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TERRITORI FRA DIVERSITÀ E OMOLOGAZIONE 1
Comitato d’Onore: Paolo Costa già Presidente Commissione Trasporti Parlamento Europeo Giuseppe Goisis Filosofo Politico, Venezia Franco Purini Università La Sapienza, Roma Enzo Siviero Università telematica E-Campus, Novedrate Maria Cristina Treu Architetto Urbanista, Milano Comitato Scienti co: Oliviero Baccelli CERTeT, Università Bocconi, Milano Alessandra Criconia Università La Sapienza, Roma Alberto Ferlenga Università Iuav, Venezia Anne Grillet-Aubert ENSAPB Paris-Belleville, UMR AUSser Massimo Guarascio Università La Sapienza, Roma Stefano Maggi Università di Siena Giuseppe Mazzeo Consiglio Nazionale delle Ricerche, Napoli Cristiana Mazzoni ENSA Paris-Belleville, UMR AUSser Marco Pasetto Università di Padova Michelangelo Savino Università di Padova Luca Tamini Politecnico di Milano
In copertina: “Sincronie marsigliesi” foto di Marco Falsetti, 2013.
Zeila Tesoriere Università di Palermo - LIAT ENSAP-Malaquais
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85 STAZIONE DI PICALEŇA IN COLOMBIA, UN PATRIMONIO CULTURALE PER LA COMUNITÀ
Rivista quadrimestrale gennaio-aprile 2021 anno XXI, numero 59 Direttore responsabile Laura Facchinelli Direzione e redazione Cannaregio 1980 – 30121 Venezia e-mail: laura.facchinelli@trasportiecultura.net laura.facchinelli@alice.it Comitato Editoriale Marco Pasetto Michelangelo Savino Coordinamento di Redazione Giovanni Giacomello
5 TERRITORI FRA DIVERSITÀ E OMOLOGAZIONE di Laura Facchinelli
7 DISTANZE CRITICHE FRA IDENTITÀ E OMOLOGAZIONE di Giusi Ciotoli e Marco Falsetti
11 “L’IMPOSSIBILITÀ DI ESSERE NORMALE”. TERRITORIO ITALIANO: DIFFERENZE E ANTIDOTI ALL’OMOLOGAZIONE di Alberto Ferlenga
19 LA RICOSTRUZIONE DELL’IMMAGINE. PROGETTI PER I CENTRI STORICI TEDESCHI di Michele Caja
27 LE RAGIONI DI KÖNIGSBERG: FENOMENOLOGIA DI UNA CITTÀ PERDUTA di Marco Falsetti
di Olimpia Niglio
93 QUANDO IL PROGETTO SI CONFRONTA CON LA STORIA di Lucio Altarelli
101 IDENTITÀ, ARCHITETTURA, REGIONALISMI di Marco Maretto
109 PASSAGGI, PRESIDI E INFRASTRUTTURE DELLA MONTAGNA: POSSIBILI STRATEGIE POST VAJONT di Mickeal Milocco Borlini, Lorenzo Gaio e Giovanni Tubaro
117 LE STRADE DEGLI ITINERARI CULTURALI, UNA RICERCA IN TERRITORIO SARDO di Marco Cadinu e Stefano Mais
123 INFRASTRUTTURE SOSTENIBILI E PARTECIPAZIONE di Federica Bosello
37 WATER, NEW TOWNS AND INTERIOR COLONIZATION: THE EXPERIENCE OF SPAIN, 19391971 di Jean-François Lejeune
La rivista è sottoposta a double-blind peer review
Traduzioni in lingua inglese di Olga Barmine La rivista è pubblicata on-line nel sito www.trasportiecultura.net 2021 © Laura Facchinelli Norme per il copyright: v. ultima pagina Editore: Laura Facchinelli C.F. FCC LRA 50P66 L736S Pubblicato a Venezia nel mese di aprile 2021
Autorizzazione del Tribunale di Verona n. 1443 del 11/5/2001 ISSN 2280-3998 / ISSN 1971-6524
45 L’AUTOSTRADA COME OPERA D’ARTE COLLETTIVA NELLA JUGOSLAVIA DI TITO di Aleksa Korolija e Cristina Pallini
53 LA CANZONE URBANA DI KORÇA, UN COMMENTO CONTEMPORANEO di Andrea Bulleri
61 PARADIGMI SEGNICI NEL PAESAGGIO LITUANO: ALCUNI PROGETTI RECENTI DI PALEKAS di Donatella Scatena
69 TRANSIZIONI MACROSCALARI. PIANIFICAZIONE URBANA E MODI FICAZIONE NELLA CINA DI OGGI di Giusi Ciotoli
79 POLITICHE URBANISTICHE IN CINA, VERSO MEGACITTÀ A MODELLO UNICO Intervista a Ruggero Baldasso a cura di Laura Facchinelli
129 CONTEMPORARY MEMORY: LA SFIDA TRA IDENTITÀ E OMOLOGAZIONE di Stefanos Antoniadis
135 L’IMMAGINE URBANA NEWYORCHESE PROTAGONISTA di Ghisi Grütter
143 THE HISTORICAL GARDEN IN SYRIA BETWEEN TRADITION AND IDENTITY di Nabila Dwai
151 TRASFORMAZIONI URBANE, IL CONTRIBUTO ESSENZIALE DEGLI ARTISTI di Laura Facchinelli
155 PAESAGGI OLTRE IL PAESAGGIO di Luigi Siviero
157 DAL GRATTACIELO AL TESSUTO VERTICALE di Roberto Secchi
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Territory from diversity to standardisation by Laura Facchinelli
The theme of a territory’s identity, which is the expression and mirror of a population’s identity, has always been the focus of our research. We have explored it since the now distant issue number 20 “Economic development, landscape, identity”, observing how too often (what we call) progress leads to the irreparable loss of elements in the landscape, architectural and cultural heritage which has sedimented over the centuries. In this issue, we return to this theme, focusing our attention on different situations and points of view. On the theme of the loss of elements of the historic heritage, we consider the exemplary case of China. Following the “ideological” devastations of the 1950s and the loss of so much of the existing architectural heritage, replaced by buildings that were endless replicas of the “socialist” models imposed by the regime, in recent years China has begun equally radical demolition projects to build districts and cities inspired by propaganda and business, undertaken with no debate whatsoever about urban planning. This phenomenon takes place in other countries as well, in the pursuit of spectacular effects, the tallest skyscrapers, the most daring forms. The mad and convulsive pace of building robs each of us of the possibility of visiting, or even knowing that there are places that remain authentic, rooted in different cultures. The transformations undertaken in the second half of the nineteenth century by Haussmann in Paris were of a completely different nature. They did in fact demolish old and suggestive streets and squares, but to bring a new and grandiose look to a city that since then has communicated the energy and fascination of sumptuous buildings, long straight avenues, squares with their typical “brasseries”. In this case, the demolition of the old neighbourhoods served to create the Paris we all love today. A sociologist who considers all points of view underscores that, on the one hand, architects and urban planners are the ones who design the spaces, but on the other, residents and visitors are the ones who live in and experience the city, and that