Questo libro, pubblicato come supplemento della rivista Trasporti & Cultura, è stato realizzato in collaborazione con:
ROTARY CLUB VENEZIA MESTRE
Hanno concesso il patrocinio:
Ha contribuito:
Questo libro trae origine dalle tre giornate di studio organizzate da Laura Facchinelli, direttrice della rivista Trasporti & Cultura e presidente del Rotary Club Venezia Mestre per l’anno 2016-2017, con Oriana Giovinazzi e Viviana Martini, con le quali ha curato anche la presente raccolta di contributi Marghera. Riconversione, progetto, paesaggio (30 settembre 2016, Marghera, Vega)
Comitato Scienti co: Laura Facchinelli, Tommaso Santini, Oriana Giovinazzi
Mestre. La ferrovia e la città (27 gennaio 2017, Marghera, Vega)
Comitato Scienti co: Laura Facchinelli, Giovanni Seno, Oriana Giovinazzi
Venezia. Paesaggio urbano nel contemporaneo (21 aprile 2017, Venezia, Ateneo Veneto)
Comitato Scienti co: Laura Facchinelli, Nicola Torricella, Viviana Martini, Oriana Giovinazzi
In copertina: sullo sfondo di una veduta aerea del ponte translagunare stradale in costruzione (1933), le immagini delle tre “anime” di Venezia: Marghera, Mestre e la città storica.
I TRE FUTURI DI VENEZIA MARGHERA, MESTRE E CITTÀ STORICA PENSIERI SULLE TRASFORMAZIONI
a cura di Laura Facchinelli Oriana Giovinazzi e Viviana Martini
I TRE FUTURI DI VENEZIA
© Copyright 2017 Supplemento della rivista Trasporti & Cultura quadrimestrale di architettura delle infrastrutture nel paesaggio Proprietario e direttore responsabile: Laura Facchinelli Direzione e redazione: Cannaregio 1980 - 30121 Venezia email: info@trasportiecultura.net laura.facchinelli@alice.it La rivista è pubblicata anche on-line nel sito www.trasportiecultura.net Autorizzazione del Tribunale di Verona n. 1443 dell’11.5.2001 ISSN 2280-3998
Responsabili del progetto editoriale: Laura Facchinelli, Oriana Giovinazzi e Viviana Martini Traduzioni in lingua inglese: Olga Barmine ed Helen Tamara Matthews Stampa: Gra che Veneziane, Venezia
Gli autori sono responsabili dei contenuti dei loro elaborati ed attribuiscono, a titolo gratuito, alla rivista Trasporti & Cultura il diritto di pubblicarli e distribuirli, anche tramite i suoi supplementi. Non è consentita l’utilizzazione degli elaborati da parte di terzi, per ni commerciali o comunque non autorizzati: qualsiasi riutilizzo, modi ca o copia anche parziale dei contenuti senza preavviso è considerata violazione di copyright e perseguibile secondo i termini di legge. Sono consentite le citazioni, purché siano accompagnate dalle corrette indicazioni della fonte e della paternità originale del documento e riportino fedelmente le opinioni espresse dall’autore nel testo originario. Tutto il materiale iconogra co presente su Trasporti & Cultura e sui suoi supplementi ha il solo scopo di valorizzare, sul piano didattico-scienti co i contributi pubblicati.
I TRE FUTURI DI VENEZIA
INDICE
PRESENTAZIONI
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Anna Buzzacchi, Presidente dell’ Ordine degli Architetti P. P. C. della Provincia di Venezia Gustavo Rui, Presidente della Fondazione Ingegneri della Provincia di Venezia
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Perchè i tre futuri di Venezia Le curatrici Laura Facchinelli, Oriana Giovinazzi e Viviana Martini
INTRODUZIONE
Prima sezione
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Coordinamento di Oriana Giovinazzi
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Marghera: cento anni guardando al futuro Introduzione di Gianfranco Bettin
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I cento anni di Marghera: l’utopia della Grande Venezia, i primi insediamenti, la città giardino Sergio Barizza
UNO SGUARDO ALLE ESPERIENZE 33
Il caso Bagnoli Massimo Pica Ciamarra
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Dal Porto Antico alla Fiera del Mare: idee e proposte progettuali per il waterfront di Genova Oriana Giovinazzi
49
Rigenerazione urbana, qualità insediativa e sostenibilità sociale delle trasformazioni: l’insegnamento di Amburgo Chiara Mazzoleni
57
Lands of opportunities: rigenerazione urbana a Londra Michelangelo Savino e Martina Concordia
65
Lyon Con uence, riquali cazione urbana dell’ex area industriale di Lione alla con uenza tra il Rodano e la Saona Paolo Alberti e Gabriele Scicolone
MARGHERA, VISIONI FUTURE E PROTAGONISTI 73
Marghera, idee per il futuro Andreas Kipar
81
Porto Marghera, lo sviluppo possibile. Riconversione e waterfront Tommaso Santini
87
Scenari per Marghera, fra s de e paradossi Maria Chiara Tosi
93
Venezia, il futuro del Porto Intervista a Pino Musolino, Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale a cura di Laura Facchinelli e Oriana Giovinazzi
I TRE FUTURI DI VENEZIA
Seconda sezione
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Coordinamento di Laura Facchinelli
103
Il nodo ferroviario e la stazione di Mestre Introduzione di Agostino Cappelli
107
Breve storia della ferrovia a Mestre. Dalla stazione ottocentesca al grande nodo del traffico ferroviario e della vita urbana Laura Facchinelli
CONFRONTI E ANALISI DEL PROBLEMA 115
Torino: la trasformazione lungo la ferrovia Matteo Tabasso e Michela Barosio
123
L’infrastruttura scomparsa. Il nuovo suolo della stazione Sagrera Alta Velocità a Barcellona Zeila Tesoriere
131
La nuova stazione centrale di Berlino, nodo strategico della città riuni cata Giulia Melilli
139
Processi di rigenerazione urbana, gli scali di Milano Carlo De Vito, Sara Iacoella e Marina Marcuz
MESTRE, LE PROSPETTIVE FUTURE 147
Il nodo ferroviario di Venezia Mestre alla luce del nuovo codice degli appalti e della piani cazione nazionale dei trasporti Andrea Sardena
155
Ferrovie, il nodo di Venezia Mestre e l’Alta Capacità Carmelo Abbadessa
161
Servizi per la mobilità dei viaggiatori Giovanni Seno
Terza sezione
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
Coordinamento di Viviana Martini
169
Con itti e convergenze fra il nuovo e l’antico Introduzione di Guido Vittorio Zucconi
NOVECENTO. SPINTE AL RINNOVAMENTO, RICHIAMI ALLA CONSERVAZIONE 173
La Venezia di Eugenio Miozzi Riccardo Domenichini
181
Un discorso interpretativo e poetico su Venezia: Carlo Scarpa alla Fondazione Querini Stampalia Orietta Lanzarini
I TRE FUTURI DI VENEZIA
189
La ricostruzione del Teatro La Fenice: l’occasione perduta Sergio Pratali Maffei
197
L’evoluzione delle aree portuali del centro storico Nicola Torricella e Federica Bosello
205
Il Campus di San Giobbe, nel cuore di Cannaregio Vittorio Spigai
RESPONSABILITÀ DELLE SCELTE 213
Santiago Calatrava a Venezia: un ponte tra armonia, realtà e sogno Enzo Siviero
219
La conservazione dell’edilizia storica veneziana Mario Piana
225
L’ inserimento del nuovo nel patrimonio storico Viviana Martini
231
L’Unesco per Venezia, Venezia per l’Unesco Paolo Costa
237
L’architettura moderna a Venezia Clemens Kusch
243
Variante al Piano Regolatore Generale per la Città Antica di Venezia: e la conservazione? Giorgio Nubar Gianighian
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LE CURATRICI, GLI AUTORI
I TRE FUTURI DI VENEZIA
I tre convegni organizzati dal Rotary Club Venezia Mestre, con la partecipazione degli Ordini degli Ingegneri e degli Architetti P.P.C. della Provincia di Venezia, hanno sviluppato un interessante dibattito sugli aspetti speci ci delle tre parti che compongono la città “ampia” di Venezia: Marghera, Mestre e il Centro Storico ed hanno offerto un’idea complessiva di città, articolata per parti, con una presenza di attività e di funzioni diversi cate che mettono in relazione obbligata la parte con il resto della città. Le speci cità che ogni parte ha assunto richiedono oggi una capacità di governo complessivo che risponda alle esigenze dei cittadini che vivono e lavorano nel territorio “ampio” della città di Venezia. Marghera è nata con un forte legame con Venezia ed oggi, come opportunamente è stato ricordato, Venezia è forse l’unica città in Europa che ha un territorio di 2.000 ettari sul quale costruire un pezzo di città: la città contemporanea, capoluogo della vasta area metropolitana del nord-est. E quindi, in quest’ottica, la visione della stazione di Mestre come area strategica di snodo per i collegamenti tra le parti della città e tra la città ed il territorio, per garantire la mobilità nell’area metropolitana. Lo sviluppo di un’economia diversi cata nel territorio cittadino è presupposto per una tutela attiva del centro storico, frutto di un’azione coordinata fatta di programmi comuni e azioni condivise, non certo di azioni frammentate. La conservazione implica un progetto complessivo per la città e la società che la abita. Credo si possa sostenere che in Italia un progetto di conservazione delle città non si è compiuto perché i centri storici sono oggi, se va bene, al massimo tutelati. La normalizzazione della tutela entro sistemi, regole e prassi consolidate non offre risposta al quesito di fondo: come conservare? Spesso gli interventi di conservazione portano ad una omologazione che mira ad una staticità dell’immagine di Venezia mentre storicamente la città ha conservato la sua identità con processi continui di adeguamento e di rinnovamento, legati alle esigenze di vita dell’intero contesto. Molteplice è l’appello alla responsabilità dei professionisti che, con diverse competenze, si ritrovano ad operare nella veste di mediatori tra le determinazioni della politica, gli interessi dei singoli ed i valori collettivi della città e della comunità dei cittadini. Anna Buzzacchi
Presidente dell’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Venezia
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PRESENTAZIONI
La trasformazione delle città, mediante il loro recupero, restauro e riconversione di volumi e di spazi, è argomento attuale sia per motivi culturali, sia per la ricerca di concrete soluzioni applicabili con razionalità e rispetto delle ricchezze ambientali ed architettoniche esistenti. A questa esigenza di trasformazione sono soggette tutte le città che hanno conosciuto uno sviluppo vorticoso e disordinato, che ha prodotto luoghi dove vivere dignitosamente è difficile e luoghi non più utilizzabili per i ni originari, per l’evoluzione intervenuta nella vita sociale, economica e produttiva. Ciò è particolarmente attinente a Venezia dove la complessità del territorio, la destinazione delle sue diverse parti e la netta separazione sica tra le stesse, comportano un’azione di analisi e studio utile a offrire proposte per soddisfare le esigenze di unitarietà o complementarità che, indipendentemente dalle dimensioni gestionali, rispondano alle richieste di una società attiva. In questo quadro i temi ripresi dalle giornate di studio di cui alla presente pubblicazione, si inseriscono con perfezione. L’unicità del centro storico, nel quale la necessità di riutilizzo si accompagna all’esigenza della conservazione, la particolarità di Marghera, in cui la riconversione e riquali cazione non è rinviabile e, in ne, la questione del nodo ferroviario di Mestre e delle relazioni tra le diverse parti della città, sono temi che pretendono un approccio serio e profondo. Discutere di queste questioni è quindi fondato su esigenze reali e percepite. Gli Ingegneri Veneziani, che hanno dato il loro sostegno alle iniziative, erano tenuti a partecipare alle stesse, considerato il forte valore culturale, ma anche la loro attualità e il riferimento alle competenze della categoria. Il ruolo delle professioni tecniche, infatti, in questa stagione di trasformazioni, è centrale e presuppone la crescita di sensibilità che su questi grandi temi è possibile ottenere solo con il confronto fra tutte le realtà sociali e culturali. Si potrà così operare con consapevolezza e responsabilità, individuati e noti gli obiettivi, sapendo di agire su un bene universale di una delicatezza unica come è Venezia nelle sue diverse realtà. É per questo che ritengo meritoria l’iniziativa degli organizzatori di consentire, oltre che l’occasione dell’incontro, anche la memoria scritta di quanto dibattuto. Gustavo Rui
Presidente della Fondazione degli Ingegneri della Provincia di Venezia
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Whi three future for Venice
An encounter with Venice is an extraordinarily rich and complex experience. The name itself, Venice, is embedded in the collective imagination of the entire world as a city on the water, brimming with history, art and beauty. For many, it is one of the places that they must visit at least one time during their lifetime. But Venice also has a soul on the mainland. Indeed two souls, each with its own history and character. Mestre, which has grown rapidly since the mid-nineteenth century, was a small town that has now become a populated city. And Marghera, which was once just the edge of the lagoon, was chosen in the early decades of the twentieth century as the site for an industrial area with infrastructure for the transportation of goods by sea and by land. Over time, the functions and the prospects have changed. And here we are now. While most of its industries have been abandoned, Marghera now shows new and unexpected potential: it has become one of those peripheral areas whose energy and openness to urban transformation have nally been recognized. Mestre, built in haste in the postwar era to house a growing number of new residents, and long considered as a subordinate non-Venice, is now a medium-to-large city aware of its own importance, seeking recognition through architectural quality and a lively cultural agenda. And Venice? The city, proud of its magni cent uniqueness (visited every day by thousands of tourists, most of them interested primarily in seeing the symbolic locations that de ne their idea of Venice) has always been uncertain of the choice between conservation and renewal. Some say that the choice must be conservation, otherwise the city would lose its identity, whereas others on the contrary sustain that Venice has not been open enough in its acceptance of the contemporary. The debate, fueled by scholarly dissertations and widely shared emotions, may never come to a conclusion. Uncertainty will prevail. Venice as an extraordinarily rich and complex experience, by virtue of its multiplicity: that is the starting point for this book, which offers in uential considerations about its future, indeed the three different but complementary futures of the city. The considerations are largely those that developed during the three conferences promoted in recent months by the Rotary Club Venezia Mestre. Laura Facchinelli, one of the three curators, supported these three initiatives as her commitment during her year as President of the Club. But it was truly a team effort with Oriana Giovinazzi and Viviana Martini, an effort rooted quite far back. It began with the research conducted for the magazine Trasporti & Cultura, the discussions within the study group Paesaggi Futuri, the conferences, literary awards and interests that weave together engineering and art, architecture and psychology, and the many other relationships and fascinating concerns that break through rigid disciplinary boundaries. The rst conference, Marghera: conversion, project, landscape, began with a series of international case studies. Because good design requires understanding, looking far beyond one’s boundaries, to see what others are doing, and in them nd inspiration or reason to take a distance. The same was true for the second conference, Mestre: the railway and the city. It was not until after the presentation of other scenarios that the protagonists of our own region took the dais, leading the debate to consider various points of view. Among 10
INTRODUZIONE
Perchè i tre futuri di Venezia
Conoscere Venezia è un’esperienza straordinariamente ricca e complessa. Il nome “Venezia” appartiene all’immaginario collettivo del mondo come città d’acqua intessuta di storia, d’arte, di bellezza. Per molti è soprattutto un luogo dove vorrebbero, nella vita, recarsi almeno per un giorno. Ma Venezia ha anche un’anima di terraferma. Anzi, due anime, che a loro volta hanno una storia e un carattere. Mestre, che dalla metà dell’800 è cresciuta rapidamente, da piccolo borgo diventando l’attuale popolosa città. E poi Marghera, prima solo margine lagunare, dai primi decenni del ‘900 scelta per insediamenti produttivi con infrastrutture per il trasporto delle merci per mare e per terra. Col tempo sono cambiate le funzioni e le prospettive. Ed ecco il presente. Marghera, se ha subìto la dismissione di gran parte delle produzioni, ha però acquisito nuove e impreviste potenzialità, entrando nella rete di quelle periferie che hanno nalmente visto riconosciuta la propria carica di energia e di apertura alle trasformazioni urbane. Mestre, costruita in fretta negli anni del dopoguerra per accogliere sempre nuovi residenti e, per troppo tempo, vista nel ruolo subalterno di una non-Venezia, è ora una città medio-grande consapevole della propria importanza. E che vorrebbe ottenere un riconoscimento anche attraverso i segni della qualità architettonica e la presenza attiva della cultura. E Venezia? La città, orgogliosa della propria magni ca unicità (e percorsa ogni giorno da migliaia di turisti, per lo più rivolti solo a riconoscere i luoghi-simbolo depositati nel loro immaginario) da sempre è in dubbio fra la conservazione e il rinnovamento. C’è chi dice che la scelta della conservazione è necessaria, altrimenti la città perderebbe la propria identità, e chi, al contrario, sostiene che Venezia non ha ancora accolto il contemporaneo con sufficiente apertura. Il dibattito, fra dotte dissertazioni ed emozioni diffuse, forse non avrà mai ne. Il dubbio resterà. Venezia come esperienza straordinariamente ricca e complessa, proprio per la sua molteplicità: è questo il punto di partenza di questo libro. Che presenta ri essioni autorevoli sul futuro, anzi sui tre futuri, diversi ma complementari, della città. Le ri essioni sono, in gran parte, quelle sviluppate nell’ambito di tre giornate di studio promosse, nei mesi scorsi, dal Rotary Club Venezia Mestre. Delle tre curatrici, Laura ha voluto queste tre iniziative come impegno nel suo anno di presidenza del club. Ma l’impresa è stata un “lavoro di squadra” con Oriana e Viviana e nasce da lontano. Nasce dalle ricerche condotte attraverso la rivista Trasporti & Cultura, le discussioni nel gruppo di studio Paesaggi Futuri, i convegni, i premi letterari, gli interessi che intrecciano l’ingegneria con le arti, l’architettura con la psicologia, passando attraverso altre relazioni e fascinazioni che rifuggono le rigide appartenenze disciplinari. La prima giornata di studio, Marghera: riconversione, progetto, paesaggio, è partita con una serie di casi studio internazionali. Perché, per progettare bene, è meglio conoscere, lanciare lo sguardo oltre i con ni: vedere cosa fanno gli altri, per ispirarsi oppure prendere le distanze. Così è stato anche per la seconda giornata, Mestre: la ferrovia e la città. Solo dopo l’illustrazione di altri scenari, sono intervenuti i protagonisti del nostro territorio, che si sono confrontati secondo i vari punti di vista. Fra le realtà di Mestre, si è posta 11
I TRE FUTURI DI VENEZIA
the many realities in Mestre, attention was focused on the railway. Because the future of this city – which on the one hand is an important traffic hub, and on the other lives in physical contact with the tracks in its peripheral areas – must necessarily be based on a modern vision of high speed and local railway connections. Its station certainly has all the requisites to become a modern and vital centre. The third conference, Venice: urban landscape in the contemporary age was, based on a different concept. Venice is Venice, it cannot be compared with any other urban reality: the only possibility was to examine a series of projects completed during the twentieth century, to understand why and how they were built. And inviting experts who, by virtue of their institutional positions or cultural commitment, have long re ected on the future of the city. This book therefore contains the considerations of the eminent speakers who participated in these three conferences. But it has also solicited further contributions from members of the academic world or cultural institutions, from historical and technical perspectives, asserting the intention to present multiple points of view, keeping the dialogue open along the way. Having now illustrated the thread running through the articles published here, what is the purpose of this book, what is the message we wish to convey? Venice, with its history and beauty, was founded and developed over the centuries as the result of a series of fortunate coincidences. Regarding physical conditions: Venetians addressed the formidable challenge of building on the water. Regarding character, the ambition and daring of so many men who created its fortune on the Mediterranean Sea, the mindset, open to other places and civilizations (starting with Marco Polo at the court of Kublai Khan). Venice thus developed a political and administrative organization that allowed it to grow strong and vital. With demanding severity, taking harsh measures against anyone who did not work in the interest of the Republic. Realizing works of engineering that went so far as to modify the course of rivers, to defend the stability and the very existence of the lagoon. And so Venice, dominant but receptive and projected towards the future, over the centuries attracted the great men of science, technology, architecture, arts and crafts, whose works are found today in the libraries, museums and palaces along the canals of our magni cent city. As well as in the villas and parks conceived a refuge for the body and the mind, in places that were once the most enjoyable on the mainland. But then the political, social and cultural conditions changed. Venice, aware of its past greatness, expressed many signi cant moments even after the fall of the Republic. But at this point destiny has long run its course and it is unlikely that we will again see times as radiant as those of the past. We believe our task today is to preserve that remarkable history, to spread knowledge of it, in a certain sense to preserve its roots in our great collective subconscious. Naturally, it is important to upgrade the existing fabric to bring convenience and technology: the wisdom, ingenuity and rigour of our forefathers should guide us to make decisions that respect every element of our city. Our direction should be inspired by a lofty and impartial culture. 12
INTRODUZIONE
l’attenzione su quella della ferrovia. Perché il futuro di questa città - che da un lato costituisce un importante nodo di traffico, dall’altro vive, nelle sue periferie, sicamente a contatto con i binari - deve necessariamente partire da una visione moderna dei collegamenti ferroviari, veloci e locali. E la sua stazione ha tutti i requisiti per diventare un punto centrale moderno e vitale. La terza giornata di studio, Venezia: paesaggio urbano nel contemporaneo è stata impostata in modo differente. Venezia è Venezia, non è confrontabile con altre realtà urbane: si poteva soltanto ripercorrere le vicende di alcuni interventi compiuti nel ‘900, per comprenderne le ragioni e le scelte. Lasciando poi spazio ad alcuni esperti che da tempo, per compiti istituzionali o impegni culturali, elaborano ri essioni sul futuro della città. Questo libro accoglie anzitutto i contributi portati dagli autorevoli relatori delle tre giornate. Ma ha stimolato anche altri interventi, fra mondo universitario e istituzioni culturali, storia e tecnica. Sempre seguendo la linea della molteplicità dei punti di vista, in un percorso che vorremmo mantenere aperto. Se quello appena illustrato è il lo conduttore dei contributi pubblicati, quali sono le nalità, quale il messaggio che vorremmo lanciare con questo libro? Venezia, con la sua storia e la sua bellezza, è nata e si è sviluppata, nei secoli, per una serie di felici coincidenze. Di condizioni siche: i veneziani hanno affrontato la formidabile impresa del costruire sull’acqua. Di carattere, per l’ambizione e l’impegno e l’audacia di tanti uomini che hanno creato la sua fortuna nel Mediterraneo. Di aperture della mente ad altri luoghi e civiltà (a partire dagli incontri di Marco Polo alla corte del Gran Khan). Così si è dotata, Venezia, di un’organizzazione politica e amministrativa che l’ha fatta crescere forte e vitale. Con un rigore esigente e duro nei confronti di chi non operasse nell’interesse della Repubblica. Compiendo opere di ingegneria che hanno modi cato persino il corso dei umi, pur di difendere l’equilibrio e l’esistenza stessa della laguna. Così Venezia, dominante ma ricettiva e proiettata al futuro, ha attratto, nei secoli, grandi personalità delle scienze, della tecnica, dell’architettura, delle arti, dei mestieri, delle quali ritroviamo oggi le opere nelle biblioteche e nei musei e nei palazzi lungo le vie d’acqua della nostra magni ca città. Ma anche nelle ville e nei parchi pensati come rifugio del corpo e della mente, nei luoghi che, un tempo, erano i più piacevoli dell’entroterra. Poi le condizioni politiche, sociali, culturali sono cambiate. Venezia, memore della propria grandezza, ha espresso momenti signi cativi anche dopo la ne della Repubblica. Ma probabilmente, da molto tempo ormai, la parabola si è conclusa e difficilmente verrà un’altra era luminosa come quella del passato. Oggi a noi sembra che il compito da assolvere sia quello di custodire quella grande storia, diffondendone la conoscenza, in certo senso mantenendone le radici nel grande inconscio collettivo. Naturalmente si rendono necessari aggiornamenti dell’esistente, per offrire comodità e tecnologie: la saggezza, l’inventiva, il rigore degli antenati potrebbe guidarci per compiere le scelte nell’assoluto rispetto di ogni elemento della nostra città. La direzione è quella ispirata da una cultura alta e al di sopra delle parti. 13
I TRE FUTURI DI VENEZIA
Does this mean rejecting the contemporary? No. Venice exists. Venice has no use for experimentations that – should they follow the current taste for protagonism and provocation – would lead to the construction of a different Venice. Probably a disturbing one. Certainly super uous. It should also be mentioned that, in addition to the 118 islands of the historic city, and beyond the long bridge across the lagoon, lie the other dimensions of Venice. There’s Mestre which, contrary to the historic city, has not yet expressed its full potential. Mestre could come into its own by building on the forms and materials of contemporary architecture. It could adopt the most highly evolved standards of city planning, building architecture, creating city squares, promenades and gathering places whose sole purpose is not to sell consumer goods, but to respond to the many aspirations of man. An approach based on intelligence and foresight would make it possible to create an interesting, exemplary, beautiful urban reality in Mestre. Making this come true depends solely on our ability to look at the other urban realities on the planet; it depends on our determination to work with the best. And maybe it depends on the size of our dreams. A similar process could take place in Marghera which, having metabolized the loss of the major industries of its recent past, could preserve their nest vestiges (relics of industrial archaeology, memories of labour) and bring them to life within a context that would rely on innovation to create a dynamic new environment, as announced in future plans. Marghera too must look to the transformations that have been enacted elsewhere, to nd inspiration or change direction. We want to make Venice great again. This could be done by enhancing its three souls, the Historic City, Mestre and Marghera with projects that take each of their histories and personalities into account, leaning strongly towards a contemporary approach there where this approach may be most meaningful. Without forgetting that all three souls of Venice overlook the lagoon. And the unifying element of this environment, water, is also what makes it so unique. A comprehensive project should be founded on this unique quality. Venice, with its three souls tied together by the lagoon, has three different potential futures. If and only if all three are realized, with a brilliant global project, will she again become great in the centuries to come. The curators Laura Facchinelli
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Oriana Giovinazzi
Viviana Martini
INTRODUZIONE
Signi ca, questo, un ri uto del contemporaneo? No. Venezia già è. Venezia non ha bisogno di sperimentazioni che - in linea con l’attuale gusto del protagonismo e della provocazione - porterebbe a costruire un’altra Venezia. Probabilmente disturbante. Comunque super ua. Ricordiamo che, oltre alle 118 isole della città storica, al di là del lungo ponte translagunare, ci sono le altre dimensioni di Venezia. C’è Mestre che, a differenza della città storica, non si è ancora espressa compiutamente. Mestre potrebbe realizzarsi proprio attraverso le forme e i materiali dell’architettura contemporanea. Potrebbe aderire ai criteri più evoluti dell’urbanistica, costruendo edi ci, creando piazze, passeggiate, luoghi di incontro che non siano nalizzati solo all’acquisto di merci, ma rispondano alle molteplici aspirazioni degli umani. A Mestre sarebbe possibile - con intelligenza e lungimiranza - creare una realtà urbana interessante, esemplare, bella. La possibilità di realizzarla dipende solo dalla nostra capacità di confrontarci con altre realtà urbane del pianeta; dipende dalla nostra volontà di scegliere i migliori. Dipende, anche, dalla capacità di sognare. Un processo analogo potrebbe veri carsi a Marghera, la quale, metabolizzata la perdita delle grandi imprese produttive del passato recente, potrebbe conservarne le vestigia più belle (testimonianze di archeologia industriale, memorie del lavoro) e farle vivere in un contesto che, nei programmi annunciati, potrebbe acquistare dinamismo attraverso l’innovazione. Anche nel caso di Marghera si impone un confronto con le trasformazioni attuate altrove, per prendere ispirazione oppure cambiare direzione. Vogliamo che Venezia sia di nuovo grande. Questo può accadere valorizzando le sue tre anime: Città Storica, Mestre e Marghera con progetti che tengano conto della storia e della personalità di ciascuna e con un’apertura decisa al contemporaneo là dove quest’apertura può acquistare signi cato. Senza dimenticare che tutt’e tre le anime di Venezia si affacciano sulla laguna. E proprio l’acqua, elemento uni cante di questo ambiente, costituisce anche la sua unicità. Un progetto d’insieme potrebbe puntare proprio su questa unicità. Venezia, nelle sue tre anime tenute insieme dalla laguna, ha tre possibili futuri differenti. Solo se tutti e tre verranno attuati, con un geniale progetto d’insieme, lei potrà essere, nei secoli a venire, di nuovo grande. Le curatrici Laura Facchinelli
Oriana Giovinazzi
Viviana Martini
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MARGHERA RICONVERSIONE PROGETTO PAESAGGIO a cura di Oriana Giovinazzi17
I TRE FUTURI DI VENEZIA
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Marghera: cento anni guardando al futuro di Gianfranco Bettin
Nell’anno del centenario della sua fondazione, Porto Marghera si presenta come una realtà strati cata, fatta di vecchio e di nuovo, di cose in via di esaurimento - e in certi casi segnate dal degrado e foriere di rischio - e di attività innovative e in via di sviluppo (anche dal grande potenziale industriale, come l’ecodistretto del riciclo e dell’energia, con al centro Veritas e le altre aziende che con la multiutility pubblica collaborano, o di risanamento, come il progetto del Vallone Moranzani, ora però purtroppo fermo, si spera solo temporaneamente). È anche un crocevia di epoche, con differenze sostanziali tra la prima e la seconda zona industriale (e all’interno stesso delle due grandi zone). La prima, la più vecchia, è quella sinora meglio rigenerata, con iniziative competitive dal punto di vista tecnologico e scienti co (soprattutto dentro e attorno al VEGA), con aziende innovative nel campo dell’e-commerce e dell’e-engineering e, più tradizionalmente, ma tenendo bene il passo con i tempi sia in termini di impianti che di prodotti, dell’agroalimentare, della metalmeccanica e della siderurgia, e ovviamente della portualità (il cui spazio va progressivamente espandendosi, avendo occupato ampi terreni dell’ex polo chimico). La seconda zona, ancora oggi caratterizzata dalla petrolchimica (ma l’importante raffineria sta nella prima), è invece in forte empasse (comprese le aree ex Eni cedute alla nuova società costituita in origine tra Regione e Comune, società ora dal destino incerto, specie dopo che la Regione ha abbandonato la partita e il Comune sembra fermo, al punto che quelle aree rischiano di tornare a Eni e di essere messe genericamente sul mercato, mentre avrebbero dovuto rappresentare la dotazione iniziale di uno strumento nuovo per rilanciare e attirare investimenti). Questa articolata e per no contraddittoria situazione ci dà indicazioni precise su come bisognerebbe agire, e su cosa invece bisogna evitare di fare, anche alla luce del passato e delle sue lezioni. Una speranza non velleitaria, in questo senso, è stata suscitata dal progetto di “chimica verde” avanzato da qualche tempo da Eni, e accolto dalle forze sociali e dalle istituzioni locali molto positivamente. Un paio d’anni fa, quando Eni ha presentato il progetto, sembrava qualcosa in più delle chiacchiere troppo spesso profuse in passato sul rilancio e la riconversione di Porto Marghera, che sono per lo più servite a trascinare una crisi interminabile, certo gestita quasi sempre con ammortizzatori sociali che hanno ridotto al minimo i costi sociali dell’esaurirsi del grande ciclo della chimica soprattutto, ma che non sono serviti a creare nuove prospettive, ad aprire nuovi orizzonti industriali e di mercato. Invece, questa volta sembrava davvero di essere in presenza di investimenti e progetti in grado di far compiere al polo industriale un salto di qualità. Eni aveva presentato proposte precise, con un forte investimento conseguente. Soprattutto, con idee chiare su come trasformare il cracking, ovvero il cuore del vecchio petrolchimico, in collegamento con la riconversione della stessa raffineria e con le altre attività residue ma ancora signi cative sopravvissute al vecchio ciclo. Per la prima volta, dunque, sembrava di essere davanti a un progetto che non puntava a rattoppare il presente, tanto per evitare traumi occupazionali o economici, ma che guardava davvero avanti e che avrebbe nalmente consentito a Porto Marghera di rigenerarsi sia dal punto di vista produttivo che da quello logistico e ambientale, dopo quasi trent’anni di declino. 19
I TRE FUTURI DI VENEZIA
Da allora, però, l’azienda ha compiuto scelte contraddittorie, come la ricerca di improbabili investitori stranieri, o l’affitto a terzi dei vecchi impianti del cracking (e non la loro riconversione radicale) perché le condizioni di mercato ne rendevano favorevole l’uso nelle stesse vetuste condizioni. Di recente, però, anche dopo alcuni guasti spettacolari che hanno allarmato l’opinione pubblica e le istituzioni, Eni ha confermato la propria volontà di procedere sulla strada nuova. Un altro elemento di speranza deriva dal programma Italia 4.0, che vede il VEGA al centro di progetti che coinvolgono imprese e mondo scienti co, a cominciare dalle università del territorio. È davvero una s da cruciale, questa, affascinante culturalmente e scienti camente, ma anche imprenditorialmente, foriera di conseguenze concrete, che possono avere una grande e positiva portata. Analogamente, va considerato il ruolo chiave, potente, del porto, in particolare di quello commerciale e industriale (senza sottovalutare ciò che attiene invece al porto passeggeri, per altri versi). In questo senso, sarà decisiva la strategia della nuova autorità portuale, le sue scelte in merito al riordino delle attività nelle aree tradizionali, le valutazioni a proposito della prospettiva off-shore, le nuove rotte alle quali il porto veneziano si offrirà come meta, nella sua singolare integrazione di porto e industria (le banchine davanti alle fabbriche, uno dei segreti della Marghera storica, del suo successo) e di scalo commerciale e industriale che convive con la città che ha inventato il turismo di massa (crocieristica compresa) e che oggi sconta, di quest’ultimo, le contraddizioni (oltre che giovarsi delle entrate che garantisce). Accanto a tre pilastri come la (nuova, potenziale) chimica verde, il VEGA con Industria 4.0, il porto, altre attività di dimensioni minori ma dall’impatto locale e globale molto signi cativo sono sorte in questi anni, scavandosi nicchie e magari poi allargando la propria presenza, o hanno rinnovato e a volte consolidato una presenza storica (come nel settore agri-alimentare e nella carpenteria e meccanica e negli stessi settore dell’energia e del riciclo e trattamento dei ri uti organizzati per liere di valorizzazione). Porto Marghera è stata per quasi un secolo un polo avanzato dal punto di vista tecnologico e scienti co, dove si sono sperimentati e inventati sia nuovi materiali strategici sia molti prodotti usati nella vita quotidiana moderna. Poi, per un trentennio o più, è entrata in crisi ed è stata gestita senza un’idea di rinnovamento credibile, che prima di tutto avrebbe dovuto - e dovrebbe essere tuttora - di politica industriale. La crisi di Porto Marghera, però, e l’opacità e l’inanità delle strategie di contrasto, ri ettono la mancanza di una strategia industriale che caratterizza l’Italia almeno dagli anni Ottanta. Abbiamo perso industrie importanti: la farmaceutica, l’informatica, la chimica per l’appunto, che avevano visto l’Italia all’avanguardia nel Novecento. Per questo una strategia per Porto Marghera non può che avere carattere nazionale, essere supportata da strumenti di legge (ad esempio, in materia di boni che, con procedure da sempli care e rendere più trasparenti) e da risorse nazionali da investire: il polo industriale, portuale ed energetico di Marghera è servito a tutto il paese e oggi la comunità locale, l’ecosistema stesso, pagano per questo costi che non possono sostenere da soli, e le risorse di cui necessita una riconversione, con preliminare boni ca e/o messa in sicurezza e marginamento delle aree da riusare e dell’ambiente da ripulire, non sono alla portata delle istituzioni locali e degli eventuali investitori. Se non si riavvia un ciclo industriale globale, dunque, anche Porto Marghera non 20
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troverà nuovo spazio perché è un’area che deve stare dentro a una strategia nazionale, forse europea, e che ha bisogno di un forte investimento - economico, ma anche politico! - per rigenerarsi. Se ciò non avvenisse, accadrà che fatalmente una parte delle attività ancora presenti continuerà a declinare sino alla scomparsa, mentre alcuni segmenti troveranno forse una strada per rigenerarsi da sé. É già successo con alcuni rami del Petrolchimico, diventati industrie autonome, conquistando nicchie o vere e proprie fette di mercato. Ed è successo anche nella prima zona industriale, dove si sono reinventate industrie anche storiche, oltre alle nuove nate. Senza una regia politico-istituzionale sopravvivrà solo chi ce la farà da solo, ma questo renderebbe Porto Marghera meno vitale e anche meno utile alla città, allo stesso Nordest e all’intero Sistema Italia. Il centenario dalla fondazione potrebbe essere una buona occasione per ripensare a questa grande e drammatica storia, ma guardando avanti.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
The centennial of Marghera: the utopia of a Great Venice, the early industries and the garden city by Sergio Barizza
At the end of the nineteenth century, the port of Venice proved to be inadequate. Various proposals were advanced to reinforce port structures, but the idea that prevailed looked to the nearby mainland. The Bottenighi section of the township of Mestre was chosen as the site. The project involved building a port area on the mainland to handle the more ‘humble cargo’. The area then caught the attention of Giuseppe Volpi, the president of Sade (Società Adriatica di Elettricità) who, together with Piero Foscari, Vittorio Cini, Achille Gaggia and other entrepreneurs, perceived the immense potential for economic development offered by the vast green eld areas available for the construction of major industries. The operation was launched in July 1917. The initial concession included the construction of a port-industrial area with an adjacent residential area located in the Bottenigo district, which was separated from the township of Mestre and associated to the City of Venice. Construction began after the war ended in the spring of 1919. While facilities for a “small petrol port” were rising up along the edge of the lagoon, in the internal areas, industries began to settle along the edges of the newly-dug canals, and multiply rapidly. It was natural to build an “Urban District” beside the factories, to provide housing for the workers of these industries, as well as for Venetians who lived in dank and unsanitary ground- oor accomodations. The master plan was approved in 1922. But public intervention was slow and the dream of building a “garden city” beside the factories soon faltered in the face of poverty. The proletarians came in large numbers when, in the early 1930s, the rst “social housing” was built along with the rst settlements of single-family houses in various suburban areas.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
I cento anni di Marghera: l’utopia della Grande Venezia, i primi insediamenti, la città giardino di Sergio Barizza
Alla ne dell’ottocento il porto di Venezia, previsto da Pietro Paleocapa nel 1867 sulla sacca di Santa Marta, si rivelava già troppo angusto. Bisognava trovare presto nuovi spazi. E del resto, nel 1908, a fronte della minaccia degli industriali cotonieri di trasferire altrove lo scarico delle balle di cotone necessarie all’industria tessile del nord Italia, sarebbe stato attrezzato il ‘porto di Mestre’ con una darsena e numerosi magazzini sul Canal Salso in zona Altobello, le cui strutture si possono ancora oggi ammirare in viale Ancona. Questo primo insediamento avrebbe indicato la strada.
Inizia lo ‘sbarco’ in terraferma: tutti ai Bottenighi Nei primi anni del novecento si era assistito a un orire di proposte per l’ampliamento del porto all’interno della laguna (raddoppio della Marittima, costruzione di nuovi moli alla Giudecca, a Cannaregio a ridosso della ferrovia o addirittura in tutta l’area della bocca di porto del Lido tra Sant’Erasmo, le Vignole e Murano…), nché grazie all’intervento del capitano di marina Luciano Pétit, l’attenzione si sarebbe spostata verso la gronda lagunare. Egli infatti propose di allargare il porto ‘sbarcando’ in terraferma dove di spazio libero ce n’era a iosa, prima nella zona di San Giuliano (1902) poi nella frazione di Bottenigo (1904) del Comune di Mestre. In un lungo articolo su La Gazzetta di Venezia del 5 luglio 1904 cercava di tranquillizzare i molti veneziani dubbiosi sull’idea di trasportare il porto fuori della città con il rischio di perderne i bene ci: ”Non si tratta di trasportare il porto da Venezia in altra località; ma soltanto di togliere quella parte di traffico che ingombra, che inceppa ogni movimento e impedisce nell’attuale bacino quella logica sistemazione necessaria per la specializzazione delle banchine. […] Temete che al con ne della laguna, ove ora regna la malaria e la desolazione, sorga un borgo? Un villaggio? Una città? Vi spaventa la idea che laggiù sorga un centro industriale e che Venezia anziché essere contornata da un semicerchio di barene abbia nelle sue vicinanze altri centri prosperosi? Credete proprio sul serio che questo nuovo centro sarebbe popolato a detrimento di Venezia? Per voi, o signori, è sventura ciò che per tutte le città del mondo intiero sarebbe ritenuto come bene cio incalcolabile”. Il bene cio ci sarebbe stato, una nuova città sarebbe sorta nell’immediata gronda lagunare. I molti, conseguenti, problemi irrisolti sono purtroppo ancora sul tavolo.
Si articola il progetto, arriva il decreto, l’uni cazione amministrativa, i primi lavori Dibattiti, convegni e commissioni si accavallarono in quei primi anni del novecento nché il Governo, con la legge sui porti del 1907, non decise di stanziare circa cinque milioni e mezzo di lire per il completamento del molo di ponente della Marittima e otto e mezzo per la creazione del “bacino sussidiario ai Bottenighi”. Era aperta la strada verso lo sbarco de nitivo in terraferma. Si decise subito di avviare lo scavo di un lungo canale diritto tra la Marittima e un nuovo, iniziale, bacino che si sarebbe attrezzato nella terraferma mestrina (grosso modo dove
1 - L. Alzona, E. Coen Cagli, G. Fantoli, Sistemazione e ampliamento del bacino sussidiario del Porto di Venezia a Marghera, Venezia 1915. 2 - Porto Marghera, una draga per lo scavo dei canali industriali, 1920 (Archivio Storico del Comune di Venezia, Fondo Giacomelli). 3 - Porto Marghera, zona ovest, costruzione di strade, 1922 (Archivio Storico del Comune di Venezia, Fondo Giacomelli).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA oggi c’è la Fincantieri) per dirottarvi le ‘merci povere’, in primo luogo carbone, petrolio e fosfati (si tratta del ‘Vittorio Emanuele’, tornato oggi di stretta attualità, dopo essere stato praticamente abbandonato all’indomani dell’apertura del Canale dei Petroli nel 1969, perché individuato come alternativa al canale della Giudecca per far approdare in Marittima le grandi navi da crociera e non farle più transitare di fronte all’area marciana). Canale e bacino per le merci povere che inizialmente sembravano come un lungo e ossuto dito che penetrava nelle barene per terminare in territorio agricolo si tramutano, nell’arco di qualche anno, in una mano con dita carnose dove progetti sempre più complessi alternano nuovi canali navigabili e banchine ad aree riservate a insediamenti industriali e a un quartiere residenziale. I progetti, dal 1911 al 1916, sono via via elaborati dall’Ufficio del Genio Civile, sotto la guida dell’ingegnere idraulico Erminio Cucchini. Ma non sarà lui a rmare il progetto de nitivo bensì Enrico Coen Cagli, ingegnere del gruppo economico/industriale che faceva capo a Giuseppe Volpi. Giuseppe Volpi (1877-1947), presidente della Sade dal 1905, era a capo di un gruppo di imprenditori (che passerà alla storia come ‘gruppo veneziano’) che annoverava in prima la Piero Foscari (1865-1923) con cui, grazie all’appoggio della Banca Commerciale Italiana (Comit), aveva intrapreso una serie di imprese commerciali e industriali nei Balcani e nel vicino oriente. Avevano colto subito l’opportunità insita nella costruzione, sugli ampi spazi ricavati dalle barene e dalle campagne dei Bottenighi, di una zona portuale cui si potevano affiancare degli stabilimenti per la lavorazione delle materie prime che potevano affluire direttamente sulle banchine, attivando sistemi di lavorazione moderni basati sullo sfruttamento intensivo dell’energia elettrica che il loro stesso gruppo poteva fornire direttamente. E le vicine campagne abbondavano di manodopera. Avevano l’appoggio incondizionato del sindaco Filippo Grimani (1850-1921), che si può ben de nire il regista politico dell’operazione, poiché n da quando si era cominciato a parlare di ‘porto sussidiario’ in terraferma non aveva mai voluto sentir parlare di ‘porto di Mestre’ (anche se il termine era stato usato, nel 1908, per lo scalo riservato al cotone lungo il Canal Salso) e in ogni occasione, in ogni incontro, ripeteva no alla nausea: “Dove è il porto di Venezia lì è territorio di Venezia”. Il via all’operazione Marghera avvenne nell’estate del 1917, tre mesi prima di Caporetto. Ecco la secca successione degli eventi tra febbraio e luglio 1917, mentre nelle trincee dei vicini Carso e Cadore si continuava a morire sotto la neve, nel fango. - 1 febbraio: viene costituito il Sindacato Studi per Imprese Elettro-Metallurgiche e Navali nel porto di Venezia (erano 16 società, dalla Sade di Volpi a numerose società di navigazione, che facevano per lo più capo a Vittorio Cini). - 10 maggio: viene presentato il progetto per il nuovo porto in terraferma con annesse industrie elaborato dall’ingegner Enrico Coen Cagli. - 15 maggio: il progetto viene approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici. - 9 giugno: riunione a Roma tra Ministero, Comune di Venezia, Camera di Commercio e Sindacato delle Imprese per de nire l’operazione e relative competenze. - 12 giugno: viene sciolto il Sindacato e costituita la Società Porto Industriale. - 23 luglio: viene rmata la Convenzione tra Stato, Comune di Venezia e Società Porto Industriale (presieduta da Giuseppe Volpi). - 26 luglio: viene emanato il decreto che approva la Convenzione tesa a realizzare una zona portuale-industriale e un quartiere urbano. Alle società industriali che volevano insediarsi a Porto Marghera vennero garantiti degli sgravi scali mentre attraverso una progressiva sequela di convenzioni la Società di Volpi e, dal 1931, del suo successore Vittorio Cini (1885-1977), riuscì a garantirsi la gestione delle aree lasciando allo Stato l’onere di espropri, lavori di boni ca, scavo dei canali e banchinamento e al Comune le spese dei servizi (strade, fognature, elettricità, verde...). Ha scritto Wladimiro Dorigo: “Volpi ottenne di costruire tutte le opere portuali di Marghera, sia industriali sia commerciali, a spese dello Stato, di ricevere in cessione gratuita dallo Stato le aree di proprietà demaniale, di acquisire mediante espropriazioni le residue aree di proprietà privata, di ricevere la concessione di costruzione e di esercizio della rete ferroviaria della zona”. Nel 1926 Giuseppe Volpi sarebbe stato, in qualità di ministro delle nanze, co rmatario 24
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di un decreto legge che trasferiva la proprietà dei terreni demaniali – circa 700 ettari – alla Società Porto Industriale di cui era, nel contempo, l’esponente più importante. Corollario necessario dell’intera operazione fu l’aggregazione a Venezia dei comuni contermini. Il decreto del 26 luglio stabiliva, all’art. 2, che tutto il territorio a sud della ferrovia, conosciuto come la frazione di Bottenigo del Comune di Mestre, passasse immediatamente sotto la giurisdizione del Comune di Venezia, avvallando pienamente l’impostazione del sindaco veneziano Filippo Grimani. Dopo l’approvazione del progetto di allargamento della prima zona industriale (quella che poi sarebbe appunto stata chiamata seconda zona, la cui costruzione inizierà solo dopo la ne della seconda guerra mondiale, nel 1949), elaborato sempre da Enrico Coen Cagli alla ne 1925, altri Comuni vennero inglobati per permettere una facile e omogenea gestione del territorio. Furono aggregati a Venezia, a ne agosto del 1926, i comuni di Mestre, Favaro, Zelarino e Chirignago, e la frazione di Malcontenta del comune di Mira. Si riteneva potesse essere il passo de nitivo verso la ‘Grande Venezia’: nella relazione che accompagnava il progetto, dove si prevedeva l’espansione dell’area industriale no a Fusina, si ipotizzava di arrivare a una città di 300.000 abitanti all’interno di un’area con caratteristiche ben de nite: a Venezia l’arte, la storia e il turismo; al Lido i bagni, il divertimento, il gioco; a Mestre e Marghera l’industria e la residenza delle maestranze. Nella primavera del 1919 si cominciò a lavorare con vanga e carriola. Numerose imprese installarono baracche provvisorie per dar ricovero a operai che lavoravano tutto il giorno a scavare canali, erigere moli, posare binari ferroviari spesso affondati nel fango delle barene. Una statistica del 2 giugno 1920 ne rivelava la presenza di 11 per un totale di 1.523 operai. Fra esse le imprese mestrine di Carlo Casarin (con 243 operai) e Giuseppe Franchin (con 105) e la Cooperativa Sterratori di Venezia (con 300). Anche se è presumibile che più di qualcuno si recasse al lavoro direttamente dalla propria abitazione (era stato raccomandato di munirsi preventivamente di stivali e vanga) l’impatto con la popolazione residente (poco meno di 900 persone) non deve essere stato molto facile. Non c’erano negozi in zona e i primi che aprirono (il macellaio Fedalto, il salumiere Da Pian, il fornaio Martina) cominciarono subito a far affari. Gli impresari, su direttiva dell’ufficiale sanitario dr. Alessio Pannone, erano obbligati a fornire ai loro dipendenti delle consistenti dosi di chinino per prevenire la malaria ancora presente in zona. Lino Pesce, qualche tempo prima di morire, mi raccontò come la sua storica trattoria di
4 - Enrico Coen Cagli, Porto di Venezia a Marghera, Rivista Città di Venezia, 1922.
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5 - Pietro Emilio Emmer, Piano regolatore del Quartiere Urbano nel nuovo porto industriale di Venezia, Rivista Città di Venezia, 1922.
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famiglia alla Rana fosse, nei primi anni dei grandi lavori, il punto di riferimento di parecchi di questi impresari che, ogni settimana, unitamente al salario, mettevano nelle mani callose di quegli operai una manciata di pastiglie di chinino. Fra le intenzioni del ‘gruppo veneziano’, spesso sbandierata da Foscari e Grimani, c’era quella di creare con il nuovo porto industriale in terraferma la possibilità di lavoro per gli stessi veneziani: ciò si veri cò in minima parte. Se alcune aziende si orientarono ad assumere manovalanza veneziana specializzata in settori in cui già operavano (in particolare la Breda per la cantieristica e la Vetrocoke per la lavorazione del vetro: per loro venne addirittura attivata una corsa di vaporetti dal monumento sulla Riva degli Schiavoni al molo della Breda), la gran parte dei lavoratori sarebbe invece stata reclutata nelle vicine campagne dell’entroterra. Gli operai-contadini erano più forti, più abituati a lavorare con ogni clima, ma soprattutto, mantenendo anche il lavoro dei campi, erano disponibili a lavori interinali e saltuari e meno portati alla protesta di coloro che potevano godere unicamente del salario. Negli anni trenta giungevano alle fabbriche (la Montecatini. la Sava, l’Ilva, la Sirma…), per lo più in bicicletta, da un arco che si estendeva no a trenta chilometri (da Chioggia no oltre San Donà di Piave), comportando un tragitto massimo di 60 chilometri corrispondente a circa 4 ore di pedale. Per essere al lavoro alle 8 si doveva partire da casa tra le 5,30 e le 6 per ritornarvi non prima delle 18,30. Alla ne degli anni trenta, secondo una statistica elaborata dalla stessa direzione della fabbrica, il 94 per cento dei manovali della Montecatini veniva reclutato nel bacino che si estendeva dal Brenta al Dese, mentre nel 1932, su più di 5.000 operai, quelli stabilitisi a Marghera risultavano essere solo 435. Per questi operai la bicicletta costituiva un patrimonio: nel 1930 una nuova costava 400 lire, più di un mese di salario di un operaio comune, equivaleva al reddito netto di 16 quintali di granoturco. Si comprende bene come una delle immagini più impresse nella memoria dei vecchi mestrini rimanga ancora oggi la lunga coda di biciclette che da ogni parte convergevano su Marghera, facendo felici i titolari di bettole e osterie che si trovavano lungo il percorso. Uno di quegli operai in bicicletta era mio padre. Contadino di Zelarino, alla metà degli anni trenta fu assunto alla Sava e, dopo la distruzione dello stabilimento con i bombardamenti del ’44, passò all’Ilva dove rimase no alla pensione. Per conoscere qualche ragazza, al sabato e alla domenica, andava a ballare alla Favorita a Marocco ma, mi raccontava con uno sguardo malinconico: “Le ragazze non venivano a ballare con noi perché puzzavamo di stalla”. La promozione sociale passava attraverso l’abbandono della campagna e l’impiego in uno stabilimento che ti permetteva di avvicinarti alla città, di mantenere stabilmente una famiglia, di far studiare i gli, di costruirti una casa. Almeno sul piano numerico la ‘Grande Venezia’ raggiunse gli obiettivi. Scrive Giuliano Zanon: ”A Porto Marghera
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO l’occupazione, che nel 1932 è già pari a 6.200 persone, arriva a 16.500 nel 1938, risentendo poco della crisi del 1929. Dopo il secondo con itto mondiale (1948) si ritorna circa allo stesso numero di addetti (16.000). Questi ultimi arriveranno al loro massimo nel 1975, con 35.000 dipendenti direttamente dalle attività insediate all’interno della zona industriale, più una quota dei lavoratori delle ‘imprese’ dedite alla costruzione e manutenzione degli impianti. Proprio in quegli anni, anche i residenti nell’intero ambito della terraferma (compreso quindi anche il quartiere urbano di Marghera) arrivano alla loro massima espansione con 210.674 abitanti”. Apriamo ora una nestra sulle fabbriche che si insediarono a Porto Marghera nel periodo compreso fra le due guerre, su cosa producevano, a quanti davano lavoro. Enumerarle tutte sarebbe lunghissimo e, per certi versi, quasi impossibile perché attorno alle grandi fabbriche orirono un numero impressionante di aziende medio-piccole, con le produzioni più svariate, erogatrici di servizi (trasporti, manutenzione, carpenteria, falegnameria…) che talora resistevano per qualche mese per poi sparire. Chi volesse approfondire l’argomento non può che affidarsi al volume Porto Marghera, il novecento industriale a Venezia da me curato con Daniele Resini, Treviso 2004, dove è stata fatta una puntuale ricognizione di tutte le fabbriche che si sono insediate e succedute area per area dal 1919 all’inizio del terzo millennio.
Il porticciolo dei petroli e la prima zona industriale L’area riservata ai petroli, della super cie di 127.000 metri quadrati, era stata inizialmente individuata “sulla punta estrema del terreno lungo il canale Brentella”. Ma ci si accorse subito che era pericolosamente troppo vicina agli stabilimenti industriali che sarebbero sorti nella zona contigua. Il primo novembre 1919 venne così elaborato, ovviamente da Coen Cagli, un nuovo progetto che prevedeva la “costruzione sulle barene ad est del canale Brentella, a destra del grande canale di accesso al nuovo porto, di una sacca con apposito bacino di accosto per le navi che trasportano i petroli”. Per la sacca si prevedeva un’estensione massima di mq. 400.000 sufficienti per accogliere le società che avrebbero chiesto di insediarsi. Fu costruito un argine stradale che permettesse il raccordo con la ferrovia. Di conseguenza fu demolito il fortino Rizzardi che, con l’omologo Manin (oggi ai bordi del parco di San Giuliano), costituiva una struttura complementare del grande forte Marghera. Il 5 aprile 1923 il primo vapore carico di prodotti petroliferi poteva attraccare al molo del porticciolo dei petroli. Nel 1928 vi si insediò l’industria petrolifera di stato (Agip) che nel 1939 contava 530 addetti. La zona compresa tra il canale nord (il prolungamento nell’entroterra del canale Vittorio Emanuele) e la strada per Venezia fu dominata da tre grandi gruppi: Breda, Montecatini, Fiat. Vincenzo Stefano Breda aveva già tentato, con poco successo ed esito fallimentare, di aprire un suo stabilimento per produzione e manutenzione di naviglio leggero e carri ferroviari nella sacca di Sant’Elena. Fu il primo ad appro ttare degli spazi che gli venivano offerti in terraferma. L’insediamento iniziò nel 1919 con lavorazioni di carpenteria meccanica, riparazioni e demolizioni, solo in un secondo momento fu avviato un cantiere navale (oggi Fincantieri). I dipendenti erano 330 nel 1928, 600 alla metà degli anni trenta, 3.000 nel 1943 grazie a numerose commesse belliche. Il gruppo Montecatini aprì direttamente tre stabilimenti. Il primo nel 1924: la Società Veneta Fertilizzanti (oggi VEGA). Con una occupazione fortemente stagionale, che oscillava tra i 600 e i 900 addetti, produceva acido solforico, concimi perfosfati, ceneri di pirite e criolite. Poi, nel 1928, fu la volta della Società Italiana Allumina che dopo un inizio molto stentato fu assorbita dall’Ina (Industria Nazionale Alluminio) e poté decollare de nitivamente nel 1937 grazie a un nuovo impianto per la produzione di allumina dotato del sistema Bayer. Durante la guerra dava lavoro a 1.450 persone. In ne, nel 1935, la Montevecchio eresse una fabbrica per lo zinco elettrolitico utilizzan27
I TRE FUTURI DI VENEZIA do come materia prima la blenda sarda. Durante la guerra vi lavoravano 850 operai. Sull’altro lato del canale si insediò, nel 1928, la Società Anonima per la Lavorazione delle Leghe Leggere, glia di un accordo fra i due principali produttori di alluminio: l’InaMontecatini e la Sava. Produceva leghe di alluminio (in primo luogo con il magnesio) in forma di nastri, barre, tubi, lamiere e pro lati soprattutto per l’Aeronautica Militare. Non può sorprendere perciò che i 400 addetti del 1935 risultassero 1.300 alla vigilia della guerra. Il nome Vetrocoke, che compare a Marghera dal 1924, comprendeva due società: la Società Italiana Vetri e Cristalli per la produzione di vetro in lastre e cristalli e la Società Italiana Coke per la produzione del coke metallurgico, cui si aggiunse, nel 1936 una fabbrica di lana di vetro. Erano di proprietà della Fiat. Gli addetti dai 350 del 1925 salirono no a 2.000 negli anni della guerra. Alla ne del con itto erano scesi a 770 ma entro il marzo del 1946 le maestranze erano state riassunte. Grazie all’uso chimico dei gas di cokeria, che in precedenza servivano per il riscaldamento o venivano dispersi nell’atmosfera, si aggiunse, costruita a tempo di record fra il 1937 e il 1938, la fabbrica degli Azotati ubicata poco distante sulle rive del canale ovest. Produceva fertilizzanti azotati, metano compresso in bombole, etilene, ammoniaca, acido solforico e nitrico. A cavallo tra gli anni trenta e quaranta vi lavoravano 900 persone, scese a 200 dopo i bombardamenti, ma sarebbero già risaliti a 800 nel 1946. Legata alla Vetrocke, su un terreno con nante, sorse nel 1933 la Sirma (Società Italiana Refrattari Marghera), pure proprietà della Fiat, che produceva materiali refrattari speciali per cokerie, officine del gas, acciaierie e industrie chimiche. A cavallo della guerra vi lavoravano più di 300 operai. Le lavorazioni degli stabilimenti della Montecatini e della Fiat erano basate sul consumo intensivo e continuo di energia elettrica. Per questo la Sade, nel 1926, costruì a Porto Marghera una propria centrale termoelettrica alimentata a carbone. La Società disponeva, in quel momento, di una rete di distribuzione di elettricità che si estendeva in quindici province, dal con ne orientale del Garda alla Romagna, alimentata da diversi impianti idroelettrici della potenza complessiva di 400.000 hp, i più rilevanti dei quali erano gli impianti di Santa Croce, del Cellina, dell’Adige e del Cismon. Con il nuovo insediamento si pre ggeva di “costituire una riserva termica per la fornitura di energia elettrica in caso di guasti alle centrali, per la zona di Marghera e per la città di Venezia e di fornire l’energia necessaria alla integrazione della produzione delle centrali idrauliche, onde sopperire anche nei mesi di grandi magre dei umi, alla continuità del servizio elettrico”. L’ubicazione, lungo il canale ovest, era stata prescelta “per i particolari vantaggi offerti coi suoi accessi marittimi, uviali e ferroviari, per il favorevole collegamento con le linee di trasporto dell’energia, nonché per la facilità di disporre dell’ingente quantitativo d’acqua necessario al raffreddamento dei condensatori delle macchine di produzione”. Su un’area di 125.000 metri quadrati venne eretto il fabbricato centrale (per la sua mole, a lungo in quegli anni quasi un simbolo della ‘nuova’ industria veneziana), unitamente a un insieme di case d’abitazione e portineria. Con nante con la centrale della Sade si insediò, nel 1926, la Sava (Società Alluminio Veneto Anonima) controllata dalla svizzera Alusuisse e da un gruppo di industriali veneti guidati da Marco Barnabò. Come avvenne per l’Ina, fu favorita dalle iniziative governative tese a raggiungere la massima produzione di alluminio come supporto all’industria bellica. Quando fu quasi completamente distrutta dai bombardamenti del 1944 impiegava circa 3.000 addetti tra operai e impiegati. Al vertice del canale nord, di fronte alla Breda e quasi contemporaneamente (1920) si insediò la Cnav (Cantieri Navali e Acciaierie di Venezia) proprietà del ‘Gruppo Veneziano’ presieduto da Volpi. L’impianto non decollò mai e nel 1929 prese la denominazione di Ave (Acciaierie di Venezia) per nire, nel 1931, all’Ilva e poi passare de nitivamente, nel 1933, sotto il controllo dell’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Produceva ghisa e acciaio in laminati di piccole dimensioni in uso soprattutto nella carpenteria. Nel periodo di massima occupazione, durante la guerra, raggiuse i 1.600 addetti per calare a circa 1.100 nell’immediato dopoguerra. In mezzo a tanta industria ci fu posto anche per quello che oggi si potrebbe de nire un ‘distretto del cibo’. Nel 1926 compare la Cirio, poco più avanti, alla ne degli anni trenta, la Gaslini, società per la spremitura e distillazione di semi oleosi (100 addetti) e poi la Itma (torroni e marmellate) e ben tre società per la lavorazione delle droghe e affini: la 28
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Idea, l’Indiana e (dal 1955) la Paolini e Villani, trasferitasi da Mestre, dove aveva cominciato l’attività nel 1914. Lungo il canale ovest, di fronte agli Azotati, si insediarono invece nel 1926 la Riseria Italiana, stabilimento per la pilatura e brillatura del riso proveniente dal Polesine, dal Bolognese e dal Mantovano che, nel 1928, dava già lavoro a 48 persone e, nel 1927, la Chiari e Forti, che gestiva un silos-granaio per lo smercio del grano via mare, ferrovia e natanti uviali dove lavoravano, prima della guerra, 110 operai e 25 tra dirigenti e impiegati (entrambi sarebbero poi con uite nella Società Grandi Molini). A fare da collegamento tra la prima e la seconda zona industriale fu la Elettrometallurgica Veneta San Marco, società di proprietà della Sade, che nel 1930 si era insediata nell’estrema punta della prima zona, al di là della centrale elettrica della Sade stessa. Produceva carburo di calcio, alla ne degli anni trenta dava lavoro a 800 operai e 80 impiegati. Nel 1949 la Edison acquistò dalla Sade il 50% del capitale e il restante nel 1953. Si aprì così la strada alla realizzazione del Petrolchimico (nel 1966 la Edison si sarebbe fusa con la Montecatini dando vita alla Montedison), attraverso un piano progressivo di acquisizione delle aree sul quale si sarebbero insediati ( no all’inizio degli anni 70) gli impianti chimici, fra loro variamente integrati.
Il quartiere urbano L’insufficienza di spazi per banchine portuali e insediamenti industriali faceva il paio, all’interno della città lagunare, con la carenza di aree per l’edilizia popolare. L’aveva ben capito Piero Foscari, che nel 1911 aveva messo un punto fermo all’intera questione affermando in Consiglio Comunale che bisognava dare una risposta all’esigenza di case non solo occupando gli spazi eventualmente liberi nel centro storico (come del resto si stava facendo da tempo), ma allargando la ‘cerchia’ di Venezia alla sacca di Sant’Elena, al Lido e a Bottenigo. Si materializzava così l’idea di una ‘Grande Venezia’ che per rispondere alle esigenze della modernità ‘abbatteva le proprie mura’. Le mura di Venezia erano…le acque della laguna che fu direttamente investita dagli insediamenti industriali e residenziali, con danni difficilmente quanti cabili e con estrema difficoltà riparabili, come possiamo constatare oggi nei vari progetti di disinquinamento e recupero. Se nelle altre città storiche, italiane ed europee, l’abbattimento delle mura, tra otto e novecento, era funzionale al ridisegno dei centri cittadini attraverso la costruzione di
6 - Marghera, Quartiere urbano, costruzione dei primi edi ci, via Giovanni Durando, 1921 (Archivio Storico Comune di Venezia, Fondo Giacomelli).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA grandi viali e l’allargamento della cintura urbana con l’occupazione dei territori agricoli circostanti, ciò risultava alquanto problematico quando le mura non erano di pietra ma di acqua. Ci sarà uno sguardo di rilievo solo per l’acqua del mare perché l’isola del Lido costituiva il terzo ramo nel disegno della Grande Venezia destinata, con la sua sabbia d’oro, al turismo di lusso, al divertimento e al gioco sotto la guida del do collaboratore di Volpi, Achille Gaggia (1875-1953), vicepresidente della Sade e direttore della Ciga. Nel ‘progetto Marghera’ era compresa invece la costruzione di un quartiere urbano, diviso dalla zona industriale semplicemente da una strada, via Fratelli Bandiera. Sui 150 ettari che gli erano stati riservati risiedevano, secondo una rilevazione statistica del 31 dicembre 1916, 869 persone, distribuite in 179 nuclei familiari, che occupavano un totale di 118 numeri civici. Erano per lo più famiglie patriarcali di contadini che curavano la terra coltivabile a frumento, mais, viti e alberi da frutta, n dove cominciava la barena. Seguendo un preciso piano di espropri furono costretti ad abbandonare terra e casa. Il piano regolatore (approvato il 6/2/1922) fu elaborato dall’ingegnere milanese Pietro Emilio Emmer che aveva pensato alla realizzazione di una ‘città giardino’ grazie a un reticolo di strade che convergevano su un grande viale centrale ricco di alberi e aiuole, dove le case dovevano avere non più di tre piani e un congruo spazio da destinare a orto o giardino recintato da una muretta con cancellata. Il viale si estendeva dall’attuale via Paolucci no a piazzale Concordia, dove erano previsti gli insediamenti pubblici (municipio, chiesa, scuola teatro…). La lentezza con cui procedettero le costruzioni, concentrate, no alla guerra, nella fascia iniziale di territorio tra via Paolucci e l’attuale piazza Municipio, fecero slittare in giù prima la costruzione della scuola elementare intitolata a Filippo Grimani e poi la Chiesa con annesso patronato e convento per i frati, cui venne concessa la prima parte del viale alberato centrale. Inizialmente vi si insediarono, commercianti, bottegai, impiegati e ferrovieri, pochi gli operai che - per la maggior parte - venivano a lavorare in bicicletta dai vicini centri agricoli. Dall’inizio degli anni trenta il quartiere divenne invece la valvola di sfogo per quanti a Venezia vivevano in case malsane o ne venivano sfrattati. Allontanato Emmer, che difendeva con i denti le linee del proprio progetto, poterono così sorgere i primi condomini popolari sull’asse di via Calvi. Seguendo le indicazioni del Governo, che aveva autorizzato i comuni a sospendere le norme di piano regolatore vigenti per assicurare comunque una casa a chi ne avesse bisogno, il progetto redatto dall’ingegner Paolo Bertanza, per conto dell’Iacp (Istituto Autonomo per le Case Popolari), per le nuove costruzioni previste nella zona di via Calvi, venne addirittura ritoccato riducendo al minimo lo spazio vitale (“al posto di alloggi a tre camere e cucina si sono ricavati alloggi da una camera e cucina in numero doppio”). E lo spazio utile doveva essere ben risicato se la Commissione igiene-edilizia nel dare la propria approvazione (16/11/1931) imponeva che “nelle abitazioni siano istituiti degli armadi a muro e siano costruiti in località opportuna, fuori dalle abitazioni, dei locali per le docce”, mentre qualche giorno prima (2/11/1931) Plinio Donatelli, presidente dell’Iacp, aveva fatto presente al podestà Mario Alverà che il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici “non aveva apprezzato il progetto per le nuove costruzioni di Marghera” perché riteneva “che anche le case per i meno abbienti, quando abbiano carattere di stabilità, debbano essere fornite di un certo minimo di confort interno, quale il disobbligo del gabinetto e di qualche stanza, e di un certo grado di estetica esteriore, anche se ciò abbia a comportare un aggravio di spesa”. E invece si andò anche oltre perché tra il 1934 e il 1938 si sarebbero costruiti tre villaggi ‘ultraeconomici’ con casette a un piano che, per lo più, erano delle semplici baracche a Ca’ Emiliani, Ca’ Brentelle e Ca’ Sabbioni. Certo ci si riparava almeno dalla pioggia e dal freddo ma si crearono quasi subito condizioni difficili di convivenza se è vero che, a settembre del 1939, il Prefetto scriveva al Podestà: “Viene riferito che la maggior parte delle 351 famiglie concentrate nei villaggi di Ca’ Emiliani, Ca’ Sabbioni e Ca’ Brentelle e composte complessivamente di 2.354 persone è costretta a vivere in assoluta promiscuità a causa principalmente della ristrettezza dei locali. Diversi componenti di dette famiglie inoltre conducono vita scorretta e disonesta, si abbandonano all’ozio e al vagabondaggio e quando i bisogni e gli stimoli si fanno più intensi, ad azioni delittuose”. 30
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO La popolazione nel quartiere urbano era salita a 1.200 abitanti nel 1924, a 5.376 nel 1927, a 7.599 nel 1935 e a 10.952 nel 1938. Contemporaneamente i poveri registrati dagli uffici comunali erano 527 nel 1931, 1.024 nel 1934, 3.373 nel 1938. Il sogno della realizzazione di una ‘città giardino’ si era arenato di fronte alla miseria che continuava ad attanagliare una fetta consistente della popolazione della nuova ‘Grande Venezia’. Gli operai si sarebbero avvicinati alle fabbriche nel secondo dopoguerra, facendo crescere non solo Marghera, dalla chiesa di Sant’Antonio no alla Rana, ma, smisuratamente, anche Mestre sistemandosi in condomini o costruendo in proprio delle case su stradette ‘a pettine’ (spesso strettissime e senza marciapiedi) lungo gli storici assi stradali (via Miranese, Castellana, San Donà, Ca’ Rossa, Pasqualigo…) eliminando progressivamente i vecchi con ni di piccoli paesi e mettendo le basi per la formazione di un’unica, vasta, città. Sulla quale risulta ancora di estrema attualità il dubbio se debba considerarsi una città autonoma o un tutt’uno con la ‘grande madre’ Venezia. Al giro di boa dei cento anni di Marghera, l’ipotesi di costruzione della ‘Grande Venezia’ ci interroga ancora per la fragilità istituzionale dovuta alle diverse anime presenti nella comunità la cui integrazione si è rivelata troppo lenta e difficile (causa prima la scarsa mobilità fra le parti) e ci coinvolge pesantemente con i problemi dell’inquinamento dovuti a residui di produzioni industriali, spesso fuori controllo, in un territorio delicato e fragile che, in quanto tale, era stato con cura custodito e mantenuto per secoli. © Riproduzione riservata
Bibliogra a “Porto Marghera, le origini”, Rivista Le Tre Venezie, Venezia 1932. Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna; Venezia 1973. Cesco Chinello, Storia di uno sviluppo capitalistico: Porto Marghera e Venezia, 1951-1973; Torino 1975. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1946. Alle origini del ‘Problema di Venezia’; Venezia 1979. Venezia, città industriale: gli insediamenti produttivi del 19° secolo; Venezia 1980. Rolf Petri, La zona industriale di Porto Marghera, 1919-1939. Un’analisi quantitativa dello sviluppo tra le due guerre; Venezia 1985. Sergio Barizza, “Storia di una ne annunciata. Cronaca dei piccoli passi verso la ne dell’autonomia amministrativa del Comune di Mestre”, in La città invisibile. Storie di Mestre, a cura dell’Associazione StoriAmestre; Venezia 1990. Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera, 1920-1945; Roma 1991. Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini; Venezia 1992. Marghera. Il quartiere urbano, a cura di Sergio Barizza, circolo Auser di Marghera; Marghera 2000. La grande Venezia: una metropoli incompiuta tra otto e novecento, a cura di Guido Zucconi; Venezia 2002. Porto Marghera: il novecento industriale a Venezia, a cura di Sergio Barizza e Daniele Resini; Treviso 2004.
Marghera 1917-2007: voci suoni e luci tra case e fabbriche, a cura di Sergio Barizza e Lorenzo Cesco; Marghera 2007. Massimo Orlandini, Paolini Villani, la “Compagnia Veneziana delle Indie”. Cento anni di lavorazione delle droghe, delle spezie e dei coloniali tra Venezia, Mestre e Porto Marghera; Padova 2017.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
The case of Bagnoli
by Massimo Pica Ciamarra The proposal by the very brilliant Lamont Young for “Rione Venezia” in Bagnoli (1882-83) was a “project nancing” venture ahead of its time, which unfortunately got caught up in the municipal disputes of the time. Since the early 20th century, in the wonderful landscape that opens onto the Phlegraean Fields, the steel plant contributed for over eighty years to choke Naples in a sti ing industrial grip, turning the buildings grey and polluting the air. Twenty- ve years after it was de-commissioned, there was little hope that the logic behind the 1994-2004 Master Plan and the “urban transformation company” founded to manage the extraordinary opportunity to re-think that part of the city, could be successful. In 2014, the “Sblocca Italia” Act turned the question over to the central Government: a Commissioner was nally appointed in 2016. He too has been hampered by the lack of a nal decision on the reclamation and the state of the grounds. In March 2017 at the “Stazione Zoologica Anton Dohrn”, a high level Neapolitan research institute, sixty researchers began work, in compliance with a project approved by MIUR and CIPE, on a unique challenge facing Europe, i.e. restoring the marine ecosystems and returning the sea to the city, “studying the impact of acute and chronic conditions on biodiversity and ecological life in the Bagnoli - Coroglio Bay, supplying a complete fact- nding framework”, while aiming to develop innovative methodologies to be applied to similar cases in the Mediterranean Sea and Europe more in general, to restore an extraordinary coastal sea environment, where industrial activity had produced extreme environmental changes. Presently, the conversion of Bagnoli must necessarily be considered in the light of the new Metropolitan City, the Statutes of which are unfortunately insufficient to lay the foundations for a regional management approach that could reinstate Greater Naples to the role it deserves, more consistent with its immense latent potential.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Il caso Bagnoli di Massimo Pica Ciamarra
A Napoli, il ripido verde costone di Posillipo è l’inizio di un’area assolutamente straordinaria sotto il pro lo paesaggistico, storico ed archeologico, da millenni interessata da fenomeni vulcanici che ne hanno determinato i singolari caratteri morfologici. Ancora oggi la zona non è assestata: secondo la Protezione Civile addirittura rientra fra le “aree ad alto rischio”. Monte Coroglio, il punto più alto del costone, è attraversato dalla “grotta di Seiano”, un traforo di epoca romana lungo poco meno di ottocento metri, creato per legare quella che oggi è l’area archeologica di Posillipo con la piana di Bagnoli e l’antico porto di Pozzuoli. In epoca moderna le vie di collegamento fra Napoli e Roma si sono però spostate verso l’interno, rendendo la piana di Bagnoli sostanzialmente marginale, dai primi del ‘900 utilizzata come area industriale, tra l’altro con uno dei più grandi stabilimenti siderurgici europei. Prevalse allora un’ottica ristretta, incapace di leggere l’eccezionale interesse culturale del luogo e le sue straordinarie potenzialità, che pure erano state ben intuite solo trent’anni prima e poste a base di una coraggiosa concreta proposta di intervento. Oggi, dopo più di cento anni, la storia rischia di ripetersi: non si può intervenire su Bagnoli se non leggendola come parte di un contesto ampio, cioè senza coglierne signi cati e ruoli a scala quanto meno metropolitana. Finché sostenuta da un’ampia visione, Napoli infatti è stata una grande realtà europea. Il prevalere di egoismi ed ottiche settoriali l’ha poi resa una grande realtà difficile: oggi la sua identità è sì in vistose permanenze, ma anche nel progressivo degrado che, da metropoli straordinaria, la sta riducendo a minimi inediti. Instancabile e vivacissima nel cinema, nel teatro, nella musica ed in ogni forma di espressione culturale, ma evidentemente incapace di organizzazioni adeguate, Napoli continua a perdere ruoli, attività, signi cati di rilievo internazionale e nazionale: da tempo ineluttabilmente si ridimensiona, con assetti tendenziali preoccupanti ed incomprensibili ritardi. Sessant’anni fa la cultura urbanistica invitava al decongestionamento della fascia costiera della Campania1. Cinquant’anni fa la cultura urbanistica internazionale aveva anche da tempo superato la temperie dei Centri Direzionali, ma nell’agosto 1964 il Consiglio Comunale di Napoli decide di realizzare - proprio nella “fascia costiera” - un enorme Centro Direzionale, oggi ovviamente privo di funzioni di rilievo nazionale. Recentemente in Italia sono state istituite le “città metropolitane”: per Napoli si è determinata l’occasione di un ripensamento che avrebbe potuto contribuire ad affermare una visione ampia, capace di invertire il suo progressivo decadimento. Fin qui però occasione persa, perché l’ancora recente Statuto di Napoli-Città Metropolitana in realtà è attento a rapporti di potere, non coordina, non è predisposto ad esaltare le potenzialità e le straordinarie risorse paesaggistiche e culturali di questo particolare territorio. Eppure l’area napoletana ha una densità abitativa eccezionale, è molto signi cativa sotto il pro lo demogra co, accoglie cinque Università, numerosi Centri di ricerca di enorme rilievo scienti co, da oltre trent’anni il Centro Italiano di Ricerche Aerospaziali; ha una Città della Scienza ben connessa in iniziative internazionali; è sede della Maison de la Méditerranée e dell’Istituto Italiano di Studi Filoso ci, dispone di una rete ferroviaria metropolitana di grande interesse, oggi anche con qualità inedite a livello mondiale e che in futuro si avvarrà degli sviluppi del lungimirante progetto di “sistema metropolitano regionale della Campania”. Grazie all’Alta Velocità, fra non molto Napoli potrà risultare collegata in 45 minuti alla Città Capitale, il che potrà produrre conseguenze sostanzialmente anche contrastanti: potrà infatti facilitare l’ulteriore trasferimento al-
1 - Napoli nel XV sec., Tavola Strozzi (Museo di San Martino), Napoli negli anni 2000.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - Lamont Young, Rione Venezia e Campi Flegrei, 1883 ca.
trove di attività signi cative oppure potrà facilitare la presenza anche a Napoli di attività di scala non locale. La nuova dimensione della città dovrebbe comunque spingere a ripensare e innovare i programmi, con agilità e ri essiva velocità. In questo contesto si colloca Bagnoli, l’ampia piana resa industriale nei primi anni del ‘900, poco prima che anche per Marghera si cominciasse a pensare a un ruolo produttivo. Negli anni ’20 del secolo scorso Marghera avviò la realizzazione di una “città giardino” secondo i principi di Ebenezer Howard, ma l’iniziativa fu presto sospesa. Strane coincidenze. Anche per Bagnoli, nel 1888-89 fu immaginato un futuro diverso, in linea con una città che aveva allora grande ducia nel futuro ed un importante ruolo internazionale: il sogno del “Rione Venezia” di Lamont Young, proposto al Comune di Napoli come concessione in corrispettivo per la realizzazione della Metropolitana (due anelli, con lo stesso scartamento delle ferrovie del Regno, collegati da un ascensore, macchina allora quasi sconosciuta, ma - rassicurava Young - “ne esiste già uno a Londra” …). Le beghe del Consiglio Comunale del tempo non fecero andare avanti questo progetto dettagliatissimo, project nancing ante litteram. Come spesso accade, un sogno dotato di una forte carica - solo apparentemente utopica - può produrre anche soluzioni banali. Infatti qualche anno dopo, siamo ancora alla ne dell’800, un ricco proprietario terriero, il Marchese Candido Giusso, realizza un ordinato quartiere residenziale - l’attuale abitato di Bagnoli - peraltro con l’ambizione di riportare in vita le antiche terme dalle quali ha origine la denominazione dei luoghi. Il ‘900 è il secolo nel quale si rafforza e prevale la cultura settoriale: per sfruttare i bene ci della legge speciale per Napoli del 1904, nella grande piana fra il quartiere realizzato dal Marchese Giusso e la collina di Posillipo, si decide di impiantare un polo siderurgico. Questo fa sì che per quasi tutto il secolo scorso Napoli sia stata stretta in una morsa industriale, ad oriente come ad occidente. La vicenda industriale di Bagnoli attraversa
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
cioè l’intero ‘900: solo alla ne del secolo chiudono Cementir, Eternit, Montecatini, Federconsorzi; la dismissione della grande acciaieria è della ne degli anni ’80, si formalizza nel 1993. Da allora, un quarto di secolo dissipato. L’intelligente impostazione del “Preliminare di Piano” del 1991 puntava a sostituire l’inattuabile PRG 1972 del Comune di Napoli e inquadrava il territorio comunale nella sua scala ampia: si dissolve nel periodo di Tangentopoli. Il Preliminare di Piano 1991 prevedeva la sostanziale conversione dell’area industriale in un grande polo di ricerca, duramente contestato però per gli indici edi catori previsti, ritenuti eccessivi. Nella realtà questi indici risulteranno incrementati dal successivo studio per la variante generale del Piano Regolatore tesa a realizzare un immenso Parco Urbano. La Variante del PRG prende avvio nel 1994. Solo dal giugno 2004 il nuovo Piano è in vigore, comunque con nato negli impropri limiti comunali. Ricordo peraltro che fra il 1960 e il 1961, appena laureato, ero fra gli attivi contestatori dell’ampliamento dell’Italsider nella piana di Bagnoli, un luogo che aveva tutt’altra vocazione, straordinario, fra Monte Coroglio, l’isola di Nisida, l’inizio dei Campi Flegrei. La nuova Acciaieria, il cosiddetto “capannone rosso”, venne realizzato poco dopo: ironia della sorte, l’attuale piano urbanistico per Bagnoli considera “archeologia industriale” proprio quanto per alcuni di noi è invece simbolo di una scon tta. Nei primi anni ’90 - quelli della dismissione - su incarico del Ministère de l’Equipement/ Ministère de l’Environnement - Secrètariat du Plan Urban, Parigi, partecipammo alla ricerca «Ecoville-Europe» che coinvolgeva un ristretto numero di architetti di vari Paesi europei: Pierre Lefevre, Richard Fielden, Claus Steffan, Jeanne Marie Alexandroff, Fiedrich Nicolas. I volumi Vers une architecture vraiment ecologique dell’Ecole d’Architecture di Paris-la Villette documentano questa esperienza. Lavorammo su Emscher Park nella Ruhr, su Leicester e Bath in Inghilterra, su Grenoble in Francia, su Bagnoli a Napoli. Ricordo ancora l’entusiasmo incredulo degli amici inglesi, tedeschi e francesi durante il primo sopralluogo a Bagnoli. Quasi invidia. Qualche anno dopo però Emscher Park aveva già preso forma, mentre Bagnoli stagnava: tranne che per l’incredibile iniziativa della Fondazione IDIS - Città della Scienza che nel 1993 acquista lo stabilimento della Federconsorzi, un’enclave nell’immensa area Italsider, 7 ettari sulla costa. Il progetto della Città della Scienza, di interesse nazionale e per questo nanziato dal CIPE nel dicembre 1994, viene realizzato per fasi grazie a un Accordo di Programma che ne risolve il contrasto con la Variante del PRG che andava delineando un’ottica diversa. In un’area sostanzialmente immobile, Città della Scienza diviene ben presto l’unica realtà, un’iniziativa lungimirante, che immette con forza un sogno apparentemente utopico capace di realizzarsi soprattutto grazie alla forza delle idee. Si procede per parti, alcuni spazi vengono inaugurati nel 1996 e consentono di spostare lì la mostra annuale Futuro Remoto dal 1987 ospitata nella Mostra d’Oltremare. Nel 2001 segue il Museo Vivo della Scienza. Nel 2003 si inaugura lo Spazio Eventi con gli incubatori di impresa e prende avvio il progetto Corporea. Nel 2013 un incendio doloso (dovuto a
3 - Bagnoli 2016: in primo piano la Città della Scienza, sul fondo monte Coroglio e l’isola di Nisida.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA motivazioni del tutto estranee allo speci co oggetto: la Magistratura ancora indaga) distrugge il Museo Vivo, la parte a mare della Città della Scienza; nel 2017 aprono al pubblico Corporea - il Museo del Corpo Umano - ed il grande Planetario 3D, il cui progetto esecutivo era stato approvato nel 2006. Ad oggi resta ancora burocraticamente irrisolta la ricostruzione della parte incendiata, benché da un paio d’anni si sia concluso il concorso internazionale in due fasi per individuare una diversa ipotesi di intervento. Come già accennato, nel 1994 il Comune di Napoli aveva avviato il nuovo PRG, a mio avviso culturalmente obsoleto, che diviene operativo nel giugno 2004, solo sei mesi prima dell’entrata in vigore della nuova Legge Urbanistica Regionale, la quale introduce una diversa forma di piani cazione, peraltro però ancora oggi per Napoli - dopo 13 anni - non ancora avviata. Nel 2002 il Comune di Napoli vara Bagnolifutura - Società di Trasformazione Urbana - dichiarata fallita nel 2014. Doveva procedere alla boni ca dell’area ed attuare il PUA approvato nel 2005. Bagnolifutura lancia alcune iniziative: noi vincemmo il concorso per il Parco dello Sport: tre crateri su trentacinque ettari, realizzato al 90%, oggi semidistrutto dopo il fallimento della società committente; Francesco Cellini e Francesco Ghio vincono il concorso per il grande Parco Urbano, non realizzato; Silvio D’Ascia realizza la Porta del Parco; qualche altro intervento minore. Ma l’azione di Bagnolifutura è lenta e contraddittoria, avvolta dalla politica locale. La crisi esplode con l’ordinanza dicembre 2013 del Comune di Napoli che impone a Fintecna la boni ca dei suoli. Fintecna reagisce immediatamente chiedendo il pagamento delle aree da tempo cedute. Da qui il fallimento di Bagnolifutura nel luglio 2014. A settembre lo “Sblocca Italia” decide per un diverso percorso: avoca le scelte al Governo centrale con l’obiettivo di imprimere velocità e pervenire nalmente al recupero della grande area dismessa. Per Bagnoli lo “Sblocca Italia” prevede un Commissario di Governo, ma la sua nomina richiede un anno e mezzo. Nell’aprile 20162, in coerenza sostanziale con l’ormai anacronistico PRG, si delinea il Piano (Invitalia) che propone tra l’altro di includere Nisida nell’area SIN già ampliata con Decreto del Ministero dell’Ambiente 8.8.2014 (GU 23.08.2014). Il Programma Invitalia presenta qualche strana innovazione, tra cui rendere contigui spiaggia balneabile e porto turistico per yacht di grandi dimensioni o prevedere un edi cato lungo la costa arricchito da una serie di piscine, o ancora lo spostamento del Museo Vivo della Scienza lontano dal mare. Il cronoprogramma Invitalia comunque dovrà però essere aggiornato, non solo perché si basa su modalità attuative non più consentite dal sopravvenuto Codice degli Appalti, ma soprattutto perché i suoli della ex Bagnolifutura, sequestrati dalla Magistratura nel dicembre 2014, così restano no al 2017, quando si conclude la relazione del superperito nominato dal Tribunale di Napoli alla ricerca della verità fra le contrapposte conclusioni di precedenti perizie. La relazione sostanzialmente conferma la necessità di boni ca data la sostanziale inefficacia degli interventi già effettuati. Intanto a metà dicembre 2016 la curatela fallimentare di Bagnolifutura chiama in causa il Comune di Napoli e tutti i soggetti ritenuti responsabili del fallimento della STU: prima udienza a luglio. È evidente che l’insieme delle con ittualità che continuano a generarsi con la difesa di sia pur legittimi interessi dei singoli, continuerà a produrre intollerabili ritardi. La collettività ne risulterà penalizzata. Comunque a marzo 2017 la Stazione Zoologica Anton Dohrn - prestigioso istituto di ricerca napoletano - in attuazione di un progetto approvato da MIUR e CIPE, mette in campo sessanta ricercatori per affrontare una s da unica in Europa, restaurare gli ecosistemi marini e restituire il mare alla città, “lo studio degli effetti delle condizioni acute e croniche su biodiversità e funzionamento ecologico della baia di Bagnoli-Coroglio, fornendo il quadro conoscitivo completo” puntando allo sviluppo di metodologie innovative applicabili in casi simili in Mediterraneo e in Europa, nalizzate al restauro di un ambiente marino costiero straordinario, dove le attività industriali hanno prodotto drastici cambiamenti ambientali. Non è la prima volta che mi dichiaro in uenzato da due esperienze recenti. L’una che attraverso il “metodo Delphi”3 ha delineato le trasformazioni probabili nel prossimo decennio proprio dell’area metropolitana di Napoli. L’altra, nello studio di un organismo da realizzare a tempi lunghi4, caratterizzata dalla decisa propensione dei miei “complici” (iper-esperti di tecnologie speciali) a valutare anche quanto oggi impossibile, ma che è 36
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO altamente probabile possa realizzarsi nei tempi medio-lunghi. Sostenuto anche da queste esperienze, cerco di delineare visioni alternative a quelle correnti. L’ottica della Città Metropolitana impone per Bagnoli nuove ipotesi, attente a un territorio da qualche anno incluso dalla Protezione Civile nel perimetro della cosiddetta “zona rossa” dei Campi Flegrei, il che esclude nuove residenze e certo non spinge ad usi intensivi. Inoltre in Italia si vuole ormai mettere ne al “consumo suolo” e si è sempre più convinti che nelle aree urbane sia molto positiva la compresenza di spazi per attività primarie. Ragionando quindi a scala metropolitana, forse parchi urbani vanno prioritariamente previsti nella “corona di spine” (come Francesco Saverio Nitti de niva la conurbazione che già cent’anni fa soffocava la città); sembrano cioè più opportuni nell’affollato entroterra che all’interno degli anacronistici limiti dell’attuale Comune di Napoli. Se non si ha la forza di portare avanti con efficienza e rapidità un programma intenso e coraggioso, capace creare le condizioni perché possa realizzarsi lì una grande area della ricerca e dell’innovazione, accogliente e legata al contesto, perché allora non valutare l’ipotesi di convertire in area agricola gli ampi spazi delle aree industriali dismesse a Bagnoli, magari prevedendo anche attività di trasformazione, quindi produttive? Peraltro le limitazioni ambientali e paesaggistiche - oltre che i vincoli della “zona rossa” - non fanno prevedere signi cativi contributi da oneri edilizi. Tutto allora deve essere intelligentemente semplice: perché il programma per Bagnoli abbia fattibilità economica, occorre limitare il costo delle infrastrutture e non ha senso quanto è ancora negli attuali ed ormai obsoleti strumenti urbanistici, occorre evitare costose linee metropolitane a quaranta metri di profondità, magari avvalersi di tram senza li o navette di super cie a idrogeno. Discorso diverso per la vera e propria fascia costiera fra il costone di Posillipo e l’abitato di Bagnoli, quello nato a ne ‘800. Per no il “programma” presentato da Invitalia il 6 aprile 2016 ammette che non c’è esigenza di tornare alla Mappa del Duca di Noja: fattori naturali ed antropici hanno sempre spinto molte città di mare - Napoli fra queste - a modi care la linea di costa. Anche Napoli, da millenni e nché è stata pervasa di futuro, ha infatti conquistato terra al mare, come dovunque, non solo in Olanda o a Singapore. Solo sul nire del secolo scorso - proprio come si evolvono anche le denominazioni correnti, che curiosamente passano da “La Rinascente” a “Antica Gelateria del Corso”- la perdita di ducia nel futuro porta a voler ripristinare la linea di costa: e non si capisce perché quella del ’700 e non altre delle tante con gurazioni assunte nei secoli. Inoltre l’Italsider negli anni ’60 del ‘900, immettendo 1.200.000 mc di materiali, sottrae 20 ettari al mare: una legge degli anni ’90 impone di eliminare questa “colmata”. C’è invece da augurarsi che sia questa decisione apodittica ad essere rimossa, non la “colmata”: la sua super cie potrebbe essere ridisegnata per trasformarsi in parte organica dell’insieme. Tra gli oltre 200 km complessivi della costa di Napoli-Città Metropolitana, il breve tratto che include Nisida/Coroglio/Bagnoli - fra il costone di Posillipo e l’abitato di Bagnoli - è un’importante risorsa anche economica, sia perché forse potranno recuperarsi le antiche terme, sia perché può contribuire ad incrementare il benessere di chi abita la città. Su questo tema è indiscussa la priorità ambientale e paesistica. Ricordo l’intelligente impostazione data da Bruno Zevi al concorso per l’area di Bagnoli bandito nel 1992 dal Comune di Napoli con la consulenza dell’INARCH, Istituto Nazionale di Architettura (concorso avviato, poi ritirato a seguito di proteste corporative del locale Ordine degli Architetti). Si chiedeva ad architetti provenienti da tutto il mondo di confrontarsi su
4 - Corporea - Museo del Corpo Umano, in primo piano il Planetario, il Museo e la cavea all’aperto, sullo sfondo l’isola di Nisida 5 - Corporea, fronte est sulla cavea all’aperto.
