dalla gestione del potere domestico, soffre di allucinazioni, ha comportamenti grotteschi e schizofrenici. La presenza di una coppia di domestici di colore complica e modifica il rapporto familiare; la fattoria è rappresentata come un’anti-comunità, un mondo claustrofobico, simbolo di quel potere coloniale che Achille Mbembe identifica come sistema sempre caratterizzato da una dimensione nevrotica. Sia nel romanzo sia nel film, la proprietà è il riflesso di una prigione, un luogo di torture, di morte, il feudo di un padrone narcisista e autoritario. Concilio è stata molto abile nell’inserire la figura di Magda all’interno delle contraddizioni di tale microcosmo, inscritte in una peculiare “economy of Madness”, e sottolineando anche come il film privilegi maggiormente questioni di genere legate all’esplorazione dell’identità femminile, utilizzando la simbologia lacaniana dello specchio che riflette l’Altro e non il sé, in merito soprattutto al rapporto di Magda con la donna di colore. L’indagine sulle relazioni fra genere, razza e potere è proseguita con la presentazione di Susanna Zinato, (Università di Verona), attraverso l’esame dell’opera di Bessie Head, autrice per cui il tema del disturbo mentale assume un carattere autobiografico che si riflette nei suoi racconti e romanzi. Zinato si è sofferma su un romanzo complesso come A Question of Power, del 1974, leggendolo con strumenti critici che rimandano a Frantz Fanon, autore ovviamente citato in più occasioni durante il convegno, e soprattutto a Julia Kristeva, riguardo al tema dell’abiezione. Nel romanzo di Head il corpo femminile è luogo di abuso di potere, di invasione, ma anche di resistenza.: la protagonista è meticcia, madre single, istruita: rappresenta un’abiezione sia per i neri sia per i bianchi e per questo soggetta ad atti di oscenità e perversione. Ciò che può condurla fuori dallo stato di follia è l’incontro con la comunità e la scrittura, che le consente di salvare se stessa e il proprio corpo. La psiche femminile era ancora al centro dell’intervento di Angelo Righetti (Università di Verona), dedicato alla protagonista di uno dei
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più conosciuti romanzi di Nadine Gordimer, Burger’s Daughter (La figlia di Burger) del 1975. Rosa Burger porta con sé la pesante eredità di essere la figlia di due attivisti politici molto noti in tutto il paese durante gli anni della resistenza anti-apartheid. Fin da piccola, la sua vita è stata condizionata dal fatto di non essere solamente la figlia naturale dei suoi genitori, ma anche la figlia politica. Su tale ambivalenza si basa il suo complicato percorso di crescita e liberazione, e Righetti ha messo in luce come la “versione di Rosa” trovi senso ed equilibrio solo attraverso il viaggio in Europa e una presa di distanza dal Sudafrica, fino al ritrovamento di un consapevole desiderio di ritorno. Dal Sudafrica si è passati ai Caraibi, grazie in primo luogo al contributo di John Thieme, della University of East Anglia, uno dei più riconosciuti studiosi di teoria e letteratura postcoloniale a livello internazionale, che ha posto a confronto opere di scrittori anglofoni (Earl Lovelace, Dereck Walcott e Edna Brobner) e francofoni (Patrick Chamoiseau, Gisèle Pineau e Marie Vieux-Chauvet), tracciando analogie e differenze nel racconto di “condizioni nervose” di personaggi maschili e femminili inseriti in contesti coloniali e postcoloniali estremamente problematici. In tutti i lavori analizzati, Thieme individua la presenza di soggettività divise e dissociate, di una schizofrenia culturale dovuta agli effetti del colonialismo e dell’imperialismo linguistico. Nel mondo francofono in particolare ha sottolineato una particolare aura di oscurità e pessimismo, in cui la follia è generalizzata e sembra essere la norma, effetto di una politica assimilazionista difficile da scardinare e contestare anche nel postindipendenza. L’Australia è un altro territorio cui vari interventi sono stati dedicati, affrontando, fra gli altri, autori come Henry Lawson e Patrick White. Annalisa Pes ha tracciato percorsi fisici e mentali narrati dai due maggiori rappresentanti del canone della letteratura australiana, sempre in bilico fra isolamento, alienazione e follia nell’ incontro/scontro con uno spazio perturbante e di difficile interpretazione. I contributi al convegno sono riusciti a conferire la dovuta rilevanza ai temi della follia e dell’eccentricità, declinandoli in contesti diversificati a livello storico-politico e sociale, portando sempre alla luce questioni di grande urgenza e attualità, permettendo con ciò di riconsiderare momenti cruciali delle storie coloniali e postcoloniali de-centrandone il punto di vista, così da allargare le possibili prospettive di interpretazione.