writers, artists and photographers have always been the ones who understand its needs and desires. A city can also have its buildings, squares and monuments destroyed by the violence of wartime bombings. In postwar Germany, the need was felt to reclaim the soul of the city by reconstructing the buildings philologically, recreating the forms with the same materials. The traumatic event could also be an earthquake, a ood, a re. At that point the question becomes “how” to rebuild. Opposing solutions can be sustained with theoretically founded arguments, from “like it was where it was” to innovation at all cost. But considering the question on an ethical level, is it acceptable to build concrete boxes in the place where water destroyed the small old houses of a mountain village? And do we not consider brazen the proposal of the starchitect who wanted to build a glass and steel pinnacle on the roof of Notre Dame in Paris, to take advantage of the void left by the re? In seeking a common denominator across different situations, we might consider valid the choices that are not aimed at immediate glory, but seek to leave their mark through meaning for the centuries to come. Beyond personal interests, beyond the trends and conceptualisations of the moment. Of the many themes and points of view developed in this issue of our magazine, there is a recognition of the core of vitality that exists in the Italian landscape. While the inclination to value differences has contributed over the centuries to producing a living archive of extremely rich urban solutions, in more recent times perverse forms of development have gained the upper hand. But even a landscape of incomplete fragments often devoid of quality has continued to generate unexpected variations. And so, based on this analysis which we are pleased to share, the seeds of a possible renascence remain viable.
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Territori fra diversità e omologazione di Laura Facchinelli
Il tema dell’identità di un territorio, espressione e specchio dell’identità di un popolo, è sempre stato al centro delle nostre ricerche. Lo abbiamo esplorato a partire dall’ormai lontano numero 20 “Sviluppo economico, paesaggio, identità”, constatando che troppo spesso il (cosiddetto) progresso porta alla cancellazione irreparabile di testimonianze paesaggistiche, architettoniche, culturali sedimentate per secoli. In questo numero riprendiamo l’argomento focalizzando l’attenzione su differenti situazioni e punti di vista. In tema di perdita delle testimonianze storiche è esemplare il caso della Cina che, dopo le devastazioni “ideologiche” compiute dagli anni Cinquanta del Novecento a danno del patrimonio architettonico esistente, sostituito da edi ci che moltiplicavano all’in nito i modelli “socialisti” imposti dal regime, negli anni recenti ha avviato altrettanto radicali interventi di demolizione per costruire quartieri e città ispirati da propaganda e business: il tutto nella totale assenza di un dibattito urbanistico. Quest’ultimo fenomeno si presenta anche in altri Paesi, con la ricerca di effetti spettacolari, di grattacieli sempre più alti, di forme sempre più ardite. Questo costruire convulso e dissennato ruba a ciascuno di noi la possibilità di visitare o comunque di sapere che esistono luoghi autentici, radicati nelle differenti culture. Completamente diversi erano stati gli interventi di trasformazione compiuti, nella seconda metà dell’Ottocento, a Parigi da Haussmann. Interventi che avevano, sì, cancellato vecchie e suggestive case e strade e piazze, ma per dare un volto nuovo e grandioso a una città che da allora comunica l’energia e il fascino dei sontuosi edi ci, dei lunghi rettilinei, delle piazze con le tipiche “brasserie”. In questo caso, gli sventramenti dei vecchi quartieri sono serviti a far nascere la Parigi che tutti noi amiamo. Un sociologo attento alla molteplicità dei punti di vista sottolinea che, da un lato, sono gli architetti e gli urbanisti che disegnano gli spazi ma, dall’altro, sono gli abitanti e i visitatori a vivere la città, e sono sempre stati gli scrittori, gli artisti e i fotogra a comprenderne i bisogni e i desideri. Una città può veder cancellati i propri edi ci, piazze e monumenti dalla violenza dei bombardamenti. Ebbene, nella Germania del dopoguerra ha preso forma l’esigenza di ritrovare l’anima della città attraverso una vera e propria ricostruzione lologica degli edi ci, ricreando le forme con gli stessi materiali. L’evento traumatico può essere anche un terremoto, un’inondazione, un incendio. Viene allora da interrogarsi sul “come” della ricostruzione. Si possono sostenere, con argomentazioni teoricamente fondate, soluzioni opposte, dal “com’era dov’era” allo slancio innovativo. Ma, ponendo la questione sul piano etico, è accettabile collocare scatole di calcestruzzo là dove l’acqua aveva cancellato le piccole vecchie case di un paesino di montagna? E non ci sembra sfrontata la proposta di quell’archistar che voleva erigere una guglia di vetro e acciaio sul tetto di Notre Dame a Parigi, appro ttando del vuoto lasciato dall’incendio? Volendo trovare un comune denominatore, nelle diverse situazioni potremmo considerare valide le scelte che non puntano sulla facile gloria del momento, ma si propongono di lasciare un segno ricco di signi cato per i secoli futuri. Al di là degli interessi personali, al di là delle concettualizzazioni e delle mode del momento. Fra i molti aspetti e punti di vista sviluppati in questo numero della rivista, c’è il riconoscimento – nel nostro paesaggio italiano - di un connaturato nucleo di vitalità. Se l’attitudine alle differenze ha contribuito, nel corso dei secoli, a produrre un archivio vivente di ricchissime soluzioni urbane, nei tempi più vicini a noi hanno preso il sopravvento forme perverse di sviluppo. Ma anche un panorama di frammenti incompiuti e spesso privi di qualità ha continuato a generare variazioni impreviste. E quindi – secondo questa analisi, che vogliamo condividere – sono rimasti in vita i semi di una rinascita possibile.