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6 - “City Layers”. Wien, Palais Palffy, 2015. Yona Friedman (F), Herzog (D), Flores&Prats (E), Fielden (GB), Pica Ciamarra Associati (I), Scheuerer (D), Keller (I); Un futuro per Napoli-Città Metropolitana (PCA).
ipotesi morfologiche e diversi modi di “costruire il paesaggio”, senza aprioristici limiti o vincoli funzionali, ma dotandosi del supporto di studi di fattibilità economica. Era un sogno di futuro, qualcosa di molto diverso dallo strumento urbanistico comunale avviato nel 1994 e dal quale n qui non ci si è riusciti ad affrancare. Nella sostanziale paralisi dell’intera area di Bagnoli, come prima accennato, da quasi un quarto di secolo Città della Scienza è sola: iniziativa di una Fondazione privata che è riuscita a creare una realtà straordinaria, decisamente anomala in un contesto metropolitano che continua a perdere ruoli di rilievo nazionale o internazionale. Nata quasi 38
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO dal nulla - interpretando le potenzialità, la creatività, la forza culturale non sopita di un contesto in apparenza diverso - Città della Scienza è una realtà di considerevoli dimensioni, soprattutto in sviluppo: ha sempre dimostrato di saper individuare e di riuscire quasi miracolosamente a realizzare programmi continuamente sempre più ambiziosi: concrete utopie. Città della Scienza è un raro esempio per come Napoli-Città Metropolitana possa invertire l’attuale tendenza al degrado, dotandosi di funzioni signi cative e di scala nettamente superiore ai suoi con ni. Napoli è fra le tre Città Metropolitane italiane di grandi dimensioni, unica fra queste a disporre di un sistema portuale forte, certo da ripensare, ma altamente signi cativo nel Mediterraneo. Fra le Città Metropolitane europee, Napoli è anche fra quelle con più elevata densità abitativa: se ci si affranca dai modelli abituali, la forte densità può aprire scenari di grandissimo interesse. Non bastano lo straordinario patrimonio archeologico, l’eccezionale concentrazione di siti UNESCO o condizioni storiche e paesaggistiche inusuali; non bastano singole personalità di rilievo nelle arti, nella musica, nel cinema, nel teatro, nelle scienze o altrove. Tutti gli indicatori classi cano oggi Napoli fra le ultime città italiane per qualità della vita. Il Governo nazionale, poiché Napoli-Città Metropolitana è un’importante risorsa per l’intero Paese, dovrebbe contribuire a far sì che in questa realtà - ormai marginale anche sotto il pro lo bancario e del credito - trovino interesse a localizzarsi attività direzionali e decisionali di rilievo; dovrebbe azzerare burocrazie pleonastiche e procedure paralizzanti; dovrebbe favorire velocità e ponderazione. Soprattutto però è a livello locale che c’è esigenza di “riarmo morale”. Qui occorre una politica che faccia leva sull’istruzione e sulla conoscenza, che renda evidente l’anacronismo degli atavici individualismi, che spinga a far comprendere che solo aggregazioni di massa critica idonea - unita a propensioni innovative ed idee apparentemente utopiche - possono raggiungere obiettivi rilevanti. Occorre soprattutto evitare che Napoli pensi solo a se stessa, che voglia rigenerarsi solo in funzione degli abitanti residenti che continuano a diminuire all’interno di anacronistici con ni comunali, ma che continuano a crescere nel pur dubbio perimetro dell’attuale Città Metropolitana: tuttavia una città non si misura per il numero di abitanti, ma sull’entità e sulla qualità dei ussi di ogni tipo che l’attraversano. Per determinare questo “passaggio di stato” - del tipo di quelli per i quali la materia è solida o liquida o gassosa - occorre agire con acuta lucidità sull’ancora recente Statuto metropolitano. Nella “grande Napoli” va determinata coscienza e consapevolezza dell’opportunità anche di nuove aggregazioni; che ogni parte è essenziale, ma che non ha senso esaltarne l’autonomia; che per ogni parte è conveniente contribuire alla formazione di un insieme fortemente relazionato, in grado di attrarre ed anche per questo tornare ad essere signi cativo quantomeno nel contesto europeo e mediterraneo. © Riproduzione riservata
Note 1 Documento Novacco/Rossi Doria, 1957; Capobianco/Sbandi/Pica Ciamarra/Pieraccini, 1965 - per l’Istituto di Studi per la Programmazione Economica coordinato da Franco Archibugi per conto del Ministero del Bilancio. 2 le:///C:/Users/max/Downloads/19006889programmaboni c.pdf 3 Domenico De Masi, “Napoli 2025 - come sarà la città tra dieci anni?”, Guida 2016 (con contributi di: Marino Niola, antropologo; Derrick De Kerckhowe, massmediologo; Massimo Lo Cicero, economista; Isaia Sales, politico; Massimo Pica Ciamarra, urbanista). 4 Orbitecture, Center for Near Space / Italian Institute for the Future, 2016.
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From the Porto Antico to the Fiera del Mare: ideas and project proposals for the waterfront of Genoa by Oriana Giovinazzi
Genoa has long coexisted with its ambition to become an important port in the Mediterranean and European context, with the many constraints imposed by the morphology of the territory, compressed between the hills and the sea. City planning tools and master plans have played a major role in the urban regeneration process of port areas, particularly the Port Master Plan, developed through a constant process of mediation with the City Administration, following the guidelines of the City Master Plan. The great events – the Colombiadi in 1992, the G8 in 2001, Genoa European Capital of Culture 2004 – played a decisive role, bringing with them signi cant economic resources that Genoa used wisely to create a new image for the city. A possible long-term scenario for the complex relationship between the port and the city was offered by Renzo Piano’s Affresco (2004): this was a comprehensive vision that contemplated three different phases of transformation over a span of 18 years on a surface of 200 hectares. Now, ten years later, Genoa prepares to face a new challenge, continuing the urban renovation process and the regeneration of the economic system along the coast up to Fiera del Mare. With a vision again donated by Renzo Piano, the intent is to pursue a harmonic relationship between the needs of the city and those of the port, and to stitch the city and the sea back together, between the zones of Ponente and Levante.
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Dal Porto Antico alla Fiera del Mare: idee e proposte progettuali per il waterfront di Genova di Oriana Giovinazzi
Genova, estesa su circa 24.000 ettari di suolo, in parte distribuiti lungo le due valli del Polcevera e del Bisagno, e in parte affacciati lungo 33 km di fronte d’acqua che corrono da Voltri a Nervi, convive da tempo con l’ambizione di diventare un importante porto nel contesto mediterraneo ed europeo (27 km di costa occupati da attività portuali, movimentazione complessiva di quasi 2,2 milioni di TEU nel 2015, secondo porto in Italia), ma anche con alcuni vincoli legati alla morfologia del territorio - stretto tra le colline e il mare - e quindi fortemente caratterizzato dalla mancanza di spazio; con diverse problematiche che riguardano il sistema infrastrutturale - insufficiente rispetto alle necessità - se non verrà integrato con la realizzazione del Terzo Valico ferroviario e il completamento della gronda autostradale; e in ne con una “storica” complessa relazione tra le aree portuali e il tessuto urbano. Vincoli e problematiche con cui la città-porto si è misurata già in passato, recuperando ad esempio vaste super ci sottratte al mare (porto di Sampierdarena, porto di Voltri, acciaieria di Cornigliano, aeroporto Cristoforo Colombo, Fiera del Mare, etc.), o realizzando la Sopraelevata, o ancora affrontando la crisi industriale che negli anni ’80 ha fortemente compromesso l’apparato produttivo (acciaieria, cantieristica, attività portuali, etc.), producendo un elevato tasso di disoccupazione e risvolti sociologici piuttosto importanti. Senza dubbio va però riconosciuta alla città la capacità di evolvere nel tempo in funzione delle mutate esigenze, alla ricerca continua di una nuova identità, valorizzando le risorse disponibili (patrimonio storico-monumentale, paesaggio, turismo, etc.) e sfruttando le occasioni del momento.
Il processo di riquali cazione urbana del Porto Antico In particolare negli ultimi 20 anni Genova è stata interessata da un processo di riquali cazione urbana - che ha riguardato inizialmente la Darsena e il vecchio porto (230 mila mq circa) - affidato a partire dal 1995 alla Porto Antico spa (partecipata per il 51% dal Comune, per il 39% dalla Camera di Commercio e per il 10% dall’Autorità Portuale). Gli ambiti portuali sono stati dati in concessione alla società (130 mila mq, di cui 71 mila mq di super cie coperta) con la nalità di restituire le aree alla fruizione urbana attraverso la realizzazione di iniziative culturali, lo sviluppo di attività congressuali, la costruzione di strutture di interesse generale, creando inoltre un polo di forte attrazione turistica. Un grande ruolo nel processo di riquali cazione urbana delle aree portuali va riconosciuto ai piani e agli strumenti urbanistici, in particolare al Piano Regolatore Portuale - elaborato in costante mediazione con l’Amministrazione Comunale e in sintonia con il Piano Urbanistico - che prevedeva un’estensione nella zona della Foce, con nuove opere a mare, ma destinava alla città l’intera area del Porto Antico, no alla Stazione Marittima. Tuttavia a disegnare in questi anni il futuro del waterfront genovese non sono stati tanto i piani quanto il dialogo tra i diversi attori coinvolti, alcune scelte politiche e la capacità non solo di identi care operazioni ed azioni strategiche, ma anche di comunicarle alla città. Un contributo rilevante in questi termini e, ai ni dell’intero processo, è da attribuire senza dubbio a tre grandi eventi internazionali che Genova ha avuto l’onore di ospitare, e che hanno rappresentato l’inizio del cambiamento.
1 - Il fronte d’acqua e il tessuto urbano di Genova dal Porto Antico alla Fiera del Mare. (Fonte: Blueprint Competition, Comune di Genova).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Nel 1992 si svolgono nel Porto Antico le celebrazioni in onore di Cristoforo Colombo (500 anni dalla scoperta dell’America) accompagnate da un’esposizione nell’area portuale. Un evento che rende disponibile un consistente nanziamento (circa 300 milioni di euro), attirando nuove attività e rimettendo in moto la struttura economica della città. In questa occasione l’Amministrazione Comunale e l’Autorità Portuale collaborano per la realizzazione di alcuni interventi sull’area compresa tra il Molo Vecchio e Ponte Spinola. Su progetto dell’architetto Renzo Piano si provvede alla rifunzionalizzazione dei Magazzini del Cotone trasformati in auditorium, centro congressi e spazio espositivo, con il Cineplex, la Città dei Bambini, la Biblioteca De Amicis; al recupero dello storico edi cio di Porta Siberia, sede del Museo Luzzati e alla risistemazione di Calata Mandraccio, in prossimità della quale nasce il Museo dell’Antartide. Nell’ottica di riquali care gli spazi per restituirli alla fruibilità pubblica, si procede inoltre con la realizzazione dell’Arena del Mare su Calata Gadda, in fondo ai Magazzini del Cotone; con la costruzione della tensostruttura che copre Piazza delle Feste e del Bigo che sorregge l’ascensore panoramico; in ne, con la creazione della Biosfera e dell’Acquario (uno dei più grandi d’Europa e tra le mete turistiche preferite in Italia). 2 - Una veduta panoramica della città e del porto dal quartiere residenziale di Castelletto, sulle alture di Genova. 3 - L’Affresco dello studio Renzo Piano Building Workshop (2004) che propone uno scenario di lungo periodo per ridisegnare il waterfront genovese (Fonte: RPBW, Comune di Genova).
Sempre con l’idea di legare sicamente e funzionalmente la città storica all’acqua, in occasione del vertice G8 del 2001, vengono portate a termine altre opere che contribuiscono alla trasformazione del waterfront genovese e che interessano in particolare Ponte Spinola, Ponte Calvi, Ponte Morisini, Darsena. Si tratta di una struttura ricettiva (NH Collection Genova Marina), di un porto turistico tra Ponte Calvi e Ponte Morosini, di alcuni magazzini portuali riconvertiti in un complesso residenziale (Il Cembalo), dell’insediamento della nuova sede della Facoltà di Economia e Commercio nel quartiere Scio. Si interviene inoltre con la risistemazione di arredo urbano e verde pubblico, quindi con la realizzazione dell’Isola delle Chiatte (struttura galleggiante disegnata da Renzo Piano su chiatte tradizionalmente in uso in ambito portuale, dotata di panchine e lampioni) che con Calata Falcone Borsellino - tra il Bigo e l’Acquario - completa la passeggiata della Darsena. Nel 2004 Genova diventa Capitale della Cultura Europea, un evento che si traduce in nuove opportunità e nanziamenti pubblico-privati (circa 160 milioni di euro) per il completamento di alcuni interventi già avviati nella zona della Darsena e nel centro storico adiacente al Porto Antico (Piazza Sarzano, Via San Lorenzo, Via Garibaldi, etc.). Si procede quindi con agevolazioni per l’insediamento di nuove attività commerciali; con operazioni di recupero delle facciate di palazzi storici; con interventi di pedonalizzazione, illuminazione e arredo urbano; con le opere per le stazioni della metropolitana di Darsena e San Giorgio e con consistenti investimenti (circa 52 milioni di euro) anche per il rilancio del sistema museale genovese, che portano l’UNESCO a dichiarare nel 2006 le strade nuove e il sistema dei Palazzi dei Rolli nel centro storico genovese (200 palazzi nobiliari per lo più di epoca rinascimentale) Patrimonio dell’Umanità. Viene inoltre realizzato il Museo del Mare e della Navigazione su progetto dell’architetto Guillermo Vasquez Consuegra, vincitore di un concorso internazionale bandito per il recupero e la rifunzionalizzazione degli spazi del magazzino portuale Galata.
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Dopo i grandi eventi. L’Affresco di Renzo Piano per la città
4 - Tetti di Genova. Sullo sfondo il Bigo del Porto Antico.
Se i grandi eventi hanno giocato un ruolo decisivo, mettendo in campo ingenti risorse economiche che Genova ha saputo capitalizzare, attivando capitale sociale e restituendo un’immagine rinnovata della città, ad ipotizzare un possibile scenario di lungo periodo per quanto riguarda la complessa relazione tra porto e città è stato l’Affresco di Renzo Piano (2004). Non si trattava di un progetto, bensì di una visione d’insieme che lasciava ampio spazio alla messa a punto dei singoli interventi, e che pre gurava tre diverse fasi di trasformazione su un arco temporale di 18 anni per una super cie di 200 ettari, di cui la città avrebbe dovuto disporre secondo quanto previsto dal Piano Regolatore Portuale. Uno sviluppo ininterrotto delle banchine per 8 km di costa, un’espansione infrastrutturale essenzialmente in linea (per poter attrarre le grandi navi post-Panama), la realizzazione di nuove strutture arti ciali: un’isola di fronte all’attuale aeroporto per accogliere il nuovo scalo (circa 3.620 m di lunghezza e 390 m di larghezza, un incremento pari a circa il 30% del traffico attuale); l’ampliamento del Bacino di Sampierdarena, nel tratto compreso tra Ponte Libia e Ponte Rubattino, destinato ad ospitare un comparto industriale di grande importanza e in continua evoluzione, la cantieristica; in ne la costruzione di nuove dighe foranee (circa 2 km di lunghezza e 150 m di larghezza, super cie complessiva 300.000 mq). Le aree rese disponibili dallo spostamento delle attività, strategiche per completare il processo di riquali cazione urbana, sarebbero state destinate: - per quanto riguarda lo scalo aeroportuale esistente (Multedo e Sestri Ponente), in parte ad usi portuali maggiormente compatibili con quelli urbani e allo sviluppo delle attività di Fincantieri, in parte alla fruizione pubblica per la realizzazione di un porticciolo turistico (1.500 imbarcazioni circa) e di una colmata da risistemare a verde pubblico, direttamente connessa al grande parco della collina degli Erzelli; 43
I TRE FUTURI DI VENEZIA - mentre per quanto riguarda la delocalizzazione dei cantieri navali esistenti, alla creazione di un grande porticciolo per la nautica da diporto, ricon gurando Calata Gadda in modo da ottenere una lunga promenade, con un percorso ininterrotto affacciato sul’acqua dalla Darsena (Molo Vecchio) no a Boccadasse (Fiera del Mare).
Un disegno ambizioso e strategico sul fronte d’acqua
5 - Lo stato di fatto e le indicazioni progettuali per la Blueprint Competition per quanto riguarda il tratto di litorale compreso tra Porta Siberia, nel Porto Antico di Genova e l’area di Punta Vagno-Piazzale Kennedy, nella zona della Fiera del Mare.
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Trascorsi più di 10 anni, Genova si accinge oggi ad affrontare una nuova s da, portando avanti il processo di riquali cazione urbana e di rigenerazione del sistema economico lungo l’arco litoraneo che si estende da Porta Siberia, nel Porto Antico, no a Punta Vagno-Piazzale Kennedy, nella zona della Fiera del Mare. Con una visione donata alla città dall’architetto Renzo Piano (23 settembre 2015), e che in parte riprende e rivede alcuni aspetti presenti nel precedente “Affresco”, si punta a perseguire una relazione armonica tra esigenze urbane (in particolare la valorizzazione delle aree ex- eristiche) e portuali (ossia lo spostamento delle attività di Riparazioni Navali che necessitano di spazi adeguati), nonché la ricucitura tra la città e il mare, tra la zona di Ponente e quella di Levante. In particolare gli interventi si concentrano su alcuni spazi di proprietà dell’Autorità Portuale e sulle aree della Fiera del Mare, acquistate nell’aprile del 2014 dall’Amministrazione Comunale per 18 milioni di euro (tramite SPIM spa, società partecipata al 100% del Comune a cui è affidata la gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare e delle aree non più funzionali alle attività eristiche). Per tali aree è previsto un cambia-
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO mento di destinazione d’uso secondo quanto stabilito mediante un accordo tra Amministrazione Comunale, Autorità Portuale e Regione Liguria, in modo da procedere alla realizzazione - tra Piazzale Kennedy e Punta Vagno - di opere funzionali alla fruizione degli ambiti di rimessaggio delle imbarcazioni, alla risistemazione di spazi ed attrezzature ad uso pubblico e alla realizzazione di strutture balneari-ricettive. Nello speci co il quartiere eristico risulta sostanzialmente suddiviso in due settori. Il primo settore è costituito dal padiglione B (padiglione “blu” di Jean Nouvel, inaugurato nel 2009, 20 mila mq, 40 milioni di euro) e il padiglione D (circa 49 mila mq), insieme alla darsena nautica e ad alcune aree in concessione demaniale. Questo settore resta al quartiere eristico con la possibilità di incrementare la super cie occupabile del 30% in occasione di eventi di particolare richiamo (Salone Nautico, Euro ora, etc.). Il secondo settore comprende il padiglione S (Palasport) e il padiglione C, la palazzina degli uffici con le biglietterie e l’edi cio Ansaldo-ex Nira che, non essendo più necessari alle attività eristiche, rientrano nella piena disponibilità del Comune, che può quindi procedere alla riconversione delle aree anche mediante la vendita. La Blueprint International Competition - Genova ha affrontato questa nuova s da, lanciando nel luglio del 2016 un concorso internazionale, “Blueprint Competition”, per la progettazione di un grande intervento di riquali cazione della Fiera del Mare, nalizzato all’acquisizione di una proposta relativa agli aspetti urbanistici, architettonici, tecnologici ed economici indicati nel disegno di Renzo Piano. Una proposta chiamata a misurarsi con alcuni obiettivi generali: - riquali care le aree ex eristiche, in parte dismesse e poco valorizzate, ma ubicate in un contesto strategico per la città; - rendere più attrattiva e vivibile la città, con una promenade che dal Porto Antico prosegue no alla Foce; - supportare il settore della cantieristica navale, in cui la città ricopre un ruolo d’eccellenza, garantendo spazi adeguati, rilanciando inoltre il settore della nautica; - adottare strategie energetico-ambientali mediante soluzioni speci che in linea con gli obiettivi ssati dall’Unione Europea (Direttiva 2020); - prestare una particolare attenzione alla sostenibilità economica- nanziaria dell’intervento complessivo.
6 - La Fiera del Mare con le aree dedicate alla era espositiva, alla nautica, alla cantieristica e alle riparazioni navali. (Fonte: Blueprint Competition, Comune di Genova, 2016).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Tra i criteri progettuali da prendere in considerazione, anche l’aspetto dei costi e dei nanziamenti, con un limite massimo per la realizzazione dell’intervento ssato in 200 milioni di euro e con un nanziamento pubblico di 50 milioni di euro (prevalentemente a cura dell’Amministrazione Comunale, e dell’Autorità Portuale per le aree di sua competenza, con 15 milioni stanziati dal Governo per un progetto ritenuto di “rilevanza nazionale”) sia per le demolizioni previste (circa 75 mila mq, tra cui la sopraelevata Aldo Moro nel tratto che costeggia la zona era, immobili, etc.) che per le opere propedeutiche necessarie (scavi, opere di contenimento delle banchine, realizzazione dei canali d’acqua, etc.). Un’idea chiara, quella di puntare sia sull’attenzione che un concorso internazionale di progettazione è in grado di garantire, sia sulla sostenibilità economico- nanziaria delle proposte progettuali, con la nalità di poter attrarre investitori privati interessati all’operazione. La competizione, che ha interessato circa 100 mila mq di aree, propone da un lato la realizzazione su super ci ricavate dalle demolizioni di alcuni immobili di una nuova polarità urbana tra la città e la Fiera del Mare, con la ricostruzione di circa 60 mila mq di super cie lorda utile (coperta e chiusa) all’interno del quartiere eristico; dall’altro prevede la creazione di una grande super cie d’acqua in modo da rendere il padiglione B una sorta di isola, attorno alla quale realizzare nuovi volumi in sostituzione degli immobili demoliti (con una riduzione della volumetria da 332.000 mc a 120.000 mc). In particolare le super ci di nuova edi cazione risultano suddivise in 40 mila mq per residenze, 5 mila mq per attività commerciali e artigianali, 10 mila mq per attività ricettive e 5 mila per uffici e direzionale. Da aggiungere a questi 20 mila mq di parcheggi di pertinenza in sottosuolo.
Verso la Fiera del Mare - La creazione di una darsena navigabile a ridosso delle mura antiche della città, una sorta di “canale-urbano” parallelo alla costa, consente di connettere il Porto Antico alla Fiera del Mare, de-cementi cando un’area di 85.000 mq (circa 780.000 mc). A restituire alla città l’affaccio a mare - con un processo inverso a quello tradizione dove è l’acqua a riconquistare il suolo - è la realizzazione dell’isola della “fabbrica del porto”, una grande realtà commerciale e produttiva capace di creare nuova occupazione, prevalentemente dedicata ad attività legate al mare, ai servizi connessi alla nautica da diporto e alle riparazioni navali. La riorganizzazione della zona eristica prevede il recupero del padiglione S (Palasport) che facendo seguito alle richieste del Coni dovrebbe mantenere la sua vocazione sportiva e spettacolare (30.800 mq), pur consentendo alcune modi che nel rispetto dei suoi elementi costitutivi principali e con il sostanziale mantenimento della sagoma, ma ipotizzando la possibilità di insediarvi ulteriori 15 mila mq destinati ad attività commerciali o artigianali riconducibili al settore sportivo e nautico. Da demolire invece i padiglioni obsoleti (C, D e M) e l’edi cio Ansaldo-Ex Nira. In particolare quest’ultimo (14.500 mq di super ci, 11 livelli) - realizzato nel 1964 con l’idea di ospitare un museo delle telecomunicazioni e un centro congressi - fu sostanzialmente inutilizzato no a quando fu recuperato da Ansaldo Nira negli anni ’80, e poi dismesso nel 2005. L’immobile negli anni seguenti è stato interessato da un iter piuttosto complesso: messo in vendita nel 2011 a privati mediante bando di gara pubblico, con la nalità di trasformarlo in struttura ricettiva con annesso centro commerciale, ma senza esiti positivi; di recente la scelta per la sua demolizione, cedendo la super cie di piano all’Autorità Portuale per 4,8 milioni di euro (su un valore inizialmente stimato intorno ai 18 milioni di euro). La demolizione dell’edi cio consentirebbe lo spostamento dello Yacht Club Italiano sullo specchio d’acqua antistante la Fiera del Mare (circa 1.000 m di attracchi, contro 900 m attuali), e quindi il tombamento dello specchio acqueo Duca degli Abruzzi, attualmente occupato, necessario all’ampliamento delle attività di riparazioni navali. Da mantenere invece la palazzina e la banchina storica come sede di rappresentanza (Museo dello Yacht Club Italiano) e da riorganizzare gli altri circoli nautici e la Marina affacciata su Molo Giano lungo il nuovo canale-urbano (1.800 m di attracchi, contro 1.700 m attuali). La risistemazione dell’attuale viabilità prevede l’articolazione attorno all’inserimento di un nuovo asse viario a raso tra l’area del Mercato del Pesce e Piazzale Kennedy, da realizzarsi al di sotto e in sostituzione della Sopraelevata (saranno demoliti 500 m nel tratto nale a partire dall’ex Nira). 46
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Tra gli interventi in programma anche la creazione di una “oasi naturalistica urbana” con relativa spiaggia in prossimità di Piazzale Kennedy, tra la città e il mare; e in ne la prosecuzione della promenade di Corso Italia, dalla Foce sino a Porta Siberia e quindi al Porto Antico, tramite percorsi ciclabili e pedonali a raso o sopraelevati, con affaccio diretto sul nuovo canale urbano e lungo il parco verde lineare adiacente.
Idee e proposte progettuali per guardare al futuro Se nessuno dei 76 progetti internazionali presentati in occasione della Blueprint Competition è stato scelto dalla giuria, tutti certamente contribuiranno a costituire un ventaglio di idee, di proposte che raccontano le potenzialità di quest’area, di soluzioni più o meno articolate in grado di restituire - al di là della sua complessità - una nuova visione del waterfront genovese, tutelandone il legame con il mare, con la città e con il porto. Disegni tracciati dalle mani di professionisti che andranno divulgati al pubblico, condivisi con i cittadini, discussi nelle sedi opportune, proposti a potenziali investitori affinché, attingendo al meglio delle singole proposte, possano diventare un’unica scelta, condivisa, per ridisegnare i vuoti urbani e gli spazi inutilizzati della Fiera del Mare dentro quella cornice che Renzo Piano ha voluto regalare alla sua città. A Genova, città e porto hanno condiviso o si sono appropriati degli spazi lungo il waterfront con modalità diverse nel corso del tempo. Proprio la complessa e “storica” relazione tra le aree portuali e il tessuto urbano è stato il punto da cui Genova è partita per avviare il processo di riquali cazione del Porto Antico. La presenza dell’elemento acqua e il carattere attrattivo del waterfront si sono trasformati da risorsa ad opportunità, e hanno avuto un ruolo importante nel processo di trasformazione di alcune aree prossime al centro urbano e dismesse dalle attività portuali. Certamente va riconosciuta la capacità di integrare e diversi care le destinazioni funzionali, di restituire ampie super ci alla fruizione pubblica, di incrementare l’accessibilità intervenendo in particolare sui sistemi di relazione e di valorizzare le caratteristiche speci che del territorio. Si tratta solo di alcuni degli elementi e degli aspetti su cui è stato costruito, a partire dal 1992, il successo di questo processo di riquali cazione urbana. Un processo adattivo e essibile che, capitalizzando opportunità e grandi eventi, ha scelto di proporre un progetto resiliente del fronte d’acqua e di perseguire lo sviluppo economico, turistico e culturale puntando sull’identità territoriale. Un approccio trasversale e strategico, guidato da scelte condivise e da una governance intelligente, che ha restituito una nuova immagine del waterfront genovese. È sempre dalla complessa relazione tra le aree portuali e il tessuto urbano che Genova riparte oggi, con la nalità di dare seguito ad una s da intrapresa ormai 20 anni fa e che ha come obiettivo proprio la trasformazione di questa complessa relazione, alla ricerca di una nuova identità che, pur senza dimenticare il suo passato marittimo, sia capace di rispondere alle mutate esigenze della città contemporanea, con uno sguardo al futuro. © Riproduzione riservata
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Urban regeneration, quality of development and social sustainability of the transformation processes: the lesson of Hamburg by Chiara Mazzoleni
The regeneration of the Hamburg inner-city port fringes represents the evolution of an important government tradition of urban transformation. With the creation of the new central district of HafenCity, Hamburg has become an exemplary case of governance structure and procurement strategy. A public-sector development company was established to manage the development, and a masterplan aimed to create a “close-grained and diverse mix of uses” was approved by the Hamburg Senate. This mix includes differentiated housing, office space for different types of companies, as well as retail and public domain space. Economic, social and environmental sustainability is a key principle of the development. HafenCity has focused on keeping a higher-income population while ensuring that a signi cant low-income segment resides in the city center by providing “family” apartments and surrounding urban space with a high quality of life. The challenge for HafenCity is now to control development in an ever-changing and demanding society. Planners seek to understand which planning devices, systems of rules and methods for involving the population can lead to a new urban environment that has the typical complexity of a traditional city, high expectations of quality re ected in its urban standards, ecological sustainability and innovative development processes. The case study shows that the governance, implementation and the way the development proceeds must be determined by the planning vision. It also shows that an approach which includes as many owners, architects, investors and developers as possible, is more likely to deliver the shared value, authenticity and diversity that a planning vision will usually embrace. The HafenCity experiment demonstrates that to achieve this, the government must manage urban transformations with strong public accountability and must develop a new “urban contract” in which citizens have greater responsibility and a stronger voice in the planning and decision-making processes.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Rigenerazione urbana, qualità insediativa e sostenibilità sociale delle trasformazioni: l’insegnamento di Amburgo di Chiara Mazzoleni
Le città possono essere considerate “documenti complessi ma intelligibili che ci parlano dei valori e delle aspirazioni dei loro amministratori, dei loro piani catori, dei loro costruttori, dei loro proprietari e dei loro abitanti”. Secondo questa considerazione, espressa da Donald J. Olsen, storico della città (Olsen, 1986), facendo esperienza di un’ambiente urbano, della sua qualità di vita, potremmo essere in grado di porre in una relazione di senso gli aspetti sici della città e il modo di operare di una società. Ciò ci induce ad assumere consapevolezza del fatto che gli aspetti tangibili di azioni di costruzione e trasformazione dello spazio sico sono difficilmente separabili dalle intenzionalità di differenti attori istituzionali e sociali nonché dalla cultura e dalle tradizioni entro le quali le diverse decisioni di modi cazione si traducono in speci che pratiche e con gurazioni formali. Seguendo questa ri essione, di fronte agli scarti evidenti nelle prestazioni e nella qualità urbane riscontrabili tra le esperienze di rigenerazione che stanno interessando diverse città europee, differenti per tradizione amministrativa, struttura economica e sociale, sistema di welfare e adeguatezza delle politiche di governo del cambiamento, è opportuno interrogarsi sulle ragioni e condizioni che consentono di conseguire un’elevata qualità insediativa, prestando al tempo stesso attenzione alla sostenibilità sociale delle trasformazioni, alla gestione degli interventi sulla città secondo una logica redistributiva – al ne di socializzare gli incrementi di valore delle aree – e al controllo dei loro esiti formali. Diverse sono le esperienze di successo di “città in transizione” e tra queste esemplare è quella in corso ad Amburgo, dopo che – con la caduta del muro di Berlino – la città ha riconosciuto l’opportunità di potenziare il proprio porto, spostandolo verso occidente e trasformandolo in un hub centrale per il traffico commerciale a scala europea. A più di quindici anni dall’avvio di un ambizioso progetto di rigenerazione urbana, che ha interessato in particolare l’area del vecchio porto e ha dato impulso al processo di riquali cazione ambientale e insediativa dei distretti più marginali al di là dell’Elba (Wilhelmsburg e Veddel), la libera città anseatica con consolidata tradizione socialdemocratica dimostra che per raggiungere una riconosciuta qualità ambientale e insediativa sono necessari alcuni prerequisiti. Primi tra questi la presenza di istituzioni pubbliche solide, socialmente legittimate e provviste di un élite dirigente di elevata competenza, la dotazione da parte del governo urbano di un piano direttore che espliciti un’idea di città e la strategia di medio-lungo periodo per realizzarla controllandone gli esiti nell’assetto sico-formale, un’attenta programmazione degli interventi unita a un loro costante monitoraggio. Amburgo, come sostiene Stefan Voigt – direttore dell’Istituto di Studi Economici e di Diritto presso l’università di Amburgo – è sempre stata una fabbrica di idee per la socialdemocrazia, un esempio di integrazione e di attenzione all’ambiente e alle questioni sociali (Nava, 2013). Qui le profonde ferite inferte al tessuto urbano – prima con il grave incendio del 1842 che distrusse circa un terzo della città, poi con le massicce distruzioni della seconda guerra mondiale – il rilevante fabbisogno di abitazioni e attrezzature civiche indotto dall’imponente espansione che nei decenni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento ha visto la popolazione passare da 200 mila a più di un milione di abitanti, e gli effetti economicamente e socialmente destrutturanti conseguenti alla transizione postindustriale degli ultimi decenni del secolo scorso, sono stati rapidamente affrontati diventando occasione di importanti progetti di ricostruzione e rigenerazione urbana.
1 - Nuovo distretto di HafenCity, quartieri Ovest nel 2011 (fonte: HCH).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Una rapida ed efficace ricostruzione dell’area urbana centrale, a seguito dell’incendio del 1842, era avvenuta sulla base di un piano elaborato da una commissione composta da una élite tecnico professionale tra le più quali cate, che comprendeva William Lindley, ingegnere inglese che progetterà ad Amburgo il primo sistema fognante generale, e noti esponenti del mondo accademico-professionale, tra i quali Alexis de Chateauneuf e Gottfried Semper, che insieme daranno nuova forma al bacino interno dell’Aster, in margine al quale verrà ricon gurato il cuore della città, con la creazione di una grande piazza destinata ad ospitare il nuovo Rathaus e altri edi ci pubblici. Contestualmente allo strumento urbanistico (approvato nel 1842), che prevedeva la ristrutturazione del tessuto esistente secondo nuovi parametri dimensionali e funzionali e darà il via in pochi anni alla costruzione della città borghese e al profondo mutamento del ruolo dell’area centrale, era stato messo a punto un efficace dispositivo di esproprio delle aree. Esso escludeva la possibilità di opposizione da parte dei privati, imponeva la cessione gratuita dei piccoli appezzamenti, stabiliva i criteri per la stima dei terreni e quelli per la ricessione delle aree ai privati, secondo i nuovi allineamenti, apposite norme anti-incendio e la regolamentazione delle costruzioni e delle tipologie edilizie (Sica, 1977). Il cambiamento del ruolo del centro urbano, con la sostituzione delle prevalenti funzioni residenziali con funzioni commerciali e amministrative e la conseguente drastica riduzione della popolazione residente (dai 137 mila abitanti del 1900, ai 66 mila del 1939), svelava l’emergere di importanti cambiamenti nella struttura economica (Menzl et. al., 2011). Il nuovo distretto degli uffici, che verrà realizzato tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, caratterizzato da possenti Kontorhaus (la nuova tipologia di edi ci per ufci) che riproducevano la forma del lotto dell’isolato – dei quali il complesso edilizio Chilehaus rappresenta l’esempio più noto – vedrà l’affermarsi dell’architettura espressionista in mattoni che cercherà di interpretare la modernità mediandola con i valori della tradizione nazionale. L’espansione della città all’esterno del tessuto consolidato aveva avuto inizio solo dopo il 1860, con l’abbattimento delle mura e la realizzazione del nuovo porto. Questa trasformazione dell’area urbana era avvenuta secondo le direttive di un’altra gura di rilievo, l’ingegnere civico Franz Andreas Meyer, che era a capo del nuovo corpo tecnico municipale impegnato nella realizzazione di opere pubbliche che faranno parte di un più complesso processo di modernizzazione della città. Suoi sono anche i progetti di trasformazione a parco urbano del sedime dell’antica cinta muraria e il progetto dell’imponente complesso di magazzini – la città dei magazzini (Speicherstadt) – posto a delimitazione della nuova zona franca portuale. Il primo diventerà importante elemento di organizzazione dello spazio urbano, con la sua successiva connessione con lo spazio aperto intercluso tra le direttrici di sviluppo dell’espansione urbana del Federplan, concepito da Fritz Schumacher nel 1921 e destinato a diventare principio ordinatore dello sviluppo dell’area metropolitana per circa un secolo. Il secondo, costruito tra il 1884 e il 1912 – sostituendo la parte sud orientale dell’antico nucleo ed espellendo più di 20 mila persone – formato da due schiere parallele di magazzini in laterizio rosso in stile neogotico, separate da canali, che si sviluppavano in altezza, riproponendo la partizione del tessuto edilizio storico, si trasformerà in grande barriera, a delimitazione del porto franco, che precluderà a lungo il rapporto della città con l’acqua. Realizzata da una società appositamente costituita dalla città stato insieme a un gruppo di imprenditori, successivamente trasformata in società a capitale pubblico, Speicherstadt sarebbe diventata elemento connettivo monumentale tra il centro urbano e il nuovo distretto di HafenCity. Durante la fase di massima crescita urbana e demogra ca – nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento – importante era stata la presenza in qualità di direttore delle costruzioni (Oberbaudirektor) di Fritz Schumacher. Esponente di rilievo di quel gruppo di architetti che aveva assunto consapevolezza del fatto che una riforma dell’architettura non poteva che discendere da un’invenzione spaziale, ossia da una riforma nel campo urbanistico, aveva individuato come ambito speci co in cui esercitare il nuovo ruolo professionale la gestione e l’amministrazione della produzione edilizia e del suolo urbano (Mazzoleni, 2013). Il progetto dello spazio costruito, attraverso grandi isolati con impianto unitario destinati all’edilizia popolare e grandi attrezzature collettive e il progetto dello spazio aper50
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO to, con un sistema di are verdi e di parchi urbani (tra i quali il monumentale Stadtpark), diventano dispositivi di organizzazione razionale dello spazio, quindi non più solo di de nizione di elementi di costruzione della grande città. Amburgo si sarebbe così distinta come luogo di rinnovamento culturale e di sperimentazioni sull’architettura, sul tipo edilizio e sui materiali compositivi dello spazio urbano e al tempo stesso come ambito di affermazione di una nuova concezione del governo della città. Con questa rilevante tradizione, che si è materializzata in intere parti urbane unitarie, esemplari per il loro rigore e la qualità insediativa, si è confrontata la più recente riconversione dell’area portuale. Su quest’area, dopo l’acquisizione da parte della città stato, nel 1987, dei lotti e degli edi ci non di sua proprietà, la formalizzazione nella Vision HafenCity della proposta avanzata nel 1996 da Volkwin Marg, noto esponente dell’élite accademicoprofessionale tedesca, e l’espletamento del concorso internazionale per la redazione del masterplan della stessa area, assegnato al team tedesco-olandese Kees Christiaanse-ASTOC, è iniziata nel 2000 la realizzazione del nuovo distretto di HafenCity. Il quale, oltre ad essere un ulteriore esempio di trasformazione urbana a forte regia pubblica, è la dimostrazione di come sia possibile tramutare, anche in una fase di grave crisi economico- nanziaria, il “progetto urbanistico da semplice raffigurazione di un futuro possibile a concreto dispositivo per la gestione del cantiere della città” (Secchi, 2000). Un ruolo chiave in questo complesso “cantiere” è svolto dalla nuova società di sviluppo urbano – HafenCity Hamburg GmbH (HCH) – posseduta interamente dalla città di Amburgo. Con ampio mandato per la gestione del “Fondo speciale per la città e il porto” e attraverso varie forme di intervento, questo organismo, efficiente e dotato di diverse competenze, promuove, coordina e gestisce lo sviluppo complessivo del nuovo distretto mediando un approccio di mercato con un orientamento teso alla creazione di un tessuto urbano funzionalmente e socialmente diversi cato e integrato e di elevata qualità ambientale. Al nucleo del vecchio porto è stato attribuito lo status di area di intervento prioritaria per cui i diversi piani (dallo schema strutturale ai piani esecutivi) sono discussi dalla Commissione per lo Sviluppo Urbano appositamente istituita e composta dai rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel governo locale, mentre i permessi di costruire sono concessi dal ministro per lo Sviluppo Urbano. Tra le principali nalità del masterplan di HafenCity la prima attiene al ruolo propulsore che la nuova area centrale è chiamata a svolgere nello sviluppo economico, ecologico sociale e culturale della città e dell’area metropolitana e la seconda consiste nel rendere la stessa più attrattiva per le funzioni residenziali. In questa direzione si è provveduto a costruire un ampio consenso sugli obiettivi e i provvedimenti coinvolti attraverso un esteso dialogo n dalla fase iniziale del processo di piani cazione. La volontà di mantenere alto il livello di partecipazione della popolazione e di consolidare il consenso sulle decisioni politiche si è tradotta nell’istituzione di uno speci co spazio pubblico di discussione – il “laboratorio urbano” (Stadtwerkstatt) – dei temi e dei progetti più rilevanti (Fuchs, 2013). Per rafforzare l’identità portuale della città e assicurare un’elevata qualità ambientale e insediativa, già nella de nizione dello strumento direttore sono stati precisati i principi dei piani attuativi e i parametri tecnici di base concernenti il dimensionamento, suddiviso per le diverse funzioni e basato su un’attenta analisi di fattibilità degli interventi (con non meno del 30% destinato a residenza, il 48% a uffici, il 13% ad attrezzature col-
2 - HafenCity, quartieri Ovest, 2010 (fonte: HCH) 3 - Quartiere Am SandtorkaiDalmannkai, 2013 (fonte: HCH – Elbe & Flut). 4 - Magellano Terraces, 2013 (Miralles-Tagliabue-EMBT). 5 - Quartiere Am SandtorparkGrasbrook, waterfront con vista delle Marco Polo Terraces (Miralles-Tagliabue EMBT)
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6 - Hafencity, quartiere Am Sandtorkai-Dalmannkai (fonte: HCH, Elbe&Flut). 7 - Quartiere Am SandtorkaiDalmannkai e Marco Polo Terraces (Miralles-TagliabueEMBT) – fonte: HCH. 8 - Quartiere Am SandtorkaiDalmannkai (fonte: HCH). 9 - Zona Est, progetto per il quartiere Elbbrucken (Hosoya-Schaefer-Architects).
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lettive e attività ricettive e il 9% ad attività commerciali di vicinato, ricreative e di servizio ai residenti, per una super cie lorda di pavimento complessiva di 2,32 milioni di mq) l’indice fondiario, l’uso dei suoli e degli edi ci, la struttura viaria e la rete dei trasporti, la protezione dalle inondazioni e la struttura dello spazio pubblico. A quest’ultimo è destinato il 25% della super cie del nuovo distretto, mentre il 13% è costituito da spazi aperti privati accessibili al pubblico e il 24% è occupato dalle infrastrutture per la mobilità. Il masterplan, concepito come dispositivo essibile, affinabile nel corso del processo per quanto concerne l’articolazione per quartieri dell’indice di utilizzo del suolo e le speci che determinazioni funzionali degli interventi, avrebbe dovuto stabilire lo sviluppo del nuovo distretto centrale, che estende di circa la metà l’area del centro urbano, con l’aggiunta di 158 ettari (dei quali 31 di super cie acquea), entro un orizzonte temporale di 25 anni attraverso un’organizzazione per fasi della realizzazione dei diversi quartieri e l’aggiornamento periodico dei vari piani esecutivi. Le previsioni insediative da raggiungere entro questo orizzonte temporale, riviste in aumento con l’aggiornamento del masterplan, sono circa 6.000 unità residenziali per oltre 12.000 residenti e circa 45.000 posti di lavoro. La essibilità dello strumento direttore, che consente di valutare la coerenza tra la dimensione regolativa e la dimensione politica attraverso i progetti esecutivi, è assicurata dall’articolazione di linee guida e criteri di indirizzo in un due differenti livelli. A quello più generale, con valenza strutturale e strategica, attengono i requisiti fondamentali ai quali deve corrispondere il progetto dell’armatura urbana. Questi requisiti, contenuti nel bando del concorso internazionale indetto per la redazione del masterplan, fanno riferimento alla visione politica condivisa basata sull’idea di una città compatta, caratterizzata da mixité sia funzionale sia sociale, dove allo spazio pubblico è affidato il ruolo di elemento strutturante dell’insediamento. Essi sono sostanzialmente: la creazione di un tessuto edilizio con tipologie miste in grado di rispondere sia a una domanda abitativa diversi cata in relazione ai differenti gruppi sociali e alle mutate abitudini di vita e di lavoro, sia alle esigenze abitative che non sono solvibili attraverso il mercato; la commistione di funzioni da conseguire nei diversi quartieri e nei singoli edi ci (mixité a grana ne) e la differenziazione di funzioni ai piani terra per renderli fruibili al pubblico; la valorizzazione dei caratteri tipologici delle strutture portuali e del loro rapporto con l’acqua; la qualità degli spazi pubblici che delimitano lo spazio acqueo sul quale devono preferibilmente affacciarsi gli edi ci a prevalente destinazione residenziale; la permeabilità e la continuità tra il nuovo distretto, il nucleo storico centrale e i quartieri adiacenti; l’indicazione di speci che aree individuate come strategiche per la valorizzazione dell’immagine della città attraverso la realizzazione di edi ci che si con gurano come landmark (tra questi l’Elbphilharmonie Concert Hall, destinata a diventare l’icona del nuovo distretto). Al secondo livello attiene un insieme di prescrizioni e indirizzi guida – da perfezionare nei piani esecutivi dei singoli quartieri – che regola gli aspetti architettonici e microurbanistici degli interventi, in base al carattere e al ruolo assegnato dal masterplan. Questi riguardano l’altezza degli edi ci, i materiali da impiegare, l’organizzazione e la fruibilità degli spazi pubblici, la caratterizzazione degli ambiti di transizione tra i differenti quartieri, la dotazione di parcheggi, la divisione dei lotti e la diversi cazione delle proprietà. Da queste ultime condizioni si è ritenuto potesse derivare la diversità e la sostenibilità dello sviluppo urbano. Si è stabilito che i lotti delle parti del nuovo distretto limitrofe a Speicherstadt avesse-
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ro una dimensione tale da favorire la formazione di una cortina edilizia, coerente con quella degli antichi magazzini, con destinazione prevalentemente residenziale, mentre i lotti più prossimi al distretto Kontorhausviertel – tra i quali quelli oggi occupati dalle nuove sedi direzionali di Der Spiegel e di Rricus-Contor – e i lotti dei due quartieri centrali che racchiudono il bacino del Magdeburger Hafen avrebbero dovuto consentire la formazione di un tessuto urbano a isolati in grado di ospitare un complesso mix di funzioni a scala urbana e metropolitana. Inoltre si è previsto che nel corso del processo di piano venissero de nite le dimensioni dei lotti più adatte agli usi programmati e si è indicata come più opportuna la divisione in super ci idonee a facilitare l’investimento nel progetto di aziende di medie dimensioni, di medio-piccole imprese edilizie, delle nuove forme dell’abitare autopromosso (Baugemeinschaft), di cooperative di costruzione e di singoli operatori (Hafen City, 2006). Le modalità stabilite di attuazione e implementazione del piano hanno garantito n dall’inizio il coinvolgimento di numerosi professionisti nella de nizione della nuova immagine urbana e nella ricerca delle soluzioni architettoniche di qualità più elevata sia per gli edi ci sia per lo spazio pubblico. Agli investitori e ai promotori degli interventi è stato così richiesto di collaborare nella de nizione di norme e standard che assicurassero la qualità e nell’individuazione di soluzioni innovative anche relativamente al mix di funzioni. Aspetti rilevanti della procedura di attuazione degli interventi sono infatti i concorsi pubblici previsti per i piani attuativi e per i progetti dei singoli edi ci, e le gare d’appalto per l’assegnazione dei lotti. La maggior parte dei vincitori dei concorsi espletati è costituita da studi di architettura locali, seguiti da studi nazionali e ciò dimostra come questa pratica consolidata abbia contribuito a elevare la qualità e la competenza di generazioni di professionisti chiamate a misurarsi con i temi e gli aspetti rilevanti della trasformazione della città. La qualità degli interventi è perseguita anche nelle gare d’appalto indette per l’assegnazione dei lotti con destinazione prevalentemente residenziale o mista, attraverso criteri che privilegiano le proposte giudicate migliori in termini architettonici, di sostenibilità (per la quale è prevista la certi cazione Ecolabel), di efficienza nell’uso delle aree accessibili al pubblico, di forme e di modi d’uso innovativi (soluzioni abitative di forma cooperativa e di joint venture e mixité funzionale). Un altro aspetto importante dell’attuazione consiste nell’applicazione del criterio dell’opzione esclusiva, che consente agli operatori che hanno ottenuto l’assegnazione dell’area di disporre del tempo necessario – generalmente 18 mesi, periodo entro il quale deve essere redatto il progetto esecutivo – per perfezionare l’intervento proposto ottimizzandone la qualità, prima di acquisire l’area. Ciò consente agli investitori o agli utilizzatori dell’area di accedere al sito per esaminare accuratamente tutte le con-
10 - Masterplan di HafenCity, suddivisione del distretto nelle tre parti (Ovest, Centro, Est) e relativi quartieri (fonte: HCH).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA dizioni, di indire un concorso di architettura, di reperire le risorse necessarie, di coinvolgere nell’intervento altri soggetti interessati e di predisporre il progetto per l’approvazione. Qualora l’investitore o il promotore non riesca a rispettare le condizioni stabilite con l’opzione esclusiva, la società può riallocare l’area senza dover affrontare spese amministrative. Questo dispositivo stimola comportamenti cooperativi, disincentiva strategie opportunistiche da parte degli investitori e consente di minimizzare i rischi dell’investimento. Per questo insieme di ragioni, trascorsi 16 anni dall’approvazione del progetto, circa il 50% del nuovo distretto è stato completato con l’ampio apporto delle risorse nanziarie generate dagli investimenti privati, il centro di Amburgo ha riconquistato il suo rapporto con il ume e ha preso forma e vita il cuore di HafenCity, con le principali attrezzature pubbliche (tra cui musei, università e vari istituti per l’alta formazione). I quartieri realizzati (occidentali) e in corso di completamento (centrali) sono già collegati alla rete di trasporto pubblico veloce (linea metropolitana) e sono dotati di un’infrastruttura sociale molto articolata, di un’ampia area a parco in corso di realizzazione (Lohsepark), che si estende no al ume, e di un sistema di teleriscaldamento con progettazione modulare e sviluppo incrementale, in relazione all’evoluzione dell’insediamento. Nel 2014, nella parte est del nucleo centrale commerciale - Überseequartier – un nuovo partner (Unibail-Rodamco, grande developer europeo) ha affiancato il consorzio Überseequartier nella joint venture e si è impegnato a sviluppare e completare l’intero comparto (comprese le attrezzature collettive e lo spazio pubblico). Congiuntamente l’operatore privato, la società HCH e il Ministero dello Sviluppo Urbano e all’Edilizia Abitativa, hanno ride nito il progetto urbanistico – affidato, attraverso concorso ad inviti, a una società di progettazione tedesca (HPP International) – e le destinazioni d’uso degli undici edi ci previsti (per una super cie lorda di pavimento complessiva di 270 mila mq). Le nuove esigenze sopraggiunte hanno infatti richiesto una riduzione degli spazi per uffici e un aumento della quota di residenze (con 1.100 appartamenti, il doppio di quelli inizialmente programmati), una migliore integrazione del terminal crociere e delle attività di intrattenimento nel contesto urbano, anche per minimizzare i con itti con la funzione residenziale, una maggiore articolazione e integrazione delle diverse funzioni (residenziali, ricettive, di intrattenimento, culturali, commerciali e di ristorazione) e la protezione dalle intemperie dell’area commerciale. Nei tre quartieri orientali, dei quali sono state riviste le previsioni del masterplan, con l’estensione della linea della metropolitana e il potenziamento della funzione residenziale (3.000 unità abitative) in particolare dei quartieri Am Baakenhafen e Elbbrücken e la caratterizzazione ad attività culturali e creative di Oberhafen, sono in corso i progetti esecutivi, essendo stati espletati i concorsi pubblici per i relativi piani urbanistici e per la progettazione degli spazi aperti. In quest’ambito urbano verrà privilegiata nell’assegnazione dei lotti la differenziazione delle tipologie residenziali in forma cooperativa, in joint venture per favorire la formazione di una maggiore mixité sociale, con abitazioni destinate a famiglie, studenti, anziani e persone con disabilità, per circa il 30% in affitto sussidiate e il 10% in affitto ammortizzato, per le fasce sociali a reddito medio che non hanno accesso all’edilizia sovvenzionata. Qui prevalente è la formazione di un tessuto edilizio compatto e denso, costituito da edi ci sull’acqua e da isolati semiaperti verso il ume, con un articolato sistema di courtyard e di spazi verdi attrezzati per attività ricreative. Nel complesso la mixité funzionale e sociale, oltre a essere stata sistematicamente progettata, è anche realizzata nelle diverse fasi di sviluppo dei vari quartieri. Nel nuovo distretto centrale, e in particolar modo nei quartieri a est, è inoltre previsto un aumento dei livelli di mobilità sostenibile, anche attraverso la riduzione degli spazi a parcheggio nelle aree pubbliche, la costruzione di un’estesa rete di percorsi pedonali e ciclabili e la generazione di energia rinnovabile per il fabbisogno delle auto elettriche internamente agli edi ci, oltre che esternamente attraverso i gestori dei servizi energetici. Allo stato di fatto più recente, il waterfront pubblico è stato esteso da 10 a 10,5 km, sono state realizzate più di 1.800 unità abitative, circa 2.500 persone vivono nei nuovi quartieri, più di 12 mila persone lavorano nelle 730 imprese che si sono insediate. Di queste 40 sono attività di medio-grande dimensione ma numerose sono anche le attività di piccola dimensione impegnate nei settori dei servizi avanzati, della logistica connessa alle attività portuali, del commercio, della ristorazione e ricettivi. Dei nuclei familiari insediati, il 14,5% è costituito da famiglie con gli, valore che ha superato quel54
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO lo degli altri distretti centrali di Amburgo ed è destinato a crescere con l’assegnazione di una quota più elevata rispetto alle previsioni iniziali di edilizia sociale (Hafen City, 2016). Quest’ultima, insieme alle nuove forme dell’abitare autopromosso, caratterizzerà, come già accennato, i nuovi quartieri prevalentemente residenziali della parte est, in corso di progettazione. La creazione di un’associazione di residenti (“Rete”) istituita nel 2010, ha incentivato la partecipazione della popolazione e ha favorito lo sviluppo delle relazioni di vicinato e di varie attività sociali che animano la vita di quartiere. Inoltre è in fase di sviluppo un articolato sistema di mobilità sostenibile costituito da mezzi pubblici a idrogeno e servizi di bike e car sharing, con un elevato numero di auto elettriche. L’accorta strategia di orientamento delle attività economiche e dello sviluppo residenziale verso il nuovo distretto potrà anche consentire alla città di fare fronte all’attuale grave crisi strutturale che ha interessato dal 2011 il sistema mondiale del trasporto marittimo e si è fortemente ripercossa sul sistema nanziario regionale, molto esposto sul fronte dei crediti marittimi. La consapevolezza di agire in una dimensione globale ha infatti guidato i decisori a puntare sulla qualità insediativa, sull’atmosfera urbana assicurata dalla mixité e sulla sostenibilità ambientale, economica e sociale che qui sono elementi del processo di formazione della nuova centralità e del suo successo in termini di produzione e di attrazione di investimenti. Questa capacità attrattiva si è già tradotta in redditività – con nanziamenti privati che hanno superato gli 8 miliardi di euro, mentre i nanziamenti pubblici ammontano a 2,4 miliardi (dei quali 1,5 miliardi provengono dalla vendita dei lotti) – da reinvestire nelle infrastrutture urbane, nelle attrezzature collettive e nella qualità del contesto. Si può quindi a ragione dire che HafenCity non solo si iscrive in quella tradizione di governo che ha caratterizzato le trasformazioni di Amburgo da più di un secolo, ma ne rappresenta anche l’evoluzione più pro cua in termini di qualità urbana, di socializzazione del valore generato dalle trasformazioni e di sviluppo sostenibile. © Riproduzione riservata
Bibliogra a C. Fuchs, “More city in the city, a dialogue with Wilhelm Schulte and Jorn Walter”, Area, 126, 2013. Hafen City, HafenCity Hamburg der Masterplan – HafenCity Hamburg, the masterplan, Hamburg 2006. Hafen City, HafenCity Facts & Figures, Hamburg 2016. C. Mazzoleni, “Amburgo, HafenCity. Rinnovamento della città e governo urbano”, Imprese & Città, n. 2. M. Menzl et. al., Wohnen in der HafenCity: Zuzug, Alltag, Nachbarschaft, Junius, Materialien zur HafenCity, 1, Hamburg 2011. M. Nava, “I socialdemocratici ripartono dalla ricca e colta Amburgo”, Corriere della Sera, 21 settembre, 2013. D.J. Olsen, The city as a work of art, Yale University Press, New Haven. London, 1986. B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari-Roma, 2000. P. Sica, Storia dell’urbanistica. L’Ottocento I, Laterza, Roma-Bari 1977.
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Lands of opportunities: urban regeneration in London by Michelangelo Savino and Martina Concordia
In the last few years, London has undoubtedly represented the cutting edge of urban regeneration, and not just in Europe. In one of the most dynamic global cities on the planet, urban regeneration displays singular characteristics: development procedures and projects, amounts of private investment, speed of construction, architectural forms, relationships among the different actors involved in the process, public strategies and policies that support these processes. The change has primarily involved vacant industrial brown elds and port areas with their surroundings, as well as the city’s most strategic areas located near public transport infrastructure hubs, but affected by social and economic decline; more recently it has involved the areas closest to central London. Though many of the projects draw public attention and appreciation, there are clear contradictions that are particularly evident in the two case studies mentioned in the paper: King’s Cross and Battersea, part of the largest Vauxhall-Nine Elms-Battersea project, places where only a few years ago, manufacturing activities and working class housing were prevalent, concentrated between the railroad tracks and power stations. The areas will be affected by projects of great architectural value involving a radical change in the existing urban structure. The Battersea area in particular reveals the characteristics of the urban regeneration process now in progress. In an extended 560-acre area, with 4 miles of riverfront, the Planning Framework proposed a high-density mixed-use development scenario, consisting mainly of luxury residences, office space, businesses, restaurants and other amenities. While there is no lack of public spaces and facilities, and developers have attempted a place-making approach to designing public space and integrating the new urban section into the surrounding city, the regeneration of Battersea is provoking a great deal of discontent. Is it possible to modify the regeneration process?
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Lands of opportunities: rigenerazione urbana a Londra di Michelangelo Savino e Martina Concordia
Londra rappresenta indubbiamente, soprattutto negli ultimi anni, la frontiera più estrema della rigenerazione urbana, e non solo in Europa. In una delle città globali più dinamiche del pianeta, la trasformazione urbana mostra caratteri unici (modalità di realizzazione, quantità di investimenti, tempi di realizzazione, forme architettoniche, relazioni tra i vari operatori coinvolti nel processo, strategie e politiche che danno forma e forza) che la rendono un caso estremamente interessante per quanto di certo non esemplare. Diverse le ragioni. È innanzitutto un processo di trasformazione radicale della città che parte da lontano. Lontano nel tempo e lontano anche dalle pratiche ormai diffuse in realtà diverse nel continente, compreso il nostro paese. Sin dall’esordio del “thatcherismo” la città è stata investita da un processo di profondo ripensamento. Ancor prima che si de nisse uno scenario per la città e si dibattesse su quale futuro si dovesse costruire per la metropoli, era chiaro il percorso che si sarebbe intrapreso: drastica destrutturazione del sistema di piani cazione, progressivo arretramento dell’intervento pubblico e apertura incondizionata all’investimento privato. Le Enterprise Zone rappresentarono non solo l’individuazione di speci che aree eleggibili alla trasformazione (prevalentemente aree portuali ed industriali che avevano perso la loro funzione originale) ma anche il rigetto del piano urbanistico generale, di una visione (pubblica) d’insieme della città e del controllo pubblico nel processo di trasformazione urbana. E l’avvento del New Labour di Tony Blair, seppure ha comportato l’ammorbidimento di questo approccio (con la rivalutazione dell’intervento pubblico soprattutto per garantire il perseguimento di alcuni obiettivi di redistribuzione sociale), non ne ha cambiato la sostanza e ha garantito comunque al capitale privato un ruolo predominante nello sviluppo dei progetti (cosa che non ha risparmiato molte critiche anche nei confronti dei laburisti). Né la riforma urbanistica del 2004 – pur restituendo un valore formale di indirizzo al piano – sembra modi care quella che è divenuta una pratica ormai consolidata di intervento che lascia grande libertà di manovra al capitale privato nella costruzione del progetto di recupero e riuso delle aree di trasformazione, anche se alcuni obiettivi di interesse pubblico vanno perseguiti, come: la riquali cazione (se non creazione) dello spazio pubblico, la dotazione di servizi ed attrezzature pubbliche, la realizzazione di aree verdi, piste ciclabili e aree pedonali, nondimeno l’esplorazione di nuove pratiche sostenibili di costruzione e di riorganizzazione della struttura urbana, compreso il ricorso in molti casi ai processi partecipativi. Anche se non si può negare che spesso la progettazione partecipata è stata utilizzata più per mitigare – o prevenire – i con itti emersi con le comunità residenti o per evitare l’insorgere di mobilitazioni collettive in un contesto sociale divenuto sempre più sensibile al processo di trasformazione e ai suoi impatti sociali. Il maggior merito che va riconosciuto a queste politiche di trasformazione è la radicale riformulazione dell’immagine urbana: Londra cambia completamente il suo aspetto, e l’ingessata veste che ha connotato la compagine urbana, pur molto amata dai residenti e tanto apprezzata dai turisti, viene sostituita da una nuova e del tutto diversa con gurazione: grattacieli che de niscono uno skyline insolito ma più contemporaneo; architetture so sticate e spesso high-tech che esaltano innovazione e progresso; destinazioni d’uso più consone al suo ruolo di città nanziaria globale e polo d’arte mondiale. La città si riscatta da un declino che l’aveva segnata dalla ne degli anni lontani
1 - La rigenerazione urbana nell’area di King’s Cross. Fonte: King’s Cross Central Limited Partnership (https:// www.kingscross.co.uk/).
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2 - Il nuovo skyline di Londra (foto di Michelangelo Savino).
della swinging London e appare nuovamente cosmopolita, multiculturale e multietnica ed integrata, dalle forme attrattive e invitanti, recuperando un ruolo che sembrava perduto nella competizione con le città più attrattive di Europa (Parigi, ma soprattutto Barcellona e Berlino, catalizzatrici dei ussi più consistenti di popolazione giovane). Le Olimpiadi del 2012 sanciscono il successo della città.
Un retro della medaglia? La crisi nanziaria che investe il mondo occidentale non sembra scal rla. Il grande cantiere in cui Londra si è trasformata non si ferma. Nel corso degli ultimi quindici anni, la rigenerazione della città avanza rapidamente dall’estremo est dei Docklands verso la River Lea Valley (radicalmente trasformata dall’operazione olimpica) coinvolgendo i quartieri ex operai di Stepney e Tower Hamlets; investe la City e trova in King’s Cross (una delle aree ferroviarie più estese nel cuore del complesso sistema metropolitano) uno dei punti nevralgici del cambiamento, anche nel tessuto della città apparentemente più resistente alle trasformazioni. Nel giro di pochi anni, Londra è divenuto il luogo migliore per gli investimenti del capitale nanziario mondiale nel settore immobiliare, non solo per le tante opportunità di investimento ma anche per gli altissimi rendimenti che quel mercato garantisce ai fondi investiti. È un processo di demolizioni e sostituzioni che procede interessando soprattutto la riva sud del Tamigi, che dai magazzini portuali di Bermondsey, sfruttando l’abbandono ma anche l’eccezionale localizzazione, interessa Southwark, Waterloo, riordinando la struttura urbana e rimodellandone le forme. L’attivazione dell’Overground (il sistema ferroviario esistente ad anello intorno al centro di Londra ma integrato nel sistema di trasporto pubblico su ferro sopra e sotto terra) come l’avvio dello scavo della Crossrail (il passante ferroviario che da ovest ad est ristruttura completamente il sistema del trasporto pubblico) creano poi nuove prospettive di sviluppo per la CAZ (Central Activities Zone, il core del sistema metropolitano)1 e mettono in gioco nuove aree di trasformazione, in un quadro di continuo ed incessante cambiamento, che contribuisce all’immagine di dinamicità che la città offre ai suoi abitanti e ai visitatori. Ma non mancano le contraddizioni. Nonostante i grandi progetti di rigenerazione, a Londra permane un’emergenza abitativa incredibile al punto da apparire irrimediabilmente insolubile con una popolazione a basso ma anche a medio reddito - costretta da un mercato immobiliare, dai prezzi folli e guidato dagli investimenti stranieri - a cercare casa nelle corone sempre più distanti dal CAZ (che continua a concentrare il maggior numero di posti di lavoro secondo una distribuzione assolutamente squilibrata). Molti autori continuano a sottolineare come ad un intenso processo di intervento sulla struttura sica della città, siano peggiorati il costo della vita, le disuguaglianze sociali (l’index 58
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3 - Rendering della trasformazione in corso dell’area di Vauxhall–Nine Elms–Basttersea. Fonte: King’s Cross Central Limited Partnership (https://www.kingscross. co.uk/)
of deprivation raggiunge in alcune aree della città livelli preoccupanti ed inaspettati in un quadro – apparente – di benessere generalizzato) che a loro volta acuiscono le forme di segregazione razziale, la qualità della vita complessiva. La ricca dotazione di nuovi attrezzature pubbliche si scontra con la razionalizzazione della spesa pubblica e quindi con la riduzione nell’erogazione dei servizi in una progressiva assenza del settore pubblico. In breve, Londra presenta un quadro pieno di luci e di ombre che emerge ancor di più analizzando alcuni progetti nel dettaglio. Anzi sono proprio alcuni dei grandi progetti in corso che mettono in evidenza i contrasti emersi con vigore a King’s Cross o piuttosto nella rigenerazione di Vauxhall-Nine Elms-Battersea (di seguito VNEB). Del secondo (l’ambito più esteso di trasformazione che sia mai stato previsto a Londra, anch’esso a sud del Tamigi e prossimo al centro della città), avremo modo di parlare nella parte successiva di questo contributo, mentre non c’è modo di descrivere diffusamente il primo. Eppure King’s Cross è stato per molto tempo non solo l’area di rigenerazione di maggiore estensione del centro città (27 ettari) ma anche oggetto di discussione politica e con itto tra i più accesi. Nessun dubbio circa la necessità di prevedere una trasformazione radicale di un’area che era stata progressivamente dismessa dalle British Railways e che era diventata per antonomasia un’area di degrado, prostituzione e criminalità. Nessun dubbio che il promotore fosse un developer privato (la società Argent LLP) che ha raccolto investimenti privati di ogni forma (compreso fondi pensione australiani, solo per citarne alcuni) per l’operazione e che perseguisse obiettivi di redditività degli investimenti fatti. Le polemiche si sono sollevate circa le destinazioni d’uso previste (con una prevalenza di spazi destinati a terziario-direzionale considerati eccessivi, nonostante l’area abbia un’accessibilità altissima, visto anche la presenza della stazione di St. Pancras, terminal dell’Eurolink); prevalenza di residenza di lusso destinate al libero mercato e irrilevanza delle quote di affordable housing (l’edilizia pubblica è praticamente assente); spazi pubblici esigui rispetto alla dimensione dell’area, ed in molti casi destinati a dare maggiore valore agli immobili piuttosto che creare aree di pubblica fruizione. Nonostante questo, la qualità edilizia di molti edi ci, il recupero di costruzioni storiche ed il loro riuso (il Granary Building è divenuto sede della St. Martin College of Arts), l’accesso al Regent’s Canal con uno spazio pubblico di alto valore, la creazione di una rete di nuovi percorsi ciclo-pedonali (collegando l’area con Camden Town e Regent’s Park) e quindi di inaspettati nuovi luoghi urbani dal fascino indiscutibile, obbligano a sospendere il giudizio complessivo sull’operazione. 59
I TRE FUTURI DI VENEZIA
Un progetto strategico per il rilancio delle grandi aree urbane
4 - Vista dall’altro del progetto di recupero e rigenerazione dell’area di Battersea. Fonte: Battersea Power Station Development Company Limited (https://www.batterseapowerstation.co.uk).
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La rigenerazione di VNEB trova le sue ragioni nella strategia contenuta nella spatial development strategy (SDS), diventata poi il London Plan del 2011, aggiornato poi nel 2016, sotto l’egida del Mayor of London – affiancato dalla Greater London Authority (GLA) –, dei 32 boroughs e della Corporation of the City of London. Il piano prevede innanzitutto la distinzione del sistema metropolitano in tre aree: la Outer London, la zona più esterna e in proporzione più vasta, che contiene il 60% dei londinesi e il 40% dei posti di lavoro, la Inner London, più vicina al cuore della città, che comprende le zone più svantaggiate ma con le maggiori potenzialità per future rigenerazioni, ed in ne la Central Activities Zone (CAZ). In questo quadro (per cui il piano persegue, come è ovvio, sostenibilità integrazione sociale, miglioramento delle condizioni di vita, massima accessibilità), però, assumono rilevanza prevalentemente le aree interessate da processi di trasformazione radicale: le Opportunity Areas (OAs), ovvero le aree industriali dismesse che godono di forti potenzialità per eventuali future trasformazioni, per la loro collocazione, per l’elevata infrastrutturazione (soprattutto attraverso la rete del trasporto pubblico), alta convertibilità, con generiche indicazioni di destinazione d’uso, con la possibilità di accogliere almeno 5.000 posti di lavoro e 2.500 nuove abitazioni, associate a buoni servizi ed infrastrutture per potenziarne l’accessibilità. A queste OAs, in totale 38, si aggiungono le Intensi cation Areas, simili alle precedenti, ma con minori potenzialità, solo 7 nel complesso sistema metropolitano. Per ciascuna di queste zone ogni borough ha redatto uno speci co documento, chiamato Planning Framework, dove vengono descritte le potenzialità speci che e le possibili azioni strategiche da perseguire. Su queste aree è importante stimolare l’interesse di operatori in grado di innescare il processo di rigenerazione, non di rado i piani prevedono generose cubature e appetibili destinazioni d’uso, mitigate poi dalla presenza di aree verdi, servizi e ampi spazi pubblici: indicazioni comunque generiche, non proprio vincolanti sia nella redazione del progetto come nel processo di realizzazione, soggetti ad innumerevoli varianti in corso d’opera (legate anche ad andamenti del mercato immobiliare che può suggerire strategiche modi che per rispondere meglio alla domanda). Agli operatori è demandata la redazione del masterplan e la de nizione di tutti gli aspetti progettuali che confermino gli obiettivi del Framework. VNEB rappresenta una delle più vaste ed interessanti OAs. A solo mezzo miglio dal Parlamento, quest’area si estende per 227 ettari con un fronte lungo il Tamigi di circa 4 km, con un carattere prevalentemente industriale, ormai in disuso, immersa, però, in un contesto assai differenziato: se a nord, oltre il ume, si trovano alcuni dei quartieri più lussuosi della città (Pimlico, Chelsea, Kensington), a sud, oltre le strutture del New Covent Garden Market – il mercato all’ingrosso più grande della metropoli – si estendono alcuni dei quartieri della periferia più povera (Clapham, Brixton), mentre le infrastrutture ferroviarie in rilevato costituiscono barriere ed elementi di ulteriore degrado. Domina l’area la Battersea Power Station2, la famosa centrale elettrica chiusa dal 1983, progettata all’architetto Giles Gilbert Scott, divenuta un’icona mondialmente conosciuta. Oltre la centrale ed i railway arches – il rilevato ferroviario – verso ovest si trova uno dei Metropolitan Park di Londra, Battersea Park. È un’area sostanzialmente priva di coesione e poco leggibile all’interno del tessuto
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO urbano, la cui marginalità è indicata anche dalla difficile accessibilità: una sola stazione della metropolitana, una sola stazione ferroviaria, mentre il trasporto pubblico si limita ad alcune linee di lentissimi autobus verso il centro. Per l’area il Planning Framework propone un approccio strategico semplice ma efficace: creare due nuovi hubs urbani, uno a Vauxhall Cross e l’altro a Battersea Power Station (potenziati anche con il miglioramento dell’accessibilità attraverso due nuove stazioni metro) con un processo di demolizione e sostituzione dell’esistente nel primo e il recupero della storica centrale nel secondo, che prevede la creazione di destinazioni ad alta densità e ad uso misto, il cosiddetto high density mixed use development scenario. Tra i due hubs, la rigenerazione prevede lungo gli assi di Albert Embankment, Nine Elms Lane e Wandsworth Road, la creazione di vaste aree residenziali con limiti di densità abitativa, tra i quali si allunga il Linear Park che rappresenta l’elemento forte di connessione di un’area complessa e disarticolata, così come il River path permette la riconquista ciclo-pedonale dell’affaccio sul ume ed un ulteriore connessione tra le estremità dell’ambito di intervento. Qualche problema insorge con le proposte per migliorare l’accessibilità all’area. In ogni progetto di rigenerazione di Londra, l’accesso al trasporto pubblico – prevalentemente la metropolitana o altre linee su ferro – è risultato strategico e determinante. Il ri uto del Transport for London (TfL) di realizzare qualsiasi estensione della rete nella zona avrebbe pregiudicato il progetto se non si fosse raggiunto l’accordo con i developers che hanno deciso di farsi completamente carico della costruzione della Northern Line Extension che connette l’area al resto della rete sotterranea: un insolito precedente di “collaborazione” tra enti privati e pubblici nello sviluppo del sistema dei trasporti londinese. Il progetto di riuso e valorizzazione immobiliare dell’OAs stimola l’interesse di ben 17 investitori internazionali (cinesi, americani soprattutto) per un valore complessivo di 15 miliardi di sterline, e solo il lotto e il progetto di Battersea Power Station registra l’investimento di più di 5.5 miliardi di sterline, di origine prevalentemente malese, che hanno permesso al primo ministro David Cameron il 4 luglio 2013 di dichiarare ufficialmente l’inizio dei lavori.
5 - Schema del London Plan con le Opportunity Areas. Fonte: London Plan 2016 (https://www.london.gov. uk/what-we-do/planning/ london-plan/current-london-plan).
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Luci ed ombre di un progetto di rigenerazione contemporaneo L’ampiezza e la complessità del progetto costringono a prestare attenzione, in questa sede, solo ad una sua parte, quella più emblematica che comprende la vecchia centrale elettrica che - come è facile immaginare - è presto diventata il simbolo della rigenerazione di tutta l’area. Il Masterplan dell’intero ambito di Battersea Power Station (circa 170.000 mq, dei quali 25.000 occupati dalla centrale) è stato realizzato da Rafael Viňoly, affiancato poi da altri grandi nomi dell’architettura internazionale: Ian Simpson Architects per il Circus West (concluso nel 2016 come previsto); Norman Foster e Frank Gehry, invece, per gli edi ci che chiudono l’area a sud della fabbrica. Nello speci co Foster+Partners ha progettato un lungo edi cio curvilineo alto 76 piani chiamato Battersea Roof Gardens (per il “tetto giardino” più esteso di tutta la città), mentre Gehry&Partners hanno disegnato il Prospect Place, cinque blocchi dalle forme stravaganti, che visti dall’alto richiamano elementi oreali e in alzato forme dinamiche che evocano le vele di una barca. Tra i due progetti si sviluppa l’Electric Boulevard, che si conclude nella Malaysia Square, centro del quartiere ai piedi della Battersea Power Station, che dovrebbe essere aperta al pubblico nel 2019. Il progetto dovrebbe essere completato nel 2025 e le stazioni della Northern Line inaugurate nel 2020. Delle volumetrie proposte, il progetto prevede il 57% del development con funzione residenziale, mentre il restante 43% viene destinato a uffici (1.6 milioni di mc), a servizi commerciali e attrezzature ristorative (1.2 milioni di mc), in ne, hotel e spazi per la comunità. Alla conclusione della prima fase del progetto, il mercato ha mostrato un signi cativo apprezzamento: dal momento della loro prima messa in vendita, gli appartamenti realizzati in soli venti mesi hanno raccolto circa 1.7 miliardi di sterline, creando notevoli aspettative negli investitori che attendono i medesimi risultati per il resto delle realizzazioni in un sistema che non sembra assolutamente risentire della crisi globale. A densità, destinazioni d’uso, residenze di lusso, forme architettoniche, non sono state risparmiate critiche e contestazioni, nonostante la realizzazione del progetto abbia cercato di prestare particolare attenzione alle funzioni di uso comune e alla qualità dello spazio pubblico, tentando anche una sua ottimale integrazione con le diverse attività presenti, non come semplice somma delle parti ma come un organismo coeso creato apposta per la comunità. L’approccio di placemaking utilizzato3 non è stato casuale, anche nel tentativo di coinvolgere – forse più strumentalmente – le comunità residenti nelle aree prossime al progetto e prevenirne la mobilitazione. JTP Cities, gruppo di placemakers e community planners, è stato incaricato di gestire ed organizzare una serie di workshops, invitando tutti i possibili attori sociali coinvolti nel processo di rigenerazione dell’area, col nome di Thinking Battersea: in totale otto incontri, ognuno incentrato su uno speci co aspetto del progetto: evolving, playing, working, living, learning, connecting, shopping e branding. Tutte le ricerche ed i materiali prodotti sono stati raccolti nella Project Bible, una risorsa online accessibile ai membri del team, punto di partenza per la redazione del Placebook di Battersea Power Station e del Battersea Manifesto, che avrebbero dovuto costituire le Placemaking Strategies, linee guida del progetto. Osservando quanto no ad oggi è stato pubblicizzato e realizzato del progetto, emergono alcune perplessità sugli esiti di questo così singolare processo di rigenerazione a Londra. Innanzitutto, dimensioni e scala, pur in una Londra che ha perso il suo aspetto convenzionale, appaiono sproporzionate, sia negli accattivanti render progettuali (più promozionali che descrittivi) che nelle prospettive che i volumi iniziano a delineare. Lo spazio aperto sembra svilito dai massicci edi ci, nonostante le curvilinee forme che Foster&Partners hanno voluto disegnare: queste non sembrano riuscire a creare alcun senso dei luoghi, come d’altro canto sembrano voler soffocare la linea asciutta della Battersea Power Station, che risulta più nascosta che valorizzata dalle sagome dei nuovi edi ci, poco visibile dal ponte di Westminster come dalle aree limitrofe sino a pochi anni fa dominate dalle quattro ciminiere. Ma la valorizzazione della stessa centrale risulta alquanto contraddittoria. Il recupero dell’edi cio avrebbe dovuto essere il valore aggiunto del progetto ed un aspetto distintivo del processo di trasformazione dell’area. Più che di recupero si è trattato di ricostruzione: infatti, le quattro ciminiere, elementi caratterizzanti dell’edi cio, sono state interamente ricostruite, nonostante alcune perizie tecniche avessero confermato la loro 62
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO integrità strutturale. E la ristrutturazione degli interni ha praticamente salvaguardato solo la pelle dell’edi cio, ne ha ridotto gli spazi di uso comune e la fruizione pubblica, premiando altri usi e depotenziando anche il suo valore iconogra co che pure sin dalle prime battute sembrava dover condizionare il progetto. La trasformazione di Battersea, seppure ancora in corso, mostra già alcune forti contraddizioni che aumentano le perplessità circa il processo di rigenerazione che va maturando a Londra in questi ultimi due decenni, come molti autori hanno rimarcato. Al di là del forte squilibrio nelle relazioni tra istituzioni pubbliche e rete di attori privati (developers, investitori, progettisti) per non parlare delle comunità locali (i cui rappresentanti gradualmente hanno abbandonato anche i tavoli di concertazione per l’impossibilità di incidere sullo sviluppo dell’area), quello che emerge è un chiaro con itto tra la sfera pubblica e l’investimento privato che accompagna il progetto in tutte le sue fasi, no a sfociare nella più completa privatizzazione, con una netta contrapposizione tra il potere della autorità locali e gli investitori internazionali. D’altro canto, non è possibile cogliere (almeno in questa fase intermedia di sviluppo del progetto) gli esiti del placemaking nel rispetto degli interessi della comunità, mentre appaiono evidenti i frutti delle strategie di marketing nell’inseguimento degli interessi del mercato, favoriti anche dai prezzi degli appartamenti di lusso, che toccano cifre stellari, tipiche della capitale inglese degli ultimi decenni. Questo progetto costituisce un esempio del profondo mutamento che hanno subito i processi di rigenerazione urbana negli ultimi anni, fortemente sensibili ai meccanismi di mercato e a quella svolta neoliberista che molti osservatori riconoscono nelle politiche urbane europee degli ultimi anni. A Londra, sostenuti però da una sorprendente resistenza del mercato immobiliare alla crisi nanziaria mondiale, da una piani cazione pubblica poco vigorosa e volitiva, da una contestazione sociale sempre meno energica. Tutto questo è ineluttabile? © Riproduzione riservata
Note L’area che concentra 1,7 milioni di posti di lavoro, ovvero un terzo del totale di tutta Londra, il 10% degli output dell’intero Regno Unito ma solo 230.000 abitanti residenti. 2 La centrale elettrica è stata costruita in due fasi: Battersea A nel 1935 e Battersea B vent’anni dopo, dall’architetto Giles Gilbert Scott e, per cinquant’anni, ha prodotto energia elettrica per tutta la città. Dopo la sua chiusura nel 1983 le ipotesi sul suo futuro sono state numerose, compresa la demolizione. Per il Borough di Wandsworth sarebbe stato, infatti più semplice demolire la fabbrica e vendere i 15 acri di terreno, ma nel 1980 il Secretary of State for the Environment, Michael Heseltine aveva assegnato all’edi cio il Grade II status nella Statutory List of Buildings of Special Architectural or Historic Interest. Successivamente, copertine di album discogra ci e set cinematogra ci la trasformarono in una icona internazionale, generando anche forme di mobilitazione collettiva per il suo recupero e valorizzazione, che portarono al suo inserimento nella National Heritage List of England. 3 I progettisti si avvalgono per la progettazione degli spazi comuni del metodo teorizzato nel 1975 dall’associazione newyorkese Project for Public Spaces (PPS) sulla scia delle teorie di J. Jacobs e W.H. Whyte, che tenta l’individuazione ed esaltazione del sense of place, ovvero l’essenza del luogo (analizzandone e valorizzandone gli aspetti di aggregazione sociale, le diverse attività economiche che lo vivacizzano, l’accessibilità e fruibilità, la rappresentazione ed il ruolo che lo spazio ha nell’immaginario collettivo). 1
Nota bibliogra ca La ricerca ha preso le mosse da una vastissima letteratura disciplinare che negli ultimi anni ha dedicato molto spazio sia alla descrizione che alla critica dei processi in atto nella capitale inglese e dei loro impatti. Non è possibile darne ragione se non citando solo alcuni testi in modo fugace: indubbiamente i documenti di carattere istituzionale e di piani cazione, facilmente reperibili online, come il London Masterplan, nella sua prima versione del 2011 e poi del 2016 (https://www.london.gov.uk/what-we-do/ planning/london-plan); la documentazione sulle OAs (https://www.london.gov.uk/what-we-do/planning/implementing-london-plan/opportunity-areas) e i vari documenti sul progetto di VNEB nei siti dei Borough (https://www.lambeth.gov.uk; http://www.wandsworth.gov.uk). Molte ri essioni sono supportate dalle descrizioni e dalle ri essioni di diversi autori come Loretta Lees, Mike Raco, Robert Imrie, Ben Campkin, Phil Allmendiger, Owen Hatherley, Anna Minton e molti altri. Non mancano attenti osservatori italiani, come Paola Giuseppina Briata e Francesco Vescovi. Alla loro vasta produzione rimandiamo per i necessari approfondimenti.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Lyon Con uence, the urban redevelopment of the former industrial area of Lyon, at the con uence of the Rhône and Saône rivers by Paolo Alberti and Gabriele Scicolone
The “Lyon Con uence” project is part of the extensive urban regeneration program launched in 1998 by the municipality of Lyon (Grand Lyon), involving the 150-hectare arti cial peninsula created in the 18th century to extend the city at the con uence between the Rhône and Saône rivers, later developed as an industrial zone and currently in a state of abandon and decay. On behalf of the public company “SPL Lyon Con uence”, with the collaboration of town planners and landscapers including “Atelier Ruelle”, “Agnes Deldon” and “L’Acte Lumière”, Artelia designed and coordinated the realization of the spaces and services, focusing the goals of achieving the “centrality” of a typical European metropolis on four key concepts: removing major transport infrastructures from the city centre; developing public areas and services to create a modern central district; reconverting an industrial area to a mixed development (residential, offices, and proximity services); promoting the natural and historic heritage of the area. The project was organized in two phases (ZAC I and ZAC II) on 76 hectares, with a paved surface area of 820,000 sqm, creating accommodations for 8,000 people and over 15,000 workstations; integral to the project is the realization of an inner basin, to enhance the architectural value of the area and the use of the city’s rivers for sports and activities. Artelia worked closely with the WWF during the design process to de ne a plan for sustainability structured around ten principles: zero emissions; zero waste; sustainable mobility; high performance local and sustainable materials; local eco-sustainable organic foods; sustainable water management; preservation of natural habitats and biodiversity; promoting local culture and the sense of belonging; social equity and local economic development that supports public building construction; quality of life, health and well-being of users. The best way to understand this iconic project in Lyon is to walk through and discover this new urban reality.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Lyon Con uence, riquali cazione urbana dell’ex area industriale di Lione alla con uenza tra il Rodano e la Saona di Paolo Alberti e Gabriele Scicolone
Il progetto Lyon Con uence è un ampio programma di riquali cazione urbana lanciato nel 1998 dalla città di Lione (Grand Lyon) e che rappresenta a tutt’oggi un esempio virtuoso di come si possa intervenire nel tessuto cittadino per innestare progettualità innovative che permettano il recupero di quelle innumerevoli porzioni degradate che caratterizzano la gran parte delle città europee dell’era post-industriale. Progetto, quello della Lyon Con uence che è ancor’oggi un’avanguardia in Europa. Cercheremo, nel seguito della trattazione, di delineare le caratteristiche principali di questo entusiasmante esempio di progetto di riquali cazione urbana e di trarne delle conclusioni a vantaggio di un dibattito, quello sulla rigenerazione dei tessuti delle nostre città che sono stati via via abbandonati dalle industrie, che è a tutt’oggi uno degli aspetti di maggior interesse per le comunità cittadine di tutta Europa.
L’area e i numeri del progetto L’area interessata dal progetto di recupero è la penisola arti ciale di circa 150 ettari creata alla metà del XVIII secolo con lo scopo di arginare la con uenza tra i due umi lionesi, il Rodano e la Saona e al contempo di estendere centralmente la città realizzando una vasta super cie che fosse al sicuro dalle frequenti inondazioni che avevano afflitto il tessuto urbano nei secoli passati. D’altro canto l’area era da sempre stata oggetto di notevole interesse per via della prossimità al centro storico dell’insediamento urbano principale che, già al momento della realizzazione della penisola, contava più di un milione di abitanti. Fu inizialmente sede per lo sviluppo delle industrie manifatturiere delle nuove tecnologie della prima era industriale e in seguito, nel XIX secolo, adibita a grande centro logistico e di smistamento attraverso la realizzazione della stazione di Perrache che, con i binari in direzione longitudinale est-ovest, divide nettamente in due la penisola stessa, con il lato a nord che ha visto espandersi un’area residenziale e strutturarsi con il centro della città “moderna”, e il lato a sud dove hanno trovato spazio le attività portuali, il centro di smistamento della posta, i magazzini, il mercato all’ingrosso, il circo e l’area penitenziaria. Le attività legate all’industria manifatturiera hanno delineato lo sviluppo edilizio dell’area per poi accompagnarne il tramonto con l’avvento della terziarizzazione del tessuto economico francese rendendo l’area stessa “residuale” e fortemente decontestualizzata rispetto ad un tessuto cittadino circostante che vedeva nei decenni la continua evoluzione ed il miglioramento, ma allo stesso tempo andando a con gurare un potenziale territoriale unico di sviluppo per una città alla continua ricerca di spazi di espansione del proprio centro. Il progetto complessivo di ricon gurazione di questa area è stato organizzato in più fasi distribuite in un ambito temporale di oltre venticinque anni, necessari per coprire 76 ettari complessivi, con 820.000 mq di super cie utile, con la creazione di alloggi per circa 8.000 persone ed oltre 15.000 posti di lavoro, e abbinando lo stesso alla riqualicazione dei limitro quartieri di Perrache e Sainte Blandine con i loro 7.000 abitanti e 7.000 posti di lavoro, oltre alla ricostruzione della riva sinistra del Saone per un’estensione lineare di circa 1,5 km. Il periodo di sviluppo può apparire eccessivamente esteso temporalmente, ma è in realtà il frutto di un’accorta piani cazione, volutamente espansa nel tempo e volta anche a massimizzare i proventi derivanti dalla vendita dei
1 - Lyon Con uence, masterplan del progetto.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA fondi e a non stravolgere gli equilibri di mercato nei valori degli immobili, inevitabile conseguenza di un’eventuale immissione impulsiva di enormi quantità di metri quadri disponibili, non accompagnati alla proporzionale crescita della domanda.
Le fasi principali e i principi ispiratori del progetto Nel 1999 Grand Lyon costituisce insieme a soci privati la SEM Lyon Con uence (successivamente divenuta interamente pubblica) per attuare il progetto di riquali cazione in tutte le sue fasi: dall’acquisizione dei terreni, alla riquali cazione, al cambio di destinazione d’uso sino alla loro concessione o rivendita ad operatori privati. Il progetto rientra nel “quadro di investimenti per il futuro” promosso da Rhône-Alpes Regional Council e dalla French Environment and Energy Management Agency, destinato a realizzare in tutto il territorio francese edi ci ed agglomerati ad energia zero, valorizzando al contempo soluzioni innovative e riquali cazioni del tessuto edilizio preesistente. L’ambizione di Grand Lyon è stata inoltre quella di confermare il ruolo della metropoli tra le principali città europee, dotandola di un moderno downtown che integrasse gli obiettivi generali legati ad una espansione “centripeta” con tutti gli elementi caratterizzanti una moderna metropoli europea. Artelia, tra le principali società di ingegneria e project management di Francia, su incarico della società pubblica di scopo SPL Lyon Con uence, avvalendosi della collaborazione di urbanisti e paesaggisti tra cui Atelier Ruelle, Agnes Deldon e Acte Lumièr, ha progettato e coordinato la realizzazione di molti degli spazi e dei servizi pubblici e delle opere di urbanizzazione, concentrandosi sugli obiettivi di espansione basati su quattro concetti chiave: - decongestionare il centro di Lione dalle grandi infrastrutture di trasporto pubblico che la attraversavano, rendendone caotico il traffico; - sviluppare le aree ricreative ed i servizi pubblici per dare vita a un moderno quartiere ai margini del centro città; - riconvertire un’area industriale in disuso ad uno sviluppo misto (residenziale, uffici, e servizi di prossimità); - valorizzare il patrimonio naturale e storico della zona. Questi i quattro assi portanti che hanno caratterizzato la loso a del progetto. SPL Lyon Con uence ha saputo mettere in piedi una “squadra” di consulenti pluridisciplinare, valorizzando il lavoro di gruppo degli stessi (architetti, urbanisti, paesaggisti, ingegneri etc.) permettendo loro di mettere a frutto le loro ricerche e know how su vari temi di eco-sostenibilità che negli anni 2000 non si basavano ancora su un quadro normativo organico o univocamente e chiaramente de nito come l’odierno. Fu richiesto espressamente e tassativamente di rispettare degli obiettivi che sono diventati, con il passare del tempo, sempre più precisi ed esigenti per quanto riguardava il monitoraggio dei consumi, la boni ca dei suoli e di tutto ciò che contribuisce a realizzare una città pensata per il futuro; tutte queste indicazioni progettuali sono state tradotte in una lungimirante strategia e formalizzata nel Plan Climat du Grand Lyon. Da citare i criteri ed i ferrei standard energetici imposti per le edi cazioni: - consumo inferiore a 60 kWh per m2 all’anno per il riscaldamento, - 40 kWh per m2 per l’acqua calda sanitaria, - 25 kWh per m2 per l’illuminazione, - 80% dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. 66
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Lo stesso WWF, dopo aver sottoposto a valutazione per circa 18 mesi il progetto strategico di sviluppo del quartiere, ha de nito un programma chiamato quartier durable WWF; che ha rappresentato un progetto pilota nell’agglomerazione dinamica di iniziative ambientali e sociali. La stretta collaborazione con il WWF nelle fasi d’ideazione del progetto, ha portato alla de nizione nel 2009 del piano per sviluppare il primo quartiere francese ad impronta ecologica ridotta con un piano di sostenibilità strutturato attorno a 10 principi: 1 - Emissioni zero: ottimizzare l’efficienza energetica e l’utilizzo di energie rinnovabili per ridurre le emissioni di gas serra con l’obiettivo di costruire edi ci ed attrezzature a emissioni zero entro il 2015. 2 - Ri uti zero: obiettivo volto ad ottenere almeno il 70% di ri uti compostati o riciclati. 3 - Mobilità sostenibile: la riduzione dei veicoli che utilizzano combustibili fossili attraverso mezzi di trasporto collettivi, con fermate poste al massimo ad una distanza di 400 m l’una dall’altra e passaggio dei mezzi ogni 10-15 minuti. 4 - Materiali locali e sostenibili (oggi si direbbe: “a km zero”), ad alte prestazioni e con il minimo impatto dalla loro progettazione alla consegna, attraverso l’utilizzo di materiali riciclati (40% minimo) e riciclabili, prodotti localmente (minimo 50%). 5 - Generi alimentari locali e sostenibili: promuovere la fornitura locale di prodotti salutari. Obiettivo per il 2020: il 30% dei prodotti alimentari venduti sul sito saranno prodotti entro un raggio di 100 km, e il 20% saranno di origine biologica. 6 - Gestione “sostenibile” delle acque: promuovere la conservazione della quantità e della qualità dell’acqua. 7 - Habitat naturali e biodiversità: mantenere, creare e migliorare la biodiversità e gli habitat naturali dell’area. 8 - Cultura e patrimonio locale: lo sviluppo di un senso di appartenenza attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale e lo sviluppo culturale locale. 9 - Equità e sviluppo economico: la promozione dell’equità sociale e dello sviluppo economico locale con iniziative come ad esempio quella di destinare almeno il 25% degli alloggi ad edilizia residenziale pubblica. 10 - Qualità della vita: migliorare la salute e il benessere degli abitanti e degli utenti del quartiere ricorrendo costantemente alla concertazione delle esigenze tra residenti, lavoratori ed operatori di servizi pubblici e privati. Per quanto attiene alla de nizione della piani cazione territoriale sono stati redatti e realizzati in tempi successivi e per aree distinte due ZAC (Zones d’Aménagement Concerté), strumenti urbanistici aventi lo scopo di facilitare il dialogo tra le autorità pubbli-
2 - Veduta della città di Lione.