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Distanze critiche fra identità e omologazione di Giusi Ciotoli e Marco Falsetti
Questo numero di Trasporti & Cultura affronta – in un delicato periodo storico come quello attuale – l’importante tema del rapporto tra carattere del territorio e contesto culturale, alla luce di esperienze signi cative più e meno recenti e nell’ottica di individuare possibili scenari alternativi alla odierna crisi dei linguaggi. Ciò che oggi riconosciamo come margine netto tra identità e omologazione è in realtà – molto spesso – più vicino ad una soglia ipotetica, un con ne sensibile che comprende i processi formativi della struttura urbana storicizzata ma che, al contempo, include i fenomeni e le immagini della contemporaneità. Tale molteplicità di nessi e di sensi rende difficile, a prima vista, il riconoscimento di caratteri e di valenze condivise all’interno di un mondo, come quello in cui viviamo, fortemente globalizzato. A ciò va aggiunto come il dualismo identità/ omologazione non sia percepito in tutti gli ambiti, in egual misura; le recenti ricostruzioni in Germania e nell’Europa orientale testimoniano, a riguardo, un sentire legato a uno speci co territorio benché probabilmente lontano dalla sensibilità di altri contesti. Dall’Europa alla Cina, passando per il Nord e per il Sud America, il numero 59 esamina una pluralità di scenari, cercando di tracciare un percorso ideale tra il senso dell’identità manifesto in determinati passaggi critici (della storia recente) e gli indirizzi contemporanei, all’interno dei quali si forgia il paradigma urbano del futuro. Un primo, fondamentale, aspetto da delineare all’interno della dialettica identità/ omologazione è il ruolo svolto dall’immagine urbana tramandataci dalla storia, sempre più spesso percepita come spartiacque tra un’idea di città e cittadinanza condivisa e la contemporanea frammentazione della collettività all’interno di episodi urbani autonomi quanto autoreferenziali. La natura di questa perdita – che, in special modo in alcuni contesti, va ricercata nel diverso modello di città che è stato realizzato sulle
Critical distances from identity to standardisation
by Giusi Ciotoli and Marco Falsetti
In a delicate historical era such as ours, Trasporti & Cultura dedicates this issue to the important theme of the relationship between the character of the territory and the cultural context, in light of the most signi cant, more or less recent, experiences, with a view to exploring possible alternative scenarios to today’s crisis in architectural language. In this sense, it should be observed that what we recognize today as a clear margin between identity and standardisation is actually – quite often – more of a hypothetical threshold; a sensitive border that embraces the formation processes of historicized urban structures, but at the same time, includes the images and phenomena of our contemporary age. This multiplicity of links and meanings makes it hard, at rst glance, to recognize shared characters and values within a world as strongly globalized as our own. Furthermore, the dualism identity/ standardisation is not perceived in the same measure in all environments; the recent reconstructions in Germany and Eastern Europe display, in this regard, an approach linked to a speci c territory, though quite distant in all likelihood from a sensibility towards other contexts. From Europe to China, through North and South America, issue number 59 examines a plurality of scenarios, seeking to set an ideal course between the sense of identity at certain critical moments (in recent history) and contemporary trends, within which the urban paradigm of the future is being shaped.
Nella pagina a anco, in alto: Trasformazioni del paesaggio urbano di Orte. Foto di Marco Falsetti, 2019. In basso: Copertura tradizionale tipica della Costiera Amal tana. Foto di Giusi Ciotoli, 2013 (a sinistra); Sacro esterno. Chiesa dell’Addolorata a Fiumefreddo Bruzio. Foto di Marco Falsetti, 2020 (a destra).
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macerie del Secondo Con itto Mondiale – si è venuta a scontrare, in anni relativamente recenti, con le raffigurazioni «(…) che ci sono state tramandate attraverso dipinti e ritratti che ritraggono l’immagine urbana (Stadtbild) come si è lentamente costruita nel tempo in quanto luogo unico ed eccezionale» (Caja). La dicotomia tra l’immagine del passato – alla quale si accompagna “l’idea del passato”, tanto più forte quanto maggiore è la perdita in termini di patrimonio artisticoarchitettonico, come testimonia l’esempio di Königsberg (Falsetti) – e quella del presente, ancora profondamente segnata dalle frettolose e funzionalistiche ricostruzioni postbelliche, non può che enfatizzare il divario tra una modello ritenuto identitario (ovvero di una cittadinanza che si riconosce tanto nei simboli cittadini quanto nel tessuto urbano) e l’attuale stagione di spersonalizzazione, dove anche gli interventi di pregio non riescono a replicare (per le città che ancora possono permetterseli) i successi dei primi anni 2000. Ma se la necessità di ricostruire un’immagine irrimediabilmente compromessa è divenuta siologica in determinati areali – soprattutto per ragioni storico-politiche –, la posizione italiana è da sempre più “complessa” sia per la presenza «(…) di una cultura della città capace di generare, al tempo stesso, modelli ripresi ovunque e in nite varianti» che per «una attitudine alla interpretazione di condizioni speci che e alla variazione “resiliente” a climi o abitudini (…) ha in uenzato una vasta area del Mediterraneo (…) arrivando, sia pure con difficoltà, sino a noi» (Ferlenga). Questa predisposizione si osserva tanto nel ruolo che i percorsi territoriali hanno avuto (e hanno tuttora) nello stabilire gerarchie e nel diventare, essi stessi, elementi riconoscibili e simbolici, quanto nel de nire reti alle quali ricondurre una rinnovata nozione di territorio. In alcuni casi si tratta di riscoprire «(…) un legame con le strade storiche che si è sostanziato di signi cati legati ai progetti infrastrutturali di altre epoche e ha portato più di recente al migliore riconoscimento del tempo medievale, epoca di strade nuove e di “tagliatori di via”, maestri di strade, programmatori di ridisegni territoriali» (Cadinu-Mais). D’altronde l’infrastruttura può anche contribuire a testimoniare le modi cazioni che il territorio subisce a causa dell’uomo o della natura; pertanto, come nel caso del Vajont, «la strada, intesa in parte come elemento negativo di attraversamento, da altri punti di vista concede l’opportunità di continui e differenti sguardi sul paesaggio alpino che 8
permettono di osservare e leggere le trasformazioni delle valli» (Milocco Borlini, Gaio, Tubaro). È bene sottolineare come l’infrastruttura stessa possa essere responsabile della costruzione di molti paradigmi urbani della modernità. Si pensi, a riguardo, al gigantismo urbano sperimentato, in questi ultimi decenni, dalla Repubblica Popolare Cinese, che sta sfruttando il potenziamento della propria rete infrastrutturale per impiantare nuove megalopoli (Baldasso), attuando radicali riscritture del proprio passato mediante restauri “in stile” di alcuni villaggi rurali (Ciotoli). Di certo, siamo in grado di affermare come l’infrastruttura abbia un ruolo determinante nella costruzione di luoghi vitali della collettività: si pensi, in tal senso, alla funzione di attrattore urbano e sociale svolta, durante lo scorso secolo, dalle stazioni ferroviarie. Queste ultime, infatti, sono strutture intorno alle quali, storicamente, si sono sviluppati tutta una serie di processi di rinnovamento urbano per cui, nella maggior parte dei casi, costituiscono edi ci entrati nella memoria collettiva. A tal proposito risulta particolarmente interessante il «progetto partecipato» portato a termine in una cittadina colombiana dove, in maniera concreta, si è cercato «(…) di sperimentare la stretta relazione che esiste tra Cultura locale, Patrimonio Culturale e Comunità» (Niglio). D’altronde è bene ricordare come «nella misura in cui le infrastrutture incidono su un territorio, (…) ancora vent’anni fa, la Convenzione europea del paesaggio sollecitava a porre attenzione al processo partecipativo, nelle varie fasi della progettazione, della decisione, dell’attuazione e della veri ca, senza tuttavia indicare i metodi per assicurare una partecipazione attiva e responsabile» (Bosello). La dicotomia tra identità e omologazione può, per certi versi, essere associata anche al complicato rapporto tra tradizione e innovazione; se, in effetti «(…) il tema del luogo e dell’architettura come arte di disegnare i luoghi, si colloca lontano, alle origini stesse della storia dell’umanità, la sua percezione come problema è tutta interna alla “modernità”» (Maretto), è la scuola romana che, in tale direzione, ha condotto interessanti sperimentazioni, ritenendo la capitale un «(…) laboratorio ideale [in cui veri care] (…) le modalità attraverso cui il nuovo convive e si confronta con l’antico, sia sicamente, nei processi di crescita delle città, sia idealmente, nella costruzione della sua teoresi» (Altarelli). Accanto alle ricostruzioni di tessuti urbani e alla riscoperta della valenza sociale che determinate architetture hanno nell’immagi-
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nario collettivo, c’è da considerare anche la nuova e diversa contestualizzazione critica che alcune opere urbanistiche e infrastrutturali stanno sperimentando in relazione al ruolo che hanno svolto in taluni momenti storici. È il caso, ad esempio, dell’Autostrada della Fratellanza e Unità nella Jugoslavia titina e dei pueblos di fondazione franchista che, seppur concepiti all’interno di regimi ideologicamente antitetici, sono stati ideati per lo stesso scopo e hanno svolto la stessa funzione. Nel primo caso si è trattato di forgiare una identità condivisa per popoli appartenenti a paesi diversi, in nome di un futuro comune: «(…) con l’autostrada emerse una nuova sensibilità ambientale; i paesaggisti affiancarono gli ingegneri, gli architetti e i piani catori per meglio integrare l’autostrada nel paesaggio, tenendo conto della diversa natura dei luoghi (…) la Jugoslavia, che in meno di 256.000 km2 racchiudeva tutti i paesaggi d’Europa, offriva ai progettisti la possibilità di tornare a cimentarsi con le forme della natura» (Korolija-Pallini). Nel secondo caso, ci si è rivolti alla dimensione di un passato vagheggiato per attuare una “colonizzazione interna” del paesaggio, costruendo attorno ad esso «(…) una “utopia rurale” incentrata su una plaza major, che incarnava, tra tradizione e modernità, l’ideale politico della vita civile sotto il regime nazionalista-cattolico» (Lejeune). All’interno di questo discorso non si può però tralasciare il ruolo giocato dall’immagine, intesa come specchio che condensa e ri ette i valori di una collettività che si identi ca in una forma sica codi cata nel (e dal) tempo o, in altri termini, in un paesaggio urbano: ed è proprio quest’ultimo che fornisce e de nisce quelle condizioni che «tracciano il terreno (…) per favorire la metamorfosi di elementi di omologazione in forme identitarie, grazie all’attivazione di nuove e multiple relazioni tra l’oggetto osservato e altri elementi del territorio, sia materiali (altri oggetti e altre forme) che immateriali (geogra e culturali e narrazioni)» (Antoniadis). Quest’aspetto accomuna dunque contesti tanto eterogenei quanto collegati da peculiari forme di identità che riverberano nei rispettivi caratteri (Grütter), toni e forme (Dway); ne è un esempio il masterplan del 2009 di Korça che dimostra come sia possibile, senza rinunciare ai topoi di un territorio, attuare «(…) una strategia compatibile con la salvaguardia del patrimonio storico seppur mirata alla intensi cazione dell’originario tessuto edilizio» (Bulleri). L’imago può divenire, pertanto, un elemento resiliente per contrastare le derive
di una omologazione divenuta maschera, dietro la quale si cela l’indolente assenza di idee quando non una volontà “livellatrice” che risolve i con itti e i contrasti (intesi naturalmente in chiave positiva) appiattendoli dietro immagini patinate e commerciali, uguali a Sukhumi come ad Andorra. © Riproduzione riservata
1 - Trionfo litoide a Caprarola. Foto di Marco Falsetti, 2018. 2 - Valori tonali della Cattedrale di Santa Maria Matricolare a Verona. Foto di Marco Falsetti, 2019. 3 - Vista su una piazza mediterranea a Fiumefreddo Bruzio. Foto di Giusi Ciotoli, 2020.