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3 - Lyon Con uence, bacino, viadotto e le nuove costruzioni. 4 - Cantiere del Musée des Con uence.
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che e gli sviluppatori privati e di rendere possibile un decentramento dei controlli dello stato sulle operazioni di piani cazione urbana destinato allo sviluppo ed alla gestione di strutture pubbliche di interesse generale volte anche ad attrarre ed incentivare investimenti privati, incrementando notevolmente il valore commerciale delle aree. ZAC 1 ha interessato l’area più a nord, lungo le sponde del ume Saona: lanciato nel 2003, copre quasi il 40% dell’intero progetto con un investimento pubblico complessivo attorno ai 1,2 mld di euro per 41 ettari di super cie, (400mila mq utili edi cabili e 22,5 ettari di spazi pubblici) a formare uno dei quartieri ecosostenibili più eterogenei d’Europa, integrando un’offerta ad uso residenziale con aree per uffici ed attività terziarie variegate, il tutto accompagnato da spazi pubblici ampi e che favoriscono la convivialità; la creazione di un polo del commercio e di svago nonché di una piazza nautica e di un’area diportistica uviale; la riabilitazione a “vocazione culturale” degli edi ci storici del Porto Rambaud aprono la via verso il nuovo museo d’arte contemporanea di “Con uence” ma anche sulla nuova sede della Regione Rhône Alpes. Questi ultimi sono elementi decisivi che hanno sicuramente contribuito a generare l’attrattività e la notorietà del progetto su una scala territoriale ampia e dandogli un risalto sia nazionale che internazionale, ma anche e soprattutto tra la popolazione locale. L’arrivo della tramvia e dei primi programmi di sviluppo del residenziale, sviluppati con l’ausilio di alcune delle grandi rme dell’archiettura, ha dato priorità alle location più prestigiose che costeggiano sia il parco sia il ume Saona mettendo in ampio risalto l’operazione di integrazione urbana ed accrescendo notevolmente l’appeal dell’area, oltre a valorizzarne la destinazione residenziale nella percezione collettiva. ZAC 2 nasce invece come conseguenza dell’abbandono delle attività dei mercati generali della città, che permette di liberare l’ultima parte a sud della penisola per una super cie pari a circa 35 ettari, precedentemente occupata da attività di tipo logistico. La s da principale è stata quella di creare continuità con il centro storico della città e al contempo creare un’apertura verso la parte sud della città, prevalentemente rilegando e ricucendo la connessione con il quartiere di Geroland che si trova dall’altra parte del R. Questa connessione si estende anche ai comuni vicini di la Mulatiere, D’Oullins, Saint Foilles Lyon, loro stessi territori con forte potenziale di sviluppo. La centralità sostenibile è il valore che caratterizza il progetto volto a sviluppare questa nuova fase di riquali cazione come derivazione di una lungimirante volontà politica di associare qualità urbana e “ipercentralità”, mix di funzioni e dell’habitat; qualità degli spazi pubblici usata per creare una continuità della città storica ed esemplarità quasi didattica, che potesse essere da modello per tutto il territorio francese. La piani cazione della seconda fase di progetto, ZAC 2, ha dato il via alla costruzione delle innumerevoli parti che comporranno l’area sud de La Con uence, corrispondente ad una super cie totale di 35 ettari e destinata a produrre, grazie ai numerosi
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO impianti alimentati da fonti rinnovabili che vi insistono, 3 megawatt di potenza installata con l’obiettivo di un bilancio energetico dell’area che fosse positivo a regime.
ZAC modello virtuoso di condivisione nell’elaborazione del progetto Lo ZAC, come visto precedentemente, si fonda su di un metodo di lavoro nell’elaborazione del progetto che impegna parallelamente gruppi di lavoro con specializzazioni diverse mantenendo però la ri essione sull’insieme delle problematiche da trattare e condividendo progressivamente i risultati anche intermedi, affinché la visione olistica arricchisca le idee di ogni gruppo di lavoro. Allo stesso tempo i destinatari degli spazi, cittadinanza ed investitori, sono tenuti in grande considerazione attraverso dibattiti pubblici e sondaggi di opinioni. Un ampio processo di condivisione diffusa permette di sviscerare il meglio delle idee di tutti e di condividere gli scopi del progetto a priori, evitando le faticose “sorprese” che derivano da una cattiva condivisione con gli stakeholder dei processi di progettazione urbana. La ri essione programmatica e morfologica è stata declinata con cinque poli di competenza attribuite ad altrettanti gruppi di consulenti, tra cui Artelia. Pole 1 - Il primo polo è quello dedicato alla programmazione ed alla concertazione, che ha permesso di costruire il lo logico del progetto interrogando i cittadini e gli utenti ma anche gli attori pubblici della città. La programmazione ha permesso di far scaturire gli obiettivi ed i valori fondanti del progetto urbano; ha permesso di de nire le infrastrutture pubbliche principali nonché il programma globale di costruzione. La concertazione ha permesso di instaurare degli scambi con il “grande pubblico” durante le diverse fasi della progettazione permettendo di prendere in considerazione in tempo reale le aspettative ed i bisogni degli utenti ma anche di spiegare al grande pubblico e a tutti gli “attori” esterni al progetto i vincoli ed i limiti, e quindi le decisioni che si portavano dietro. La missione speci ca di questo polo prosegue anche in fase di cantiere, in particolare attraverso un accompagnamento dei progettisti degli spazi pubblici e la loro destinazione nale, sorvegliando sulla attualità delle scelte e sulla rispondenza del realizzato con i criteri fondanti e condivisi.
5 - Sede di Euronews. 6 - Pavillon des Salines.
Pole 2 - Urbanistica e paesaggio. Il lavoro dell’urbanista ha dato una veste formale e spaziale al programma, fornendo una diagnosi delle esigenze disattese dalla città esistente per riversarle in quella in costruzione, anche in tema di necessità sociali oltre a tutti gli aspetti tecnici, proponendo non solo una organizzazione spazio-temporale, un’architettura globale dello spazio, ma anche una dimensione estetica e simbolica che donano un appeal tutto particolare al progetto nel suo insieme. 69
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7 - Lyon Con uence, fasi di realizzazione del progetto. 8 - Place Nautique.
Pole 3 - Spostamenti infrastrutture ed energia. In stretta correlazione con i servizi e le opere di urbanizzazione ha elaborato una serie di documenti di riferimento: - lo schema della mobilità del quartiere, - il piano regolatore generale delle infrastrutture e delle reti, - lo studio delle scelte energetiche. I diversi componenti del polo 3 hanno continuato a collaborare con i progettisti degli spazi pubblici in tutte le fasi del progetto per assicurare la presa in considerazione di questi principi fondanti del progetto. Pole 4 - Sviluppo sostenibile, ha assistito la SPLA nella de nizione dei criteri presso gli altri poli di progettazione, facendo integrare tutti i componenti ambientali di gestione dell’acqua, dell’energia, dell’acustica, dell’irraggiamento e l’ambientazione (sociale ed economica) del progetto. La missione prosegue in fase operativa per la veri ca dell’implementazione dei principi sanciti dallo ZAC, in uno spirito di collaborazione e produzione associata. Pole 5 - Boni ca. Interviene per accompagnare al SPLA sulle tematiche di decontaminazione e boni ca delle aree ed il suo coinvolgimento ha permesso di stabilire una diagnosi storica ed una diagnosi ambientale dal sito; di elaborare una valutazione quantitativa dei rischi sanitari e del piano di gestione delle terre e delle rocce da scavo; di monitorare la falda freatica e di assicurarsi della compatibilità del terreno con le utenze previste. La missione prosegue nella fase operativa per il de nizione degli spazi pubblici.
Gli studi complementari, al di là dei cinque poli inizialmente individuati, hanno coperto altri aspetti consulenziali di dettaglio, quali: - studio di fattibilità di Pont des Girondins, - studio marketing, - studio per la sicurezza degli spazi pubblici, - studio dei parcheggi.
Il waterfront Parte integrante del progetto è stata anche la realizzazione di un bacino interno, volto a valorizzare il pregio architettonico dell’area e la fruizione diportistica dei umi che 70
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO attraversano la città. La creazione del bacino fa parte della prima fase dello sviluppo urbano della zona, che tra l’altro include un’area per lo svago e la ricreazione sulle sponde del Saona. La multidisciplinarità delle aree tematiche coperte da questi obiettivi mostra l’ambizione di questo progetto e dei professionisti che vi hanno operato nel portare al servizio della comunità le proprie competenze e la propria motivazione, ma anche la sensibilità civica che si legge nella progettazione della viabilità, delle pavimentazioni, dell’acquedotto e delle fognature, del coordinamento delle reti elettrica, del gas, del calore, delle telecomunicazioni, dell’ illuminazione pubblica, del controllo degli accessi, della video sorveglianza, delle aree verdi, delle boni che e delle opere civili per la creazione delle vie di trasporto e del bacino navigabile.
Conclusioni Oggi il quartiere de La Con uence è considerato uno dei più efficienti e all’avanguardia di tutta la Francia, guadagnandosi il riconoscimento ufficiale da parte del WWF di “quartiere sostenibile” nell’ambito della campagna One Planet Living. Artelia continuerà a seguire il progetto sino alla sua conclusione, prevista al 2027, grazie ad un contratto quadro per la progettazione e il coordinamento della realizzazione di ulteriori opere di miglioramento degli spazi pubblici e prestando il servizio di Project Management per le opere di “interesse collettivo”. Si tratta di un progetto di ampissimo respiro che è anche un punto di orgoglio per una città, Lione, che si pone come eccellenza francese ed europea, per la vivacità del proprio tessuto connettivo, sia culturale che strutturale e tecnico. Un progetto ambizioso nella sua visione ventennale, portato avanti secondo i canoni della concretezza e dell’ottenimento del miglior risultato per la socialità e per la redditualità. Sicuramente uno stravolgimento in positivo di un’area che i decenni avevano regalato al degrado, come avviene in tantissime delle nostre città da quando la grande industrializzazione che ha caratterizzato il XIX prima ed il XX secolo dopo, ha lasciato le sponde dell’Europa Occidentale per “migrare ad est”, lasciando desolanti quartieri fantasma, invero spesso veri capolavori di architettura industriale, ma poco funzionali per l’accoglienza delle grandi masse che, dalla ne del XX secolo, ed ancor più nel nostro nuovo secolo, si riversano nelle nostre città. Il modo migliore per comprendere appieno questo progetto iconico della città di Lione e della Francia è sicuramente quello di scoprirlo percorrendo a piedi l’area costeggiata dalle rive del Saona e passeggiando all’interno di questa nuova realtà urbana. © Riproduzione riservata
Bibliogra a www.lyon-con uence.fr Cahier des Charges, Maîtrise d’oeuvre pour la réalisation Des espaces publics urbains de la ZAC Lyon Con uence 2ème phase. www.domusweb.it http://www.rinnovabili.it/smart-city/la-con uence-laltra-faccia-di-lione/
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Marghera, ideas for the future by Andreas Kipar
Urban regeneration, reduction of land-take, regional development: these topics are crucial today for politicians and urban developers. Cities cooperate and compete to attract new investments, inhabitants, users. To achieve these goals, they implement strategies to turn former industrial cities into centers for business and services, cultural and recreational hubs or even technological platforms. The Ruhr region and Essen, the European Green Capital 2017, are a clear example of this trend. Territorial cooperation, planning formats and international cooperation: these factors have transformed the industrial basin of Europe into a benchmark laboratory for sustainable urban development. In Italy Porto Marghera is emblematic: one of the most important natural and cultural heritage sites worldwide coexists with one of the Europe’s largest industrial brown elds. Considering how to regenerate this 2,000-ha urban sector, we developed an innovative approach with the VEGA Science and Technology Park of Venice to implement green infrastructures, for a radical change of perspective: “from grey to green”. The concept of our strategy is inspired by the structure of a tree, whose ancient roots delve into the historic city of Venice, while it develops its canopy over the productive mainland, a place for industry, innovation and science. The so-called Green Tree Strategy aims to bring fresh nourishment into brown elds and abandoned areas by promoting temporary functions and working with nature. Nature becomes the crucial resource to restore derelict landscapes and foster regional development in the direction of new cooperation research and nancing opportunities. Our landscape architecture offers a response to the challenges of today’s sharing society. It never loses sight of the people, who are at the heart of our story. So, nature becomes a tangible reality where there is room for everyone’s dreams.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Marghera, idee per il futuro di Andreas Kipar
Porto Marghera è uno dei territori in trasformazione più strategici e al contempo più critici del panorama nazionale. Tra le più grandi aree portuali-industriali europee, con i suoi quasi 1.500 ettari di aree produttive, chilometri di canali e infrastrutture, Porto Marghera è passata dai circa 35.000 occupati degli anni settanta del secolo scorso agli attuali 13.500 addetti, dei quali oltre il 50% è oggi occupato nei settori del terziario e della logistica. Questo cambiamento si è tradotto in una profonda trasformazione dal punto di vista della struttura sociale, del tessuto edilizio e delle dinamiche produttive, come del resto è accaduto in altri paesi europei a partire dagli anni ’80. Ciò che rende il caso di porto Marghera unico nel suo genere, particolarmente critico da un lato e fortemente potenziale dall’altro, è il contesto territoriale in cui si inserisce. Il sistema territoriale veneziano vede la coesistenza di uno dei più importanti e delicati patrimoni ambientali, artistici e culturali mondiali con una delle più vaste aree industriali europee, ad oggi dismessa e in cerca di una via di riconversione sia sica che economica. Venezia e la sua laguna, patrimonio mondiale UNESCO, costituiscono un hotspot nel sistema ambientale regionale e, allo stesso tempo, si trovano al crocevia di infrastrutture di fondamentale importanza strategica (autostrade, ferrovie, aeroporti, porti, aree produttive), che con questo patrimonio devono coesistere in armonia. Oggi, insieme alle grandi produzioni industriali, sembra anche essere nito il tempo delle grandi trasformazioni territoriali: alle politiche di conservazione e di trasformazione dei luoghi si contrappone la logica della “riscoperta”, soprattutto per quanto riguarda gli spazi aperti ed il rapporto con il proprio paesaggio. La “riscoperta” nasce dalla necessità di mantenere un legame identitario tra la popolazione e un paesaggio industriale nato ai primi del ‘900, ormai parte integrante del territorio. I temi della rigenerazione urbana, della riduzione del consumo di suolo e della più generale valorizzazione del territorio sono sempre più all’ordine del giorno nelle agende dei decisori politici e del dibattito pubblico. Per noi europei questo signi ca interrogarsi sostanzialmente sulle questioni demogra che, climatiche ed energetiche, sulle forme della convivenza, del lavoro, della formazione e della partecipazione alla vita pubblica. Una delle s de da cogliere riguarda innanzitutto la valorizzazione del proprio patrimonio naturale e culturale che sempre più si manifesta nella ricerca di una convincente immagine da esportare, un marchio, un’identità che caratterizzi un territorio in modo strutturale e strategico. Nel documento “Città del futuro - S de, idee, anticipazioni“ (UE, 2011) l’Europa stabilisce che “una città sostenibile deve disporre di spazi pubblici all’aperto che siano attrattivi e promuovere una mobilità sostenibile, inclusiva e sana”. Proprio sul tema dello spazio pubblico LAND ha impostato le proprie strategie territoriali e i propri interventi, soprattutto per Porto Marghera. È stato durante la Biennale di Architettura del 2012 che il nostro 50x50 Venice Green Dream si è manifestato come un inserto di pura coltivazione del suolo a favore di una ritrovata fertilità. Da lì nasce la metafora di un vecchio albero con le radici nella storia, un tronco ben solido, ma sofferente e con una chioma oramai secca. Dal Venice Green Dream si è poi passati al Venice Expo Gate, primo tassello di un nuovo waterfront urbano. Ora che anche Renzo Piano con il suo workshop sulle periferie accende una serie di fari su queste realtà, c’è speranza di un nuovo “fertilizzante cul-
1 - Applicazione della strategia Venice Green Tree all’area metropolitana di Venezia, LAND.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA turale” che possa aiutare a far germogliare al meglio la piccola piantina della “Green Tree Strategy” elaborata da LAND a partire dal 2012 per Porto Marghera. Rafforzando il legame tra le persone e i luoghi che esse condividono, LAND promuove un processo collaborativo che dà forma agli spazi aperti e mette in luce il loro valore di condivisione. È ragionando intorno alle modalità di approccio alla riconversione di questa vasta porzione urbana di 2.000 ettari che, grazie alla sollecitazione del Parco Scienti co e Tecnologico di Venezia-VEGA, si è pensato ad una strategia fondata sulle Infrastrutture Verdi e sul radicale cambio di paradigma che queste comportano, sintetizzato nello slogan “from Grey to Green”. Il processo si è concretizzato proprio intorno alle aree che hanno ospitato l’evento Aquae Venezia 2015, collaterale di Expo Milano 2015, tenuto nel nuovo padiglione espositivo sulle aree del VEGA a Marghera, attraverso la costituzione di un nuovo bypass verde, il progetto “Primo Ramo”. Un progetto di riquali cazione dello spazio pubblico per la creazione di un percorso tematico-esperienziale, un vero e proprio padiglione a cielo aperto per installazioni espositive ed eventi. Ma quali sono ad oggi le prospettive di sviluppo a livello della piani cazione e dei programmi dei molti stakeholder coinvolti? Città e Ministero dell’Ambiente stanno ride nendo la cosiddetta “Buffer Zone”, la zona tampone per la protezione del sito che l’Unesco ha chiesto di rivedere: “Il Comune di Venezia propone di includere diversi ambiti territoriali, dalla costa adriatica della Laguna di Venezia e del Delta del Po, al Bacino scolante della Laguna di Venezia, no alle Dolomiti, che sono a loro volta sito Unesco. Solo puntando a un progetto ecologicamente sostenibile a livello più ampio, che superi dunque i con ni della Città Metropolitana, si potranno ottenere veramente risultati” (31.01.2017). Questa visione a scala vasta del primo cittadino veneziano è incoraggiante, poiché vede il coinvolgimento di diverse dimensioni progettuali e una prospettiva che supera i meri con ni amministrativi concentrandosi sulle problematiche a scala territoriale. Il percorso metropolitano della città di Venezia è un processo avviato da più di quarant’anni, che ha inizio nel 1973 con la de nizione del Comprensorio di Comuni della Laguna di Venezia per il progetto di risanamento e tutela ambientale. Curioso che proprio il primo tentativo di agire insieme attraverso un sistema collaborativo di città sia stato sui temi ambientali. Temi sui quali potrebbe partire anche lo sviluppo del Piano Strategico della Città Metropolitana di Venezia, strumento fondamentale per rilanciare il territorio, ma che purtroppo non ha ancora visto la luce.
2 - Planimetria degli spazi aperti del Padiglione Aquae, inaugurato nel 2015, LAND.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Intanto gli stakeholder del mondo delle imprese producono visioni per il futuro postindustriale: Tommaso Santini, Amministratore Delegato di VEGA - Parco Scienti co Tecnologico di Venezia, parla di “ecologia dell’innovazione”: “Nel Paese, tra le Istituzioni e le imprese c’è ormai la convinzione che sia indispensabile creare un ecosistema per l’innovazione, un ambiente nel quale si generino le condizioni per la crescita delle imprese e dei territori”. Due progetti disegnano già le linee guida verso cui la società si sta muovendo, non soltanto qui a Venezia ma anche in altre parti del mondo. “Venice Innovation Hub” è il progetto coordinato dall’Università Ca’ Foscari in collaborazione con l’Università IUAV e VEGA - Parco Scienti co Tecnologico - che prevede la creazione a Venezia di un polo per l’innovazione e lo sviluppo strategico dei processi di trasferimento tecnologico e di condivisione di conoscenza. Sugli stessi principi si basa ad esempio l’idea per lo Human Technopole e il nuovo campus dell’Università degli Studi a Milano, sulle ex aree di Expo, testimoniando la tendenza diffusa a ripensare l’industria come contenitore di innovazione e condivisione culturale. “Vega Waterfront” è invece il nome di un ambizioso progetto di trasformazione urbana che riguarda lo sviluppo di un quadrante strategico della città di Venezia per i prossimi 20 anni: il waterfront della terraferma lagunare che si estende nella macro-isola nord di Porto Marghera attorno al VEGA. La rinascita della città non è più affidata alla ristrutturazione urbanistica tout-court ma si sviluppa partendo da una rigenerazione ambientale in grado di creare un terreno fertile per accogliere nuove funzioni, senza negare le preesistenze industriali. Tali preesistenze trovano così un dialogo con lo spazio circostante tramite il progetto di un sistema unitario che riconnette i vuoti urbani e le aree sottoutilizzate per assegnare loro una nuova funzione di tipo ecologico-ambientale, aumentando in questo modo la permeabilità urbana e connettendo la città consolidata con il territorio circostante, incrementando la possibilità di fruizione dello spazio pubblico da parte di tutti. Il tema della riduzione del consumo del suolo e della rigenerazione urbana diventano un fattore trainante per le economie mature, dove l’esigenza di riconvertire e restaurare grandi complessi industriali e civili diviene indispensabile per chi amministra il territorio, nonchè rappresenta un’opportunità di investimento per gli operatori privati. Si delinea infatti un quadro caratterizzato da interventi di riquali cazione e di rinnovo urbano sempre più legati all’azione congiunta di operatori pubblici e privati, dal momento che singolarmente non sarebbero in grado di disporre di risorse necessarie per attuare gli interventi. L’attivazione di progetti di trasformazione urbana ha sempre più necessità di avviare processi che raccontino in chiave strategica il nuovo modello di città a cui si ambisce. Uno scenario di riferimento di lungo periodo che preveda al contempo azioni concrete a breve termine. Solo inserendo le trasformazioni puntuali nel loro contesto territoriale di riferimento si può mirare a concentrare le azioni e le diverse fonti di investimento all’interno di un grande processo strategico.
Le città cooperano e competono su vari fronti e in particolare per attrarre investimenti, nuovi abitanti e visitatori: da Barcellona a Bilbao, da Londra no ad Amburgo e alla Ruhr, luoghi che negli ultimi decenni hanno dimostrato di sapersi reinventare. Per far ciò si sono messe in campo diverse strategie nalizzate a trasformare città di antica industrializzazione in centri del terziario e della nanza, della cultura e del tempo libero o ancora in poli di tecnologie verdi e high-tech. La Ruhr ad esempio sta raccogliendo i frutti di un processo ormai quasi trentennale di
3 e 4 - Qualità urbana e nuova natura al Padiglione Aquae, LAND.
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5 - La strategia territoriale Green Tree Strategy per Venezia e Porto Marghera, LAND.
riscoperta cura del proprio territorio. Nel 1989 è stata avviata la IBA Emscherpark, nel solco della tradizione d’Oltralpe delle esibizioni internazionali d’architettura, un format di progettazione decennale partecipata a più livelli istituzionali e su diverse tematiche. Obiettivo della IBA era la rigenerazione della valle del ume Emscher a seguito di più di un secolo di attività estrattive e industriali che avevano degradato il territorio, sia dal punto di vista ambientale, sia da quello socio-economico. Questo enorme sforzo collettivo ha portato innanzitutto a un cambiamento radicale di prospettiva da parte degli abitanti, che hanno ricominciato a vedere il loro territorio come un ambiente che offre qualità di vita e opportunità di sviluppo. In secondo luogo il rispristino ambientale e la valorizzazione del paesaggio hanno portato nuovi investimenti e rinascita culturale, culminati nel 2010 con la nomina della Ruhr a Capitale Europea della Cultura. Nel 2017, mentre il complesso processo di rinaturalizzazione del ume avviato dalla IBA proce-
6 - Una visione per Porto Marghera: creare bypass verdi nel denso tessuto industriale, LAND.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO de verso il traguardo del 2020, Essen è Capitale Verde Europea, scardinando il suo ruolo di capitale dell’industria e proponendosi nello scenario internazionale come capitale delle scelte sostenibili. E si guarda sempre avanti: la Ruhr si prepara a inaugurare il Decennio Verde 2017-2027, dedicato alla sostenibilità e all’efficienza energetica, che porterà alla IGA 2027, esposizione universale di giardini e paesaggio che suggella la nuova vocazione di questo territorio. L’esperienza della Ruhr è sicuramente un modello di cooperazione e rigenerazione territoriale da seguire, ma anche un laboratorio di sperimentazione di tendenze e buone pratiche. In quest’ottica, il paesaggio diventa la vera infrastruttura, un approccio in linea con la recente strategia della Commissione Europea sulle Green Infrastructures. Infatti la comunicazione sulle Green Infrastructures tende a collegare quello che pochi anni fa era impensabile: la prevenzione del rischio idrogeologico e l’aumento della biodiversità, la protezione della natura e lo sviluppo economico, la lotta ai cambiamenti climatici e il miglioramento della qualità della vita, come si può leggere bene da un estratto della Comunicazione della Commissione del 2013 Infrastrutture verdi – Rafforzare il capitale naturale in Europa: “Le infrastrutture verdi si basano sul principio che l’esigenza di proteggere e migliorare la natura e i processi naturali, nonché i molteplici bene ci che la società umana può trarvi, sia consapevolmente integrata nella piani cazione e nello sviluppo territoriali. Realizzare elementi di infrastrutture verdi nelle aree urbane rafforza il senso di comunità, consolida i legami con azioni su base volontaria promosse dalla società civile e contribuisce a contrastare l’esclusione e l’isolamento sociale. Questo approccio giova ai singoli cittadini e alla comunità sul piano sico, psicologico, emotivo e socio-economico. Le infrastrutture verdi forniscono opportunità di collegamento tra le aree urbane e creano spazi in cui è piacevole vivere e lavorare.’’ Il paesaggio assume quindi il ruolo di catalizzatore della trasformazione, attraverso l’attivazione di un processo culturale articolato e in continuo divenire, offrendo un’occasione per ripensare il rapporto tra la città storica, la città consolidata e la città della trasformazione. Questo “rinascimento urbano” parte dal ripensamento dello spazio non costruito, del “vuoto”, dello spazio pubblico; Venezia ed il suo waterfront costituiscono un campo di applicazione straordinario legato all’attuale riconversione delle aree produttive di Porto Marghera che vede al centro del processo di rigenerazione il Parco Scienti co e Tecnologico - VEGA. Legandosi alla cultura del cambiamento sviluppata in altri laboratori urbani, nei quali la riquali cazione dei waterfront ha portato alla trasformazione di vecchie aree portuali o industriali in luoghi vivi e
7 - In alto: concept del progetto Primo Ramo, il primo step locale di una più vasta rigenerazione territoriale, LAND.
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8 - La rigenerazione parte dagli spazi aperti: nuovi waterfront, LAND. 9 - Suggestione progettuale per il futuro waterfront, LAND.
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centrali della città, Venezia trova in Porto Marghera il suo nuovo polo di rinascita. Da Porto Marghera prende avvio un processo di trasformazione in grado di coinvolgere l’intera area veneziana, con l’obiettivo di creare un sistema urbano in grado di valorizzare luoghi che gravitano intorno al polo attrattore di Venezia e di ricercare una rinnovata qualità del vivere e una nuova urbanità. La strategia per la rigenerazione in chiave urbanistico–ambientale punta all’evoluzione della struttura urbana attraverso la rottura progressiva dell’assetto industriale esistente, tramite la creazione di connessioni verdi in grado di ride nire sia sicamente che
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO funzionalmente la natura stessa di Porto Marghera. Ancor di più in questo periodo di crisi economica e riassetto dei sistemi produttivi e relazionali, le infrastrutture verdi divengono un’opportunità unica di crescita sostenibile, sia per il loro carattere multifunzionale e a basso costo di mantenimento (rispetto alle infrastrutture tradizionali), sia per le possibilità di nanziamento ad esse collegate. Molte città hanno investito in progetti europei che promuovo la ricerca e la realizzazione di soluzioni naturali e approcci sostenibili agli effetti del cambiamento climatico e alla rigenerazione di ecosistemi degradati. Uno di questi programmi di nanziamento, Horizon 2020, crea l’opportunità di lavorare con amministrazioni, istituti di ricerca e professionisti, condividere conoscenze e sviluppare soluzioni comuni. Sul tema dello sviluppo sostenibile esistono anche le iniziative European Green Capital e European Green Leaf, un riconoscimento che premia le città più virtuose nell’applicazione di politiche e progetti di sviluppo sostenibile. Questi format costituiscono una preziosa occasione di visibilità internazionale e di scambio di conoscenze, oltre che di rinnovata autoconsapevolezza ambientale e identitaria dei cittadini e delle amministrazioni locali. Il capitale naturale viene interpretato dunque come motore della crescita, come testimonia il fortunato caso di Essen. Immaginiamo Venezia come primo laboratorio italiano di un approccio alla rigenerazione urbana basato sui servizi ecosistemici e sulla piani cazione partecipata, che possa ampliare le relazioni tra la laguna e la terraferma, tra le diverse parti che compongo la città e il suo contesto territoriale, tra il passato e il futuro verso una nuova immagine per Venezia Metropolitana più contemporanea, inclusiva, verde e sostenibile. Più che un progetto si avvia un processo che da buoni giardinieri vorremmo vedere carico di coltivazione e di riposo, di utilizzi temporanei e di ampia accessibilità per fruitori e idee di una nuova industria 4.0 che non solo non inquina più, ma nel mentre si sviluppa, rimedia e boni ca le tante disattenzioni del passato. In linea con questa visione, la nostra architettura del paesaggio fornisce risposte efcaci alle s de di una società sempre più interconnessa, non perdendo mai di vista il protagonista del nostro racconto: l’uomo. Così la natura diventa una realtà tangibile e capace di dare spazio ai sogni di ciascuno.
10 - Osservatorio delle trasformazioni urbane creato nell’ambito della Biennale 2012, LAND. 11 - Intervento di preverdissement 50x50 Venice Green Dream per la Biennale di Venezia del 2012, LAND.
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Porto Marghera, possible development. Reconversion and waterfront by Tommaso Santini
Porto Marghera, one of Europe’s largest port-industrial areas, needs an effective comprehensive strategic plan that can map out real guidelines for development over the next 15-20-50 years. A plan that starts with the existing condition and builds on potential development, taking into account the complex environmental and urban situation, the industrial context, the European corridors and global routes. The opportunity to delineate a strategy for the future of Porto Marghera has come with the review of the Port Master Plan being conducted by the Port Authority: a planning tool that must mesh with the Action Plan developed by the City of Venice, which includes the revitalization of its port and industry, as well as the urban regeneration of the buffer zones between Porto Marghera and the city. Today, Porto Marghera must change to replace its productive model with a new one built around manufacturing and logistics. The strategic plan must reconsider the use of its one hundred hectares, which are often severely polluted, starting from the relationship with the port and other infrastructure. The future of Porto Marghera must be reconsidered by intercepting the real needs of local businesses in the wider area and the Veneto region. A complex, long-term project with a broad scope is Venice Waterfront, an urban-environmental transformation to develop a strategic quadrant of the city of Venice: the waterfront of the mainland along the lagoon, that extends between the areas of the Pili, the Macroisola Nord of Porto Marghera at the Parco Scienti co Tecnologico of Venice, San Giuliano, Forte Marghera and the University Campus in Via Torino, which together can constitute a “service and leisure hub” as delineated in the Master Plan.
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Porto Marghera, lo sviluppo possibile. Riconversione e waterfront di Tommaso Santini
A partire dal 1907 con l’emanazione della legge sui porti a cui seguì nel 1917 la sottoscrizione della Convenzione tra Stato, Comune di Venezia e Società Porto Industriale, nasce e viene avviata la realizzazione dell’area industriale di Porto Marghera. Essa è considerata una delle più grandi aree portuali - industriali europee con i suoi 1.447 ettari, oltre a 662 ettari di canali, strade e ferrovie servite da banchine raggiungibili da navi con pescaggi no a 11,5 metri, dotate di raccordi stradali e di 135 km di raccordi ferroviari. Essendo dunque un ‘articolata piattaforma portuale - industriale, Porto Marghera necessita di un piano strategico unico ed efficace, in grado di delineare le reali linee di sviluppo per i prossimi 15-20-50 anni. Un piano che parta dalla situazione esistente e aggiunga lo sviluppo possibile tenuto conto della complessa situazione ambientale ed urbanistica, del contesto produttivo, dei corridoi europei e delle direttrici globali. Ed è proprio con la revisione del Piano Regolatore Portuale, in corso quest’anno da parte dell’Autorità Portuale, che si presenta l’occasione per delineare la strategia del futuro per Porto Marghera. Uno strumento di piani cazione che deve integrarsi con il Piano degli Interventi predisposto dal Comune di Venezia che prevede per l’area di Porto Marghera il rilancio industriale e portuale accompagnato dalla rigenerazione urbana delle fasce di con ne tra Porto Marghera e la città. Accantonato un passato produttivo caratterizzato dall’industria di base, oggi Porto Marghera deve cambiare “pelle” lasciando spazio a un diverso modello produttivo da costruire attorno alla manifattura e alla logistica, per andare incontro alla globalizzazione dei mercati e al ridisegno delle catene logistiche globali e regionali. Questo cambio di paradigma presuppone il coinvolgimento e lo sforzo di ogni impresa dell’area vasta veneta a riconsiderare la propria localizzazione al ne di ottimizzarla. Il riferimento è dunque alle oltre 15.000 imprese venete del manifatturiero che nel 2015 hanno esportato per 56 miliardi di Euro e che costituiscono la più importante piattaforma manifatturiera d’Italia e tra le principali d’Europa. Imprese che a monte della loro liera produttiva hanno bisogno di approvvigionarsi di materie prime e semilavorati mentre a valle di portare i loro prodotti nei mercati di sbocco a costi competitivi e con processi logistici efficienti. In tale contesto, Venezia e il suo sistema portuale, quello dell’Alto Adriatico, è riferimento non solo per i corridoi europei del Mediterraneo, dell’Adriatico, del Baltico e del Brennero, ma oggi e sempre più domani, anche dell’Asia ed in particolare della Cina che, attraverso Suez, vede Venezia quale terminale occidentale della Via della Seta. Porto Marghera quindi rappresenta un fattore localizzativo strategico per questo importante bacino manifatturiero che deve tradursi in vantaggio economico per le imprese a cui si rivolge. Il piano strategico per la Porto Marghera del domani deve ripensare all’utilizzo dei centinaia di ettari di aree che la compongono, spesso profondamente inquinate nel suolo e nelle falde, proprio partendo dalla sua relazione con il porto e con le altre infrastrutture, quali la rete stradale, ferroviaria e le loro interconnessioni, per garantire un sistema di intermodalità in grado di generare un vantaggio competitivo per il trasporto delle merci e per le aziende manifatturiere coinvolte.
Il quadro di riferimento nazionale2 Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sta predisponendo il Piano generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL), che contiene le linee strategiche delle politiche per la
1 e 2 - Due vedute del complesso del VEGA.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA mobilità delle persone e delle merci nonché dello sviluppo infrastrutturale del Paese. Il nuovo processo di piani cazione infrastrutturale dovrà de nire un quadro del sistema delle infrastrutture nazionale unitario e quanto più possibile condiviso, in base al quale verranno de niti i fabbisogni nazionali di infrastrutture, verranno individuate le priorità in funzione della utilità e della fattibilità delle singole opere e delle risorse disponibili. Tale approccio alla realizzazione delle opere, parte dalla de nizione degli obiettivi e delle strategie, che de niscono la vision di medio-lungo periodo verso cui far tendere la politica dei trasporti nazionale e tracciano un quadro unitario entro il quale dovrà essere redatto il nuovo Piano Generale dei Trasporti e della Logistica, che costituisce il primo passo per l’avvio della nuova stagione di piani cazione, che parta dall’analisi critica del contesto attuale e dei principali trend in atto, de nisca gli obiettivi da perseguire e individui le strategie e le relative linee d’azione per il raggiungimento di tali obiettivi. Le infrastrutture di trasporto non sono ni a sé stesse ma costituiscono lo strumento per realizzare servizi di trasporto necessari per soddisfare i fabbisogni di accessibilità e mobilità e per rilanciare lo sviluppo delle diverse aree del Paese, attraverso un nuovo approccio che privilegi la programmazione di investimenti realmente utili al Paese. In tale contesto è essenziale l’utilizzo di strumenti di valutazione quantitativa per la previsione della domanda di mobilità e del livello di utilizzo delle infrastrutture. L’intero processo di piani cazione e realizzazione delle infrastrutture strategiche nel nostro Paese, nonché il ruolo che ha avuto la valutazione nell’allocazione delle risorse pubbliche negli anni hanno mostrato evidenti limiti ed hanno comportato la proliferazione di opere strategiche a fronte di una mancanza di disponibilità di risorse pubbliche a copertura delle stesse. Il portafoglio di progetti così individuato, si caratterizza per una grande enfasi sulle infrastrutture (spesso si tratta di grandi opere) da realizzare, spesso con un legame non evidente con i servizi necessari e i reali fabbisogni di mobilità e accessibilità che la singola opera deve contribuire a soddisfare e la cui genesi spesso è caratterizzata da rapporti con ittuali con i territori e dall’incertezza sull’utilità delle opere.
Uno scenario possibile e sostenibile
3 - Veduta d’insieme di Marghera e del VEGA.
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Ripensare a Porto Marghera intercettando i reali bisogni delle imprese del territorio dell’area vasta e del Veneto. Ripensare a quest’ampia area industriale e portuale quale piattaforma infrastrutturale che si rivolge alle imprese che producono o usano semilavorati manifatturieri, alla manifattura leggera, alla “quasi manifattura” (come l’industria degli assemblaggi) dove il valore aggiunto della progettualità italiana rappresenta un’eccellenza riconosciuta a livello globale.
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Imprese che sono caratterizzate da ussi in entrata e uscita di materie prime, merci e prodotti sempre più provenienti o destinati ai mercati di Paesi emergenti a scala globale che presentano elevati tassi di crescita in controtendenza ai paesi europei. Porto Marghera, ma più in generale le grandi aree portuali ex industriali contaminate e da riconvertire, può quindi trasformarsi in una piattaforma per la logistica integrata sfruttando il fattore localizzativo “portocentrico”3. La Marghera del secolo scorso, quella dell’industria di base, si era sviluppata grazie a tre fattori localizzativi: manodopera a basso prezzo, energia a basso costo e la vicinanza al mare. Oggi né Marghera né alcun altra localizzazione costiera italiana è in grado di offrire vantaggi localizzativi provenienti da basso costo del lavoro e dell’energia. Pertanto, alla Marghera di oggi e a quella del futuro resta solamente la vicinanza al mare, quale porta di accesso per i mercati globali. Un fattore localizzativo da sfruttare al meglio con un paziente lavoro di attrazione selettiva delle industrie maggiormente proiettate all’esportazione globale. Gli scenari evolutivi non possono quindi non tenere conto di questo nuovo modello produttivo di Porto Marghera che può svilupparsi quale “piattaforma infrastrutturale” per le imprese manifatturiere venete. Gli interventi e gli investimenti necessari devono di conseguenza essere progettati e programmati per rendere il sistema di infrastrutture idoneo a far diventare Porto Marghera attrattiva e competitiva per le aziende, coerentemente con le linee strategiche che il Governo sta predisponendo per lo sviluppo infrastrutturale del Paese. Da questo punto di vista, è indispensabile che le realtà produttive già operanti a Porto Marghera nella manifattura, “quasi manifattura” e logistica vengano seguite e facilitate con particolare cura e attenzione, e che attorno a loro, per concentrazione ed aggregazione, si crei un vero e proprio sistema integrato di logistica collegato ai principali mercati del mondo. Una Porto Marghera per le imprese del manifatturiero nella quale è possibile pensare anche ad un rinnovamento e rilancio della chimica in sinergia con il tessuto produttivo. I dati dei traffici del Porto di Venezia attestano una crescita consolidata: nel 2015 sono state movimentate oltre 25 milioni di tonnellate di merci e 560 mila TEU, quasi raddoppiando il traffico container nell’ultimo decennio. Ma se si ampia la prospettiva oltre Venezia anche ai vicini porti di Trieste, Fiume e Capodistria, i dati (2015) sui traffici complessivi sono una conferma di un vero e proprio sistema portuale del Nord Adriatico: 102 milioni di tonnellate di merci e oltre 2 milioni di TEU movimentati. Tutto ciò necessita di essere messo a sistema affinché diventi un’infrastruttura strategica per le imprese ancor prima che per il Paese e l’Europa.
4 - Venezia, Marghera e Mestre in una veduta dall’alto.
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Venice waterfront Venice Waterfront è la trasformazione urbanistico-ambientale che riguarda lo sviluppo di un quadrante strategico della città di Venezia per i prossimi 20 anni: il waterfront della terraferma lagunare, che si estende tra le aree dei Pili, la Macroisola Nord di Porto Marghera a partire dall’ambito urbanistico del Parco Scienti co Tecnologico di Venezia, San Giuliano, il Forte di Marghera e la zona del Campus universitario di via Torino che concorrono alla costituzione del “polo dei servizi e del tempo libero” come previsto dallo strumento urbanistico. Si tratta quindi di un progetto di ampio respiro e di lungo periodo, che presenta un elevato grado di complessità in ragione delle quantità in gioco, della molteplicità di attori coinvolti, delle condizioni mutevoli di mercato che nasce dalla necessità di adattarsi ai ritmi veloci del cambiamento e dal bisogno di cogliere nuovi vantaggi competitivi attraverso un approccio innovativo, “ nanziarizzato” e sostenibile, in grado di far cogliere in modo chiaro e trasparente ai potenziali investitori i rischi e le opportunità che lo caratterizzano. Riquali cazione ambientale, valore fondiario, creazione di posti di lavoro e innovazione sociale devono guidare le scelte progettuali di oggi e di domani. Il tema urbanistico infatti è soltanto uno degli aspetti in questa delicata e complessa iniziativa di sviluppo. Una trasformazione urbana necessita di una visione d’insieme dell’intero ambito: quella logica di “messa a sistema” di viabilità, mobilità, reti infrastrutturali, boni che ambientali, landscape, piani cazione urbanistica ma soprattutto l’esigenza di un piano economico nanziario sostenibile e di una governance praticabile, tutti aspetti senza i quali non si riattiva un processo economico su un pezzo di città. I waterfront come tema europeo e globale rappresentano veri e propri luoghi di valorizzazione urbanistica e conseguentemente immobiliare, acquisendo valore in alcuni casi anche superiori al tessuto storico della città (es. Hafencity di Amburgo). Tutto ciò passa per la condivisione con i landlord e tutti gli stakeholder coinvolti, di una strategia chiara e perseguibile: un piano degli interventi che deve essere attivato da subito e che può vedere nell’Amministrazione il principale soggetto in grado di gestire questa complessa partita in una logica unitaria e attraverso un processo partecipativo. Si tratta di un’area che mette in gioco oltre mezzo milione di metri quadri di super ci edi cabili e che va necessariamente pensata come un unicum attraverso l’individuazione di uno o più scenari di lungo periodo da cui discenderanno gli scenari di medio/ breve termine. Coerentemente con il Piano del Sindaco è indispensabile pensare ad uno strumento urbanistico a “maglie larghe” che consenta lo sviluppo delle destinazioni d’uso della cosiddetta “area urbana”, senza porre troppi vincoli a volumetrie e aree di inviluppo, prevedendo un complessivo riequilibrio tra costruito/costruendo e urbanizzazioni, oltre a un adeguato livello di dotazione infrastrutturale. Costituiscono variabili determinanti nella previsione degli scenari di lungo periodo lo sviluppo dei seguenti progetti nelle aree del Waterfront: il nuovo homeport per le crociere, l’hub di interscambio integrato ad un sistema di mobilità pubblica, la presenza di attività produttive (tra le quali va tenuto conto dell’eventuale spostamento della raffineria dell’ENI), la creazione di un campus dell’innovazione (Competence Center). Per la valorizzazione delle singole aree d’intervento all’interno del Venice Waterfront, in linea generale vale la “regola del mercato” salvo tener conto dei vincoli ambientali e funzionali eventualmente in essere su ciascun comparto: cambi di destinazione d’uso, premialità edi catorie, perequazioni e altri meccanismi compensativi potranno essere previsti mediante accordo pubblico-privato con l’Amministrazione, de nendo il benecio pubblico di ciascuna iniziativa.
La questione culturale come motore dello sviluppo economico della città “Le città e i territori del dopo moderno chiedono di essere scoperti per nuove forme di percezione e non tanto per nuove forme di progettazione” (James Hillman). È necessario per l’amministrazione veneziana pensare ad un nuovo “modello di business” non solo per il soddisfacimento delle esigenze attuali ma soprattutto per una complessiva politica di rilancio di Venezia come volano per un rinnovato sviluppo socio-economico in grado di attrarre nuovi investimenti, concorrere ad una progressiva crescita demogra ca e di benessere. 84
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO Per fare ciò è necessario cambiare modo di pensare a Venezia, porsi in una prospettiva dinamica che tenga conto dei cambiamenti in atto a livello globale prima ancora che europeo e metropolitano: ri ettere sul concetto di creative culture come volano per la crescita demogra ca. Come può Venezia e la sua area “vasta”, al pari di Berlino, Copenaghen ed altre città europee e del mondo attrarre le nuove generazioni? Semplice: è necessario dare a questi nuovi utenti le stesse condizioni in termini di attrattività e dinamicità che hanno le altre città di successo. La terraferma sta a Venezia come la periferia sta a Berlino: i giovani possono stare in terraferma con la residenza ed i servizi, l’importante è che mantengano l’idea di stare nell’”isola”. Risiedere in terraferma e lavorare o passare il tempo libero a Venezia in un ambiente lagunare che offre mille diversivi (cultura, formazione, leasure, green, food, acqua). Accessibilità, alloggi e facilities a basso costo con in più la possibilità di avere una nestra su una città unica, fatta non solo di offerta statica (il patrimonio artistico) ma anche di proposte dinamiche (formazione, innovazione, opportunità di business). E come si può convincere queste nuove generazioni a scegliere Venezia come loro meta? Come direbbe il Rifkin, attraverso la contrapposizione al Mainstream. Evitare ciò che è scontato e correre incontro alle tendenze che le nuove generazioni rincorrono. La ricerca di ambienti atipici. Chi più dei giovani può essere pioniere di una nuova periferia? Solo così da una miniera nasce un pensatoio, che poi diventa una start up e che si trasforma in una nuova impresa. E il ciclo continua. E seguendo questa logica quale luogo migliore di Porto Marghera per esempio, al centro del dibattito nazionale per la riconversione del polo industriale petrolchimico, può prestarsi ad un nuovo processo economico conseguente ad una trasformazione urbana? Un esempio che dimostra la possibilità di nuove forme di convivenza tra industria e ambiente, come occasione per ripensare a nuove forme di sviluppo sostenibile, all’interno del quale il capitale umano e l’innovazione sono fattori chiave per l’attivazione di un processo di crescita endogeno, che faccia leva sulle risorse locali esistenti. Una delle s de da cogliere riguarda innanzitutto la valorizzazione del proprio patrimonio naturale, artistico e culturale che sempre più si manifesta nella ricerca di una convincente immagine da esportare, un marchio, un’identità che caratterizzi un territorio in modo strutturale e strategico. A anco di questo scenario è evidente e centrale l’interesse da parte della popolazione locale ed in particolare delle giovani generazioni per la partecipazione attiva verso il proprio territorio di appartenenza.
L’importanza di un’infrastruttura per l’innovazione delle start up L’innovazione portata dalle start up in campo immobiliare sembra essere un fattore fondamentale dell’analisi delle previsioni sulla situazione internazionale del real estate. Un recente studio del fondo internazionale Catella ha identi cato 3.515 start up, operanti in sei regioni europee, analizzandone il ruolo nello sviluppo del mercato immobiliare di riferimento. I risultati dell’indagine hanno messo in evidenza che il numero di queste nuove società e lo sviluppo di un’infrastruttura appropriata sono molto importanti all’interno della competizione sul mercato europeo. Mentre le regioni più attive - come Parigi, Francoforte e Stoccolma - registrano la presenza di un numero limitato di queste nuove iniziative imprenditoriali, nei contesti più piccoli si trova la maggiore concentrazione di questo tipo di società. A Dublino ad esempio operano 1.220 start up, contro le 718 di Parigi o le 289 di Francoforte. Un ecosistema di questo tipo, carico di capacità di innovare, adattarsi e resistere alle condizioni del mercato, contribuisce a formare le fondamenta sulle quali un’area promettente può svilupparsi negli anni a venire. © Riproduzione riservata
Note 1 Dati Autorità Portuale di Venezia. 2 Tratto da Documento di Economia e Finanza 2016 - Allegato “strategie per le infrastrutture di trasporto e logistica” redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, Aprile 2016. 3 de nizione di Paolo Costa, Presidente Autorità Portuale di Venezia.
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Scenarios for Marghera, challenges and paradoxes by Maria Chiara Tosi
To elaborate future scenarios for the territory of Marghera, it is important to address a series of paradoxes and challenges: I suggest considering at least four of them. Marghera must manage its relationship with a very fragile environmental ecosystem, and at the same time welcome the ows produced by emerging economies. Marghera must manage two lines of force that convey a hypothesis of antagonistic territorial transformation: concentration and dispersion in the metropolitan city. Marghera must evolve from a territory that has consumed resources, energy, soil, environment, society to become a resilient, circular territory that can recycle itself. Marghera has long been represented as a single territorial, economic, social and identitarian system; today it is a growing kaleidoscope of settlements, environmental and economic situations, in which many actors, the management itself and decision-making processes are involved.
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MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
Scenari per Marghera, fra s de e paradossi di Maria Chiara Tosi
Pena l’impossibilità di elaborare scenari futuri robusti e resilienti, oggi per il territorio di Marghera risulta necessario confrontarsi con alcuni paradossi e allo stesso tempo affrontare alcune s de. Infatti, a fronte delle profonde trasformazioni che nel corso degli ultimi decenni hanno investito il territorio di Marghera e più in generale quello della città metropolitana di Venezia, risulta importante sostenere uno sforzo di immaginazione del suo futuro sia di quello prossimo e più ravvicinato, sia di quello più lontano. Costruire scenari e visioni costituisce un espediente cognitivo attraverso cui esplorare il tempo che ci sta di fronte (Tosi 2001, Bozzuto et al. 2008, Calafati 2016): attraverso la formulazione di ipotesi è possibile indicare nuove traiettorie e ragionevoli strategie di rafforzamento territoriale che anche Marghera dovrebbe iniziare a percorrere. Poiché omettere tempo, spazio, società ed economia ha spesso aiutato in passato a costruire visioni eccessivamente ottimistiche, consentendo di liberarsi dalle concrete e speci che condizioni con tutto il loro carico di difficoltà, ma anche di opportunità, portando talvolta a trasformare le visioni in miraggi, narrazioni false, progetti incoerenti e irrealizzabili, al contrario, elaborare scenari per Marghera impone oggi di ripartire proprio dalla speci ca struttura territoriale, ambientale, economica e sociale, preservando un principio di realismo nel mobilitare e attivare tutte le possibilità che da queste condizioni derivano. Nel fare ciò ci si trova a dover fronteggiare alcuni paradossi e molte s de: propongo di considerarne almeno quattro.
Fragilità/Trasformabilità Marghera deve gestire il rapporto con un ecosistema ambientale molto fragile e al contempo accogliere i ussi prodotti dalle economie emergenti. Questo territorio può essere considerato una delle principali interfacce del nordest verso le economie emergenti e per questo si trova di fronte a importanti s de poste dalle recenti trasformazioni strutturali dell’economia globale che punta su un diverso modello organizzativo connesso al rilancio sociale, al consolidamento del capitale culturale e contemporaneamente a una diversa organizzazione spaziale orientata a garantire maggiore comfort e well-being alle popolazioni insediate. Forse solo per un fortunato, eccezionale ed irripetibile intrecciarsi di condizioni favorevoli, Marghera oggi può essere considerato il territorio europeo più vicino ai mercati asiatici e africani oltre Suez, capace di minimizzare il costo generalizzato del trasporto nelle catene logistiche Asia-Europa (Costa 2016). Per svolgere questo ruolo Marghera può provare a riconvertire l’inestimabile patrimonio infrastrutturale depositato sul suo territorio con l’obiettivo di rendere quest’ultimo nuovamente produttivo e di conseguenza attrattivo non più per l’industria di base, ma nei confronti di produzioni manifatturiere ad alto contenuto di valore aggiunto. In una fase di incertezza e di lenta ripresa del tessuto della piccola e media impresa veneta, Marghera può svolgere un ruolo importante sul piano dell’innovazione tecnologica e dell’internazionalizzazione fornendo punti di riferimento credibili a chi vuole intrecciare un dialogo solido con le regioni nazionali e internazionali più competitive (Micelli 2017). Nondimeno, la laguna di Venezia manifesta sempre più intensamente le proprie criticità. L’ecosistema lagunare nonostante sia sempre stato esito di radicali interventi antropici, deviazione dei umi fuori dalla gronda lagunare, consolidamento dei cordoni
1 - Paesaggio della produzione.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA litoranei, escavo di canali, oggi è investito da azioni sempre più aggressive. Il delicato equilibrio tra acque dolci e salate, di cui il sistema delle velme e delle barene rappresenta il principale dispositivo di mediazione, è soggetto a minacce e aggressioni antropiche, esasperate dall’estremizzazione del clima e delle sue manifestazioni sul territorio urbanizzato. Come sia possibile sostenere la trasformazione di questo ampio brano di territorio, al contempo promuovendo la salvaguardia della fragile laguna di Venezia è il primo paradosso, ma anche la prima s da con cui è necessario confrontarsi.
Diffusione/Concentrazione
2-4 - Altri luoghi: recinzioni, container, costruzioni.
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Marghera si colloca ai bordi di un sistema insediativo diffuso e disperso, un sistema di piccole e medie imprese sparse in un territorio assai ampio, rispetto al quale oggi può esercitare una forte attrazione, proponendosi come asset infrastrutturale funzionale al potenziamento di un sistema territoriale effettivamente competitivo. Detto diversamente Marghera oggi può rappresentare un ambito strategico grazie al quale rafforzare e consolidare anche la città metropolitana di Venezia, a patto di riuscire a convogliare su di sé investimenti e sforzi progettuali. La discussione sul futuro di Venezia avviata all’inizio del XX secolo, di fronte allo sconvolgimento di priorità imposto dall’impatto con la modernità industriale, aveva portato al confronto serrato tra due principali ipotesi, due diverse idee di città e del ruolo svolto dal territorio nei processi di sviluppo sociale ed economico. La prima ipotesi sosteneva che Venezia dovesse e fosse in grado di “contenere” entro il suo ambito urbano quanto la modernità le richiedeva per continuare ad essere grande, proponendo una “Venezia grande”. Diversamente, la seconda ipotesi suggeriva di “allargare” Venezia su un territorio più ampio che dal Lido arrivava no alla terraferma, proponendo di fatto una “grande Venezia”. Perseguendo questa seconda ipotesi la città decideva di investire nel trasferimento del porto commerciale e industriale in località Bottenighi, avviando così la costituzione di Porto Marghera che per decenni svolgerà la funzione di motore della città (Zucconi 2002). A cent’anni di distanza da quella scelta, oggi l’istituzione della città metropolitana ci porta nuovamente ad interrogarci su quali siano i motori che possono contribuire a delineare il futuro di Venezia. Entro una diversa modernità e di fronte alle s de dirompenti poste da inediti fenomeni economici, sociali e culturali, oggi Venezia deve forse tornare a investire su un’area strategica come il suo waterfront, in cui la presenza di luoghi di eccellenza come Marghera, il porto e l’aeroporto, il parco di san Giuliano e Forte Marghera, il Campus universitario di Via Torino e il Parco Scienti co e Tecnologico - VEGA le consente di svolgere un ruolo di assoluta rilevanza. Marghera può contribuire attivamente a questo rilancio a patto di migliorare la propria capacità di intercettare i segnali di cambiamento in atto accogliendo nuove funzioni, ulteriori attività, ussi e persone: dal tessuto di start up e imprese innovative ad alto contenuto tecnologico anche sul fronte della green economy, dal porto commerciale all’attività crocieristica, dai centri di ricerca e di formazione avanzata all’espansione dell’offerta culturale. Anche per evitare a Venezia di venire stritolata dall’eccessiva monofunzionalità turistica. Allo stesso tempo però il sistema diffuso di insediamenti residenziali, produttivi, commerciali, e dei servizi attorno a Mestre continua ad irrobustirsi grazie ad importanti progetti infrastrutturali, attraendo risorse e investimenti. I nuovi parchi commerciali e
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO gli outlet di lusso, le cittadelle dei servizi e del terziario avanzato, le nuove aree per il tempo libero indirizzano i processi di trasformazione della città metropolitana lontano da Marghera. La gestione di queste due linee di forza, che veicolano ipotesi di trasformazione territoriale antagoniste, rappresenta un importante banco di prova che il nuovo secolo impone di affrontare sia per Marghera che per la città metropolitana.
Omogeneità/Differenziazione Per lungo tempo Marghera è stata percepita dall’esterno e forse ha anche cercato di rappresentarsi come un unico paesaggio, un sistema territoriale, economico, sociale e identitario descrivibile attraverso un’immagine univoca. Oggi al contrario, risulta sempre più evidente l’articolazione e la profonda differenziazione tra le sue parti che la fa percepire come un caleidoscopio di situazioni insediative, ambientali ed economiche, in cui sono coinvolti molti attori e altrettanti processi gestionali e decisionali. Detto diversamente, Marghera costituisce oggi termine eccessivamente coprente di una pluralità di situazioni insediative, economiche, ambientali troppo differenti ed irriducibili le une alle altre: - l’area di via Fratelli Bandiera che svolge un ruolo di diaframma tra il settore delle grandi produzioni industriali e la città; - i comparti legati all’industria di base dismessi o in fase di riconversione, come nel caso della raffineria ENI che in questi anni ha cercato una strada alternativa riciclando i propri stessi impianti; - Fincantieri, comparto specializzato nella costruzione di grosse navi da crociera, che oggi occupa in questo settore a livello mondiale importanti quote di mercato; - l’intero settore della logistica e portualità con porto commerciale, porto RO-RO, porto offshore e porto crocieristico; - la penisola della chimica, il cui destino è strettamente relazionato alle strategie di boni ca; - VEGA come possibile interfaccia tra Università e mondo della ricerca e impresa, possibile sede del Venice Innovation Hub e del Competence Center; - l’ecodistretto che oggi propone un’evoluzione dell’esperienza di raccolta dei ri uti urbani, verso processi di produzione di energia. Ciascuna di queste situazioni è caratterizzata non solo dai diversi attori coinvolti, dalle future e alternative prospettive di gestione delle attività, ma anche da diverse condizioni ambientali e di inquinamento dei terreni e delle acque in cui la boni ca ha raggiunto stadi diversi. Di fatto, ciascuna di queste aree è investita da processi di ristrutturazione e riconversione diversi. Esplorare scenari per questo territorio signi ca allora fare i conti da un lato con l’inerzia di un’immagine coesa e unitaria di Marghera veicolata anche dai principali strumenti di piani cazione, dall’altro con la pluralità di situazioni che in essa sono rappresentate e che chiedono di declinare attentamente e legare più saldamente la de nizione di strategie e progetti di riuso e riquali cazione anche alle speci che procedure di boni ca dei suoli.
Consumo/Produzione
5-7 Scheletri di ferro, binari, silos.
Marghera nel corso dei suoi cento anni di vita ha consumato territorio, ambiente, energie e società. Energivora e consumatrice di risorse è stata a lungo la condizione neces89
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8 - Lifestyle Center, un segno del nuovo.
saria a sostenere un imponente progetto di infrastrutturazione energetica sviluppato dal capitalismo aggressivo di inizio secolo, ma che oggi forse potrebbe costituire un laboratorio sperimentale di nuove forme insediative, infrastrutturali, nanche economiche resilienti e circolari. In un mosaico realizzato all’inizio degli anni cinquanta e collocato in una delle centrali della SADE, Marghera è rappresentata al centro di una tta rete di elettrodotti e di uno sviluppato sistema di corsi d’acqua che dalla montagna e dai territori contermini ha prelevato ciò di cui la grande industria di base ha avuto bisogno. Allo stesso modo Marghera ha eroso manodopera dal territorio agricolo circostante, attirando contadini trasformati in metalmezzadri, operai poco quali cati disponibili a spostarsi da casa a piedi e in bicicletta quotidianamente per decine di chilometri, a lavorare in condizioni ambientali che oggi sappiamo essere state estremamente pericolose per la salute, ritornando a casa per poter seguire la conduzione agricola dei fondi (Piva 1991). Oltre a consumare risorse, Marghera ha anche riversato sul territorio le scorie, i ri uti e i residui delle sue lavorazioni, inquinando e impoverendo l’ambiente circostante, ribaltando sulla città i costi sociali della cassa integrazione e della malattia. Oggi forse la s da progettuale più impegnativa è di pensare a Marghera come ad un territorio resiliente e circolare, in cui il patrimonio di infrastrutture energetiche, idrauliche ed economiche depositate nel corso di un secolo abbiano la possibilità di essere riciclate, entrando a far parte di un nuovo ciclo di vita caratterizzato non solo dall’impiego di fonti energetiche rinnovabili in luogo dei combustibili fossili, ma da produzioni capaci di mantenere il loro valore aggiunto più a lungo riducendo gli scarti, incrementando il benessere umano e l’equità sociale e riducendo al contempo in modo signi cativo i rischi ecologici e le scarsità ambientali. L’immenso patrimonio di infrastrutture, di saperi e competenze depositati a Marghera sono da tempo in attesa di un esteso processo di riciclo e riconversione industriale che può avvenire solo lavorando sulla capacità di attrarre intelligenze, conoscenze e opportunità di lavoro. Marghera è di difficile comparazione in relazione alla sua estensione territoriale e al livello e gravità dell’inquinamento. Purtuttavia il confronto con le esperienze internazionali più interessanti di riconversione e reindustrializzazione fa emergere come avere puntato su imprese piccole e medie ma altamente quali cate, sulla riquali cazione 90
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO ambientale e l’innovazione sociale e culturale abbia consentito ad alcuni ambiti tanto problematici quanto strategici come la regione metropolitana della Ruhr o il distretto 22@ a Barcellona, di maturare una profonda metamorfosi. Marghera dovrebbe apprendere da queste esperienze, utilizzando la prossimità e la possibile complementarità con il sistema della ricerca e della formazione universitaria per attrarre start up e imprese innovative, e facendo leva su un buon livello di infrastrutturazione territoriale, impegnarsi ad assumere il ruolo di baricentro nei processi di rinnovamento tecnologico, scienti co e produttivo non solo per l’area metropolitana di Venezia, ma per l’intera regione. Tuttavia, cogliere la s da di pensare al futuro di Marghera elaborando uno scenario condiviso per il prossimi cento anni, oltre a sollecitarci ad imparare dalle esperienze virtuose, richiede anche di esplicitare con precisione le conseguenze e prevederne gli effetti. “Cosa succederebbe se” può diventare un potente strumento di immaginazione del futuro che vorremmo per Marghera. Otterremo risultati positivi solamente se, stando dentro ai processi, saremo capaci di guardare alle conseguenze sull’ambiente, l’economia, la società, la cultura che abbiamo di fronte, a partire almeno dai quattro paradossi che ho provato a descrivere. © Riproduzione riservata
Bibliogra a Bozzuto et al. (2008), Storie del futuro. Gli scenari nella progettazione del territorio, Officina Edizioni, Roma.
9 - Torre Hammon, architettura-simbolo per il futuro.
Calafati A. (2016) https://www.researchgate.net/publication/301891649_Citta_visionarie_in_Europa Costa P. (a cura di), (2016), Una nuova alleanza fra porto e industria. Una s da e sette risposte per Porto Marghera, Marsilio-Autorità Portuale di Venezia, Venezia. Micelli S. (2017), “Ricomporre crescita e territorio”, in S. Micelli, S. Oliva, Nord Est 2017, Marsilio-Fondazione Nord Est, Venezia. Piva F. (1991), Contadini in Fabbrica. Il caso Marghera, Edizioni del lavoro, Roma. Tosi M. C. (a cura di), (2001), La costruzione di scenari per la città contemporanea: ipotesi e casi studio, Quaderno del dottorato in Urbanistica n. 1, Venezia. Zucconi G. (a cura di), (2002), La grande Venezia. Una metropoli incompiuta tra Otto e Novecento, Marsilio, Venezia.
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Venezia, il futuro del Porto Intervista a Pino Musolino, Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale, a cura di Laura Facchinelli e Oriana Giovinazzi
Abbiamo rivolto alcune domande al dr. Pino Musolino, che recentemente è stato nominato Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale. Dr. Musolino. l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale riunisce gli scali di Venezia e Chioggia all’interno di un unico sistema organizzativo. Quali saranno le s de e gli obiettivi in questa nuova realtà istituzionale? “Puntare a costituire un sistema portuale a servizio dell’intera regione e del Nordest. La sinergia e la specializzazione degli scali – di Venezia e Chioggia ma anche di Porto Viro – è un elemento strategico per aumentare la nostra competitività, consolidare i mercati di riferimento e raggiungerne di nuovi. Venezia dovrà sviluppare la sua essenza di porto multipurpose, valorizzando i propri asset competitivi come l’intermodalità e gli spazi a terra; per Chioggia e Porto Viro il futuro è tutto da scrivere ma siamo coscienti che dovranno assumere un ruolo rilevante anche in funzione della modalità uviale. Il nostro scalo infatti è l’unico porto in Italia a poter contare su un sistema uviale – il Fissero-Tartaro-Canal Bianco – che connette il mare con il cuore della Pianura Padana. Da Venezia, ma anche da Chioggia e Porto Viro, le chiatte possono trasportare le merci da e per Mantova e, utilizzando anche la tratta navigabile del Po, raggiungere per no Piacenza. Per dare pieno corpo ad uno sviluppo armonico di un sistema portuale tanto complesso stiamo procedendo speditamente alla costituzione piena dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale. È questa la vera, grande novità che emerge oggi perché il nuovo ente, abbinato intelligentemente al Piano Nazionale dei Trasporti e della Logistica, può valorizzare il ruolo della portualità veneta a vantaggio del Paese e non solo. E proprio per attivare n da subito le potenzialità di questo nuovo ente, per esprimere al meglio le potenzialità di questa portualità, è necessario mettere in funzione la “macchina” amministrativa. Solo una macchina amministrativa efficiente infatti potrà perseguire l’obiettivo del bene comune. E lo dovrà fare basandosi su tre pilastri, imprescindibili, per accettare e vincere le s de che sarà necessario affrontare nel prossimo futuro: ascolto, incontro e concertazione. Ascolto di tutti gli interlocutori sociali, politici ed economici; incontro di idee, siano esse favorevoli o critiche; concertazione con gli stakeholder del porto per far emergere proposte concrete e fattibili che possano realmente tradursi in opere utili alla città e al Paese. Solo così si potrà ricucire uno strappo inconcepibile fra la città di Venezia e il suo porto; due elementi che hanno costruito nei secoli una relazione feconda il cui esito sico è la città stessa: senza il porto il Palazzo Ducale, i fonteghi, i monumenti che fanno di questa città un tesoro inestimabile non esisterebbero”. Da anni si parla della necessità di avviare un rapporto di effettiva collaborazione con gli altri porti dell’Alto Adriatico, elaborando strategie comuni, che consentano di creare una realtà di grandi dimensioni e potenzialità. Questo per poter competere con i maggiori porti da tempo consolidati (ad esempio quelli del nord Europa) e con quelli che si stanno sviluppando negli anni recenti (soprattutto nel Mediterraneo). Qual è la sua opinione in proposito? “Il rilancio della collaborazione fra i porti dell’Alto Adriatico è fondamentale. Venezia, Trieste e Ravenna infatti sono porti complementari che hanno mercati di riferimento
1 - Operatività terminal container a Porto Marghera. 2 - Intermodalità nave-treno nello scalo traghetti di Fusina.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA diversi gli uni dagli altri, pertanto la crescita e lo sviluppo di uno scalo non pregiudica la crescita e lo sviluppo di un altro scalo. Ma per poter procedere ad una reale collaborazione è necessario che tutti i porti possano essere messi nelle stesse condizioni di investire e offrire i propri servizi. Penso ad esempio al trasporto merci su rotaia. Su un tema tanto importante com’è l’intermodalità, Trieste parte da una posizione di indubbio vantaggio potendo contare su un sostegno nanziario attivo da parte della Regione Friuli Venezia Giulia, cosa che a Venezia non si veri ca, ma nemmeno a Ravenna. O ancora, per quanto concerne il settore Ro/Ro e Ro/Pax dove, in virtù di misure che risalgono al secondo dopoguerra e che sono ampiamente superate dai tempi, il Porto di Trieste ha di fatto l’esclusiva nel trasporto merci da e per la Turchia. È evidente che, se è necessario – ed è necessario, per il bene del Nordest e di tutto il sistema Paese – percorrere un cammino collaborativo e coordinato che porti allo sviluppo dell’intera portualità dell’Alto Adriatico, è altrettanto necessario che il Governo intervenga per mettere Venezia, Trieste e Ravenna nelle condizioni di poter lavorare su questa strada, dando a ciascuno degli scali identiche possibilità di presentarsi sul mercato. È il mercato infatti che sceglie lo scalo più conveniente per tipologia di traffico e per asset competitivi, a patto che non intervengano, come succede ora, elementi di distorsivi delle dinamiche commerciali”. Si delinea un grande progetto economico, denominato “Nuova Via della Seta”, che punta ad integrare l’Asia e l’Europa costruendo sei corridoi di trasporto, via terra e via mare, attraverso i quali circoleranno merci, tecnologie e cultura. La premessa sarà la realizzazione di nuove infrastrutture per implementare la connettività. Venezia risulta essere tra gli scali di interesse per Pechino. Quali risorse e quali prospettive? “Venezia non è tra gli scali: è lo scalo di interesse per Pechino. Fin dalla de nizione della strategia OBOR (One Belt One Road) nel 2013, il Presidente della Repubblica Popolare della Cina Xi Jinping ha individuato Venezia quale unico porto di destinazione della Nuova Via della Seta marittima. Ciò è dovuto ad almeno due fattori, ovvero la centralità geogra ca di Venezia negli scambi fra Europa e Estremo Oriente – una centralità geogra ca riconosciuta a Venezia dalla Cina n dal 1200 - e il pragmatismo cinese che, scevro da retropensieri politici, tende a operare scelte che risultino competitive sul mercato. Lo stesso pragmatismo peraltro si rinviene nelle scelte infrastrutturali europee dato che al Porto di Venezia si riconosce il ruolo di nodo core della Rete Transeuropea di Trasporto TEN-T e la sua connessione a 3 dei 6 corridoi essenziali previsti: il Mediterraneo, l’Adriatico-Baltico e lo Scandinavo-Mediterraneo, tramite Verona. È ovvio che, nell’implementazione della strategia della nuova Via della Seta, dovrà sussistere una forte collaborazione con Trieste, dato il carattere di complementarità che riguarda i 2 scali. Ma non si può non rilevare che l’unica mappa ufficiale esistente della Via della Seta del XXI secolo prevede Venezia, e solo Venezia, come terminale portuale. Per questo ci stiamo preparando per accogliere al meglio le opportunità e i traffici che arriveranno. Per il momento, sotto il pro lo istituzionale, abbiamo già siglato accordi di collaborazione con due i porti cinesi di NingBo e Tianjin e stiamo lavorando con l’Università veneziana di Ca’ Foscari, che da tempo ha avviato una preziosa collaborazione con i partner cinesi; sotto il pro lo commerciale, oltre alla linea diretta container con il Far East della Ocean Alliance, restiamo un porto di riferimento per l’export dei colli eccezionali verso la Cina e l’import di siderurgico. A ciò si aggiungono le relazioni internazionali che abbiamo intrapreso con i Paesi dell’ASEAN e, in particolare, con il Vietnam. Queste dunque sono le basi solide e concrete sulle quali poggia la nostra strategia di marketing, inserita nel contesto BRI (Belt and Road Initiative)”. Porto Marghera, con le notevoli potenzialità determinate anche dalle dotazioni infrastrutturali e dai collegamenti ferroviari e stradali con il resto d’Italia e d’Europa, in che modo sarà in grado di attrarre imprese sul territorio? Questo sarebbe molto importante a vantaggio dell’economia locale. “Il porto di Venezia e il suo sviluppo possono contribuire in maniera fondamentale supportando, da un lato, le necessità di export delle imprese del territorio contribuendo a far crescere ancora il tessuto produttivo del Nordest e portando su tutti i mercati del 94
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO mondo il meglio del Made in Italy. Dall’altro lo sviluppo della portualità e della logistica a Porto Marghera potranno attrarre nuove imprese e generare nuovi occupati per oggi e per i giovani di domani. Dobbiamo riuscire a valorizzare in primis le dotazioni infrastrutturali esistenti e osservare attentamente il mercato, le sue esigenze e le sue dinamiche. Oggi Porto Marghera occupa oltre 13 mila persone e ospita più di mille aziende, tre quarti delle quali impegnate in logistica e portualità: verso di loro e verso il tessuto imprenditoriale del Nordest va il nostro impegno, pur avendo l’ambizione di puntare anche a raggiungere sempre di più anche i mercati del centro-sud Europa. Inoltre punteremo sempre più su logistica e portualità integrata e sostenibile. È necessario attrarre nuove produzioni ad alto valore aggiunto occupando o riconvertendo le aree dismesse di Porto Marghera, capaci di mettere in valore l’enorme patrimonio infrastrutturale esistente”. E in senso inverso, in che modo l’insediamento – da tempo auspicato – di nuove attività logistico-portuali, nuove industrie, nuove produzioni a valore aggiunto potranno valorizzare Porto Marghera, anche puntando su innovazione e su tecnologia avanzata? “Credo sia utile considerare almeno due elementi competitivi primari che già caratterizzano Porto Marghera: il primo riguarda l’area in sé del valore di circa 6,4 miliardi di euro, infrastrutturata e pronta ad ospitare nuove attività logistico-portuali e industriali; il secondo invece riguarda la riconversione già in atto del paradigma produttivo di Porto Marghera dovuta anche alla presenza di operatori specializzati in settori ad alto potenziale di crescita. Tra questi penso ad esempio ai colli eccezionali - che crescono del 15% su base annua - al settore dell’agribusiness che per Venezia vale 2,5 milioni di tonnellate di merci/anno tra cereali, semi oleosi e farine; senza dimenticare la movimentazione di container, che vede il Porto di Venezia al primo posto in Adriatico con oltre 600 mila TEU all’anno. Rispetto al comparto che genera più valore per il territorio, quello dei Ro-Ro, stiamo crescendo speditamente dopo un periodo difficile dovuto all’instabilità nel bacino del Mediterraneo. I Ro-Ro infatti sono cresciuti, tra il 2015 e il 2016, del 30,7%. A tutto questo va aggiunta la grande opportunità di movimentare le merci non solo via mare ma anche efficientemente via ferrovia. Se è vero quindi che l’insediamento di nuove attività logistico-portuali, e il potenziamento delle attività esistenti, è già in atto, è altrettanto vero che dobbiamo lavorare per superare criticità tutt’ora esistenti che potrebbero pregiudicare lo sviluppo
3 - Linea container diretta Estremo Oriente-Venezia.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA del Porto. A cominciare dall’accessibilità nautica, che deve essere garantita. L’essenza multipurpose del porto di Venezia infatti richiede una accessibilità nautica certa, anche in caso di funzionamento del sistema MoSE: in tal senso, la priorità assoluta consiste nella necessità di adeguare la conca di navigazione, senza perdere ulteriormente tempo. Inoltre, va pensata una cabina di regia, uno strumento che regoli e piani chi il funzionamento del MoSE dove il Porto ha la possibilità di essere parte attiva. Una ipotesi potrebbe consistere nel creare un ente dove PIOPP, Comune di Venezia e Porto siano coinvolti nella gestione del sistema delle paratie mobili. Ogni azione dovrà essere fatta nella consapevolezza che la nuova Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale opera nell’ambito di una strategia unitaria nazionale ben de nita, nell’ottica di una rinnovata collaborazione con il porto di Trieste e i porti dell’Alto Adriatico, nella prospettiva di dare corpo ad opere concertate, concrete, cantierabili. Solo così potremo fornire risposte e soluzioni utili alla città e al Paese”.
Dr. Musolino, si è parlato di recente della possibilità di ampliare il perimetro della zona franca doganale di Venezia ad aree ricomprese in ambito portuale con la possibilità di determinare le condizioni per un ulteriore sviluppo del porto nei prossimi anni, ed un eventuale riconoscimento come Zona Economica Speciale. Si prevedono ricadute positive non solo per il territorio, ma per l’intero Paese. Potrebbe essere questa l’occasione per dare un nuovo slancio a Porto Marghera? “Un ampliamento della Zona Franca è un driver importantissimo per il Porto di Venezia e va fatto in piena sintonia con il Piano Regolatore Portuale e con il Piano di Assetto Territoriale. Infatti la zona franca di Venezia, privilegio riconosciuto, oltre che al nostro scalo, solo al porto di Trieste, oggi consta in 8.000 metri quadri e potrebbe comportare rilevanti bene ci economici, amministrativi, burocratici e di sicurezza connessi, ed è una vera opportunità. È quindi una opportunità, non la panacea di tutti i mali, e per questo va inquadrata nella prospettiva di un continuo processo di re-shoring di Porto Marghera; una opportunità che potrebbe essere sfruttata al meglio solo immaginando un’evoluzione dello stato dell’arte. 96
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO È infatti vero che a Porto Marghera esiste già un «punto franco» ma è troppo piccolo e la sua ubicazione può essere di certo utile a molti ma non a tutti. I passi necessari quindi dovranno essere quelli di ampliare l’area e estenderla “a macchia di leopardo”, proprio dove serve e quindi rendendola capace di portare vantaggi a zone diverse di Porto Marghera. Più complesso l’iter per trasformare la Zona Franca in Zona Economica Speciale - serve infatti una legge del Parlamento, una della Regione e una trattativa con l’Ue –, status quest’ultimo che, in virtù di scalità di vantaggio, potrebbe offrire ulteriori incentivi per investimenti privati nell’area. Ma i traguardi, con perseveranza e impegno, possono essere raggiunti. La prima s da intanto rimane quindi quella di ampliare e diversi care la Zona Franca di Venezia sulla base della proposta che emergerà congiuntamente dalle categorie, dalla comunità portuale e dalle istituzioni veneziane e che richiede, per essere applicata, un decreto interministeriale”. Lei ha recentemente dichiarato che il Porto di Venezia è ai primi posti sotto il pro lo dell’intermodalità, in quanto entrano in gioco, con il trasporto marittimo e quelli terrestri (strada e ferrovia), anche quelli uviali. È una questione molto importante, sotto il pro lo economico e ambientale, con necessità di un coordinamento con i principali centri intermodali della regione e oltre. Può fare il punto dei programmi in questa direzione? “Ho dichiarato più volte che Venezia oggi è il porto più intermodale d’Italia. Non si tratta di una boutade o di un facile slogan ma è la verità, perché è l’unico porto che alla movimentazione congiunta via nave e ferrovia aggiunge anche l’eccellenza della modalità uviale. Solo a marzo 2017, sono state movimentate via chiatta più di 1.600 tonnellate di merce (nella fattispecie virole), dalla Lombardia al Porto di Venezia per poi imbarcarsi da qui per la Cina. Un servizio apprezzato anche dall’UE, che ha inserito la tratta Venezia-Mantova lungo l’asta del Po nel Corridorio Mediterraneo della rete Ten-T contribuendo a sviluppare anche servizi regolari nei settori container, siderurgico e chimico. Un servizio sostenibile perché, ad ogni chiatta (pari a 60 container o 60 camion), corrisponde un risparmio di 603 euro di costi esterni e un risparmio in termini di emissioni di CO2 pari a 60,31 tonnellate rispetto al trasporto su gomma. Per Venezia però l’intermodalità signi ca anche aver costruito una rete innovativa ed efficiente che sfrutta un mix tra Ro-Ro (traghetti) e ferrovia contribuendo a quella Cura del Ferro cui tutti i porti italiani sono chiamati a partecipare. Nel 2016 il traffico ferroviario a Venezia è stato da record: 2,24 milioni di tonnellate trasportate in treno e circa 90.000 carri movimentati, pari a 7.140 treni. Nel primo trimestre 2017 si è registrato un + 2,5% rispetto al trimestre (record) dell’anno scorso. La modalità ferroviaria ri ette poi la vocazione multipurpose del Porto di Venezia. Infatti la suddivisione percentuale del primo trimestre 2017, per tipologia di merce, corrisponde al 60% di materiale siderurgico, al 16% di agroalimentare, all’11% di prodotti energetici, al 7% di prodotti chimici e al 6% di container, ro-ro e automotive. Una simbiosi tra ferrovia e trasporto marittimo realizzata grazie all’impegno di compagnie come Grimaldi, che hanno creduto e investito su Venezia valorizzando appieno il terminal dedicato alle Autostrade del Mare a Fusina e aprendo servizi settimanali da Venezia verso la Grecia oltre allo storico collegamento con Egitto, Israele e Cipro, cui si è aggiunto il traffico di automobili (car carrier) gestito da Neptune Lines. Tradotto in cifre, un incremento di tonnellate di merce trasportate in traghetto, nel 2016, pari al 30,3 % e in termini di unità trasportate del 15%. All’operatività si affianca la formazione. Non è un caso che CFLI, la società di formazione dell’APV, organizza - prima in Italia - il corso per Tecnico Superiore per la gestione e conduzione dei mezzi ferroviari, pronto a colmare il gap italiano di Macchinisti ferroviari. Per il futuro guardiamo con interesse all’aumento delle linee intramediterranee, sia rafforzando la relazione con l’Egitto, che preparandoci a riattivare - non appena i con itti accenneranno a risolversi - le linee con il mercato libico e la Siria, diventando un partner efficiente per quelle imprese del territorio che esportano macchinari, prodotti siderurgici e made in Italy e per quelle che importano generi alimentari. Vanno in ne sfruttati e potenziati i corridoi totalmente intermodali che già oggi collegano la Grecia con Venezia via mare per poi raggiungere in treno i mercati del Nord Europa (Francoforte, Lubecca, Rostock e Duisburg)”.
4 - Prodotti siderurgici sulle banchine del porto di Venezia. 5 - Movimentazione di coils a Porto Marghera. 6 - Fase di carico di un collo eccezionale a Porto Marghera.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Presidente, Venezia è il primo Home Port nel Mediterraneo per le crociere. È ben noto il problema costituito dall’attraversamento del Bacino di San Marco da parte delle grandi navi. Da tempo si prospettano varie soluzioni. Di recente sembra essersi affermata la scelta di attraversare la laguna seguendo il canale Vittorio Emanuele. Due le due ipotesi possibili: la prosecuzione delle navi per San Basilio (l’attuale stazione marittima) oppure l’approdo a Porto Marghera. In questo secondo caso sarebbe necessario attrezzare sulla gronda lagunare un’area da dedicare al servizio passeggeri. Quale orientamento segue l’amministrazione portuale nel rapportarsi con le istituzioni competenti?
7 - Terminal Isonzo, l’ultimo realizzato nel porto passeggeri di Venezia-Marittima. 8 - Fase di imbarco nel porto passeggeri di Venezia-Marittima.
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“C’è la più ampia condivisione nell’individuazione delle alternative progettuali rispetto alla situazione esistente. Il settore delle crociere, infatti, è certamente importante per Venezia, basti pensare alle ricadute economiche e occupazionali sul territorio. In base ad uno studio condotto dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dall’Università di Padova, la spesa media giornaliera di un crocierista – pari a 201,3 Euro per i crocieristi homeport e 171.5 per i crocieristi in transito – è decisamente superiore rispetto a quella del turista tradizionale o pendolare. Nel complesso, l’attività crocieristica a Venezia comporta una spesa per beni e servizi locali stimabile in 283,6 mln di euro l’anno e l’impatto occupazionale è stimabile in 4.255 unità nell’area veneziana. Questi valori rappresentano il 3,26% del PIL e il 4,1% degli occupati totali se rapportati ai corrispondenti valori del comune di Venezia. È chiaro tuttavia che, dato il contesto in cui opera, sono state adottate nel tempo soluzioni di sostenibilità ambientale all’avanguardia. Penso ad esempio alla limitazione volontaria sottoscritta dalla compagnie di navigazione che scalano Venezia di raggiungere il nostro scalo con navi che non superino le 96.000 tonnellate di stazza lorda. O ancora, penso all’Accordo Volontario Blue Flag che, de nendo una percentuale massima dello 0.1% di zolfo nei carburanti in uso a partire dalle bocche di porto, contro lo 0.5% che verrà introdotto nel Mediterraneo solo a partire dal 2020, comporta una riduzione delle emissioni delle navi da crociera, calcolata come somme dell’emissione da stazionamento e da manovra, del 46% per PM e del 91% per SO2; sono questi i numeri che fanno del Porto di Venezia il porto più green del Mediterraneo. Siamo tuttavia coscienti che aumentare la compatibilità ambientale fra il settore delle crociere e la città signi ca individuare prima possibile una soluzione alternativa al transito delle navi da crociera attraverso il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca. E la soluzione individuata – il passaggio attraverso il Canale Vittorio Emanuele – è la soluzione corretta a nostro avviso. Innanzitutto perché, tecnicamente, non si tratta di un escavo. Il Canale Vittorio Emanuele è un canale portuale a tutti gli effetti e, no ai primi anni 2000, veniva usato pressoché quotidianamente da navi cargo in ingresso dalla bocca di Lido e dirette alle banchine di Porto Marghera. Il mancato utilizzo del Canale ne ha causato il parziale interramento, ma sarà sufficiente renderlo nuovamente navigabile.
MARGHERA. RICONVERSIONE, PROGETTO, PAESAGGIO
In secondo luogo perché, per la prima volta, mi sembra si sia veri cata una profonda e ampia convergenza fra tutti gli stakeholder istituzionali coinvolti nell’individuare un’alternativa allo stato attuale. In ogni caso, abbiamo nalmente realizzato un’analisi tecnico-scienti ca di altissimo livello che permetterà, su basi scienti che e non su sentimenti di pancia, di esaminare ed eventualmente decidere la soluzione più appropriata. Il governo nazionale, assieme alla Autorità di Sistema Portuale, e alle altre articolazioni dello Stato coinvolte, sarà a breve messo nelle condizioni di effettuare una scelta ponderata e di lungo periodo. Ritengo utile in ne segnalare che tale progetto, pur continuando a valorizzare il Terminal di Marittima, uno dei terminal crocieristici più avanzati ed efficienti del mondo, non preclude la possibilità di immaginare la realizzazione di uno o due approdi a Porto Marghera che possano ospitare le navi di stazza superiore”.
9 - Navi da crociera in ormeggio nel Bacino di Marittima.