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“L’impossibilità di essere normale”. Territorio italiano: differenze e antidoti all’omologazione di Alberto Ferlenga
Produrre differenze, nella cultura e sul territorio è, da sempre, una prerogativa italiana che ha la sua origine in una storia complessa e in un paesaggio variegato. Ma anche la produzione di idee universali riguardanti la forma urbana ha avuto, in Italia, un luogo di elezione come pochi altri al mondo. Da questo duplice insieme di condizioni in apparenza contrastanti e di scala diversa è disceso l’affermarsi nel nostro Paese di una cultura della città capace di generare, al tempo stesso, modelli ripresi ovunque e in nite varianti: un patrimonio complesso e sterminato che intreccia di continuo il particolare e il generale ( g 1) e trae linfa dalle situazioni speci che. A sua volta, questo amalgama di alto e basso, di grandioso e di minuto, di simile e di diverso, costituisce il materiale di base di una creatività che ha avuto come arte ci intere popolazioni che hanno custodito e arricchito i luoghi, e singoli architetti che ne hanno interpretato le caratteristiche, portando al massimo livello quell’arte particolare che è l’architettura considerata in rapporto con la città e il paesaggio. Si potrebbe dire, così, che la cultura urbana italiana, a partire dalla città romana, abbia, da un lato, prodotto le prime forme di omologazione e dall’altro coltivato gli anticorpi perché ciò non si trasformasse in un appiattimento formale generalizzato delle città. Sono stati i Romani i primi che, dall’Italia, hanno esportato su larga scala gli elementi identitari della loro cultura urbana, come vie colonnate, archi trionfali, fori, e sono stati sempre loro che, all’insegna di una sorta di sincretismo insediativo, li hanno contaminati costantemente con le speci cità di luoghi o culture pre-esistenti al loro arrivo. Nelle splendide rovine di Dougga (Fig.2 e 3) (Tunisia) o Palmira (Siria, Fig 4) possiamo ancora oggi osservare come le tipiche gure del mondo urbano portate da Roma, si siano mescolate con altre geogra e e culture, generando straordinarie forme di adattamento - “riconoscibili differenze” - ben diverse dalle
“The impossibility of being normal”. The territory of Italy: differences and antidotes to standardisation by Alberto Ferlenga
Producing differences, in culture and in the territory, has always been an Italian prerogative rooted in a complex history and a variegated landscape. But even the production of universal ideas about urban form has found more fertile ground in Italy than almost anywhere in the world. This twin set of apparently contrasting conditions at different scales has led to the rise of an Italian culture of the city, capable of generating models that have been reproduced everywhere in in nite variations. It could be said that Italian urban culture, starting with the Roman city, produced the rst forms of standardisation, yet at the same time cultivated the antibodies needed to prevent a generalised formal uniformity of cities. There is no doubt that, while in the past this attitude towards difference was instrumental towards inventing a landscape and producing a living archive of rich urban solutions, in more recent times development has taken more perverse forms. But even within a scenario of incomplete fragments, which has rarely expressed quality, it has continued to generate unexpected variations.
Nella pagina a anco, in alto: pittore dell’Italia centrale (già attribuita a Luciano Laurana), Città Ideale, 1480-1490. In basso: veduta di piazza S. Marco nei giorni della pandemia (foto di Umberto Ferro e Luca Pilot).
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1 - In alto a sinistra: Lucca, piazza dell’An teatro. 2 e 3 - Foto del foro e planimetria dell’antica città di Dougga (Tunisia) da “Africa. Le città romane” di A. Ferlenga, disegni di S. Castellano.
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omologazioni architettoniche realizzate in seguito, nelle stesse regioni, da poteri coloniali o modernità. Una attitudine alla interpretazione di condizioni speci che e alla variazione “resiliente” a climi o abitudini portata sui monti o tra i deserti da modelli tra i più alti tra quelli prodotti dalla cultura urba-
na di ogni tempo, che ha in uenzato una vasta area del Mediterraneo ma che, anche in patria, ha costituito un carattere indelebile, rinnovandosi con la città rinascimentale ed arrivando, sia pure con difficoltà, sino a noi. Queste considerazioni generali non vogliono certo negare altre “speci cità” meno edi canti della storia del territorio italiano, come i molti aspetti negativi che hanno contraddistinto l’ultimo secolo: errori, ritardi, sfregi a città e paesaggi, malaffare ecc.; ma intendono sottolineare l’esistenza di una forma di “resistenza” del territorio che continua a costituire, malgrado tutto, un tratto caratteristico del nostro Paese e forse, come cercherò di dire, una risorsa a più ampia scala. Non vi è dubbio, infatti, che se nel passato questa attitudine alla differenza ha contribuito ad inventare un paesaggio e a produrre un archivio vivente di ricchissime soluzioni urbane, nei tempi più vicini a noi abbiano prevalso forme perverse di sviluppo. Ne danno evidente testimonianza i centri direzionali non completati, i piani regolatori contraddetti, i centri storici degradati, le reti di trasporto lasciate a metà. Ma anche questo panorama di frammenti incompiuti, che raramente ha espresso qualità, ha continuato a generare variazioni impreviste. ( g.5-6-7-8) Con qualche azzardo si può leggere in ciò una forma di continuità dentro la quale le composizioni frammentarie e le commistioni appaiono più tipiche dei pochissimi esempi concepiti unitariamente, e spesso più interessanti pro-
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4 - Planimetria dell’antica città di Palmira, disegno di S. Castellano.