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MESTRE LA FERROVIA E LA CITTÀ a cura di Laura Facchinelli101
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Il nodo ferroviario e la stazione di Mestre di Agostino Cappelli
Il tema delle funzioni e dell’adeguamento del nodo ferroviario di Mestre e del suo spazio urbano ai cambiamenti strutturali, che hanno coinvolto l’Italia e il mondo negli ultimi 20 anni in termini di mobilità e di comportamenti dei cittadini, è complesso ma anche determinante per la città di Venezia nel suo insieme e per la vita dei suoi residenti ed utilizzatori. Oggi una stazione ferroviaria in un’area metropolitana rappresenta un nodo centrale non solo di generazione e attrazione di ussi passeggeri (e merci nel caso di Mestre) ma anche e soprattutto un’area strategica per la città, che deve quindi essere opportunamente integrata con i servizi tradizionali e innovatavi offerti dallo “spazio urbano della stazione”. In questo senso progettare e realizzare interventi sull’area della stazione di Mestre non può essere solo un compito delle Ferrovie (RFI nello speci co) o del Comune di Venezia (per gli spazi urbani da riquali care) ma deve anche rappresentare un’occasione di coinvolgimento della città in un piano strategico di sviluppo e di qualità urbana. Per rendere gestibile la complessità ai ni dell’interesse collettivo occorre de nire obiettivi condivisi, ma anche individuare le criticità del sistema di valutazione e scelta degli interventi, in un sistema pluri-obiettivo in cui diversi stakeholder sostengono i propri interessi (legittimi, ma di parte) che possono divenire contraddittori o con ittuali in assenza di un quadro organico e condiviso di strategie. Si deve pertanto comprendere come una piani cazione dell’offerta, senza un’adeguata conoscenza della domanda attuale e futura, e una strategia cui tendere, determina un sistema disomogeneo di azioni la cui realizzazione non solo non garantisce l’efficacia complessiva, ma è pure fortemente soggetta alla “discrezionalità” decisionale (che come sappiamo cambia nel tempo) e quindi ad un allungamento delle fasi di realizzazione, che, una volta avvenute, potrebbero non essere neanche più coerenti con gli obiettivi (seppur di parte) che le hanno generate. In questo contesto FSI, attraverso RFI SpA (e la altre società controllate), sta correttamente realizzando da diversi anni progetti di adeguamento (tecnologico ed infrastrutturale) del nodo di Mestre e della stazione di Venezia Santa Lucia, che tuttavia rappresentano gli obiettivi del Gestore dell’Infrastruttura. Il Comune di Venezia ed FSI (RFI e Grandi Stazioni) hanno inoltre sottoscritto nel 2014 un importante protocollo di intesa che riguarda gli interventi nello spazio urbano della stazione, mentre sembra ancora mancare un quadro organico di strategie e strumenti, temporalmente de niti, che consentano di ripensare il nodo ferroviario e la stazione di Mestre come un sistema urbano complesso, di qualità e accettato come tale dai cittadini. Gli interventi di competenza di RFI SpA, Gestore dell’Infrastruttura, riguardano sia l’infrastruttura sia gli impianti tecnologici per la circolazione dei treni e sono nalizzati all’aumento della capacità di trasporto delle linee e della stazione, per gestire con efficienza ed efficacia lo sviluppo del traffico ferroviario, sia quello della relazione AV/AC Milano-Venezia sia quello connesso al Servizio Ferroviario Metropolitano Regionale (SFMR). Gli interventi completati negli ultimi anni riguardano la sistemazione a Piano Regolatore Generale del piano dei binari della stazione, la realizzazione di un nuovo sistema di controllo della circolazione di tipo “ACC” e l’ampliamento dell’impianto merci di Porto Marghera. È in corso di nalizzazione, in collaborazione con la Regione Veneto, il progetto preliminare – previsto nell’allegato Connettere l’Italia al DEF 2017 – del collegamento ferroviario dell’aeroporto Marco Polo di Venezia con l’attuale linea Mestre-Trieste. 103
I TRE FUTURI DI VENEZIA
Gli interventi previsti nell’Accordo di programma tra Grandi Stazioni SpA e Comune di Venezia, approvato dalla Giunta nel 2014, riguardano la riquali cazione degli spazi urbani in cui la stazione passeggeri si inserisce. In particolare è previsto l’incremento delle super ci destinate ai servizi primari e secondari attraverso la riorganizzazione degli spazi interni e modi che strutturali delle aree esterne. Per quanto riguarda queste ultime il progetto include il parcheggio su più livelli per circa 300 posti auto e 60 posti per motocicli, collegato con il percorso lato binari del fabbricato viaggiatori, ed anche la sistemazione dell’area dell’ex scalo ferroviario e dell’area dei giardini di Via Piave, mentre Piazzale Favretti dovrebbe assumere la funzione di nodo di interscambio passeggeri. Gli interventi realizzati e previsti sono certamente utili alla funzionalità ferroviaria e alla valorizzazione della stazione e dell’area urbana in cui è inserita. Sembra opportuno tuttavia esprimere due osservazioni. La prima riguarda la necessità di una visione integrata di progettazione urbana (mobilità-trasporti-territorio) superando la programmazione per progetti, come richiede il Nuovo Codice degli Appalti Pubblici. La seconda riguarda il processo di scelta degli interventi, certamente correlata alla prima ma che richiede anche di valutare non solo cosa è utile alla collettività ma anche a cosa si deve rinunciare a seguito di una data scelta (in regime di risorse limitate). Il signi cato della Project Review prevista dal DEF 2017 sembra correttamente muoversi in questa logica, anche se la questione non sembra ancora matura nei decisori (nazionali e locali) e nella stessa popolazione, che appaiono ragionare in una logica di pura contrattazione come se le risorse fossero illimitate. Queste considerazioni sono valide, a parere di chi scrive, indipendentemente se le risorse siano totalmente o parzialmente pubbliche oppure in tutto o in parte private, perché, anche in questo secondo caso, i privati investono a fronte di un ritorno economico che comunque viene garantito dalla collettività (ad esempio mediante il pagamento di tariffe o pedaggi) ed inoltre non raramente gli interventi privati devono essere sostenuti direttamente o indirettamente da garanzie pubbliche (in denaro, a volte, in azioni e concessioni in altri casi). La questione appare centrale non solo per la garanzia dell’interesse collettivo, ma anche perché nei progetti complessi sono presenti alcuni elementi d’indeterminazione, che in uenzano la valutazione dell’opportunità di realizzare un progetto. Il primo elemento riguarda i tempi di realizzazione delle opere, dalla loro prima de nizione alla realizzazione. Il secondo elemento riguarda il non completamento delle opere (le cosiddette opere interrotte). Una programmazione senza piani cazione condivisa e il ritardo (a volte decennale) nella realizzazione mettono in discussione la stessa fattibilità economica degli interventi, la validità delle scelte e spesso produce una gran quantità di opere incompiute. Il terzo elemento riguarda la selezione delle priorità e quindi la mancanza di un processo strutturato, scienti co e condiviso di programmazione, che ci si augura sia riavviato con le procedure previste nel Nuovo Codice degli Appalti (2016) e nell’Allegato al DEF 2017. In de nitiva si tratta di un problema di scelte e di metodo. In economia, scegliere richiede non solo ricercare la migliore soluzione per un dato problema (questo è un classico approccio ingegneristico assunto anche dagli economisti e dai decisori politici, almeno si spera); scegliere vuol dire sapere a cosa si rinuncia, cioè cosa non 104
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
potremo fare o acquisire o godere perché abbiamo fatto una data scelta. Per questo è indispensabile trovare soluzioni che garantiscano un dato obiettivo di mobilità in termini comparativi, individuando le giuste relazioni tra obiettivi di mobilità, uso del territorio e risorse disponibili e sapere a cosa si rinuncia (oppure a cosa si da priorità). Secondo questi principi è importante sottolineare il cambio di rotta presente nel Nuovo Codice e negli allegati al DEF 2016 (metodologico) e 2017 (già almeno in parte operativo). In questo nuovo contesto di programmazione nazionale è necessario che, anche per il caso di Venezia Mestre e in generale della regione Veneto, si de niscano strumenti adeguati per superare le procedure basate sul “progettare l’offerta indipendentemente dalla domanda” e avviare la realizzazione di progetti di fattibilità dei sistemi integrati di mobilità. Gli studi e le ricerche svolte consentono di evidenziare alcune criticità. In ambito regionale la mancanza di un Piano Regionale dei Trasporti aggiornato ed evoluto in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale in coerenza con quanto previsto dal Nuovo Codice e di un sistema tariffario integrato (ferrovie regionali e sistema delle autolinee) che consenta all’utente l’utilizzo del sistema di trasporto pubblico in modo semplice e unitario. Il sistema veneziano è stato analizzato con un grande numero di “Piani” (PUT, Piano Strategico, PUM) basati però su dati poco aggiornati e con una limitata visione del futuro che valorizzi e consolidi la qualità della città d’acqua e la sua integrazione con le aree di Mestre e Marghera (in cui al momento si è operato solo con il progetto del tram). Occorre superare il concetto che Mestre sia la periferia di Venezia e Marghera la sua area industriale. Si tratta invece di 3 città che si integrano nella città metropolitana: il centro storico (l’Isola anzi l’insieme di isole) con il suo patrimonio di cultura e funzioni scienti che e culturali; Mestre, la città dei servizi superiori (regionali), della qualità urbana, tendenzialmente città senza auto e molta più tecnologia innovativa; Marghera città della produzione, della logistica e dell’innovazione nei servizi all’economia. Le tre città devono rappresentare un unico polo urbano di livello metropolitano, dove porto, aeroporto e sistema ferroviario (Alta Velocità e Regionali-Interregionali) devono rappresentare strumenti di integrazione e connessione territoriale, non poli indipendenti di sviluppo (seppure condivisibile in alcuni suoi aspetti). Per questi obiettivi il sistema della mobilità pubblica deve consentire spostamenti continui nel tempo, distribuiti nello spazio ed efficienti.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
A short history of the railway in Mestre. From a nineteenth-century train station to an important node for rail traďŹƒc and city life by Laura Facchinelli
The history of the Mestre railway station began with the project for the railway from Milan to Venice and the inauguration of the rst stretch from Mestre to Padua, in 1842. Four years later, in 1846, the bridge across the lagoon was inaugurated to connect the mainland to Venice. The Mestre station was built in open country, one kilometre south of what was then a small country town. The rst, modest building was replaced 40 years later by a new larger station with a double metal roof. Hotels and inns lined the square outside the station. The location of the station to the south of the city of Mestre proved essential to the future development of the urban structure, fostering a new tendency to build towards the south, towards the station. The public streetcar line to the station later consolidated that trend. The rst factories were built, followed by larger industries. At the end of the nineteenth century, a new passenger building became necessary. In the 1920s, the development of the industrial zone of Marghera brought with it the need to extend the tracks of the Mestre station in that direction to create a larger freight yard. Construction was completed on the interlocking plant with signaling systems that became necessary to implement the plan to connect the tracks of the Industrial Port to Mestre. New platforms were built in the station, along with an underpass leading to the tracks. Construction on today’s station began in 1960, followed shortly thereafter by the expansion of the railroad bridge to Venice. Since the 1980s, the station in Mestre has been signi cantly modernized from a technological and structural point of view. In the 2000s, the interiors of the passenger building were renovated to re ect a more modern conception of the station as a preferred venue for retail and service businesses.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Breve storia della ferrovia a Mestre. Dalla stazione ottocentesca al grande nodo del traffico ferroviario e della vita urbana di Laura Facchinelli
La storia della stazione di Mestre prende avvio negli anni ’40 dell’Ottocento col progetto della linea ferroviaria Milano-Venezia. Quando intervenne la decisione di costruire una “strada ferrata” per collegare le due capitali del Regno Lombardo-Veneto, venne dato incarico, per la redazione del progetto, all’ingegnere Giovanni Milani. Il progetto, ultimato nel 1840, ottenne l’approvazione dell’Imperatore con la concessione, a favore della società Strada Ferrata Ferdinandea Lombardo-Veneta, del privilegio per la costruzione. Dalla città di Padova, attraversato il ume Brenta poco a nord del villaggio detto Ponte di Brenta, la linea progettata puntava verso Mestre, poi verso Marghera.
La tratta Marghera-Padova e il ponte translagunare I lavori per la costruzione della ferrovia iniziarono contemporaneamente ai due estremi, lato Milano e lato Venezia. Lato Venezia si diede avvio ai lavori del ponte translagunare e a quelli del tratto da Marghera a Padova. Fu proprio quest’ultimo ad essere portato a compimento per primo e ad entrare in esercizio: era il 12 dicembre 1842. Nella storia delle ferrovie italiane, la Marghera-Padova fu il primo segmento della prima linea di grandi dimensioni (in precedenza erano state realizzati solo due brevi collegamenti, da Napoli a Portici e da Milano a Monza). Marghera, no alla ne del ‘700, era un piccolo borgo che si snodava lungo la Fossa Gradeniga. Nei primi anni dell’800, ad opera degli austriaci, era stato creato un sistema di forti cazioni. Per collegare con la ferrovia Venezia e Padova, tra le varie ipotesi di tracciato, si scelse quello che passava per Mestre, anche per favorire quel popoloso borgo di 6.000 abitanti dove si concentravano tutte le strade di terraferma. Il ponte doveva innestarsi nella terraferma in una posizione che rispondeva a ragioni di carattere militare (si intendeva garantire il controllo dal forte di San Secondo e dal grande forte di Marghera). Per il primo tratto in costruzione si scelse un punto in corrispondenza del ponte sul canale Anconetta. Là, al momento dell’apertura all’esercizio, venne ssata una stazione provvisoria alla quale facevano capo, per la via di terra, i treni diretti alla stazione di Padova (che distava 32 chilometri), per la via d’acqua i collegamenti di barche per Venezia (dove la stazione provvisoria venne allestita alle Penitenti, nel sestiere di Cannaregio). Nel novembre 1843 venne aperto all’esercizio un ulteriore segmento di 1.400 metri, fra il ponte dell’Anconetta e San Giuliano: qui venne creata una nuova stazione provvisoria e un nuovo approdo per le barche dirette a Venezia. Quel punto coincideva con la testata del grande ponte in costruzione. Nel 1846, a meno di cinque anni dall’inizio dei lavori, il ponte venne aperto all’esercizio: era costituito da 222 arcate e misurava 3.600 metri di lunghezza. Con l’apertura del ponte translagunare e, contemporaneamente, del tratto da Padova a Vicenza, si poté viaggiare in treno da Venezia a Vicenza; nel 1857 sarebbe stata ultimata la linea no a Milano.
Mestre, le due stazioni dell’Ottocento Lungo la Marghera-Padova, che era allora a un solo binario (il raddoppio sarebbe stato realizzato solo all’inizio del ‘900) c’erano le stazioni di intermedie di Mestre, Marano e Ponte di Brenta.
1 - Nella pagina a anco, in alto: il piazzale della stazione di Mestre a ne ‘800. Il fabbricato viaggiatori è quello costruito intorno al 1880. 2 - Nella pagina a anco, in basso: foto ricordo sullo sfondo della doppia tettoia. 3 - Nella pagina seguente, in alto: pianta della stazione nella prima sistemazione data per l’apertura della ferrovia (1842). 4 - Nella pagina seguente, al centro: vecchia foto del ponte translagunare. 5 - Nella pagina seguente, in basso: uno dei casoni demoliti negli anni ‘30 del ‘900 per l’ampliamento dello scalo merci.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Per costruire la stazione di Mestre, l’amministrazione ferroviaria espropriò dei terreni situati in aperta campagna, un chilometro circa a sud di quello che allora era un piccolo borgo rurale. Nei contratti dell’epoca si leggono i nomi del signor Girolamo Mazzarolli e del suo erede conte Tommaso Corner, di Paolina Ambrosioni e del marito Odoardo Riedel nobile di Raitenfels, quello del conte Bianchini, quello di Lucrezia Spinelli e del marito Giovanni Biboni. Coi terreni espropriati al conte Tommaso Corner si arrivava quasi al con ne con la strada postale per Padova detta “Cappuccina”: nel punto di incrocio della strada postale coi binari della ferrovia venne realizzato un passaggio a livello. Nella prima stazione di Mestre, costruita per l’attivazione della ferrovia, il fabbricato era modesto. Nell’area della stazione c’era anche un’officina per la riparazione delle locomotive. Quella sistemazione cambiò dopo un quarantennio. In un inventario della linea Venezia-Peschiera datato 1888 compare, infatti, la nuova stazione di Mestre, che era dotata di una tettoia per i viaggiatori in ferro e legno, di una rimessa per le vetture, di un magazzino merci e una “caserma per il basso personale”. Nella nuova stazione, l’ampio fabbricato viaggiatori aveva uno sviluppo orizzontale e simmetrico. Il corpo centrale presentava un pianterreno a nove portali e un primo piano con altrettante nestre. Da quel corpo centrale si estendevano, su entrambi i lati, due fabbricati costituiti dal solo pian terreno. La lunghezza complessiva era di oltre 118 metri. I binari erano coperti da una tettoia metallica doppia, sostenuta al centro da colonnette. Il viaggiatore entrava direttamente nell’atrio, dove trovava subito la biglietteria, a sinistra l’ufficio bagagli, a destra le sale d’attesa di prima, seconda e terza classe. All’intero dell’edi cio di stazione c’era un “ristoratore”, e anche sul piazzale esterno c’erano ristoranti, caffè, locande. Gli ultimi anni dell’800 segnarono un sensibile sviluppo del servizio ferroviario. Oltre al nuovo fabbricato viaggiatori, venne realizzato il grande fascio di binari e relative attrezzature per il servizio delle merci: fascio per il ricovero dei treni, parco vagoni, parco smistamento ed impianti ed officine materiale rotabile. In una carta redatta dall’IGM in base alle rilevazioni dell’anno 1887, la stazione di Mestre appare ancora isolata: la separa dal borgo, ancora prevalentemente rurale, una distesa di campi coltivati. Di anco alla stazione, lato Venezia, permane il passaggio a livello. 108
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Trasformazioni urbane determinate dalla ferrovia L’attivazione della ferrovia ha sempre comportato una trasformazione non solo del sistema dei trasporti ma dell’organizzazione stessa del territorio sotto il pro lo economico, sociale e urbanistico. Il fenomeno si è veri cato soprattutto nella seconda metà dell’800, in coincidenza con la costruzione di gran parte della rete ferroviaria oggi esistente, e ha interessato sia le grandi e medie città sia i piccoli centri. Nella seconda metà dell’800 Mestre era capoluogo di un Comune di 7-8.000 abitanti. Da sempre considerata il porto principale per l’imbarco dei viaggiatori diretti a Venezia, era punto di arrivo e partenza di diligenze (compresa quella da Vienna, col corriere imperiale). Prima della costruzione della ferrovia, per attraversare la laguna c’erano le gondole e, per le mercanzie, le “barche da Mestre”. L’asse principale per i collegamenti era il canal Salso, che comunicava con una rete di canali interni, consentendo di raggiungere i centri dell’entroterra. Mestre svolgeva le funzioni di vero e proprio porto di Venezia non soltanto per il movimento dei viaggiatori, ma anche per l’approvvigionamento delle merci, e lungo le rive del canale orivano sempre più numerose locande, osterie e mestieri legate al mondo della navigazione. Quando, a partire dal 1846, si poté raggiungere Venezia in treno, il trasporto per via d’acqua apparve, d’un tratto, troppo lento, complicato e rischioso, e rapidamente venne abbandonato. Nella seconda metà dell’800, con la ferrovia, il traffico si sviluppò rapidamente, in particolare quando venne attivata anche la linea per Treviso (1851). In centro città sorsero le prime fabbriche, poi grandi stabilimenti non solo nelle adiacente della stazione, ma anche lungo il Canal Salso, poichè la zona offriva la possibilità di trasporti sia via acqua che per ferrovia, grazie ai binari di raccordo. La popolazione intanto abbandonava via via le attività più direttamente legate al mondo agricolo, e in particolare i molini e le lande, e trovava occupazione nella produzione di beni di consumo. La ferrovia segnò dunque anche l’inizio di una vera e propria inversione di tendenza sul piano economico-sociale che sarebbe stata confermata dalle successive infrastrutture di trasporto. Ma fu importante anche l’effetto sullo sviluppo urbanistico. La scelta dell’innesto del ponte translagunare in località San Giuliano e la conseguente collocazione della stazione di Mestre sul lato a sud rispetto all’abitato ebbero importanza 109
I TRE FUTURI DI VENEZIA 6 - Nella pagina precedente, in alto: il Viale della Stazione (ora Via Cappuccina) nei primi decenni della ferrovia. 7 - Il piazzale della stazione, l’hotel Bologna, di fronte alla stazione ferroviaria. 8 - Il tram nel piazzale della stazione.
decisiva per lo sviluppo futuro di quel borgo agricolo. Mentre no all’inizio dell’800 si tendeva a costruire le nuove abitazioni fra il centro e Carpenedo, o verso il Terraglio, dopo l’attivazione della ferrovia lo sviluppo venne “attratto” dalla stazione, e quindi si cominciò a costruire in direzione sud. Con l’avvento della ferrovia cambiarono anche le strutture viarie. Per esempio venne ben presto aperto un asse stradale che partiva dalla stazione e, attraverso le attuali via Cappuccina e via Poerio, giungeva alla piazza del Borgo (poi Piazza Umberto I, oggi Piazza Ferretto) e, attraverso il Castello, si spingeva no a Carpenedo. Per decenni il collegamento fra la città e la stazione fu proprio la via Cappuccina, che era denominata appunto “Viale della stazione”. Da quella strada, superato il passaggio a livello della Bandiera, si sgiungeva in località “Rana” e, lungo via F.lli Bandiera, ci si dirigeva verso Padova. C’era un’altra arteria, meno importante, che giungeva alla stazione: era la via Bachmann, che in corrispondenza dell’omonima villa faceva una curva. Negli anni Venti del ‘900 sarebbe stato realizzato il tracciato rettilineo dell’attuale via Piave.
Novecento, trasformazione di Marghera. Potenziamento del servizio ferroviario nella stazione di Mestre Nei primi anni del ’900 la zona di Marghera subì una trasformazione radicale a partire dal progetto che prevedeva un porto commerciale con banchine modernamente attrezzate e un porticciolo petroli con aree per stabilimenti e depositi. Questo nucleo era circondato da due vaste aree a destinazione industriale a nord e ad ovest, mentre lo spazio alle spalle delle aree industriali veniva destinato alla creazione di un quartiere urbano pensato per una popolazione di 30 mila abitanti. Sulla base di una convenzione i lavori iniziarono nel 1919. Fu necessaria la creazione dei collegamenti stradali e dei raccordi ferroviari. Per una riduzione dei costi, il complesso venne realizzato sulla base di un disegno d’insieme: così per i raccordi venne costruita un’unica rete di binari corredata da fasci di manovra e di presa e consegna dei carri: a quella rete si sarebbero allacciate le varie fabbriche della zona. La Società Porto Industriale di Venezia ne prese in carico l’esercizio. Negli anni successivi si insediarono gli stabilimenti produttivi, a partire dalla Società Cantieri Navali e Acciaierie di Venezia. L’area nella quale stava sorgendo il porto di terraferma e il grande polo industriale passò a far parte del Comune di Venezia. 9 e 10 - In questa pagina: divise di ferrovieri nei primi anni del Novecento: un agente con giacca a doppio petto e cappello ornato di fregi dorati (a sinistra) e una casellante, col suo camiciotto di rasone turchino (a destra).
11 - Nella pagina seguente, in alto: un convoglio trainato da locomotore del gruppo 685 appena partito dalla stazione di Venezia S.Lucia. Realizzate negli anni Venti, queste macchine rimasero in funzione no agli anni Sessanta, raggiungendo la velocità di 100110 km/h. 12 - Nella pagina seguente, al centro: il fabbricato viaggiatori di Mestre costruito intorno al 1880 e rimasto in funzione no a tutti gli anni ‘50 del Novecento. 13 - Nella pagina seguente, in basso: l’attuale fabbricato di stazione (attivato nel 1963) in una foto di qualche decennio fa.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ Riprese quota l’idea - già espressa nell’800 con vari progetti - di un ponte stradale per collegare la città storica con la nuova area produttiva: a questo punto un intervento era urgente anche per permettere ai lavoratori residenti a Venezia di raggiungere gli stabilimenti. Il ponte, su progetto di Vittorio Fantucci e successivo progetto esecutivo di Eugenio Miozzi, venne avviato a costruzione nel 1931 per concludersi in meno di due anni. In coincidenza con l’avvio dei lavori del ponte, venne attivata la fermata ferroviaria di Porto Marghera, pensata per i lavoratori della zona industriale.
Intanto anche nella città di Mestre si stava veri cando una vera e propria esplosione demogra ca. Rimasta pressoché immutata per tutto l’800, dai 10 mila abitanti d’inizio ‘900 la popolazione mestrina intorno al 1920 era raddoppiata, e ancora raddoppiata vent’anni dopo, prendendo quindi a crescere vorticosamente. L’abitato si estendeva rapidamente. Per adeguarsi alle nuove esigenze del servizio ferroviario, anche l’area della stazione subiva graduali modi che e ampliamenti. Nei primi anni del ‘900 era stato compiuto un lavoro di vastissime proporzioni per realizzare nuovi fasci di binari e officine. Ulteriori esigenze si posero per servire il traffico originato dalla nuova zona industriale di Marghera, che si espandeva rapidamente. Venne ampliato il fascio dei binari della stazione di Mestre: prese così forma de nitiva l’ampio scalo merci, la cui costruzione si era sviluppata nell’arco di un trentennio a partire da ne ‘800. Negli anni Trenta, per consentire la costruzione della Squadra Rialzo dedicata agli interventi sul materiale rotabile, venne espropriata un’area occupata sia da case in muratura che da antichi “casoni” che avevano una copertura costituita da fasci di canne palustri. In quegli anni venne attuato anche un ampliamento in zona Giustizia, con costruzione di un nuovo fascio di binari e del cavalcavia Catene-Chirignago. Venne inoltre realizzato l’impianto degli apparati centrali per la sicurezza e il segnalamento: questo nuovo intervento si rese necessario per allacciare a Mestre i binari del Porto Industriale. Un importante cavalcavia venne costruito in prosecuzione del nuovo Corso Principe Umberto (poi Corso del Popolo), per collegare Mestre con Marghera e col nuovo ponte automobilistico per Venezia (aper111
I TRE FUTURI DI VENEZIA to al traffico nel 1933). Fu così possibile eliminare, a quasi un secolo dall’attivazione del servizio ferroviario, il passaggio a livello della Bandiera, che comportava l’attraversamento di tutti i binari della stazione.
Verso una nuova stazione Negli anni ’50 la popolazione riprese a crescere ulteriormente (in quarant’anni passerà da 25 mila a 160 mila abitanti). Per la stazione questo comportava un sensibile incremento del traffico dei viaggiatori e delle merci. Sempre più la stazione ottocentesca risultava inadeguata rispetto alle esigenze. I primi interventi di quegli anni riguardarono l’ammodernamento e potenziamento degli impianti tecnologici. Poi si provvide a sostituire la doppia tettoia con pensiline e si costruì anche il sottopassaggio di accesso ai binari ( no ad allora inesistente). Intanto si progettava un nuovo complesso di edi ci stazione. Nel 1960 si diede avvio ai lavori. Prima si costruirono il fabbricato per i servizi accessori (lato Venezia) e quello per i servizi tecnici (lato Padova); in ne si gettarono le basi del fabbricato viaggiatori, ad un solo piano, lungo 148 metri. I tre distinti edi ci risultarono uniti dalla copertura e dalla pensilina sul primo marciapiedi. Conclusi i lavori nel novembre 1962, la nuova stazione di Mestre venne inaugurata il 17 marzo 1963. Ed è questa la con gurazione ancor oggi esistente.
Binari in città Il territorio urbano di Mestre vive a stretto contatto sico con i binari, perché è attraversato da più linee ferroviarie. Dalla stazione di Venezia Mestre, da un lato, prende avvio la linea a quattro binari per Venezia Santa Lucia: dall’altro si aprono a ventaglio cinque linee che penetrano nell’entroterra nelle direzioni di Adria, Padova, Castelfranco, Treviso, San Donà di Piave. Esiste inoltre una linea di cintura, la cosiddetta “linea dei bivi”, concepita per consentire l’inoltro di treni merci sulle lunghe percorrenze saltando la stazione di Mestre. Questa linea è attualmente dismessa, ma si ipotizza il suo ripristino. Data la presenza di punti di intersezione fra linee ferroviarie e strade, si è posto da sempre il problema dei passaggi a livello. In linea generale, al momento della costruzione delle varie linee ferroviarie, i punti di intersezione sono stati risolti con passaggi a livello controllati da un casellante addetto alla chiusura delle sbarre. Via via il sistema di azionamento delle sbarre è stato automatizzato, consentendo una sempre maggiore sicurezza. Permangono però le limitazioni per il traffico stradale, che si interrompe quando le sbarre si abbassano e può riprendere solo dopo il transito del treno. Complesse trattative fra le FS e gli enti locali competenti hanno portato a sopprimere, uno per uno, gli innumerevoli passaggi a livello mediante la realizzazione di un sottopasso stradale o di un cavalcavia sopra i binari. A Mestre, in tempi recenti, per esempio si è provveduto a chiudere i passaggi a livello alla Giustizia e all’inizio della via Castellana, ma permangono i due situati sulla via Gazzera, che condizionano il transito degli autoveicoli. Le linee che attraversano la città spesso sono ancheggiate da abitazioni. È una vicinanza che comporta inevitabilmente, rumori e vibrazioni al transito dei treni. Dalla nestra, il paesaggio è costituito da rotaie, traversine di cemento, massicciata. Un ampio fascio di binari si trova, naturalmente, in corrispondenza della stazione ferroviaria: non si tratta soltanto dei binari di stazione, ma anche di quelli che costituivano lo scalo merci, un tempo operante a pieno ritmo. Il confronto col passato ci fa ricordare che, no a qualche decennio fa, tutte le stazioni, anche quelle di dimensioni assai modeste, disponevano di un fascio di binari adibiti al servizio delle merci. Dove i convogli venivano scomposti, e i singoli carri venivano agganciati ad altri convogli diretti nelle varie direzioni. A Mestre esisteva una struttura chiamata “sella di lancio” dove i carri, una volta sganciati, venivano spinti no a una “sella” sopraelevata e poi lasciati scivolare, per gravità, verso un certo binario (e, naturalmente, frenati dal manovratore prima dell’impatto col nuovo convoglio). Più binari, più convogli, che poi partivano nelle varie direzioni. Oggi tutto questo è storia personale dei ferrovieri anziani, per la maggior parte delle persone, una realtà sconosciuta. Il servizio merci per ferrovia, infatti, negli anni recenti è stato concentrato in appositi centri intermodali, con tecnologie moderne e un’organizzazione studiata per agevolare lo scambio intermodale. Pertanto, in linea generale, le stazioni non usano più lo scalo merci. In molti casi si sono liberate vaste aree, da riconvertire ad usi di interesse per la città. 112
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ Da un altro punto di vista, il fascio dei binari di stazione costituisce inevitabilmente, da sempre, un elemento di separazione fra l’abitato di Mestre e quello di Marghera, una frattura che ostacola gli scambi. Per superare quella frattura, qualche decennio fa il sottopasso di stazione (che in origine consentiva l’accesso solo lato Mestre) è stato prolungato no a Marghera. Poi il collegamento è stato raddoppiato mediante la creazione di un secondo sottopassaggio lato Venezia, dotato anche di una pista ciclabile. In affiancamento a quest’ultimo è stato realizzato di recente un terzo attraversamento sotterraneo ad uso del tram, e precisamente della linea che collega il centro di Mestre col centro di Marghera e l’adiacente area commerciale. Tuttavia per collegare Mestre e Marghera in modo più funzionale, comodo e attraente, si è ipotizzata la costruzione di una struttura sopraelevata sul tipo di quelle realizzate in altre stazioni (come ad esempio a Roma Tiburtina). In tutte le stazioni di grandi e medie dimensioni si è affermata, nei decenni recenti, la tendenza a puntare sulle attività commerciali (è un orientamento che si va diffondendo a livello internazionale). Nella rete ferroviaria italiana sono presenti 14 grandi stazioni - fra le quali Venezia Santa Lucia e Venezia Mestre - e un centinaio di stazioni di medie dimensioni. Il corpo di fabbrica della stazione (in gergo ferroviario “fabbricato viaggiatori”), dalle origini della ferrovia e no a qualche decennio fa ospitava Capo Stazione e Dirigenti Movimento, con il personale amministrativo e quello addetto alle operazioni di manovra sui treni. Poi sono stati adottati apparati sempre più complessi e so sticati che hanno consentito di regolare e controllare il traffico da una cabina dislocata al di fuori dell’edi cio di stazione (da notare che, dal punto di vista ferroviario, a Mestre c’è una vera e proprio “centrale di controllo” che non sovrintende solo alla circolazione di treni nella stazione, ma ha giurisdizione su un ventaglio di linee che servono un territorio ampio). A quel punto gli spazi interni dell’edi cio sono rimasti liberi e disponibili per usi diversi da quelli tecnici legati alla circolazione dei treni. Ed ecco che, a cinquant’anni dalla costruzione, il fabbricato di stazione è stato sottoposto a un intervento di ristrutturazione degli interni per ampliare gli spazi dedicati al commercio e ai servizi, non soltanto per i viaggiatori ma anche per i residenti. Perchè in stazione non si va solo per prendere il treno: la stazione è un luogo urbano da vivere.
14 e 15 - Due vedute attuali: un passaggio a livello (via Gazzera Alta) e un sottopasso stradale che ha consentito di sopprimere un passaggio a livello (via Castellana).
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La ricostruzione storica riprende i contenuti di due libri pubblicati dall’autrice: Il ponte ferroviario in laguna, Multigraf, Venezia 1987 e La prima ferrovia nel Veneto. Storia della strada ferrata da Marghera a Padova a 150 anni dalla costruzione, Casa Editrice Armena, Venezia 1992.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Turin: regeneration along the railway by Matteo Tabasso and Michela Barosio
In the early 1990s the city of Turin was engaged in a crisis that produced vast widespread abandoned industrial areas, congestion and a general state of decay. The Urban Masterplan approved in 1995 became an instrument for a radical transformation of the city. The most relevant project, besides a series of minor transformations of abandoned industrial areas in various parts of the city, was the “Central Backbone”, a project to establish an urban corridor along the railway line running through the city, lined with huge brown eld areas that needed to be regenerated. The project concurrently addresses several needs – the empowerment of the railroad, new mobility infrastructure, new urban facilities and mixed use buildings – thus becoming a new structural element in the urban reorganization of the city. New neighbourhoods have developed along this backbone, and the result is positive especially in the more central area, though some elements remain critical, such as the architectural quality of certain buildings, the lack of a direct railway connection to the airport and the delays caused by changes to the design of the infrastructure, the consequences of which were not assessed with the proper diligence.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Torino: la trasformazione lungo la ferrovia di Matteo Tabasso e Michela Barosio
La città di Torino, nata in epoca romana, ha di fatto iniziato ad assumere un certo rilievo solo a partire dal XVI secolo con l’assunzione del ruolo di capitale del Regno Sabaudo, poi di capitale del Regno d’Italia nella seconda metà del XIX secolo e, in ne, con la trasformazione in capitale industriale all’inizio del ‘900, dimostrando sempre grande capacità nel reinventarsi. Tra la ne degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso la città ha dovuto nuovamente dimostrare questa capacità trovandosi ad affrontare una profonda crisi dell’industria, che aveva rappresentato l’elemento trainante della città per quasi un secolo. Nel medesimo periodo, oltre alla crisi del comparto produttivo, la città si trovò a vivere anche una profonda crisi politico amministrativa con il susseguirsi di 4 sindaci tra il 1986 e il 1993, no ad arrivare al commissariamento. La città si trovava a vivere uno dei periodi più bui della propria storia. L’occasione per una ripartenza fu rappresentata dalla riforma della legge elettorale e l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco. Con la nuova legge, il sindaco eletto veniva a disporre di maggiore visibilità e leadership, aveva la possibilità di nominare direttamente i membri della propria giunta ed assumeva maggiori responsabilità e poteri. La scelta dei cittadini cadde su un pro lo tecnico, Valentino Castellani, il cui programma prevedeva di superare la monocultura industriale promuovendo lo sviluppo di altri settori quali il terziario e le attività culturali. In particolare la strategia della nuova amministrazione per la rigenerazione della città si fondava su quattro assi di intervento: - riquali cazione urbana, - supporto alla ricerca e alle imprese di livello avanzato, - inclusione sociale e coinvolgimento, - cultura, turismo e iniziative e strutture sportive. Per quanto riguarda il primo punto, una scelta sicuramente vincente fu rappresentata dalla decisione di accorpare le deleghe in materia di urbanistica e trasporti e di affidarle a un tecnico con grandi capacità e visione, Franco Corsico, a cui va il merito di essere riuscito a portare a compimento in tempi brevissimi l’approvazione del Piano Regolatore Generale, elemento di fondamentale importanza per consentire alla città di ripartire e a guidarne l’avvio dell’attuazione. La trasformazione di Torino avvenuta negli ultimi anni, che affonda le proprie radici nella storia della città, deve infatti il suo innesco proprio all’approvazione de nitiva del Piano Regolatore Generale avvenuta nel 1995. In quegli anni, i segni delle due epoche che avevano caratterizzato la città negli ultimi due secoli, quella di Capitale e quella industriale, risultavano ben evidenti nella struttura della città: a un centro storico aulico, testimonianza della Città Capitale, si contrapponeva, infatti, immediato intorno caratterizzato dalla linea ferroviaria e dalle numerose aree produttive sviluppatesi lungo la stessa nell’epoca dello sviluppo industriale. Il Piano prevedeva, da un lato l’avvio di un profondo processo di trasformazione delle numerose aree industriali dismesse e, dall’altro, il potenziamento dell’infrastruttura ferroviaria. L’esigenza di potenziare la linea ferroviaria con la realizzazione di una linea passante e quella di eliminare, contestualmente, la frattura provocata dalla trincea ferroviaria all’interno della città consolidata, avevano trovato una risposta nella proposta di in-
1 - La copertura del quadrivio ferroviario Zappata, da anni in attesa di una vocazione. 2 - Nuova edilizia residenziale in Spina 3.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA terramento dei binari che faceva spazio, in super cie, a un nuovo viale. Questo, sviluppandosi come asse di scorrimento in direzione nord-sud, avesse una funzione di collegamento tra le nuove aree in trasformazione insediate sugli oltre 2 milioni di metri quadrati di aree dismesse consentendo, contestualmente, di connettere le due porzioni di città collocate a est e ovest rispetto alla linea ferroviaria. Il nuovo viale proposto dal Piano Regolatore, che si estende per oltre 6 chilometri, ed è oggi in fase di avanzata realizzazione, si veniva quindi a con gurare come l’asse delle trasformazioni urbane, conosciuto con il nome di “Spina Centrale” . La duplice funzione, urbanistica e trasportistica, del progetto della Spina Centrale ha assunto particolare rilevanza grazie alla previsione di realizzare, in corrispondenza di ciascun ambito di trasformazione, una stazione o una fermata ferroviaria in modo da consentire l’uso della linea come servizio di trasporto a livello metropolitano. Le 6 stazioni della tratta urbana (da sud a nord: Lingotto, Zappata, Susa, Dora, Rebaudengo e Stura)1 grazie al passante ferroviario potranno essere servite dai treni del servizio ferroviario metropolitano con una frequenza assimilabile a quella di una linea di metropolitana grazie al passaggio lungo la medesima tratta di attraversamento della città, di diverse linee ferroviarie provenienti dalle diverse direttrici extra urbane, opportunamente cadenzate. In corrispondenza di tali stazioni, ispirandosi al concetto di Transit Oriented Development (TOD), il Piano prevedeva lo sviluppo, in sostituzione delle aree industriali, di nuove centralità urbane: quartieri caratterizzati da elevate densità edi catorie e da un mix di funzioni volto a garantirne una opportuna vitalità. In particolare, nell’attuale contesto di trasformazione culturale di Torino, sempre meno città industriale e sempre più città universitaria e polo di ricerca e innovazione, lungo l’asse della Spina si sta consolidando e rinforzando la presenza di centri di avanguardia, dando origine a quello che è stato recentemente denominato il “miglio dell’innovazione” e che include, da nord a sud, l’Environment Park, il polo SNOS, la nuova stazione Alta Velocità di Porta Susa, la torre della banca Intesa Sanpaolo, il Politecnico con i centri di ricerca ad esso collegati, l’incubatore di imprese I3P, l’Energy Center e gli uffici della General Motors. Contestualmente, alle spalle di questi grandi poli dell’innovazione e della ricerca, su aree che avevano ospitato grandi attività produttive si ricompone il tessuto urbano e si sviluppano nuovi quartieri con residenze, attività terziarie, parchi e altri servizi urbani sia pubblici sia privati.
I nuovi quartieri Se il cambio di prospettiva della città risulta evidente dalla profonda trasformazione del centro storico con la riquali cazione delle grandi piazze auliche della città e i numerosi interventi di pedonalizzazione, che evocano il cambio di paradigma (da città per le auto a città per i cittadini), è lungo l’asse ferroviario che gli effetti del Piano hanno prodotto il cambiamento più evidente con la realizzazione di nuovi quartieri in sostituzione dei grandi insediamenti produttivi dismessi. I quattro ambiti in cui l’asse della Spina è articolato (Spina 1,2,3,4) vengono concepiti, n dall’inizio, con vocazioni diverse. Li accomuna la continuità del tracciato viario, ad oggi non ancora del tutto ultimato, che si struttura sopra la linea ferroviaria oggi completamente interrata, e la presenza di grandi aree industriali dismesse da trasformare attraverso indici di edi cabilità inizialmente nettamente sopra la media, poi rivisti al ribasso coerentemente con i mutamenti del mercato immobiliare. La Spina 1 rappresenta il tratto più a sud della Spina Centrale e occupa la fascia compresa tra i corsi Rosselli e Peschiera. Qui l’attuazione del Piano Regolatore tra il 1996 e il 2000 realizza la prima tranche del faraonico interramento dei binari della ferrovia, ricucendo due brani di città no ad allora separati, con la realizzazione di un grande boulevard urbano caratterizzato da totemici corpi illuminanti bianchi e da un ambizioso programma di opere d’arte urbana tra cui l’igloo di Mario Merz. In quest’area, all’inizio degli anni Duemila, su aree prevalentemente di proprietà della Materferro, vengono realizzate, su progetto di Jean Nouvel, nuove residenze inframmezzate da piazze minerali, piste ciclabili de nite da tti lari di carpini e pioppi cipressini e giardini tematici caratterizzati da vegetazione scalare, con alberi di diversa grandezza, che de niscono funzioni differenti. Le tipologie residenziali proposte sono innovative per il panorama torinese laddove osano terrazzi e logge in abbondanza. Anche se la quantità di nuove 116
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3 - Planimetria degli interventi.
residenze realizzate è importante, non si è trattato qui di creare un nuovo quartiere, quanto piuttosto di densi care e ricucire il margine, prima invalicabile, tra il quartiere Crocetta e il quartiere San Paolo. L’arrivo di nuovi abitanti ha permesso di vivacizzare e intensi care i servizi commerciali di cui erano già abbondantemente dotati i quartieri limitro . La congiuntura economica favorevole, il mercato immobiliare ancora orente e la stabilità politica dei primi anni duemila, hanno consentito di raggiungere qui una notevole qualità sia architettonica, sia dello spazio urbano. L’apertura concomitante della fondazione Merz e della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo hanno poi contribuito a dare una nuova identità culturale al quartiere, che ha saputo trasformare la sua identità industriale in una vocazione all’arte contemporanea, testimoniata anche da un ambizioso programma di opere d’arte urbana. Il secondo tratto della Spina Centrale, Spina 2, anch’esso realizzato a partire dalla ne degli anni Novanta e oggi in corso di ultimazione, si trova a cavallo tra due quartieri 117
I TRE FUTURI DI VENEZIA
4 - Il raddoppio del Politecnico sulla Spina 2.
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(Cenisia e Crocetta) storicamente strutturati e densamente popolati. Qui la trasformazione urbana è consistita essenzialmente nel localizzare sulle grandi aree dismesse nuove infrastrutture urbane sia pubbliche, sia private. In quest’area infatti è stato realizzato il raddoppio del campus del Politecnico, che comprende aule, laboratori, centri di ricerca, uffici e residenze universitarie, la nuova stazione ferroviaria di Porta Susa e il grattacielo, che ospita la nuova sede centrale del gruppo Intesa San Paolo. Nell’area di fronte al grattacielo era prevista la nuova biblioteca civica, su progetto di Mario Bellini, mai realizzata, e qui sono in corso di ultimazione il tratto intermedio del grande viale centrale della Spina e la trasformazione dei maestosi edi ci delle Officine Grandi Riparazioni, ad opera della Fondazione CRT. Non si può quindi, in questo caso, parlare di nuovo quartiere, nel senso di insediamento di nuovi abitanti, ma piuttosto di quartiere rinnovato attraverso l’espressione della crescente vocazione culturale e universitaria della città. Il terzo tratto della Spina Centrale, proseguendo verso nord, denominato Spina 3, è compreso tra la ferrovia e Corso Potenza, Corso Regina e via Foligno. Con un’estensione di oltre un milione di metri quadri e un investimento complessivo di 800 milioni di euro si tratta dimensionalmente dell’area di trasformazione urbana più importante della città. Fino agli inizi degli anni Novanta l’area costituiva un polo siderurgico di rilevanza nazionale. La totale dismissione delle attività siderurgiche qui localizzate ha portato ad una radicale trasformazione di questa porzione di città. Qui, attraverso l’introduzione e il nanziamento di programmi urbanistici complessi, si sono attuate, anche se con molte varianti, le previsioni del Piano Regolatore che delineava un nuovo quartiere prevalentemente residenziale incentrato intorno ad un grande parco affacciato sulla Dora, il ume “industriale” di Torino, anch’esso risanato. Per l’ambito di Spina 3 sono previste anche destinazioni terziarie, di artigianato e di produttivo “leggero”, un centro commerciale e un polo tecnologico (EuroTorino) comprensivo di attività di ricerca, universitarie, espositive e congressuali. Si tratta, di fatto, dell’unico ambito della Spina in cui viene trattato il tema della riconversione produttiva e non della mera sostituzione con altre funzioni. Questo nuovo, enorme, brano di città è stato realizzato grazie anche ai cospicui nanziamenti derivanti dall’attribuzione dei giochi olimpici invernali del 2006 alla città di Torino. Proprio nell’area di Spina 3, infatti, sono stati realizzati i principali villaggi olimpici destinati agli atleti e ai giornalisti. Con una lungimiranza non sempre riconosciuta, l’amministrazione pubblica si è all’epoca premurata di richiedere i progetti esecutivi non solo per le residenze olimpiche, ma anche per la loro successiva trasformazione in residenze in parte destinate al mercato libero e in parte a residenze convenzionate. Se la qualità architettonica di questi nuovi interventi è spesso stata, probabilmente a ragione, criticata, occorre però riconoscere che l’amministrazione è riuscita ad evitare che questa parte del patrimonio edilizio post-olimpico andasse perso e, al tempo stesso, è riuscita a ricucire il quartiere Madonna di Campagna con il centro città tramite un tessuto urbano denso e vivace. Nell’area è purtroppo stato demolito gran parte del patrimonio edilizio industriale di cui sono stati conservati unicamente alcuni elementi isola-
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ ti, ma soprattutto si è cancellata, insieme agli edi ci, la struttura urbana che legava funzionalmente, visivamente e simbolicamente i comparti industriali e il tessuto circostante cresciuto nel tempo intorno alla realtà produttiva. In sostituzione di parte degli insediamenti industriali demoliti è stato realizzato un parco urbano di 450.000 mq, già compreso nella visione del Piano Regolatore, anche se con notevoli difficoltà legate alla boni ca dei sedimi industriali, rivelatasi più complessa ed onerosa del previsto. Ad oggi il parco comprende un’area su soletta armata sopra la quale è stata mantenuta l’originale struttura metallica del principale fabbricato industriale di proprietà della Teksid, che costituisce uno spazio di aggregazione multietnica e multifunzionale molto importante per l’area settentrionale della città. Il nodo ancora irrisolto per il nuovo quartiere sono i servizi non realizzati o realizzati in modo insufficiente rispetto alla popolazione che ha ormai raggiunto gli oltre 27.000 abitanti. A nord di stazione Dora, sempre in corrispondenza dell’originario tracciato della ferrovia oggi trasformato nel passante sotterraneo, il Piano Regolatore del 1995 indicava l’ultimo ambito della Spina, Spina 4. L’ambito si sviluppa lungo l’asse di corso Venezia, a partire da piazza Baldissera, su cui insiste Stazione ferroviaria Dora, per nire all’altezza di corso Grosseto, attraversando in ultimo il parco Sempione. L’interramento del passante ha comportato sia l’allargamento di corso Venezia, in conformità con il resto del viale della Spina, sia l’allungamento dello stesso corso che, nel tratto nale dovrebbe in futuro riallacciarsi al raccordo autostradale per Caselle. Si tratterà, in buona sostanza, del nuovo accesso a nord della città, che permetterà un più facile e veloce collegamento fra Torino e l’aeroporto di Caselle, ma che per ora è ben lontano dal realizzarsi. Nonostante sia stato oggetto di un concorso internazionale, Metamorfosi (2010), che ha visto la partecipazione di numerosi gruppi di progettazione di livello europeo, l’area di Spina 4, anche a causa della mutata congiuntura economica, non ha suscitato grande interesse nei potenziali investitori. Le uniche trasformazioni ad oggi ultimate riguardano la parte di Spina 4 più vicina al centro cittadino, lungo la via Cigna dove, demolendo edi ci industriali dismessi, sono stati costruiti nuovi edi ci residenziali e un nuovo centro commerciale. Sempre sull’asse di via Cigna è in fase di ultimazione il Parco Spina 4 e il recupero dell’ex INCET, complesso produttivo riconvertito in centro polifunzionale, loft, ristoranti, comprensivo di una caserma dei carabinieri e di un asilo. Nel 2015 è stata completata con successo la trasformazione di un edi cio industriale dismesso nel Museo Ettore Fico. Il grande asse della Spina si sviluppa all’insegna della trasformazione degli edi ci produttivi in nuovi spazi dell’arte contemporanea, dal il Museo Merz al Museo Ettore Fico. Proprio per rendere questa zona della città più appetibile, la precedente amministrazione comunale aveva proposto il collegamento della stazione del Servizio Ferroviario Metropolitano di Rebaudengo con la linea 2 della Metro. I pesanti costi di sistemazione degli spazi pubblici, qui previsti in grande quantità, a fronte delle scarse aree a destinazione residenziale, e quindi dei ridotti oneri di urbanizzazione previsti, uniti al cambio di amministrazione rendono tuttavia incerta l’attuazione della nuova linea così come inizialmente pensata.
5 - La nuova stazione di Porta Susa nell’ambito di Spina 2.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Ma osservando l’asse ferroviario su cui si sviluppa la “Spina Centrale”, ci si rende conto che di fatto essa rappresenta un tratto del più ampio asse che va oltre i quattro ambiti di intervento denominati Spina 1, 2, 3 e 4, estendendosi a sud no all’area del Lingotto e a nord no alla stazione Stura. Su queste aree, infatti, sono in atto profonde trasformazioni: a sud, nell’area del Lingotto, la realizzazione della Nuova Sede Unica della Regione Piemonte, in costruzione, e la possibile collocazione della futura Città della Salute; a nord è sono stati proposti alcuni progetti connessi alla Spina 4 (“Variante 200”) nonché la trasformazione delle grandi aree ex industriali lungo l’asse di Corso Romania, no al con ne con la città di Settimo Torinese. Come per quelli precedentemente descritti, anche questi ambiti di trasformazioni sono caratterizzati dall’integrazione tra lo sviluppo urbano e il trasporto pubblico.
Molte luci e qualche ombra Le trasformazioni urbane vissute dalla città di Torino negli ultimi vent’anni rappresentano sicuramente un caso unico per dimensione e rilevanza a livello Italiano ed europeo e hanno consentito alla Città di rispondere positivamente alla crisi dell’industria manifatturiera e adeguarsi alla transizione da città della produzione a città plurale aperta alla ricerca, all’innovazione e alla cultura pur mantenendo alcuni elementi di eccellenza legati al mondo dell’impresa. La Spina Centrale è il progetto che maggiormente testimonia la recente trasformazione della città e, dal punto di vista urbanistico, anche se ancora in parte incompleta, rappresenta sicuramente un intervento di successo. Nonostante ciò, come spesso accade, a risultati di grande valore si contrappongono alcuni elementi per cui più che parlare di insuccessi è possibile rilevare alcune occasioni perse. Tra queste, uno degli elementi che ha suscitato le maggiori critiche riguarda la qualità architettonica degli edi ci, non ritenuti all’altezza di una grande trasformazione urbana di livello europeo. Un’altra criticità riguarda la modi ca del progetto iniziale del passante ferroviario che prevedeva che l’abbassamento del piano del ferro venisse realizzato partendo dal cosiddetto quadrivio Zappata, a nord della Stazione Lingotto, per poi riemergere a sud del ume Dora e proseguire in galleria arti ciale, o trincea, no al con ne nord della città. Nel tentativo di migliorare il progetto, tra il 2002 e il 2003, con appalto già assegnato, la Giunta Comunale, in accordo con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Regione Piemonte e RFI, decise di modi care il progetto originario, che prevedeva di attraversare la Dora sul ponte esistente, approvando l’interramento del passante sotto il livello del ume. Tale modi ca altimetrica, se da un lato consentiva di estendere la ricucitura tra le due parti di città, dall’altro comportava un notevole incremento dei costi (circa 300 milioni) e dei tempi, e impediva, di fatto, la prevista realizzazione del collegamento ferroviario con l’aeroporto di Caselle. Tale collegamento, che necessitava di un intervento di dimensioni assai modeste, avrebbe dovuto essere completato per i Giochi Olimpici del 2006 ma la modi ca altimetrica ha reso impossibile la connessione tra le linee ferroviarie, portando a considerare un nuovo progetto che prevede oggi la realizzazione di un nuovo tunnel sotto Corso Grosseto con un costo aggiuntivo di 180 milioni di euro e un incremento dei tempi di realizzazione di almeno 4 anni. Le ridotte capacità nanziarie della città, dovute anche ai costi sostenuti per estendere l’interramento della ferrovia verso nord sottopassando il ume Dora, hanno portato a una radicale modi ca del progetto di arredo del Viale della Spina vani cando l’iniziale intento di conferire ai quasi 7 chilometri di viale un carattere omogeneo e riconoscibile. Il progetto iniziale prevedeva infatti per tutta l’estensione del viale una sistemazione super ciale caratterizzata da notevoli quantità di piantumazioni e un sistema di illuminazione di notevole impatto visivo, volto a conferire un carattere di unitarietà al viale e a raccordare il viale centrale con gli edi ci affacciati sullo stesso. Le soluzioni di arredo urbano (pali di illuminazione, piantumazioni, ecc...) del boulevard a nord di piazza Statuto, recentemente portato a termine, non mantengono invece la medesima con gurazione dei tratti realizzati in precedenza, in ciando così l’unitarietà prevista dal progetto originale e comunicando l’idea che la porzione a nord, più periferica, rappresenti un ambito di serie B, attraversato da una superstrada e non da un imponente viale urbano (come è invece il tratto realizzato tra Spina 1 e Piazza Statuto). Un’ulteriore occasione mancata riguarda l’attivazione di alcune delle stazioni del Servizio Ferroviario Metropolitano a servizio dei quartieri che si sviluppano lungo l’asse della Spina Centrale. La mancata messa in esercizio di due delle sei stazioni previste lungo 120
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ il passante ferroviario, nella fattispecie Dora e Zappata, di fatto limita notevolmente l’efcacia del Servizio Ferroviario Metropolitano per gli spostamenti all’interno della città. In ne, proprio nell’area della futura stazione Zappata, sulla Spina 1, la copertura del quadrivio ferroviario si presenta tutt’ora come una spianata verde priva di carattere e di funzionalità. Per questo motivo la circoscrizione ha recentemente attivato un processo partecipativo mirato ad individuare possibili soluzioni per conferire all’area maggiore vitalità e carattere.
Conclusioni Il “caso Torino” ci permette di osservare come lo sviluppo del trasporto pubblico, associato all’implementazione della viabilità, urbana e non, costituiscano senza dubbio un motore efficace, ma non sufficiente, sia per la rigenerazione urbana sia per l’incremento della rendita urbana. Per garantire nuovi quartieri di qualità, o rivitalizzare quartieri esistenti in crisi, infatti, oltre a una migliore accessibilità è necessaria la realizzazione di servizi e di spazi pubblici di alto livello che favoriscano l’insediamento della popolazione garantendo un buon standard di vita. Così, ad esempio, Spina 1 e Spina 2 che si trovano in contiguità con aree urbane già provviste di servizi e sulle quali sono stati realizzati nuovi spazi pubblici di qualità, hanno tratto enormi bene ci sia dal nuovo sistema di viabilità super ciale sia dallo sviluppo del sistema ferroviario e della metropolitana: questi hanno permesso di attrarre ulteriori servizi, e quindi popolazione, innescando un meccanismo virtuoso. Non hanno tratto gli stessi bene ci dalla realizzazione del viale Centrale e del sistema metropolitano le più periferiche aree di Spina 3 e Spina 4. Nella prima, la mancata realizzazione di servizi essenziali previsti (come il poliambulatorio medico o il centro di aggregazione) e la bassa qualità urbana dell’ultimo tratto dell’asse viario, che avrebbe dovuto costituire il culmine urbano della Spina stessa e del quartiere, hanno rappresentato un limite importante nel processo di rigenerazione dell’area che, pura avendo attratto una grande quantità di nuova popolazione, non riesce oggi risolvere completamente i problemi sociali presenti, né adeguare i valori immobiliari alla qualità e alla posizione della zona. Ancora più gravi sono le condizioni in cui versa la Spina 4 dove, forse perché non ancora compiutamente collegata dalla linea di trasporto metropolitano prevista, non si è riusciti a generare un nuovo brano di città, ma solo a costruire grandi contenitori residenziali, senza connessioni né servizi, e ancora in gran parte non occupati. Oggi, venuta meno la spinta propulsiva che aveva caratterizzato la città olimpica e complice anche la perdurante crisi economica, Torino si trova a dover affrontare una nuova s da che dovrà necessariamente partire dalle periferie, che hanno bene ciato in maniera minore dei bene ci prodotti dalle trasformazioni degli ultimi decenni e dove la crisi in corso ha avuto gli effetti più dirompenti. L’auspicio è che, ancora una volta, la città sappia risollevarsi trovando nuove s de e nuovi stimoli per mantenere e rilanciare il proprio ruolo. © Riproduzione riservata
Nota Le fermate Zappata e Dora sono state realizzate in sotterranea, ma i lavori necessari al loro completamento e messa in esercizio sono fermi.
Bibliogra a Barosio M. (2009), L’impronta industriale, Franco Angeli, Milano Corsico F. (2011) Il rinnovo urbano di Torino: dalle idee alle realizzazioni in La Nuova Torino a cura di Marco Brizzi e Maurizio Sabini, Alinea Editrice De Pieri F. (2009), La ferrovia nella città: progetti, cantieri, dibattiti. In P. Sereno, Torino, reti e trasporti. Strade, veicoli e uomini dall’antico regime all’età contemporanea, Archivio Storico della Città, Torino, pp. 191-217. 121
I TRE FUTURI DI VENEZIA
The vanishing infrastructure. The new ground of the Sagrera High-Speed Railroad Station in Barcelona by Zeila Tesoriere
The ongoing mega-project for the railway station at Barcelona Sagrera shows the link between the construction of the new High Speed station and a vast linear park that will cover the existing railroad tracks. In the framework of one of the largest and most ambitious railway and urban redevelopment projects currently planned in all of Europe, this article focuses on the subordination of the Station to the park: apart from the issue of mere physical location (the station is literally under the park), it can be reconsidered in the light of the theoretical debate concerning the role of architecture in these truly signi cant urban regeneration processes. The titanic size of the park underscores its overwhelming transformative role. Moreover, it reveals the underlying vision of the city, which connects districts at surface level addressing the park as an urban shaper, a cohesive element, while the architecture disappears underneath this new ground level. Questioning how architecture can still matter in contemporary big-picture planning, the article rst reports on the two parallel planning processes, then argues for a transfer of representation, of symbolic and architectural values from the station to the park. This would achieve the integration between the park and the station at an iconic, imaginary level, rather than at the eective level of design. In these terms, the disappearance of the station, frequently identi ed with the park, questions how architecture can ful l the promises of such largescale projects. Finally, the article assesses how, in the case of Sagrera, hiding the architecture seems to be the right answer, if the goal is to reconcile the massive investment in infrastructure with the new paradigm of sustainability.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
L’infrastruttura scomparsa. Il nuovo suolo della stazione Sagrera Alta Velocità a Barcellona di Zeila Tesoriere
Le operazioni in corso a Barcellona nel quartiere de la Sagrera mostrano il legame fra la costruzione della nuova stazione per l’Alta Velocità e la realizzazione di un immenso parco lineare, impiantato sulla nuova super cie ottenuta coprendo i preesistenti binari della ferrovia. Esso si snoda lungo quasi quattro chilometri, andando dall’estrema periferia del paseo di Santa Coloma - nel punto in cui attraversa il corso d’acqua Besòs e in adiacenza alla ronda de Dalt - attraverso i quartieri di Sant Andreu, Sant Martì, la Sagrera, sino ai margini del centro storico, sul carrer de Espronceda - prossimo alla plaça de Les Glòries Catalanes e al Poblenou, aperto sul mare. Nella cornice di queste mastodontiche trasformazioni, la nuova stazione per le linee ad alta velocità si colloca nell’area di Sant Andreu-Sagrera e consiste in un edi cio in gran parte interrato, di cui alcuni volumi escono fuori terra per articolare gli accessi a cavallo delle due quote fra il Carrer del Clot e della Ronda de Sant Martì. La subordinazione della Stazione al parco non è solo nella sua collocazione sica, essendo l’edi cio letteralmente inferiore al parco. L’arrivo dell’Alta Velocità a Barcellona è stato inserito in una strategia di articolazione delle relazioni fra infrastruttura e città ormai nota: interrare la stazione e i binari (nuovi o preesistenti) e destinare le nuove super ci ottenute a parchi urbani per ricucire parti di città da tempo separate dalla ferrovia, rilanciando il mercato dei suoli nelle aree interessate. In questo caso, però, non solo i caratteri della stazione rispetto a quelli del parco, ma anche la sostanziale identi cazione della stazione con il parco indicano un cambiamento rispetto a progetti che partivano dalle stesse premesse e che mostrano conclusioni differenti. Al progetto di un edi cio di infrastruttura ipogeo si sostituisce qui la scomparsa della sua architettura. La stazione interrata è solo supporto logistico al complicato trasporto ferroviario ad Alta Velocità, ma appare priva delle sue dimensioni rappresentative e iconogra che, trasferite al parco insieme alla tradizionale capacità dell’architettura di elaborare in una sintesi spaziale e formale questioni urbane, disciplinari, culturali e paradigmatiche dell’epoca che l’ha prodotta. In riferimento al caso de la Sagrera, alcune ri essioni sosterranno qui l’ipotesi che la modernizzazione dell’infrastruttura ferroviaria compiuta dall’Alta Velocità non sia affatto un processo di aggiornamento solo tecnologico. Piuttosto, essa si attua come trasformazione profonda delle condizioni che guidano il progetto e, nell’articolazione con i fatti urbani, delinea un nuovo scenario in cui l’architettura interviene ride nendo le relazioni fra le materie del progetto e la città. In questo quadro, l’autonomia gurale del suolo si pone fra le principali innovazioni progettuali.
Il quadro complessivo delle operazioni Nel quadrante nord di Barcellona, la costruzione della linea ferrata in comunicazione con la Francia realizzò alla ne dell’Ottocento un largo fascio di binari che tranciando i quartieri di Sant Martì e Sant Andreu, ne condizionò pesantemente lo sviluppo successivo. Durante il Novecento, questa condizione venne interpretata in una logica funzionalista accostando alle aree ferroviarie altre zone industriali1, specialistiche e intercluse, che come sempre avrebbero tratto pro tto dal coordinamento logistico con la ferrovia, rafforzando questa con gurazione sino all’ultimo trentennio del XX secolo2. All’inizio degli anni 1990, in corrispondenza della rinascita indotta dai giochi olimpici, nuovi approcci guidarono la città a un obiettivo di rilancio complessivo - attraverso la
1 - Planimetria del tratto di parco corrispondente al triangolo ferroviario. In basso, la Torre Sagrera, progetto di Frank Gehry. Fonte di tutte le immagini che accompagnano questo saggio: Barcelona Sagrera Alta Velocitat - BSAV.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA sua immagine - legando la rigenerazione economica e sociale alla riquali cazione della fascia centrale del litorale e all’ulteriore potenziamento delle relazioni urbane fra spazi pubblici, servizi e sistema viario. Negli stessi anni aveva avuto inizio il processo di dismissione del tessuto industriale dell’area, che si candidava così a costituire un’imponente riserva fondiaria per future trasformazioni. Gli interessi della municipalità trovarono una sollecitazione nell’iniziativa di un gruppo di architetti e abitanti che già nel 1983 coinvolse Norman Foster nell’elaborazione di una prima proposta3. Si trattava di un masterplan radicale, che estendeva le trasformazioni sulle aree industriali dismesse a quelle ferroviarie, (de nendo un’area congruente con quella oggi in cantiere), proponendo un ume arti ciale fra il quartiere della Trinitat e las Glòries, lungo le cui rive sarebbe sorto un parco. Questa ipotesi iniziale mostrava le potenzialità di un’area trasversale di grandissima scala, che si ponesse come fuso rigeneratore per riconnettere il tessuto, e confermava la sequenza degli ambiti in questione come la principale risorsa di suolo urbano su cui concentrare le strategie di rigenerazione nel periodo post-olimpico. La costruzione di una cornice in cui le risorse economiche, gli strumenti legislativi e le proiezioni urbanistiche permettessero di procedere si è consolidata nei vent’anni successivi. Nel 1996 si giunse all’approvazione di una variante al PGM dell’ambito Sant Andreu Sagrera4, che già allora stabiliva la copertura dei binari e la creazione di un parco lineare (ipotesi cadetta di quella di N. Foster, in cui il parco era solo elemento di bordo del ume arti ciale, in realtà irrealizzabile). Negli anni seguenti, la costruzione della rete di Alta Velocità ferroviaria per la connessione di Barcellona a Madrid e, sull’altro versante, alla Francia, ha poi de nito il sostegno nanziario alle opere già tratteggiate. Nel 2001, il Ministero dello Sviluppo e la municipalità di Barcellona hanno convenuto un protocollo di cooperazione per lo svolgimento delle opere legate all’arrivo del Ferrocarril a Alta Velocitat, riprese in un ulteriore accordo del 2002 esteso alla Generalitat, più esplicito rispetto alla stazione della Sagrera e alle opere a questa connesse. Il concreto avvio delle operazioni si è avuto nel 2003, con la creazione della Societat Barcelona Sagrera Alta Velocitat (BSAV)5, costituita per coordinare l’insieme degli interventi corrispondenti all’attuazione dell’Alta Velocità a Barcellona e sviluppare le trasformazioni che questi interventi avrebbero determinato nell’ambito Sant Andreula Sagrera. Nella futura Europa delle macro regioni, dunque, questa infrastruttura sarà
2 - Localizzazione delle trasformazioni complessive legate alla Stazione Barcellona Sagrera Alta Velocità. Con le lettere si evidenziano le linee di connessione con i quartieri di bordo. A destra, il ume Besòs.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ il vettore sico determinante nel polo Barçe-Lyon, uno dei prossimi dodici nodi che avranno un ruolo negli equilibri di potere economico, territoriale e sociale europeo6. Gli interventi coordinati su quest’enorme area dovrebbero garantire, com’è comprensibile, l’ulteriore potenziamento del ruolo di Barcellona nell’economia del turismo europeo, basato sull’attrattiva sintesi di bellezza, modernità e mediterraneità che l’immagine della città ha ssato in corrispondenza dei giochi olimpici. Qualsiasi riduzione in cifre delle operazioni lascia intendere l’impatto che i lavori avranno sul territorio. Su 168 ettari di super cie coinvolta, 38 ettari saranno derivati da quella che si pone come la più ampia operazione di interramento di vie ferrate dell’intera Europa; 48 ettari saranno destinati a nuovi parchi di congiunzione fra quartieri della città separati da più di un secolo da ferrovie preesistenti e 20 ettari a nuovi servizi. La nuova stazione è stata dimensionata per accogliere cento milioni di passeggeri l’anno, riunendovi la connessione fra ogni modalità di trasporto (Alta Velocità, traffico nazionale, regionale e di prossimità, metropolitana, parcheggio intermodale). Inoltre, l’insieme delle operazioni trova a sua volta un coordinamento con il settore 22@, nel Poblenou, che oggi vede in cantiere circa 200 ettari di ex aree industriali rigenerate attraverso la nuova cittadella della conoscenza tecnologica. La dimensione titanica del parco, che predispone una colata di nuove aree verdi ciclopedonali distribuite su cinque ambiti di intervento concatenati, ne lascia intendere il ruolo trasformativo soverchiante e al tempo stesso consente alcune ri essioni sul signi cato della sua scelta come strumento di coordinamento. In questo caso appare chiaro il ricorso a una forma di insediamento tutta strutturata sullo spazio pubblico, di totale permeabilità e accessibilità, per risolvere la questione posta dalla connessione di un’importante porzione urbana i cui quartieri sono stati per più di un secolo separati dalla ferrovia. La cubatura sarà concentrata in edi ci isolati, destinati a uffici, servizi e, in quantità inferiore, alle residenze. La congiunzione urbana in questo caso non sarà raggiunta con nuovi edi ci che riannodano i rapporti urbani, ma con la predisposizione di una super cie attraversabile a raso coordinata dalle varianti progressive di un’unica idea di progetto. Interpretando le preesistenze - in maggioranza edi ci industriali e militari - come se si trattasse di elementi incapaci di fornire indicazioni per ulteriori trasformazioni; e predisponendo opportune varianti al PGM per demolirle la premessa al parco è quella di connettere in assenza di tessuto, utilizzando i nuovi volumi come elementi di orientamento visivo (o di richiamo iconico, come si ambiva attraverso il grattacielo progettato da Frank O. Gehry per il triangolo ferroviario7). Il quadro complessivo pone quindi non solo il tema del modo in cui l’ammodernamento del trasporto ferroviario sollecita la trasformazione della Stazione, ma anche del ruolo complessivo che l’architettura può assumere in trasformazioni urbane di questa entità, e degli impianti formali che le permettono di assumerlo.
3 - Parco lineare del Camì Comtal, sezioni trasversali sul Mosaico di Sant Andreu; sui Welcome gardens della stazione; sui giardini dell’Agorà e sulle fontane del Camì Comtal.
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La stazione e il parco
4 - Stazione Barcellona Sagrera Alta Velocità, Patio per i transiti intermodali. 5 - Ingresso dal Carrer del Clòt. 6 - La Torre Sagrera, progetto di Frank Gehry, modello.
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Una volta completata, la stazione Sagrera sarà il più grande edi cio pubblico di Barcellona. Essa è il principale motore economico delle operazioni, di cui ha determinato inoltre il supporto normativo. Eppure, la strategia di intervento ha attribuito allo stesso edi cio un ruolo di proporzione inversa nella soluzione architettonica e urbana delle questioni. Le linee di indirizzo del progetto, relative al suo interramento, alle sezioni tipo e alla localizzazione dei volumi fuori terra, sono state elaborate fra il 2005 e il 2009 dalla Società BSAV attraverso la consulenza del gruppo Sener Ingeniería y Sistemas, S.A – GPO Ingeniería S.A , per poi de nire attraverso un’ultima fase di concorso pubblico il Proyecto Constructivo de la Estación de la Sagrera, vinto nell’ottobre del 2008 dalla TAEC_ Sagrera, formata da Taller de Arquitectos Colaboradores s.l.p (TAC arquitectes) insieme a TEC 4 Ingenieros Consultores8. Elaborato con una sequenza di avanzamenti tecnici, l’edi cio ha una sezione di 5 livelli sotterranei sovrapposti, per assicurare la gestione dei ussi intermodali, con una la di volumi fuori terra che organizza gli accessi a cavallo delle due quote diverse sui due ambiti opposti di Sant Martì e della Sagrera. La principale caratteristica architettonica dell’edi cio è un’ondina metallica da plantumare che fa da copertura a una linea di volumi seminterrati, che “costruisce uno spazio pubblico di prim’ordine e… prolunga il parco lineare della Sagrera”9. A fronte di questo processo, il progetto del parco è stato de nito in due fasi attraverso un concorso internazionale di idee a partecipazione ristretta che, fra i cinque nalisti10, ha premiato nel 2011 la proposta elaborata da West 8 insieme a Aldayjover arquitectura y paisage e RCR arquitectes, le cui immagini hanno da allora risonanza e diffusione mondiale. Il parco lineare della Sagrera (più propriamente indicato come parco del Camì Contal) concatena cinque ambiti di attuazione diversi (fra cui il secondo è quello della Sagrera) costruendo un unico nuovo suolo arti ciale e piantumato sull’interramento dei binari ferroviari, che coordina in una nuova topogra a multilivello le quote di riferimento fuori terra e interrate sia preesistenti che delle nuove infrastrutture. A ciò si aggiunge l’interazione con i resti dell’antico Rec Comtal, struttura idraulica realizzata nel X secolo a consolidamento di un canale naturale interrato che scorre dal nord della Spagna sino a Barcellona. È proprio l’ordine dimensionale del Rec Comtal che orienta gli obiettivi dell’intervento a tre scale diverse. La maggiore è nazionale e vede
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ l’analogia fra il parco, che conduce dal nord di Barcellona al mare, con il Rec Comtal, che ha guidato nei secoli le acque della Spagna da Nord a Sud. Il parco diviene così il doppio visibile di almeno due linee infrastrutturali invisibili: quella ferroviaria e quella idraulica. Lungo i diversi ambiti, il parco organizza la ricorrenza di larghe piazze a forte presenza vegetale, bordate da margini più mossi e ttamente alberati, introducendo tracciati trasversali di ordine minore per connettere il parco ai quartieri attraversati. Il recupero delle molti fonti che hanno storicamente marcato il fuso urbano introduce la presenza dell’acqua: in movimento, vaporizzata, o raccolta in vasche e fenditure nel terreno. Questo elemento indirizza ulteriormente la fruizione marcando i luoghi di sosta, o guidando la transizione in alcuni passaggi precisi. Le migliaia di m2 del parco impiegano palette vegetali diverse per ogni ambito. Nella sequenza di mosaici oriti, orti familiari, agorà alberate, impianti sportivi, si inserisce anche il giardino di benvenuto dell’ambito Sagrera, sovrapposto alla stazione, che accoglierà chi arriva a Barcellona con un mare letterale - di lavanda e rose. Al di là dei dispositivi formali e gurali, di cui pure il progetto è ricco, il parco si pone come intervento urbano signi cativo delle condizioni culturali della sua epoca. Rispetto all’impianto di Barcellona, dominato dall’intervento di Cerdà, il parco ha estensione e nettezza di tracciato che lo rendono un’entità simmetrica e antagonista alla Diagonal del sec. XX, ponendosi come nuovo emblema contemporaneo della sostenibilità e delle mobilità dolci. È per dare concretezza a questo nuovo paradigma che alla Sagrera la stazione si subordina al parco, declinando in minore i suoi caratteri architettonici, a favore della nuova sistemazione fuori terra. Le trasformazioni in atto alla Sagrera declinano l’ossimoro dell’infrastruttura virtuosa alla scala più alta mai vista nora in Europa. La dimensione territoriale, l’Alta Velocità, la spesa milionaria, il gigantismo dell’intervento, la capacità trasformativa sul territorio e la multiscalarità delle conseguenze delle trasformazioni sono qui tradotte in un’immagine di invincibile appetibilità contemporanea: un’enorme, sinuosa, ininterrotta sequenza di giardini che ripara una secolare cicatrice urbana con gli alberi, i ori e l’acqua. Il poco interesse che la stampa specialistica ha dedicato alla stazione Sagrera è senz’altro conseguente alla scarsa rilevanza architettonica dell’edi cio11, ma pare proprio questo l’obiettivo che l’orchestrazione complessiva del progetto si augurava di raggiungere. I due progetti, così diversi nell’approfondimento dei temi e dei contenuti sviluppati a partire dalle condizioni dell’intervento, si rivelano infatti legati attraverso la minore densità teorica e disciplinare dell’uno, che consente di accrescere strumentalmente quella dell’altro, trasferendo di continuo l’immagine della stazione su quella del parco. Il ruolo attribuito all’architettura della stazione si evince anche dalle modalità di revisione dei costi dell’intervento12. Inizialmente stimato a 820 milioni di euro (MEUR), per 180.000 m2 di edi cio13, il cantiere della stazione ha subito i primi rallentamenti nel 2008. Le dinamiche del mercato immobiliare internazionale hanno reso allora necessaria la revisione del meccanismo di compensazione dei costi, che inizialmente copriva la maggior parte della spesa con la rendita fondiaria dei nuovi suoli, costruiti interrando le vie ferrate, da destinare a terziario e servizi. Nei cinque anni successivi sono state più volte rinegoziate le quote di partecipazione dei diversi attori al nanziamento, sino alla decisione, nel luglio del 2013, di rinviare sine die la costruzione della Torre Sagrera, opera di Ghery, e di ridurre dimensione e costi della stazione. Mantenendo la priorità del progetto, la super cie dell’edi cio è stata ridotta a 140.000 m2, portando l’importo a 650 MEUR. Il sistema delle plusvalenze è stato sostituito con il rilascio di concessioni sessantennali per quadrature di circa 6.000 m2 da destinare a centro commerciale nel vestibolo della stazione e ai piani interrati in comunicazione ai parcheggi principali, senza però che gli elaborati di progetto siano stati modi cati in relazione.
La quinta facciata L’identi cazione della stazione con il parco e l’accrescimento dell’autonomia gurale del suolo è dunque uno degli elementi prevalenti in questo intervento. L’interramento della stazione è una necessità logistica per l’attuazione dell’Alta Velocità, e sono molti i progetti che hanno dovuto ricorrere a questa soluzione. Il parallelo con i molti casi analoghi ormai costruiti in Europa14, evidenzia come spesso questa condizione tecnica sia un contributo per trattare temi di natura disciplinare legati all’architettura ipogea, 127
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7 - La Sagrera, il ponte e il parco.
alla strati cazione delle volumetrie nel sottosuolo, al ruolo della sezione come elemento di controllo degli spazi in profondità, alla conduzione della luce e della ventilazione naturale verso i livelli più profondi intesa per interagire con la dimensione plastica degli spazi. Alla Sagrera, invece, la scomparsa dell’edi cio coincide con la scomparsa della dimensione architettonica della stazione. Anche la fusione fra edi cio interrato e parco soprastante è ormai una condizione ricorrente e l’esito di molti concorsi consente di considerare questo come uno dei nuovi scenari delle relazioni fra l’architettura e la città. Tuttavia, la stazione e il parco sono qui solo sovrapposti, restando due progetti distinti e slegati. La mancanza di relazioni formali fra i due interventi non consente di considerarli parte del vasto numero di casi che oggi declinano il suolo come quinta facciata dell’edi cio, approfondendo lo spostamento progressivo da un approccio tipologico a uno topologico del progetto di infrastruttura15. Nel caso della Sagrera, tuttavia, la sola posizione relativa dei due elementi è sufficiente a operare un transfer di rappresentatività dalla stazione al parco, cosa che nisce per realizzare l’integrazione fra l’uno e l’altro non più nel progetto – come negli altri esempi evocati - ma nell’immaginario. La stazione fa da semplice perno verticale di interazione della multimodalità fra i cinque livelli interrati, mentre il parco si carica della dimensione simbolica e iconogra ca dell’intervento. Essa non consiste più nella rappresentazione di fattori costitutivi dell’infrastruttura - i temi della grande dimensione o del movimento, presenti negli analoghi progetti dello scorso secolo - quanto invece nel loro mascheramento attraverso l’apposizione tranquillizzante dei marchi della sostenibilità e della predominanza della dimensione ambientale che proprio il parco garantisce. Per sostenere la costruzione di infrastrutture gigantesche, dispendiosissime e di enorme impatto sull’ambiente, l’epoca che ha prodotto il nuovo paradigma della salvaguardia ambientale e della lentezza ricorre alla separazione dei ussi e mette in scena un letterale rovesciamento dei valori e dei caratteri. Il molto veloce sparisce coperto dal molto lento; il vettore di trasporto ininterrotto viaggia sottoterra per consentire l’integrazione dei quartieri ed eliminare le cesure urbane. Emerge il suolo, nella sua autonomia gurale e come elemento progettuale capace di declinare temi propri degli edi ci. © Riproduzione riservata
8 - Parco lineare del Camì Comtal, passaggio sotto il
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Note 1 In questi anni si impiantano nell’area imprese di grande estensione, come l’industria metallurgica La Maquinista Tererstre y Maritima, che insisteva su una super cie di 25 ha. L’impresa è stata attiva nell’area dagli anni 1920 sino al 1963, quando cominciò la dismissione conclusa negli anni 1990. 2 Cfr. Plan de Ordenaciòn Urbana de Barcelona y su zona de in uencia (Plan Comarcal di Barcelona), 19531954; Plan General Metropolitano, 1977 (tuttora vigente). 3 Cfr. Arenas, Manuel et alii, 1995, in bibliogra a; Basiana, Xavier; Gausa, Manuel; Ruano, Miguel, Barcelona Transfer: Sant Andreu- La Sagrera, 1984-1994 Barcelona, ACTAR, 1995. 4 Cfr. BSAV, Planeamiento en el ambito Sant Andreu Sagrera , 2013, p. 4 . Consultabile sul web: http:// www.barcelonasagrera.com/upload/multimedia/1614.pdf 5 La BSAV è una società partecipata dalla Generalitat, dall’Ajuntament, dalla Renfe (Red Nacionales de Ferrocarriles Espanolas) e dall’ ADIF, soggetto gestore del traffico ferroviario. 6 Cfr. “De la Sagrera au cœur de l’Europe”, in BSAV, Barcelona Sagrera Alta Velocitat, 2013, p. 6, Consultabile sul web: http://www.barcelonasagrera.com/download/BSAVVisioGeneralFrEn.pdf 7 La Torre de la Sagrera consiste in un grattacielo di 34 livelli fuori terra al termine della Rambla del Prin, nel triangolo ferroviario Sant Andreu del consorzio della zona franca de la Sagrera, che articola la essione del parco verso l’ambito di Sant Andreu Comtal . La ne del cantiere, prevista per il 2005 per un costo di 250 milioni di euro, è attualmente stata posticipata al 2016. 8 Cfr. TAEC Sagrera, Avance proyecto constructivo de arquitectura: revisión documentos básicos, 14.08.2009. Tac arquitectos è formata da Eduardo Gascòn e Jordi Roig. È stato consulente per le strutture l’ing. Diego Cobo del Arco, mentre per la de nizione di dettaglio delle facciate è responsabile Ferrés arquitectos y consultores. 9 Ibidem, p. 6 10 I cinque gruppi nalisti sono: Beth Gali con Jordi Farrando e Espinàs y Tarrasó; Martínez Lapeña-torres; M. de Solà con D. Freixes, Fuses Viader e Michel Desvigne; Aldayjover arquitectos con RCR arquitectes e West 8; OAB, Office of Architecture in Barcelona (Carlos Ferrater). 11 Minore diffusione ancora hanno avuto i numerosi interventi per residenze e servizi localizzati in recupero di aree industriali o militari dismesse e rase al suolo (come la Colorantes o le caserme di Sant Andreu), con la sola già citata eccezione della Torre Sagrera progettata da Gehry sul triangolo ferroviario. 12 La ride nizione dei costi e delle modalità di nanziamento dell’operazione è stata ricostruita attraverso le notizie pubblicate sui siti della BSAV: http://www.barcelonasagrera.com/default.asp ; del Ministerio do Fomento, MiFo: www.fomento.gob.es e attraverso una rassegna delle dichiarazione rese alla stampa da Xavier Trias, sindaco di Barcellona, e riportate sul sito della municipalità: http://www.bcn.cat/ 13 Questi costi non includono le opere preventive di interramento dei binari e di costruzione dei nuovi suoli. 14 In Italia si può fare riferimento, per esempio, ai progetti di concorso elaborati per Firenze Bel ore (vincitore Norman Foster), o per Torino Porta Susa (vincitore ABDR, Paolo Desideri e AREP). Per una disamina comparativa in tal senso – che legge con un approccio compositivo innovazioni e involuzioni dei progetti - si rinvia a: Tesoriere, Z., 2012 in bibliogra a. 15 In riferimento ai concorsi citati alla nota 14, Il tema è stato trattato da chi scrive nel 2010 al Colloque Internationale L’Infraville, (LIAT), ENSAP Malaquais, Parigi, con la relazione Détour topologique. Les opérations TAV italiennes et la redé nition architecturale des gares. Nel 2011 al Convegno internazionale Spaces and Flows: An International Conference on Urban and ExtraUrban Studies, Prato, con la relazione Infrastructure as interface. Thinking the urban and the high -speed station: italian case-studies. http://2011. spacesand ows.com/sessions/index.html
Riferimenti bibliogra ci Arenas, Manuel; Basiana, Xavier; Gausa, Manuel; Ruano, Miguel, Barcelona Transfer: Sant Andreu-La Sagrera, 1984-1994 Barcelona, ACTAR, 1995. Tesoriere, Zeila, “L’architettura del viaggio: le stazioni per l’alta velocità di Torino, Firenze e Roma”, in: Agathòn 2012/2, Palermo, Offset studio, 2012, p. 43-50. Tesoriere, Zeila, “Infrastructure as interface. Thinking the urban and the High-Speed Railway station: Italian case-studies” in: Spaces and Flows: An International Journal of Urban and ExtraUrban Studies, CG Publisher LLC, 2012, volume 3, issue 1. Trasporti & Cultura n. 38, Monogra co su “Stazioni e città”, Laura Facchinelli editore, Venezia, 2015.
Siti internet Barcelona Sagrera Alta Velocitat: http://www.barcelonasagrera.com/default.asp Ministerio do Fomento: www.fomento.gob.es Ajuntament de Barcelona: http://www.bcn.cat/
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The new Central station in Berlin, the strategic hub of the reunited city by Giulia Melilli
The Central station of Berlin represents a material attempt to reconnect and reform a city that had been divided for more than forty years. The city was severely damaged in the aftermath of World War II, its political and morphological structures, including most of the network connections, destroyed. The challenge of reuni cation was met with the development of several area projects, most of them located in the urban void created by the Berlin Wall. Their ambition was to erect concrete symbols of the renaissance of the German Capital, oriented to the future. The Berlin Hauptbahnhof stands as an emblem of this vision: it is the biggest “tower station” in Europe, with 5 levels and a surface of 175 thousand square meters. Architects Gerkan, Marg and Partner from Hamburg designed the project, which won rst prize in the 1993 architecture competition. The master plan is composed of two intersecting bodies, one for the north-south and the other for the eastwest connections. The relationship with the surroundings is considered in the report titled “Twenty-year development program for the Berlin Capital City – Parliament and Government district”. The symbolic role of the area is highlighted rst by the renovation of the Humboldthafen former industrial harbour, serving various functions closely tied to the Hauptbahnhof; then by the construction of an entire new district called “Europa City” on the north side of the station, with high-quality residences based on principles of sustainability. But it was the establishment of the Regierungsviertel (the Political District) that truly reinforced the representative nature of the area and the role of Berlin as the 21st century Capital of Germany.
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La nuova stazione centrale di Berlino, nodo strategico della città riuni cata di Giulia Melilli
Forse come nessun’altra città, nel corso della sua recente storia, Berlino ha dovuto far fronte alla s da della riuni cazione. In gran parte distrutta dalla guerra, è stata ricostruita secondo due ideologie contrapposte, quella della città capitalista (Berlino Ovest) e quella della città socialista (Berlino Est). La riuni cazione ha interessato sia gli aspetti sici – attraverso la ricucitura delle due parti urbane – sia l’identità sociale e politica della città. In questo contesto, la nuova stazione centrale ha rappresentato uno dei dispositivi di riconnessione urbana, in una delle aree maggiormente interessate dalla frattura creata dal muro. Questo contributo ripercorre, sinteticamente, le fasi che hanno portato alla de nizione dell’area interessata, delle caratteristiche del progetto e delle relazioni con il tessuto urbano. L’attenzione viene, quindi, orientata sulla riorganizzazione del sistema del trasporto pubblico e delle connessioni infrastrutturali attuata dopo la riuni cazione, che assegna una funzione strategica al nodo della nuova stazione centrale.
Le trasformazioni urbane del dopoguerra Berlino è una città densa di storia, ma dove è difficile individuare una tradizione. Lo sviluppo urbanistico è stato qui fortemente in uenzato dalle vicende politiche. Differenti e spesso contrapposti sistemi di governo hanno connotato l’immagine della città nel corso del XX secolo. Si è trattato di una volontà di cancellazione reiterata di luoghi identitari, delle tracce di vari periodi storici, operata da una generazione nei confronti di quella precedente, allo scopo di de nire sempre nuove identità. Quella della seconda guerra mondiale si può dire sia stata solo una radicalizzazione della distruzione. Nel 1945 il centro di Berlino era ridotto per il 70% a un cumulo di macerie, 80 mila edi ci risultavano distrutti o gravemente danneggiati, mentre 1,5 milioni di berlinesi erano rimasti senza casa (P. Oswalt, 2006). Anche la popolazione aveva subito ingenti perdite con una diminuzione da oltre 4 a circa 3 milioni di abitanti. Il ripristino delle linee del trasporto urbano rappresentò evidentemente una priorità, considerando che già alla ne del ‘45, ben 70 chilometri della U-bahn erano tornati in funzione, e tra il ‘47 al ‘56 (quindi in meno di 10 anni) le linee della S-bahn e U-bahn erano state incrementate complessivamente di circa 100 chilometri. Dopo il fallimento del governo congiunto (1945-1949) e la creazione della Deutsche Demokratische Republik (DDR), i primi schemi di ricostruzione urbana rispecchiavano la contrapposizione di due idee di città. La costruzione del muro causò la negazione e molto spesso la distruzione di tessuti urbani e della rete stradale preesistenti. In questo caso, più di altri, le distruzioni non hanno lasciato il posto a nuove costruzioni, bensì hanno creato vuoti, una sorta di “terra di nessuno”. Quando il muro fu de nitivamente eretto, nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, furono interrotte 195 strade (3 autostrade, 97 tra le due parti della città e 95 tra Berlino Ovest e la DDR), 32 linee di tram, 8 linee di metropolitana di super cie (S-bahn), 3 linee di metropolitana sotterranea (U-bahn). A rendere più evidente la condizione di una città divisa era il lento transito dei treni occidentali attraverso le fermate interdette (le “stazioni fantasma”), guardate a vista da poliziotti armati, o le stazioni di con ne, come la Friedrichstrasse Bahnhof, sicamente divise in due parti. Come ha efficacemente osservato Oswald Ungers, la città si è sviluppata “in concorrenza a se stessa, tutta presa da ambiziose utopie, dalle diverse ideologie e da reciproche e vanagloriose rivalità ed emulazioni”. L’esito è stato la formazione di “un vuoto etero-
1 - La pianta della stazione Centrale. Fonte: https:// en.wikiarquitectura.com/ (M. de la Paz, 2017).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - L’antico edi cio della Lehrter Bahnhof (1879). Fonte: https://commons.wikimedia.org/
geneo, un caos, un ammasso insensato di monumenti: un guazzabuglio di relitti con i quali difficilmente gli abitanti potrebbero identi carsi” (Ungers, 1977). Dopo la caduta del muro (1989), è stato costituito il Senato della Berlino riuni cata che, da subito, ha cercato di ride nire l’identità della città, coniugandola con i principi della “ricostruzione critica”, applicati da Josef Paul Kleiheues nell’esperienza dell’IBA del 1984. Si trattava di ricostituire il tessuto dei quartieri tagliati in modo innaturale dal muro, preservando al tempo stesso la memoria della striscia di separazione della città, trasformandola in verde urbano, o edi candovi edi ci rappresentativi (Mazzoleni, 2009). L’occasione di tradurre in un concreto progetto questa visione della città si è presentata nell’ottobre del 1990, quando è stata ripristinata l’unità della Germania e la capitale è stata trasferita da Bonn a Berlino. Per la prima volta, gli sforzi congiunti dello
3 - Il tracciato del Muro di Berlino (1961-1989) e relazione con l’area della stazione centrale (dettaglio). Fonti: elaborazione personale da https://it.pinterest.com/, http://www.stadtentwicklung.berlin.de/
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
4 - La facciata della Hauptbahnhof di Berlino. Fonte: https://commons.wikimedia. org
Stato di Berlino e del Governo Federale non si sono limitati a ricon gurare l’ambito dei nuovi edi ci governativi, ma hanno riguardato la riquali cazione di un’intera area urbana rappresentativa e simbolica, a ridosso della Porta di Brandeburgo, e la ricostruzione delle connessioni tra le diverse parti della città e di quest’ultima con l’esterno. Una delle principali azioni della strategia di riuni cazione è stata, infatti, la riorganizzazione del settore dei trasporti, operando su due versanti: quello esterno, basato sul rafforzamento delle connessioni ferroviarie e aeree, e quello interno, con la redazione tra il 1990 e 1992 del cosiddetto “Piano a fungo” (Pilzkonzept). Il piano mirava principalmente a ripristinare la struttura radiale della rete storica e aggiungere un nuovo collegamento nord-sud. La realizzazione del dispendioso progetto del tunnel sotto il ume Spree e il Tiergarten (1993-1995), è stato l’ultimo pretesto per designare il punto di intersezione
5 - Localizzazione dell’Hauptbahnhof e relazione con la rete delle connessioni. Fonti: elaborazione personale da http://www.stadtentwicklung.berlin.de/, https://thenounproject.com/
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
6 - Il piano di sviluppo ventennale per Berlino capitale: il distretto governativo (1993). Fonte: http://www. stadtentwicklung.berlin.de/
7 - La sezione dell’edicio: i 5 livelli. Fonte: https://www. berlin.de/
dei diversi assi, corrispondente all’area occupata dalla Lehrter Bahnhof, come sede della nuova Hauptbahnhof di Berlino.
La nuova Stazione Centrale La nuova stazione centrale occupa una posizione di rilevanza strategica e simbolica per la Berlino riuni cata. Geogra camente, si trova nel distretto di Mitte, il più centrale e denso di aspetti d’interesse, non solo turistici. È localizza centralmente rispetto alla Ring Bahn, l’anello ferroviario, ma soprattutto nel punto d’intersezione tra l’asse estovest della Sbahn e l’asse nord-sud, creato dal tunnel del Tiergarten. Insieme alle stazioni di Gesundbrunnen, Südkreuz e Berlin Ostbahnhof, è stata classi cata nella prima categoria delle stazioni tedesche per la rilevanza delle sue interconnessioni. Come già anticipato, un’altra grande stazione sorgeva al posto dell’odierna Hauptbahnhof: la Lehrter Bahnhof. Era stata ultimata nel 1871 come stazione di termine della linea ferroviaria Berlino-Lehrte (località vicina ad Hanover) che, in seguito, era diventata la connessione ferroviaria est-ovest più importante della Germania. Nel 1882 fu completata la Lehrter Stadtbahnhof, in posizione adiacente e formata da quattro binari soprelevati, che rivestiva un ruolo rilevante sia per le connessioni interne sia per quelle esterne. Da un lato, infatti, era stata progettata come stazione di termine della linea ferroviaria per Amburgo – dopo la chiusura dell’Hamburger Bahnhof – e, dall’altro, era 134
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stata inserita nel sistema delle linee della S-bahn di collegamento est-ovest attraverso il centro di Berlino e con la cittadina di Charlottemburg. Le distruzioni della seconda guerra mondiale non avevano risparmiato l’edi cio della Lehrter Bahnhof che, riparato temporaneamente, veniva dismesso già nel 1951, per essere poi demolito nel 1959. Nel 1987 è stato invece restaurato l’edi cio della Stadtbahnhof, con un investimento di 10 milioni di marchi tedeschi e inserito nell’elenco degli edi ci vincolati di Berlino, dato che non aveva riportato signi cativi danni durante la guerra. Nonostante ciò, nel 2002 – dopo soli cinque anni – anche questo edi cio è stato demolito per lasciare spazio alla nuova stazione centrale. La decisione di edi care la nuova stazione centrale di fronte all’ansa della Spree e al palazzo del Reichstag riprende un tema che ha mantenuto una grande inerzia nel corso del ‘900. Quello del progetto dell’asse nord-sud che offriva una soluzione strutturale ai problemi urbani della nuova Berlino degli anni Venti, nella sua evoluzione verso la scala della grande città, quindi alla Berlino da ricostruire dopo la guerra. Elemento rilevante di questo asse, sul quale aveva espresso la sua proposta progettuale Ludwig Hilerseimer, era appunto la nuova stazione centrale che era stata concepita su più livelli sotterranei, con una copertura in vetro e acciaio a forma di croce e si ergeva a simbolo della nuova Repubblica. Dopo aver individuato il luogo più deputato per il principale nodo ferroviario, il Senato di Berlino ha pubblicato il bando di concorso per la progettazione dell’edi cio della stazione (1993) e, in seguito, ha organizzato un ulteriore concorso di urban design per lo sviluppo delle aree circostanti. Vincitore del concorso per la nuova stazione è risultato il progetto degli architetti amburghesi Gerkan, Marg and Partner. L’aspetto caratterizzante la proposta consiste nell’idea dei due corpi sovrapposti perpendicolarmente, uno per le connessioni nord-sud (di 159 metri di lunghezza e 45 metri di larghezza) e l’altro per quelle est-ovest (di 321 metri di lunghezza), a simboleggiare l’interscambio di linee e funzioni e al tempo stesso la connessione di parti di città. L’edi cio della stazione è quindi strutturato su cinque livelli: il ponte più alto, a 10 metri dal livello stradale, ospita i binari dei treni a lunga percorrenza e quelli della S-bahn; il livello più basso, a 15 metri sotto terra, si ricollega al tunnel che attraversa il Tiergarten. Quest’ultimo, completato nel 2004, ospita le connessioni di lunga tratta e regionali, una linea della U-bahn, oltre a un’ampia strada carrabile. Rispetto alla proposta iniziale, il progetto ha subito alcune modi che, in seguito al cambiamento dei requisiti del piano e al suo adeguamento agli esiti del concorso di idee della Spreebogen (l’ansa della Spree adiacente al quartiere politico). La costruzione, eseguita in diverse fasi dal 2001 al 2006, è stata de nita un capolavoro di logistica e ingegneria. Il ponte superiore è stato installato sotto la supervisione dell’ingegnere egiziano Hani Azer con tecniche mai utilizzate prima: i ponti dovevano
8 - Le aree di sviluppo adiacenti all’Hauptbahnhof: da nord a sud, l’Europa City, l’Humboldthafen e il Regierungsviertel. Fonte: http:// www.stadtentwicklung.berlin.de/, https://de.wikipedia. org/
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I TRE FUTURI DI VENEZIA avere una particolare forma curva e avrebbero dovuto coprire non solo la stazione ma anche l’adiacente Humboldthafen per complessivi 450 metri di lunghezza. Le dimensioni del progetto fanno dell’Hauptbahnhof di Berlino la più grande “stazione a torre” (Turmbahnhof ) d’Europa. La grande arcata ha una super cie di 20 mila mq ed è costituita da circa 12 mila pannelli di vetro di differente ampiezza che incorporano un impianto fotovoltaico. Su una super cie complessiva di 175 mila mq, ben 44 mila sono a funzione commerciale, altri 21 mila sono dedicati al trasporto ferroviario, con 14 binari disposti su due dei cinque livelli previsti. 54 scale mobili, 6 ascensori panoramici, oltre alle numerose scale tradizionali, collegano i vari livelli. Ogni giorno, inoltre, partono dalla stazione più di 1.500 treni con più di 300 mila passeggeri.