5, 6, 7 e 8 - Vedute della A4, foto di A Ferlenga.
prio per la loro capacità autonoma di instaurare rapporti imprevisti. È questo uno degli aspetti di quella tendenza a farsi modi care dai contesti che costituisce il denominatore comune della cultura architettonica italiana, popolare o elevata che sia, e che, oltre ad essere connotata da una estrema varietà linguistica e qualitativa, ha avuto il suo elemento di maggior riconoscibilità proprio nella capacità di rielaborare le differenze dei luoghi affiancandosi al “lavoro” autonomo di spazio e tempo. Se esiste, dunque, una “tradizione italiana della città” - e io credo che esista – essa ha da sempre compreso in sé i caratteri congiunti della speci cità e della universalità e, malgrado tutto, ha continuato ad operare. C’è da chiedersi, a questo punto, se ciò non
costituisca una somma di valori “relazionali” cui tornare a guardare in tempi in cui lo sviluppo urbano nel mondo è al massimo della sua espansione ma anche della sua crisi, e in presenza di un cambiamento epocale dei parametri attraverso cui valutare l’azione dell’uomo nei confronti dell’ambiente che lo circonda. Quella “tradizione”, infatti, oltre a diffondere bellissime città, veri e propri capolavori dell’”arte urbana”, ha lasciato, nei secoli, esempi virtuosi di una sostenibilità ante litteram che ha avuto tra le sue principali conseguenze anche una speciale forma di welfare, difficilmente registrabile da statistiche o ranking, che deriva all’uomo dal vivere meglio in luoghi dotati di una particolare qualità urbana. E per qualità, in questo caso, si intende un mix di bellezza degli edi ci,
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9 - Veduta di Messina dopo il terremoto del 1908.
10 e 11 - Entrata della Mostra sulla Ricostruzione, Milano 1945 e veduta del Cenacolo leonardesco colpito dalle bombe, foto di E. Peressutti.
qualità degli spazi pubblici, misura dei nuclei abitati, innervato da un sistema immateriale di relazioni con culture, cibi, paesaggi. Un complesso di cose che, malgrado le deturpazioni, continua a costituire la componente più ricercata di un viaggio in Italia ma che, proprio a partire dalla sua frammentarietà, adattabilità e capacità di produrre differenze, può essere preso ad esempio per una riconsiderazione generale degli spazi urbani del nostro tempo. Svolgendo il lo di questo ragionamento riprendo un punto per me fondamentale e cioè il fatto che tutto quanto è stato evidente, in termini di qualità, nel passato non scompare mai del tutto. Lo ha dimostrato, meglio di ogni studio o ricerca, lo sguardo fotogra co di Luigi Ghirri, sicuramente il più grande inter-
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prete del paesaggio italiano contemporaneo e di quella continua compresenza tra passato e presente, qualità e banalità, differenza e ripetizione che lo anima. Ciò che Ghirri ci ha mostrato, attraverso i suoi scatti è, in sostanza, la sopravvivenza, di una sorta di retrovalore fatto di drammaticità e di dolcezza, di contaminazioni e abbandoni, ma ancora in grado di generare riconoscibilità e, talvolta, benessere. Questa ennesima differenza è tanto più evidente se confrontiamo l’Italia con altre parti del mondo dove quel distacco epocale tra “città dei ricchi” e “città dei poveri”, magistralmente raccontato da Bernardo Secchi1, ha reso centri e periferie drammaticamente ed irreparabilmente separati. Al contrario, per 1 B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, ed. Giuseppe Laterza & Figli, Bari 2013.
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una serie di ragioni, ancora una volta storiche, questa frattura non si è mai compiutamente manifestata nel nostro Paese dove la mixité sociale, ancora presente in molte città, ha tra le sue conseguenze una minore incidenza delle tensioni e delle esclusioni territoriali drastiche. Ho sempre pensato che per de nire alcune dinamiche tipiche del nostro territorio, come quelle che ho qui velocemente descritto, si potesse riprendere il titolo di un vecchio lm sul ’68 americano: L’impossibilità di essere normale. È infatti una sorta di “impossibilità” alla normalità ad aver determinato in Italia le peggiori distruzioni, per la bellezza di ciò che si è distrutto, ma anche ad aver mantenuto in vita i semi di una rinascita possibile. Una riprova di ciò la si può trovare nella storia, purtroppo lunga, delle catastro nazionali, a partire dalla prima mediaticamente esposta, quella del terremoto di Messina del 1908 ( g. 9), ma soprattutto dalla Ricostruzione postseconda guerra mondiale ( g 10) in cui una intera nazione, ferita come mai lo era stata, ( g 11) ha visto rinascere e rinnovarsi non solo città, infrastrutture e monumenti ma anche discipline come il Restauro, o l’Urbanistica. E, in generale, ha determinato l’affermarsi di una nuova cultura architettonica, fatta di teorie e progetti, che ha avuto un ruolo importante sulla scena internazionale a partire dagli anni ’60. Per proseguire con le risposte ad altri disastri che si sono susseguiti con una certa frequenza dal dopoguerra ad oggi: terremoti, frane, alluvioni, caratterizzate più da un’ampia gamma di sperimentazioni che da un’idea univoca e seriale degli interventi di “riparazione”. Ciò ha determinato - e abbiamo parlato di questo con Nina Bassoli nella mostra Ricostruzioni tenutasi nel 2018 alla Triennale di Milano2 ( g 12) - un accumulo di esperienze che pochi altri paesi possono vantare di avere: dal dov’era com’era in Friuli, ( g 13) all’uso dell’arte e dell’architettura nel Belice, ( g. 14 e 16) dai restauri urbani dei Campi Flegrei, ( g. 15) alle città ricostruite nel Vajont o a Monteruscello ( g 17). Si potrebbe dire prendendo come caso emblematico quello del recupero del rione Terra a Pozzuoli, iniziato all’indomani del bradisismo che ha colpito nel 1980 la città campana e che ha permesso di rendere visibili millenni di strati cazioni - che i disastri italiani abbiano messo in luce 2 Ricostruzioni, Architettura, città, paesaggio nell’epoca delle distruzioni, mostra a cura di A. Ferlenga e N. Bassoli tenutasi alla Triennale di Milano dal 30 novembre 2018 al 10 febbraio 2019, catalogo a cura di A. Ferlenga e N. Bassoli, Silvanaeditoriale, Milano 2018.
e riattivato strati urbani nascosti del nostro territorio e della nostra cultura. Come se, almeno sino ad una certa epoca, il drammatico e ciclico riapparire nel paesaggio italiano di monumenti o case squarciati e di gente disperata e in fuga, avesse riacceso lo spirito della prima Ricostruzione nazionale portando con sé, con l’affinarsi dell’immediata risposta emergenziale, anche la volontà di pre gurare un futuro, sicuro e migliorato. Poi questa spinta si è fermata a partire dalla ricostruzione aquilana, che ha costituito in questo campo uno spartiacque importante. Hanno preso piede, al suo posto, una dilatazione ad oltranza della fase emergenziale e l’incapacità o la non volontà di progettare un futuro in termini economici, sociali e urbani, lasciando i luoghi colpiti in una condizione di sospensione senza speranza, che è preludio inevitabile all’abbandono. Ancora una particolarità, potremmo dire, ma questa volta drammatica, segno dell’esaurimento non
12 - Mostra Ricostruzioni, a cura di A. Ferlenga e N. Bassoli, allestimento F. Orsini tenutasi alla Triennale di Milano nel 2018. 13 - Lavori in corso per la ricostruzione “Com’era, dov’era” del duomo di Venzone in Friuli dopo il terremoto del 1976.
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14 - Progetto per la sistemazione del duomo di Salemi danneggiato dal il terremoto del Belice, A. Siza e R. Collovà.
15 - Progetto di restauro del “Rione Terra” a Pozzuoli danneggiato dopo il bradisismo a Pozzuoli del 1980 AA.VV.
tanto della capacità d’azione al momento del disastro (abbiamo pur sempre una delle migliori protezioni civili del mondo) ma di quella, ben più importante, di immaginare e programmare forme e modalità della ricostruzione (penso a Amatrice e agli altri disgraziati luoghi dell’ultimo sisma in una condizione di assoluta stasi) che potrebbe avvalersi, se solo si guardasse indietro, di una delle esperienze ricostruttive più ricche al mondo.
16 - La nuova piazza di Salemi sui resti del duomo danneggiato dal terremoto del Belice, A.Siza, R. Collovà.
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Per concludere, posso usare come ultimo esempio a sostegno della mia tesi ciò che stiamo attraversando in questi mesi. Un momento di passaggio terribile e inatteso; un’emergenza globale che ha messo in evidenza come non mai le insufficienze di quelle città, di quegli spazi e di quegli oggetti omologati che negli ultimi decenni hanno accompagnano la vita di tutti noi ( g 18). Non vi è distruzione materiale, questa volta, ma non per questo i danni sono minori. E ancora una volta le diversità e “resistenze” espresse dalla
nostra millenaria esperienza urbana e rivelate dai lockdown potrebbero tornare utili non solo come terreno di studio ma come strumento di progetto. Penso a Venezia in que-
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17 - Planimetria della città nuova di Monteruscello costruita dopo il bradisismo a Pozzuoli, A. Renna.
18 - Lima, gigantismi nella città contemporanea, foto di A.Bonadio.
sto ultimo anno, città ferita e svuotata dalla sua principale fonte di reddito, il turismo, ma anche, città “diversamente globale”, coacervo di diversità, archivio di città, che ha mostrato, in modo evidente, nella difficoltà odierna, non solo i rischi che corre come patrimonio universale ma anche le potenzialità che possiede. Venezia ( g. a pag. 10, in basso), nella pandemia, ha messo in luce quanto una città possa avere una dimensione commisurata al vivere sostenibile, mantenere un rapporto equilibrato con il proprio paesaggio, essere percorsa a piedi, essere sicura oltre che bella e viva, essere aperta ad accogliere nuove tec-
nologie e nuove forme di lavoro e di studio. Un modello, insomma, non certo nelle sue architetture uniche, ma nella sua sostanza di fondo, fattosi ancora più chiaro nel primo disastro veramente globale della contemporaneità. Un esempio di come la differenza possa diventare un antidoto contro la globalizzazione perversa e le sue conseguenze e, anche dentro una crisi terribile, mostrare una via ai molti luoghi che non riescono più a immaginare, scenari e soluzioni per il proprio futuro. © Riproduzione riservata
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La ricostruzione dell’immagine. Progetti per i centri storici tedeschi di Michele Caja
La memoria della città europea è un patrimonio che si conserva nella forma delle sue tracce storiche, nei suoi spazi ed elementi naturali, nei monumenti e manufatti urbani, nella scala minuta di lotti e parcelle e nella tipologia di case che de niscono la struttura degli isolati storici. Ma anche nelle raffigurazioni che di questa ci sono state tramandate attraverso dipinti e ritratti che ne ritraggono l’immagine urbana (Stadtbild) come si è lentamente costruita nel tempo in quanto luogo unico ed eccezionale. Non è un caso che per la recente ricostruzione degli isolati di Dresda si siano presi come riferimenti i celebri quadri del pittore italiano Bernardo Bellotto, che ritraggono in modo preciso e de nito gli spazi e le architetture come erano un tempo.