Il contesto urbano Dopo il trattato di riuni cazione della Germania, il governo federale e lo stato di Berlino hanno implementato il “piano di sviluppo ventennale per Berlino capitale – il distretto governativo” formalmente approvato il 17 giugno 1993. Il programma ha assunto la funzione di “catalizzatore urbano” per numerose trasformazioni successive (Stadtentwicklung Berlin, 1994). Inizialmente, il Dipartimento del Senato per lo sviluppo urbano e l’ambiente aveva organizzato una competizione di progettazione urbana per le aree circostanti la stazione centrale, successiva a quella per l’edi cio: quattordici studi di architettura sono stati invitati a piani care la trasformazione dell’area da porto industriale a un quartiere “allettante, con un’elevata qualità estetica e varietà funzionale”, a vocazione principalmente residenziale (30% del totale). Il primo premio è stato assegnato al progetto di Max Dudler per l’area a nord dell’Invalidenstraße (oggi l’Europa City), e al progetto di Oswald Mathias Ungers per l’area immediatamente adiacente alla stazione centrale (l’Humboldthafen). In particolare, il progetto di Ungers ha convinto soprattutto per l’efficace sistema di connessioni urbane proposto tra i diversi settori circostanti: la stazione, l’Humboldthafen, il quartiere “Europa City”, la Spreebogen (“ansa della Spree”) e più in generale il Regierungsviertel (“quartiere del governo centrale”). Quest’ultimo è stato realizzato nei primi anni 2000, sulla sponda sud della Spree rispetto all’Hauptbahnhof. Tagliando orizzontalmente l’ansa del ume, il masterplan del quartiere si sviluppa in lunghezza secondo un asse est-ovest a formare la cosiddetta Band des Bundes (la “striscia federale”): ancora una volta l’architettura si erge a simbolo della riuni cazione creando un vero e proprio ponte tra est e ovest, grazie al collegamento tra gli edi ci della Marie-Elisabeth-Lüders-Haus (biblioteca e centro scienti co, a est) e della Paul-Löbe-Haus (sede delle commissioni e affari pubblici, a ovest). La piazza della Repubblica e l’edi cio della Cancelleria continuano verso ovest l’asse orizzontale. L’abbondante utilizzo del vetro e del cemento vuole simboleggiare da un lato la solidità e dall’altro la trasparenza del governo tedesco. È stato possibile iniziare i lavori per l’area dell’Humboldthafen solo dopo che i proprietari dell’area (Vivico Real Estate) hanno bandito un terzo concorso (2005-2006) con l’obiettivo di adattare la proposta di Ungers alle nuove necessità di sviluppo. Il progetto nale prevede la formazione di sei isolati con un elevato mix funzionale: ricettivo e residenziale convivono con gli uffici, e servizi e ristoranti occupano il piano terra. Lo stretto rapporto con l’acqua è sottolineato dai porticati a due piani che rendono le strutture permeabili e permettono un accesso diretto al waterfront. Anche le funzioni di quest’ultimo sono diversi cate e comprendono esercizi commerciali, ristoranti e approdi per traghetti turistici. Lo sviluppo dell’area è tuttora in corso e attira frequentemente l’attenzione dei media per la rilevanza strategica delle operazioni immobiliari (Peters, 2009). Una terza area compresa nel programma di sviluppo è il quartiere “Europa City” (area di sviluppo dell’Heidestraße). Interessa una super cie di circa 40 ettari a nord della Invalidenstraße, uno dei grandi vuoti urbani creati dal muro, dopo il 1989 designata a area di sviluppo ma rimasta un deposito container e magazzino no agli anni 2000. Il processo di ride nizione dello sviluppo dell’area è iniziato infatti dopo l’apertura del tunnel del Tiergarten (2003) e il conseguente innalzamento del valore dei lotti in prossimità del collegamento. Questo è diventato uno dei principali ambiti strategici nei piani di sviluppo urbano, no alla redazione del masterplan vero e proprio nel 2009, dopo un processo decisionale durato due anni e un concorso di idee. Anche in questo caso, la varietà degli usi e delle funzioni è uno degli aspetti rilevanti del 136
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ masterplan, che assume come prioritario il fattore ambientale. Il nuovo insediamento è stato de nito dalla rappresentante del Dipartimento del Senato per lo Sviluppo Urbano e l’Ambiente “quartiere del futuro”: compatto, sostenibile e eco-friendly. L’implementazione del progetto è ancora in fase inziale.
Conclusioni Berlino, nei vent’anni successivi alla caduta del muro, ha dimostrato come una città da “archetipo della divisione” possa diventare un esempio di trasformazione e riuni cazione. Il processo ha preso forma dalla riconnessione delle diverse “isole urbane”, come de nite da Ungers, che riscoprono nuove funzioni centrali, cariche di valori simbolici. Si tratta di nuove centralità costruite sulla base di singoli progetti, orientati da una visione di “città del futuro”: oltre ad assumere nuovamente il ruolo di capitale, Berlino ha dovuto far fronte alla s da di diventare una metropoli del ventunesimo secolo, connessa al livello globale. Ha scelto così di progettare il proprio futuro seguendo i principi della sostenibilità e del progresso tecnologico, della diversità culturale e cercando di riappropriarsi di un’identità urbana. Prendendo come esempio lo sviluppo dell’area della Hauptbahnhof, è evidente come la riorganizzazione delle reti infrastrutturali e del trafco sia stata un elemento rilevante del processo di riuni cazione e per la ride nizione dell’identità della città (Stadtentwicklung Berlin, 2013). Come succede spesso ai grandi progetti, anche quello dell’Hauptbahnhof è stato oggetto di numerose critiche. È stato accusato, ad esempio, di essere totalmente fuori scala rispetto al contesto circostante e di aver provocato numerose esternalità negative, con ricadute sulla stazione dello Zoo, esclusa dalle linee a lunga percorrenza. La nuova stazione è stata de nita un “palazzo di vetro nel deserto”, anche a causa dei ritardi nella realizzazione dei masterplan per le aree circostanti (Peters, 2009). Aree che sono ritenute a eccessiva funzione commerciale, con edi ci “banali”, incapaci di creare un’identità riconoscibile. Nonostante le critiche, è possibile riconoscere la volontà più recente di affidare ad architetti di fama mondiale (tra i quali Norman Foster e Zaha Hadid) la progettazione delle principali infrastrutture della mobilità nella forma di “nodi” del trasporto urbano e extraurbano, in linea con gli obiettivi della European Union Transport Policy. L’intento generale è quello di trasformare le aree delle stazioni in centri efficienti di interscambio tra differenti livelli e sistemi di trasporto (treni intercity, regionali e linee di trasporto pubblico locale) e, al tempo stesso, di realizzare nuovi edi ci-icona, eretti a simbolo della connessione in Europa. (Peters & Novy 2012). © Riproduzione riservata
Bibliogra a Ahlfeldt, G. (2009). Rail Mega-Projects in the Realm of Inter- and Intra-City Accessibility: Evidence and Outlooks for Berlin. Built Environment, 38 (1), 71-88. O.M. Ungers, O.M. (1977), The city in the city, Berlin: A green archipelago, Lars Muller Publishers, Zurich. Mazzoleni, C. (2009). La costruzione dello spazio urbano: l’esperienza di Berlino. Franco Angeli, Milano. Oswalt, P. (2006). Berlino_città senza forma, Maltemi, Roma. Peters, D. (2009). The Renaissance of Inner-City Rail Station Areas as a Key Element in the Contemporary Dynamics of Urban Restructuring. Critical Planning, special issue, 163-185. Peters, D. & Novy, J. (2012). Rail Station Mega-Projects: Overlooked Centrepieces in the Complex Puzzle of Urban Restructuringin Europe. Built Environment, 38 (1), 5-11. Bundesministerium für Verkehr, Bau und Stadtentwicklung & Senatsverwaltung für Stadtentwicklung und Umwelt (2013). Capital city Berlin - parliament and government district.
Sitogra a http://www.stadtentwicklung.berlin.de https://www.bahn.com/ 137
I TRE FUTURI DI VENEZIA
Urban regeneration processes: the railyards in Milan by Carlo De Vito, Sara Iacoella and Marina Marcuz
Like in Paris and London before it, the greatest opportunity for urban regeneration in Milan is the reconversion of the former Scali Ferroviari Milanesi, developed during the mid-1800’s for rail freight traffic. In 2007, the “Moratti-Moretti” agreement identi ed seven railway areas that were no longer functional (Farini, Porta Romana, Porta Genova, Greco-Breda, Rogoredo, Lambrate, St. Cristoforo), covering approximately 1.3 million square meters in different parts of the city, to be converted to urban uses, conceiving the seven areas as a “unicum”, with the purpose of investing the expected economic earnings to upgrade the urban railway infrastructure, building new stations and developing transport centres and hubs. The Italian Railway Group, with FS Sistemi Urbani, in collaboration with the Comune di Milano and the Regione Lombardia, promoted a participative workshop titled “From railyards, to city”, held in December 2016, to develop a collaborative integrated design approach. The purpose of the project was to de ne a new strategic vision for the transformation of the seven railway areas in Milan, working with ve multi–disciplinary teams led by internationally renowned architects. In December 2016, more than 2.000 people took part in the integrated workshop at the Farini railyard, in which citizens, technicians, architects and politicians explored possible new development scenarios for the city. Five panels worked on the major issues: the Resourceful City on the economy and demographic trends; the Cultural City on sociological and cultural issues; the Connected City, on transportation, mobility and connections; the Living City, analysing the urban fabric, activities, spaces and typologies; and the Green City, on environmental issues. The architectural teams produced ve alternative visions of urban regeneration. In April 2017 the architects presented their conclusions and their visions to the public in the Porta Genova railyard.
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Processi di rigenerazione urbana, gli scali di Milano di Carlo De Vito, Sara Iacoella e Marina Marcuz
La distribuzione della popolazione sulla terra negli ultimi sessant’anni è completamente cambiata. Nel 1950 più di due terzi della popolazione viveva in insediamenti rurali mentre meno di un terzo in insediamenti urbani; nel 2007, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana mondiale ha superato la popolazione rurale mondiale; dopo soli 7 anni la popolazione urbana è arrivata al 54% e si stima che entro il 2050 il mondo sarà per un terzo rurale e per due terzi urbano, più o meno il contrario della distribuzione globale della popolazione della metà del XX secolo. Storicamente il processo di urbanizzazione è associato ad importanti trasformazioni economiche e sociali che hanno determinato maggiore mobilità geogra ca, aspettative di vita più lunghe, minore fertilità e invecchiamento delle popolazioni. Nelle città si concentrano la maggior parte delle attività economiche nazionali, il governo, il commercio e il trasporto; la vita urbana favorisce un più alto livello di alfabetizzazione, migliora le condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e aumenta le opportunità di partecipazione culturale e politica. Tuttavia una crescita urbana rapida e non piani cata, qualora non sia accompagnata da un incremento delle infrastrutture necessarie e da politiche che garantiscano un’equa distribuzione dei bene ci per la popolazione, potrebbe generare aree urbane degradate e centinaia di migliaia di poveri ‘urbanizzati’ che vivono in condizioni molto al di sotto degli standard cittadini. Mentre il mondo continua la sua urbanizzazione, la s da per uno sviluppo sostenibile si concentra sulle città, in cui diventa fondamentale affrontare il tema delle modalità con cui auspicare che i centri urbani crescano: attraverso il ‘modello Los Angeles’ caratterizzato da dispersione insediativa e bassa densità, oppure attraverso il ‘modello Hong Kong’ caratterizzato da compattezza ed alta densità. La scelta consiste, quindi, nel vedere le città continuare a espandersi fagocitando i residui di territorio rurale, oppure rigenerarsi trasformandosi dall’interno, attraverso il recupero e la densi cazione delle aree dismesse. In Europa sembra si sia ormai ampiamente affermato l’orientamento verso il ‘modello Hong Kong’, che vede il territorio tornare ad essere considerato come una risorsa fondamentale per l’umanità e, in quanto tale, deve essere protetto e preservato. Ecco perché il tema della riduzione del consumo di suolo negli ultimi anni ha cominciato ad assumere un’importanza sostanziale nel ripensare, progettare e ridisegnare le nostre città, diventando uno degli obiettivi prioritari da perseguire. Da un punto di vista prettamente urbanistico, il riutilizzo delle aree dismesse all’interno delle città costituisce senz’altro una delle strategie di intervento capaci di generare i maggiori vantaggi in termini di sviluppo sostenibile, infatti permette di ottenere la riquali cazione di aree urbane degradate senza ulteriore consumo di suolo vergine. La presenza di ampie porzioni di spazi dismessi all’interno del tessuto urbano spesso genera situazioni di degrado che si ripercuotono sul valore degli immobili limitro , sull’attrattività degli spazi pubblici circostanti e sulla sicurezza dei luoghi stessi. Esistono diversi tipi di aree urbane degradate, tra queste le aree ferroviarie dismesse rappresentano una tipologia di rilevante pregio, poiché sono aree che possiedono contemporaneamente molteplici opportunità: collocazione nelle porzioni più centrali delle città, accessibilità, infrastrutturazione, dimensioni e regime proprietario indiviso. Le aree ferroviarie dismesse costituiscono molto spesso delle vere e proprie opportunità per le amministrazioni comunali per affrontare e risolvere le criticità intrinseche che il loro non utilizzo comporta da un punto di vista ambientale, sociale ed economico. Una volta trasformati, gli stessi spazi diventano facilmente delle nuove centralità ur-
1 - Veduta dello Scalo Rogoredo, a Milano.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - Clichy Batignolles, rendering del progetto. Fonte delle due immagini di questa pagina: Scali ferroviari, benchmarking di rigenerazioni urbane di successo su aree ferroviarie dismesse, ARUP.
bane, vive e vivibili, il cui l’effetto positivo di rigenerazione si propaga con forza no a diversi isolati di distanza, ottenendo dei bene ci straordinari per la città stessa e per la cittadinanza nel suo insieme. La trasformazione delle aree ferroviarie dismesse è stata alla base di molte delle più interessanti strategie di rinnovamento urbano portate a compimento negli ultimi anni: sono numerose, infatti, le città che hanno completamente ride nito la propria strategia di marketing urbano a partire dalla scelta di rigenerare le aree ferroviarie abbandonate. Parigi - Il rinnovamento urbano di aree ferroviarie dismesse può partire dall’opportunità dettata da una particolare esigenza della città. Ad esempio nel 2001 l’allora sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, avviò un ambizioso progetto per il recupero urbano e la riconversione dell’area di Clichy-Batignolles in partnership con le società dei trasporti ferroviari proprietarie dei suoli, la SNCF e la RFF per la proposizione del sito al bando di gara per i Giochi Olimpici del 2012. La zona posta a nord-ovest di Parigi, nel 17° arrondissement, tra la Defense e la Plaine Saint-Denis, distretto economico della città, e i quartieri Plaine Monceau Ternes e Batignolles ha visto la sua prima urbanizzazione all’inizio dell’800 grazie allo sviluppo della prima linea ferroviaria di Parigi e delle stazioni Saint-Lazare, dedicata ai passeggeri, e Batignolles, dedicata alle merci ed alla manutenzione convogli. Dagli anni ‘70 no alla ne degli anni ‘90 l’area ha visto un lento declino dovuto al sottoutilizzo di molti comparti. Il progetto sulla rigenerazione dell’area venne elaborato in vista della proposizione del sito al bando di gara per i Giochi Olimpici del 2012, gara vinta nel 2005 dalla città di Londra che colse l’opportunità per creare un Parco Olimpico recuperando un’ex area ferroviaria ed aree industriali nella zona orientale della città. Il progetto parigino venne riadattato al contesto cittadino e, pur avendo perso la gara per i Giochi Olimpici 2012, la città non si lasciò sfuggire l’opportunità di rigenerare un ex scalo ferroviario in una parte centrale della città e rendere fruibile un’area formalmente inaccessibile poiché interclusa tra gli scali ferroviari. Il progetto urbano è stato suddiviso in tre diversi settori di intervento e l’implementazione è stata organizzata per fasi per garantire l’adattabilità del progetto a vari cambiamenti in corso. Il cuore del progetto per l’area Clichy-Batignolles è il nuovo grande parco Martin Luther King, progettato dalla paesaggista Jaqueline Osty. L’area verde ha una dimensione di 10 ha, attorno ad essa si sviluppano una serie di funzioni miste: residenziale con un mix di classi sociali e generazionali, uffici, funzioni direzionali e il nuovo Palazzo di Giustizia progettato da Renzo Piano. 140
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3 - Londra, la stazione di KIngs Cross.
All’interno del parco è prevista la creazione minima di nuove strade, solo sui bordi e volutamente limitata (12% delle super ci), così da ridurre la pressione dell’automobile e contenere le super ci impermeabilizzate. Mentre all’interno ci sono numerosi percorsi di attraversamento longitudinali e diagonali, così da favorire la massima fruibilità in ogni direzione e l’accessibilità alle aree gioco, sosta, riposo. Mentre la riconnessione del quartiere con la città verrà assicurata dall’ estensione della linea metropolitana 14 no alla stazione di Mairie de Saint-Ouen con la realizzazione di altre due fermate, l’estensione della linea del tram e la modernizzazione della stazione dei treni di Pont Cardinet. I lavori, ancora in corso, si concluderanno nel 2020. Londra - Altre esigenze che portano alla rigenerazione di scali ferroviari dismessi possono sorgere da motivi prettamente infrastrutturali, che poi si ri ettono su tutto l’intorno urbano dell’ex scalo. A Londra l’area di King’s Cross insiste su ex impianti ferroviari ed industriali, in una zona centrale della città adiacente a Euston Road e alle stazioni ferroviarie di King’s Cross e St. Pancras International. A metà del 1800 King’s Cross Station e la gemella St. Pancras, costituivano lo snodo ferroviario più importante di Londra, il cuore del distretto industriale in cui arrivano le merci dal nord del paese per poi essere distribuite in tutta la città. L’area cadde in progressivo declino a partire dal secondo dopoguerra, quando il trasporto su rotaia divenne obsoleto e l’area industriale si ricollocò altrove, no a diventare un quartiere sciatto quando non pericoloso. La svolta si è concretizzata nel 1996 con la decisione da parte della pubblica amministrazione e della società ferroviaria proprietaria dell’area di costruire un nuovo tunnel di collegamento dalla stazione di St. Pancras al Tunnel della Manica: il Channel Tunnel Rail Link è stato un importante incentivo per la rigenerazione urbana di King’s Cross e un’occasione di rilancio per l’intero quartiere. La creazione di un nuovo hub ad uso misto con sei linee di metropolitana, due stazioni ferroviarie principali ed una linea dell’alta velocità Londra-Parigi ha costituito un requisito essenziale per lo sviluppo dell’area. Il compendio viene trasformato da sito industriale dismesso a nuovo quartiere urbano, lo sviluppo comprende spazi pubblici come parchi, piazze e spazi aperti. Il mix di edi ci antichi e moderni conferisce un carattere unico all’area, più di dieci edici storici sono stati ristrutturati e riaperti al pubblico. Si tratta di spazi che conservano la memoria industriale del luogo nel contesto di un utilizzo contemporaneo, infatti il landscape urbano ritrova elementi che furono centrali nel passato come il Regent’s 141
I TRE FUTURI DI VENEZIA Canal e i gasometri che vi si affacciano, e li trasforma nelle icone del rinnovamento, integrandoli nel tessuto urbano. Il recupero dei vecchi magazzini del grano così come dei depositi del carbone privilegia l’affaccio sul canale, mediato dalla presenza di Granary square, una piazza completamente nuova che sorge dove un tempo le chiatte scaricavano le proprie merci. Il processo di approvazione dell’intervento è iniziato con un piano “concept” sull’area in modo tale da consentire una essibilità nelle fasi successive con programmi specici per ciascun lotto. L’aspetto innovativo del masterplan è stato quello di mantenere il 20% dell’area del sito senza funzioni speci che decise a priori, ma essibili e de nibili in corso d’opera: in questo modo si è consentito di adattare il piano alle modi che del mercato nel tempo. Questo requisito di adattabilità del sito è stato gestito all’interno di un sistema in cui altri parametri come densità, altezze massime e minime sono stati stabiliti n dall’inizio. Un aspetto fondamentale per la realizzazione di questo progetto è stato il coordinamento permanente tra autorità locali, gruppi di interesse, associazioni, scuole e agenzie governative attraverso tavole rotonde. Inoltre la società di sviluppo ha interagito continuamente con i quartieri locali e con i gruppi di interesse per mezzo di un “forum per lo sviluppo di King Cross”. Milano - A Milano la necessità di una riquali cazione urbana si è manifestata nell’intera città; gli ex Scali Ferroviari Milanesi, una volta elementi fondamentali del funzionamento economico sociale e infrastrutturale della città, oggi segnano una discontinuità allo sviluppo, ma anche un’occasione unica di integrazione e ricucitura del tessuto urbano. Nel 2005 per la prima volta in Italia si è cominciato a parlare di valorizzazione delle aree ferroviarie dismesse, in particolare a Milano. Gli Scali Ferroviari Milanesi sono stati sviluppati durante la metà del 1800, contribuendo a sostenere lo sviluppo e l’espansione delle linee ferroviarie di trasporto merci nazionale da e verso Milano. Con l’aumento del trasporto merci su strada e la delocalizzazione delle zone industriali fuori dalla città il trasporto merci su rotaia ha registrato un calo nel corso degli ultimi decenni a Milano e in tutta Italia. Nel 2007, attraverso quello che passerà alla storia come “l’Accordo Moratti-Moretti”, sono state identi cate sette aree non più funzionali all’esercizio 142
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ ferroviario (Farini, Porta Romana, Porta Genova, Greco–Breda, Rogoredo, Lambrate, San Cristoforo) già dismesse o di prossima dismissione, che interessano un totale di circa 1,3 milioni di mq distribuiti in vari ambiti della città, da valorizzare. L’accordo ha il merito innovativo non solo di affrontare la riquali cazione delle sette aree come un “unicum”, ma soprattutto di de nire una strategia complessiva che prevede il reinvestimento dei proventi economici generati dalla valorizzazione delle aree, nel compimento di opere per il potenziamento del nodo ferroviario milanese, in particolare attraverso interventi di realizzazione di nuove stazioni e miglioramento di quelle esistenti, sviluppo di hub intermodali: sistemi di trasporto pubblico su ferro e su gomma, parcheggi e strade, piste ciclabili e reti pedonali. Il Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, in particolare la società FS Sistemi Urbani con il mandato di valorizzare le proprietà del gruppo non strumentali all’attività di trasporto, il Comune di Milano e la Regione Lombardia, in seguito ad un processo di accordi, predisposizione di varianti, revoche, ritardi e proposte di revisione durato circa 11 anni, sono arrivati alla ne del 2016 a promuovere un processo partecipato, inclusivo e collaborativo di rigenerazione urbana sostenibile delle aree ferroviarie dismesse nella città di Milano chiamato Dagli scali, la nuova città. Il progetto Dagli scali, la nuova città ha lo scopo di de nire una visione strategica per la trasformazione dei sette scali ferroviari, dislocati in aree nevralgiche della città, grazie al coinvolgimento di cinque team multidisciplinari guidati da architetti di fama internazionale: Stefano Boeri del gruppo Stefano Boeri Architetti, Francine Houben del gruppo Mecanoo, Ma Yansong del gruppo Mad Architects, Benedetta Tagliabue del gruppo EMBT Miralles Tagliabue e Cino Zucchi del gruppo Cino Zucchi Architetti. Il progetto è stato catalizzato da un workshop aperto alla popolazione di Milano tenutosi allo scalo Farini a dicembre 2016: in tale contesto più di 2.000 persone hanno fornito il loro contributo civico ed intellettuale costituendo un laboratorio incentrato sul dialogo tra popolazione, tecnici multidisciplinari e architetti per l’elaborazione di un’ampia visione sui possibili scenari di sviluppo della città. I team multidisciplinari sono stati impegnati in sessioni di lavoro per de nire, attraverso un processo partecipativo, i principi, gli indicatori di successo e alcune proposte concrete sul contributo che gli Scali Ferroviari e la loro rigenerazione possono offrire al raggiungimento di una visione per la Milano del futuro. Sono stati organizzati dei tavoli di lavoro attorno a cinque tematiche principali: la città delle risorse, in cui sono stati trattati principalmente temi legati all’economia, allo sviluppo e ai trend demogra ci; la città delle culture, in cui sono stati studiati gli aspetti sociologici e culturali; la città delle connessioni, in cui le tematiche principali sono state il trasporto, la mobilità e le connessioni; la città del vivere in cui si è analizzato il tessuto urbano in base a forme, spazi e tipologie e la città del verde in cui si è approfondito il tema dell’ambiente. Gli esiti di tale lavoro hanno prodotto cinque scenari alternativi alla vision di rigenera-
4, 5, e 6 - Nella pagina a anco: Milano, vedute degli scali Porta Genova, Porta Romana e Lambrate. 7 e 8 - In questa pagina: Milano, vedute degli scali San Cristoforo e Farini.
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9 - Milano, veduta dello scalo Greco.
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zione urbana. I team di progettazione multidisciplinari hanno avuto ampi margini di libertà nell’elaborazione delle loro proposte progettuali per la riquali cazione delle aree degli Scali Ferroviari, anche se ciascun team si è attenuto ad un processo guida che ha previsto la visione dei sette scali in un contesto cittadino d’insieme e la de nizione dei principi fondamentali dello sviluppo degli scali, comprese le qualità edi catorie. Ad Aprile 2017, presso lo scalo di Porta Genova, si è proceduto con una fase di presentazione al pubblico degli scenari elaborati dove i progettisti hanno avuto modo di raccontare alla città la loro vision. Le proposte hanno suscitato la curiosità della popolazione e incoraggiato dibattiti, hanno sostenuto tesi e infranto tabù, proprio per questo si è dimostrata una tappa utile per poter tracciare le coordinate della complessità e la dimensione della s da ancora aperta per passare da una suggestione ad una rigenerazione del territorio. Alla luce di questo percorso è importante sottolineare come ci si allontani gradualmente da sistemi di piani cazione tecnico-prescrittivi per sperimentare la piani cazione performance-based, che favorisce obiettivi e indicatori di sviluppo sociale ed economico sostenibile. Un esempio di accordo essibile è quello di King’s Cross a Londra in cui, in un contesto urbano a forte vocazione trasportistica, soggetti pubblici e privati hanno siglato un accordo di natura strategica per tutti i contenuti del masterplan: linee guida, altezze, fasce di rispetto, accessi e traffico, mentre decisioni su aspetti di maggior dettaglio sono state intenzionalmente posticipate alle successive fasi di progettazione ed esecuzione. I bene ci maggiori che si hanno con questo tipo di piani cazione urbana risiedono nella migliore adattabilità ai cambiamenti presenti nei contesti economici e sociali di riferimento. Questo consentirebbe non solo una migliore fattibilità economica, ma anche una migliore risposta alle esigenze strutturali e di performance urbane della città di Milano.
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Le tipologie edilizie e gli spazi pubblici devono garantire un veloce adattamento ai fenomeni insediativi relativamente recenti come il co-living ed il co-working, per questo richiedono strumenti normativi e di programmazione non convenzionali. Si deve puntare a forgiare un vero e proprio modello di rigenerazione urbana per le ex aree ferroviarie, replicabile sul territorio nazionale. Un processo concepito per generare bene ci equamente distribuiti sul versante pubblico e privato ed avere un impatto positivo sul disegno della città. Un approccio integrato di sviluppo è il modo per garantire un impatto duraturo e condiviso sulla struttura della città. Gli Scali Ferroviari Milanesi rappresentano un’opportunità straordinaria per plasmare positivamente il futuro di Milano.
10 - Scali ferroviari di Milano in trasformazione.
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Bibliogra a Urbanizzazione Mondo: trend 2014 Pubblicato il 14 gennaio 2015 a cura di Adriana Paolini. Scali ferroviari, benchmarking di rigenerazioni urbane di successo su aree ferroviarie dismesse, Arup. Scali ferroviari a Milano. Rigenerazione urbana: casi studio, AECOM. Scali ferroviari a Milano. Development, Brief AECOM. Scali ferroviari a Milano. Documento Riassuntivo, AECOM.
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The Venice-Mestre railway hub in the light of the new public procurement code and the national transport planning process by Andrea Sardena
The author intends to highlight the complexity of modernizing a railway hub as important as Venice-Mestre and to de ne the critical nodes in the process of evaluation and selection of the projects, within a system in which various stakeholders sustain their own (legitimate but special) interests in the absence of a shared and organic strategy framework. He intends to show that developing a plan, without an adequate understanding of current and future demand, or a strategy to strive towards, leads to a disparate system of actions the implementation of which not only fails to guarantee complete effectiveness, but would also be strongly subject to “discretional” decision-making and hence to delays in the phases of implementation which, when completed, may no longer be coherent with the goals that generated them.The questions that remain open include the projects to connect passengers with the airport in Tessera, the need to efficiently integrate the Port of Venice with the national and European network of freight transportation, the modernization of the train station in Mestre and the regeneration of the surrounding area, the integration with bicycle routes and parking areas. A well-articulated system that seems easy to agree on when dealing with the individual projects, but could appear confused and chaotic if viewed as a whole. What is needed is a proper shared city planning process, and a careful evaluation of the resources available over time, a serious plan for the implementation of the projects and the “Project Reviews” required by the recent Attachment to DEF 2017.
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Il nodo ferroviario di Venezia Mestre alla luce del nuovo codice degli appalti e della piani cazione nazionale dei trasporti di Andrea Sardena
Le seguenti note vogliono evidenziare la complessità di analisi dell’adeguamento di un nodo ferroviario complesso come quello di Venezia-Mestre e parallelamente individuare le criticità del sistema di valutazione e scelta degli interventi, in un sistema pluriobiettivo in cui diversi stakeholder sostengono i propri interessi (legittimi, ma di parte) in assenza di un quadro organico e condiviso di strategie. Si vuole pertanto segnalare come una piani cazione dell’offerta, senza un’adeguata conoscenza della domanda attuale e futura, e una strategia cui tendere, determina un sistema disomogeneo di azioni la cui realizzazione, non solo non garantisce l’efficacia complessiva, ma è anche fortemente soggetta alla “discrezionalità” decisionale (che come sappiamo cambia nel tempo) e quindi ad un allungamento delle fasi di realizzazione, che, una volta avvenute, potrebbero non essere neanche più coerenti con gli obiettivi (seppur di parte) che le hanno generate. Solo per chiarezza espositiva in questa premessa si citano i progetti di collegamento passeggeri con l’aeroporto di Tessera, le necessità di integrazione efficiente del Porto di Venezia con la rete nazionale ed europea del trasporto merci, l’adeguamento della stazione di Mestre e la riquali cazione dell’area di pertinenza, l’integrazione con le piste ciclabili ed i relativi parcheggi, e così via. Un sistema articolato che sembra facilmente condivisibile, quando si trattano i singoli interventi, ma che potrebbe apparire confuso e disordinato se visto nel suo insieme. La questione si connette direttamente con la necessità di una corretta e condivisa piani cazione urbana, di una valutazione attenta delle risorse disponibili nel tempo, di una seria programmazione degli interventi e delle necessità di “Project Review” imposte dal recente Allegato al DEF 2017. Nel seguito si tenterà di mettere ordine a questi tanti aspetti, non volendo de nire priorità o giudizi sui singoli progetti, ma proponendo un metodo di analisi e valutazione, coerente con gli indirizzi del Nuovo Codice degli Appalti Pubblici, con l’allegato al DEF 2017 “Connettere l’Italia: fabbisogni e progetti di infrastrutture” e con le Linee Guida per la valutazione degli investimenti in opere pubbliche nei settori di competenza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti [D. Lgs. 228/2011] del dicembre 2016.
Le ferrovie e il nodo di Venezia-Mestre Il potenziamento del corridoio Mestre–Trieste e il collegamento con l’aeroporto Marco Polo Il 9 luglio 2015 il CIFI (Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani ) e l’Università IUAV di Venezia hanno organizzato un convegno sul tema del Quadruplicamento Venezia-Trieste da cui sono emerse alcune interessanti ri essioni che in breve si richiamano.1 Si tratta di analisi che presentano un quadro di riferimento in parte superato in termini sia di progetti sia di dati conoscitivi, ma che consentono di interpretare l’evoluzione delle proposte nel tempo e la relativa complessità. In gura 1 è schematizzata la rete ferroviaria che interessa il nodo di Mestre, mentre nella gura 2 sono indicati gli interventi previsti sul corridoio per Trieste negli anni 2014/2015. Pertanto nello schema è ancora riportato il collegamento diretto AV con l’aeroporto che, come sappiamo, è stato successivamente sostituito con una connessione ferroviaria con la linea storica di cui è previsto il potenziamento. Gli schemi gra ci riportati nelle gure 1 e 2 fanno riferimento alle attività di progettazione di RFI SpA che nel dicembre 2010 ha presentato, per l’approvazione in procedura di Legge Obiettivo, quattro Progetti Preliminari, relativi rispettivamente alle quattro
1 - I collegamenti ferroviari garantiti dal nodo di Mestre. Schema di riferimento al 2015 (fonte: Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani http://www.cifi.it/UplDocumenti/Ve_TS.htm
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I TRE FUTURI DI VENEZIA tratte in cui era stata suddivisa la linea. Il costo complessivo, derivante dalla Progettazione Preliminare all’epoca sviluppata, ammontava a circa 7,5 miliardi di euro. Nello stesso periodo (anni 2013-2014) RFI effettuò anche alcuni studi trasportistici di previsione del rapporto tra ussi previsti e capacità delle linee da cui emergeva un usso previsto di soli 28 treni AV al giorno sul collegamento diretto per l’aeroporto a fronte dI una previsione di spesa di circa 772 milioni di euro.
2 - Tabella 1: Il potenziamento della linea Mestre-Trieste (ipotesi AV 2012 e potenziamento linea storica). Fonte: Elaborazione dell’autore su dati originali RFI elaborati dal CIFI [http://www.ci .it/UplDocumenti/Ve_TS.htm]
I dati riportati in tabella 1 evidenziano non solo lo squilibrio di alcuni progetti in termini di rapporto tra ussi previsti e capacità, ma anche costi di investimento (complessivi e parametrati sui dati di servizio) non più coerenti con la politica nazionale di spending review. Infatti il progetto di nuova linea AV Venezia-Trieste sembra abbandonato (al Ministero dell’Ambiente risulta in valutazione sospesa). Tuttavia anche sul collegamento ferroviario tra aeroporto e linea storica (potenziata) sarebbero necessari alcuni approfondimenti. L’Allegato al DEF 2017 lo indica tra quelli confermati senza ulteriori veri che, tuttavia una valutazione accurata del progetto di esercizio non risulta, all’autore di queste note, al momento disponibile e la questione non è secondaria in quanto si tratta di scegliere tra due opzioni: - un servizio di tipo “navetta” tra la stazione di Mestre e l’Aeroporto, e quindi con rottura di carico per i passeggeri a Mestre (cui potrebbero essere aggiunti anche alcuni servizi AV come prolungamento di quelli previsti su scala nazionale), - la deviazione o il prolungamento di alcuni servizi SFMR per l’aeroporto; questa soluzione eliminerebbe l’intercambio a Mestre, favorendo i viaggiatori che dalle direttrici regionali siano interessanti a raggiungere nel minor tempo possibile l’aeroporto, ma penalizzando, in termini di tempo, i passeggeri non interessati alla destinazione aeroporto. Sicuramente RFI tramite ITALFERR starà integrando il progetto infrastrutturale con quello di esercizio, ma in ogni caso la questione non sembra per nulla trascurabile. Gli altri interventi ferroviari e la frammentazione delle competenze Come si è visto la stazione di Venezia-Mestre è un importante nodo ferroviario di livello regionale e nazionale. La stazione è gestita da RFI che la classi ca all’interno della massima categoria [platinum]. L’area commerciale del fabbricato viaggiatori è invece di competenza di Grandi Stazioni. I progetti e le differenti competenze che interessano la stazione di Mestre, come deducibili dai documenti ufficiali disponibili, sono i seguenti: - la nuova stazione di Mestre AV (Grandi Stazioni), - il collegamento con l’aeroporto (RFI/Italferr), - la linea dei bivi per il traffico merci (RFI/Italferr), - la velocizzazione della linea Venezia-Trieste (RFI/Italferr), - la soluzione delle criticità puntuali e dei passaggi a livello (RFI), - l’adeguamento tecnologico sostanzialmente ultimato (RFI). Gli interventi di competenza RFI2 - Gli interventi per il potenziamento riguardano sia l’infrastruttura sia gli impianti tecnologici per la circolazione dei treni e sono nalizzati all’aumento della capacità di trasporto delle linee e delle stazioni, per gestire con efficienza ed efficacia lo sviluppo del traffico ferroviario, sia quello della relazione AV/AC MilanoVenezia che quello connesso al Servizio Ferroviario Metropolitano Regionale (SFMR). Il progetto del Sistema Ferroviario Metropolitano Regionale (SFMR) del Veneto, messo a punto negli anni ’90 e nanziato dalla Regione, si pre gge l’obiettivo di soddisfare a
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regime una domanda di traffico giornaliera, aggiuntiva rispetto all’attuale, di 120 mila persone. Questo risultato è possibile con la frequenza differenziata sulle diverse linee e nelle diverse fasce orarie, con l’orario cadenzato che, contemperando le esigenze dei treni a breve e lunga percorrenza, facilita la memorizzazione degli orari e l’integrazione più agevole con i servizi pubblici stradali (ndr: tuttavia questo progetto di integrazione non è ancora realizzato). Sono previsti interventi sulle infrastrutture ferroviarie esistenti, sia in linea (raddoppio e/o ripristino di tratte di linee, soppressione di passaggi a livello) sia nelle stazioni (sistemazione dei piazzali esterni e realizzazione di nuovi parcheggi, sistemazione dei binari di attestazione nelle stazioni capolinea, realizzazione di pensiline, arredi e servizi all’utenza, nuovi sottopassi pedonali o prolungamento degli attuali, eliminazione barriere architettoniche) e la realizzazione di alcune nuove fermate. A Mestre gli interventi completati negli ultimi anni riguardano la sistemazione a Piano Regolatore Generale della stazione, la realizzazione di un nuovo sistema di controllo della circolazione di tipo “ACC” e l’ampliamento dell’impianto merci di Porto Marghera con l’obiettivo di: - gestire in sicurezza e con maggiore efficienza il traffico in entrata e in uscita dei treni, attraverso la realizzazione di quattro coppie di binari indipendenti lato Est (una per la nuova linea AV/AC e una per l’attuale linea da Padova, una per la linea di TrentoTreviso e una per la linea da Adria) e due coppie di binari indipendenti lato Nord-Est (una per Treviso-Udine e l’altra per Trieste); - potenziare la capacità ricettiva della stazione, con la realizzazione di nuovi binari (da 9 a 13) dotati di marciapiedi e due nuovi fasci di binari specializzati per l’attestamento del traffico regionale con termine di corsa a Mestre; - razionalizzare gli impianti per lo smistamento del traffico merci, con la realizzazione di un unico polo di terminalizzazione del traffico merci interessante il territorio mestrino nell’ambito dell’area portuale di Venezia Marghera; - potenziare gli impianti di manutenzione dei treni; - ammodernare gli impianti tecnologici di distanziamento e di sicurezza con la realizzazione di un nuovo ACC con caratteristiche innovative in grado di gestire anche le fasi di evoluzione dell’assetto dei binari; - migliorare i servizi per i passeggeri con quattro nuovi binari dedicati al SFMR. È in corso di nalizzazione, in collaborazione con la Regione Veneto, il progetto preliminare – previsto nel quadro degli interventi della ex Legge Obiettivo – per il collegamento ferroviario dell’aeroporto Marco Polo di Venezia, di cui si è già fatto riferimento in precedenza.
3 - Il nodo di Mestre nella rete ferroviaria regionale del Veneto (Schema di riferimento al 2014). Fonte: Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani [http://www.ci .it/UplDocumenti/Ve_TS.htm]
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Gli interventi di competenza Grandi Stazioni3- Il progetto di riquali cazione della stazione di Mestre, elaborato dall’architetto Marco Tamino, prevede l’incremento delle superci destinate ai servizi primari e secondari attraverso modi che funzionali delle aree esistenti e creazione di nuovi spazi. Un nuovo percorso centrale longitudinale collegherà la nuova biglietteria, le aree destinate ai servizi primari e secondari e il ristorante. All’estremità opposta rispetto alla biglietteria verrà mantenuto, ristrutturato e potenziato il servizio bar e ristorante, mentre nello spazio compreso tra i due poli estremi saranno organizzati gli altri servizi di stazione. Il marciapiede del primo binario, ripulito dalle attuali superfetazioni edilizie, vedrà aumentata la permeabilità visiva e funzionale degli spazi. Per quanto riguarda le le opere esterne, il progetto prevede un edi cio su più livelli fuori terra per circa 300 posti auto e 60 posti per motocicli. L’area al piano terreno prevede un parcheggio a raso e una zona adibita al parcheggio di motocicli. I livelli successivi, serviti da una “rampa aperta” a doppio senso di marcia, sono destinati a parcheggio e dotati di due corpi scala, inglobati nel corpo principale, e di una colonna ascensori collegata con il percorso lato binari del fabbricato viaggiatori. Il nuovo parcheggio, situato tra la stazione e il bicipark, ha l’obiettivo di favorire l’interscambio tra i diversi sistemi di mobilità migliorando l’integrazione modale. L’intero progetto prevede, oltre la riquali cazione della stazione ferroviaria prevista nell’Accordo di programma approvato nel 2014, la sistemazione dell’area dell’ex scalo ferroviario e dell’area dei giardini di via Piave. Piazzale Favretti dovrebbe quindi assumere la funzione di strategico nodo di interscambio passeggeri.
Il signi cato economico del processo di scelta
4 - Veduta della stazione di Mestre.
Esaminati, seppur sommariamente, i progetti di riquali cazione del nodo di Mestre è opportuno fare due osservazioni: - la prima riguarda la necessità di una visione integrata di progettazione urbana (mobilità-trasporti-territorio) superando la programmazione per progetti; - la seconda riguarda il processo di scelta degli interventi, certamente correlata alla prima ma che richiede anche di valutare non solo cosa è utile alla collettività ma anche a cosa si deve rinunciare a seguito di una data scelta (in regime di risorse limitate cioè di vincolo di bilancio). Il signi cato della spending review prevista dal DEF 2017 sembra correttamente muoversi in questa logica, anche se la questione non sembra ancora matura nei decisori (nazionali e locali) e nella stessa popolazione, che appaiono ragionare in una logica di pura contrattazione come se le risorse fossero illimitate. La questione è complessa e include anche elementi di natura politica, come si espone nel seguente paragrafo. Gli elementi d’indeterminazione presenti nella valutazione dei progetti - Nella programmazione dei trasporti (ma anche negli altri settori) sono ancora presenti tre variabili che rappresentano altrettanti elementi di indeterminazione. La prima variabile riguarda i tempi di realizzazione di progetti, dalla loro prima denizione al completamento. Purtroppo i tempi di realizzazione di un’infrastruttura di trasporto in Italia sono tali da mettere in discussione la stessa utilità dell’opera e impongono rilevanti danni all’economia nazionale. Includendo le fasi di ideazione e de nizione delle opere da realizzare (pianicazione e studi di fattibilità), le fasi di progettazione, valutazione ambientale e verica del consenso ed in ne di realizzazione, il prof Cappelli, nel Convegno CIFI/IUAV già citato4, stima in circa 20 anni il tempo di completamento di una importante opera ferroviaria (ma lo stesso vale negli altri
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ comparti del trasporto) e che questo comporti un bene cio perduto per la collettività di circa 10 miliardi di euro all’anno. Tale stima è elevata (anche se di molto inferiore ai dati pubblicati dall’Osservatorio sui Costi del Non Fare5) e può essere assunta come il danno sociale dei metodi nora utilizzati nella programmazione e realizzazione delle opere. La seconda variabile riguarda il non completamento delle opere (le cosiddette “opere interrotte”). Una programmazione senza piani cazione condivisa e il ritardo nella realizzazione mettono in discussione la fattibilità economica degli interventi e la validità delle scelte e spesso produce una gran quantità di opere incompiute (per venuta meno del consenso, problemi realizzativi e incremento dei costi). Il Governo ha dovuto chiedere al Ministero dei Trasporti di costruire una banca dati delle opere interrotte6: sono circa 700 di livello Regionale, 25 in Veneto, 40 di livello nazionale (in tutti i settori delle opere pubbliche). La terza variabile riguarda la selezione delle priorità e quindi la mancanza di un processo strutturato, scienti co e condiviso di programmazione, che ci si augura sia riavviato con le procedure previste nel Nuovo Codice degli Appalti (2016) e nell’Allegato al DEF 2017. In de nitiva si tratta di un problema di scelte e di metodo. In economia è consolidato che il processo di scelta comporti: - non solo ricercare la migliore soluzione per un dato problema (questo è un classico approccio ingegneristico assunto anche dagli economisti e dai decisori politici, almeno si spera). - scegliere vuol dire sapere a cosa si rinuncia, cioè cosa non potremo fare o acquisire o godere perché abbiamo fatto una data scelta e investito (cioè consumato) le relative necessarie risorse. Per questo è indispensabile trovare soluzioni che garantiscano un dato obiettivo di mobilità in termini comparativi ed individuare le giuste relazioni tra obiettivi di mobilità, uso del territorio e risorse disponibili e sapere a cosa si rinuncia e quindi cosa la collettività condivide e attribuisce priorità.
Il Nuovo Codice degli appalti e il DEF 2017 Nel Quaderno n. 1/2017 della Società Italiana di Politica dei Trasporti Quale futuro per la politica dei trasporti dopo il nuovo codice degli appalti, il prof. Pierluigi Coppola sintetizza, nella sua introduzione, molto bene le novità introdotte dal nuovo codice: “Il Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (c.d. nuovo codice appalti) presenta importanti novità non solo sulle procedure di affidamento dei lavori pubblici, ma anche su alcuni aspetti di speci co interesse per il settore dei trasporti, legati alla piani cazione, alla programmazione ed alla progettazione delle infrastrutture. In particolare il nuovo codice assume il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL) e il Documento Pluriennale di Piani cazione (DPP), quali principali strumenti di piani cazione e programmazione delle infrastrutture prioritarie per lo sviluppo del Paese (Art. 201) e modi ca i livelli di progettazione, introducendo il progetto di fattibilità (Art. 23). Introduce (Art. 22), inoltre, il dibattito pubblico per la trasparenza e la partecipazione dei portatori d’interesse nel processo decisionale.”
Nell’allegato “Connettere l’Italia” al DEF 2017 possiamo trovare i primi elementi di questa nuova fase di programmazione strutturata su metodi trasparenti, scienti ci e condivisi. Le troppo numerose opere che con le procedure della legge 443/2001 (Legge Obiettivo) facevano parte del precedente Allegato infrastrutture al DEF ( no al 2015) sono state riesaminate e suddivise in 3 categorie: - Invarianti, - Project Review, - Progetto di Fattibilità. In altri termini, nella presente fase transitoria dalle precedenti procedure della Legge Obiettivo a quelle previste dal Nuovo Codice, alcune opere della programmazione precedente sono confermate come priorità e come costo. Altre sono confermate come intervento ma sono sottoposte a un riesame del progetto ai ni di una riduzione di spesa (il DEF le de nisce anche “snelle e condivise”). In ne il terzo gruppo riguarda quegli interventi che richiedono una nuova valutazione complessiva e che devono quindi riavviare integralmente il processo di valutazione tecnica ed economica (progetto preliminare + analisi bene ci/costi) attraverso il nuovo strumento del progetto di fattibilità e secondo le nuove Linee Guida del Ministero dei Trasporti (dicembre 2016). 151
I TRE FUTURI DI VENEZIA Il Veneto e l’area ferroviaria di Mestre nell’allegato “Connettere l’Italia: fabbisogni e progetti di infrastrutture” del 2017 ritrova diversi progetti articolati nelle tre categorie sopra indicate: - il potenziamento “in sede” della tratta Venezia-Trieste è confermato, poiché viene dichiarato ultimato il processo di Project Review; - devono invece essere sottoposte a Project Review tutte le tratte della AV tra Brescia e Padova; - devono riavviare il processo di programmazione con opportuni progetti di fattibilità sia l’estensione dell’SFMR sia l’integrazione delle linee di trasporto metropolitano e tramviario; - sono integralmente confermati i progetti tecnologici e sul materiale rotabile, due nuove fermate del SFMR (Via Olimpia e Gazzera) e non ultimo il collegamento ferroviario con l’aeroporto sulla linea esistente Venezia-Trieste di cui si è già detto.
Superare la piani cazione per progetti Sulla base delle considerazioni sopra riportate è importante sottolineare il cambio di rotta presente nel Nuovo Codice e negli allegati al DEF 2016 (metodologico) e 2017 (già almeno in parte operativo). Al momento la Nuova Struttura di Missione del Ministero dei Trasporti sta predisponendo il primo DPP (Documento di Programmazione Pluriennale) e le Linee Guida per il dibattito pubblico sulle opere più rilevanti e di maggior Impatto sociale ed ambientale. È anche in fase di avvio l’aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (la cui ultima stesura è del 2001, in seguito non più aggiornato per effetto delle procedure previste in Legge Obiettivo). In questo nuovo contesto di programmazione nazionale è necessario che, anche per il caso di Venezia/Mestre e in generale della regione Veneto, si de niscano strumenti adeguati per superare le procedure basate sul “progettare l’offerta indipendentemente dalla domanda” e avviare la realizzazione di progetti di fattibilità dei sistemi integrati di mobilità. Si possono pertanto formulare alcuni indirizzi, che andranno ovviamente condivisi e supportati da opportune e approfondite analisi trasportistiche.8 Elementi di diagnosi del sistema della mobilità - Per esprimere alcuni indirizzi coerenti a quanto previsto dal Nuovo Codice degli Appalti Pubblici si ritiene utile separare quanto riguarda il sistema regionale e il sistema metropolitano di Venezia, che entrambi coinvolgono direttamente la funzionalità e lo sviluppo del nodo di Mestre. Livello regionale - Gli studi e le ricerche svolte consentono di evidenziare i seguenti elementi di criticità: - scarsa conoscenza della domanda di trasporto (le classiche matrici Origine – Destinazione) nella sua articolazione territoriale, temporale e di scelta dei modi di trasporto; - mancanza di un Piano Regionale dei Trasporti aggiornato ed evoluto in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale in coerenza con quanto previsto dal Nuovo Codice; - una tradizione regionale molto più attenta al sistema infrastrutturale stradale che al sistema del trasporto pubblico (sia su strada sia su ferrovia), comprensibile in un sistema territoriale a insediamenti diffusi, ma che in tal modo non ha saputo cogliere le profonde trasformazioni di comportamento della domanda dal 2007 (anno di avvio della crisi) a oggi; - mancanza ancora di un sistema tariffario integrato di livello regionale che consenta all’utente l’utilizzo del sistema di trasporto pubblico (urbano e regionale) in modo semplice e unitario, la cui attuazione sembra prevista per il 2018. L’obiettivo deve essere la ricerca di azioni, misure e strumenti atti a garantire buoni livelli di qualità del trasporto pubblico - in particolare ferroviario - in modo da acquisire nuove quote di domanda senza prevedere aumenti signi cativi dei costi e delle tariffe. Questo risultato, in base alle ricerche svolte, può essere ottenuto: - ottimizzando le frequenze ed i tempi di viaggio, - migliorando l’accessibilità alle stazioni (nella loro area d’in uenza) e la qualità (e sicurezza) dei nodi d’interscambio sia mediante la reale integrazione con il trasporto pubblico su strada sia con percorsi ciclo pedonali di qualità, - eliminando le fermate inutili per collocazione territoriale o domanda dispersa, 152
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ - in generale adeguando l’offerta alla domanda, secondo i parametri di qualità richiesti, nei casi in cui si presentino ussi adeguati e coerenti con le prestazioni del trasporto ferroviario. Livello metropolitano - Analogamente al caso precedente si possono evidenziare i seguenti elementi di diagnosi del sistema veneziano: - presenza di un grande numero di “Piani” (PUT, Piano Strategico, PUM) basati però su dati poco aggiornati e con una limitata visione del futuro che valorizzi e consolidi la qualità della città d’acqua e la sua integrazione con le aree di Mestre e Marghera (in cui al momento si è operato solo con il progetto del tram), - lo stesso PUM di Venezia mette insieme dati non coerenti, dal punto di vista temporale, e le funzioni urbane di qualità dell’area di Mestre e residenziali / produttive di Marghera. Le analisi evidenziano, tra le altre, anche alcune contraddizioni rispetto a un progetto unitario e di qualità: - il gran numero di parcheggi a ridosso del centro storico in accesso a Piazzale Roma, quasi negando il ruolo e la qualità della città d’acqua, - la mancanza di un progetto integrato per piazzale Roma, continuamente modi cata con vari interventi non coordinati (ponte della Costituzione, people mover, tram, nuovo Park/ampliamento Hotel Santa Chiara, aree di parcheggio, potenziamenti delle autorimesse esistenti) con una evidente mancanza di integrazione funzionale con ”tutto quello che è al di là del ponte”. In termini operativi si può pensare di agire già nel breve periodo sul sistema Mestre– Marghera con alcune azioni, che mirino a superare il concetto che Mestre sia la periferia di Venezia e Marghera la sua area industriale; si tratta invece di 3 città che si integrano nella città metropolitana: - Il centro storico (l’Isola anzi l’insieme di isole) con il suo patrimonio di cultura e funzioni scienti che e culturali, - Mestre: la città dei servizi superiori (regionali), della qualità urbana, tendenzialmente città senza auto e molta più tecnologia innovativa, - Marghera città della produzione, della logistica e dei servizi all’economia. Le tre città devono rappresentare un unico polo urbano di livello metropolitano, dove porto, aeroporto e sistema ferroviario (AV & R/IR) devono rappresentare strumenti d’integrazione e connessione territoriale non poli indipendenti di sviluppo (seppure condivisibile in alcuni suoi aspetti). Per questi obiettivi il sistema della mobilità pubblica deve consentire spostamenti continui nel tempo, distribuiti nello spazio, di qualità (e sicurezza percepita) ed efficienti. © Riproduzione riservata
Note 1 Il materiale del Convegno è disponibile sul sito del CIFI da cui sono tratti alcuni elementi del par. 2. Fonte: Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani [http://www.ci .it/UplDocumenti/Ve_TS.htm] 2 Le note riportate in questo paragrafo sono tratte da quanto riportato nel sito web di RFI, aggiornate in base alle informazioni disponibili. 3 Le note inserite in questo paragrafo sono tratte da quanto riportato nel sito web di Grandi Stazioni. Non è stato possibile acquisire informazioni più aggiornate. 4 Cappelli A., Convegno CIFI/IUAV, Ideazione, progettazione, realizzazione e controllo di un progetto di infrastrutturazione del territorio - un problema di metodo - Venezia 9 luglio 2015 http://www.ci .it/UplDocumenti/Atti-VE-TS/5.%20CAPPELLI-IUAV%20CIFI%209%20luglio%202015.pdf 5 Le stime dell’Osservatorio includono molte voci indirette di costo (http://www.costidelnonfare.it). Nelle nostre valutazioni si sono calcolati solo i bene ci perduti e i maggiori costi del trasporto connessi alla non realizzazione delle opere. 6 http://www.mit.gov.it/mit/site.php?p=cm&o=vd&f=cl&id_cat_org=164&id=39767 7 http://www.sipotra.it/wp-content/uploads/ 2013/10/Quaderno-CODICE-APPALTI-FINALE.pdf 8 Le considerazioni qui riportate sono il risultato di studi e progetti condotti negli ultimi anni dall’Unità di Ricerca “Trasporti territorio e logistica” dello IUAV di Venezia, diretta dal prof. Cappelli con la collaborazione dei professori Silvio Nocera e Andrea Sardena.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Railways, the Venice Mestre hub and High Capacity by Carmelo Abbadessa
In the hub of Mestre, which is closely linked to the Venezia S. Lucia railway station in Venice for passengers and to the Porto Marghera station for freight, the trains arrive and depart in seven directions: Venice, Porto Marghera, Adria, Padua, Castelfranco, Treviso, Portogruaro. Almost 500 trains stop there every day. About 20,000 passengers alight on the trains. The freight traďŹƒc is far less intense: only 0.1% of containers unloaded from the ships in Porto Marghera continue their journey by train. Yet Mestre is an important hub, involved in two TEN-T European corridors of primary importance. What about High Speed? And High Capacity? The Author uses precise technical arguments to explain that if the intent of a correct transportation policy is to increase railroad traďŹƒc, it is important to build a HC - High Capacity System, completing the transition from two to four tracks on all the main routes, naturally using the most advanced technologies and European standards for the two new tracks, currently used only for High Speed. It is inevitable to build new High Speed routes, if the intent is to achieve High Capacity transportation and keep abreast of Europe. As for the Milan-Venice line, the section between Mestre and Padua already has four tracks. In Mestre, the Belt line could be regenerated and strengthened. Perhaps a second station could be built, for both the SFMR and HS trains. A new High Speed line to Trieste is desirable. How to make the connection with the airport has not yet been decided: rather than High Speed service, a frequent metropolitan transportation service would be more useful. It is important to make a decision very soon, considering the cost of doing nothing.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Ferrovie, il nodo di Venezia Mestre e l’Alta Capacità di Carmelo Abbadessa
Nel nodo di Mestre, che è strettamente legato alla stazione FS di Venezia S. Lucia per i passeggeri ed allo scalo FS di Porto Marghera per le merci, partono e arrivano treni su sette direzioni: Venezia (4 binari), Scalo di Porto Marghera (1 binario), Adria (1), Padova (4), Castelfranco (1), Treviso (2), Portogruaro (2). Fermano quasi 500 treni al giorno. Sui treni salgono circa 20.000 passeggeri al giorno (che però costituiscono una percentuale bassa rispetto al traffico passeggeri dei vari modi di trasporto). Molto meno intenso è il traffico merci, con il preoccupante record negativo del numero dei container che utilizzano il treno a Porto Marghera: circa lo 0,1% di quelli che sono scaricati dalle navi. Eppure Mestre è un nodo importante, che interessa due corridoi europei TEN-T di primaria importanza: - il Corridoio Baltico–Adriatico, che inizia dai porti polacchi di Gdansk e Gdynia e, passando attraverso la Repubblica Ceca e l’Austria, raggiunge i porti di Capodistria, Trieste, Venezia e Ravenna; - il Corridoio Mediterraneo, che collega i porti della Penisola iberica con l’Ungheria e il con ne ucraino, passando per Marsiglia, Lione, l’Italia settentrionale e la Slovenia (progetti principali: la galleria ferroviaria Torino-Lione e il collegamento Trieste/Capodistria - Lubiana). E l’Alta Velocità? E l’Alta Capacità? Per approfondire quest’argomento è bene premettere alcune informazioni ed alcune considerazioni di carattere generale, per concludere poi con i progetti relativi alle linee principali che attraversano Mestre: la linea MilanoVenezia e la Venezia-Trieste. Attuale distribuzione modale dei trasporti - Oggi, in Italia, circola per ferrovia meno del 9% del traffico viaggiatori e merci; un altro 9% circa va per mare e più dell’80% su strada (trascuro, per sempli care, il traffico aereo e gli oleodotti). Previsioni di traffico e Politica dei Trasporti - Superata questa crisi mondiale, iniziata a metà 2008, la maggior parte degli esperti ritiene che si tornerà, come prima, ad incrementi di traffico, viaggiatori e merci, superiori al 2% per anno (di più sulle direttrici per l’Europa orientale). Se invece la crisi non cesserà ... ci saranno problemi di sopravvivenza, e studi e dibattiti sui trasporti diventeranno trascurabili! La politica europea dei trasporti, condivisa dal Governo italiano, è ben delineata nel Libro Bianco della Commissione Europea (Bruxelles, 28 marzo 2011), che indica gli obiettivi al 2030 e 2050, legati alla necessità di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra a livello mondiale. In particolare, entro il 2030 nei trasporti è necessario ridurre l’emissione dei gas serra del 20% rispetto al 2008, per poi arrivare ad una riduzione del 60% al 2050. Per raggiungere questi obiettivi sono previsti: - il completamento, entro il 2030, della rete TEN-T (i Corridoi europei); - il collegamento fra di loro delle reti ferroviarie, aeroportuali, marittime e uviali, per aumentare l’intermodalità; - per il “trasporto passeggeri di media distanza” una quota per ferrovia di oltre il 50% entro il 2050; - per il trasporto merci, per distanze superiori a 300 km, entro il 2030 si dovrà raggiungere una quota del 30% su ferrovia e via mare, per arrivare poi al 50% entro il 2050. Anche il Ministro dei Trasporti, Del Rio, ha accolto questa indicazione, chiamandola “cura del ferro”. E molti politici hanno dichiarato che si dovrà trasferire traffico dalla strada alla ferrovia.
1 - La stazione di Mestre vista dal piazzale esterno. 2 - Viaggiatori in attesa del treno.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Purtroppo, però, credo che questa sia una missione impossibile: infatti si dimentica che, usciti dalla crisi (ed i segnali adesso sono concreti), il solo incremento di traffico dal 2016 al 2030 potrebbe essere del 30% circa (circa il 2% per anno). Ma allora, tenendo presente che adesso, in ferrovia, siamo a poco meno del 9% complessivo (viaggiatori e merci), si dovrebbero triplicare i volumi di traffico solo per assorbire l’incremento del traffico. Ma anche ottenen do questo enorme successo, non si toglierebbe neanche un camion dalla strada. Ecco cosa vuol dire essere indietro di vent’anni nella politica dei trasporti! Tempi di costruzione - Per grandi infrastrutture, come una nuova linea ferroviaria, occorrono almeno 15 anni per i lavori di realizzazione. Anche di più, prima, per discutere, criticare ed approvare i progetti, come insegna il caso della linea AV della Val di Susa per il Frejus. Treno e linea - Errore sistematico: quando si parla di Alta Velocità molti pensano soprattutto al Treno AV (TAV) mentre la cosa più importante è la Linea AV. Infatti il treno oggi ha prestazioni (sicurezza, potenza, velocità, accelerazione, rumore, comfort, ecc.) che saranno certamente molto diverse fra cento anni, con l’inevitabile progresso tecnologico; la linea, invece, ha caratteristiche di tortuosità e pendenza che saranno uguali anche fra cento anni (la forza centrifuga e la forza di gravità rispetteranno sempre le stesse leggi!). E la velocità di un treno dipende moltissimo da queste caratteristiche: un moderno treno AV deve necessariamente andar piano su una linea tortuosa e con grande pendenza. E la maggior parte delle linee italiane ha più di cento anni! Capacità di traffico – É un argomento complesso, che dipende da molti parametri. Se pensiamo a otte di treni omogenei, tutti alla stessa velocità – circolazione omotachica - anche su due soli binari potremmo ipotizzare, con moderni impianti di sicurezza e segnalamento per il distanziamento dei treni, un elevato numero di treni (quasi 300 al giorno su linee AV a doppio binari). Ma, nella realtà, su un doppio binario, con moderni impianti di segnalamento e Blocco Automatico, la presenza sia di treni lenti (merci e Sistema Metropolitano) che veloci – circolazione eterotachica – non permette di superare 230 treni al giorno. Fra l’altro, con tali densità di traffico, ogni piccolo guasto provoca gravi ritardi, a catena. Se si vuole un’Alta Capacità di traffico sulle linee principali c’è quindi un solo sistema: passare dal doppio al quadruplo binario, come già si è iniziato a fare, costruendo nuove linee, interconnesse a quelle attuali, per separare i treni lenti dai treni veloci; e l’Alta Capacità è del sistema a quattro binari e non della nuova linea. Sicurezza – È l’argomento più importante. La strada ha avuto 3.400 morti e 247.000 feriti nel 2015 (dati Istat; ed erano molti di più dieci anni prima) mentre le ferrovie hanno meno di 10 morti all’anno fra viaggiatori e ferrovieri, negli incidenti ferroviari (al netto, ovviamente, dei morti per suicidio o per mancato rispetto delle norme ai passaggi a livello). Tenendo conto che le ferrovie trasportano poco meno del 10% della strada, l’indice di sicurezza è nettamente - di circa 34 volte! - a favore delle ferrovie.
3 - Treno in transito tra la fermata di Porto Marghera e la stazione di Mestre.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ Risparmio energetico/inquinamento – Il coefficiente d’attrito ruota-treno/rotaia è circa 5 volte più basso di quello ruota-auto/asfalto, inoltre quasi il 90% del traffico ferroviario è su linee elettri cate: credo che il risparmio di energia ed il rispetto dell’ambiente non abbiano bisogno di altri numeri. Politica dei trasporti–qualità della vita - Nelle scelte politiche, e non soltanto per le grandi infrastrutture, il criterio di scelta dovrebbe tener conto (come tutti facciamo, anche inconsciamente), della qualità della vita dei cittadini, con uno sguardo al futuro ed alla collettività. Ma, anche se non è gradevole ricordarlo, il più basso livello della qualità della vita è la morte! E per questo non si possono ignorare le considerazioni sulla sicurezza appena fatte. Al miglioramento della qualità della vita contribuisce anche l’abbassamento del livello di inquinamento e quindi anche il risparmio energetico. Eppure, quando si discutono i progetti di nuove linee ferroviarie, che certamente servono per migliorare la qualità della vita di tutti, si sente parlare di più di fastidio per i cantieri (che interessano, per pochi anni, quelli che abitano vicino) e per il rumore dei treni (che invece oggi si può facilmente abbattere). E troppo spesso l’interesse di pochi va a danno di quello di molti. Risultato: il trasporto ferroviario diminuisce e le migliaia (ogni anno!) di morti e feriti sulle strade vengono considerati una fatalità. E invece a questo bisogna ribellarsi! Anche il paesaggio in uisce sulla qualità della vita, ed è ovvio l’obbligo di rispettarlo con qualsiasi infrastruttura e di aprire dibattiti, nelle fasi di progetto, per ascoltare pareri e cercare soluzioni. Ma il risultato che abbiamo sotto gli occhi è che le strade (che richiedono molto più spazio della ferrovia) si moltiplicano, ed il territorio che occupano è enorme, e si apportano modi che al paesaggio e l’inquinamento è già arrivato a livelli preoccupanti e crescenti. Riassumendo: se, con una corretta politica dei trasporti, si vuole davvero incrementare il traffico ferroviario, si deve realizzare un Sistema AC-Alta Capacità, completando il passaggio da due a quattro binari su tutte le linee principali: si potrà così tenere sulle vecchie linee il traffico più lento e sulle nuove quello più veloce (aggiungendo anche treni regionali veloci di giorno e treni merci di notte), realizzando quindi una circolazione quasi omotachica (velocità omogenee, come detto) su ogni binario, con una capacità di circa 600 treni al giorno sui quattro binari contro i poco più dei 200 attuali sul doppio binario. Sui nuovi due binari, ovviamente, utilizzeremo le tecnologie più moderne e gli standard europei, che oggi esistono solo per l’Alta Velocità e che permetteranno, ai nuovi treni ed ai macchinisti, la circolazione ferroviaria in tutta Europa (interoperabilità: un brutto ma efficace termine tecnico europeo). Oggi, invece, è quasi sempre necessario fermarsi alla frontiera e cambiare locomotore e macchinisti, dato che quasi sempre gli impianti di segnalamento e sicurezza, i relativi Regolamenti e gli impianti della Trazione Elettrica sono diversi in ogni nazione ed incompatibili fra loro.
4 - Frecciarossa e treno regionale in transito nei pressi della stazione di Mestre.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
5 - Atrio della stazione di Mestre, con i tabelloni degli orari.
Ovvio, poi, che sulle linee storiche si dovrà completare l’installazione delle più moderne tecnologie, soprattutto per il sistema di distanziamento treni e per telecomandi e telecomunicazioni. In de nitiva, realizzare nuove linee per l’Alta Velocità è inevitabile, se si vuole avere un’Alta Capacità di trasporto e se si vuole restare in Europa. Quanto poi sia esagerata l’enfasi con cui si parla di Alta Velocità è dimostrato dal fatto che in Italia circolano ogni giorno circa 8.000 treni (la maggior parte per il traffico regionale) e sono circa 300 quelli Alta Velocità. Nulla vieta, poi, che su una linea AV si vada a velocità minori: con una circolazione a 160 km/h su una linea “tracciata” per 300 km/h (basse pendenze e curve a grande raggio) si ha maggior comfort, minor bisogno di manutenzione a terra ed a bordo, più basso rumore e minore assorbimento di energia. Grave sarebbe invece, fra molti anni, non poter andare, per la “geometria del tracciato” delle nuove linee, a velocità elevate con i treni del futuro, che saranno certamente più potenti e più silenziosi di oggi. Attenzione, però: ogni bene cio è annullato se non si potenziano anche i Nodi (“hub” si direbbe per un aeroporto), come del resto si è già iniziato a fare da tempo, e se non si realizzano migliori condizioni di marketing e di informazione.
Il Nodo di Venezia Mestre e le principali linee afferenti Sulla linea Milano-Venezia è già completato da qualche anno il quadruplicamento della tratta Mestre-Padova (28 km, ora attrezzata per una velocità massima di 220 km/h); il quadruplicamento della Milano-Brescia (40 km) è stato inaugurato nel dicembre scorso; è all’approvazione de nitiva del CIPE il nanziamento del quadruplicamento della tratta Brescia-Verona (80 km). Per la Verona-Padova (80 km), dopo anni di trattative, ora sembra raggiunto un accordo per passare con la nuova linea nella zona sud della città, con una stazione alla Fiera e con interconnessione alla stazione attuale, in modo da poter scegliere quali treni far passare dalla Stazione Centrale e quali a sud. Il sistema di quattro binari permette di aumentare nettamente anche il numero dei treni-viaggiatori sulla vecchia linea. Linea di Cintura (ex Linea dei Bivi) - Sono quasi ultimati, dopo 16 anni, i lavori per il nuovo Piano Regolatore della Stazione, ma è forse l’unico grande Nodo che non ha una linea di Cintura. Ed invece c’è, fuori esercizio, la vecchia “linea dei Bivi” (da poco in parte riutilizzata), su cui esiste da molti anni un progetto di potenziamento ferroviario/stradale (di uno Studio d’ingegneria di Padova) che ha raccolto pareri positivi da Regione Veneto, FS, Ministero delle Infrastrutture, Con ndustria, Porto di Venezia, un Gruppo di banche, ecc. e, in un continuo burocratico rimbalzo di competenze, non si fa ancora niente... La nuova linea di Cintura (con un cavalca-ferrovia che elimini l’antico incrocio “a raso” con la linea per Udine) sarebbe preziosa per il traffico merci con l’Europa orientale e po158
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ trebbero circolare nuovi treni SFMR (Servizio Ferroviario Metropolitano Regionale) e qualche treno AV per Trieste/Vienna. Una nuova stazione, forse all’incrocio della linea per Udine, potrebbe essere molto utile sia per l’SFMR che per i treni AV, senza nulla togliere all’attuale stazione di Mestre. Linea Venezia-Trieste - Sulla linea attuale si possono sicuramente ottenere, con un miglioramento tecnologico, incrementi di traffico, spostando la saturazione della linea forse di 10 anni: ma allora siamo in ritardo di 5 anni, dato che per progettare, approvare e costruire la nuova linea saranno necessari almeno 15 anni. Eppure no ad oggi si è deciso soltanto il miglioramento tecnologico, e non si parla di preparazione del progetto per il quadruplicamento della linea, con i due nuovi binari che, per quanto detto prima, non possono che essere con le caratteristiche tecniche dell’Alta Velocità. E contemporaneamente si sollecita il completamento della terza corsia dell’autostrada Mestre-Trieste per il preoccupante aumento di traffico!... Il Libro Bianco della Commissione Europea, la “cura del ferro”, la lotta all’inquinamento e le previsioni di traffico a lunga scadenza sono tranquillamente ignorati. E si rischia di perdere anche i nanziamenti (il 30%) che la Commissione Europea è disposta a dare. Assieme alla nuova linea per Trieste, per completare il Corridoio Mediterraneo no a Vienna è necessario costruire tempestivamente una nuova linea AV in Slovenia. Ma oggi siamo ben lontani da un progetto approvato e dovranno quindi intervenire gli Organismi Europei, soprattutto con nanziamenti, ad incentivare ed accelerare l’iter per detta linea, indispensabile per rendere efficace il Corridoio in argomento. Linea Mestre-Aeroporto Marco Polo - Non c’è dubbio che l’aeroporto vada servito con una linea ferroviaria, come indicato anche nel citato Libro Bianco dei Trasporti della Commissione Europea: non si è però ancora deciso come. La SAVE (Società Aeroporto Venezia) chiede una stazione della linea AV, con passaggio diretto della futura VeneziaTrieste, ma è anche possibile realizzare una linea di interconnessione che si dirami dal tracciato principale. Per essere ben servito l’aeroporto ha necessità di un treno ogni 15 minuti circa, soprattutto nelle ore di punta, e questa frequenza può essere data solo da un Servizio Metropolitano, non certo da un servizio AV, che difficilmente potrebbe superare la frequenza di un treno all’ora sulla Mestre-Trieste. Speriamo solo che si arrivi in tempi brevi ad una decisione che permetta l’avvio del lungo iter progetto/approvazione/ nanziamento/appalti/ultimazione lavori. Perché occorre tener conto di … quanto costa il non fare.
6 - Binari nei pressi della stazione di Mestre con treno merci.
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Services for traveler mobility by Giovanni Seno
There are two major themes to address in regards to mobility: the rst is the introduction of the Regional Metropolitan Railway System (SFMR) and the road/railway modal integration for local transportation; the second the introduction of High Speed service on the Venice-Trieste axis and the consequent connection to the Venice Marco Polo Airport. Now that both these goals seem to be close at hand, an effort must be made to develop a unitary plan for services, to eliminate existing duplications and design a unitary system to provide an optimal response to customers’ real transportation needs. A comprehensive mobility system that for midto-long distances along the routes connecting city centres should be concentrated on railway service, linked to an integrated public mobility system accessible with a single regional ticket. Connecting the Venice Marco Polo Airport with High Speed railway service could be an innovation that radically redesigns the regional ecosystem and the relationships within it. Interaction with the island city of Venice could be substantially modi ed by improving the connection by water between the mainland waterfront, the islands of the northern lagoon and the ancient city of Venice. The SFMR and High Speed railway offer two different opportunities to rethink the current urban con guration of Venice. Both questions have consequences for the local social and economic context, and must necessarily be addressed when planning urban services and mobility in general. The local transportation network will also have to be redesigned. The stations, venues of transition from one means of transportation to another, must be considered as multi-modal hubs with all the amenities for passenger comfort, as well as places for gathering and social interaction.
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MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
Servizi per la mobilità dei viaggiatori di Giovanni Seno
Quando ragioniamo intorno a temi che riguardano le aree urbane, in particolare quelle a vocazione metropolitana, una prima domanda che occorre porsi è: a quale dimensione di città facciamo riferimento in termini di taglia demogra ca, sociale, economica, sica? Nel caso speci co di Venezia, le relazioni che su di essa insistono circoscrivono un fenomeno che va ben oltre l’immaginario collettivo e internazionale della sua insularità, travalicano i con ni amministrativi comunali ed ex-provinciali e raggiungono territori limitro e circostanti: Padova a sud-ovest, Treviso a nord. In questo Venezia (di terraferma e d’acqua) ricopre pienamente il suo ruolo di capoluogo regionale, anche se negli ultimi anni alcune funzioni speci che - in particolare relative alle rappresentanze dei corpi centrali dello Stato - sono migrate verso altre aree. Una centralità all’interno del territorio che determina come conseguenza naturale un incremento quotidiano della taglia demogra ca reale. È d’altra parte ormai prassi comune in tutti i centri urbani ad elevato effetto centripeto considerare la globalità della popolazione presente: i cosiddetti city users. Gli aggregati funzionali che oggi chiamiamo comunemente “metropoli” sono considerati a livello globale come i principali motori di sviluppo, i quali intrattengono relazioni sia con l’ambito locale e sovra-locale che internazionale (non solo in rapporto al turismo tout court). Per citare solo un esempio, il testo della nota opera teatrale di John Guare Six degrees of separation riporta il seguente (e signi cativo) passaggio: “Su questo pianeta, solo sei individui mi separano da qualsivoglia altro individuo, sia esso il presidente degli Stati Uniti o un gondoliere di Venezia…”. Trovo questa citazione doppiamente signi cativa: per il concetto in sé dei gradi di separazione e la teoria dei network da cui emerge una crescente interconnessione tra gli individui e più in generale tra le comunità e i luoghi; per l’accostamento immagini co (a pari livello) tra quello che è de nito l’uomo più potente del Mondo e una delle gure iconiche della nostra Città, che non a caso è una tra le destinazioni più note (e più imitate). È quindi in tale ambito che va inquadrata la piani cazione dei servizi e delle infrastrutture - quindi delle reti - per la mobilità. Partiamo dai numeri: il Censimento ISTAT 2011 della Popolazione e delle Abitazioni descrive per il territorio veneziano una situazione ad elevata frequenza di spostamento, con 142 mila viaggi/giorno effettuati a livello sistematico per studio e lavoro da individui residenti al di fuori del comune capoluogo, 30 mila viaggi/giorno sostenuti da residenti del capoluogo verso l’esterno (e ritorno) e 225 mila spostamenti interni giornalieri. Le aree con cui i cittadini del comune Venezia intrattengono maggiori relazioni sono le province di Treviso e Padova ed i comuni di contermini di prima e seconda cintura (in particolare Mira, Spinea, Martellago, Marcon, Chioggia e Mirano). La principale modalità di viaggio resta il mezzo privato per le relazioni cross-comunali, mentre per gli spostamenti interni il trasporto pubblico rappresenta la quota maggioritaria con circa 180 mila viaggi/giorno nel servizio automobilistico Actv, di cui 120 mila in urbano e 60 mila in extraurbano (a cui si aggiungo i passeggeri del servizio di navigazione). A questi naturalmente vanno poi sommati i fruitori cittadini legati al tempo libero - turismo, escursionismo, faccende domestiche, shopping, ecc. - con un incremento ulteriore e signi cativo di presenze quotidiane. Uno studio COSES del 2007 sulla popolazione presente in Città stimava una raddoppio di quella “equivalente” rispetto ai residenti anagra ci nella Venezia insulare ed un incremento di poco meno di un terzo a livello comunale (da 260 mila a 370 mila).
1 - Viaggiatori davanti all’accesso della fermata del tram, alla stazione di Mestre.
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2 - Tram in sosta a Mestre nel Piazzale Cialdini. 3 - Tram in transito. 4 - Tram e autobus affiancati in via Colombo.
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Fin qui i numeri, ora passiamo alle s de future. Due sono i grandi ambiti su cui vale la pena soffermarsi particolarmente: l’avvio del sistema SFMR e l’integrazione modale ferro-gomma in termini di trasporto pubblico locale; l’arrivo dell’alta velocità sull’asse Venezia-Trieste ed il conseguente transito per l’Aeroporto Marco Polo. Entrambe le questioni entrano nel vivo del tema principale del presente scritto. Il sistema ferroviario metropolitano regionale veneto ha una storia ultraventennale ed ha viaggiato in parallelo, da una parte, con il correlato sviluppo infrastrutturale (tracciati e stazioni) e dall’altra con l’intenzione della Regione Veneto di de nire standard unici per la bigliettazione elettronica legata al trasporto pubblico di linea sia su ferro che su gomma (e acqueo nel caso di Venezia). Ora che entrambi gli obiettivi sembrano a portata di mano (anche se si ragiona sempre intorno ad un orizzonte temporale ulteriore almeno quinquennale), credo vada fatto uno sforzo signi cativo verso una programmazione unitaria dei servizi. Se non per logica, questo avverrà quanto meno per necessità economica: i ricavi da ticketing coprono nel TPL infatti solo il 65% circa dei costi complessivi, il resto è formato da contributi pubblici ripartiti dal Fondo Nazionale ad ogni Regione, le quali a loro volta (anche se non ovunque) intervengono con risorse aggiuntive. In un quadro di nanza pubblica sempre più stringente, appare evidente che vanno ricercate a livello locale e regionale efficienze ulteriori rispetto all’attuale assetto, eliminando le numerose sovrapposizioni esistenti e disegnando un sistema unitario capace di coprire nel migliore dei modi possibili le reali esigenze di spostamento della clientela. Un sistema complessivo di mobilità che sulle distanze di medio-lunga percorrenza e lungo gli assi viari di connessione tra i centri urbani dovrà prevedere una prevalenza del servizio ferroviario, agganciato ad una mobilità pubblica integrata (non solo autobus dunque) che sarà chiamata a coprire “il primo e l’ultimo miglio” in ambito più strettamente locale. In tale contesto si delinea quindi la creazione del biglietto unico regionale, inteso non tanto quale supporto hardware (in futuro è assai probabile che l’attuale modello a tessere contactless sarà affiancato/sostituito dallo smartphone o da altri strumenti mobili) ma più generalmente come la possibilità per un viaggiatore di spostarsi in termini multimodali dal punto A al punto B passando per il punto C senza l’onere di acquistare molteplici ticket e con un’unica tariffa integrata (un sistema di clearing a livello centrale dovrà avere poi il compito di ripartire i ricavi tra i gestori a seconda dell’utilizzo effettivo). La connessione dell’Aeroporto Marco Polo con l’alta velocità potrebbe invece essere una di quelle innovazioni che oggi vengono de nite disruptive, ovvero capaci, con la
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loro introduzione nel contesto, di riferimento di ride nire radicalmente l’ecosistema territoriale e le relazioni esistenti all’interno di esso. A seconda di come sarà governata tale innovazione, potrà modi care del tutto o in parte le polarità su cui si regge l’area urbana della terraferma veneziana, decentrandone (o meglio, ricentrandone) le funzioni in luoghi oggi connaturati da specializzazioni prettamente trasportistiche (l’aeroporto appunto). Inoltre, e sempre a seconda delle scelte che verranno fatte tanto a livello centrale che a livello locale, la stessa interazione con la Venezia insulare potrebbe conoscere una sostanziale modi ca rispetto alla situazione attuale. Senza scomodare la discussa progettualità relativa alla sublagunare, il nuovo contesto dovrà certamente prevedere una migliore connessione acquea tra l’area di gronda lagunare, le isole della laguna nord e la città antica di Venezia.
5 - Vaporetto che si accosta a un approdo. 6 - Approdo ACTV di San Marco Vallaresso: sullo sfondo, la chiesa della Madonna della Salute.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
7 - Venezia, autobus in sosta a Piazzale Roma.
8 - Veduta del ponte della Costituzione e palazzi adiacenti, a Piazzale Roma.
Le scelte strategiche su cui ragionare sono essenzialmente due. Le pongo sotto forma di domanda: la stazione di Mestre verrà mantenuta quale stazione di transito (e fermata) dei treni ad alta velocità nell’ambito del Corridoio V?. Il terminal Venezia Santa Lucia sarà ancora stazione di testa per la maggior parte dei convogli transitanti per Mestre? Appare del tutto evidente che, a seconda di quanto verrà de nito e condiviso all’interno del processo decisionale in essere, Tessera potrebbe assurgere al ruolo di nuova piattaforma logistica per la connessione dei vari centri urbani dell’area metropolitana e regionale, i sistemi produttivi locali, i luoghi di attrazione che su di essi insistono e le polarità che via via nasceranno. In questo modo la terraferma veneziana verrebbe a ritrovarsi “schiacciata” tra l’aeroporto a nord ed il porto commerciale a sud. Le ricadute credo siano ad oggi imprevedibili, ma questo non ci esime dall’obbligo di confrontarci con i cambiamenti che inevitabile il nostro territorio conoscerà (o subirà, a seconda della capacità di reazione) nei prossimi anni. SFMR e alta velocità rappresentano quindi due occasioni per ripensare l’attuale assetto urbano di Venezia. Entrambe le questioni, infatti, avendo ricadute sul contesto sociale ed economico locale, dovranno necessariamente essere affrontate a livello di piani cazione dei servizi di mobilità e di urbanistica in generale. Tutto questo, avendo anche cura di considerare interventi più “di dettaglio” (nel contesto macro su descritto), ma con un potenziale enorme per il centro di Mestre: mi ri164
MESTRE. LA FERROVIA E LA CITTÀ
9 - Vaporetto e nave da crociera nel Canale della Giudecca.
ferisco qui alle nuove realizzazioni alberghiere a ridosso della stazione, all’apertura del Museo M9, allo sviluppo del Campus di Via Torino, ai nuovi insediamenti in area VEGA, al rilancio di Porto Marghera ed alle sue connessioni anche trasportistiche e logistiche e a tutti i progetti o i cantieri qui non puntualmente menzionati ma in avanzata fase progettuale o realizzativa. La “T” formata dall’asse dei binari in direzione Venezia (da una parte il VEGA e dall’altra Via Ca’ Marcello e Via Torino) in perpendicolo alla connessione ideale Marghera-Mestre Centro (lungo il percorso della linea tranviaria T2 - anche in questo caso si tratta di binari) disegna oggi una terraferma veneziana in fermento e in potenziale grande cambiamento. La stazione di Mestre nel disegno si evidenzia come nodo centrale: il raccordo della “T”. Se sarà mantenuta come tale, dovrà quindi conoscere un profondo restyling sul modello dei principali terminal ferroviari internazionali. Luoghi urbani a tutti gli effetti, i cui utilizzatori sono in minima parte legati ad esigenze di trasporto su treno: nelle più moderne metropoli vi trovano insediamento strutture di intrattenimento e shopping, supermercati, esercizi di ristorazione (in alcuni casi anche rinomati), aree direzionali destinate a uffici o al nomadic work, alberghi, servizi ancillari di mobilità. Sono luoghi frequentati al pari di piazze cittadine o centri commerciali, luoghi di socialità, luoghi multi-funzionali. In quest’ottica andrà anche ridisegnata la rete di trasporto locale e gli insediamenti legati alla mobilità pubblica oggi esistenti. Le stazioni sono per de nizione luoghi in cui avviene il passaggio da un mezzo di trasporto ad un altro (la cosiddetta “rottura di carico”): devono essere deputate e progettate al ne di rendere il più possibile accettabile - per non dire gradevole - l’attesa e lo scambio al cliente. Dobbiamo immaginare luoghi raggiungibili in auto, a piedi, in bus o in bicicletta - con tutte le strutture che ne conseguono in termini di parcheggi, aree pedonali, fermate, piste ciclabili, stalli per taxi, car sharing e bike sharing. Dobbiamo, in sintesi, progettare un hub multi-modale dotato di tutti i comfort, rimettendo in discussione i paradigmi su cui si è n qui ragionato, siano essi gli attuali insediamenti (ad esempio il terminal di Mestre Centro a Piazzale Cialdini) o le linee di forza (ad esempio i collegamenti verso Piazzale Roma), l’orientamento della stazione (verso Via Piave piuttosto che dall’altra parte) o il suo sviluppo orizzontale e verticale. Le stazioni ferroviarie, quali luoghi urbani della contemporaneità, devono assumere il ruolo che durante l’umanesimo è stato interpretato dalla piazza. Luoghi di aggregazione e socialità, luoghi dalle varie e mutevoli funzioni, luoghi intorno a cui si ridisegna l’urbe, luoghi che pongono al centro l’essere umano (il viaggiatore, il cliente) e i suoi bisogni, luoghi ridisegnati in base agli stili di vita ed alle esigenze di mobilità, luoghi da vivere, luoghi in cui e da cui partire per altri luoghi. © Riproduzione riservata
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VENEZIA PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO a cura di Viviana Martini167
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Con itti e convergenze fra il nuovo e l’antico di Guido Vittorio Zucconi
Che a Venezia non vi sia possibilità di convivenza tra il nuovo e l’antico è una credenza diffusa ma comunque legata ad uno dei tanti stereotipi che affliggono la città lagunare: il concetto nasce da una visione deformata di ciò che realmente è accaduto nel corso dell’ età contemporanea. Agli occhi non solo del turista sprovveduto, ma anche di qualche celebrato intellettuale, Venezia appare come una sorta di prezioso cristallo rimasto praticamente immutato nel corso degli ultimi due secoli. Nulla di rilevante sarebbe sostanzialmente avvenuto dopo la caduta della Serenissima, perché la città delle gondole e dei canali, dei trafori architettonici e delle cupole bizantine altro non sarebbe che il ri esso in pietra di un mondo che si conclude nel 1797, con il crollo della Serenissima. In questa visione di una città pietri cata non vi è possibilità d’intesa tra il nuovo e l’antico, perché semplicemente il nuovo non c’è e, se c’è, è comunque irrilevante. Ma questa opinione si scontra con una realtà ben diversa, in particolare con un storia contemporanea ricca sul piano sia qualitativo che quantitativo: basta osservare le planimetrie che - ad inizio Ottocento - mostrano grandi vuoti e non soltanto situati ai margini dell’abitato. Tra Otto e Novecento, si costruisce molto a Venezia, non solo in modo surrettizio e camuffato, ma anche secondo modelli ben distanti dalla tradizione. Nessuno è mai riuscito a calcolare l’esatta portata di questo processo di trasformazione e di crescita in età contemporanea. Per avvicinarci al tema, possiamo affermare che il nuovo e l’antico sono stati giocoforza costretti a confrontarsi entro il perimetro di un centro che, prima di espandersi, deve adeguarsi a nuovi standard e, in taluni casi, “cambiare pelle”. È fuor di dubbio che si sia trattato di una difficile coesistenza ma questo, come vedremo, non è un dato generalizzabile all’intero paesaggio urbano. Tensioni e con itti si sono manifestati soprattutto (e non sempre) nelle parti considerate più rappresentative: nel centro marciano e in quello realtino, lungo il Canal Grande, non però nel suo tratto terminale tra stazione dei treni e piazzale per gli autobus. Anzi in quest’ultima porzione, le incursioni del moderno sono state tanto audaci quanto numerose: come si può vedere in molti episodi, dal garage di Miozzi al ponte di Calatrava, passando per il prospetto del nuovo Palazzo di Giustizia. Nelle zone di margine o di minore visibilità, la coabitazione è stata possibile anche in forme esplicite e dichiaratamente divergenti; dobbiamo però escludere periodi di particolare oscurantismo come dopo l’alluvione del 1966, interpretata da alcuni come castigo divino per gli atti di profanazione compiuti; soprattutto sul fronte idraulico e geo-morfologico, ma anche architettonico come dimostrano molti episodi prima e dopo quella data. Il caso forse più evidente è quello della Giudecca dove si contrappongono due atteggiamenti opposti: sul fronte principale si intravede un modernismo reticente - o addirittura assente -, mentre lungo il lato opposto possiamo vedere una quasi ininterrotta sequenza di exploit progettuali (da Pastor a Valle, da Cino Zucchi a Alvaro Siza): peccato che soltanto i possessori di una barca possano godere di questa potenziale promenade architecturale. Non solo alla Giudecca, ma un po’ in tutto il centro insulare, c’è molta architettura contemporanea, spesso di qualità e comunque più di quanto non si creda, come ha ben testimoniato e documentato la recente guida di Clemens Kusch. Con mia sorpresa, Venezia è stata inclusa nelle recente serie che “Il Corriere della Sera/Abitare” dedicano alle trenta città del mondo, per lo più metropoli, ritenute le più signi cative 169
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sul fronte dell’innovazione architettonica: per una volta, la città dei dogi è in compagnia di Londra, New York, Milano, Tokyo e Sydney. Laddove si allenta la presa del cliché romantico-ambientalista, la città offre insospettabili scorci innovativi sfuggendo al marchio che alcuni intellettuali coniarono alla ne dell’Ottocento: “inappropriato al carattere di Venezia”. Queste sono le parole pronunciate da Pompeo Molmenti, capo la di un atteggiamento difensivo nei confronti del nuovo. Il bando, da lui caldeggiato, alla ne varrà quasi esclusivamente per il centro marciano-realtino e per il Canal Grande: a farne le spese saranno soprattutto le opere in ferro come la Pescheria di Rialto e i due ponti dell’Accademia e degli Scalzi. Anche nelle aree di maggior pregio si è costruito, contrariamente a quanto possa rendere il turista medio che sbarca per la prima volta in laguna. Venezia è andata trasformandosi anche nei suoi gangli più rappresentativi come dimostra una lunga serie di esempi tutti situati lungo il Canal Grande. Tra questi la stessa Pescheria ricostruita in stile simil-gotico da Laurenti e, il palazzetto Stern presso Ca’Rezzonico, il Ponte degli Scalzi dove il cemento armato sostituisce la più antica struttura metallica e - ciò che più conta - le lisce super ci in pietra levigata rimpiazzano la visione del nudo ferro. Potrei aggiungerne molti altri, come il primo edi cio dell’Hotel Bauer-Grünwald poi bruciato in un incendio, ma mi limito a queste tre costruzioni nuove, spacciate per antiche, in modo da ottenere il lasciapassare che le abiliti a convivere con la tradizione. In questo processo di adattamento degli stili, il Lido gioca un ruolo decisivo: sulle rive del mare, i vincoli si allentano e, di conseguenza, i gradi di libertà aumentano. Si può dunque procedere alla sperimentazione sia sul terreno del nuovo (e questo è ovvio) sia su quello del simil-antico (e questo è meno ovvio). Nella città balneare, Giuseppe Berti, Giovanni Sicher e Domenico Rupolo si sono esercitati con padiglioni, villini, palazzine dalla facciate neo-bizantine, tardo-gotico o proto-rinascimentali, ovvero l’aurea triade di una presunta tradizione locale: sono così pronti ad affrontare più impegnativi progetti sul Canal Grande, apportandovi tutta la loro esperienza di falsari, tanto colti quanto abili. Tra la dissonanza e il mimetismo, tra l’orgogliosa affermazione del nuovo e il suo annullamento sub specie traditionis, Venezia offre una terza via: parlare attraverso forme moderne ma con il ricorso a materiali, oltre che tecniche, ispirate ad un reale genius loci e legate ad un autentico savoir-faire, quello degli artigiani, dei terrazzieri, dei tagliapietra. È la via percorsa “en solitaire” da Carlo Scarpa il quale poi troverà epigoni e imitatori soprattutto nella sfera dell’architettura di interni. All’inizio è il vetro a offrirgli un campo utile per sperimentare questo tipo di ibridazioni, dove l’antica sapienza dei maestri muranesi si abbina a fogge, colori trasparenze dichiaratamente non-tradizionali. Poi, in una seconda fase, le opportunità di un possibile incontro tra estremi provengono soprattutto dai progetti di allestimento e di risistemazione di ambienti circoscritti, spesso non visibili dall’esterno: al Museo Correr e alle Gallerie dell’Accademia, ma soprattutto nella sede della Fondazione Querini-Stampalia e nel Negozio Olivetti di Piazza San Marco. Ripeto: Piazza San Marco al cospetto dei monumenti e dello spazio-simbolo di Venezia. E non si tratta di mera architettura di interni, perché la realizzazione sarà ben visibile anche dall’esterno, come si trattasse di scommettere sulle possibilità di una leale e non reticente convivenza. 170
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Senza togliere spazio all’intervento sull’opera di Carlo Scarpa, vorrei sottolinearne la capacità di fare dialogare forme innovative non solo con materiali tipici (come la pietra d’Istria) ma soprattutto con tecniche legate alla tradizione: terrazzi alla veneziana, rivestimenti in marmorino o in calce rasata diventano così parte integrante di un progetto posizionato, senza indugi, nel campo dell’architettura moderna. In molti casi, per quanto riguarda le tecniche di super cie, Scarpa arriva a ripescarle dall’oblio e a rilanciarle in forme aggiornata. Gli esempi di matrimoni perfettamente riusciti non sono pochi ma, come già detto, sono rappresentati al meglio dal Negozio Olivetti di Piazza San Marco e dalla sede della Fondazione Querini-Stampalia, in particolare nella parte d’ingresso e nel piano terreno, ivi compreso il giardino che ne conclude un ideale percorso. Possiamo considerare questa brillante forma di abbinamento tra il nuovo e l’antico come il contributo più importante che Venezia fornisce all’architettura moderna. Per comprendere tutto questo dobbiamo però abbandonare l’idea di uno Scarpa, poeta - isolato e un po’ solipsistico - in una città che, nonostante i suoi nobili sforzi, appare condannata ad un’ineluttabile declino. Scarpa non è Don Chisciotte ma un architetto che vuole incidere sulla realtà. La prospettiva da lui aperta avrà un peso non indifferente sul nuovo paesaggio urbano a condizione di includervi anche l’architettura degli interni. Una volta di più, dobbiamo però guardare ben oltre gli stereotipi, considerando un più vasto paesaggio storico-geogra co che vada oltre la caduta della Serenissima e il suo ri esso planimetrico (l’Insula a forma di pesce); infatti, per necessità funzionali, produttive, demogra che, la città ha dovuto da tempo oltrepassare il suo limite e la sua forma tradizionale di “isola circondata dall’acqua”. Cronologicamente la storia della città non si conclude perciò nel 1797, così come, sul piano topogra co, il suo sviluppo urbano non si ferma al Pullman Bar di piazzale Roma.
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Eugenio Miozzi’s Venice by Riccardo Domenichini
The fourth decade of the twentieth century has marked a turning point for Venice that, in many aspects, has been even more decisive than that marked ninety years earlier by the development of the railway connection with the mainland. The construction of the vehicle bridge, nally achieved after decades of debate, completes the upturning of the balance of the urban system that had been sparked by the arrival of the train at Santa Lucia and marks the de nitive transformation from “old” Venice, turned towards the sea and mainly only accessible via the port mouths and the San Marco Basin, to “modern” Venice, which can be reached from the north-western edge that centuries previously had played a very much secondary role in the city’s life. Despite this, this brief return of years constitutes a fundamental moment in the history of the contemporary city that, far from being that unchanged, unchangeable organism that false tourist mythology continues to present us with even today, precisely in this short space of time and also thanks to the exceptional work of a technician as is Eugenio Miozzi, has come up to speed and somehow completed its entrance into modern times.
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La Venezia di Eugenio Miozzi di Riccardo Domenichini
Il quarto decennio del Novecento rappresenta per la Venezia insulare un punto di svolta per molti aspetti ancora più decisivo di quello che, novant’anni prima, è stato segnato dalla realizzazione del collegamento ferroviario con la terraferma. La costruzione del ponte automobilistico, condotta dopo un dibattito durato decenni, porta anzi a compimento quel processo di capovolgimento degli equilibri del sistema urbano cui l’arrivo del treno a Santa Lucia aveva dato avvio e segna il de nitivo passaggio dalla Venezia “antica”, rivolta verso il mare e accessibile principalmente dalle bocche di porto e dal Bacino di San Marco, a quella “moderna”, il cui punto di arrivo è quel margine nordoccidentale che nei secoli precedenti ha avuto nella vita della città un ruolo del tutto secondario.
L’uomo giusto al posto giusto La discussione sull’ipotesi di aumentare i collegamenti fra Venezia e la terraferma si è sviluppata a partire dalla metà dell’Ottocento ed è stata soltanto una parte di quella ben più ampia sulla modernizzazione della città, uscita ormai dai decenni di spaventosa crisi economica che hanno fatto seguito alla caduta della Repubblica. Esteso a ogni sede possibile, dall’amministrazione comunale alle associazioni, dai circoli intellettuali alle riviste, il dibattito ha prodotto una grande quantità di proposte progettuali, alcune assolutamente fantasiose. Esso ha privilegiato inizialmente, in un’ottica ottocentesca, i collegamenti ferroviari e un modello radiale che pone Venezia come fulcro di un sistema di assi diretti a nord (verso Murano e da lì a ovest verso Campalto oppure ancora più a nord verso Mazzorbo e poi San Donà) e a sud, verso Chioggia e Adria. Solo in un secondo momento, maturato il progetto di trasformare il nuovo collegamento da ferroviario a carrabile, ha preso forza l’idea di privilegiare il tracciato sulla distanza più breve, quella sulla quale è stato realizzato il ponte ferroviario. Si deve agli architetti Giuseppe Torres e Giovanni Antonio Vendrasco, che nel 1898 hanno presentato un loro pittoresco progetto per una strada carrozzabile sovrastata da un imponente sistema di torri e arcate neomedievali, la prima proposta di realizzare il nuovo asse come ampliamento del ponte ferroviario. Questa idea viene ribadita dalle linee guida emanate pochi anni dopo (nel 1900) da una commissione guidata da Alessandro Betocchi, che ssa punti fermi che ritroviamo mantenuti, decenni dopo, nel progetto realizzato: il tracciato a anco del ponte ferroviario, una struttura su pili che limiti al massimo i possibili danni al regime idraulico lagunare e l’arresto del collegamento al margine della città, senza concepire (come facevano invece molte proposte ottocentesche) ipotesi di realizzazione di un terminale di arrivo più vicino al centro, che comporterebbe demolizioni e manipolazioni troppo invasive del patrimonio edilizio. Dopo la prima guerra mondiale, lo sviluppo dell’area industriale di Marghera e la sempre più impellente necessità di un suo collegamento alle strutture portuali hanno reso improcrastinabile la realizzazione dell’opera. Un concorso bandito nell’immediato dopoguerra non sortisce risultati signi cativi ed è necessario attendere il 1928 perché l’amministrazione comunale assuma un ruolo attivo affidando a Vittorio Umberto Fantucci l’incarico di uno studio dettagliato del problema. La sua proposta di massima si compone di due parti: un asse stradale che correndo a lato del ponte ferroviario congiunge la terraferma con l’area della Marittima e il cosiddetto “Canal Piccolo”, che con un percorso tortuoso che sfrutta gli esistenti rii dei Tolentini, del Magazen e di Ca’ Fo-
1 - Il vecchio ponte dell’Accademia in corso di smantellamento e il nuovo ponte già aperto al traffico, foto Giacomelli, 1933. Tutte le foto che accompagnano questo saggio provengono da: Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti, Fondo Eugenio Miozzi.
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2 - Il cantiere del ponte stradale di collegamento fra Venezia e la terraferma, foto Giacomelli, 1933. 3 - La cerimonia di inaugurazione del Ponte del Littorio. All’estrema destra, Eugenio Miozzi a anco dei principi di Piemonte, 25 aprile 1933.
scari opportunamente allargati, consente a chi arriva in città di raggiungere velocemente il centro, senza dover percorrere le due lunghissime anse del Canal Grande. Il progetto di massima di Fantucci ha principalmente una funzione: quella di costituire la base sulla quale il 26 giugno 1930 si stipula a Roma una convenzione fra Stato e Comune di Venezia per garantire la celere realizzazione dell’opera. Lo Stato la nanzierà per il 75%, il resto spetta a Provincia e Comune. Quest’ultimo, alla cui guida viene chiamato il podestà Mario Alverà, deve individuare chi può essere in grado di trasformare in esecutivo il progetto di massima, e soprattutto di gestirne e dirigerne la complessa realizzazione. La persona scelta è l’ingegnere Eugenio Miozzi, che all’epoca dirige l’ufficio del Genio Civile di Bolzano. Bresciano di nascita, classe 1889, Miozzi ha maturato in oltre quindici anni di servizio prima in Libia e poi a Udine, Belluno e Bolzano, e soprattutto grazie all’intensa opera di riedi cazione dei ponti distrutti dalla prima guerra mondiale, una vasta esperienza nella progettazione e costruzione di opere infrastrutturali di notevole impegno e appare in grado di ricoprire un ruolo che gli attribuisce grandi responsabilità e poteri. La sua collaborazione con Alverà sarà strettissima e i due, insieme, imprimeranno una forte accelerazione a quel processo di trasformazione in senso “moderno” della città fortemente voluto dal governo di Mussolini. Ampiamente pubblicizzata dai cinegiornali, la realizzazione del collegamento con la terraferma rientra pienamente in quella politica delle grandi opere che il governo fascista va propugnando e che riveste per esso un fortissimo signi cato politico e di propaganda. Quasi contestualmente a questo incarico, Miozzi diventa Ingegnere capo della Direzione lavori e servizi pubblici del Comune di Venezia: da questo momento gestirà con pugno di ferro la realizzazione di una lunga serie di interventi che in pochi anni, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, trasformeranno il volto della città.
“L’isolamento di Venezia è nito” Pubblicizzata come fulgido esempio di “rapidità fascista”, la realizzazione guidata da Miozzi richiede meno di due anni: iniziato a luglio del 1931, “il gigantesco ponte lagunare voluto dal Duce” (così recitano i titoli di testa di un cinegiornale Luce girato il giorno dell’apertura, che proseguono: “l’isolamento di Venezia è nito senza alcuna offesa alla sua divina bellezza”) viene inaugurato con grande solennità il 25 aprile 1933 alla presenza dei Principi di Piemonte: il futuro re Umberto di Savoia e sua moglie Maria José. Discostandosi dall’idea di Vittorio Umberto Fantucci, che aveva previsto una più spartana struttura in cemento armato, Miozzi preferisce recuperare forme, tecniche e materiali impiegati nel vicino ponte ferroviario e concepisce una lunghissima serie di arcate in laterizio su pili in pietra d’Istria. Il nuovo ponte corre per tutto il suo percorso esattamente a anco di quello ottocentesco, separandosene solo poco prima dell’arrivo con una scenogra ca curva che sale leggermente e immette alla rampa di accesso al piaz174
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO zale di arrivo, posizionato non dove Fantucci aveva pensato ma più avanti verso la città, in un’area relativamente libera da edi cazione posta fra i giardini Papadopoli, il convento di Santa Chiara e il rio della Scomenzera. Il piazzale copre una super cie di 30.000 metri quadrati, attrezzati con distributori di carburante, fermata della lovia, sedi per servizio facchini, vigili urbani e pompieri ed è dominato dall’enorme mole dell’autorimessa comunale, concreta immagine di quella modernità che con l’arrivo del traffico automobilistico ha fatto il proprio ingresso a Venezia. Essa viene in qualche modo tenuta a distanza di sicurezza dal tessuto della città antica dalla cortina edilizia che si affaccia sul Canal Grande, che la pur notevole campagna di demolizioni cui si deve dar luogo attentamente salvaguarda. L’autorimessa ha una capienza a pieno regime di 2.500 automobili oltre a tutti i servizi, lavatura, officina, negozi, uffici ecc., su una super cie di 9.000 metri quadrati. Contrariamente a quanto ha fatto con le strutture del ponte, qui Miozzi adotta in forma esclusiva la tecnologia del cemento armato e rifugge qualunque, peraltro impossibile, scrupolo mimetico. Segno dei tempi nuovi, nel rispetto dei principi del razionalismo architettonico l’autorimessa deriva la propria forma dalle funzioni per cui è stata realizzata. La relazione generale del progetto dichiara: “Dal punto di vista estetico crediamo che dovrà essere conservato all’edi cio un carattere eminentemente semplice e rispondente alla sua funzione, evitando di mascherarne l’ossatura poderosa e già di per se stessa esteticamente compiuta nella sua austerità con appiccicature e sovrastrutture decorative. Vorremmo appunto per questo che l’edi cio sorto ai nostri giorni per uno scopo eminentemente pratico e moderno non se ne vergogni mendicando al passato una veste anacronistica, ma rispetti in sé i caratteri della nostra epoca e specialmente dell’Italia nuova che deve lasciare anche nel campo artistico una impronta tutta sua”. Le fotogra e dell’inaugurazione del ponte automobilistico mostrano che a questa data il cantiere dell’autorimessa è ancora in una situazione assai arretrata: nella prima fase dell’impresa sono stati privilegiati infatti la costruzione del ponte automobilistico, del piazzale e del nuovo canale che da qui porta al centro città. Da questo momento i lavori per l’autorimessa ricevono la dovuta accelerazione: nel programmarne le fasi Miozzi rivela il grande senso pratico che lo guida quando progetta e gestisce ogni aspetto della realizzazione. Il cosiddetto edi cio anteriore (per chi guarda dal piazzale, la parte che sorge a destra e che affaccia verso la discesa dal ponte automobilistico) e i due sistemi di rampe (una verso il piazzale e una sul lato posteriore, verso il rio della Scomenzera) vengono realizzati per primi. Questa parte potrà funzionare senza problemi anche quando si procederà alla costruzione dell’altra metà, un intervento a sua volta potenzialmente scalabile nel tempo per far fronte al progressivo previsto aumento degli automezzi in arrivo a Venezia. Nella struttura ideata da Miozzi, ogni solaio può fungere da terrazzo di copertura: ogni
4 - Modello di una proposta di sistemazione del piazzale automobilistico con l’autorimessa, foto Giacomelli, c. 1933. 5 - Una delle rampe dell’autorimessa in costruzione, foto Ferruzzi, 1 giugno 1933.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA nuovo livello realizzato può quindi essere immediatamente utilizzato senza dover attendere che l’edi cio venga compiuto in tutti i suoi piani. Fondamentali punti di snodo funzionale e allo stesso tempo elementi formali decisivi sono i due “pozzi di San Patrizio”, descritti nella relazione come quattro sistemi di rampe parallele e sovrapposte una all’altra, e più precisamente: salita ai piani pari, salita ai piani dispari, discesa dai piani pari, discesa dai piani dispari. Punto di arrivo del viaggiatore motorizzato e punto di partenza per quello che, lasciata l’automobile in uno dei suoi box, si appresta a salire su un motoscafo per raggiungere velocemente Rialto o San Marco grazie al nuovissimo canale inaugurato assieme al ponte del Littorio, l’autorimessa è il fulcro del complesso sistema di collegamento di Venezia con la terraferma e la parte di esso che agevolmente può essere assunta a simbolo dell’intera, gigantesca impresa. Rispetto alla proposta di Vittorio Umberto Fantucci per il “Canal Piccolo”, Miozzi sceglie un percorso più diretto, che da un lato impone una campagna di scavi molto più impegnativa ma allo stesso tempo consente di evitare tutti quegli interventi di allargamento dei rii esistenti e quindi di manomissione dell’edilizia storica che sarebbero inevitabili nella realizzazione dell’altro progetto. Il fatto che il nuovo canale attraversi per buona parte del suo percorso aree non edi cate viene sentito come un elemento su cui porre particolare attenzione già dal Consiglio Superiore delle Belle Arti, che approva il progetto il 24 marzo 1931. In attesa di un piano e dei conseguenti progetti che possano conferire a questa nuova parte della città il suo giusto carattere di rappresentanza (operazione che gli eventi della seconda guerra mondiale imporranno di deferire ai decenni successivi) vengono comunque realizzati, su disegno di Eugenio Miozzi, i sette ponti che scavalcano il nuovo canale. Consapevole della necessità di confrontarsi, per queste opere, con l’immagine della città antica e stimolato dalla s da tecnologica che questo obbligo comporta, Miozzi abbandona di nuovo il cemento armato e recupera materiali tradizionali: legno, laterizio e soprattutto la pietra d’Istria. Grazie a un metodo di precompressione la cui ideazione Miozzi orgogliosamente rivendica, l’utilizzo di quest’ultima gli permette nei cinque manufatti più rappresentativi che si succedono partendo dal ponte Papadopoli no a quello di Ca’ Foscari, subito prima dello sbocco in Canal Grande, di realizzare strutture che ripropongono la caratteristica esilità dei ponti storici veneziani. L’impresa del Rio Nuovo viene condotta in parallelo con quella del ponte del Littorio e del piazzale automobilistico, ma a partire dal 1932 Miozzi deve seguire in prima persona altre due importanti realizzazioni in punti diversi della città, questa volta però confrontandosi direttamente, senza possibilità di stratagemma alcuno (una cortina edilizia risparmiata dalle demolizioni, un tracciato condotto soprattutto su aree inedi cate), con il cuore stesso della Venezia storica.
Sul Canal Grande: i ponti degli Scalzi e dell’Accademia
6 - Nella pagina a anco, in alto: i lavori di scavo e di realizzazione delle rive del Rio Nuovo, all’imbocco dal Canal Grande, foto Ferruzzi. La data 4 aprile 1933 è certamente errata, perché non appare ancora realizzato il ponte Papadopoli. 7 - Nella pagina a anco, al centro: il vecchio e il nuovo ponte dell’Accademia ancora affiancati, gennaio 1933. 8 - Nella pagina a anco, in basso: la cerimonia di inaugurazione del Rio Nuovo al ponte de la Cereria, 25 aprile 1933.
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Il rischio di prendere in esame singolarmente tutte le grandi opere realizzate a Venezia nel corso degli anni Trenta è che si perdano la stupefacente contemporaneità nella quale tutte queste vicende sono state condotte e i profondi intrecci che le hanno legate una all’altra. Vale la pena quindi sottolineare che negli stessi anni in cui vastissimi cantieri portano a termine in velocità le strutture per il collegamento automobilistico di Venezia con la terraferma, sul lato opposto del Canal Grande, a Santa Lucia, ha inizio una vicenda che non avrà uguale fortuna e che si concluderà dopo mille peripezie solo vent’anni dopo, quella della ricostruzione della stazione ferroviaria. Che l’edi cio realizzato nella seconda metà dell’Ottocento debba cedere il posto a uno più adeguato sia dal punto di vista funzionale sia da quello rappresentativo è stato ribadito n dai primi anni del Novecento, ma le molte proposte a vario titolo presentate sono cadute nel vuoto. Il governo fascista non si lascia naturalmente sfuggire questa nuova occasione e proprio nel 1932 affida ad Angiolo Mazzoni, ingegnere capo delle Ferrovie, l’incarico di un progetto di totale ricostruzione del fabbricato viaggiatori e del palazzo sede della direzione compartimentale. Si apre così una sequenza di fatti impossibile da condensare in poche righe, che vede il bando di un concorso e il successivo affidamento congiunto dell’incarico al vincitore Virgilio Vallot e a Mazzoni, una stupefacente proliferazione di progetti condotta fra le liti mentre la vecchia stazione, prontamente demolita, viene
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO rimpiazzata da un enorme cantiere che non si sa come far procedere e in ne, nel decennio successivo, la sospensione dei lavori a causa degli eventi bellici. In questa catastro ca dimostrazione di inettitudine gestionale egualmente condivisa da progettisti, amministratori e politici, Eugenio Miozzi affronta con ben altra determinazione il problema della ricostruzione del ponte degli Scalzi. Isolata anche formalmente dalle vicende della stazione, essa si lega invece al grande progetto del collegamento di Venezia con la terraferma di cui, come dichiarano gli elaborati ufficiali del progetto, costituisce il quinto lotto di lavori. Il ponte in ferro deve essere sostituito sia per problemi di età e di degrado dei materiali, sia per una sua congenita limitazione costruttiva, che impedisce la sostituzione di singole parti della struttura. Stabilito che il nuovo ponte sorgerà esattamente sul luogo del vecchio, come per i ponti sul Rio Nuovo Miozzi si pone l’obiettivo primario della realizzazione di una struttura ad arco unico della massima sottigliezza possibile, qui reso assai più complesso dalla luce di 40 metri necessaria per scavalcare il canale. I tempi sono ancora una volta velocissimi: fra il mese di maggio del 1932 e l’ottobre dell’anno successivo si procede alla costruzione delle due spalle del ponte, che vengono fatte poggiare su pali in legno e cemento. Questa è la fase più lunga e complessa, cui segue (da maggio ad agosto del ‘34) quella del montaggio della centina metallica e della posa in opera dei conci in pietra d’Istria giuntati a secco, che costituiscono la volta. Nei due mesi successivi vengono realizzate le soprastrutture, il piano dei gradini e i parapetti. Un problema collaterale che Miozzi risolve con grande abilità è quello del passaggio delle condotte del gas, che non possono essere annegate nella struttura del ponte, troppo sottile, e che vengono quindi fatte passare all’interno del corrimano delle balaustre. Nel 1952 Miozzi farà realizzare a proprie spese una grande incisione con una veduta del ponte, che per stile e tecnica di esecuzione ripropone la gloriosa tradizione della veduta settecentesca e che ovviamente ribadisce in questo modo la natura del ponte come presenza “naturale” nella Venezia antica. Allo stesso tempo, però, ne dichiara la modernità tecnologica in una lunga iscrizione, nella quale Miozzi, inventandosi addirittura 177
I TRE FUTURI DI VENEZIA una dedicazione a se stesso che non risulta sia mai stata neppure proposta, palesa tutto il proprio orgoglio per quella che considera una grande impresa costruttiva:
“Veduta del Ponte Miozzi a Venezia detto anche Ponte della Stazione o Ponte degli Scalzi, dalla vicina Chiesa. È in pietra d’Istria senza rinforzi di metallo in cemento armato: la ampiezza è di metri 40.44 e lo spessore della corona in chiave è di soli centimetri 40. La esilità di questo ammirato arco è stata ottenuta con il sistema delle murature precompresse come lo stesso Autore aveva già fatto nel Ponte Druso di Bolzano, di Cantina Fredda a Bressanone e di Franzenfeste negli anni 1928 e 1930 dieci anni prima che lo stesso sistema in Italia pervenisse come invenzione forestiera. La calcolazione di questo Ponte è scritta negli Annali dei Lavori Pubblici dell’anno 1935”. Come agli Scalzi, anche all’Accademia è stato realizzato nella seconda metà dell’Ottocento un ponte in ferro che presenta gli stessi problemi dell’altro e deve essere sostituito. Qui il canale è più largo e la luce raggiunge i 48 metri, da coprire con una campata unica per non interferire con la navigazione sottostante. Scartata l’ipotesi di un sottopassaggio, il podestà bandisce un concorso nazionale ma l’urgenza dell’intervento impone la costruzione di un ponte provvisorio, della cui progettazione Miozzi si assume l’incarico. Con la sua ormai consolidata capacità di individuare i problemi egli ha ben chiaro che in una costruzione non de nitiva l’aspetto formale passa in secondo piano rispetto a quello funzionale. Il legno scelto per la realizzazione ha, ovviamente, una durata limitata nel tempo e per questo il suo progetto dovrà garantire sia la realizzabilità dei frequenti prevedibili inteventi di manutenzione sia la possibilità di utilizzare il ponte anche durante questi lavori. Conoscendo le limitazioni costruttive del ponte in ferro, Miozzi si concentra particolarmente sul sistema di montaggio: “Dirò anzi che il ponte è studiato ed eseguito in modo tale che se in futuro fosse necessario provvedere alla sostituzione del legname avariato, tale operazione potrà farsi per gradi, senza mai interrompere il transito; e la sostituzione potrà anche essere completa. In altre parole, pur essendo in legname, il ponte potrebbe avere durata senza limiti, se accompagnato da una diligente manutenzione”. Le parole di Miozzi, nella pubblicazione del 1935 che egli dedica a quest’opera, suonano profetiche vedendo il ponte ancora al suo posto dopo ottantacinque anni. Realizzato a anco del vecchio, il nuovo ponte dell’Accademia sorge in poche settimane. L’assemblaggio delle parti ha inizio il 10 dicembre 1932 e termina il 15 gennaio succes-
9 - Veduta del Ponte Miozzi a Venezia, incisione su rame rmata “E. Milani fecit, 1952”.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO sivo. Solo per consentire ai tecnici di posare le condutture del gas l’apertura deve però essere rimandata di un mese e il 15 febbraio, tolta di mezzo l’ormai inutile carcassa del vecchio ponte, il traffico sul nuovo può essere de nitivamente aperto. Il fatto che tutte le opere di cui si è detto nora vengano studiate e realizzate nel giro di quattro anni, non deve far pensare che esse assorbano l’intera attività di Miozzi in questo periodo. Il congiungimento con la terraferma, ad esempio, rientra per lui nel contesto più ampio della creazione di un sistema moderno ed efficiente di gestione del traffico a livello territoriale, del quale fanno parte anche le realizzazioni, rispettivamente nel 1933 e nel 1934, delle autostrade Venezia-Padova e Venezia-Trieste. Portando alle estreme conseguenze l’idea del congiungimento, Miozzi concepisce allora, proprio nel 1933, una soluzione per dare al traffico automobilistico in arrivo a Venezia la possibilità di proseguire verso il Lido, e di lì verso Chioggia e la strada Romea. Questo progetto, che non ha seguito, è il primo di una lunga serie che Miozzi produrrà soprattutto negli anni Cinquanta e prevede un tracciato che corre dietro alla Stazione Marittima e poi alla Giudecca, sagacemente deviando per dirigersi verso il Lido con una angolazione che rende la strada invisibile dal Bacino di San Marco. Ponti apribili consentono di scavalcare i canali, mentre per le bocche di porto Miozzi prevede strutture funicolari in ferro sul modello dei grandi ponti americani di ne Ottocento, quello di Brooklin in testa. Proprio il Bacino di San Marco viene interessato, negli anni dal 1932 al 1936, dalla realizzazione della Riva dell’Impero, un intervento di enorme impatto visivo che si inquadra nella volontà di rilanciare l’antico porto della città come punto di attracco delle navi da crociera. Con un cantiere per certi aspetti di imponenza pari a quello del ponte del Littorio, il margine urbano che dall’area marciana va verso il Lido viene così trasformato in una banchina continua e di larghezza inusitata, della cui sistemazione architettonica, che prevede anche la realizzazione di alcuni nuovi ponti, viene incaricato l’architetto Duilio Torres. In un certo senso la nuova Venezia degli anni Trenta si regge sull’equilibrio fra due poli: quello della città moderna e del traffico ferroviario e motorizzato, che grava sulle aree di Piazzale Roma e della stazione, e quello della città pittoresca e turistica, che ha naturalmente San Marco e il Lido come fulcro. Qui, nell’area dell’Hotel Excelsior e del nuovo Palazzo del Cinema, sede del festival nato nel 1932, fra il ‘37 e il ‘38 Miozzi progetta e realizza la sede estiva del Casinò Municipale, costretto dalle leggi sull’autarchia a rinunciare al cemento armato e a recuperare materiali e tecniche che possano evitare l’utilizzo del ferro. Nella seconda metà degli anni Trenta, porta in ne a compimento una profonda ristrutturazione del teatro La Fenice, che riguarda soprattutto i foyer e gli ambienti di rappresentanza ma tocca anche la sala con l’apertura del grande ingresso alla platea sotto il palco reale. Dopo l’eccezionale dispendio di energie dispiegato nella prima metà del decennio, gli anni Trenta si chiudono (complici sicuramente le sanzioni commerciali imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni e, successivamente, il precipitare degli eventi verso la guerra) in tono minore. Ciononostante, questo breve torno d’anni costituisce un momento fondamentale nella storia della città contemporanea che, lungi dall’essere quell’organismo immutato e immutabile che la mendace mitologia turistica ancora oggi ci presenta, proprio in questo breve periodo e anche grazie all’apporto eccezionale di un tecnico come Eugenio Miozzi ha accelerato e in qualche modo portato a compimento il proprio ingresso nella modernità. © Riproduzione riservata
Bibliogra a E. Miozzi, Il ponte di legno sul “Canal Grande” a Venezia, in “Annali dei Lavori Pubblici”, fasc. 5, 1933. E. Miozzi, Il ponte del Littorio, Venezia, Edizione Soc. Acc. Zanetti, 1934. E. Miozzi, Dal ponte di Rialto al nuovo ponte degli Scalzi, in “Annali dei Lavori Pubblici”, fasc. 6-7, 1935. V. Farinati, a cura, Eugenio Miozzi 1889-1979. Inventario analitico dell’archivio, Venezia, Archivio Progetti Iuav, 1997. G. Zucconi, a cura, La grande Venezia, una metropoli incompiuta tra Otto e Novecento, Venezia, Marsilio, 2002.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
An interpretative and poetical discourse on Venezia: Carlo Scarpa at the Querini Stampalia Foundation by Orietta Lanzarini
The name of Carlo Scarpa has always been associated with that of his city of birth, Venice. A combination that, right from the outset, was always going to be a fruitful exchange: from the Venetian cultural context, the architect obtains countless motifs, compounds and materials, to enrich his language and therefore returns them to the city in the form of works that make for a masterful blend of the modern with the traditional. In thus doing, he manages to show the current nature of the artistic, architectonic and urban values that have been conveyed by Venice since its very beginning. This design strategy is expressed in an exemplary manner in the reform works of the Querini Stampalia Scienti c Foundation (1959-1960; 1963). Thanks to the support offered by director Giuseppe Mazzariol, Scarpa, helped by the engineer Carlo Maschietto, can return a precise architectonic and functional identity to the interior spaces of the building that houses the institution. The new gangway-bridge, the most complicated part to develop in bureaucratic terms, together with the entrance area, the large “portego” and the rear garden, form the four episodes through which Scarpa’s extraordinary spatial discourse is structured. It is a discourse he manages to expand masterfully from the building to the city and vice versa, thanks to the continuous recollection of the unique qualities of Venice: its light, colour and water.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
Un discorso interpretativo e poetico su Venezia: Carlo Scarpa alla Fondazione Querini Stampalia di Orietta Lanzarini
Dai suoi esordi professionali, a metà degli anni venti, no alla morte, nel 1978, Carlo Scarpa realizza a Venezia circa cinquanta lavori, senza contare i numerosi progetti, rimasti sulla carta, e le decine di allestimenti espositivi. Se si fossero tutti conservati, apparirebbe ancora più evidente quanti spiragli di modernità questi interventi, spesso nel cuore del tessuto storico, abbiano aperto in una città assoggettata, più di ogni altra, a dinamiche urbane e architettoniche resistenti a qualsiasi assalto del nuovo. Dinamiche che l’architetto, veneziano di nascita e di formazione, si rivela sempre capace di afferrare nelle loro linee essenziali e quindi di trasformare in architetture e allestimenti in grado sia di integrarsi e dialogare con il tessuto preesistente, sia di tenere il passo con un dibattito culturale che travalica i ristretti con ni lagunari. Il contributo scarpiano, però, appare fondamentale anche per un’altra ragione: in ogni occasione, l’architetto riesce a dimostrare, valendosi solo della forza maieutica del suo linguaggio, l’urgenza di mantenere viva la vocazione esplorativa e multiculturale che aveva determinato le sionomie e la grandezza di Venezia, messa già in pericolo da un processo di irrigidimento normativo e di musealizzazione, giunto oggi al suo acme. In questo senso, un caso esemplare è l’intervento di riordino del palazzo sede della Fondazione Scienti ca Querini Stampalia, radicalmente aggiornato da Scarpa da un punto di vista architettonico e, allo stesso tempo, restituito alla città ripristinandone gli originali meccanismi di relazione con il contesto lagunare, con «quei valori inalienabili di colore-luce – ricorda il suo committente Mazzariol – che hanno caratterizzato e personalizzato lo spazio-ambiente veneziano»1.
Da Manlio Dazzi a Giuseppe Mazzariol. Un progetto condiviso La vicenda ha il suo incipit il 10 giugno 1948, quando Manlio Dazzi, direttore dell’istituzione veneziana, contatta telefonicamente Scarpa, che conosceva n dagli anni trenta, invitandolo a compiere un sopralluogo «per un concreto studio sulle possibilità di sistemazione dell’ingresso e del giardino del Palazzo [Querini]»2. Durante la riunione del 21 luglio 1949, il Consiglio di Presidenza della Fondazione valuta l’opportunità di assegnargli il progetto di riordino dell’area d’ingresso alla biblioteca, della sala cataloghi al primo piano e del giardino, da trasformare in una corte pavimentata per contenerne le spese di manutenzione3. Il 4 febbraio 1950, Scarpa invia alcuni disegni e un preventivo di spesa, ma la mancanza di nanziamenti impedisce di dare corso al progetto4. In quell’anno, entra a far parte dell’organico della Querini, come assistente di Dazzi, anche Giuseppe Mazzariol, nominato vicedirettore nel 1951, poi responsabile amministrativo nel 1956, e in ne direttore nel 1958, carica che manterrà no al 1974. Nel 1959, a un anno dal suo insediamento, egli riprende le la della riforma impostata da Dazzi, ampliandone il portato e affidandosi ancora all’amico Scarpa, «outsider di genio dell’architettura italiana contemporanea»5, al quale concede un’autonomia d’azione pressoché completa. Con la ducia accordatagli da Mazzariol, l’architetto può intervenire con decisione su alcune preesistenze, compiendo un’operazione di interpretazione critica impensabile ai nostri giorni, per dare vita al progetto culturale, formale e funzionale messo a punto con il suo committente. I «quattro fondamentali temi» che Scarpa si assume l’impegno di affrontare – «il ponte con l’accesso dal campiello [Querini]; l’entrata con la barriera di difesa dalle acque alte; il “portego” aula; e il giardino»6 –, implicano ciascuno diversi livelli di difficoltà di tipo logistico, tecnico e burocratico, oltre che compositivo.
1 - Nella pagina a anco, in alto a sinistra: soluzione per il ponte-passerella del 11 novembre 1959 (da Venturin 2009-2010, p. 76; particolare). 2 - In alto a destra: veduta del ponte del Diavolo, Torcello (archivio privato). 3 - In basso: veduta del ponte-passerella (da Mazzariol 1964, p. 33).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Occhi che non vedono. Il ponte-passerella (1959-1960; 1963) Se all’interno di palazzo Querini l’autorità del direttore assicura a Scarpa la necessaria libertà di manovra, all’esterno, invece, la messa in opera del principale dispositivo atto a riattivare la sua connessione con la città si rivela alquanto complicata. Per poter costruire «il più leggero e rapido arco di congiunzione che sia stato realizzato a Venezia negli ultimi secoli»7, infatti, l’architetto è costretto a fronteggiare, con la preziosa collaborazione dell’ingegnere Carlo Maschietto, un accidentato iter burocratico, e di conseguenza progettuale, testimoniato da più di cinquanta disegni8. Prima del suo intervento, l’ingresso alla Fondazione – sede della «biblioteca più frequentata d’Italia», di una pinacoteca e di un ufficio idrogra co visitati, negli anni sessanta, da circa 300 utenti al giorno9 –, avveniva attraverso una porta aperta alla ne dell’Ottocento all’inizio di calle Querini, in un punto largo meno di un metro. Per garantire un accesso agevole e più dignitoso all’istituzione, l’unica soluzione possibile era gettare un ponte tra la riva del campiello Querini e una delle bucature presenti sulla facciata del palazzo, ovvero una coppia di porte d’acqua e quattro nestre. Data la posizione antistante ai gradini di attracco delle barche sul lato del campo, però, due delle aperture rimanevano inutilizzabili. Compiuta questa scelta, andava superata la differenza di quota, pari a circa un metro, tra i due punti di appoggio del nuovo collegamento e de nito il suo rapporto con il ponte comunale, situato a poca distanza. In due fasi – tra novembre 1959 e settembre 1960, e ancora tra febbraio e marzo 1963 –, Scarpa sperimenta tutte le combinazioni possibili per agganciare il palazzo alla sponda opposta servendosi principalmente, ma non solo, di una struttura che chiama ponte-passerella. Nella prima ipotesi, presentata per l’approvazione da Maschietto in data 11 novembre 1959, Scarpa stabilisce già la posizione – in corrispondenza della prima nestra a destra delle porte d’acqua, trasformata in ingresso –, l’aspetto generale e i diversi materiali che caratterizzeranno l’opera eseguita10 ( g. 1). Dopo alcuni mesi di incertezza, l’Ufficio Tecnico sollecita l’ingegnere a fornire un progetto esecutivo con relativi calcoli il 7 marzo 1960, ma il 20 aprile arriva già il parere negativo della Commissione Edilizia11. Le ragioni dell’impasse sono da ricercare, verosimilmente, nella vicinanza tra il nuovo passaggio sospeso e il ponte preesistente che diventa, da questo momento in poi, il protagonista di un paradossale capitolo della vicenda. Per assecondare le richieste della suddetta Commissione, Maschietto inoltra, il 5 maggio 1960, una soluzione in cui Scarpa sostituisce la leggera passerella con un goffo raccordo, formato da alcuni gradini e un pianerottolo, tra il ponte comunale e il nuovo ingresso al palazzo Querini, da aprirsi tra le due nestre sulla fascia destra della facciata12 ( g. 2). Segue la presentazione, in data 11 luglio, di una variante più curata della bretella di collegamento, ma anche di una nuova soluzione per il ponte-passerella, stavolta con punto d’approdo nella porta d’acqua di destra; il 20 settembre, però, l’Ufficio Tecnico conferma ai progettisti che l’opzione scelta è «il raccordo ad angolo retto con il Ponte [preesistente]»13. A questo punto, Scarpa e Maschietto chiudono le comunicazioni con gli uffici comunali. La vi-
4 - Soluzione per il pontepasserella del 5 maggio 1960 (da Venturin 2009-2010, pp. 78-79; particolare).
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO cenda rimane in sospeso no al 6 febbraio 1963, alla vigilia del completamento degli spazi interni, quando il Sindaco, Giovanni Favaretto Fisca, riceve un’ulteriore proposta di ponte-passerella da costruirsi nella posizione di quello attuale14. In data 11 febbraio la Commissione Edilizia, pur riconoscendo la necessità di garantire un «accesso provvisorio» dal campiello Querini al palazzo rinnovato, in vista della sua inaugurazione, chiede ancora di spostare il piccolo ponte il più lontano possibile da quello esistente15. Vista la situazione di stallo, il Presidente Gino Luzzatto scrive al Sindaco il 21 febbraio, dichiarando apertamente ciò che l’iter creativo scarpiano tacitamente esprimeva: «tutti i lavori di restauro e ripristino del Palazzo a pianterreno sono stati progettati ed eseguiti in funzione del nuovo ponticello»16. Il consenso alla sua realizzazione, in via provvisoria, giunge nalmente il 15 marzo, con il vincolo di mantenerlo in situ soltanto no alla ricostruzione del ponte comunale, per fortuna mai attuata17. Una volta tanto, la prassi italiana di rendere permanente ciò che nasce con carattere di provvisorietà ha salvato un componente essenziale di un capolavoro dell’architettura del Novecento. Fin dai primi studi è chiaro che le «forme tipicamente veneziane», ricordate da Mazzariol18, sulle quali Scarpa modella la passerella queriniana sono i ponti senza sponde o parapetto, un tempo diffusi in tutta Venezia ( g. 3). Perché l’architetto sceglie questa fonte? Le ragioni potrebbero essere almeno due. Senza barriere laterali è possibile vedere simultaneamente l’arco e i gradini che formano l’impalcato, ovvero la struttura e la forma del percorso che l’osservatore è invitato a intraprendere, ma soprattutto mantenere un contatto visivo costante con l’acqua da ambo i lati. Il ponte-passerella della Querini, dunque, si offre come un tragitto ininterrotto – prima in crescendo, poi diminuendo, senza soluzione di continuità –, durante il quale il fruitore può sempre percepire la presenza viva dell’acqua da ogni punto dell’arcata sospesa che lo sostiene, limitata solo da un corrimano di disegno essenziale ( g. 4). Anche per questo, l’arrivo negli spazi dell’atrio offre realmente la sensazione di un approdo, anticipando che l’acqua sarà protagonista anche all’interno.
5 - Pianta generale del pianterreno (da Mazzariol 1964, p. 28).
Il canto dell’oro nell’ombra19 La sistemazione degli interni (1960-1963) Alla vigilia dell’intervento di Scarpa, il pianterreno del palazzo Querini si presentava – ricorda Mazzariol – «devastato da un arrangiamento scenogra co vagamente neoclassico con colonnati decorativi e banale foderatura in legno», allestito nel XIX secolo, che aveva «decisamente compromessi i percorsi fondamentali e originali dell’edi cio»20. Con l’aggravante di essere praticamente inservibile a causa delle acque alte che periodicamente ne invadevano gli spazi. Su questi due problemi – la ricostruzione di un percorso, scandito da una sequenza di macro e micro episodi costellati da una miriade di materiali diversi, e il “governo delle acque” nel loro passaggio dall’esterno all’interno di uno spazio abitativo – si concentra l’azione interpretativa, sottilmente ambigua, dell’architetto. Com’è sua prassi, infatti, l’opera risponde a principi di chiara efficienza architettonica e funzionale, ma allo stesso tempo racchiude in sé un’irrinunciabile vocazione espositiva, espressa attraverso la ricerca continua di un con183
I TRE FUTURI DI VENEZIA
6 - Veduta dall’atrio verso il giardino (da Dal Co 2006, p. 57).
7 - Veduta dell’interno (da Mazzariol 1964, p. 38).
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tatto sico e percettivo con l’osservatore. Sebbene gli spazi del pianterreno risultino molto articolati, pochi sono i disegni che ne testimoniano la genesi progettuale. A quanto sembra, Scarpa mette a punto da subito la soluzione nale senza ritornare sui suoi passi, se non per precisare alcuni nodi critici o dei dettagli particolarmente complessi21. Tra gli elaborati conservati solo un paio di studi di massima prevedono di mantenere in essere l’obsoleto apparato installato nell’Ottocento. Con la sua rimozione, Scarpa può «ricollocare nei siti originari alcune opere che erano state divelte e inserite altrove a scopo puramente esornativo»22, e in questo modo restituire una forma leggibile al “portego” ( g. 5). Riportato in luce l’antico nucleo compositivo del palazzo, l’architetto inserisce nel pianterreno una nuova struttura autonoma, ma in dialogo costante con le preesistenze. Con una strategia analoga a quella impiegata nella contemporanea Galleria delle sculture di Castelvecchio a Verona (1958-1964), egli sovrappone alla trama irregolare dell’originario tessuto edilizio un organismo rigorosamente ortogonale. In questo modo, l’interazione tra i due assetti contrastanti – stabile e oscillante, attuale e antico –, può ristabilire l’ordine, ma anche rendere pulsante il cuore del palazzo Querini. Le diverse parti che formano la struttura scarpiana sono organizzate lungo tre assi ortogonali – uno trasversale e due longitudinali –, connessi tra loro, che de niscono i principali percorsi del nuovo assetto. Negli episodi spaziali che li scandiscono, l’architetto intraprende uno straordinario esercizio dialettico intorno a tre temi intimamente veneziani: il colore, la luce e l’acqua. Valicato il ponte-passerella, il visitatore viene accolto nello spazio cubico dell’atrio ( g. 6), dove il cromatismo del paesaggio esterno è riverberato da ogni piano che lo compone: dal prezioso «tappeto marmoreo»23 in tessere bianche, rosse, arancio e verdi, dal soffitto in stucco lucido color bronzo, dai pannelli parietali su intelaiatura metallica in marmorino bianco-grigio, e in ne dall’anta dorata in muntz-metal che, pur celando solo degli impianti, viene elevata al rango di quelle opere d’arte, frutto della ricerca Spazialista o Informale, che Scarpa allestiva, negli stessi anni, alla Biennale. Dall’ambiente d’ingresso partono due assi, perpendicolari tra loro, scanditi dai portali antichi riposizionati da Scarpa. Il
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO primo, longitudinale, in linea di continuità con il ponte-passerella, prende la forma di un cannocchiale prospettico che trova il suo fuoco in una porta affacciata sul giardino posteriore ( g. 7). L’intenso fascio di luce che arriva da questa apertura, modulato attraverso delle lastre in graniglia di cemento, alternate a nastri di pietra d’Istria, e un grande tappeto in cocco, attira il visitatore no a fargli scoprire la scala ottocentesca che conduce alla biblioteca, al primo piano. Dopo averlo richiamato qui, Scarpa gli rende la salita interessante, da un punto di vista sensoriale, in due modi: narrandogli il passaggio di testimone fra epoche diverse, espresso dalla foderatura moderna in pietra che protegge, senza nascondere, gli antichi scalini, e offrendo alle sue dita un’inaspettata guida tattile verso l’alto mediante la fenditura scavata al centro del corrimano in legno. Altri due portali antichi segnano l’inizio e la ne del secondo asse, trasversale, che dall’atrio si affianca alla facciata principale assumendo la forma di un pontile, soprelevato e limitato parzialmente da sponde in pietra, scandito da una serie di episodi di forte impatto visuale ( g. 8). A sinistra, la «barriera di contenimento»24 si aggancia a un’articolata scala che scende prima a un piano inferiore in cemento, decorato da oriere quadrate in pietra, e quindi si avvicina alle due inferiate disegnate da Scarpa per transennare le porte d’acqua. A destra, invece, un pianerottolo quadrato, tre pannelli vetrati, e la scatola-totem intagliata, che contiene i termosifoni, si offrono come elementi di sutura tra il pontile e l’aula Luzzatto, il cui sviluppo longitudinale genera il terzo asse del sistema scarpiano. A ogni elemento di questo blocco – grande o minuto, di materia preziosa o umile, liscio o lavorato – l’architetto delega un compito preciso: ri ettere, rompere, deviare o irraggiare le due masse luminose che entrano, diverse ad ogni ora del giorno, dalle grandi porte sul rio e dal portico sul giardino. Per dare ordine all’anarchia della luce, l’architetto si serve, nella grande aula, di una serie di levigati nastri di pietra, disposti sia in senso longitudinale, sia trasversale ( g. 9). Oltre a delimitare le lastre di graniglia del pavimento e delle fasce parietali – sulle quali la luce, invece, si coagula – queste linee lucidissime generano una griglia pulsante, ma rigorosa, che rimette in contatto sico o visuale i diversi elementi coinvolti nel discorso. La trama prosegue ininterrotta oltre il portico, agganciandosi allo
8 - Veduta dell’atrio (da Mazzariol 1964, p. 42).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
9 - Veduta dell’aula Luzzatto (archivio privato).
spazio del giardino. Qui Scarpa innalza il parterre erboso di circa un metro, in modo tale da renderlo indipendente rispetto alle altimetrie del palazzo. Con questa scelta si genera una seduta che consente di cogliere, con un solo sguardo, il caleidoscopio di valori luminosi che dal rio ltrano all’interno e quindi esplodono nella piena luce dell’esterno. Come nel palazzo, anche nel giardino-museo, l’architetto de nisce dei percorsi narrativi atti a stimolare i sensi e la memoria dell’osservatore, lungo i quali si possono incontrare alberi e piante, ma anche antichi capitelli e statue, canali e fontane. Governata con sapienza da Scarpa, l’acqua scorre o si ferma, scompare o riappare assolvendo puntualmente il compito di cucire insieme le diverse parti della sua composizione25. Se nel giardino l’acqua è una presenza tangibile, dentro al palazzo diventa un’entità virtuale, la cui epifania rivela, nelle parole di Mazzariol, «la soluzione del problema, e in più la bellezza, il gioco, l’incanto dell’inatteso»26.
Una città in forma di palazzo Il pontile soprelevato, parallelo alla facciata, termina con una sorta di ballatoio limitato da sponde, che si affaccia su una stanza, a quota più bassa, alquanto anonima ( g. 10). Come nell’atrio, le curate pannellature su staffe che la circoscrivono hanno lo scopo di prevenire le in ltrazioni di umidità; il pavimento in cemento grezzo lasciato a vista, invece, sembra contrastare con la cura spasmodica riservata da Scarpa alle altre parti. Per spiegare questa anomalia, è necessario ritornare a uno dei problemi che hanno dato le mosse all’intervento, ovvero la presenza dell’acqua alta, che rendeva inagibili gli spazi del pianterreno. Quando nel 1961 Mazzariol chiede a Scarpa cosa poteva fare a proposito, egli svela in modo inequivocabile il suo piano: «dentro, dentro l’acqua alta; dentro, come in tutta la città. Solo si tratta di contenerla, di governarla, di usarla come un materiale luminoso e ri ettente. Vedrai i giochi della luce sugli stucchi gialli e viola dei soffitti, una meraviglia»27. La scelta di Scarpa rende la Fondazione Querini un capolavoro e allo stesso tempo, un paradosso senza precedenti. I suoi spazi interni, infatti, sono costruiti per attendere un evento: no a quando questo non si innesca, l’opera rimane imperfetta, perché continuano a mancare quei nessi che consentono alla composizione scarpiana di completarsi. Con l’arrivo dell’acqua alta, lo scambio, solo suggerito, tra i valori peculiari di Venezia e quelli espressi dal palazzo diventa concreto. I canali creati da Scarpa nel pianterreno si riempiono d’acqua no a collegarsi alla sala che chiude il percorso ora inondata come una piccola laguna, nella quale si ri ettono le due colonne antiche che occhieggiano dalla muratura ( g. 1). Tutti i meccanismi visuali, cromatici e luministici rimasti inerti no a quel momento, sono attivati dall’acqua, così che Venezia e il suo 186
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO doppio possano vivere all’unisono per alcune ore. Quando l’evento naturale nisce, la Fondazione Querini Stampalia torna nel suo stato di dormienza, in attesa della prossima marea. © Riproduzione riservata
L’autrice ringrazia Alessandro Brodini per i consigli e la revisione del testo.
Note 1 Ivi, p. 27; in corsivo nel testo. 2 Citato in G. Busetto, Carlo Scarpa alla Querini Stampalia oggi, in Manzelle 2002, p. 15. 3 G. Busetto, Carlo Scarpa alla Querini Stampalia: ieri, oggi, domani, in Mazza 1996, pp. 9-10. 4 Ibidem e per i disegni Venturin 2009-2010, catt. 52, 53, 123, 124, 128, 129, 130. 5 Mazzariol 1964, p. 27. Scarpa e Mazzariol si conoscevano dal 1948 circa, epoca in cui lavoravano entrambi allo IUAV. 6 Ivi, p. 40. 7 Ibidem. 8 Grazie ai documenti inediti rinvenuti, la vicenda è stata ricostruita con precisione in Venturini 2009-2010, pp. 23-84. 9 Ivi, pp. 25, 71. 10 Cit. ivi, pp. 69, 76. 11 Ivi, p. 70. 12 Ivi, pp. 70, 78-79. 13 Disegni e documenti in ivi, p. 71, 80-82. 14 Venturin 2009-2010, pp. 58-60, 71, 83-84. 15 Ivi, p. 71. 16 Ivi, p. 73. 17 Ivi, p. 74-75. 18 Mazzariol 1964, p. 35. 19 Ivi, p. 40. 20 Ivi, p. 27. 21 Vedi Venturin 2009-2010, catt. 52-145, pp. 89-176. 22 Mazzariol 1964, p. 40. 23 Ibidem. 24 Ibid. 25 Questo sistema verrà portato a perfezione nel complesso monumentale Brion (1969-1978). 26 Cit. in Manzelle 2002, p. 17. 27 Ibidem.
10 - Veduta di una sala con l’acqua alta (da Manzelle 2002, s.p.).
Bibliogra a generale G. Mazzariol, “Un’opera di Carlo Scarpa: il riordino di un antico palazzo veneziano”, in Zodiac, 13 (1964), pp. 26-59. M. Mazza (a cura di), Carlo Scarpa alla Querini Stampalia. Disegni inediti, Il Cardo, Venezia 1996. M. Manzelle (a cura di), Carlo Scarpa. L’opera e la sua conservazione. Giornate di studio alla Fondazione Querini Stampalia. I-1998/III-2000, Skira, Milano 2002. F. Dal Co, La Fondazione Querini Stampalia a Venezia, Electa, Milano 2006. F. Venturin, Carlo Scarpa alla Fondazione Scienti ca Querini Stampalia di Venezia. La sistemazione del piano terra con il nuovo accesso e del giardino (1959-1963). Il progetto per il contenitore librario-foresteria (19731978), tesi di laurea, relatore O. Lanzarini, Università degli Studi di Udine, aa. 2009-2010 (con ulteriore bibliogra a).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
The reconstruction of the “Fenice” theatre: the missed opportunity by Sergio Pratali Maffei
In reviewing the story surrounding the reconstruction of the “Fenice” theatre, destroyed by a re in 1996 and which reopened in its new con guration in 2003, provides the perfect opportunity for a theoretical re ection on some fundamental aspects of the discipline. From a critical synthesis of the story, of which we have highlighted some rather unique aspects, we recalled some major issues that still appear to be unresolved today. This just goes to show, when facing the loss of a recognized part of our cultural heritage, the very different attitudes and solutions that emerge, almost always dictated by the need to improvise and in uenced by the urgency of intervention to compensate the loss, also referring to the political class of the community involved by the event. These aspects are certainly go beyond the speci city of the proposed theme, to which, however, careful re ections can be traced in dealing with the case study. On the one hand, we have a description of the peculiarities of a restoration and reconstruction of a world famous theatre, whose very name (“fenice”, phoenix in English) would appear to re ect its destiny; on the other, albeit brie y, there is discussion of issues involving assumptions and attitudes precisely relating to the restoration, seen as an autonomous discipline of architecture. These include the central theme of the integration of different contributions of thought, primarily that of philosophers, but also that of the need to address the issue “cold”, with the distance required, through a disciplinary re ection, which must be rst and foremost theoretical, about how to act when faced with such an unexpected loss.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
La ricostruzione del Teatro La Fenice: l’occasione perduta di Sergio Pratali Maffei
“Straordinari e deludenti”: così titolava il suo editoriale il direttore della rivista Recupero e conservazione, prof. Cesare Feiffer, nel numero 57/2004 interamente dedicato alla ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia. Tale contrapposta valutazione si riferisce, da un lato, all’apprezzamento per l’efficace ed efficiente gestione operativa dell’appalto e del cantiere, dall’altro al giudizio negativo per la gestione “kulturale” della ricostruzione, denunciando la quasi totale assenza di dibattito che a suo tempo aveva caratterizzato la fase decisionale, preliminare alla progettazione e all’esecuzione dell’intervento. Nel suo breve testo, Feiffer riassume polemicamente una questione nota, e più volte evidenziata anche da altri autori. In estrema sintesi, ciò che si lamenta è il “modo perentorio con il quale la ricostruzione all’identique è stata imposta dalla locale Amministrazione Comunale” e il fatto che “gli indirizzi del com’era, forniti per elaborare il progetto preliminare a base del primo appalto concorso, non siano stati oggetto di discussione”1. Tralasciando quindi le vecchie polemiche, pur fondate, potremmo oggi sostenere, a distanza di oltre vent’anni dall’incendio (29 gennaio 1996) e di quasi tre lustri dall’inaugurazione del nuovo teatro (14 dicembre 2003), come quell’assenza di dibattito abbia costituito a tutti gli effetti un’occasione mancata: per il tema fondante e la rilevanza del caso, per l’attenzione mondiale che questo suscitò, per la cultura architettonica italiana e internazionale che non hanno saputo o voluto affrontare il problema disciplinare nei modi più opportuni, ovvero con il necessario approfondimento e il dovuto confronto. Il confronto, se così lo possiamo de nire, si svolse per lo più sulle pagine dei quotidiani, nei giorni immediatamente successivi all’incendio. Di tale “confronto” elaborammo allora una breve sintesi, all’interno della rubrica “Notiziario. Cronache di restauro” della rivista TeMa2, ricordando, tra le altre, le parole di Vittorio Gregotti il quale sostenne allora come fosse “necessario eliminare ogni discussione e concentrarsi esclusivamente sull’organizzazione per la ricostruzione in modo da farla presto e bene”3, posizione sostenuta anche dallo stesso rettore dello Iuav, Marino Folin: “la decisione di rifare La Fenice com’era non discende da motivazioni estetiche o tecniche ma è una decisione politica, nel senso più alto del termine e qualunque ulteriore distinguo è vago chiacchiericcio”4. A cantiere quasi ultimato Alessandro Baricco visita il teatro e scrive: “Avrei da raccontare una follia. Non che ne manchino, di follie, di questi tempi. Ma questa ha una sua eleganza impareggiabile e inoltre sembra più istruttiva di altre. Se il mondo ammattisce, che almeno lo faccia con charme e in modo utile”5. In queste poche righe è riassunta tutta la vicenda della ricostruzione, per metà caratterizzata dal quasi disperato tentativo di salvare i pochi resti del teatro, violentato dalle amme prima, dall’acqua salmastra impiegata per spegnere l’incendio poi, in ne dagli agenti atmosferici ai quali tali resti sono stati abbandonati per sei lunghi anni. Per l’altra metà pensata come una sorta di gigantesco puzzle, dove ciascun pezzo, dalle enormi capriate metalliche delle coperture al più piccolo dei decori lignei intagliati e dorati, veniva realizzato – quasi contemporaneamente – in luoghi diversi e lontani tra loro, a volte lontanissimi, anche dal teatro stesso. Un puzzle ricomposto solo all’ultimo momento, sulla base di centinaia, migliaia di disegni e descrizioni che costituivano evidentemente le istruzioni per il “montaggio”. In questa dissipazione geogra ca di gesti simultanei (dagli intagliatori sardi ai tecnici tedeschi della macchina scenica, dagli scenogra romani agli artigiani veneti), sta forse la vera differenza tra lo spirito del cantiere del terzo millennio e quello delle precedenti costruzioni, ri-costruzioni, o anche solo degli “ammodernamenti” della Fenice (Selva
1 - L’incendio del teatro La Fenice (29 gennaio 1996).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - Disegno di studio di Aldo Rossi della cavea, del palco e della torre scenica (1997). 3 - Pianta delle sale di prova nel sottoplatea (studio Aldo Rossi Associati, 2002).
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1792 e 1808, Borsato 1828, Meduna 1837 e 1853, Miozzi 1938, per ricordare solo i momenti principali). Un teatro virtuale, frutto di tanti progetti, prendeva così forma attraverso altrettante riproduzioni reali, basate su forme di conoscenza delle tecniche, dei metodi di lavorazione e poi di posa in opera dei materiali praticamente invariati da secoli, tanto da consentire una riproduzione artigianale quasi indistinguibile dall’originale, se non per la volontà di rendere esplicita tale differenza nei casi in cui fossero ancora presenti dei resti materiali. Ovviamente tali considerazioni valgono solo per la pelle del teatro, al di sotto della quale venivano viceversa realizzati strutture e impianti tecnologicamente avanzatissimi, basti pensare alla gigantesca macchina scenica, realizzata in Germania. Di questo cantiere esistono molte cronache diverse, dai giornali redatti dai tecnici che hanno seguito passo dopo passo lo sviluppo dei lavori, ai tanti verbali, ai libretti delle misure, alle relazioni di collaudo, alle interviste fatte ai diversi protagonisti dei lavori, alle migliaia di immagini fotogra che, ai tanti, forse troppi libri6, convegni e documentari lmati che hanno tentato di offrire visioni diverse della “folle” ricostruzione di un teatro che non c’era quasi più sicamente ma che continuava a vivere nel ricordo di tutti, in molti modi diversi. Nessuno di questi documenti è stato però in grado di rendere appieno lo spirito di questa ricostruzione, così come non è possibile rievocare la tensione che guidava e rendeva possibile la costruzione di una cattedrale gotica. Forse l’unico che ci è riuscito è stato Victor Hugo con Notre Dame de Paris. Dunque, quello di cui parliamo è uno spirito profondamente umano – come potrebbe essere diversamente – che nessun modello virtuale (e lo stesso nuovo teatro può essere letto come tale) potrà mai rendere reale. Bisogna averlo vissuto, quello spirito, averlo condiviso, quotidianamente, nei diversi luoghi nei quali era presente. Ed è proprio questo che ha accomunato le decine di imprese e le centinaia di maestranze impiegate nell’opera, che hanno così prodotto l’unica possibile vera evocazione dell’antico teatro (parola d’ordine associata n dal primo momento al “com’era dov’era”7): quella cioè dello spirito del quale era intriso con i suoi due secoli di vita, unica reale permanenza in un luogo che ha poi cercato di ritrovare anche la sua anima attraverso l’uso e il consumo, unici elementi in grado di ridonargli quella “patina del tempo” che non è mai riproducibile, né sicamente né virtualmente: una nuova anima che possa trasformare questa impressionante opera tecnologica, frutto della consulenza di alcuni tra i migliori specialisti europei e dell’impiego delle più aggiornate tecniche costruttive, poi rivestita e decorata grazie alla maggiore opera di alto artigianato realizzata negli ultimi decenni in occidente, quantomeno per un teatro. Non possiamo infatti non condividere quello che è stato detto in quegli stessi anni dall’ing. Gilles Péqueux a proposito di un’altra notissima ricostruzione, quella del ponte di Mostar: si tratta “di ricostruire aderendo a quello che ha rappresentato […] dal punto di vista dello stato dello spirito”, ovvero di “porsi nella prospettiva dello stesso stato dello spirito che ha permesso la costruzione […], cioè comprendere come è stata possibile
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO la costruzione originale”, evitando “di cercare di ricopiare l’opera punto per punto”8. Venendo ora però alle questioni più strettamente disciplinari, va in primo luogo ricordato come il caso della perdita del teatro La Fenice non abbia dato luogo a un dibattito articolato, tempestivo e quindi efficace. Sì, certo, vi sono stati alcuni incontri, piuttosto marginali, che non hanno saputo portare la nostra disciplina a guadagnarsi il ruolo di credibile interlocutore “politico”. E questo a fronte di ripetuti, quasi unanimi richiami al restauro come unica disciplina in grado di fornire delle risposte di fronte alla tragica assenza di un monumento di così ampia rilevanza. Ancora oggi ci pare abbastanza paradossale che i cosiddetti “architetti del nuovo” (in questo caso speci co, così come in molte altre situazioni analoghe) abbiano abdicato al loro ruolo, di fronte a un teatro da ripensare e riprogettare, affidando tale riprogettazione ai restauratori. Crediamo allora utile ricordare, a questo proposito, almeno le parole di Aldo Rossi, autore poi del progetto de nitivo: la Fenice va ricostruita “uguale”, affidando il compito “a dei restauratori, evitando di perdere tempo”9; o quelle di Giandomenico Romanelli, storico dell’architettura e all’epoca Direttore Centrale Beni e Attività Culturali del Comune di Venezia: “la teoria del restauro è la sola che potrà fornire gli indispensabili punti di riferimento metodologico”10. Per contro, al di là degli interventi estemporanei di singole voci della cultura del restauro, si registra la quasi totale assenza di una ri essione teorica che, oltre l’occasionalità dei casi speci ci (dal Petruzzelli alla Fenice, dal San Giorgio al Velabro al grattacielo Pirelli, per non parlare delle perdite dovute ai terremoti), possa costituire un solido riferimento per gli amministratori e gli operatori in genere, fornendo anche strumenti metodologici aggiornati e praticabili. Se non ricordiamo male l‘ultimo confronto organico all’interno della nostra disciplina risale addirittura al 1987 quando, nell’ambito del Dottorato di ricerca in Conservazione dei beni architettonici del Politecnico di Milano, venne organizzato un seminario dal titolo “Il restauro di necessità”11. Dunque anche nel caso del teatro veneziano, quasi necessariamente, il dibattito teorico si è svolto in cantiere, quasi quotidianamente, ogni qualvolta si poneva la necessità di una decisione, di una scelta operativa che non risultava del tutto chiarita dagli elaborati progettuali. Una discussione che coinvolgeva tutti gli operatori, dai progettisti alle imprese, dalla direzione lavori ai consulenti, no alle maestranze. Ricordiamo in particolare la gura di Sauro Martini, consulente della Sacaim (e già prima dell’Ati Holzmann Romagnoli, la ditta che in un primo momento aveva vinto l’appalto), ma in realtà riferimento di tutti gli operatori, tanto che venne coniato il motto: “se il Martini non ci sta, La Fenice non si fa”. Martini era un artigiano tra i più colti e raffinati che abbiamo conosciuto, e grazie alla sua esperienza indicava spesso “soluzioni innovative e sperimentali che si fondavano però sulla tradizione costruttiva, legato com’era ad una sorta di neorinascimento tecnologico che consentiva, a noi che lavoravamo con lui, di riscoprire in chiave contemporanea ricette e metodologie risalenti a qualche secolo addietro e che, un po’ misteriosamente, si potevano oggi riproporre e rivisitare”12. E a tal proposito sono per noi ancora oggi preziose le parole dello scenografo romano Fabio Mattei, autore dell’apparato decorativo della volta della cavea: “Osservando un soggetto da replicare si esprime sempre più o meno implicitamente un giudizio. Il passaggio successivo, iniziando il lavoro, consiste nel dimenticarlo o comunque nel renderlo meno de nitivo. Realizzare una copia comporta infatti un adattamento: la disponibilità a mediare tra le proprie convinzioni tecniche ed estetiche e i valori espressi dal modello originale”13. Tali sperimentazioni, che caratterizzano i migliori cantieri di restauro, si sono fondate sempre sulla ri essione teorica, orientata in questo caso a tradurre i principi in tecniche, al ne di raggiungere il migliore obiettivo possibile, coerentemente con gli assunti inizialmente de niti, sia con riferimento al tutto (l’insieme dell’opera) che alla singola parte (in quel momento oggetto della decisione). Certo nulla di originale, ma se commisuriamo questo modo di procedere alla grande dimensione (spaziale e quantitativa) del teatro veneziano, alla compresenza delle problematiche conservative e riproduttive, alla tempistica serrata (21 mesi dalla consegna dei lavori all’inaugurazione), alla quantità delle gure coinvolte, ci si può forse rendere conto dell’eccezionalità dell’esperienza. Con riferimento alle speci cità degli spazi per lo spettacolo, non possiamo poi tacere sulla delicatissima questione dell’acustica strutturale e architettonica, che nel caso del 191
I TRE FUTURI DI VENEZIA teatro la Fenice, come in altri, si è rivelata di particolare complessità, dovendo conciliare le esigenze di ricostruzione lologica dello spazio e del suo apparato decorativo con quelle “moderne” di maggiori comfort e sicurezza, adeguata ventilazione e climatizzazione, migliore funzionalità e di maggiori spazi dedicati all’impiantistica. Nel teatro veneziano è stata sostanzialmente ripresa la struttura lignea della cavea, attualizzandola anche ai nuovi standard, che rimane indipendente rispetto alla scatola muraria perimetrale. Così anche la cupola ribassata della stessa sala è stata ricostruita nella sua con gurazione ottocentesca (opera del Meduna) con tecniche artigianali: centine e cantinelle in legno con intonaco di elevato spessore in cocciopesto. Il tutto però è stato pendinato mediante connettori in acciaio marino (Aisi 316) in grado di compensare sia le dilatazione termiche che l’impatto delle onde acustiche. Per ottemperare alle esigenze derivanti dalla protezione al fuoco sono state poi testate acusticamente diverse soluzioni, no a ottenere l’equivalenza con i materiali storici preesistenti. In altri casi in ne sono state introdotte piccole modi che alla geometria, come per il soffitto del proscenio, che è stato leggermente inclinato verso la platea, mentre il precedente risultava perfettamente orizzontale. Al contrario di quanto realizzato per il fondamentale – anche dal punto di vista acustico – apparato decorativo, riprodotto à l’identique sia per quanto riguarda il modellato che i materiali costitutivi (legno, stucco e cartapesta). Da non dimenticare in ne le nuove esigenze acustiche, derivanti da un uso molto più eclettico del teatro e dalla varietà degli spettacoli che ospita, che si sono tradotte, ad esempio, nella progettazione delle poltrone in modo tale che queste presentino lo stesso potere fonoassorbente, sia che siano occupate che vuote; oppure la maggiore inclinazione della platea, in grado così di migliorare la visibilità, ma soprattutto l’alimentazione con suono diretto; o ancora la possibilità di inclinare meccanicamente la super cie della scena, da 0 no a 15°, come nella situazione precedente. Modi che minime, che risultano difficilmente percepibili, ma che consentono al contempo un miglioramento complessivo dell’acustica (ora ad assetto variabile) pur nel rispetto del disegno generale proprio del teatro perduto. Oggi, a distanza di oltre 13 anni dalla conclusione di quella straordinaria esperienza professionale, disciplinare e umana, ci restano ancora molti dubbi, dei quali riteniamo utile richiamare almeno i tre principali. La scelta della ricostruzione di un monumento perduto risulta sempre fondata su motivazioni di ordine politico, almeno a partire da quella dell’Arco di Tito (1818-24) no alla recente riapertura della Vijesnica di Sarajevo (2014). Tale scelta risulterebbe quindi indipendente dal dibattito disciplinare, e dettata essenzialmente da ragioni emotive e dalla volontà di cancellare le ferite, di “riparare all’aggressione subita”, di dimenticare l’evento luttuoso, di superare l’insicurezza che deriva dall’assenza, quasi indifferentemente rispetto alla causa che l’ha determinata. L’esito nale è un “simulacro”, per dirla con Augé, frutto di un “cerimoniale di rimozione”14: un’icona di ciò che era stato cancellato ma che con il passare del tempo, così come nel caso della Fenice, assume una sua autonoma valenza, no a storicizzarsi a sua volta. Il dubbio che rimane è allora quello di sempre: quanti altri edi ci autenticamente “antichi”, ad esempio, entrando nello speci co delle strutture per lo spettacolo, quanti teatri si sarebbero potuti conservare15, salvandoli da un destino di abbandono e ruderizzazione, con i fondi impegnati per ricostruire La Fenice? Conveniamo anche noi, infatti, con la considerazione che sia “più grave la ferita che lascia la chiusura di un piccolo teatro in un piccolo borgo lontano dai centri più popolosi, che la chiusura di un grande teatro in una grande città che ha mille strumenti per compensarne la perdita (come La Fenice a Venezia o il Petruzzelli a Bari o il Massimo a Palermo)”16. E in ogni caso la selezione del nostro patrimonio culturale dev’essere proprio e sempre in mano ai politici di turno, la cui prospettiva temporale è sempre limitata ai 5 o 10 anni del loro mandato? O c’è una qualche possibilità che questo processo decisionale possa viceversa fondarsi su altre ragioni, più consolidate dal punto di vista culturale e con una visione di maggior respiro storico? Il secondo dubbio è più interno alla disciplina, e riguarda quelle che recentemente abbiamo de nito come “aporie e antinomie della ricostruzione”17. Anche in questo caso la questione è nota, e da lungo dibattuta, ma quasi sempre in maniera condizionata dalla pressione dettata dall’emergenza, e circoscritta allo speci co “caso”: l’incendio, il terremoto, la distruzione bellica o terroristica, il collasso strutturale, la catastrofe natu192
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO rale o antropica… Ciò che vogliamo allora sostenere è l’assoluta necessità, visto il costante e accelerato ripetersi di tali fenomeni (nel nostro paese, ma anche oltre con ne), di un dibattito disciplinare che possa dare luogo quantomeno a delle parziali certezze, seppure labili e provvisorie, in grado di costruire un quadro di riferimento per chi ha la responsabilità decisionale di ri-mediare in qualche modo agli effetti di tali fenomeni sul nostro patrimonio culturale. Stiamo parlando di convegni, seminari, linee guida, indirizzi, “normattive” (sì, con due “t”), che mettano a confronto le diverse posizioni e le tante esperienze, all’interno di un quadro organico costruito a partire dalle istituzioni preposte alla tutela del nostro patrimonio culturale (Mibact, Università, centri di ricerca, scuole di restauro, associazioni professionali e di categoria, Protezione civile, istituzioni internazionali come Unesco, Icomos, DoCoMoMo). In ne l’ultima questione, di ordine losoco ed esistenziale, che qui possiamo solo brevemente richiamare, è connessa al complesso rapporto tra identità e nostalgia, sentimenti tipici dell’uomo contemporaneo. Richiamando liberamente anche il pensiero di alcuni loso italiani, le cui parole possono essere a volte per noi illuminanti, tra i quali il veneziano Andrea Tagliapietra, oggi ordinario presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, le popolazioni colpite da una catastrofe non possono avere uno sguardo consapevole sull’evento e le sue conseguenze, tendendo a stabilire un rapporto patologico con l’identità dei luoghi perduti, che si confonde con la nostalgia del passato, sfumando verso il senso di possibilità che un futuro indeterminato può consentire. La nuova presunta identità sarà allora, inevitabilmente, il frutto di un compromesso tra la nostalgia dei luoghi perduti e la volontà di migliorare le condizioni di vita precedenti: con il risultato di creare, almeno in certi casi, ulteriori “non luoghi”, privi di storia “locale” e quindi di identità, e senza futuro, per ragioni di ordine superiore, che potremmo de nire “globale”; oppure individuando una monoidentità, a ni esclusivamente turistici e commerciali, che costituisce comunque la negazione dell’evoluzione storica di un luogo e dunque della sua continuità temporale. Motivo ulteriore per sviluppare “a freddo”, con la necessaria e dovuta distanza, una riessione di ordine disciplinare, in primo luogo teorica, sui comportamenti da adottare a fronte di una perdita inaspettata.
4 - Montaggio della struttura dei palchi (2002). 5 - Disegno del soffitto della cavea (Mauro Carosi, 2002).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Note 1 In realtà, come ricordato dallo stesso Feiffer, l’Amministrazione Comunale venne all’epoca affiancata da una Commissione Consultiva, all’interno della quale “vi erano studiosi di grande cultura e professori di chiara fama”. C. Feiffer, Straordinari e deludenti, in “Recupero e conservazione”, 57, 2004, pp. 12-13. 2 S. Pratali Maffei, Notiziario. Cronache di restauro, in “TeMa”, 4, 1995, pp. 74-79. 3 N. Pellicani, Gregotti: «com’era e subito per una questione di rispetto», in “la Nuova Venezia”, 3 febbraio 1996. 4 M. Folin, Fenice com’era, niente chiacchiere, in “la Nuova Venezia”, 18 febbraio 1996. 5 A. Baricco, La Fenice che risorge copiando se stessa, in “la Repubblica”, 22 ottobre 2003. L’articolo di Baricco venne poi ripubblicato diverse volte, ad esempio nell’interessante volumetto edito in occasione dell’inaugurazione del nuovo teatro dal titolo Splendidezza di ornamenti e dorature. Il ritorno della Fenice, oppure nel numero della rivista “Recupero e conservazione” già ricordato. 6 Tra questi, oltre a quelli citati nelle note, ricordiamo solo i principali. Sull’incendio: G. Amadori, Per quattro soldi. Il giallo della Fenice dal rogo alla ricostruzione, Editori Riuniti, Roma 2003; sul dibattito disciplinare: Aa.Vv., Il restauro della Fenice: problemi lologici e di metodo, numero monogra co di “Quasar. Quaderni di storia dell’architettura e restauro”, 15/16, 1996; sulle scelte politiche e l’assegnazione dei lavori: P. Costa, La Fenice ritrovata. Musica e Lavori Pubblici, Libri Scheiwiller, Milano 2003; sul cantiere: L. Ciacci (a cura di), La Fenice ricostruita. 1996-2003. Un cantiere in città, Marsilio, Venezia 2003. 7 Nella relazione del Progetto Preliminare, coordinato dalla Prefettura di Venezia e ultimato il 30 agosto 1996, si legge: “Abbondantemente ricostruita, rimpiazzata nelle parti distrutte, modi cata parzialmente nelle funzioni, migliorata negli impianti e nella tecnologia, la nuova Fenice potrà essere, in ogni caso, solo un’evocazione dell’antica”. Aa.Vv., Bando di concorso. Relazione generale, in Aa.Vv., I progetti per la ricostruzione del teatro La Fenice. 1997, Marsilio, Venezia 2000, pp. 17-81. 8 G. Péqueux, Ricostruire il ponte di Mostar seguendone lo “stato dello spirito”, in “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 11 aprile 2003. 9 N. Pellicani, «Tale e quale prima delle amme». D’accordo Aldo Rossi, Gae Aulenti e Tonci Foscari, in “la Nuova Venezia”, 2 febbraio 1996. 10 G. Romanelli, Un teatro strato su strato. Ripristinare lologicamente La Fenice, ma quale? Storia di un edi cio in continua mutazione, in “il manifesto”, 6 febbraio 1996. 11 Il seminario diede poi luogo a un volume nel quale vennero raccolti i diversi contributi: S. Boscarino, R. Prescia (a cura di), Il restauro di necessità, Franco Angeli, Milano 1992. Ricordiamo anche il numero 19 di Zodiac, del 1998, dedicato a “Conservare e ricostruire”, dove però l’unico contributo della cultura del restauro è affidato a Paolo Marconi. Richiamiamo anche l’esperienza universitaria veneziana raccolta nel volume di: M. Manzelle (a cura di), Il teatro La Fenice a Venezia. Studi per la ricostruzione dov’era ma non necessariamente com’era, “Quaderni Iuav”, 8. 1999. 12 S. Pratali Maffei, Un ricordo di Sauro, in M. Sorelli, Sauro Martini orentino, un artigiano del restauro e la sua opera, La Stamperia, Firenze 2006, pp. 179-184. 13 F. Mattei, Copiare, interpretare, inventare, in Aa.Vv., Splendidezza di ornamenti e dorature. Il ritorno della Fenice, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti – Fondazione Teatro la Fenice di Venezia, Venezia 2003, pp. 39-41. 14 P. Marconi, Restauro e ricostruzione: com’era, dov’era?, in “Zodiac”, 19, 1998, pp. 41-55. 15 Nel 2007 erano stati censiti 428 teatri chiusi nel nostro paese, alcuni dei quali di inestimabile valore
6 - La cavea ricostruita alla vigilia dell’inaugurazione (14 dicembre 2003).
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO storico e artistico e in condizioni pietose. Cfr.: C. Guarino, F. Giambrone (a cura di), Teatri negati. Censimento dei teatri chiusi in Italia, Franco Angeli, Milano 2008. Nell’introduzione al volume, dal titolo “Un grande patrimonio di tutti”, il maestro Riccardo Muti, lo stesso che aveva diretto il concerto inaugurale della Fenice ricostruita (il 14 dicembre 2003), scrive: “Il nostro è un Paese che ha costruito la sua storia sulla dorsale della cultura musicale e drammatica… Questo censimento fa capire che quella che si sta perpetrando è un’autentica barbarie” (p. 13). 16 F. Giambrone, Spazi di democrazia, in ivi, p. 37. 17 S. Pratali Maffei, Aporie e antinomie della ricostruzione. 10 citazioni (doppiamente) imperfette, in C. Azzollini, G. Carbonara (a cura di), Ricostruire la memoria. Il patrimonio culturale del Friuli a quarant’anni dal terremoto, Atti del convegno di studi (Udine, 11-12 maggio 2016), Forum, Udine 2016, pp. 141-153.
Bibliogra a S. Boscarino, R. Prescia (a cura di), Il restauro di necessità, Franco Angeli, Milano 1992. S. Pratali Maffei, Notiziario. Cronache di restauro, in “TeMa”, 4, 1995 (1996), pp. 74-79. Aa.Vv, Il restauro della Fenice: problemi lologici e di metodo, numero monogra co di “Qasar. Quaderni di storia dell’architettura e restauro”, 15/16, 1996. M. Folin, Fenice com’era, niente chiacchiere, in “la Nuova Venezia”, 18 febbraio 1996. M. Manzelle (a cura di), Il teatro La Fenice a Venezia. Studi per la ricostruzione dov’era ma non necessaria mente com’era, “Quaderni Iuav”, 8. 1999. N. Pellicani, «Tale e quale prima delle amme». D’accordo Aldo Rossi, Gae Aulenti e Tonci Foscari, in “la Nuova Venezia”, 2 febbraio 1996. N. Pellicani, Gregotti: «com’era e subito per una questione di rispetto», in “la Nuova Venezia”, 3 febbraio 1996. G. Romanelli, Un teatro strato su strato. Ripristinare lologicamente La Fenice, ma quale? Storia di un edi cio in continua mutazione, in “il manifesto”, 6 febbraio 1996. P. Marconi, Restauro e ricostruzione: com’era, dov’era?, in “Zodiac”, 19, 1998, pp. 41-55. Aa.Vv., I progetti per la ricostruzione del teatro La Fenice. 1997, Marsilio, Venezia 2000. A. Baricco, La Fenice che risorge copiando se stessa, in “la Repubblica”, 22 ottobre 2003. G. Amadori, Per quattro soldi. Il giallo della Fenice dal rogo alla ricostruzione, Editori Riuniti, Roma 2003. L. Ciacci (a cura di), La Fenice ricostruita. 1996-2003. Un cantiere in città, Marsilio, Venezia 2003. P. Costa, La Fenice ritrovata. Musica e Lavori Pubblici, Libri Scheiwiller, Milano 2003. F. Mattei, Copiare, interpretare, inventare, in Aa.Vv., Splendidezza di ornamenti e dorature. Il ritorno della Fenice, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti – Fondazione Teatro la Fenice di Venezia, Venezia 2003, pp. 39-41. G. Péqueux, Ricostruire il ponte di Mostar seguendone lo “stato dello spirito”, in “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 11 aprile 2003. C. Feiffer, Straordinari e deludenti, in “Recupero e conservazione”, 57, 2004, pp. 12-13. S. Pratali Maffei, Un ricordo di Sauro, in M. Sorelli, Sauro Martini orentino, un artigiano del restauro e la sua opera, La Stamperia, Firenze 2006, pp. 179-184. C. Guarino, F. Giambrone (a cura di), Teatri negati. Censimento dei teatri chiusi in Italia, Franco Angeli, Milano 2008. S. Pratali Maffei, Aporie e antinomie della ricostruzione. 10 citazioni (doppiamente) imperfette, in C. Azzollini, G. Carbonara (a cura di), Ricostruire la memoria. Il patrimonio culturale del Friuli a quarant’anni dal terremoto, Atti del convegno di studi (Udine, 11-12 maggio 2016), Forum, Udine 2016, pp. 141-153.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
The evolution of the port areas of the historic centre by Nicola Torricella and Federica Bosello
As from 2000, the new port entity decided to launch a major requali cation and opening project of the city, which will only be properly completed in 2020 and for which, to date, more than 20 million euros has been invested. The interventions that have led to the complete transformation of the area were carried out over a period of fteen years: it started out in 2000, with the demolition of the wall that separated the city from the port area of Santa Marta and with the requali cation of the Warehouse 17, now used for maritime-port training centres, before in 2001 moving onto the requali cation of Warehouse 16, used as shipping agency offices, then in 2003-2007 the “Ligabue” and “Cotoni cio Veneziano” Warehouses, which have become the premises for the Venice Universities, the little church of Santa Marta, in 2006, now a culture centre, Warehouses 12 and 13, transformed into headquarters for the Port System Authority of the Northern Adriatic Sea, the year afterwards, the requali cation of Warehouse 15 in 2010, making it into new offices of the Coastguard, that of part of Warehouse 1 in 2015, renamed ARTERMINAL, used as an exhibition hall for contemporary art and, nally, the requali cation of Warehouse 11, in 2016, which now hosts a medical research company. The renewal is not merely physical-infrastructural-functional but also “life” of the areas that see a symbiotic side-by-side living of history-culture-maritime tradition-port - everything that constitutes an important part of the intangible cultural heritage of Venice - and new demands expressed by the City with respect to culture, training, employment, art, spaces for the younger generation and for new talents.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
L’evoluzione delle aree portuali del centro storico di Nicola Torricella e Federica Bosello
Fino alla ne del 1900, nelle aree portuali del Centro Storico di Venezia, poste all’estremità della Città, si svolgevano ancora attività legate al traffico mercantile. Non era ancora avvenuta la specializzazione delle aree portuali per funzione rispetto alle caratteristiche siche di ciascuna, alle richieste di efficienza logistico-portuale del mercato, ma soprattutto rispetto ai bisogni della Città intesa come collettività in senso ampio. È nel 1996, con l’avvio del lavoro del nuovo ente portuale a Venezia – l’Autorità Portuale, oggi Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale – cui era affidata la responsabilità dello sviluppo del porto in armonia con il contesto territoriale di riferimento, che si adotta un approccio di sviluppo capace di contemperare le diverse esigenze espresse dalla collettività: non solo esigenze di crescita economica, ma anche altre come cultura, arte, formazione, ricreazione, attenzione all’ambiente. A partire da questo nuovo approccio, che persegue attentamente l’interesse pubblico e il benessere collettivo, la piani cazione portuale – attuata attraverso i Piani Operativi Triennali adottati dall’ente portuale di nuova istituzione – ha puntato sulla valorizzazione e specializzazione di alcuni asset sici e funzionali rispetto a richieste portuali/ cittadine, tenendo conto macroscopicamente della prossimità o meno delle aree portuali ai nuclei urbani, della localizzazione delle aree portuali nel Centro Storico ovvero nella Terraferma, e poi considerando tutta una serie di altri parametri afferenti ai costi/ bene ci di ciascun investimento infrastrutturale. In questo contesto di ampio respiro strategico, laddove gli interventi previsti dai Piani Triennali redatti alla ne del 1900 avrebbero comunque condizionato la portualità per i decenni successivi, le aree portuali inserite nel Centro Storico di Venezia hanno sperimentato le più profonde trasformazioni che ne hanno cambiato radicalmente volto, funzione, vita. Si tratta di spazi, strutture e infrastrutture insediate da un lato nei quartieri di Santa Marta e San Basilio - il cosiddetto “waterfront antico” - e dall’altro di quelle insediate nell’area cosiddetta di “Marittima”, posta all’estremità di Venezia.
La riquali cazione del Waterfront antico: da area portuale a hub culturale Quello che oggi viene identi cato come waterfront antico, ossia le aree portuali di Santa Marta e San Basilio, fu creato nel 1896-97 come parte di un progetto più ampio volto a costruire nuove infrastrutture portuali per Venezia, in seguito alla costruzione del ponte ferroviario nel 1846. La super cie coperta era di circa 30.000 mq, suddivisi tra 9 magazzini e altri edi ci ospitanti istituzioni portuali. In quest’area si ergeva anche la chiesetta di Santa Marta, risalente al XIV secolo, sconsacrata nel 1811 e utilizzata come deposito/magazzino, oltre ad alcuni terminal industriali, come il Cotoni cio situato vicino alle banchine portuali per bene ciare direttamente dei servizi logistici. Se verso la ne del ‘900 alcune attività portuali erano ancora in essere - come i traghetti verso la Grecia - vi erano anche molte aree e strutture dismesse - per effetto dell’evoluzione della logistica portuale e del trasporto per via marittima - in netto contrasto con il bisogno di spazi e la bellezza della Città. Dunque, a partire dal 2000, il nuovo ente portuale decise di avviare un grande progetto di riquali cazione e apertura alla Città di questi spazi che arriverà a pieno com-
1 - Operatività sulle banchine commerciali di Santa Marta a metà ‘900.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - In questa pagina: attività logistico-portuali in testata al molo di Santa Marta, prospiciente il canale della Scomenzera, a metà ‘900. 3 - Nella pagina seguente, in alto: la chiesetta di Santa Marta a metà ‘900. 4 - Nella pagina seguente, al centro: la dotazione ferroviaria nell’area del waterfront di San Basilio a metà ‘900. 5 - Nella pagina seguente, in basso: il waterfront antico aperto alla manifestazione “Su e zo per i ponti”.
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pimento nel 2020, e per il quale sono stati investiti no ad ora oltre 20 milioni di euro. Gli interventi che hanno portato alla completa trasformazione dell’area sono stati realizzati nell’arco di quindici anni. Più speci camente si è partiti, nell’anno 2000, con la demolizione del muro che separava la città dall’area portuale di Santa Marta e con la riquali cazione del Magazzino 17, ora sede di centri di formazione in materia marittimo-portuale, per poi passare nel 2001 alla riquali cazione del Magazzino 16, che ospita uffici di agenzie marittime; a quella avvenuta nel 2003-2007 dei Magazzini “Ligabue” e del “Cotoni cio Veneziano”, divenute sedi delle Università veneziane; a quella, avvenuta nel 2006, della Chiesetta di Santa Marta, ora centro culturale; a quella dei Magazzini 12 e 13, trasformati in sedi dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale, avvenuta l’anno successivo; alla riquali cazione del Magazzino 15 nel 2010, per farne una nuova sede per la Guardia Costiera; a quella, nel 2015, di una parte del Magazzino 1, ribattezzato “Arterminal”, con funzione di spazio espositivo per l’arte contemporanea e in ne, nel 2016, alla riquali cazione del Magazzino 11, che ospita una società di ricerca medica. Si tratta di un rinnovamento non solo sico-infrastrutturale-funzionale, ma anche “di vita” delle aree che vedono una convivenza simbiotica tra storia-cultura-tradizione marittimo-portuale - quella che costituisce una parte rilevante del patrimonio culturale intangibile di Venezia - e nuove esigenze espresse dalla Città rispetto a cultura, formazione, occupazione, arte, spazi per i giovani e per i nuovi talenti. Il waterfront oggi si propone come nuovo hub culturale, un “porto universitario”, un campus misto che mette insieme realtà portuale, ricerca, formazione, gioventù e arte per progettare la Venezia di domani. È un waterfront 2.0 in cui sono attive le Università di Ca’ Foscari e IUAV, istituzioni portuali come Capitaneria di Porto e Autorità di Sistema Portuale, Centri educativi e di formazione nel campo della logistica e del mare, Start up che propongono scuole di teatro, musica, scrittura e arti visive. Oltre a ciò, nel 2015 ha preso vita “Arterminal”, inaugurato in occasione della 56° Esposizione d’Arte della Biennale di Venezia, grazie alla
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO riquali cazione di un antico magazzino portuale riconvertito a spazio per l’arte contemporanea. Per giungere a questo risultato l’ente portuale di allora aveva preso in considerazione i diversi bisogni espressi dalla Città e dalla portualità, identi cando quelli che oggi sono de niti “crossover”, incroci volti a progettare lo sviluppo a partire da un “terreno comune”, in questo caso, anche sotto il pro lo sico, quello di uno spazio di cerniera tra porto e città, tra Venezia insulare e Venezia di Terrafema. I bisogni espressi dalla Città storica erano in sintesi riconducibili alla rigenerazione di una parte abbandonata del centro storico, a nuovi spazi ed edi ci da dedicare alla didattica e alla formazione dei giovani, a grandi strutture da dedicare a nuove forme d’arte, a luoghi vasti adatti ad ospitare eventi tradizionali con grande affluenza di pubblico. Le necessità della realtà portuale rispetto a quest’area erano la salvaguardia del patrimonio culturale del porto, la specializzazione massima di ogni area per rispondere al meglio ad ogni segmento di domanda, l’integrazione sociale delle attività portuali. La realizzazione del “crossover” tra esigenze differenti ha individuato il valore condiviso della tutela del patrimonio culturale del porto come risorsa sia per il territorio e sia per la portualità, da garantire attraverso una serie di politiche e strumenti attuativi. L’Autorità Portuale di Venezia - l’ente portuale di allora - ha dunque rigenerato l’in-
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I TRE FUTURI DI VENEZIA tero waterfront, restaurando gli antichi magazzini e dandoli in concessione a diversi stakeholder, a condizione che le attività svolte qui potessero contribuire in qualche modo alla salvaguardia della cultura portuale e marittima; d’altra parte, le attività portuali che qui si svolgono ancora hanno impatto minimo sul contesto urbano, trattandosi per lo più di battelli uviali, yacht, alisca e velieri e tuttavia la loro permanenza tiene viva la memoria dell’origine e della vita portuale di Venezia. Inoltre, gli ampi spazi del waterfront – dotati di accessibilità a 360° - sono attraversati da manifestazioni ormai entrate nella tradizione cittadina come la Su e Zo per i ponti o la Venicemarathon che contribuiscono a farli vivere come una parte della città che può ancora essere fruita in modo vero e caratteristico, al di là dei classici circuiti turistici. Ecco che lo spazio portuale diventa spazio misto portuale-cittadino vissuto da chi lavora per il porto o con il porto, da chi si aggiorna o fa tirocinio nei centri di formazione, da chi frequenta gli Atenei o i centri culturali ivi insediati, da chi è in vacanza a Venezia per via marittima e non, da chi partecipa ad eventi tradizionali cittadini perché - veneziano o visitatore che sia - vuole fruire della Città in modo diverso.
Open Port Policy Il processo di apertura e di riquali cazione sica del waterfront antico avviato dall’allora Autorità Portuale di Venezia nel 2000 con l’abbattimento del muro di Santa Marta e la pedonalizzazione dell’area e poi, a seguire, con tutti gli interventi già descritti, non era sufficiente a garantire la ripresa di un vero dialogo tra porto e Città e per questo, proprio a partire dallo stesso anno, fu accompagnato da tutta una serie di azioni volte a promuovere la conoscenza del contributo del porto al territorio. Ancora oggi - e anzi soprattutto oggi - l’ente pubblico responsabile dello sviluppo del porto, l’Autorità di Sistema Portuale, sta investendo fortemente su tutte le policy di “porto aperto”, in un contesto mondiale in cui ci si è da tempo convinti che la competitività dei porti passi anche per le sue performances sociali (nel 2006 l’Associazione Internazionale delle Città-Porto - AIVP stila la Carta di Sydney su “Lo Sviluppo Sostenibile delle Città Portuali”; nel 2009 l’Associazione Europea dei Porti - ESPO intitola alla Integrazione Sociale dei porti un Premio annuale; nel 2010 AIVP crea il Port Center Network; nel 2012 l’OECD esprime precise raccomandazioni in merito alle Open Port Policy nel suo studio sulla competitività delle città portuali). E Venezia risponde in modo puntuale ai 4 punti più importanti del “Vademecum per la costruzione di un dialogo costante e aperto” tra porto e città redatto da AIVP: - apertura sica permanente di parte del porto - Una s da che per ora è stata vinta del tutto nelle aree del waterfront storico, sempre aperte e fruibili da studenti, cittadini e visitatori; - Open Days programmati - L’impegno forse più ingente e più costante è quello dell’apertura anche della parte commerciale e industriale alle scuole e ai cittadini con percorsi guidati differenziati per target, con il risultato di accompagnare ogni anno migliaia di visitatori alla scoperta della realtà portuale; - investimento sul capitale umano - Il porto genera valore per il territorio anche in termini di formazione e inserimento nel mondo del lavoro e per esserlo concretamente, proprio nel waterfront antico, sono state fondate due scuole di formazione e un Istituto Tecnico Superiore con l’obiettivo di quali care nuove risorse per il comparto della logistica in particolare marittima; - dialogo attraverso i social media - Con l’obiettivo del dialogo in tempo reale con tutti i pubblici, da ne 2015 il porto è attivo anche su Twitter e Instagram. A questo si aggiunga che due anni fa l’ente portuale ha ritenuto così importante la relazione Porto-Città da investire in un marchio e in una linea di comunicazione speci ci che hanno reso questa policy riconoscibile e dotata di una precisa identità attraverso una gra ca che ne rendesse chiaro ed evidente il messaggio chiave. Il marchio realizzato rappresenta un faro – icona del porto – che illumina una realtà fatta di edi ci, natura, mezzi di trasporto, storia e attualità: a signi care che oggi come ieri la portualità può contribuire a portare valore al territorio di riferimento e questa è la sua funzione. Questa è la convinzione che deve permanere alla base dell’attività di apertura, riquali cazione, sviluppo, a partire dal waterfront per investire tutti gli spazi della portualità. 200
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
La riquali cazione di Marittima: da porto merci a porto passeggeri
6 - Il porto passeggeri di Venezia-Marittima.
Alla ne del 1900, l’area portuale di Marittima ospitava ancora traffico portuale commerciale, mentre i crocieristi si limitavano a poche centinaia di migliaia. Dalle foto storiche si può intravedere che sui moli di Levante e di Ponente si ergevano gru e giacevano cumuli di rinfuse che si alternavano ad aree in parziale abbandono e dismissione. Tra l’altro, le navi mercantili entravano dalla bocca di porto di Lido e passavano lungo il Canale della Giudecca per raggiungere i terminal commerciali di Marittima. È sempre a partire dal 2000 che progressivamente si pose mano all’evoluzione di quest’area come previsto nel Primo Piano Operativo Triennale redatto dalla neocostituita Autorità Portuale nel 1996. Il Piano, come detto, prevedeva la specializzazione funzionale delle macroaree del porto di Venezia: quelle del Centro Storico di San Basilio e Santa Marta da dedicare ad un uso misto portuale-cittadino con la riquali cazione dei magazzini portuali dismessi e un traffico passeggeri più leggero; quelle di Marghera da dedicare al traffico merci industriale e commerciale; quelle di Marittima, posta all’estremità del Centro Storico e dotata di accessibilità massima dalla Terraferma, da dedicare a porto passeggeri. Da allora a oggi dunque la zona portuale di Venezia-Marittima è stata oggetto di una profonda trasformazione che ha visto la sostituzione progressiva e poi de nitiva del traffico portuale commerciale con quello passeggeri. L’attrattività di Venezia, gli investimenti nelle infrastrutture e nella razionalizzazione funzionale degli spazi, la capacità gestionale, uniti alla capacità sica di quest’area di soddisfare pienamente i tre requisiti di accessibilità essenziali per farne un porto capolinea (ovvero l’accessibilità per i passeggeri, l’accessibilità per le merci e l’accessibilità per le navi) ne fecero in breve tempo uno degli Home Port crocieristici migliori al mondo. Infatti, ancora oggi per oltre l’85% i croceristi si imbarcano a Venezia per iniziare la propria vacanza o sbarcano qui per concluderla, il che costituisce una ricchezza per il tessuto produttivo locale con ricadute dirette, indirette e indotte, nonché un livello 201
I TRE FUTURI DI VENEZIA
7 - I magazzini portuali riquali cati a Santa Marta.
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di occupazione di gran lunga superiore ai porti di transito. La peculiarità dell’essere porto capolinea ha infatti favorito l’articolazione di un complesso sistema di forniture e servizi (bunkeraggio, approvvigionamenti, fornitura di arredi, riparazioni, tour operator, incoming ed ospitalità alberghiera) con più di 4.200 occupati diretti (e altrettanti indiretti) di cui oltre la metà operanti nella sola area di Marittima e più di 200 aziende coinvolte tra centro storico e terraferma. Tra l’altro, grazie allo sviluppo del Porto Passeggeri di Marittima, Venezia ha assunto una leadership a livello nazionale, divenendo un punto di riferimento fondamentale nel Mediterraneo Orientale e per il traffico crociere di tutto l’Adriatico di cui agisce da traino. Ripercorrendo velocemente il processo che ha portato alla riquali cazione di Marittima, si è partiti nel 2000 con il trasferimento delle attività portuali commerciali a Marghera e la ristrutturazione del Magazzino 107/108 per farne un Terminal crocieristico e quindi adeguarlo alle esigenze del comparto; poi si è passati nel 2003 alla riquali cazione del Magazzino 103, trasformato in una struttura polifunzionale dotata di un centro congressi; poi, nel 2006, si è intervenuti sul Magazzino 117; quindi, tra il 2009 e il 2011, sono stati realizzati due nuovi terminal - Isonzo 1 e Isonzo 2 - sull’omonima banchina, no ad arrivare, nel 2014, al restauro del Magazzino 109/110, a supporto dell’operatività della Banchina Tagliamento e, nel 2015, al rinnovo del Magazzino 123, no al 2013 utilizzato per gestire il traffico dei traghetti trasferito a Fusina nel giugno 2014. Fondamentale rilevare che, ovviamente anche in questo caso, le linee guida della trasformazione operata dall’ente portuale correvano sul binario dell’interesse collettivo soddisfatto via via con interventi di tutela messi in atto su più fronti. Se in una prima fase ad esempio si era risposto alle esigenze della Città con il trasferimento a Marghera delle attività portuali commerciali che ancora si svolgevano a Marittima e con il cambio di accesso delle navi mercantili (dalla Bocca di Porto di Malamocco quindi anziché dalla Bocca di Porto di Lido), si ritenne poi che anche il traffico traghetti, che veniva servito in Marittima e a cui erano state dedicate strutture e spazi, dovesse essere trasferito in terraferma. L’operazione fu lunga e complessa, passando per pesanti interventi di boni ca (36 ettari interamente boni cati per un investimento di 8 milioni di euro e la boni ca da amianto più massiccia d’Europa) e la completa trasformazione funzionale e logistica di un’altra area in terraferma a Fusina - area industriale dismessa ex Alumix a Porto Marghera - che divenne un nuovo scalo tutto intermodale, anch’esso caratterizzato dalla massima spe-
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO cializzazione a servizio, in questo caso, del solo traffico traghetti Ro Ro e Ro Pax. Analogamente, altri aspetti ambientali furono considerati rilevanti e pertanto, non solo furono oggetto di studi e analisi di monitoraggio continuo, ma anche di interventi di salvaguardia che costituiscono ancora oggi best practice a livello nazionale e internazionale. Rispetto, per esempio, alla tutela dell’aria, il porto passeggeri di Marittima oggi ospita solo navi che aderiscono all’iniziativa Venice Blu Flag, che prevede che le Compagnie di Navigazione si impegnino ad utilizzare combustibile con tenore di zolfo non superiore allo 0,1%, dal momento in cui si avvicinano alla Bocca di Lido no alla banchina di ormeggio. Tale accordo volontario ha reso Venezia capo la in tema di tutela ambientale, poiché le istituzioni e la classe imprenditoriale direttamente coinvolta hanno anticipato la direttiva europea in materia. Gli effetti dell’attuazione del Venice Blue Flag sono una riduzione di zolfo del 91% e di particolato del 46%. Il porto passeggeri, poi, è stato dotato dall’ente portuale di un sistema di illuminazione a Led che riduce al minimo l’inquinamento luminoso e il consumo di energia richiesta dalla struttura portuale, con un risultato di risparmio del 70% rispetto ai sistemi di illuminazione tradizionali. Anche in merito agli impianti di trattamento delle acque meteoriche, l’ente portuale ha sviluppato best practice che sono state applicate nello scalo di Marittima, che può contare su nuove tecnologie (Storm lter® technology) che trattano il 95 % annuo di acqua piovana invece dei primi 5 mm richiesti dalle norme italiane. In ne, dal 2015, come risultato di una autolimitazione volontaria, le compagnie che scalano Venezia utilizzano solo navi di stazza lorda inferiore a 96.000 tonnellate, considerata oggi medio-piccola nel mercato. © Riproduzione riservata
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
The Campus of San Giobbe, in the heart of Cannaregio by Vittorio Spigai
The project of the San Giobbe campus, in the heart of the highly populated sestiere of Cannaregio-Venice, located at the city’s entrance in a vast formerly industrial and now decommissioned area, in connection with the project for Padua’s Parco delle Mura, we nd another area on the edge of an ancient and important city centre. In both projects, the restoration of a large monument (Venice’s former 19th century slaughterhouse and the 16th century city walls of Padua), becomes the trigger and the driving force for an operation of urban requali cation on a much larger scale. In Padua, the idea of repurposing about 2,000,000 m2 of decommissioned and underused areas along the 11km of the city walls, is an operation brings about a radical change in the old city centre’s appearance, the environmental quality, and the offers to tourists of present-day Padua. In Venice, the creation of the new Economics campus of Ca’ Foscari in San Giobbe provides the opportunity for the rehabilitation of one of the largest former industrial areas of the insular centre. It is in a position of great visibility, at the arrival from the bridge across the lagoon, completing the forma urbis of the westward border. Ca’ Foscari university, although aware of the signi cant sacri ces concerning functionality, efficiency and comfort that this conservation choice would bring to the new campus, has remained adamant in its position of continuing the project. Goals included keeping and unifying the numerous Venice venues of the Economics faculty, the largest and oldest of Ca’ Foscari. Another objective was to acknowledge the importance of the restoration of the vast, monumental complex in the broader context of the city’s history. Lastly, there was the certainty that the addition to S.Giobbe of the new university venue, with its 7,000 students, would without doubt be a bene t for the area. Today, there is clear perception of the change in the neighbourhoods of Cannaregio, at the time very much closed off from the rest, and in all of Venice.
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Il Campus di San Giobbe, nel cuore di Cannaregio di Vittorio Spigai
Ovunque s’intervenga incontriamo tracce, testimonianze, frammenti di progetti incompiuti. Segni del passato a volte indiscutibilmente da conservare, a volte più labili o immateriali o difficili da interpretare. Nella pratica corrente, da parte di committenti e progettisti, queste presenze vengono spesso considerate un fardello che complica le procedure, sacri ca le nuove funzionalità, limita la libera creazione. In effetti siamo in molti a pensare che al contrario ciò rappresenti una grande ricchezza e apra valenze formidabili per un modo diverso di progettare nella città e nel territorio. Conoscere, senza l’ansia di metter giù il primo segno, suggeriva Egle Trincanato nel suo insegnamento, tanto sicuro quanto discreto. Erano gli inizio degli anni ’70 e ancora forti erano le tracce lasciate a Venezia da Saverio Muratori e da Giuseppe Samonà. Sempre a ben guardare, avevamo capito anche noi, giovani venuti su nelle scuole di Quaroni, Aymonino e De Feo, tra Roma e Venezia, che queste presenze – se assunte e messe in risalto nella concezione del progetto – possono divenire il lo conduttore di azioni che, unendo il nuovo alla conservazione delle tracce dell’antico, trascendono la scala architettonica e possono indurre processi di riquali cazione importanti per le nostre città. Per interventi identitari, che uniscano salvaguardia e innovazione, impensabili senza prendere in carico queste presenze, seguendo una consuetudine e una pratica preventiva di conoscenza. Romeo Ballardini, dell’Istituto di Rilievo e Restauro diretto da Trincanato e a suo tempo assistente di Samonà, indiscutibilmente aveva chiarissimo il ruolo urbanistico che poteva assumere un grande restauro, assunto nelle sue rami cazioni negli sviluppi secolari del territorio. Pensiamo ai progetti di Ancona e Venzone, delle Mura di Ferrara, Cittadella e Montagnana, al Cimitero monumentale di Senigallia e al progetto per le Mura rinascimentali di Padova che, rimasto incompiuto, quest’anno vedrà i primi lavori; si spera in ne in un’ottica complessiva e unitaria. La ricerca sulle mura di Padova, su cui tornerò brevemente in conclusione, fu intrapresa da Ballardini1 nel 1986-87, lo stesso anno del primo progetto per San Giobbe. Il caso di Padova, oltre che rappresentare un ricordo operante di Ballardini, mi permette di spiegare meglio il progetto per il campus di Venezia iniziato con lui, poiché segue la medesima linea. Laddove a Venezia, come a Padova, il restauro di un monumento (l’ex Macello ottocentesco) diviene anche il lo conduttore per la rinascita di una delle maggiori aree dismesse e degradate della città.
Il nuovo campus di Economia a Venezia Le ex aree industriali di S.Giobbe. Dall’ipotesi di demolizione integrale dell’ex Macello e delle contigue fabbriche degli ex Mulini Passuello, al progetto di restauro e ristrutturazione urbanistica per stralci, sulla base di un progetto unitario - Il progetto di San Giobbe che vi presento, è l’esempio costruito di quanto ho rapidamente riassunto in premessa e ha rappresentato - nei trent’anni della sua concezione e della sua graduale realizzazione - il banco di prova di quella linea. Come avviene oggi per il progetto del Parco delle Mura a Padova, all’inizio, anche il progetto per San Giobbe, nonostante il sostegno della Sovrintendenza, non ha trovato tutti concordi. La prima versione, nel 1986, ha impiegato quasi due lustri perché fosse approvata e per l’inizio del primo cantiere. In ne, completati i primi interventi tra il 1995 e il 2005 - dieci anni di lavori continui - ha ottenuto il pieno appoggio anche da parte del Comune, con stralci successivi che sono poi proseguiti sino a oggi e si concluderanno entro i prossimi tre anni.
1 - Il margine ovest di Venezia, arrivando dalla terraferma. L’area del nuovo campus di Ca’ Foscari (2006).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA Allo stato presente, la costruzione del campus è nella fase nale. I lavori si sono svolti per stralci e senza interruzioni, con inizio nel dicembre 1994. Le dieci fasi esecutive2, iniziate con il restauro di circa la metà del Macello monumentale, sono rappresentate nella g. 3, che distingue gli interventi conservativi da quelli di nuova edi cazione. Concluso nel luglio 2016 il cantiere del penultimo stralcio (per il recupero dell’isolato Passuello,) è stato pubblicato in questi giorni (aprile 2017) il bando per l’appalto dell’ultimo lotto del campus, in punta di rio della Crea (la Fase attuativa C-2°stralcio, a sinistra, sempre nella g. 3). Il termine di tutti i lavori è previsto per il 2020.
Il progetto
2 - In alto: il progetto di Le Corbusier per l’ospedale a San Giobbe (1964-68. in chiaro il perimetro dell’area in seguito destinata al nuovo campus di Economia). I basso: l’area prima dell’intervento di Ca’ Foscari (1994 circa).
Riassumo brevemente la storia del progetto, già abbastanza nota negli ambienti specialistici e pubblicata più volte.3 Dal 1964 al 1968, sino alla seconda metà degli anni settanta, si è molto discusso a Venezia sull’opportunità di realizzare a S.Giobbe l’Ospedale progettato da Le Corbusier. Com’è noto, la costruzione dell’enorme piastra traforata dell’ospedale sarebbe avvenuta a seguito della completa demolizione del complesso ottocentesco del Macello4 e delle aree limitrofe, nonché dell’edilizia minore lungo le calli interne immediatamente adiacenti (Calle delle Beccherie, Campo dei Luganegheri, Calle Biscotella, sino a Calle della Cereria e Calle del Magazen). Nel decennio che segue, come eco di quel dibattito, da parte di molti permane il rammarico di una grande occasione perduta per l’architettura moderna, dall’altra la convinzione che il progetto fosse fortemente eversivo rispetto al contesto veneziano. Peraltro, in quegli stessi anni, l’interesse per l’architettura ottocentesca e industriale, che anche nell’insegnamento nelle Università italiane sino agli anni ‘60 si riteneva di poter demolire senza remore, prende nuovo impulso5. Clima controverso in cui si origina il primo Progetto generale unitario, redatto nel 1986 dagli Studi Ballardini e Spigai, in cui è proposta un’ipotesi per il recupero complessivo dell’area di S.Giobbe e delle sue costruzioni industriali.
Il contesto culturale e teorico del progetto,1975-1986 I precedenti - Il progetto sin dall’inizio è stato concepito come intervento in cui era prevista la compresenza delle categorie operative del restauro, del recupero con adeguamento interno dei percorsi e degli impianti, della nuova edi cazione con demolizione di quelle parti incongrue, precarie o recentissime che nel corso dell’ultimo secolo si erano aggregate alle strutture ottocentesche. Come accennato in premessa, presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, sul nire degli anni ’60 e negli anni a seguire, alcuni docenti hanno continuato a far ricerca seguendo le profonde tracce lasciate da Muratori6 e dall’opera appassionata di Trincanato, in una didattica di valore con estese ricerche su Venezia e Verona. 206
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO Samonà in quegli anni, che vedevano orire i tentativi di estendere le teorie linguistiche anche al campo delle arti gurative, dell’architettura e degli studi urbani, insisteva a indicare in un approccio strutturalistico la possibilità di un “momento uni cante tra architettura e urbanistica”, in particolare nell’intervento sulla città esistente7. A partire da tali indirizzi, nello IUAV, in una posizione di mediazione tra il mondo dei progettisti (che era soprattutto rappresentato da alcuni dei protagonisti e degli eredi del forte movimento del Gruppo Architettura negli anni subito successivi al ’68) e il manipolo che rappresentava le discipline del restauro, guidato da Trincanato, nacque e gradualmente si consolidò, tra il 1975 e il 1985, una teoria, su basi semiotiche appunto. In essa, rivolta alle modalità d’intervento sulla città esistente8, le preoccupazioni relative alla conservazione e le istanze di affermazione dell’architettura del Moderno si integravano anziché contrapporsi. Se forse oggi quelle intenzioni d’integrazione e complementarità si sono in ne affermate anche in Italia - pur rimanendo attive alcune posizioni che continuano a militare nello sterile partito della conservazione integrale dei nuclei storici, assunti come opere d’arte statiche, viventi solo per quanto testimoniano - in quegli anni a Venezia la linea della complementarità non era assolutamente condivisa né da intendersi acquisita. Ad essa certamente si opponevano allora, oltre a tali forti oltranzismi conservativi, anche le posizioni altrettanto preconcette e aggressive di quanti - in particolare a Venezia e nell’IUAV, in nome di una supremazia del Moderno, legittima forse per le avanguardie di cinquant’anni prima - negavano diritto di esistenza al Restauro sia come disciplina con statuto autonomo, dotata di proprie teorie e tecniche speci che, sia come modalità d’intervento urbano diffuso, in particolare per l’edilizia cosiddetta “minore”.
3 - Quadro delle fasi attuative di cantieri per il campus di Economia a San Giobbe 1994-2016.
La teoria del progetto - La linea dell’integrazione, su presupposti ispirati alla semiotica appunto, tra problematiche urbanistiche e architettoniche e tra vecchio e nuovo, ebbe il suo primo manifesto nella proposta presentata dal nostro gruppo al Concorso La rinascita della città, organizzato dall’OIKOS e dal Ministero dei BB.CC.AA., a Bologna, nell’ottobre 19839 e successivamente trovò ulteriori sviluppi in numerose pubblicazioni, concorsi e progetti sperimentali, e una progressiva applicazione in alcuni piani e progetti concreti10. Pubblicata a più riprese11, fa riferimento a una metodologia di lettura della città esistente, preliminare ad ogni forma d’intervento, che fonda la conoscenza su tre livelli di valutazione: - il sistema delle presenze di strati cazione storica e di valore socio-culturale e architettonico (struttura delle permanenze); - le relazioni di leggibilità e percettibilità visiva del tessuto urbano (emergenze, centuriazioni, assialità, serialità, proporzioni, simmetrie e altri elementi compositivi/concettuali della conformazione sica dell’insediamento), siano esse parte del contesto naturale (emergenze del paesaggio, etc.) siano essi sottesi alle forme progettate dall’uomo, a scala urbana e a scala architettonica (strutture di conformazione); - l’insieme degli elementi funzionali più signi cativi dell’insediamento, corrispondenti in genere all’organizzazione e alle gerarchie dei luoghi e degli spazi con maggior ruolo socio-collettivo (sistema del collettivo). Rispetto a tali chiavi di lettura storico-morfologica, percettiva, semantica e funzionale 207
I TRE FUTURI DI VENEZIA
4 - S.Giobbe, progetto unitario versione 2016 – fotomontaggio.
della città, la teoria indica nella presenza simultanea di elementi di particolare valore storico-architettonico - dotati di caratteri di chiarezza di forma ed emergenza visiva, simbolica e d’uso - i momenti cruciali e più signi cativi della città esistente. Punti forti di pregnanza e memoria storica, centri dei contenuti socio-collettivi e dotati di particolare riconoscibilità e leggibilità della struttura insediativa: pertanto, in senso semiotico, dei veri e propri nodi di codi ca e manifestazione della città intesa come testo. Nel patrimonio da salvaguardare, non è quindi tutto omogeneo ed equivalente, come implicito per i sostenitori della conservazione integrale. Esistono delle strutture che è possibile riconoscere, valutare e interpretare. A cui il progettista e il restauratore possono fare riferimento. In esse sono distinguibili dorsali ed elementi di risalto, da privilegiare attraverso il progetto. Su tali nodi, fuochi del senso e dell’immagine dell’insediamento esistente, si attestano gli interventi volti alla conservazione ed egualmente le parti che si aggiungono per riportare a possibilità di uso attuale ciò che si vuole conservare. Le parti nuove pertanto, oltre a potenziare le valenze funzionali e di uso collettivo, hanno il compito di contribuire alla leggibilità della struttura antica e a consolidarne il ruolo e l’immagine. In questa logica di rafforzamento e continuità delle strutture di forma e di senso, anche funzionale, è quindi possibile che operazioni che uniscano interventi di carattere conservativo con proposte d’integrazione progettuale riescano meglio a dar vita al patrimonio storico, con risultati più complessivi e soddisfacenti. Sia per la reimmissione nella percezione e nella fruizione collettiva del patrimonio restaurato; sia in ne per l’utilitas, la rispondenza complessiva all’uso contemporaneo e il rendimento sociale dell’intervento. Nel concreto. La ricerca IUAV per Venezia-Ovest: la stazione, piazzale Roma e le aree portuali (1984 - 1986) - A Venezia, il progetto che pubblicamente mostrò l’applicazione di tale teoria su scala urbana, pre gurandone una possibile applicazione nella città insulare, fu presentato nel Convegno e nella Mostra Venezia tra innovazione funzionale e architettura della città. Quattro progetti per l’area ovest presso la Scuola Grande San Giovanni Evangelista, tra il 17 gennaio e il 5 febbraio 198612. Nella mostra erano esposti quattro progetti – molto diversi tra loro - per il settore nord-ovest della città insulare, le aree dell’arrivo e dei trasporti. Ne erano autori rispettivamente G. Fabbri, V. Gregotti, R. Panella, V. Spigai e G. Polesello). Il terzo progetto Panella-Spigai (redatto in due anni d’intenso lavoro), proponeva una serie d’interventi che delineavano le future trasformazioni dei comprensori di margine 208
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
ovest e nord-ovest della città lagunare, anticipando e pre gurando (con esattezza, in alcuni casi) molti degli scenari ripresi da concorsi, piani e progetti del Comune e di altri Enti nei decenni a venire13.
Il Progetto unitario per il nuovo Polo di Economia a S.Giobbe, 1986 Il progetto per il campus di S.Giobbe inizia nel 1986, nei mesi immediatamente successivi al convegno e alla mostra del progetto d’insieme per Venezia-Ovest esposto a S. Giovanni Evangelista e sopra descritto. L’iniziativa di destinare l’area a funzioni universitarie e dell’affidamento del progetto agli Studi Ballardini e Spigai nacque da Giuseppe Mazzariol14, già promotore del progetto di Le Corbusier sulla stessa area e presenza colta e dinamica all’interno di Ca’ Foscari. Nello stesso anno gli Studi elaborano la prima versione del Progetto unitario. Il Progetto unitario si riferisce puntualmente alla teoria su cui è impostato il più ampio progetto per Venezia Ovest e corrisponde infatti al piano di struttura urbana esposto nella mostra a S. Giovanni Evangelista e costruito a partire dall’approccio semiotico di cui si è accennato. Il progetto per Ca’ Foscari ne costituisce l’applicazione a un’area speci ca (S. Giobbe, appunto) nel contesto concreto delle pressanti esigenze dell’ateneo veneziano. L’ipotesi Ballardini-Spigai15, prevede la completa conservazione del nucleo ottocentesco del Macello e una serie di misurati interventi di nuova edi cazione che reintegrano, in un disegno coinvolgente l’intera area, tutte le fabbriche più antiche e i tracciati portatori di valenze storiche.16 Sono mantenute le calli delle Beccherie, Biscotella, Cereria, formate da edi ci minuti uniti da lunghi muri, e viene riproposta l’apertura e la liberazione del Campo dei Luganegheri, ingombro di fabbricati recenti, precari e in parte abusivi. Viene conservata l’edilizia minore attorno al campo medesimo, ricercando un nuovo equilibrio, che la vasta area Macello-Mulini Passuello, nonostante le ripetute e continue trasformazioni nel corso di tutto l’ottocento e dei primi decenni del secolo scorso, non aveva ancora raggiunto. In ne, con una scelta che la Soprintendenza volle allora condividere, seppure non usuale rispetto ai criteri di tutela di quegli anni, fu proposta la salvaguardia d’identità e d’immagine del vecchio nucleo industriale degli ex Mulini Passuello; benché si trattasse di edi ci in cemento armato di qualità corrente, costruiti intorno al 1923 e signi cativi più come forma-memoria di una società del lavoro che come testimonianza architettonica.
5 - Il progetto, recuperando le vecchie aree industriali, ricon gura il bordo nordovest, all’ingresso della città e apre nuove prospettive per le estese aree intercluse adiacenti l’ex Orto botanico e Fabbrica siluri e l’ex Centrale di Angiolo Mazzoni recentemente ristrutturata (in basso a destra).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA L’Università di Ca’ Foscari (nella persona del prof. Castellani, allora Rettore, e successivamente i Rettori Costa, Rispoli, Cescon, Ghetti, Carraro e Bugliesi) pur consapevole degli oneri considerevoli e anche dei sacri ci per la funzionalità, l’efficienza e il comfort che questa scelta di conservazione avrebbe comportato per la nuova sede, decise comunque di portare avanti tale progetto. Consapevole dell’importanza del recupero del grande complesso dell’ex Macello nel contesto più ampio della cultura della città e che l’inserimento a S.Giobbe del nuovo nucleo universitario, con i suoi 7.000 iscritti, avrebbe determinato, come oggi si può avvertire chiaramente, un’in uenza positiva per quella parte, all’epoca molto emarginata, del quartiere di Cannaregio e per Venezia tutta. In ne, per concludere, ritorno brevemente all’esempio iniziale delle Mura del ‘500 di Padova. Undici chilometri continui di mura, il maggiore sistema bastionato rinascimentale europeo ancora esistente. In gran parte nascoste dalla vegetazione, inutilizzate, completamente dimenticate e sconosciute, non solo a livello nazionale ma dagli stessi abitanti della città. Dal 1987, dopo l’inizio del progetto promosso da Ballardini, le mura di Padova abbandonate, sono rimaste com’erano. La linea che a Padova negli ultimi anni, dal 2009 per l’esattezza, abbiamo suggerito17 è di usare il lo conduttore del restauro e nuovo uso della cinta rinascimentale per innescare il contestuale recupero di 12 vaste e importanti aree sottoutilizzate e fatiscenti della città. E di farne pertanto una sorta di linea-guida, che - al di là del salvare, rendere visibili, sistemare, illuminare le mura e il loro tracciato nei brevi tratti mancanti - guidi un’azione urbanistica e paesaggistica capace di recuperare e rimettere in gioco le grandi aree destrutturate (per circa 2 milioni di mq) che si susseguono lungo la cinta bastionata. Facendovi convergere iniziative e risorse per creare una fascia continua di verde e servizi che attraversando le zone più dense e residenziali della città potrà migliorare in modo epocale l’immagine del centro antico, la qualità della vita dei quartieri e l’offerta turistica; ed evitando, in sovrappiù, ulteriori espansioni nel territorio. A Padova come a Venezia, in questi grandi interventi di restauro, l’introduzione attraverso il progetto, nel contesto della vita e dei quartieri e della città, di un’utilitas convincente, di funzionalità attuali forti e socialmente sentite, è essenziale al ne di raggiungere i livelli di consenso e partecipazione che rendano possibili, oltre allo stanziamento delle somme ingenti necessarie per lavori di tale portata, la successiva possibilità di gestire, mantenere e proteggere il patrimonio restaurato. Contenuti e nalità che si aggiungono a quello primario della conservazione del bene culturale e che, allo stesso tempo, la rendono possibile. © Riproduzione riservata
Note 1 Con la collaborazione, in particolare, di Vittorio Dal Piaz e Adriano Verdi del Comitato Mura di Padova, associazione fondata nel 1977. 2 Comprendendo anche lo stralcio di costruzione del nuovo ponte verso la stazione, in ne eseguito dal Comune e in corso di collaudo. 3 Il testo che segue è in parte ripreso, con alcuni aggiornamenti, da V. S., Il progetto del nuovo Polo di Economia a S.Giobbe - Venezia 1986-2006, in ”Il Macello di S.Giobbe, un’industria - un territorio” (a cura di G. Caniato, R. Dalla Venezia), Marsilio Ed., Venezia, 2006 e dal più recente: Le patrimoine industriel comme levier du projet urbain: le cas de Venise, in “Paris, métropoles en miroir” (a cura di C. Mazzoni e Y. Tsiomis), la Découverte ed., Paris, 2012. 4 Il Macello di Venezia è stato progettato e costruito a più riprese lungo tutto l’ottocento: dal Salvadori (1832), Meduna (1834), Romano (1866), Cappelletti (1837). Nuovamente Salvadori (1854) e Romano (1878), sino alla conclusione della parte ottocentesca, con l’intervento del Forcellini (1878-1895). Oltre al sopra citato volume di Caniato e Dalla Venezia, si veda anche la ricerca storica di P. Antonetti: Il macello di S.Giobbe, storia di un complesso produttivo (1843-1972), in “Punta S.Giobbe - Storia e cronaca di un lembo di Venezia” - Comitato società remiere punta S.Giobbe, Venezia 1997. 5 Si vedano le contemporanee ricerche di Giandomenico Romanelli, Franco Mancuso ed Elena Bassi sull’architettura dell’ ‘800 a Venezia. 6 S. Muratori, Studi per una operante storia urbana di Venezia, Roma, Istituto Poligra co dello Stato, 1960. 7 G.Samonà, Disegno per una teoria dell’unità disciplinare dell’urbanistica e dell’architettura, in AA.VV., “Oggi, l’Architettura”, Milano, Feltrinelli, 1974. 210
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO 8 V. S., Composizione della città e storia del luogo. La struttura della permanenza storica, su “Rassegna di Architettura e Urbanistica”, n.60, dic. 1984. 9 Mostra Progetti partecipanti al Concorso “La rinascita della citta`”, OIKOS, Min. BB.CC.AA., Reg. E. Romagna, Consiglio d’Europa - S.A.I.E., Bologna, ott. 1983. La mostra è successivamente a: IN/ARCH Roma, 23 gen. - 6 febb. 1984; Sala delle Colonne, Rimini, 10 - 31 mar. 1984; Municipio di Ascoli Piceno, 9 - 30 apr. 1984; dopo essere stata esposta al Convegno e mostra Progettare per la citta` esistente, IX Conv. Naz. A.N.C.S.A., Min. LL.PP., Reg. Toscana, Prov. e Com. di Lucca, Palazzo Ducale, Lucca, nov. 1983. 10 Progetto per il Parco archeologico del Colle Oppio a Roma (1983, coll. A. Clementi, P. Colarossi e L. Ranzato); - Concorso per l’ampliamento del Cimitero Monumentale di Senigallia (AN) (concorso-appalto, primo classi cato, con R. Ballardini) (Bologna 1984 - in costruzione per stralci); - Progetto per il Parco territoriale del Brenta (1985, coll. L. Ranzato e C. Stevani); - Piano di Recupero per l’isolato del Teatro romano Berga a Vicenza (1987, coll. G. Ceretta e A. Sandri); - Piano di Recupero del centro storico di Malo (VI)(coll. C. Stevani). 11 L’approccio semiotico che sta alla base del progetto è trattato in modo sistematico nel libro AA.VV. Le plan et l’architecture de la ville (a cura di A. Levy e V. Spigai), CLUVA ed., Venezia, 1989 e, più recentemente , in V.S., Verso un’architettura urbana, in “Il senso delle memorie”( a cura di A. Clementi), Laterza, Roma-Bari 1990; in V.S., L’architettura della non città, UTET- Città Studi ed., Milano 1995 e in V.S., Quale forma per il progetto urbano? in “Il progetto urbano. Una frontiera ambigua tra urbanistica e architettura “, (a cura di C. Gasparrini), Liguori ed., Napoli 1999. 12 Venezia tra innovazione funzionale e architettura della città. Quattro progetti per l’area ovest (a cura di R.Bocchi e C.Lamanna), Marsilio ed., Venezia, 1986. Si veda anche: - Casabella n. 525, articolo di M.Zardini - Rassegna di architettura e urbanistica, n.60; - il catalogo della mostra Nantes-Venise: l’enjeu portuaire, Phot. Nantoise, Nantes 1987. 13 Tra di essi: - la trasformazione della zona dei gasometri e dello scalo ferroviario con conservazione della Manifattura tabacchi (attualmente in corso); - la ristrutturazione di piazzale Roma (oggetto di successivo concorso della Biennale, in parte attuata recentemente); la necessità di un quarto ponte sul Canal Grande, nella posizione e medesima giacitura successivamente assunte, nel 2002, da quello di Calatrava;la realizzazione di centri direzionali e di grandi silos di parcheggio al Tronchetto (successivamente realizzati e in corso di realizzazione); - la ristrutturazione del quartiere ex SAFFA eseguita in quegli anni da Gregotti; - la formazione di un nucleo universitario della zona dell’ex Cotoni cio Veneziano a S.Marta; - la ristrutturazione del bordo nord di Cannaregio con interventi trasformativi nella punta S.Girolamo (attuati negli anni ’90); - la conservazione del Convento delle Penitenti (oggetto di un concorso nazionale nel 1998 e oggi realizzato); - il collegamento diretto di punta S.Giobbe con la stazione ferroviaria di S.Lucia (recentemente costruito dal Comune). In ne, la ristrutturazione della zona di S.Giobbe di cui qui si tratta, con il mantenimento integrale del vecchio Macello monumentale e il completamento delle aree contigue. 14 Giuseppe Mazzariol (1922-1989), docente di Storia dell’arte contemporanea, fondatore due anni prima del Dipartimento di Storia e Critica delle Arti di Ca’ Foscari, direttore per molti anni della Fondazione Querini Stampalia, ‘colto e attivo promotore di una Venezia “città compiuta”, che sembra coerentemente costituire la ragione storica, civile e politica del suo impegno’ (da L. Cerasi, Qualcosa per Venezia. Giuseppe Mazzariol accademico, tra politica e cultura, in AA VV., “Etica, creatività, città. Giuseppe Mazzariol e l’idea di Venezia”, Fondazione Querini Stampalia - Silvana Editoriale, Milano, 2014). 15 Ballardini dal 1986 al 1998, anno della sua prematura scomparsa, Spigai dal 1986 ad oggi. 16 Il progetto percorre un percorso analogo, di approfondimento delle leggi del testo (Venezia e in particolare quella parte del bordo lagunare), per le scelte di linguaggio: metriche-proporzionali, materiche, chiaroscurali, di texture e cromatiche. Si rimanda ai saggi citati e alle relazioni di progetto, presentate alla Sovrintendenza di Venezia dal 1986 al 2016. 17 Con progetto coordinato, a più mani e di lungo periodo, in collaborazione con: – Corsi della Laurea magistrale in Architettura per la Conservazione IUAV (2009-2013) e Corsi del Master IUAV 2° livello Processi costruttivi sostenibili (2014-2017). In gran parte condiviso e ulteriormente sviluppato negli ultimi tre anni con il Comitato Mura di Padova, sino a farne un obiettivo di programma, almeno a parole, da parte di tutti i candidati sindaci nell’accesa campagna elettorale che si sta svolgendo in queste settimane (aprile 2017).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Santiago Calatrava: a bridge among harmony, reality and dream by Enzo Siviero
A great many people have written that the Santiago Calatrava’s bridges are difficult to contextualise, because they express a concept of type and a form that is at times somehow removed from the context in which they stand. He often concedes little to historic, traditional architecture, even the most recent. The fourth bridge over Grand Canal is a complex project, a concentrate of excellences and critical issues that is truly unique and, by no coincidence, positioned in such a unique place, where there is no shortage of extremes and contradictions, making it an emblematic example of the difficulties experienced by a country in developing public works, as well as showing how this same country successfully releases highly-respected professionals, able to solve difficulties in design and development of uncommon complexity. This bridge is conceived as a sculpture on an urban scale, lled with suggestions and designed by an artist. The question that usually arises in its priceless genuineness is whether or not Calatrava Bridge is beautiful and whether its inclusion in the city of Venice appears to be somewhat taken out of the context or if it is a symbol of the modernity that this city cannot in any case escape. We cannot say with any certainty if it is a beautiful bridge as the beauty of a work in line with its time is rarely revealed to the beholder living at that time. It is instead worth asking ourselves if it has the visionary and emotional capacity that transcends the objective, if it speaks the language of art intended as, rst and foremost, justi cation of our time on earth, if it is a synthesis of strength, technique and intelligence. If the answer is yes, then Calatrava Bridge in Venice, just like his other works is, as well as useful, clearly also beautiful. Because it will tell of us, our weaknesses and, why not, also the dreams of our time, and will thus allow posterity to wonder over the reasoning behind the choices.
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Santiago Calatrava a Venezia: un ponte tra armonia, realtà e sogno di Enzo Siviero
Secondo Vitruvio, “La proporzione è l’armonia di ciascheduna parte dei membri sì fra di loro, come con tutta l’opera: dal che risulta l’essenza delle simmetrie. Onde niun edi zio senza simmetria e proporzione può avere essenza di componimento, senonchè prendendo esempio dall’esatta relazione, che hanno tra loro i membri d’un uomo ben formato”. E(...) l’Armonia è la Scienza della musica: ella è oscura e difficile, specialmente per chi ignori la lingua greca; per lo che, volendo noi tenerne discorso, dovremo anche servirci de’ termini Greci, non avendovi per molti di cotai vocaboli la latina pronunzia. Armonia è dunque etimologicamente quella parte che ha per oggetto la successione conveniente dei suoni, la quale essendo ora grave, ora acuta, attesa l’opposizione di queste due parti, si chiama ritmica e metrica, ed ha corrispondenza col ritmo e colla misura.1
Il ponte: armonia, composizione e signi cati Nel Rinascimento, con l’Alberti e lo Scamozzi, il processo di ideazione viene sistematizzato come metodo che si fonda su una fase iniziale di studio che precede quella costruttiva. L’architetto indaga con il disegno tutte le possibili soluzioni per la de nizione della forma attingendo alla tradizione classica e avvalendosi di proporzioni e regole stabilite a priori per armonizzare gli elementi. Anche Le Corbusier parla del concetto di armonia gettando un ponte fra la tradizione e la modernità e pone alla base della sua progettazione e quale riferimento dimensionale il Modulor, una scala di rapporti proporzionali riferita al corpo umano. Molto più avanti nel tempo, Gian Carlo Leoncilli Massi, nel suo bel libro La leggenda del comporre, afferma che “svelare il segreto del comporre, di un pensiero che torna architettonico, è riuscire a comprendere il costruirsi, lo svilupparsi del procedimento che attiene l’antico mondo del “pensai et congettai”, della precognizione dell’idea, dell’analisi e della sintesi. Bisogna saper proporzionare per poter ottenere la bellezza e quindi l’armonia, l’accordo, che si determinano in funzione del veri carsi, o meno, di una condizione difficilissima quanto, per sua natura, misteriosa: rendere dicibile la “indicibilità” dello spazio, per poterlo rappresentare, misurare, costruire in termini di forma. Anche Panofsky ri ette sul concetto di bello come ricerca del bello compositivo che è l’idea dell’armonia spaziale e che esalta la supremazia del pensiero nel creare, che è pensiero architettonico spaziale. È la rinascita di una architettura teorica distinta da quella pratica2. L’idea sarà pensiero architettonico realizzato, ovvero il pensiero prende la giusta e armonica forma. Quindi, affinchè l’opera architettonica possa raggiungere la “bella forma”, è necessario che possieda in sè stessa l’armonia delle proporzioni realizzata nelle parti e nel tutto, come rispondenza delle sue parti alle leggi dell’ambiente spaziale in cui si colloca. Il ponte si pone in tal senso come l’opera architettonica che meglio coniuga le regole della forma con quelle della struttura e della composizione. Come non ricordare la bellezza, l’audacia e la forza degli antichi ponti costruiti al tempo dei romani che ancora oggi rappresentano pietre miliari ed esempi notevoli nella storia delle costruzioni? Il progetto del ponte è, nell’accezione più classica, un atto culturale che affonda le sue radici nell’antica triade rmitas, utilitas, venustas che Vitruvio stesso ha coniato, in cui forma strutturale e funzione coincidono. Progettare e costruire ponti signi ca modi care il paesaggio esistente, caratterizzato da una propria storia e da un’immagine con-
1 - Il ponte di Calatrava scavalca il Canal Grande collegando l’area della stazione ferroviaria con Piazzale Roma.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - Vista dal ponte verso il Canal Grande.
solidata ricca di valori, offrendo nuove possibilità non solo funzionali, ma anche percettive e di relazione. Sotto questo aspetto, il ponte va visto nel suo calarsi armonico nel territorio nella sua natura di oggetto, di somma di particolari e di dettagli costruttivi. Ma il tema del ponte può diventare pensiero e comunicare il suo “essere” oggetto carico d’ identità, dotato di una sua intrinseca poetica e mezzo attraverso il quale si percepisce e si vive il luogo, fatto unico che tramite la forma esaltata dalla struttura afferma la vera identità di un contesto, e può assumere diverse sfaccettature. Da elemento oggetto di simbolismo e rappresentazione, a manufatto “di invenzione”, a “paradigma” e simbolo nel paesaggio nelle diverse culture e nella trattatistica, a opera strutturale o elemento compositivo, racchiudendo in sè cultura umanistica e cultura tecnica, espressività formale e rigido calcolo, capaci di stimolare la ricerca continua di nuovi signi cati. Le passerelle pedonali sono opere d’arte in tal senso emblematiche poichè possono assumere diverse chiavi di lettura. Ciò che differenzia una passerella da un ponte non è solo la sua funzione pedonale rispetto a quella carrabile, ma è anche la sua densità percettiva: nella sua fruizione si possono creare delle relazioni dal ponte verso il territorio e dal territorio verso il ponte, ovvero si possono riprodurre le leggi dell’armonia. La funzione ridisegna il paesaggio, o, diversamente, all’atto della scelta progettuale, l’interpretazione della funzione attuata attraverso la passerella riconnota il sistema di quinte visive ma allo stesso tempo dà forma al paesaggio tattile sede di signi cati plurimi.
Santiago Calatrava, un ponte tra armonia, realtà e sogno Essere profeti del proprio tempo è cosa rara, tuttavia è innegabile che un grande interprete dei nostri tempi sia Santiago Calatrava, architetto-ingegnere che ha trovato al Politecnico di Zurigo, in quella che fu la scuola di Maillart e di Menn, il compimento scienti co dei suoi studi artistici che gli consentono una produzione di opere la cui rmitas apparentemente innaturale esprime una venustas dirompente. Molti hanno scritto che i ponti dell’architetto-ingegnere spagnolo siano di difficile contestualizzazione, perché esprimono una concezione tipologica e una forma a volte 214
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
avulsa dal contesto nel quale sono inseriti. Calatrava spesso concede poco all’architettura storica, tradizionale, anche la più recente. Congeniale alle sue opere appaiono lo straniamento, il dualismo tra la scultura e lo scheletro primordiale e il calcolo e la tecnologia più attuali. Che la simbologia del ponte sia profondamente radicata nell’uomo - e le interpretazioni antropomorfe di Calatrava lo rendono per questo un Maestro - è cosa nota, valga il fatto che sin dai tempi antichi si è sempre cercato di dare implicazioni socio- loso che all’azione ponti cale. Si pensi al con itto fra “natura e cultura”, rappresentato dal ponte quale “macchina arti ciale costruita dall’uomo” che si oppone alla “natura incontaminata”, oppure al con itto tra “forze celesti e divine” che operano naturalmente e “forze demoniache” che intervengono arti ciosamente; oppure si pensi al pons sublitius, da intendere come punto critico fra terra e cielo, uomo e aldilà, perdizione e salvezza, separazione e unione. Si pensi anche al signi cato allegorico del ponte come quello di luogo di scontro fra “discordia e concordia”, “guerra e pace”, e in questo senso la letteratura e le arti gurative hanno spesso celebrato tale dicotomia interpretando il ponte quale luogo dell’immaginario poetico o onirico-fantastico. Se ponti e acquedotti sono la dimostrazione della civiltà romana, i pittoreschi ponti abitati del Medioevo appaiono tipologicamente chiusi, in un’epoca ideologicamente confusa e oscura dalla quale ci derivano tanti toponimi angoscianti. Da una riacquistata serenità e ducia nella propria arte deriva la perfezione dei ponti rinascimentali a cui conseguono la tecnologia illuministica di Perronet e le ricerche di Telford, Eiffel e Röbling nell’ottocento. Ebbene, le opere di Calatrava ondeggiano tra passato e presente, tra cultura umanistica e ricerca dell’audacia e del dinamismo, ed è proprio a questo sottile oscillare tra passato e presente che sono forse dovute le critiche al lavoro dello spagnolo che, come Cassandra, è al tempo stesso protagonista ed estraneo alla scena del proprio tempo. Quanto al confronto con il connazionale Gaudì, vi è tra i due artisti la stessa differenza che vi è tra un sabba classico e un sabba romantico: se anche vi fosse empatia di lin-
3 - Passi sui gradini di vetro, sullo sfondo di Piazzale Roma.
CARATTERISTICHE GEOMETRICHE:
Lunghezza totale: 80.8 m Larghezza dell’impalcato: da 6,5 a 9 m Altezza sezione resistente: da 1.702 a 2.084 mm Freccia in mezzeria: 4.76 m Schema statico: arco fortemente ribassato. Rapporto freccia/ luce: circa 1/16 Peso struttura metallica: 407.300 kg 215
I TRE FUTURI DI VENEZIA
guaggio, entrambi andrebbero in una direzione storica ben diversa. L’equilibrio di Gaudì deriva da una magia barbara e medievale, da una ironica deformazione dell’ascesi gotica, estranee al polito formalismo dell’epigono. Ma Calatrava va oltre: “Gaudì, con la sua sintesi tra il gotico e il liberty e il rispetto che aveva per la natura, rimane un magni co esempio. Ma, se pensiamo alla natura come paradigma, possiamo riferirci non solo a Gaudì: ci sono anche la sica di Einstein e quella di Max Planck, con l’importanza attribuita al movimento o alla discontinuità... D’altro canto, e il gurativo ne è la prova, il confronto con la natura ha accompagnato tutta la storia dell’arte. L’architettura non può fare eccezione “.2 Continuando nel nostro gioco simbolico, ci piace pensare che la semiogra a di Calatrava, che cattura nella sua rma una colomba picassiana e, ampli candola, invade tutto lo spazio bianco della pagina, così come le sue creature invadono paci camente il cielo, abbia la stessa valenza salvi ca, forse inconscia, di un’offerta propiziatoria, di conciliazione, tra il dio generatore e il demone tecnocrate, ed è proprio questa conciliazione che dovremmo ricercare anche nel ponte di Venezia.
Il quarto ponte sul Canal Grande a Venezia
4 - Particolare delle costole in acciaio.
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Si tratta di un progetto complesso, un concentrato di eccellenze e criticità unico, non a caso collocato in un luogo anch’esso unico, dove non mancano estremi e contraddizioni tanto da porsi come caso emblematico delle difficoltà di un Paese nel realizzare opere pubbliche - dalle più complesse no a quelle di carattere ordinario -, ma anche esempio di come questo stesso Paese sappia mettere in campo professionalità di tutto rispetto, capaci di risolvere nodi progettuali e realizzativi di non comune complessità. Questo ponte è concepito come una scultura a scala urbana, di colore rosso come non lo sono i ponti veneziani nè i ponti di Calatrava, ricca di suggestioni e disegnata da un artista. L’unicità dell’opera sta anche e soprattutto nella sua forma, oltre che nel colore e nelle niture. Le 74 costole in acciaio ecco che ritorna il richiamo antropomorfo - sono l’elemento più appariscente di una struttura molto più complessa, che si basa su cinque sistemi portanti: l’arco centrale, due archi laterali e due archi inferiori. Una sezione praticamente a H, in cui il peso è sopportato dall’arco centrale e dai due archi inferiori, mentre i due archi superiori assolvono alla funzione di stabilizzazione. La complessità strutturale del ponte vista in tutti i suoi aspetti statici, formali, di inserimento nel luogo, e i margini di sicurezza estremamente ridotti, hanno rappresentato una nuova frontiera non solo per il progettista ma anche per lo scrivente che ha dovuto veri carne e collaudarne l’effettiva stabilità in opera, trattandosi di un sistema unico e mai sperimentato concretamente prima di allora. I dati dimostrano che la struttura funziona meglio di quanto si pensasse, con una rigidezza maggiore del 20 per cento rispetto a quanto teoricamente ipotizzato. Il ponte di Calatrava è stato realizzato in tre parti in un cantiere allestito a Porto Marghera, e poi trasportato nelle sue componenti sul luogo d’installazione, con due viaggi, partendo da una chiatta appositamente inventata. Il viaggio dei conci è stato effettuato di notte, e ha compreso il trasporto prima
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO dei conci laterali, lunghi circa 15 metri e pesanti 85 tonnellate ciascuno, poi di quello centrale, di circa 60 metri e 270 tonnellate. Alcuni passaggi sono stati altamente spettacolari e delicati, specie quelli relativi al transito del tronco centrale sotto il ponte dell’Accademia e, soprattutto, sotto il ponte di Rialto, che ne permetteva il passaggio solo con il minimo di marea e con un margine di soli 30 centimetri. Un’opera unica dunque, così come è unica Venezia. Le domande che usualmente appaiono nella loro impagabile genuinità è se il Ponte di Calatrava è bello, se il suo inserimento nella città di Venezia può apparire avulso dal contesto, o se invece si può considerare un simbolo dello scorrere dei tempi a cui questa città non può comunque sottrarsi. La storia insegna in questo senso: Andrea Palladio è stato la prima vittima eccellente nel secolare scontro-incontro tra Venezia e la modernità. Per lui, il Ponte di Rialto è stato il pretesto per offrire a Venezia la sua visione moderna della città: la razionale ortogonalità delle corti porticate si inserisce a forza nel tessuto veneziano, contrastandone ed annullandone la natura di labirinto urbano. Anche l’ingegner Eugenio Miozzi, capo dell’Ufficio Tecnico del Comune dal 1931 al 1954 e progettista del Ponte della Libertà, ha impersonato slanci e contraddizioni, innovazioni e ‘reazioni’ della città antica con il moderno. Venezia città straordinaria ma che deve adeguarsi ai tempi, abbiamo detto. E il ponte di Calatrava ne è in questo senso un esempio emblematico. Non sappiamo dire con certezza se è un ponte bello, poichè la bellezza di un’opera consona al suo tempo raramente si svela all’osservatore che vive in quel tempo. Val la pena invece di chiedersi se esso possiede la capacità visionaria ed emotiva che trascende l’ oggettualità, se parla la lingua dell’arte intesa come giusti cazione prima del nostro soggiorno terreno, se è sintesi di forza, tecnica, intelligenza, se è un simbolo che acquisterà sempre più carattere identitario nel tempo, se è in grado di generare una nuova offerta di paesaggio. Se la risposta è si, allora il ponte di Calatrava a Venezia, così come altre sue opere è, ancor ché utile, senz’altro bello. Perché racconterà di noi, delle nostre debolezze e, perché no, anche dei sogni del nostro tempo, e darà modo ai posteri di interrogarsi sul perchè delle scelte.
5 - Trasparenze.
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Note 1 Dell’architettura di Marco Vitruvio Pollione libri dieci, pubblicati da Carlo Amati (1829). 2 Calatrava architetto del movimento; mostra al Quirinale - rassegna stampa, luglio 2007.
Bibliogra a Gian Carlo Leonicilli Massi, La leggenda del comporre, Alinea editrice, 2002. E. Panofsky, Contributo alla storia dell’estetica, Collana “Universale Bollati Boringhieri”, 2006. B.Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino 1948. E. Siviero, “Un ponte tra realtà e virtualità”. Galileo nr. 71, settembre 1995.
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The conservation of the historic Venetian buildings by Mario Piana
For Venice, Italian Law no. 171 represented a truly epochal change: we need simply recall that a provision was previously in force in the city that not only allowed, but actually encouraged with the release of public grants, the raising of any city living accommodation, as long as it was not protected as an official monument. The special legislation, however, although since then it has clearly almost wiped out any emptying of buildings and reconstruction of entire sections of historic fabric, today appears to be insufficient in terms of guaranteeing the effective protection of the lake factories, just as the current town planning instruments are also inadequate. In force since 2002, the Variant to the Town Plan for the Old City is, in fact, based on the grouping of building units into families of types, identi ed according to the “structural characteristics, distributions and formal traits of the items”; characteristics that are deduced not so much from the observation of what is actually constructed as from the forcibly schematic and partial ndings and/or inevitably imprecise cadastral maps. So what route should be taken to achieve the aim of properly conserving the historic building heritage of the city of Venice?
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La conservazione dell’edilizia storica veneziana di Mario Piana
Pochi mesi sono trascorsi dall’anniversario della grande acqua alta che il 4 novembre del 1966 sommerse Venezia. La disastrosa invasione mareale, evidenziando la fragilità e i pericoli ai quali era esposto un centro storico di grandissima rilevanza, riuscì a catalizzare le preoccupazioni nazionali e internazionali sul destino della città, no ad allora latenti. L’acceso dibattito e le violente polemiche degli anni successivi condussero all’emanazione di una Legge Speciale, la n° 171 dell’aprile 1973, contenente un nucleo di provvedimenti che – oggi si può ben dire – si sono rivelati decisivi per la salvaguardia della città e dell’ambiente. Basti ricordare il blocco dell’interramento di un vastissimo tratto di laguna sud, allora avviato per ricavare nuove aree da destinare all’espansione dell’insediamento industriale di Porto Marghera, o all’obbligo di convertire tutti gli impianti di riscaldamento, da petrolio o carbone in metano, mirato all’abbattimento della polluzione atmosferica, in particolare di quelle sostanze inquinanti – quali l’anidride solforosa e il particellato carbonioso – che risultano le principali responsabili del degrado del materiale lapideo. Il Regolamento di attuazione della Legge Speciale (D.P.R. 791), emanato nel settembre dello stesso anno, enunciò – forse per la prima volta in Italia e sia pure, nell’articolazione di alcune norme, con contraddizioni e indirizzi propositivi che oggi fanno sorridere – l’obiettivo della conservazione integrale del tessuto edilizio di un’intera città, la Venezia insulare e degli altri centri urbani presenti in laguna. “Gli interventi di restauro e risanamento conservativo”, recita l’articolo 2, “debbono assicurare la conservazione della totalità degli assetti costruttivi tipologici e formali che nel tempo hanno caratterizzato ciascun edi cio”, da perseguire con una nutrita serie di norme che vietano tra l’altro la demolizione delle strutture murarie portanti, impediscono lo spostamento di quota di solai o tetti, obbligano – non senza qualche ingenuità – all’uso di materiali “tradizionali” nel restauro e nel rinnovo delle niture edilizie, dai serramenti agli intonaci. Per Venezia la Legge n° 171 ha rappresentato una svolta davvero epocale: basti ricordare che in città era prima vigente un provvedimento che non solo consentiva, ma addirittura incentivava mediante il rilascio di contributi pubblici le sopraelevazioni di qualsiasi edi cio abitativo cittadino, purché non sottoposto a tutela monumentale. La legislazione speciale, tuttavia, se da allora ha certamente quasi azzerato ogni operazione di svuotamento edilizio e ricostruzione d’interi brani del tessuto storico, oggi appare insufficiente a garantire un’efficace tutela delle fabbriche lagunari, così come inadeguata risulta la strumentazione urbanistica vigente. Attiva dal 2002, la Variante di Piano Regolatore per la Città Antica, infatti, si fonda sul raggruppamento delle unità edilizie in famiglie tipologiche, individuate sulla base delle “caratteristiche strutturali, distributive e formali dei manufatti”; caratteristiche desunte non tanto dall’osservazione della realtà costruita, quanto da rilievi forzatamente schematici e parziali e/o da mappe catastali inevitabilmente imprecise. Strumento analitico indubbiamente utile per affinare la comprensione del tessuto storico, nella Variante per la Città Antica lo studio tipologico si è trasmutato in dispositivo normativo che consente interventi di ripristino di membrature, parti ed elementi costruttivi, (setti murari, porte, nestre, scale, abbaini, ecc., magari mai esistiti), purché corrispondenti “alla logica distributiva caratteristica dell’unità edilizia interessata”: si tratta con ogni evidenza di un cedimento alla tentazione di emendare la realtà, di adeguarla a schemi interpretativi precostituiti. Nello strumento piani catorio la multiforme e variegata conformazione organizzativa delle fabbriche lagunari – dovuta anche alle modi che, trasformazioni e adattamenti
1 - Casa d’abitazione in Calle delle Beccarie, San Giobbe 792. Un vano del pianterreno prima dell’intervento; si può osservare lo sfondamento di un solaio e le murature pesantemente aggredite dai cicli di cristallizzazione salina (foto Leo Schubert e Joaquim Moreno). 2 - Nella pagina seguente, in alto: il prospetto sul cortile prima dell’intervento (foto Leo Schubert e Joaquim Moreno). 3 - Nella pagina seguente, al centro: l’impianto di lavaggio per la desalinizzazione delle murature (foto Leo Schubert).
4 - Nella pagina seguente, in basso: pianterreno, la vasca sottopavimentale in calcestruzzo armato a protezione dalle invasioni mareali (foto Leo Schubert).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA del loro corpo intervenuti nel corso del tempo indotti dai mutati bisogni del vivere, dalle nuove esigenze simboliche e di rappresentazione della committenza, dall’evoluzione del linguaggio dell’architettura – non è intesa quale ricchezza da preservare, quanto disordine da correggere. Non ci si può illudere di preservare realmente l’edilizia cittadina con una normativa che, se da un lato punta essenzialmente al mantenimento di astratte con gurazioni tipologiche (mantenimento, nella sua concreta applicazione, perseguito favorendo la cancellazione di ogni diversità e variante distributiva), dall’altro appare totalmente incapace di fornire strumenti atti a tutelare la materia storica della costruzione. Con l’attuale strumento di Piano, e con i Regolamenti edilizi e d’igiene, si può forse garantire la mera permanenza della sembianza – oltretutto fortemente depauperata – dei manufatti, non certo della materia storica costituente gli edi ci stessi. Il complesso delle fabbriche sorte a Venezia e in area lagunare mostra una straordinaria omogeneità di caratteri costruttivi, d’uso dei materiali impiegati, derivante dalla singolarità del sito lagunare. I pesantissimi condizionamenti del sito hanno, forse più che altrove, in uito sui materiali impiegati e sulle procedure assunte nella loro erezione, producendo un insieme di edi ci ove appare con immediata evidenza la ferrea correlazione che intercorre tra l’articolazione strutturale e l’organizzazione funzionale e distributiva delle fabbriche, la stretta dipendenza che si instaura tra i dati materiali di costruzione e le soluzioni formali degli edi ci. Obiettivo primario degli strumenti normativi pertanto dovrebbe essere quello della conservazione degli edi ci nel loro assetto storicamente determinato, della salvaguardia delle loro strati cazioni, del mantenimento di tutte le parti che li compongono. Purtroppo tale volontà conservativa soffre ancora di gracilità interna. Attecchita appena, applicata solo in parte negli interventi che toccano le emergenze monumentali, deve farsi spazio a fatica tra l’inerzia di categorie professionali (architetti, ingegneri, tecnici intermedi, impresari) nel loro complesso culturalmente inadeguate e ancora indifferenti, se non ostili, alle istanze di conservazione, e corre il rischio di venire in ogni momento sopraffatta dai meccanismi della rendita speculativa, dalla forza travolgente di un mercato immobiliare che vede nel restauro delle fabbriche veneziane solo un’occasione per trarre ottimi pro tti. L’edilizia abitativa in particolare, sottoposta a controlli oramai solo formali, a procedure di approvazione tanto defatiganti e vessatorie quanto inutili e incapaci di governare le trasformazioni in atto, è abbandonata alle manomissioni più indebite e devastanti. Troppo spesso vengono intraprese nell’indifferenza quasi generale operazioni improprie o scorrette di consolidamento statico, interventi sovradimensionati e ridondanti di modi ca o di sostituzione delle strutture, di rinnovo totale - quasi sempre inutile - degli elementi di nitura edilizia, che comportano radicali modi cazioni del corpo delle fabbriche: una perdita progressiva, irreparabile e de nitiva, dei caratteri distintivi del tessuto cittadino. Quali sono allora le vie da imboccare per conseguire l’obiettivo di una reale conservazione del patrimonio edilizio storico della città di Venezia? Di certo una strada da percorrere è quella della conoscenza della sostanza sica delle architetture veneziane, dei materiali che le compongono, delle procedure costruttive adottate nella loro edi cazione. L’arte costruttiva lagunare si presta, o si dovrebbe prestare bene, a una tale indagine. A Venezia l’eccezionale concentrazione di manufatti storici, di emergenze monumentali, ma soprattutto di un connettivo edilizio quanto mai compatto e nonostante tutto ben conservato offre condizioni particolarmente fa220
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO vorevoli all’esplorazione. Si tratta di un insieme di fabbriche relativamente contenuto, sorto in un ambito geogra co ristretto e ben delimitato, prodotto da un magistero che ha avuto l’opportunità di dispiegarsi senza interruzioni per quasi un millennio, segnato da una spiccata omogeneità di caratteri impressi dalla singolarità dell’ambiente sico e dai fortissimi condizionamenti da esso esercitati. Eppure, nonostante i umi d’inchiostro nora versati, sugli argomenti dei materiali e delle tecniche veneziane poco, ancora, si sa. Le fonti scritte del passato (le carte di fabbrica, gli scritti e i trattati di architettura), infatti, se a prima vista paiono offrire abbondante massa d’informazioni, si rivelano – da sole – devianti, quando non reticenti o mute proprio sulle ragioni intime del costruire, sulle motivazioni profonde, e inespresse, che hanno governato l’operare delle maestranze venete. D’altra parte, se le ricerche più recenti e pregevoli – in gran parte rivolte alla caratterizzazione mineralogica e petrogra ca dei materiali lapidei o litoidi – procurano solo informazioni frammentarie e tangenti alla disciplina, le analisi dedicate al tema delle tecniche costruttive sovente incappano nelle secche – poco produttive – della mera paratassi espositiva, quando non sono rese inaffidabili da pregiudizi duri a morire o dall’assenza di ogni riscontro con la realtà delle fabbriche. Sono gli edi ci, indagati nella loro sicità, la fonte d’informazione primaria e ineludibile sulle tecniche edi catorie; è la conoscenza approfondita della loro sostanza materiale che può consentire di operare al meglio. Una conoscenza possibilmente fondata su ricerche in grado di fornire informazioni di tipo quantitativo a quanti intervengono sul patrimonio edilizio storico, come quella del censimento generalizzato degli intonaci esterni degli edi ci veneziani, consultabile in rete. Tra tutti i grandi nuclei storici della penisola italiana, la città lagunare è con ogni probabilità quella che conserva, proporzionalmente, il maggior numero di niture antiche: i dati raccolti indicano una percentuale di circa il 20% di edi ci con intonaci ancora sussistenti, appartenenti ad un arco temporale esteso dal XIV al XIX secolo, talvolta presenti in pochi lacerti, talaltra conservati quasi integralmente. Rivestimenti che corrono quotidianamente il rischio di scomparire nel corso di operazioni di manutenzione e restauro edilizio disattente e non fondate su sufficienti informazioni, negli ultimi decenni, paradossalmente, condotte con le risorse collettive, grazie ai fondi offerti dalla Legge Speciale per Venezia a incentivo degli interventi sulle parti comuni degli edi ci. Alcuni studi avevano già gettato parziale luce sull’evoluzione tecnica e formale delle niture esterne degli edi ci. Mancava però, ogni informazione quantitativa, capace di indicare il tipo, la strati cazione, la distribuzione nel centro urbano e lo stato conservativo degli intonaci preindustriali. A tali carenze di conoscenza ha sopperito la ricerca nanziata dal Consorzio Ricerche Lagunari (Corila) e condotta dall’Università IUAV di Venezia, dedicata alla ricognizione sistematica e al censimento delle niture esterne presenti nell’edilizia cittadina. Una campagna impegnativa per vastità e numero dei casi (a 15.500 circa ammontano le unità edilizie veneziane), che si ritiene costituisca un aiuto prezioso per ogni approfondimento di conoscenza nel settore, capace anche di orientare in senso conservativo i futuri interventi. Mi soffermo su un caso esemplare, che può servire a orientare positivamente il risanamento del patrimonio abitativo lagunare: quello del recupero (promosso dal Venice in Peril Fund, Comitato inglese per la salvaguardia di Venezia, progettato dalla Soprintendenza, diretto ed eseguito con fondi del Comune) dell’edi cio sito a Cannaregio in calle delle Beccarie 792. Il corpo di fabbrica, parte di una più ampia schiera edilizia, versava in pessime condizioni. I cedimenti differenziati tra le varie membrature risultavano quanto mai cospicui,
5 - Un tratto di regalzier, intonaco decorato a fresco che riproduce un paramento laterizio, seconda metà del XV secolo (foto Mario Piana). 6 - Casa a San Giobbe 792. Un tubicino dell’impianto di lavaggio (foto Leo Schubert).
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7 - Casa a San Giobbe 792. Primo piano; un’unità abitativa a restauro ultimato (foto Vittorio Pavan). 8 - Il prospetto sul cortile a restauro ultimato (foto Vittorio Pavan).
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alcuni solai apparivano pesantemente compromessi dalla marcescenza agli appoggi delle travi e interessati da crolli parziali, l’intera fascia inferiore degli spiccati murari appariva fortemente aggredita dai cicli di cristallizzazione salina. Molto danneggiati risultavano anche i pavimenti in terrazzo (e in gran parte assenti le pavimentazioni del pianterreno), gli intonaci esterni ed interni, le nestre e gli in ssi lignei. Le reti impiantistiche, in ne, erano completamente obsolete e del tutto inutilizzabili. Il desiderio dell’amministrazione comunale di puntare ad un utilizzo intensivo dell’immobile (che si è tradotto nella conferma delle tre unità abitative presenti, due al primo piano ed una nella softta e nell’introduzione di una ulteriore residenza al pianterreno da destinare a disabili motori), ha rappresentato una difficile s da progettuale. Il progetto si è assunto il compito di dimostrare, mediante una concreta esperienza realizzativa, la possibilità di perseguire un pieno recupero funzionale di un edi cio abitativo, con operazioni tutte orientate alla massima conservazione, con costi pari o inferiori a quelli correnti sostenuti negli interventi sul tessuto edilizio della città. Un tentativo, insomma, di superare quella separazione che nel campo del restauro persiste tra l’architettura e l’edilizia, vale a dire quel diverso comportamento – di frequente negato a parole, ma praticato nei fatti – che differenzia gli interventi dedicati agli edi ci monumentali da quelli che investono le fabbriche cosiddette minori, gli uni orientati (anche se non sempre) al rispetto e alla conservazione della materia storica, gli altri conseguiti per mezzo del sistematico rinnovo di ogni membratura, parte o nitura edilizia giudicata fatiscente o inadatta. La stesura della progettazione si è pertanto fondata su un accurato rilievo geometrico, costruttivo e stratigra co dell’edi cio, sulla costituzione di un abaco delle porte, nestre e scuri, sull’individuazione e registrazione gra ca delle reti impiantistiche esistenti, su esami dendrocronologici e analisi chimico- siche, sulla schedatura dei materiali e delle forme di degrado in essere. Tale messe di conoscenze ha permesso di delineare la reale natura dei problemi di dissesto e di degrado, di calibrare al meglio gli interventi e di giungere ad una ripartizione della spesa in favore delle opere conservative. L’entità dei cedimenti presenti, con abbassamenti relativi tra setti murari che s oravano i quaranta centimetri, ad esempio, in assenza di informazioni adeguate, avrebbe obbligato a intraprendere opere di consolidamento generalizzato dei massi fondali. L’interpretazione dell’evoluzione meccanica subita nel tempo dalla fabbrica, al contrario, ha indicato come la natura degli assestamenti fosse siologica e non patologica; conseguentemente si è rinunciato a ogni opera di consolidamento diffuso delle fondazioni, con risparmio rilevante di spesa. Un altro grave problema, risolto – crediamo – a tutto vantaggio della conservazione della materia storica della fabbrica e con costo contenuto, è stato quello del pronunciato degrado presente nella fascia inferiore degli spiccati murari. Come in ogni altro edicio lagunare l’acqua delle falde super ciali salmastre presente nei terreni, risalendo per capillarità dai massi di fondazione agli spiccati murari, evaporando e concentrando quantità sempre maggiori di sali solubili nelle ossature laterizie, aveva provocato, per gli effetti della cristallizzazione salina, la disgregazione progressiva dei laterizi, delle pietre, delle malte, degli intonaci. Tale problema viene di norma affrontato rimpiazzando le fodere esterne con nuovi mattoni (procedura, peraltro, che offre solo un bene cio provvisorio, in quanto i sali presenti nel nucleo murario presto migrano nei paramenti rinnovati) o formando contropareti in laterizio forato, cartongesso, legno o compensato marino: tutti interventi che, celando i danni visibili, rinunciano a operare il reale risanamento dei setti murari. La risalita capillare può essere impedita dotando il piede delle murature di barriere impermeabili, mediante taglio a sega e introduzione di lamine metalliche, in ssione per mezzo di vibrazione di lamiere in acciaio inox, carotature continue e immissione di resine, ecc. La loro realizzazione, tuttavia, non è in grado di
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO eliminare il degrado dovuto ai sali presenti: se lo strato impermeabile, intercettando l’acqua di risalita, impedisce ulteriori concentrazioni saline nei setti superiori, nulla può nei confronti dei sali già accumulati nelle murature, i quali, messi in movimento dagli apporti d’acqua piovana e di condensa, negli ininterrotti cicli di discioglimento e ricristallizzazione sono liberi di sviluppare la loro azione disgregatrice. Fino a pochi anni fa la sola, idonea, soluzione al problema consisteva nella sostituzione integrale del piede murario a scuci-cuci, naturalmente accompagnata dalla contestuale applicazione di una barriera impermeabile orizzontale appena sopra lo spiccato murario. Intervento efficace, e tuttavia economicamente molto oneroso e che comporta perdite rilevanti di materia storica. Nella casa di Calle delle Beccarie si è scelto di procedere con una metodologia diversa, fondata sul principio della diluizione e dell’asporto delle sostanze saline mediante lavaggi, che, preceduta dalla formazione di una barriera impermeabile al piede della muratura, contempla l’introduzione di una serie di cannule, distanziate tra loro di qualche decimetro e collocate in fori praticati a un’altezza corrispondente a quella massima della risalita capillare (di norma 2,5-3 metri dallo spiccato), sigillate nei punti di introduzione e collegate alla rete idrica; l’acqua, percolando lentamente dall’alto diluisce e trasporta i sali, disperdendosi verso il basso, ove viene raccolta con grondaie provvisorie collegate alle reti di scarico. Un sistema per nulla intrusivo e di sicura efficacia, che ha condotto a un abbattimento radicale dei sali solubili presenti nei setti murari, con costi molto inferiori di quelli che si sarebbero dovuti sostenere con un risanamento realizzato a scuci-cuci. Le spese tecniche, relative ai rilievi, indagini e studi (8.670 dedicati al rilievo e all’indagine storica, 7.745 ai rilievi di dettaglio, alle schedature e alle elaborazioni gra che, 1.290 alle indagini dendrocronologiche, 1.900 alle analisi chimico- siche, 1.020 ai materiali gra ci e fotogra ci) sono ammontati a 18.725 euro, cui vanno aggiunti 24.825 euro di costi di progettazione. L’intervento, realizzato tra l’aprile del 2004 e il dicembre 2005, ha richiesto una spesa di 517.362 euro, con un costo unitario (comparato a una super cie complessiva di 367,8 mq) pari a circa 1.400 euro. Un costo relativamente contenuto, dunque, nettamente inferiore a quello dei prezzi di mercato allora correnti, soprattutto se si considera che l’edi cio versava in condizioni di degrado ben più gravi della norma, che la realizzazione dell’alloggio per disabili motori al pianterreno ha richiesto la formazione di una vasca sottopavimentale in calcestruzzo armato a protezione dalle acque alte e che la moltiplicazione delle dotazioni impiantistiche, derivanti dall’utilizzo intensivo a ni abitativi, hanno comportato un sensibile aggravio (stimabile intorno al 25-30%.) dell’onere complessivo sostenuto del restauro. Credo che l’intento sotteso alla progettazione sia stato colto: il recupero dell’edi cio di Calle delle Beccherie ha mostrato come sia possibile ricercare e praticare la massima conservazione anche negli interventi che investono l’edilizia abitativa, con costi contenuti. Si è trattato di un’esperienza concreta di risanamento, capace di orientare positivamente le future azioni di recupero condotte sia dalle pubbliche amministrazioni che dai privati cittadini. Per accrescere le valenze conservative degli interventi che si compiono sul patrimonio edilizio e al tempo stesso conseguire la massima efficacia nella spesa, dunque, appare utile percorrere le strade della conoscenza e della progettazione virtuosa. Vie non certo risolutive, da sole, ma che senza dubbio possono migliorare non poco la qualità delle operazioni di restauro condotte su una città e un gruppo di centri urbani lagunari di rara importanza e bellezza. © Riproduzione riservata
Bibliogra a John Millerchip, Leo Schubert (a cura di), Un restauro per Venezia. Il recupero della casa in calle delle Beccarie 792, Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano 2006, con scritti di Anna Somers Cocks, John Millerchip, Frank Becker, Mario Piana, Leo Schubert, Franco Gazzarri e Ruggiero Niube.
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The insertion of the new in the historical heritage
by Viviana Martini
The inclusion of new architecture in the historic cities should not be discarded from the outset, indeed it is to be hoped for, in order to ensure a dynamic vision of the city, and is subject to an in-depth understanding of the context and its “strati cation of meaning” based on a multidisciplinary approach. In this respect, the 2011 Recommendation on Historic Urban Landscapes (HUL) proposes an Action Plan that, structured as six essential points, lists the possible phases comprising the approach to HUL and which include the study of the importance of the resources of the HUL, the de nition of their vulnerability and the determination of the most important conservation and development actions in the various areas of the historic city. The document stresses the role played by planning and management, which must integrate the heritage conservation strategies and decisions relating to development. Venice has a Management Plan whose aims are “to guarantee the identi cation, protection, conservation, optimisation and transmission to future generations of the universal value of the Site”. In actual fact, the debasement of the social, human and cultural aspect to which Venice has fallen victim is the emergency to which UNESCO refers when it reports on the dangers connected with maintaining merely the physical appearance of a place, losing all the genius loci. The matter of heritage, in order to succeed in complex strati cation environments, environments for which the matter of the landscape approach has been developed in conservation and protection, requires a suitable technical and implementing device to be developed that includes the use of resources, conservation and optimisation of the social integrity of the community in respect of their constructed Heritage, the compatibility of the economic activities linked to tourism and the sustainability and awareness of the matters of major importance, such as respect for cultures and the environment.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
L’ inserimento del nuovo nel patrimonio storico di Viviana Martini
Negli ultimi decenni, le trasformazioni sociali ed economiche in corso nella città storica hanno mutato profondamente il rapporto tra il vecchio e il nuovo: lo sviluppo spesso incontrollato delle aree urbane, la costruzione di edi ci moderni e la realizzazione di nuove infrastrutture sembrano aver messo in crisi gli strumenti di gestione esistenti, che si rivelano molto spesso inadeguati o insufficienti a coniugare tutela e sviluppo e a guidare in modo coerente l’ espansione nei territori storici preservandone i signi cati.
Nascita del concetto di paesaggio storico urbano Il concetto di paesaggio storico urbano (Historic Urban Landscape, HUL), quale nuovo approccio che affronta il tema del con itto tra conservazione e sviluppo nelle città storiche, nasce ufficialmente a Vienna nel 2005, in occasione della Conferenza internazionale “World Heritage and Contemporary Architecture - Managing the Historic Urban Landscape” che ha visto la partecipazione, oltre che di professionisti da tutto il mondo, anche di esperti dell’UNESCO e dell’ICOMOS. In tale occasione, il progetto del Wien Mitte Station a Vienna ha scatenato l’interesse internazionale in relazione all’inserimento del nuovo progetto nel centro storico di Vienna, poco tempo dopo che lo stesso era stato incluso nella Lista del Patrimonio Mondiale, ed ha costituito il pretesto per la discussione del tema. A questo primo momento di confronto ha successivamente fatto seguito la pubblicazione del Vienna Memorandum, che per la prima volta ha affrontato in modo sistematico il tema dell’inserimento degli edi ci contemporanei (in particolare edi ci alti) nelle città inserite nella World Heritage List ed ha proposto la de nizione di Historic Urban Landscape: “La s da centrale dell’architettura contemporanea nel paesaggio storico urbano è quella di rispondere alle dinamiche di sviluppo al ne di facilitare da un lato i cambiamenti socio-economici e la crescita, e allo stesso tempo rispettare l’assetto della città ereditata e l’impostazione del suo paesaggio. Dall’altra le città storiche viventi, in particolare le città iscritte nella lista, richiedono una politica di piani cazione urbanistica e di gestione che assume la conservazione come punto chiave. In questo processo, l’autenticità e l’integrità della città storica, che sono determinate da vari fattori, non devono essere compromesse”.1 Dopo il Vienna Memorandum, fra il 2006 ed il 2010, l’intenso dibattito a livello internazionale volto alla revisione degli strumenti esistenti relativi alla conservazione delle città storiche, primo fra tutti la Raccomandazione del 1976, è sfociato nelle Conferenze di San Pietroburgo, di Olinda, di Vilnius, con lo spirito di affrontare il tema del crescente numero di con itti che oppongono le ragioni della conservazione a quelle dello sviluppo. Nel 2006, erano oltre 70 i casi critici relativi all’inserimento di nuove architetture in città iscritte nella Lista del Patrimonio Mondiale, e se l’intenso impegno diplomatico ha portato alla revisione del progetto della Wien Mitte railway station di Vienna, nel 2009 Dresda ha proseguito nella costruzione del Waldschlösschen Bridge, con la conseguente cancellazione dalla Lista, e molte altre sono oggi le città storiche che si apprestano a inaugurare progetti di forte impatto in cui la costruzione di edi ci alti minaccia di modi care lo skyline della città, e quindi l’integrità visiva che è uno dei requisiti fondamentali che ne accompagnano l’iscrizione. La UNESCO Reccomendation on the Historic Urban Landscape, approvata nel novembre 2011, rappresenta l’esito di questo lungo lavoro di revisione. Pur essendo
1 - Scorcio alla Giudecca.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA un documento di indirizzo, costituirà in futuro un riferimento essenziale per la de nizione di un nuovo approccio alla gestione delle città storiche, nel quale i temi della conservazione e dello sviluppo sostenibile sono posti quali obiettivi fondamentali, sottolineando il ruolo strategico che la corretta gestione del patrimonio può ricoprire promuovendo lo sviluppo del territorio nell’ottica della conservazione e del rispetto delle qualità e soprattutto delle risorse del luogo.
Storia e modernità nella città storica L’inserimento di nuova architettura nelle città storiche non è da escludere a priori, anzi è auspicabile nell’ottica della visione dinamica della città, ed è subordinato ad una comprensione profonda del contesto e della sua “strati cazione di signi cato” basata su di un approccio multidisciplinare che comprenda diversi settori e che sia in grado di de nire e valutare le risorse e le qualità che caratterizzano il territorio e le sue eventuali possibilità di cambiamento. A tale proposito, la 2011 Recommendation on HUL propone un “Draft Action Plan” che, in 6 punti essenziali, elenca le possibili fasi che costituiscono l’approccio a HUL e che comprendono lo studio dell’importanza delle risorse (tangibili e intangibili) del paesaggio storico urbano, la de nizione della loro vulnerabilità e la determinazione delle più importanti azioni di conservazione e sviluppo nelle diverse aree della città storica. Il documento sottolinea il ruolo della piani cazione e della gestione, che deve integrare le strategie di conservazione del patrimonio e le decisioni che riguardano lo sviluppo, inclusi gli interventi di nuova edi cazione, di trasformazione urbana e di infrastrutturazione. Accanto agli strumenti di carattere normativo, tecnico e nanziario, rivestono un’importanza essenziale anche tutti gli strumenti gestionali tesi a favorire la partecipazione della comunità locale che deve essere educata e informata - al processo di conoscenza e di decisione. L’approccio a HUL è ampio e generico e lascia largo spazio alla ricerca, tanto che è divenuto tema discusso e attuale in ambito accademico e scienti co. HUL si con gura quindi come un approccio manageriale che comprende tutti gli aspetti piani catori-sociologicigestionali che caratterizzano il territorio. 226
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO Agire in ottica di Paesaggio Storico Urbano è un’impostazione mentale, un modo di intendere la città come un risultato dei processi naturali, culturali e socioeconomici che l’hanno costruita e che la modi cheranno. Tratta di edi ci e spazi quanto di rituali e valori, e questo modo di vedere comprende anche il patrimonio immateriale, le conoscenze locali che comprendono la sapienza delle pratiche costruttive, la gestione delle risorse naturali e la percezione dei valori ed interconnessioni degli elementi compositivi anche architettonici del paesaggio storico. Come ha affermato il prof. Jokilehto, “Il successo della gestione futura dei paesaggi storici urbani dipenderà dalla comprensione reciproca e dalla collaborazione di tutti i soggetti interessati, amministratori, tecnici e popolazione. Obiettivo di HUL è quello di riconoscere la qualità del paesaggio urbano più vasto, non solo quello costituito dalle città iscritte nella lista ma anche tutte le città storiche. Ciò signi ca che la questione non riguarda solo gli edi ci ma, come già affermato nella Raccomandazione del 1976, “tutti gli elementi validi, tra cui le attività umane, per quanto modeste, che hanno un signi cato in relazione al tutto e che non devono essere ignorate”. La questione chiave è sicuramente la capacità di gestione e di piani cazione che riconosca HUL nella sua “diversità e integrità”. Obiettivo è quello di riconoscere la natura dinamica della città storica, di favorirne lo sviluppo senza con ciò perdere il suo signi cato”.2
Approccio a Venezia città storica Venezia possiede un Piano di Gestione le cui nalità sono di “garantire l’identi cazione, la tutela, la conservazione, la valorizzazione e la trasmissione alle future generazioni del valore universale del Sito; esaminare le forze di cambiamento in atto, identi care le opportunità e de nire le strategie e gli interventi di tutela e valorizzazione del Sito compatibilmente con il suo sviluppo sostenibile; promuovere progetti di tutela, valorizzazione e comunicazione coordinati e condivisi dagli enti competenti e dai diversi soggetti portatori d’interesse; essere in continua evoluzione in grado di recepire aggiornamenti e modi che con il mutare delle circostanze”.3 La Raccomandazione pone in evidenza come, molto spesso, la dicotomia conservazione-rinnovamento venga troppo sempli cata: sembra infatti che le alternative allo sviluppo siano la “mummi cazione” o, al contrario, che sia necessario un segno dirompente, come se la forza e l’ aggressività fossero l’unica via per smuovere la città. Ma non è così. La più grande forza del campo della conservazione del Patrimonio è la capacità di leggere il passato per capire come si è giunti al presente. Il Patrimonio urbano è infatti il risultato di una strati cazione storica di valori prodotti dalle culture esistenti e da una accumulazione di tradizioni ed esperienze riconosciute come tali dalle comunità. In realtà, assistiamo negli ultimi anni allo svilimento dell’aspetto sociale, umano e culturale di Venezia, e questa è l’emergenza prima alla quale l’Unesco si riferisce quando denuncia i pericoli legati al mantenimento del solo aspetto sico di un luogo, perdendone il genius loci. In un’ottica di sostenibilità, e questo vale anche per Venezia, le risorse patrimoniali e ambientali, che spesso sono l’attrazione turistica stessa, dovrebbero in generale essere protette e mantenute integre nelle loro caratteristiche peculiari. Nel caso di paesaggi urbani, questi dovrebbero essere rispettati e protetti nella loro complessità sociale, culturale ed economica. L’integrità sociale delle comunità nel rispetto del loro Patrimonio costruito e culturale dovrebbe essere conservata e valorizzata in modo autentico. Questo signi ca avere cura ed interesse nel mantenere gli aspetti tangibili ed immateriali sui quali si basa la cultura del luogo e sui quali i paesaggi culturali si sono costruiti e si mantengono dinamici e vitali. Le attività legate all’industria del turismo dovrebbero garantire bene ci sociali ed economici per ciascuna delle parti coinvolte e, parallelamente, dovrebbero educare il turista alla sostenibilità ed alla consapevolezza dei temi di grande rilievo quali il rispetto del patrimonio, dell’ambiente, del signi cato del luogo. La gestione del patrimonio, per avere successo in ambienti dalle strati cazioni complesse, quegli ambienti per i quali è stato sviluppato il tema dell’approccio paesaggistico nella conservazione e tutela, richiede che sia sviluppato un adeguato apparato tecnico ed attuativo, di conoscenza e di responsabilità. La capacità di gestire le risorse in un’ottica di dinamicità della città richiede un processo di management che supera i tradizionali strumenti piani catori e che coinvolge tutte
2 - Chiostro di San Gregorio. 3 - Mura dell’Arsenale. 4 - Veduta nel sestiere di Cannaregio.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
5 - La Fondamenta delle Zattere vista dalla Giudecca.
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le persone portatrici d’interessi (stakeholder) - in particolare le comunità locali - nel processo analitico, conoscitivo, decisionale. Lo sviluppo sostenibile mira al mantenimento delle risorse delle quali il Patrimonio fa parte e che, come tale, vanno protette in un’ottica di fruibilità futura sia in termini sici sia nel loro valore sociale. Un approccio paesaggistico sembra più opportuno rispetto all’ottica di interventi puntuali che insieme conservano lo stato sico degli agglomerati urbani, ma si rivelano carenti nella reale tutela dell’integrità del paesaggio, della sua antropizzazione e del mantenimento dell’identità del luogo. Non si dovrebbe più intendere il paesaggio come risultato, ma come produttore di cultura e come tessuto autorigenerante che, insieme al concetto di paesaggio culturale, possa innescare un circolo virtuoso di interazioni fra il costruito storico non solo di pregio e la presenza dell’uomo che produce cultura e trasformazione. L’apparato regolatore dovrebbe ri ettere le condizioni locali e includere misure legislative e regolamenti che mirino alla conservazione e gestione degli attributi tangibili e non del Patrimonio urbano, includendo i suoi valori sociali, ambientali e culturali. I metodi tradizionali dovrebbero essere riconosciuti e rafforzati laddove necessario. Gli strumenti tecnici adatti a proteggere l’integrità ed autenticità del Patrimonio urbano dovrebbero permettere un adeguato monitoraggio e gestione dei cambiamenti, insieme ad un censimento completo delle diversità e dei valori culturali delle comunità al ne di migliorare la qualità generale della vita dei residenti. In tal senso, la mappatura cognitiva dei luoghi è uno degli strumenti individuati dalla Raccomandazione per adempiere ad entrambi questi compiti, ed implica la partecipazione diretta del residente che vive nel luogo e ne riconosce il signi cato. Gli strumenti nanziari come micro-credito ed altri prestiti di tipo essibile sono ancora altri mezzi designati dalla Raccomandazione per favorire il processo intero di gestione del Paesaggio Storico Urbano. Attraverso questi dispositivi nanziari è infatti possibile stabilire una collaborazione con i singoli privati che possiedono uno o più immobili all’interno del tessuto storico, provvedendo ad una rigenerazione autonoma dello stesso ed evitando lo svuotamento delle abitazioni da parte dei residenti. Questi stessi prestiti dovrebbero mirare alla promozione del cosiddetto capacity building, ossia lo sviluppo di capacità nell’individuare in modo autonomo le problematiche che impediscono o rallentano il progresso verso il raggiungimento dello scopo pre ssato. L’efficacia dei provvedimenti volti alla tutela del patrimonio e del consumo di risorse, si può spesso rilevare solo se l’estensione dell’iniziativa supera il livello strettamente locale. L’invito è, dunque, sempre più orientato alla cooperazione e al superamento dei limiti strettamente geogra ci ed alla produzione di normative “sburocratizzanti” che accorpino ed arricchiscano leggi precedenti, eliminando alcune di esse qualora non più utili. Il concetto di Paesaggio Storico Urbano supera la tradizionale dicotomia
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO conservazione-sviluppo, riconosce la natura dinamica della città e ne promuove lo sviluppo urbano, sociale, economico, infrastrutturale e coinvolge tutte le componenti in un sistema complesso di gestione che dovrebbe tener conto di tutti i processi passati e futuri della città. © Riproduzione riservata
Note International Conference World Heritage and Contemporary Architecture – Managing the Historic Urban Landscape, Vienna, 2005. 2 Jukka Jokilehto, Notes on the de nition and safeguarding of HUL, City & Time, 2010; http://www.ct.cecibr.org 3 Venezia e la sua Laguna, Piano di Gestione 2012-2018. 1
Bibliogra a generale Preliminary study on the technical and legal aspects relating to the desirability of a standard-setting instrument on the conservation of the historic urban landscape. Paris, 20 March 2009 (Executive Board 181EX/29). Preliminary study on the technical and legal aspects relating to the desirability of a standard-setting instrument on the conservation of the historic urban landscape. General Conference 35th Session, Paris, 27 July 2009. 181st session of the Executive Board Full preliminary study of the technical and legal aspects of a of a revised recommendation concerning the safeguarding and contemporary role of historic areas (181EX/Decision 29), 2009. 35th session of the General Conference Preliminary study on the technical and legal aspects relating to the desirability of a standard-setting instrument on the conservation of the historic urban landscape (35C / Resolution 42), 2009. 36th session of the General Conference Proposals concerning the desirability of a standard-setting instrument on historic urban landscapes, 2011. Report and revised text of the draft Recommendation on the Historic Urban Landscape, 2011. F. Bandarin, Ron van Oers, Reconnecting the City: The Historic Urban Landscape Approach and the Future of Urban Heritage, Wiley-Blackwell, 2014. F. Bandarin, Ron van Oers, The Historic Urban Landscape: Managing Heritage in an Urban Century, WileyBlackwell, 2012. V. Martini, The conservation of Historic Urban Landscapes: an approach. Tesi di Dottorato, Università di Nova Gorica, Program on Economics and Techniques for the Conservation of the Architectural and Environmental Heritage, aprile 2013. V. Martini, Historic Urban Landscape (HUL) as a new approach to the conservation of historic cities, International Conference Landscape and Imagination, Parigi, maggio 2013. V. Martini, “The Historic Urban Landscape as a new approach to the conservation of historic cities”, in Historic Urban Landscape: dalla Raccomandazione UNESCO all’ambito applicativo, Bari, 2013. V. Martini, “Common goods in the perspective of the HUL approach”; 6th Quaderni di Careggi, UNISCAPE, ottobre, 2014. V. Martini, ”Il paesaggio storico urbano come nuovo approccio Unesco per conciliare storia e modernità”, Rivista Trasporti e Cultura nr 36, ottobre 2013. V. Martini, Scienti c Meeting The Turó de la Seu Vella de Lleida, 2015. V. Martini, Management of historic urban landscapes in Assisi, Urbino, Ferrara: an approach, Heritage 2016, 5th International Conference on Heritage and Sustainable Development, Lisbona, Luglio 2016.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
The Unesco for Venice and Venice for the Unesco by Paolo Costa
For more than forty years, Venice and the Unesco have woven relations of great,mutual satisfaction. The Unesco has discreetly watched over the policies implemented to safeguard Venice’s cultural heritage and, in studying Venice, it has nalised useful ideas and programmes by which to protect other valuable items of world urban heritage. Then something went wrong. And that something led to the analytical disagreements revealed in the 2014 Doha World Heritage Committee and which were exacerbated in 2016 with the threat contained in the Istanbul declaration of said same Committee, to “place Venice on Unesco’s list of endangered heritage sites”. The case of Venice does not escape the rules and can become the prototype on which new, more appropriate Unesco policies can be calibrated. In Venice, a strategy to limit the tourist economy can only be successful if it goes hand-in-hand with a development strategy with an alternative economic basis. From this perspective, a great many of the projects feared, according to the Doha declaration, change in appearance and meaning. Above all because in Venice, this means going back to the origins of its history based on the port maritime block, whose development needs to be managed but not prevented. The Unesco needs to be persuaded that this is the only way to truly conserve urbs e civitas, the Venetian civilisation in the centuries to come.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
L’Unesco per Venezia, Venezia per l’Unesco di Paolo Costa
Per oltre quarant’anni Venezia e l’Unesco hanno intessuto rapporti di grande, reciproca, soddisfazione. L’Unesco ha discretamente vigilato sulle politiche di salvaguardia del bene culturale Venezia e, studiando Venezia, ha messo a punto idee e programmi utili per la protezione di altri pezzi pregiati di urban heritage nel mondo. Poi qualcosa è andato storto. Fino ad arrivare alle discordanze analitiche rese evidenti nella dichiarazione del World Heritage Committee di Doha nel 2014 ed esacerbate nel 2016 con la minaccia, contenuta nella dichiarazione di Istanbul dello stesso Comitato, di “iscrivere Venezia nella lista del patrimonio mondiale in pericolo”. A nostro sommesso avviso, un errore, che una ri essione più approfondita sul caso Venezia può e deve aiutare a correggere. La Venezia dell’ultimo mezzo secolo deve molto all’Unesco. Oggi Venezia può e deve contraccambiare aiutando l’Unesco a ritarare, per renderla efficace, la sua politica di salvaguardia delle città d’arte. Per farlo è sufficiente che richiami l’Unesco alla impostazione originaria della sua politica su Venezia: quella sviluppatasi a partire da pochi giorni dopo la grande acqua alta del 4 novembre 1966, quando l’Unesco di René Maheu raccolse il grido di allarme del governo italiano e assunse l’impegno “risoluto” di “salvare Venezia”, e interrottasi nel 1992, quando l’Unesco chiude il suo “ufficio speciale” di Venezia. In quegli anni la strategia di salvaguardia del bene culturale, della città d’arte, Venezia che l’Unesco persegue è quella delineata nel “Rapporto su Venezia” che la stessa Unesco regala nel 1969 ai veneziani e al mondo: una lettura sistemica e rigorosa del “Problema di Venezia” organizzata per rispondere alle domande “Salvare che cosa? Salvare da che cosa? Salvare, come?”, che non sfugge al quesito dei quesiti “Quale favoloso mecenate e quale amministrazione immaginaria riuscirebbero a mantenere un tale monumento, troppo grande per tutta la generosità del mondo?”1. Un quesito che inevitabilmente rimanda al rapporto tra il monumento, il bene culturale, Venezia e i suoi abitanti, tra la Venezia urbs e la Venezia civitas. Il Rapporto su Venezia legge la situazione e la interpreta con una “teoria” rimasta utile no ai giorni nostri: no al doppio collasso, dell’industria di base a Marghera e del terziario avanzato a Venezia, che pone oggi il problema della ricostruzione di una base economica urbana capace di consentire alla civitas veneziana di occuparsi anche della sua urbs storica. Redatto il Rapporto, l’Unesco crea nel 1967 un suo Ufficio “speciale” a Venezia (20 anni prima della stessa iscrizione della città lagunare nella Lista del Patrimonio Mondiale!) che no al 1992 si adopererà per “capire” Venezia. Tanto che è l’Unesco di Federico Mayor che nel 1991 lancia il programma “Città d’arte e ussi turistici”; intuendo già allora - da Venezia e su Venezia - i pericoli del superamento della capacità di accoglienza turistica delle città d’arte. Un programma sviluppato assieme all’Università Ca’ Foscari e che elaborerà tutti gli strumenti analitici utilizzati oggi nel dibattito culturale su turismo e città d’arte (categorizzazione delle tipologie di visitatori e misura della capacità di accoglienza su tutti) e quelli di intervento per il necessario “controllo dei ussi”; a Venezia solo avviato nei primi anni 2000, ma al quale pare si voglia oggi nalmente metter mano. Problema che, come risulta sempre più evidente, è tutt’altro che solo veneziano. Roma e Firenze, per segnalare i due casi più simili ed eclatanti, mostrano già oggi conseguenze del loro avvicinarsi alla soglia di capacità di accoglienza turistica non molto diverse da quelle di Venezia. Ma, come si è detto, dalla metà degli anni ’90 qualcosa si inceppa. L’Unesco resta a Venezia con un ufficio (per la Scienza e la Cultura in Europa), ma Venezia non è più il suo prezioso, “speciale”,
1 - Veduta dell’Arsenale.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
2 - Campo del Ghetto Nuovo.
oggetto di studio. Venezia diventa “solo” uno dei tanti siti iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale, che viene trattato dimenticando i quesiti del 1969. Non ci si chiede più “Che cosa (quale Venezia) dobbiamo salvare? E salvare da che cosa? E come (con quale coinvolgimento dei veneziani)?”. Peggio. Vi si danno risposte inadeguate, di routine, in qualche caso vittime delle fake news che alimentano l’opinione pubblica. Risposte che portano l’Unesco su una strada sbagliata. Il punto cruciale è che viene perso di vista il fatto - sulle cui conseguenze si era esercitato il Rapporto su Venezia - che anche una città d’arte è fatta indissolubilmente di urbs (le pietre) e civitas (le persone). E che “una città può essere salvata soltanto insieme ai suoi abitanti e con il loro aiuto”2. Le conseguenze sono paradossali. Secondo la descrizione che la Lista del Patrimonio Mondiale ne dà sul suo sito internet la Venezia-urbs è - frutto di una ingenuità che tradisce l’amore per l’eccezione culturale che Venezia rappresenta - solo quella storica, di ieri; è la città “fondata nel 5 ° secolo ed estesa su 118 piccole isole, che divenne un’importante potenza marittima nel X secolo.
3 - Chiesa della Madonna della Salute. 4 - Copertina del Rapporto su Venezia dell’Unesco datato 1969.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
5 - Vista dalla fondamenta della Misericordia.
L’intera città è un straordinario capolavoro architettonico in cui anche il più piccolo edi cio contiene opere di alcuni dei più grandi artisti del mondo come Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese e altri”. Errore che si ampli ca nella de nizione della Venezia-civitas. Al centro delle preoccupazioni dell’Unesco, e degli altri analisti innamorati della loro “idea” di Venezia3, la sola civitas che conta è quella dei residenti di quella che fu l’urbs storica. Ma questa “Venezia, dell’Unesco di oggi” è una “città”, più fantastica di quelle invisibili di Calvino, fatta solo dell’urbs di ieri, al più immersa in una laguna che si vuole anch’essa omologata al passato, e abitata solo da quella parte, modesta, della civitas che ne anima oggi la scena. Una falsa rappresentazione di un organismo urbano, diverso da quello storico perché vivo, del quale non si colgono le relazioni funzionali con la sua Terraferma e il Veneto, da Padova a Treviso, nell’articolazione dei luoghi di lavoro, di residenza, di servizio, che “vivono” gli uni per gli altri attorno ad una base economica, competitiva a scala mondiale, fatta di turismo , ma anche di molto altro. La “Venezia dell’Unesco di oggi”, è invece una città-non città da mantenere immutata
6 - La storica biblioteca della Fondazione Cini. 7 - Lungo la fondamenta delle Zattere.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA nella sua forma compiuta per farla vedere, solo vedere, alle folle dei visitatori di oggi e di domani. Nell’illusione che il “bene culturale” Venezia possa essere mantenuto dai suoi visitatori e non soffocato dall’eccesso degli stessi oltre che snaturato dalla graduale trasformazione di tutto il suo costruito in una macchina da turismo. Oggi Venezia rende evidente l’errore analitico dell’Unesco con conseguenze drammatiche per tutte le città d’arte. Che nel caso italiano vivono la contraddizione di ospitare quasi il 50% dei visitatori stranieri in Italia, di trovare nel turismo la propria prima fonte di nanziamento, ma di venire dallo stesso turismo snaturate oltre che as ssiate. Un errore analitico evitabile solo non sfuggendo alla domanda del Rapporto su Venezia sul “favoloso mecenate” capace di mantenere un monumento troppo grande per tutta la generosità del mondo. Il mondo non è in grado, e non ha alcuna intenzione, di nanziare il mantenimento di Venezia, al di là dei commendevoli sforzi simbolici dei molti Comitati Privati internazionali, se non attraverso i visitatori-turisti: troppo pochi per generare i redditi necessari a mantenere tutta Venezia, troppi per non snaturarla e rendere difficile anche alla civitas di provvedervi. In tempi di crisi della nanza pubblica è anche inimmaginabile che sia lo stato italiano – cioè i contribuenti non veneziani - a continuare ad accollarsi le ingenti cifre necessarie, per esempio, ad affrontare il ciclo del restauro edilizio che si sta riaprendo dopo quello nanziato dalla legislazione speciale per Venezia. Le urbs di ieri si salvano - anche dall’eccesso di turismo - solo se le civitas di oggi sono messe in grado di prendersene cura. Il caso veneziano non sfugge alla regole e può diventare il prototipo sul quale tarare nuove più adeguate politiche Unesco. Politiche che devono partire dalla convinzione che nelle città d’arte occorre, dopo aver esaurito ogni generosità del mondo e dei contribuenti nazionali, accettare l’idea che il problema del mantenimento delle città d’arte si risolve solo mettendo in grado le civitas che ospitano anche le urbs storiche di difendersi dall’eccesso di turismo creando ricchezza non turistica. A Venezia una strategia di contenimento dell’economia turistica può aver successo solo se accompagnata da una strategia di sviluppo di una base economica alternativa. Che può riguardare direttamente la civitas ospitata dalla Venezia urbs storica 234
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
8-10 - Nella pagina di anco: tre scorci della “Venezia minore”. 11 - In questa pagina: visitatori in contemplazione di un dipinto alle Gallerie dell’Accademia.
(il blocco produttivo è quello culturale da organizzare attorno a funzioni di istruzione superiore e ricerca da vendere sul mercato anche internazionale, e naturalmente impreziosito dall’attività culturalmente rilevante ma economicamente irrilevante delle Fondazioni storiche, dalla Biennale alla Fondazione Cini) ma che si gioca, per le quantità necessarie a creare una economia tanto prospera da potersi mettere sulle spalle il bene culturale Venezia, a scala metropolitana, della civitas della “grande Venezia”. Lì il blocco produttivo che ha oggi la possibilità di sviluppare occupazione e redditi all’altezza del mantenimento del sistema metropolitano veneziano, impreziosito dal suo centro storico e dalla laguna, è solo quello portuale e quello della nuova manifattura leggera, portocentrica, che vi si va sviluppando attorno. In questa prospettiva molti dei progetti temuti, secondo la dichiarazione di Doha, cambiano aspetto e signi cato. Soprattutto perché a Venezia questo signi ca ritornare alle origini della propria storia fondata sul blocco marittimo portuale, il cui sviluppo va gestito ma non impedito. Occorre convincere l’Unesco che questo è il solo modo per conservare davvero urbs e civitas, la civiltà veneziana, nei secoli a venire. © Riproduzione riservata
Note 1 E. Canestrelli e P. Costa, “Tourist Carrying Capacity: A Fuzzy Approach”, Annals of Tourism Research, vol. 18, n. 2, pp. 295-311, 1991. 2 Unesco, Rapporto su Venezia, Milano, Mondadori, 1969, pag. XXII. 3 Per tutti, Salvatore Settis, Se Venezia muore, Torino, Einaudi, 2014.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
Modern architecture in Venice by Clemens Kusch
In comparison with other cities, it is certainly more difficult to develop modern architecture in Venice than elsewhere and today, although a large part of the plans involve modi cations, renovations and expansions of existing buildings, there are also new buildings in the old city as well as on the islands of the lagoon and, of course, on the adjacent mainland. New projects in Venice were at rst - as indeed they still are today - viewed with cautious mistrust, because “new” architecture has always been perceived as a threat to the sensitive equilibrium of this unique city. The subject of how much modernity Venice can afford without casting doubt on or even endangering its unique identity always comes up in the debate about modern architecture in Venice. There, proposals to simply conserve and maintain the existing stock are ranged against the proposition that says that more modernity is needed in order to be able to keep the city alive and allow it to adjust to new needs. Each new plan must face up to the peculiarities of this city: the extraordinary wealth and diversity of the building fabric from the most varied epochs, the unique urban developmental situation of waterways instead of traditional roadways as well as technical construction aspects characteristic for building in and on the water. However, the city has always resisted these attempts to create a “new identity” or usher in a new epoch. Its history is simply too important, the wealth of artwork and historical monuments too immense, its geographical situation too special and the mythical and romantic literature about it so proli c and varied that each change is not seen as a mortal intervention. But for the city to avoid being relegated to the role of a historic monument, in the future, modern architecture, carefully and respectfully integrated with the existing stock, will be indispensable for the survival of a vibrant Venice.
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VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO
L’architettura moderna a Venezia di Clemens Kusch
A Venezia ogni nuovo progetto è sempre stato accolto con una certa diffidenza, poiché la «nuova» architettura viene anzitutto percepita come un pericolo per il delicato equilibrio di questa straordinaria città. Il dibattito sull’architettura moderna di Venezia è caratterizzato dalla domanda: quanta modernità può permettersi la città senza che venga messa in discussione o addirittura pregiudicata la sua peculiare identità? Le tesi a favore della semplice conservazione del patrimonio esistente si scontrano con quelle che reclamano una maggiore modernità per mantenere viva la città e adeguarla alle nuove esigenze. A Venezia più che in ogni altra città ogni nuovo progetto deve confrontarsi con le sue particolari speci cità: l’eccezionale ricchezza del patrimonio edilizio delle epoche più diverse, la peculiare situazione urbanistica con vie d’acqua invece di vie transitabili – una separazione tra vie pedonali e vie di trasporto particolarmente apprezzata e ritenuta futuristica da Le Corbusier –, la particolarità tecnico-costruttiva di costruire nell’acqua e la netta separazione del centro storico dai quartieri periferici che a Venezia, a differenza di tutte le altre città dove la periferia si è sviluppata come una cintura tutt’intorno al centro urbano, sono collegati con la città storica solo attraverso un lungo ponte, sono aspetti che rendono del tutto particolare il compito di progettare e costruire a Venezia. Nell’ambito dei moderni piani di sviluppo urbano si è sempre cercato di «normalizzare» Venezia equiparandola ad altre città. Lo sviluppo del polo industriale a Marghera agli inizi del XX secolo, la realizzazione di moderni edi ci amministrativi nel secondo dopoguerra, la creazione di grandi quartieri residenziali negli anni Ottanta, nonché, più recentemente, l’ampliamento delle istituzioni museali per l’arte contemporanea (Biennale, Palazzo Grassi, Punta della Dogana, Guggenheim, etc.), sono stati concepiti per dare alla città una identità non fondata unicamente sulla sua storia, innescando l’idea che solo con il rinnovamento fosse possibile salvare la città dal declino. La città ha però sempre opposto una certa resistenza al tentativo di creare una nuova identità, o semplicemente di segnare una nuova epoca: troppo importante è il suo trascorso storico, troppo grande la sua ricchezza di opere d’arte e monumenti, troppo particolare la sua situazione geogra ca, troppo copiosa e variegata la sua letteratura mitologica e romantica. Ogni intervento è considerato un pericolo. Già in epoca rinascimentale l’architetto romano Jacopo Sansovino, chiamato a rinnovare l’architettura della città, fu accolto con diffidenza perché intendeva introdurre lo stile rinascimentale romano, del tutto estraneo al contesto veneziano, in una città no ad allora caratterizzata dal linguaggio formale gotico. La questione sul futuro della città si pose anche dopo l’occupazione napoleonica e austriaca, quando Venezia, avendo ormai de nitivamente perduto lo status di potenza mondiale, si trovò sull’orlo del declino politico ed economico. All’epoca il turismo, oggi la principale fonte di sostentamento per Venezia, non era visto come una potenziale fonte di guadagno per la sopravvivenza della città. Piuttosto, si pensò di sfruttare la sua posizione favorevole sul porto per assicurarle un futuro con l’industrializzazione e la creazione di posti di lavoro. Agli inizi del XX secolo, nelle immediate vicinanze del centro storico, fu realizzato l’insediamento industriale di Marghera, in terraferma: una decisione molto difficile da comprendere, agli occhi di oggi. Comunque sia, la città ha sempre attinto la forza per sottrarsi al declino dalla sua storia gloriosa, dalla tradizione della fama internazionale della Repubblica marinara veneziana e dalla sua eccezionale ricchezza di tesori artistici.
1 - Intervento di Tadao Ando alla Punta della Dogana. © Palazzo Grassi, Andrea Jemolo.
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2 - Il giardino della Fondazione Stampalia con l’intervento di Carlo Scarpa. Foto di Alessandra Chemollo.
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Nel 1846 il ponte ferroviario che collega Venezia alla terraferma strappò la città al suo isolamento. Trascorsero quasi 90 anni prima che, nel 1933, fosse realizzato il ponte automobilistico parallelo progettato dall’Ingegnere Eugenio Miozzi, che diede nalmente un assetto moderno alla città di Venezia. Miozzi, che dal 1931 fu a capo della Direzione Lavori e Servizi Pubblici, introdusse il linguaggio formale razionalista con la costruzione dell’autorimessa comunale in Piazzale Roma e del Casinò al Lido e attuò grandi modi che urbanistiche, quali l’apertura del nuovo canale Rio Nuovo e l’isola arti ciale del Tronchetto. Miozzi non era solo un grande conoscitore della storia di Venezia sia per quanto riguarda i suoi aspetti monumentali sia per quanto riguarda l’edilizia minore e l’ecosistema lagunare, come testimonia la sua enciclopedica opera Venezia nei Secoli, ma aveva grande dimestichezza con le tecniche costruttive più diverse. Per il ponte della Libertà adottò un tradizionale sistema costruttivo con mattoni, il garage comunale venne invece realizzato interamente in cemento armato, privo di qualsiasi decoro storicizzante non adatto ad un edi cio “funzionale”, mentre per i ponti adottò la costruzione in pietra come per il ponte degli Scalzi o in muratura come per diversi altri ponti sul Rio Novo. (Signi cativo è che a Venezia non progettò mai opere in ferro, probabilmente non ritendo adatto questo materiale alle condizioni lagunari). Alla varietà di tecniche costruttive si associavano anche linguaggi del tutto diversi. Il garage comunale è un esempio di architettura razionalista, il progetto per il Casinò del Lido seguiva invece uno stile monumentale tipico dell’architettura del fascismo, mentre in altri progetti venivano adottati stili che imitavano il passato per integrarsi in speci ci contesti. Tale varietà corrispondeva all’esigenza di adottare stili e linguaggi diversi a seconda dello speci co tema e contesto progettuale. L’attività di Miozzi prosegui anche dopo la seconda guerra mondiale, quando, nito il con itto, Venezia poté affermarsi come capoluogo della Regione Veneto, incrementando così il fabbisogno di edi ci di rappresentanza per l’amministrazione e altre istituzioni pubbliche. Alcune istituzioni furono ospitate nei palazzi storici, mentre per altri si ritenne opportuno costruire edi ci nuovi e moderni. Risalgono a quest’anno le sedi dell’INAIL e dell’INPS, nei pressi dell’elemento di congiunzione del centro storico
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO con la terraferma, nonché la sede della Cassa di Risparmio nel cuore della città. Anche nell’edilizia privata, come nel caso della Casa alle Zattere, si cercò di sviluppare un linguaggio formale moderno, che sancisse la propria autonomia pur restando legato alla tradizione architettonica della città. Vicino a Miozzi l’altro protagonista della Venezia moderna è senza dubbio Carlo Scarpa che, anche se in maniera del tutto diversa da Miozzi, svolse un ruolo fondamentale nel tentativo di coniugare tradizione e modernità. Come nessun altro, egli aggregò in una forma inedita la tradizione costruttiva veneziana, la varietà dei materiali e delle tecniche di costruzione e l’amore per il dettaglio, elaborando un linguaggio formale indipendente. I suoi progetti sono variamente dislocati in città e per individuarli si deve cercare con attenzione. Non si tratta di nuovi edi ci appariscenti, ma di interventi, aggiunte e ristrutturazioni, con gurazioni di interni o rifacimenti di situazioni preesistenti in cui è sempre riconoscibile il nuovo «strato» che Scarpa ha inserito con cautela e decisione al tempo stesso. Al primo posto tra le meraviglie dei progetti di Scarpa va sicuramente citata la Fondazione Querini Stampalia, seguita dal negozio Olivetti in Piazza San Marco, che fu riportato allo stato originario dopo essere stato trasformato in uno degli innumerevoli negozi di souvenir. A differenza di Scarpa sono invece numerosi gli architetti, soprattutto stranieri, ai quali non fu consentito di intervenire nel tessuto veneziano. Nella quasi euforica convinzione che il modernismo potesse trovare posto a Venezia, negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo furono elaborati numerosi progetti, quali l’edi cio sul Canal Grande di Frank Lloyd Wright, l’ospedale di Le Corbusier o il palazzo dei congressi nei Giardini della Biennale di Louis Kahn, che per motivi diversi e dopo accesi dibattiti e scontri non furono mai realizzati. Visti questi insuccessi, per molto tempo nessuno si azzardò più a proporre architettura moderna per Venezia. Negli anni Ottanta fu nalmente abbandonata l’idea di dover erigere edi ci di rappresentanza in posizione preminente per fare posto a una nuova era del costruire: l’edilizia residenziale. I primi palazzi residenziali – costruiti in gran parte con sovvenzioni – erano ubicati non più nel centro storico, ma in periferia, come nel sestiere Cannaregio o sull’isola della Giudecca. Questa trasformazione urbanistica si basava sulla convinzione che si potesse arrestare
3 - Casa Gardella alle Zattere. Foto di Philipp Meuser.
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4 - Il Palazzo Rio Nuovo, progettato da Luigi Vietti e Cesare Pea. Foto di Klemens Kusch.
5 - Interno del Fondaco dei Tedeschi. Del no Sisto Legnani and Marco Cappelletti © OMA.
l’emigrazione dei veneziani solo offrendo loro soluzioni abitative idonee – anche per i ceti più bassi. Per mantenere Venezia vitale e dinamica occorreva dare ai cittadini spazi abitativi accessibili. L’aumento dei prezzi nel centro storico e l’esigenza dei nativi veneziani di godere anche dei vantaggi della vita urbana moderna determinarono un esodo che ancora oggi perdura. Negli anni Sessanta Venezia contava ancora oltre 100.000 residenti, nel 2008 per la prima volta questi scesero a meno di 60.000. Con il losofo e docente universitario Massimo Cacciari alla guida dell’amministrazione cittadina, l’architetto Roberto D’Agostino riformulò integralmente il piano regolatore di Venezia. Per la prima volta l’intero territorio urbano con le sue diverse aree parziali, dal centro storico alla zona industriale, fu considerato come un unico insieme e in un’ottica urbanistica. Risalgono a questo periodo numerosi progetti, in gran parte realizzati, quali il ponte sul Canal Grande di Santiago Calatrava, il quartiere residenziale Junghans alla Giudecca di Cino Zucchi e altri, l’ampliamento del cimitero sull’isola di San Michele rmato da David Chipper eld nonché diversi progetti di risanamento nel 240
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centro storico. Altri importanti progetti sono rimasti irrealizzati, soprattutto la nuova sede dell’Università di Architettura di EMBT e il terminal Fusina di Alberto Cecchetto. All’epoca l’urbanistica si adoperava soprattutto per compiere nuovi sviluppi nelle zone antistanti e in periferia. Furono realizzati il nuovo terminal aeroportuale, il Parco Scienti co Tecnologico VEGA, al con ne settentrionale dell’area industriale di Marghera, nonché l’ampia zona verde del parco di San Giuliano, ai margini della laguna. Nelle alterne fortune dell’architettura moderna a Venezia negli ultimi tempi si è aggiunta un’altra tematica legata alla vocazione espositiva della città e con la Biennale come elemento trainante Venezia è diventata un «luogo espositivo» di spicco per la scena artistica contemporanea. In tale contesto architetti celebri si misurano con il patrimonio edilizio storico: Tadao Ando ha progettato per conto della Fondazione Pinault la ristrutturazione di Palazzo Grassi e Punta della Dogana; Rem Koolhaas ha curato la ristrutturazione del Fondaco dei Tedeschi, mentre per la Fondazione Prada è stato accuratamente restaurato Palazzo Ca’ Corner della Regina sul Canal Grande. I temi del futuro non sono certo i grandi progetti, considerando che molti dei temi progettuali sono stati affrontati negli ultimi anni e non solo non vi è più lo spazio sico per nuove costruzione ma anche le occasioni di conversione di edi ci storici sono orami molto limitati. La riconversione di palazzi in alberghi, dopo l’esplosione degli ultimi anni, non ha certo bisogno di altre realizzazioni e più della forma in futuro sarà la questione dei contenuti che si vogliono ospitare in città come alternativa alla monocultura del turismo. Venezia possiede – come pochi altri luoghi al mondo – la capacità straordinaria di attirare persone da ogni parte del mondo, di ogni ambiente economico e culturale. Nel 2013 la Biennale Arte ha accolto più di 500.000 visitatori e nello stesso anno oltre dieci milioni di ospiti hanno trascorso almeno una notte a Venezia. Se si includono i numerosissimi turisti giornalieri è realistico stimare che questo numero raddoppi. Affinché la città non resti un mero monumento per turisti avidi di storia, un’architettura moderna che anche in futuro si inserisca nel contesto esistente con attenzione e rispetto è indispensabile per la sopravvivenza della città. Ma i temi del futuro non sono certo i grandi progetti, considerando che molti dei temi progettuali importanti sono stati affrontati negli ultimi anni e non solo non vi è più lo spazio sico per nuove costruzione ma anche le occasioni di conversione di edi ci storici sono oramai molto limitati. La riconversione di palazzi in alberghi, dopo l’esplosione degli ultimi anni, non ha certo bisogno di altre realizzazioni e più della forma si tratta di individuare contenuti e le destinazioni che possano rappresentare un’alternativa alla monocultura del turismo.
6 - Ampliamento delle Gallerie dell’Accademia, su progetto di Tobia Scarpa. Foto di Alessandra Chemollo.
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Variant to the Master plan for the ancient city of Venice: what about conservation? by Giorgio Nubar Gianighian
In all, the built heritage of the historic city of Venice numbers approximately 15,000 buildings. It is governed through the provisions of the General Master Plan (GMP), which establish the intervention methods. Only a mere ten percent of the heritage is listed and its conservation is therefore guaranteed by the Superintendence (MiBACT), whilst the rest, the urban fabric made up of what is termed Venezia Minore, that which makes this city possibly unique in the world, all this is under the safeguard of the GMP. What we here aim to do, is to prove how a series of urban plans cannot guarantee the sustainable conservation of such a rich, complex heritage. The process started with the Detailed Implementation Plans of the GMP of 1972: they proved to be impossible to enforce, because of the very complicated series of Russian doll-like subsequent plans they entailed. Then came the 1992 Master Plan Variation and another after that, trying to nd an easier way. Both involved the classi cation of each and every city building, according to age and to typological class. Buildings built before the nineteenth century are considered more valuable, while those of the last two centuries enjoy lesser or even no protection: the Plan envisaged the demolition of the entire lot of council houses, allegedly in con ict with Venetian morphology and typology. The second Variant rescued this heritage, albeit reluctantly. The prescribed interventions on the heritage aim to rediscover and rebuild the original conceived identity of any given building, demolishing all later alterations and additions. It goes without saying that this kind of operation is absolutely prohibited by Italian protection legislation, as well as the international debate on restoration. Finally, the new rules (SCIA, CILA) worsen the conservation of historical substance of buildings that should, on the contrary, be carefully protected.
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Variante al Piano Regolatore Generale per la Città Antica di Venezia: e la conservazione? di Giorgio Nubar Gianighian
Nella conservazione sica della città occupa una parte di grande rilievo, per la sua estensione e per il suo ruolo di tessuto connettivo tra le emergenze architettoniche, ciò che si usa de nire “Venezia minore”. Tutti gli esperti del campo concordano oggi sul fatto che tra patrimonio “maggiore” (monumentale) e “minore” (tessuto urbano diffuso, soprattutto residenziale) non si debba fare nessuna distinzione di valore. Se tuttavia le distinzioni storiche e di valore vanno ri utate, è pur vero che sul piano della prassi quotidiana del conservare le distinzioni rimangono. Il patrimonio monumentale è rappresentato, a Venezia centro storico, dagli edi ci vincolati, che sono circa 1.500, dunque il 10% del totale, ed è tutelato dalla Soprintendenza in base al Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma per quale percentuale dell’architettura vernacolare si può dire lo stesso? Se essa è l’altro 90%, non si può sperare di riuscire a conservarla e restaurarla senza applicare lo stesso rigore imposto dal severo Codice, senza usare i metodi che la disciplina della conservazione impone, e ciò è appunto quanto a Venezia non accade. L’architettura diffusa (quindi anche le pavimentazioni stradali, le rive, i muri di sponda e i ponti) è stata ed è continuamente erosa, anche con l’ausilio dei nanziamenti della Legge Speciale, che opera in nome della conservazione e del restauro. Inoltre questo 90% non si conserva se non con il consenso e la partecipazione degli abitanti, e se gli abitanti abbandonano la città al ritmo di 1.000 all’anno i problemi si moltiplicano. Bisogna dunque capire se, culturalmente e nanziariamente, si sia in grado di conservare il patrimonio urbano in modo sostenibile. La salvaguardia di Venezia passa anche attraverso il mantenimento della sua popolazione nelle sue case. Non solo e non tanto per ragioni di principio, ma perché un patrimonio così diffuso, fragile e prezioso richiede, per sopravvivere, un’attenzione, una cura e una manutenzione costanti, che solo la presenza d’una popolazione permanente può garantire. Poiché la Soprintendenza non ha autorità sul restante 90%, questo viene controllato dal Piano Regolatore Generale. Esso, superata la situazione di stallo causata dai disposti della piani cazione a cascata dei Piani Particolareggiati degli anni settanta, di constatata impossibile attuazione, è stato modi cato in due occasioni, nel 1992 e nel 1999. Nel 1992, il Comune redige una nuova “Variante al P.R.G. per la città antica” che supera la legislazione precedente, vista l’impossibilità di redigere i piani di dettaglio. Questo strumento urbanistico prevede che ogni edi cio venga classi cato in base alla sua appartenenza a una classe tipologica. I criteri ammissibili di intervento sono stabiliti sulla base di una scheda. In tutte le unità edilizie classi cate il massimo valore storico viene attribuito alle unità di cui alle lettere da A a D (“Unità Edilizie di base residenziali preottocentesche originarie a fronte monocellulare : A – bicellulare: B”, ecc.) per le quali vale la più rigorosa conservazione dei caratteri tipologici. Tale gruppo rappresenta solo poco più di un terzo dell’insieme: per gli altri edi ci dunque la conservazione è minore, quando non addirittura inesistente. Il caso peggiore riguarda l’8% del totale degli edi ci, che sono classi cati come UC e UI (Unità in contrasto e incoerenti). Nella categoria condannata rientra l’intero patrimonio delle case sane economiche e popolari, che hanno segnato un momento importante della storia della nuova architettura e urbanistica in città, tra Otto e Novecento, e che da sole contano un numero d’alloggi che varia da un minimo di 2.500 a un massimo di 4.000. Di sicuro una normativa urbanistico-edilizia basata prevalentemente su aspetti tipologici, che attribuisce valori in base a parametri cronologici, trascurando sia la sicità
1 - Case popolari costruite dal Comune di Venezia all’inizio del ‘900 ai Gesuiti (foto di Laura Facchinelli).
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2 - Gruppo di 11 Case costruite ai Gesuiti (Sestiere di Cannaregio). Case XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV, XXIX. Fotogra a eseguita il 15.12.1905 da G. Jankovich, Venezia. 3 - Gruppo di 11 Case costruite ai Gesuiti (Sestiere di Cannaregio). Piante dei piani terreni.
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del manufatto che la dinamica trasformativa cui è stato sottoposto nei secoli, quest’ultima ritenuta sempre negativa dal piani catore, è inefficace a garantire una conservazione del patrimonio, sia esso monumentale o minore. Tanto più se i controlli in corso d’opera, da parte delle autorità di tutela, sugli aspetti qualitativi e quantitativi dell’intervento sono scarsi, quando non inesistenti. A parte gli errori di metodo, s’annoverano numerosi errori di classi cazione del patrimonio storico, che hanno serie conseguenze per il progetto di restauro, a causa del valore prescrittivo che la scheda comporta. Si vedano, al riguardo, Venezia invariata: sulla sopravvivenza del restauro tipologico (di chi scrive) e Quattro schede su Venezia, (di L. Cliselli), apparsi su “Ananke” n. 14 (Giugno 1996), pp. 43‐56. L’insieme delle disposizioni generali attribuisce un’importanza eccessiva all’aspetto tipologico e distributivo, trascurando la conservazione della materia viva che concretizza la tipologia. L’obiettivo del piano, solo in parte centrato, dovrebbe essere la conservazione sensata dell’esistente, ma il piano si perde in generalizzazioni del tutto impossibili. Una grave difficoltà nell’attuare questa disposizione urbanistica è rappresentata dalla frammentazione e alterazione delle proprietà. Come ripristinare un tipo architettonico se questo appartiene a proprietari diversi o se, viceversa, un unico edi cio è composto da più unità? Meglio dunque conservare quanto ci è stato trasmesso, senza astorici ripristini di situazioni presunte originarie. La vigente Variante del P.R.G. per la Città Antica di Venezia (V.P.R.G.C.A.), del 1999, ha percorso molta strada rispetto a quella del 1992, che aveva suscitato in città profonde ed estese reazioni negative, appunto per la sua schematicità e per la totale insensibilità nei riguardi delle fabbriche degli ultimi due secoli. Per citare un esempio tra molti, si può vedere : Venezia, ci sono 2.500 abitazioni da abbattere, in “La Nuova Venezia” del 15.06.1993 (pp 1 e 17). Il processo di ravvedimento, che ha bene ciato della consulenza del prof. Leonardo Benevolo, è concettualmente consistito nell’introdurre, nella piani cazione veneziana, l’istanza della mutazione e del divenire storico, accogliendo nel catalogo dell’architettura da rispettare e conservare l’Otto e il Novecento. Nella Relazione Generale della Variante al P.R.G.C.A. vengono spiegate le ragioni de “La revisione della disciplina per il tessuto antico” (p. 2), tra cui l’accettazione, alla Variante del 1992, de “...la permanenza dei modelli tipologici, che derivano dalle scelte progettuali storiche e restano criteri normativi a cui è sempre possibile uniformarsi in tutto o in parte, qualunque siano state le successive alterazioni. Differenziandosi invece profondamente da quella stessa Variante del 1992, stabilisce di “riconoscere, anche per gli edi ci dell’ultimo secolo [il Novecento], la natura storica dei criteri normativi, fondata non già sull’estensione arbitraria dei modelli più antichi, ma sulla varietà delle posizioni assunte nei confronti del tessuto preesistente. ...”. Prescindendo da una certa oscurità del linguaggio urbanistico impiegato, l’architettura del Novecento trova nalmente il suo riconoscimento e, in parte, la sua legittimità a esistere, nonostante la sua alterità (“varietà”) rispetto a quella precedente. Cassato perciò il furore da piccone demolitore contro ciò che nella Variante 1992 veniva de nito “In contrasto” o “Incoerente”, ma anche “Non coerente”, di quel Piano si conser-
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO va però una caratteristica basilare: quella dell’attribuzione di maggior valore al patrimonio pre-ottocentesco, ma con un importante aggiornamento: che consiste nel valutare e classi care le 14.491 unità edilizie della città in base all’invarianza (maggior valore) o alle variazioni subite (minor valore). Quest’ultime, de nite “alterazioni”, vengono considerate con sospetto e, una volta accertate, danno luogo a due categorie di edi ci: “trasformato in modo reversibile” e “trasformato in modo irreversibile”. Va da sé che l’ideale è costituito dalla prima categoria, quella dell’edi cio “integro”, mentre la seconda è quella dell’edi cio sì alterato, ma in modo reversibile e perciò riconducibile allo stato originario. La terza è quella di una vericata irreversibilità, cioè della perdita del suo valore architettonico. Va dato atto alla Variante che essa riconosce l’enorme difficoltà per il Comune di redigere una classi cazione esatta e rigorosa del patrimonio edi cato: essa taglia dunque il nodo gordiano dell’incertezza, del dubbio e in ne dell’errore delle analisi, delegando a chi interviene, quindi al progettista, il compito di scovare errori e differenze, cioè le “alterazioni” alla tipologia delle origini. Un tempo tali alterazioni erano de nite superfetazioni deturpanti o degradanti e dovevano essere eliminate dall’intervento architettonico. Oggi si chiamano alterazioni, ma la terapia è la stessa: rimozione e riconduzione dell’edi cio alterato alla purezza originaria. È pur vero che questa non è l’unica terapia, dato che viene contemplato anche il congelamento dello stato di fatto, ma la precedente è di gran lunga la prediletta. Chiamando le cose col loro nome, l’azione fortemente voluta dalla Variante si chiama “ripristino”: va sottolineato il fatto che l’intero bagaglio teorico (e anche normativo) nel campo di restauro e conservazione esclude questa soluzione. I contenuti delle Carte del Restauro del Novecento, nazionali e internazionali, sono via via divenuti leggi, no al D.lgs. n. 42/2004 vigente, che vieta la ricostruzione e il ripristino di beni e di parti di beni scomparsi, poiché l’azione conservativa si attua sull’attuale materia autentica del bene stesso e non sulla sua supposta o percepita forma originaria. Più che offrire un piano urbanistico attuativo, la Variante aspira, con l’aiuto dei progettisti, ad approntare un rilievo archeologico in continuo divenire del patrimonio urbano, che consenta, tramite gli strumenti dell’operante storia urbana (l’autore dell’infelice de nizione e del conseguente metodo d’intervento nei centri storici è stato Saverio Muratori, Per una operante storia urbana di Venezia, Roma 1960), di giungere a una sua classi cazione nalmente esatta per tipi edilizi. È un nobile obiettivo, impossibile però da raggiungere, per la mancanza di strutture comunali capaci di eseguire indagini assai complesse, che afferiscono anche alle discipline dell’archeologia, oltre che della storia dell’architettura e al Bauforschung; altrettanto dicasi per la debole preparazione dei professionisti in tal campo. Entrambi gli attori non sono addestrati per realizzare quella schedatura in itinere della strati cazione storica del patrimonio edi cato della città, auspicata dal Comune nella Variante. Inoltre, uno strumento urbanistico deve offrire indicazioni precise, e non fare appello a revisioni progettuali che dovrebbero avvenire a cantiere aperto, sulla base dei ritrovamenti, atti a perfezionare la classi cazione della tipologia d’appartenenza degli edi ci, con conseguenti disastrosi ritardi nell’esecuzione dei lavori. Entrando nello speci co, s’avverte chiaramente la difficoltà dei redattori della V.P.R.G.C.A. vigente nel datare e classi care con precisione anche il patrimonio degli ultimi due
4 - V.P.R.G. per la città antica. Trasformazioni siche ammissibili ed utilizzazioni compatibili. Tavola B1/10. L’area delle XI Case dei Gesuiti è evidenziata dal cerchio.
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5 - Salizada dei Spechieri.
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secoli. Alcuni esempi possono essere d’ausilio, per segnalare il perpetuarsi di errori di classi cazione ancora presenti nella Variante stessa. Diamo per primi esempi di natura cronologica, relativi al grande blocco di case d’affitto in Corte dell’Albero, sestiere di San Marco, edi cato tra il 1909 e il 1913 in stile neobizantino da Alessandri e Fantucci: esso è classi cato come “tipo O – Ottocento”; d’altro canto, entrambi gli importanti palazzi sul Canal Grande, Ca’ Franchetti a San Vidal, radicalmente trasformato da Camillo Boito nel 1896, e palazzo Genovesi a San Gregorio, costruito da Tricomi-Mattei nel 1892, sono classi cati come “Unità edilizia di base residenziale preottocentesca originaria a fronte tricellulare (tipo C)”! Gli errori di classi cazione sono gravi, come accennato prima, non solo e non tanto per l’errata datazione dell’edi cio, ma perché il passaggio da una scheda a un’altra comporta prescrizioni sui tipi d’intervento che possono essere molto diverse tra di loro. Non tutte le trasformazioni sono negative: il fatto che un qualsivoglia edi cio abbia trascorso un lungo periodo di vita perdendo alcune parti o modi cando alcuni suoi attributi e soprattutto sopravvivendo, con una materialità e una memoria tuttora attive e capaci di durare altri secoli: bene, tutto questo è importante, se si vuole considerare l’architettura, con la città che essa forma, come un sistema dinamico, in continua evoluzione, capace, così come è accaduto, d’affrontare enormi cambiamenti, politici, economici, sociali, funzionali, di stile e di vita, senza morirne. È necessario fare una serena lettura delle trasformazioni senza caccia agli “errori”, che sarebbero le mutazioni e variazioni, in nome di un ritorno alla situazione originaria: lo strumento che si utilizzerebbe a tale scopo sarebbe il ripristino, che è un’arma terribile, perché cancella il valore del bene autentico giunto no a noi con tutte le trasformazioni che la sua storia gli ha donato. In base alla teoria del ripristino, basta conoscere l’origine del bene, la sua presunta forma originaria, per ricrearla, cancellando, con le trasformazioni intervenute, la sua autenticità e la sua storia materiale. Per rendersi conto di quanto pericolosa sia questa tendenza, basterà pensare a che cosa signi cherebbe ripristinare Ca’ da Mosto nella sua forma originaria, quella romanica, demolendo i piani sovrapposti ai primi e di più tarda data, rinascimentale e settecentesca. Altrettanto dicasi delle Procuratie Nuove, ove il Prof. Giuseppe Samonà (sì, proprio lui) propose la demolizione dell’ultimo piano della grande fabbrica a causa della sua diversità rispetto agli ipotetici programmi di Jacopo Sansovino per l’edi cazione di tutta Piazza San Marco. Esaminando più estesamente la famiglia della “Unità edilizia novecentesca di complessivo pregio architettonico (tipo N)”, si possono trarre alcune considerazioni interessanti, la prima delle quali è quella dell’esiguità degli esemplari presenti nella V.P.R.G.C.A., che sono solo 17. Di questi, cinque appartengono al regno dell’architettura modernista (l’Autorimessa comunale, la Stazione ferroviaria, il teatro a San Samuele, l’Hotel Bauer a San Moisè e il condominio di Ignazio Gardella alle Zattere), che respinge ogni contaminazione con lo stile “veneziano” mentre i dodici restanti sono architetture eclettiche (Casa Torres, Casa De Maria o dei Tre Oci, l’Istituto Biologia del Mare, casa con mosaico a San Vio, i due edi ci in Pescheria a Rialto, Casa Stein a Ca’ Rezzonico, Casa Sezanne a San Samuele, l’Adriatica alle Zattere, la Borsa, un edi cio vicino a Corte San Domenico di Castello e l’exBirraria Pilsen), con forte apparentamento allo stile neostoricista della città. Che cosa leghi architetture così distanti nei due raggruppamenti non è dato sapere, se non l’epoca di costruzione, ma con alcune riserve, poiché il gruppo modernista è di alcuni decenni successivo all’eclettico. La descrizione della “Scheda 12” relativa al Tipo “N” ne riconosce un certo pregio architettonico, seppure stilisticamente “retrospettivo o innovativo”, ma ne esclude il felice inserimento nel contesto antico, denendolo addirittura “incongruo”. La giusti cazione del “complessivo pregio architettonico” pare risiedere principalmente nel fatto che le costruzioni appartengono, storicizzate, alla memoria collettiva.
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO Inutile sottolineare che tantissimi edi ci, di pregio come di nessun pregio, appartengono alla memoria collettiva. Argomentazioni senza particolare peso, che paiono servire solo a mettere insieme ciò che è più o meno dello stesso periodo, in base a scelte assolutamente discutibili, o a escluderlo. L’assenza, infatti, del condominio INAIL a San Simeon, di Giuseppe Samonà (con contributi di E. R. Trincanato e del pittore M. Deluigi), o del patrimonio complessivo dei padiglioni della Biennale di Venezia, spesso d’alta qualità architettonica, classi cati come “Ne” e/o “Nr”, è grave, perché dimostra una certa casualità e mancanza di rigore analitico nella scelta e nella classi cazione degli edi ci del Novecento. Iniziamo da “Ne”: questa tipologia implica un indubbio pregio architettonico che la rende più prossima a “N” della V.P.R.G.C.A. Si tratta d’un tipo architettonico molto diffuso in città, che assomma a 775 edi ci – 5% circa - secondo la Variante al PRG del 1992, sul totale di 14.491, caratterizzati soprattutto da manufatti di piccole e medie dimensioni a destinazione in prevalenza residenziale, mentre quelli di grandi dimensioni hanno generalmente diverso uso. Tra questi ultimi, si possono indicare la caserma dei Vigili del Fuoco a Dorsoduro o gli ampi edi ci annessi a sud e sudovest del Mulino Stucky, o la ex Dreher e le altre fabbriche (del Ghiaccio, ecc.) a est, e altre ancora, come la scuola sul Rio del Ponte Piccolo o alcuni fabbricati dell’area ex Junghans, o le carceri maschili, tutti complessi nell’isola della Giudecca. La diffusione non si limita a quest’isola, ma è a scala urbana e comprende quasi tutti gli edi ci di Sant’Elena, qualcuno della Biennale, ai Giardini, e a ovest dell’Isola di San Giorgio, all’Arsenale e a San Pietro di Castello; nella parte centrale di Venezia sono inclusi alcuni edi ci dell’Ospedale Giustinian, alcuni sulle Zattere e la scuola elementare alla Toletta. Sarebbe troppo lungo elencarli tutti, ma già dagli esempi qui citati si capisce che è una categoria molto ampia e diversi cata, a volte stilisticamente contraddittoria. Architetti e ingegneri, ora come allora, non sono tutti eguali, così che anche i loro progetti sono diversi, spesso assai diversi l’uno dall’altro. La tipologia degli edi ci “Nr” è anch’essa molto diffusa a Venezia, ed è rilevante anche per i metri cubi coinvolti; la Relazione alla Variante del 1999 non ne indica il numero, ma quasi tutte le case popolari del Novecento sono qui raccolte, tanto quelle della Giudecca, quanto quelle in città: Convertite, Campo di Marte, Sacca Fisola, buona parte della Junghans, il quartiere un tempo denominato Benito Mussolini a Santa Marta, Carceri a Santa Maria Maggiore e vicine Case Gaggia, metà edi ci dell’Ospedale Giustinian, Baia del Re, coi vicini complessi di case popolari di Cannaregio ovest, case a Quintavalle a San Pietro di Castello, numerosi capannoni all’Arsenale, per arrivare a quelle recenti di Gino Valle e di Cappai, Mainardis e Pastor, nella parte ovest della Giudecca. Edi ci vecchi d’un secolo, o di soli vent’anni, tutto viene assemblato in “Nr”, di qualità architettonica varia e mediamente in buone, se non ottime condizioni di conservazione: tutti sono dichiarati alterabili o demolibili, seppure entro certi limiti, privando le future generazioni della visione e quindi anche della comprensione del volto sico d’un intero e cruciale secolo, in campo architettonico, urbanistico e sociale. Questo è il giudizio storico sotteso dalla V.P.R.G.C.A. per questa architettura, giudizio per noi decisamente sconcertante! Purtroppo è molto difficile classi care con competenza e correttezza quasi 15.000 edi ci in città. Lo abbiamo dimostrato prima e intendiamo farlo ancora proprio nelle tipologie “Nr” e “Ne”, che tendono a mescolarsi e a confondersi. Anche qui non si tratterà tanto di errori cronologici, come quelli prima evidenziati, ma di sostanza. L’esempio scelto riguarda un gruppo di 11 case popolari costruite dal Comune di Venezia ai Gesuiti (Sestiere di Cannaregio), le Case dal N. XIX al N. XXIX, progettista l’Ing. Francesco Marsich, in corso d’edi cazione nel 1911, e rappresenta uno dei numerosi casi in cui la classi cazione della V.P.R.G.C.A. è
6 - Scorcio delle case popolari: sullo sfondo la chiesa dei Gesuiti.
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I TRE FUTURI DI VENEZIA assai discutibile, perché risente sia dell’oggettiva difficoltà di redigere una classi cazione di natura storica, critica e documentale, sia, e forse principalmente, della profonda avversione dei suoi redattori per l’architettura del XIX e XX secolo, di cui si è detto in precedenza a proposito della Variante del 1992. Tutti questi edi ci, sia all’esterno che all’interno sono identici, salvo che per la decorazione delle fronti d’alcuni di essi prospicienti la chiesa dei Gesuiti, ove le aperture sono realizzate in pietra di Chiampo (e non della tradizionale pietra d’Istria), mentre tutte le altre hanno le aperture esterne in pietra arti ciale, prefabbricata, composta da una graniglia di marmo e cemento. “I pavimenti, scale, altane e decorazioni esterne in cemento, sono pure conformi a quelli delle case di S. Leonardo, eccetto per le facciate delle case XX, XXII, XXIV e XXIX prospicienti verso il Campo dei Gesuiti, nelle quali tutte le parti decorative esterne di porte, nestre, poggiuoli e cornici vennero costruite in pietra dura delle cave di Chiampo (Vicenza) con motivi architettonici pur semplici ma di carattere Veneziano; ciò venne eseguito in riguardo all’importanza della località nella quale sorge l’architettonica facciata di marmo della Chiesa dei Gesuiti...” (Comune di Venezia, Le Case Sane, Economiche e Popolari del Comune di Venezia, Bergamo 1911, All. L e pp. sgg.) Quattro quindi gli edi ci di “carattere Veneziano”, mentre gli altri sette sono di tipo più semplice, ma pur tuttavia identici in pianta e alzato, pietra a parte. La V.P.R.G.C.A., nella tav. B/10, classi ca come “Ne” solo due, e una frazione di un altro, dei quattro edi ci con decorazione in pietra, mentre il quarto è assimilato a tutti gli altri. Ovvero, anche ipotizzando che l’impiego delle pietra anziché della graniglia faccia passare un edi cio da una categoria all’altra (da N a Ne), non si è riusciti a classi care in modo coerente. Con la classi cazione “Ne” gli edi ci sono salvaguardati solo nelle fronti e nel volume, mentre con “Nr”, “l’unità edilizia ... priva di pregio individuale, non appare sostituibile per conto suo, ma solo in vista di una trasformazione complessiva del contesto”, che sta a signi care che edi ci eguali subiscono trattamenti assai diversi cati, che vanno dallo svuotamento interno con conservazione di fronti e volume (l’aborrito façadisme per le Carte e le teorie del restauro) per gli edi ci migliori, gli “Ne”, mentre per gli “Nr” viene contemplata sia la demolizione generalizzata, quando coordinata in un intervento globale sull’intero complesso, sia la ristrutturazione comprendente anche modi che lievi all’esterno. Si tratta perciò di una tutela assai più debole. È dunque necessario riconsiderare totalmente la questione, cercando punti di partenza diversi rispetto al logoro e semplicistico concetto di unità e tipo edilizio. L’obiettivo del piano deve rivolgersi alla conservazione dell’esistente, includendo ovviamente i materiali costruttivi presenti, sulla base dello stato di salute degli edi ci: è questo che deve dettare il quadro generale degli interventi di restauro, con una scala di priorità derivata dall’urgenza dell’intervento stesso. Si impone quindi un modo diverso di osservare e rilevare il patrimonio, ma anche di predisporre il progetto di restauro. Chi scrive ha effettuato una ricerca sui criteri d’approvazione di 12.000 progetti da parte della Commissione di Salvaguardia di Venezia nel decennio 1993-2002 (in Dossier: Venezia, l’altro 90% di Ananke. Cultura, storia e tecniche della conservazione n.s. Marzo 2003, n° 37, con tre contributi di chi scrive: A- L’altro 90%, pp. 20-23; B- Lavorando con il Comune, la Regione e la Soprintendenza, pp. 42-49; C- Conclusioni, pp. 129-131). Se ne possono trarre alcune considerazioni. In primo luogo, si rileva che i progetti sono, in grande prevalenza, trasformativi e non conservativi, e che l’impegno professionale dedicato alle analisi, documentazione, rilievi e progetto non è particolarmente curato né approfondito, anzi. Inoltre si può affermare che: - il controllo comunale sui progetti è di natura prevalentemente urbanistica ed è informato soprattutto da una ideologia tipologica, che non è affatto garanzia per la conservazione dei manufatti; - il controllo della Commissione di Salvaguardia di Venezia è meno tecnico-urbanistico e più pragmatico, rivolto alle quotidiane esigenze della popolazione e assai poco alla conservazione; - il controllo della Soprintendenza aiuta la conservazione, soprattutto negli edi ci vincolati ai sensi del Codice, mentre rappresenta per gli altri edi ci – la grande maggioranza – un solo voto in Commissione di Salvaguardia; quindi il controllo dell’intervento quotidiano sul patrimonio diffuso, minore, è quasi inesistente. Da alcune ricerche pubblicate negli ultimi trent’anni si può affermare che l’erosione 248
VENEZIA. PAESAGGIO URBANO NEL CONTEMPORANEO della materia storica a Venezia è stata spesso nanziata con i contributi della Legge 798/1984, licenziata invece per la conservazione della città. Da anni il nanziamento statale per Venezia s’è esaurito, e c’è da augurarsi che, col varo dell’auspicata nuova legge speciale, così necessaria alla vita quotidiana della città, il Comune rivolga una assai maggiore attenzione all’esame dei progetti e degli interventi, che devono essere di natura più conservativa che innovativa, concedendo solo ai primi i contributi per il restauro. Provvedimento tanto più importante oggi, dato che la nuova legislazione per sempli care l’iter progettuale, e si fa riferimento alla SCIA, super SCIA e CILA, non aiuta affatto la conservazione del patrimonio, anzi ne facilita l’erosione. L’ultimo fattore su cui è necessario operare è quello della formazione dei professionisti che operano sul patrimonio della città. Formazione che lascia molto a desiderare, dato che nel panorama disciplinare delle facoltà d’Architettura italiane l’insegnamento della conservazione si sta indebolendo sempre di più: forse il restauro è passato di moda! Si preparano gli studenti principalmente nella progettazione del nuovo, trascurando le discipline che vanno dalla manutenzione dell’esistente alla sua conservazione e, perché no, al suo “rammendo” (ricordando Renzo Piano) e ammodernamento, e magari consolidamento, pensando ai terremoti devastanti degli ultimi otto anni. Negli anni di vacche magre in cui vive la progettazione e costruzione del nuovo, conviene formare, e formarsi, alla conservazione dell’esistente, in tutta la sua variegata ricchezza, iniziando dallo strato più prezioso in quanto più raro, cioè quello storico. L’insegnamento della storia dell’architettura deve occuparsi di una “storia dinamica”, affiancando alla ricerca sulla fabbrica delle origini quella della fabbrica sedimentata, strati cata, alla quale ha contribuito certo il primo arte ce, ma che nella sua vita ha compreso anche quello dei successivi, nel corso della sua vita ha conosciuto anche numerosi altri interventi a opera di numerosi altri arte ci. Insegnare agli studenti e ai giovani professionisti questa nuova visione dell’architettura serve a far capire loro la complessità della fabbrica, insieme alla sua ricchezza; da questa comprensione può nascere un’ammirazione nuova, inedita, che comporterà forse la conservazione di tutti gli strati e dei relativi materiali, che compongono l’edi cio. Per nire può essere interessante il confronto tra due archistar: il primo del passato, il secondo invece contemporaneo. L’uno è Michelangelo a Santa Maria degli Angeli a Roma: egli conserva le antiche rovine con minimi aggiustamenti, con una cura e un rispetto straordinari (che sia amore?), pur trasformando parte delle terme romane in chiesa. L’altro è Rem Koolhaas, che interviene sul Fondaco dei Tedeschi a Venezia, e vi distrugge parti di muratura antica di cinquecento anni, interviene con violenza sulla spazialità d’un edi cio unico in città, e impiega un decoro esterno e interno decisamente volgare (serramenti dorati, pensate un po’, mentre quelli altrettanto brutti ma onesti in lega leggera delle contro nestre di tutti gli edi ci della modernità hanno dovuto essere condonati o rimossi), e conclude con la costruzione d’una terrazza in sommità, che era stata negata a tutti i progetti cittadini dopo i Piani Particolareggiati. Così abbiamo reso Venezia simile a Kathmandu: là nelle piazze maggiori delle tre città regali la sommità degli edi ci è stata popolata di terrazze, tanto amate dai turisti, di ristoranti e bar. Vi è una qualche differenza tra Venezia e Kathmandu, se non altro nel reddito pro capite, che è pressappoco di cinquanta volte maggiore per Venezia. Kathmandu, città poverissima, per sfamarsi svende il suo patrimonio culturale, e Venezia anch’essa si svende? E senza averne bisogno, ché non muore certo di fame. Quasi quasi tengo per la prima; almeno qualche giusti cazione ce l’ha. © Riproduzione riservata
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I TRE FUTURI DI VENEZIA
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LE CURATRICI, GLI AUTORI
LE CURATRICI LAURA FACCHINELLI
Laurea in Lettere all’Università Ca’ Foscari. Ha svolto un’attività trentennale come funzionario direttivo presso le Ferrovie dello Stato. Iscritta all’Albo dei Giornalisti del Veneto, segue da sempre due loni: la un lato la Cultura e le Arti, dall’altro Trasporti, Architettura e Paesaggio. Numerose le collaborazioni, negli anni, con giornali quotidiani e riviste specializzate. Ha pubblicato alcuni libri di storia delle ferrovie: Il ponte ferroviario in laguna (Venezia, 1987), La prima ferrovia nel Veneto (Venezia, 1992) e La ferrovia Verona-Brennero (Bolzano, 1995). Ha curato con Marco Nardini il volume La nuova s da progettuale (Udine 2008) con un saggio sulle espressioni artistiche nell’era digitale. Ha fondato (nel 2001) e dirige Trasporti & Cultura, rivista di architettura delle infrastrutture nel paesaggio, che si fa strumento di relazioni con il mondo della ricerca universitaria. La rivista è pubblicata anche on-line nel sito www. trasportiecultura.net. In relazione ai numeri monogra ci della rivista, vengono organizzati convegni presso sedi universitarie e Ordini professionali: i più recenti si sono svolti a Napoli, Palermo, Verona, Padova, Venezia, Genova, Torino, Milano. Organizzatrice di eventi culturali (un premio letterario di narrativa, uno di saggistica), nel 2010 Laura ha fondato il Gruppo di studio Paesaggi Futuri che, in un confronto fra specialisti di varie discipline, analizza le trasformazioni sociali e del paesaggio, ideando, in collegamento con la rivista, giornate di studio aperte al pubblico. Pittrice da sempre, Laura ha tenuto mostre personali in Italia e all’estero. ORIANA GIOVINAZZI Laurea in Architettura, Università di Genova. Ph.D in Piani cazione Territoriale e Politiche Pubbliche, Università Iuav di Venezia. Visiting Researcher in Waterfront Resilient Reconstruction, Department of Civil and Natural Resources Engineering, University of Canterbury, Christchurch (Nuova Zelanda). Svolge attività di ricerca nell’ambito della piani cazione e della progettazione a scala urbana, per lo più su tematiche riguardanti processi di trasformazione dell’interfaccia terra-acqua, relazioni tra porto e città, rigenerazione di aree industriali dismesse e recupero del patrimonio, piani cazione sostenibile e resilienza dei territori affacciati sull’acqua. Ha collaborato con il Dipartimento di Progettazione e Piani cazione in Ambienti Complessi, presso l’Università Iuav di Venezia, di recente sul progetto di ricerca Rigenerazione urbana e piani cazione ambientale del Sito di Interesse Nazionale di Venezia-Porto Marghera, e con il Laboratoire AMUP dell’École Nationale Supérieure d’Architecture de Strasbourg. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi, e curato per la rivista Trasporti & Cultura i numeri monogra ci “Paesaggi Urbani, la Storia e il Nuovo” (n. 33-34, 2012) e “Porti e città” (n. 41, 2015). Ha partecipato come relatrice e coordinato attività scienti co-organizzative per convegni, master, workshop, esposizioni. Giornalista, ha di recente affiancato alla professione di architetto attività nel settore della comunicazione e dell’editoria.
VIVIANA MARTINI
Architetto, laureata in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali allo IUAV di Venezia, Ph.D presso l’Università di Nova Gorica, si occupa della conservazione/sviluppo dei paesaggi culturali con particolare riferimento a quelli storici urbani. La sua attività di ricerca comprende i temi legati alla protezione e valorizzazione del patrimonio culturale, allo sviluppo sostenibile, all’inserimento di nuove infrastrutture sia nei siti iscritti nella lista del patrimonio mondiale che nelle città storiche in generale, ed è rivolta all’approfondimento delle relazioni e dei possibili effetti che le nuove architetture possono generare all’interno di un contesto consolidato di signi cati. Alcune pubblicazioni a riguardo: Historic Urban Landscape (HUL) as a new approach to the conservation of historic cities, Parigi, 2013; Common Goods in the Perspective of the (Historic) Urban Landscape Approach, I Quaderni di Careggi, UNISCAPE, Issue 06/2014; The conservation of the Cimbrian language in Italy, Sharing Cultures, 4th International Conference on Intangible Heritage, Lagos. Algarve, Portogallo, settembre 2015; Management of historic urban landscapes in Assisi, Urbino, Ferrara: an approach, Heritage 2016, 5th International Conference on Heritage and Sustainable Development, Lisbona, Portogallo, luglio 2016.
GLI AUTORI GIANFRANCO BETTIN
Sociologo, Presidente della Municipalità di Marghera. È stato Deputato al Parlamento, Assessore Comunale alle Politiche Sociali e all’Ambiente, Prosindaco di Mestre, Consigliere Regionale. Ha insegnato e lavorato a lungo nel campo della ricerca e delle scienze politiche e sociali. Giornalista pubblicista, collabora a diversi quotidiani e riviste. È stato tra i protagonisti della riquali cazione urbana di Mestre e della terraferma, della riconversione e boni ca del polo e delle aree industriali di Marghera, della salvaguardia della laguna e della rivitalizzazione di Venezia. Ha pubblicato romanzi e saggi, il più recente: S dare la paura. Gli imprenditori della paura sono destinati a vincere? (con Alberto Curi, 2016). Ha contribuito al libro Porto Marghera. Cento anni di storie (1917-2017), curato da Cristiano Dorigo e Elisabetta Tiveron (2017).
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I TRE FUTURI DI VENEZIA SERGIO BARIZZA
Sergio Barizza, laureato in loso a all’Università di Venezia, diplomato presso la scuola di Archivistica, Paleogra a e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Venezia è stato, dal 1981 al 2004, il responsabile degli Archivi Storici del Comune di Venezia. La sua opera principale è la Storia di Mestre (prima ediz. 1994), cui si aggiungono cinque ‘Quaderni dell’Archivio di Mestre’ (dal 1991 al 2002) e altri libri e saggi. Il libro più recente sulla città: Mestre 1915-1918, parole dalla guerra, (2016). Su Marghera: Porto Marghera, il novecento industriale a Venezia (2004, con Daniele Resini) e inoltre Marghera, il quartiere urbano (2000); Marghera 1938-1955 (2003); Marghera 1917-2007: voci, suoni e luci tra case e fabbriche (2007); Marghera 2009, dopo l’industrializzazione (2009).
MASSIMO PICA CIAMARRA
Professore di Progettazione Architettonica presso l’Università di Napoli (1971-2007). Dal 1997 al 2011, Vice Presidente Nazionale di INARCH; dal 2012 Vice Presidente della Fondazione Italiana per la Bioarchitettura e l’Antropizzazione sostenibile dell’ambiente; Presidente dei Comitati Scienti ci “Bioarchitettura” e di INARCH; Professore presso l’International Academy of Architecture (I.A.A.). Presidente dell’Observatoire International de l’Architecture (O.I.A.) di Parigi. Dal 2006 è Direttore de Le Carré Bleu, feuille internationale d’architecture. Fra i libri recenti: Integrare, il progetto sul nire dell’età della separazione (2010); Etimo: costruire secondo i principi. Architettura e trasformazione dello spazio abitato (2010).
CHIARA MAZZOLENI
Professore Associato di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia. I temi principali del suo percorso di ricerca attengono al complesso di relazioni tra città, società e azione pubblica, alle tradizioni di pensiero, alle esperienze di sviluppo di comunità e alle gure in uenti che hanno dato contributi rilevanti all’interpretazione e costruzione di queste relazioni. Di recente ha rivolto attenzione al tema della costruzione della città europea, nei due volumi su La costruzione dello spazio urbano, dedicati alle esperienze di Berlino e di Barcellona. Tra gli ultimi lavori si segnala la riessione critico-interpretativa sulla transizione terziaria dell’economia delle aree urbane e sulle sue implicazioni per il governo delle trasformazioni e le politiche di piano, con analisi comparativa di alcune città europee, con contributi nel testo Knowledge-creating Milieus in Europe (2016).
MICHELANGELO SAVINO
Professore di Tecnica e Piani cazione Urbanistica presso il DICEA dell’Università di Padova. Dopo aver dedicato la sua attività di ricerca sui caratteri della dispersione insediativa del Veneto centrale e ai processi sociali ed economici che ne hanno determinato l’insorgenza e lo sviluppo, oggi la sua attenzione è decisamente orientata alle forme e alle dinamiche dei processi di rigenerazione urbana della città contemporanea europea e ai processi di neoliberismo in atto nella piani cazione dei paesi occidentali. Da tempo si occupa con particolare attenzione del tema dei rapporti intercorrenti tra università e città e degli effetti urbani delle reciproche inferenze. Tra le pubblicazioni recenti, la curatela dei volumi: Waterfront d’Italia (2010) e (con Laura Fregolent) Città e politiche ai tempi della crisi (2014). Di prossima pubblicazione: Governare il territorio in Veneto.
MARTINA CONCORDIA
Laureata in Ingegneria Edile Architettura presso il DICEA dell’Università degli Studi di Padova. Il suo percorso di studi, in equilibrio tra l’architettura e l’ingegneria, ha portato ad un interesse nei confronti della rigenerazione urbana, motivo per cui la sua tesi di laurea magistrale è stata svolta a Londra, nell’ambito del progetto di riquali cazione ad oggi più grande d’Europa. La ricerca strategico-piani cativa e il mondo del planning sono le basi da cui Martina vuole partire per disegnare il suo futuro.
PAOLO ALBERTI
Ingegnere civile, con pluriennale esperienza come direttore di programmi di costruzione e riquali cazione di edi ci e reti multi-site, lavora dal 2002 in Artelia Italia spa, affiliata Italiana di Artelia International (società leader nell’Ingegneria e nel Project Management). Ricopre attualmente il ruolo di Direttore Tecnico ed è membro del Consiglio di Amministrazione. Partecipa assiduamente come formatore nell’ambito di master e corsi presso gli ordini professionali su temi di program management e gestione di progetti complessi.
GABRIELE SCICOLONE
Ingegnere, dal 2015 è Presidente dell’OICE, l’Associazione aderente a Con ndustria che raggruppa circa 400 società di ingegneria e di architettura italiane. Laureato in Ingegneria meccanica presso La Sapienza a Roma; dal 2010 è Amministratore delegato delle Società del Gruppo Artelia in Italia, presso le quali ha passato gli ultimi quindici anni di carriera e dal 2012 è membro del Management Board di Artelia International. Si è occupato di svariati progetti di costruzione nei settori oil&gas e in vari comparti del “real estate”, cooperando con molteplici investitori e clienti di rilevanza internazionale, contribuendo alla signi cativa crescita del Gruppo in Italia e diversi candone le attività in vari settori delle costruzioni, sia in Italia che all’estero.
ANDREAS KIPAR
Paesaggista, architetto e docente di Progettazione del paesaggio al Politecnico di Milano, Andreas Kipar è nato nel 1960 in Germania. Ha tenuto numerosi seminari, conferenze e lezioni magistrali sul tema dell’architettura e della piani cazione del paesaggio in diverse università europee e americane. È membro della German Association of Landscape Architects (BDLA Board), German Association for Garden Design and Landscape Architecture (DGGL) e dell’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio (AIAPP). È membro del comitato scienti co di Legambiente dal 1999, e dal 2005 è stato nominato membro della German Urban and Landscape Planning Accademy (DASL). È fondatore e CEO di LAND Srl, Landscape Architecture Nature Development, il cui brand LAND riunisce le società LAND Italia Srl, LAND Suisse Sagl e LAND Germany GmbH sotto un unico marchio.
TOMMASO SANTINI
Laurea in Ingegneria edile all’Università di Padova, Master Business Administration alla Bocconi. Da maggio 2017 è consigliere delegato della Fondazione Università Ca’ Foscari; dal 2013 è Amministratore delegato di VEGA - Parco Scienti co Tecnologico di Venezia; dal 2012 inoltre è direttore immobiliare del Gruppo Condotte di Roma. Ha ricoperto e ricopre incarichi in qualità di membro del board di società e fondi d’investimento in ambito nanziario, immobiliare e scienti co, dal 2016 è Consigliere d’amministrazione della Immobiliare Veneziana. Dal 2006 al 2012 amministratore di fondi di investimento immobiliare presso Valore Reale SGR S.p.A. di Milano che ha contribuito a fondare. In precedenza ha collaborato con Gruppo Guaraldo, F&M Ingegneria S.p.A.; è stato incaricato del masterplan per la riconversione industriale di aree all’interno di Portomarghera. È Consigliere nazionale di ASPESI e membro dell’Ambrosetti Technology Forum.
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LE CURATRICI, GLI AUTORI MARIA CHIARA TOSI
Professore associato di Urbanistica all’Università Iuav di Venezia, fa parte della giunta del Dipartimento Culture del Progetto ed è membro del Collegio dei docenti del dottorato in Urbanistica. Dal 2015 è membro dell’Academic Council alla Venice International University e vice-presidente di VEGA-Parco Scienti co e Tecnologico di Venezia. Dal 2016 è esperto valutatore presso l’Agenzia della ricerca FWO-Research Foundation Flanders. Tutor per il programma Erasmus di numerose sedi straniere, tiene lezioni, seminari e visite preparatorie. È stata visiting researcher presso il College of Environmental Design della University of California a Berkeley (USA), professore a contratto all’Università di Catania e all’Università di Trento. Dal 2009 al 2011 è stata responsabile scienti co di un LLP-Erasmus IP “Summer School Po Delta”; dal 2014 al 2017 è stata partner di un LLP-Erasmus IP e successivamente di uno Strategic Partnership con sede presso l’Université Libre de Bruxelles.
AGOSTINO CAPPELLI
Laurea in Ingegneria Civile Trasporti presso La Sapienza di Roma. Dal 1975 al 1980 Assegnista di Ricerca presso l’Istituto di Trasporti e quindi Ricercatore Confermato in Ingegneria dei Trasporti dal 1980 al 1987. È vincitore del primo concorso libero a Professore Associato in Ingegneria dei Trasporti e, dal 1987 al 1994, insegna nella Facoltà di Ingegneria della Università degli Studi della Basilicata. Vincitore nel 1994 del concorso a Professore Ordinario nello stesso settore, insegna prima Piani cazione dei Trasporti e Politiche Economiche Regionali nell’Università della Basilicata e dal 2001 Ingegneria dei Trasporti e Mobilità nei corsi di laurea e laurea magistrale dell’Università Iuav di Venezia. Autore o curatore di 7 libri e di circa 120 pubblicazioni scienti che in sedi nazionali ed internazionali.
MATTEO TABASSO
Laureato in Architettura, inizia l’attività lavorativa nel 1998 collaborando con enti pubblici e privati nel campo della progettazione architettonica e urbanistica. Nel 2003 viene chiamato a collaborare con il Comitato Olimpico Torino 2006 per la progettazione e l’allestimento del complesso di Torino Esposizioni per ospitare il Sito Olimpico di Ice Hockey 2. Dal luglio del 2006 collabora con SiTI (Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l’Innovazione) dove ricopre il ruolo Project Manager dell’area Riquali cazione Urbana. Da segnalare l’ampia esperienza maturata nel corso degli ultimi anni nell’ambito di progetti di scambio e cooperazione internazionale, in particolare sul tema della gestione delle aree urbane dismesse e sul tema dell’accessibilità, intesa come rapporto tra mobilità e piani cazione urbana.
MICHELA BAROSIO
Laurea in Architettura al Politecnico di Torino, dottore di ricerca in Architettura e Progettazione edilizia, è attualmente titolare di una borsa di studio della Fondazione ISI per indagare il tema delle residenze contemporanee. È cultore della materia e collaboratore a contratto presso il Laboratorio di Architettura e Restauro del Politecnico di Torino. Ha collaborato con lo studio Gramegna, ingegneri e architetti, dal 1998 al 2001. Dal gennaio 2003 è collaboratore esterno dello Studio Quaranta. Ha all’attivo la partecipazione a numerosi concorsi di progettazione.
ZEILA TESORIERE
Professore Associato di Composizione Architettonica e Urbana presso la Scuola Politecnica dell’Università di Palermo (2008). Fra il 2000 e il 2006 ha svolto attività di ricerca e insegnamento universitario in Francia, afferendo dapprima all’IPRAUS - ENSA Paris-Belleville, poi al GRAI al Département Théorie, Historie, Projet dell’ENSA Paris-Malaquais. Dottore di ricerca in Progettazione Architettonica e Docteur de troisième cycle en Architecture (UniPA- Université Paris 8 St. Denis). La sua ricerca si svolge presso il Dipartimento di Architettura di UniPA e presso il LIAT dell’ENSAParis Malaquais e indaga le modalità di de nizione del progetto di architettura in un quadro marcato dai nuovi paradigmi legati alla transizione energetica, alla resilienza, alle nuove ecologie, alla sostenibilità, alla deindustrializzazione, all’obsolescenza, alla decrescita, alle economie circolari.
GIULIA MELILLI
Laurea triennale in Piani cazione urbanistica e territoriale presso l’Università Iuav di Venezia con una tesi che affronta i temi dell’analisi e della progettazione territoriale e urbana. Dal 2015 partecipa all’Environmental Planning International Master Program presso la Technische Universität Berlin, occupandosi in particolare di Piani cazione Ambientale: gestione delle risorse ambientali; analisi e valorizzazione dei servizi ecosistemici; valutazione degli impatti ambientali, delle misure di mitigazione e adattamento, in particolare in relazione al contesto del cambiamento climatico; analisi e piani cazione di strategie di sviluppo sostenibile.
CARLO DE VITO
Ingegnere civile indirizzo Trasporti. Nell’ambito dello sviluppo del sistema AV in Italia, ha curato la progettazione e realizzazione delle nuove stazioni della rete (Roma Tiburtina, Torino Porta Susa, Firenze AV, Napoli-Afragola, Reggio Emilia, Bologna AV, ecc.) e promosso vari concorsi internazionali di progettazione, selezionando architetti di fama mondiale (come Desideri, D’Ascia, Hadid, Foster, Isozaki, ecc.). Dal 2009 ad aprile 2017 è stato Amministratore Delegato di FS Sistemi Urbani e oggi è Presidente della stessa società, nata per valorizzare il patrimonio non più funzionale all’esercizio ferroviario del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, nonché per svolgere servizi integrati urbani in una prospettiva di business, razionalizzazione, miglioramento funzionale e servizio alla collettività.
SARA IACOELLA
Ingegnere, laureata nel 2010 presso la facoltà di Ingegneria Civile, Infrastrutture Viarie e Trasporti dell’Università di Roma Tre; nel 2012 ha conseguito il Master di II livello in Ingegneria delle Infrastrutture e Sistemi Ferroviari presso la facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza di Roma. Dal 2013 lavora presso la società FS Sistemi Urbani, in qualità di specialista per le valorizzazioni immobiliari per la trasformazione delle aree ferroviarie dismesse ad usi urbani.
MARINA MARCUZ
Architetto, laureata nel 2003 presso la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma, ha conseguito nel 2012 un dottorato in Urbanistica presso la Escuela Tecnica Superior de Arquitectura di Siviglia, specializzandosi nel campo della piani cazione urbanistica. Dal 2005 lavora presso il Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane e dal 2011 nella società FS Sistemi Urbani, in qualità di specialista per le valorizzazioni immobiliari per la trasformazione delle aree ferroviarie dismesse ad usi urbani.
ANDREA SARDENA
Architetto e dottore di ricerca in Architettura e Urbanistica presso lo Iuav di Venezia, dove svolge dal 2006 attività di ricerca nel settore dei trasporti, della mobilità sostenibile, della riquali cazione urbanistica e del recupero urbano di aree degradate. È inoltre professore di Trasporti dal 2014 presso l’Università Iuav. È stato coinvolto in progetti di
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I TRE FUTURI DI VENEZIA ricerca nazionali e internazionali tra cui lo studio Housing e riquali cazione delle aree industriali e lo studio Edilizia residenziale e prefabbricazione. Continua è la ricerca sulle forme del vivere gli spazi pubblici dei quartieri residenziali e sulle dinamiche che intervengono nella modi cazione della percezione della qualità dell’abitare. L’attività professionale è stata incentrata sulla riquali cazione dei “margini” stradali intesi come spazi delle relazioni sociali e, in generale, di ltro tra la proprietà privata e quella pubblica.
CARMELO ABBADESSA
Laurea in Ingegneria Elettrotecnica (1968) all’Università di Padova. Insegnante di Elettrotecnica presso Istituti Tecnici Industriali. Nelle Ferrovie dello Stato dal 1970 al 2001, prima come Direttivo poi come Dirigente, nelle sedi di Venezia, Verona, Roma/Direzione Generale (Direttore Infrastrutture RFI), Bologna e Firenze. Dal 2001 titolare di Studio d’ingegneria a Venezia. Project Manager nel Consorzio europeo incaricato del progetto del completamento del raddoppio della linea FS Milano-Lecco e poi nel Consorzio Europeo incaricato del Progetto De nitivo per la Galleria di Base del Brennero. Per molti anni Preside per il Veneto del C.I.F.I. (Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani); membro della Commissione Trasporti del Collegio degli Ingegneri di Venezia e della Commissione Energia dell’Ordine degli Ingegneri di Venezia. Dal 1985 nella Scuola Grande S. Giovanni Evangelista di Venezia; dal 2009 nel Direttivo del Club UNESCO di Venezia.
GIOVANNI SENO
Ingegnere elettronico, dal 2015 ad oggi è Direttore Generale del Gruppo AVM-Azienda Veneziana della Mobilità (AVM, ACTV, PMV, VELA). Tra le numerose posizioni ricoperte nel passato, dal 2013 al 2015 Amministratore Delegato Azienda Veneziana Mobilità-AVM e ACTV, Trasporto Pubblico locale; dal 2014 al 2015 Consigliere Casinò di Venezia Gioco SpA; dal 2011 al 2013 Presidente dell’Azienda Servizi Mobilità ASM Spa; nel 2012 Fondatore FAST.NET, Incubatore d’impresa; nel 2011 è fondatore di D&F Consulting; dal 2009 al 2011 Membro di giunta Assinform, Amministratore Delegato di SIAV Grup SpA e SIAV East Europe (Bucarest); nel 2008 Consigliere di Amministrazione presso SIAV SpA e Asso.it; nel 2000-2009 Amministratore Delegato e Direttore Generale del Gruppo Ocè in Italia.
GUIDO VITTORIO ZUCCONI
Professore Ordinario presso l’Università IUAV di Venezia dal 2000, titolare dell’insegnamento di Storia dell’Architettura tiene corsi di Storia dell’Urbanistica e di Storia dell’Architettura Contemporanea. Membro del Collegio di Dottorato in Storia dell’Architettura e della Città, Scienza delle Arti, Restauro presso la Fondazione Scuola di Studi avanzati in Venezia, San Servolo. È stato Visiting Professor all’Università di Edimburgo nel 1999 e all’Ecole Pratique des Hautes Etudes presso la Sorbona in Parigi nel 2001. Suo principale campo di interesse è la storia dell’architettura e dell’urbanistica tra Otto e Novecento, con particolare attenzione al caso italiano. Ha approfondito temi e casi che investono il rapporto architettura-città, conservazione-urbanistica, professione-formazione didattica. È presidente dell’Ateneo Veneto di Venezia.
RICCARDO DOMENICHINI
Laureato a Venezia in architettura, lavora presso l’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia, di cui dal 2011 è responsabile. Si occupa abitualmente di archivistica applicata all’ambito dei documenti di architettura e di ricerca storica, soprattutto su aspetti della vicenda architettonica e urbanistica di Venezia fra Otto e Novecento. In questo ambito è autore, fra le altre cose, di un volume sull’architetto Giuseppe Torres e di studi sulla realizzazione della stazione ferroviaria di Venezia Santa Lucia. Nel quadro della sua attività presso l’Archivio Progetti sovraintende all’ordinamento e alla realizzazione degli inventari dei fondi archivistici posseduti, fra i quali quello dell’ingegnere Eugenio Miozzi.
ORIETTA LANZARINI
Laurea in Architettura allo Iuav di Venezia nel 1997. Ricercatrice in Storia dell’Architettura presso l’Università degli Studi di Udine, nel 2014 ha ottenuto l’abilitazione da Professore di Seconda Fascia. Ha redatto numerosi saggi sulla museogra a e sugli allestimenti in Italia, con particolare riguardo all’opera di Carlo Scarpa, Franco Albini, Giulio Minoletti e dei BBPR. Inoltre, ha collaborato e curato mostre dedicate a questi argomenti (Cisa “Andrea Palladio”, Vicenza e Museo di Castelvecchio, Verona 2000; Biennale di Architettura, Venezia 2002; Darc, Roma 2002-2003; Darc, Roma 2006; Triennale di Milano, 2006; Centro Carlo Scarpa - Archivio di Stato, Treviso 2009; MAXXI, Roma 2010; Centro Carlo Scarpa - Archivio di Stato, Treviso 2013-2014). Nel 2009-2011 è stata consulente scienti ca per il riordino dell’Archivio Carlo Scarpa.
SERGIO PRATALI MAFFEI
Dottore di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici (Politecnico di Milano), è stato ricercatore all’Università Iuav di Venezia e attualmente è professore associato di Restauro all’Università degli Studi di Trieste. Ha insegnato in diverse università italiane e straniere, e ha all’attivo oltre 200 pubblicazioni dedicate per lo più alla conoscenza dell’architettura storica e moderna e al restauro architettonico. Ha diretto o collaborato alla progettazione e alla direzione lavori di restauro di importanti edi ci e complessi architettonici, e coordinato varie ricerche nel campo della catalogazione, conservazione, tutela, valorizzazione del patrimonio storico architettonico italiano ed europeo. È stato coordinatore del Consiglio uni cato dei Corsi di Studio in Architettura dell’Università degli Studi di Trieste e direttore delegato del Dipartimento di Ingegneria e Architettura della stessa Università.
NICOLA TORRICELLA
Ingegnere, Direttore Tecnico dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale. Laureato nel 2002 in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio si occupa di programmazione, progettazione e realizzazione di interventi infrastrutturali all’interno del porto, con l’obiettivo di costruire opere che garantiscano la maggiore funzionalità e vita utile, con costi di realizzazione e di gestione contenuti. Si occupa in particolare dei grandi temi che riguardano la portualità veneziana, quali il crocierismo e il futuro del porto commerciale con l’Off Shore, cercando di preservare l’occupazione e garantire la compatibilità ambientale. Parimenti è impegnato nel recupero di Porto Marghera sotto il pro lo dell’ammodernamento infrastrutturale e della boni ca ambientale.
FEDERICA BOSELLO
Si è occupata di marketing delle istituzioni pubbliche e comunicazione d’impresa, lavorando sia con istituzioni culturali (come La Biennale di Venezia) che con aziende pubbliche (come Telecom Italia). È Responsabile Area Promozione, Comunicazione e Rapporti Istituzionali dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Settentrionale. È stata responsabile della creazione e dello sviluppo di tutti gli strumenti di comunicazione del Porto di Venezia e ha curato la realizzazione di pubblicazioni sul tema della portualità.
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LE CURATRICI, GLI AUTORI Ha tenuto lezioni di logistica ed economia internazionale in Università venete e nell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero. È responsabile per le politiche di “porto aperto” al ne di promuovere e rafforzare l’integrazione porto-città a Venezia.
VITTORIO SPIGAI
Ingegnere e Architetto, si occupa di progettazione integrata al restauro in ambienti storico-architettonici e paesaggistici complessi. Professore Associato di Progettazione architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia, dove insegna dal 1971. Volontariamente nel 2011 lascia in parte l’insegnamento per dedicarsi alla libera professione e ad attività rivolte alla tutela del patrimonio storico-culturale e naturalistico. Specializzato nelle metodologie d’intervento urbanistico e architettonico in siti di rilevante interesse storico-monumentale e paesaggistico, nel recupero di aree dismesse e, più in generale, nella progettazione architettonica e urbana sostenibili e delle relative tecnologie, è autore di numerose pubblicazioni, progettista e responsabile dei lavori in importanti complessi realizzati o in corso di costruzione.
ENZO SIVIERO
Rettore dell’Università ECampus e Vice Presidente di RMEI, Réseau Méditerranéen des Ecoles d’Ingénieurs. Ingegnere, Professore Ordinario di Tecnica delle Costruzioni, ha insegnato Teoria e Progetto di Ponti all’Università Iuav di Venezia. All’interno della comunità accademica si è fatto promotore della cultura della progettazione strutturale anche attraverso numerose pubblicazioni, convegni e mostre. Il suo lavoro didattico e di ricerca, incentrato sul tema del ponte, è volto a promuovere tra gli architetti un approccio progettuale che contempli sapienza costruttiva e ricerca estetico-formale. È autore di molte pubblicazioni sul cemento armato, sulle strutture, sulla conservazione e progettazione di infrastrutture e grandi strutture. Nel 2007 è stato eletto al CUN, Consiglio Universitario Nazionale, dove ha ricoperto il ruolo di vicepresidente. Nel 2009 è stato insignito della laurea honoris causa in Architettura dal Politecnico di Bari.
MARIO PIANA
Professore di Restauro presso l’Università Iuav di Venezia. Dal 1979 al 1998 ha svolto l’attività di architetto presso la Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di Venezia, occupandosi del controllo sugli interventi relativi al patrimonio storico-artistico della città e della laguna; ha progettato e diretto numerosi interventi di restauro di molti edi ci monumentali veneziani. È stato Soprintendente reggente negli anni 1981-1982. Dal 1994 è membro del consiglio scienti co del Centro Internazionale di Studi di Architettura “A. Palladio” di Vicenza. Nel 2012 ha esposto quattro interventi di restauro alla 13ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Da marzo 2016 ha assunto l’incarico di Proto di San Marco.
PAOLO COSTA
È Presidente del Consiglio di Amministrazione di SPEA Engineeeing s.p.a, membro del Corporate Partnership Board dell’International Transport Forum presso l’OECD, editorialista del Corriere del Veneto, docente di Economia dei trasporti e della logistica all’Università Ca’ Foscari di Venezia e membro del Consiglio Generale della Fondazione di Venezia. È stato professore ordinario di Economia urbana e regionale (IUAV, 1980-1982), e di Economia, programmazione economica ed Economia regionale (Ca’ Foscari, 1982-2003). Ha insegnato anche alle Università di Padova, Reading (UK) e alla New York University. Rettore dell’Università Ca‘ Foscari (1992-1996) e Vice Presidente dell’Università delle Nazioni Unite a Tokyo (1995-1999). È stato Ministro dei Lavori Pubblici e delle aree urbane (Governo Prodi I, 19961998); Sindaco di Venezia, Presidente del Teatro La Fenice e Vice Presidente della Biennale di Venezia (2000-2005). Membro del Parlamento europeo dal 1999 al 2009 ha presieduto la Commissione parlamentare sui Trasporti e il Turismo dal 2003 al 2009. Membro del direttivo della Società Europea di Cultura di Venezia, è stato Presidente della Fondazione del Duomo di Mestre. Il suo libro più recente: P. Costa, M. Maresca, The European Future of the Italian Port System, Marsilio, 2014.
CLEMENS KUSCH
Laureato in Architettura all’Università Iuav di Venezia, Dottorato di Ricerca nel 1993, è stato docente a contratto. Dal 1996 opera con il suo studio professionale CFK Architetti a Venezia, nei settori della progettazione e del project management, in particolare nell’ambito delle relazioni italo-tedesche in architettura. È partner italiano di studi tedeschi quali gmp von Gerkan, Marg & Partner (Amburgo), per i quali segue tutti i progetti in Italia, JSWD (Colonia) e per i curatori della Biennale di Venezia. È corrispondente di riviste tedesche e ha pubblicato numerosi saggi e articoli sull’architettura contemporanea. Ha curato le pubblicazioni Poli eristici (2013) e la Guida all’architettura. Venezia. Realizzazioni e progetti dal 1950 (2014). Dal 2009 al 2015 è stato coordinatore dell’associazione temporanea di professionisti italo-tedesca incaricata della progettazione per la ricostruzione del Castello di Berlino.
GIORGIO NUBAR GIANIGHIAN
Già ordinario di Restauro all’Università Iuav di Venezia. Visiting Professor, relatore a convegni e conferenziere in Argentina, Bulgaria, Canada, Cina, Colombia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Israele, Nepal, Norvegia, Romania, Russia, USA. Autore di oltre 90 pubblicazioni su storie di edi ci, città e paesaggi storici e sulla loro conservazione, tradotti in varie lingue. Esperto internazionale dell’Aga Khan Trust for Culture 1998, dell’UNESCO Centro del Patrimonio dell’Umanità (in Nepal, Armenia, Moldova, Bosnia Erzegovina, India, Tailandia, Iran); del Consiglio d’Europa per il Regional Programme for Cultural and Natural Heritage in South East Europe 2003-2005 - Integrated Rehabilitation Project Plan/ Survey of the architectural and archaeological heritage 2004-06. Italian Foreign Affairs Ministry - People’s Republic of China, State Administration for Cultural Heritage (SACH) 2006. Overseas Visiting Scholar press oil St John’s College in Cambridge - 2013. Corrispondente della rivista Ananke. Valutatore del MIUR-ANVUR (Ministero dell’Università e Ricerca, Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca, Restauro).
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Finito di stampare in Italia nel mese di giugno 2017 da Gra che Veneziane - Venezia