Dalla perdita del centro al cuore della città L’origine della consapevolezza di tale memoria risale agli anni ’50 del secolo scorso quando, per la prima volta, ci si è resi conto della perdita del centro in molte città europee, dopo i danni subiti dalla guerra e le successive trasformazioni legate al traffico veicolare e a questioni tecnico-funzionali. Nasce da qui la volontà di ridare un cuore alla città non solo inteso come fulcro della vita urbana proporzionata alla scala dell’uomo, ma anche come elemento rappresentativo dell’identità culturale di una comunità1. Merito di tale nuova prospettiva allargata alla secolare storia della città europea è stato quello di evidenziare come l’urbanistica del Moderno – così attenta alla questione delle soluzioni viabilistiche e del traffico, della zonizzazione funzionale, del decentramento residenziale, della ottimizzazione degli spazi abitabili 1 E.N. Rogers, J.L. Sert, J. Tyrwhitt (a cura di), The Heart of the City. Towards the humanization of Urban life, Pellegrini and Cudahy, New York 1952.
The reconstruction of the image. Projects for historic city centres in Germany by Michele Caja
The memory of the European city is a heritage preserved in the layout of its traces, spaces and natural elements, in monuments and urban artefacts, in the small structure of the lots and parcels that make up historical blocks. As well as in the representations that have been handed down to us through paintings and urban portraits that depict the image of this unique place that has built up slowly over time. The rebirth of German historical centres shows how the city today is observed through this iconographic perspective, with the intention of reclaiming the lost historicity of its urban image, whereas the credibility of this image always depends on the quality of the individual project, on the appropriateness of the architectural and technical solutions adopted, such as to put into practice, and not only to stage, its construction over time. Therefore, these cases are not to be understood as nostalgic attempts to reproduce the city as it was, nor as simple urban regeneration projects, but as mature advanced examples of critical reconstruction, according to the meaning introduced in the European debate since the 1970s. Nella pagina a anco, in alto: Bernardo Bellotto, Neumarkt in Dresden, 1747 (fonte: Hermitage); in basso: Dom Römer Areal, Francoforte: sovrapposizione dell’ingombro del Technisches Rathaus (in giallo) sulla pianta del Dom Römer (Ravenstein 1861).
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la lunga storia della città, di cui quella contemporanea rappresenta solo l’ultima di una serie di livelli sovrapposti, parzialmente cancellati ma non del tutto rimossi, dell’impianto urbano. Non è un caso che la scultura di Giorgio De Chirico gli Archeologi sarà posta come nume tutelare alla mostra sulla ricostruzione critica di Berlino tenutasi a Berlino e poi alla Triennale di Milano a metà degli anni ’803, dove memoria, invenzione e ricostruzione convivono nell’eterogeneità dei progetti presentati. Compito del progetto diviene dunque quello di svelare quei livelli preesistenti che troppo disinvoltamente erano stati cancellati da nuovi impianti stradali e macrostrutture edilizie, come nel caso del Technisches Rathaus sovrapposto alla struttura minuta del centro storico di Francoforte. Proprio tale sguardo archeologico accomuna quelle esperienze della ricostruzione critica agli interventi più recenti qui analizzati, anche se in questi si evidenzia una maggiore aderenza all’iconogra a storica tramandata, tale da mettere in opera, e non solo in scena, la sua immagine urbana costruitasi nel corso del tempo. Non semplici tentativi nostalgici di riprodurre super cialmente la città com’era dov’era, né sperimentazioni urbane fondate sul pluralismo linguistico, ma interventi coordinati secondo precise linee-guida che inaugurano una nuova fase della ricostruzione critica intesa come principio urbano.
Tre fasi della ricostruzione 1 - G. De Chirico, Gli Archeologi (1968) davanti al piano IBA per Berlino, 1968 (da: La ricostruzione della città. Berlino 198487, XVII Triennale, 1985: copertina del catalogo mostra).
– avesse completamente ignorato, se non volutamente rimosso, la struttura densa e compatta dei centri storici, spesso sostituita da modelli insediativi aperti e da tipologie a grande scala. Non è un caso che il tema del cuore ritornerà centrale a Berlino alla caduta del muro con la serie di proposte elaborate per Berlin Morgen da diversi architetti internazionali, in molte delle quali il futuro della città viene ritrovato nella memoria dei suoi tracciati e dei differenti livelli della sua straticazione storica2.
Uno sguardo archeologico sulla città Alla luce di queste esperienze, si introduce una prospettiva “archeologica” per rileggere 2 V. M. Lampugnani, M. Mönninger (a cura di), Berlin morgen. Ideen für das Herz einer Groszstadt, Hatje, Stuttgart 1991.
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Più in generale questi progetti inaugurano una fase nuova nella storia della ricostruzione – o ricostruzione della storia, secondo Winfried Nerdinger4 – dei centri storici europei nel XX secolo. Dalla prima fase ricostruttiva del dopoguerra, dove città come Varsavia, Danzica, Münster o Colmar si ponevano l’obbiettivo di ripristinare l’immagine super ciale delle facciate di case storiche, dietro a cui spesso si mascheravano nuove destinazioni funzionali e distributive che stravolgevano l’impianto tipologico originale. Alla seconda fase degli anni ’70-’80, quando in modi diversi si tentava di riproporre la struttura insediativa della città storica: dall’esperienza più propriamente conservativa 3 Immagine tratta da copertina di: M. De Michelis, P. Nicolin, W. Oechslin, F. Werner (a cura di), La ricostruzione della città. Berlino 1984-87, XVII Triennale, 1985. 4 W. Nerdinger, Costruzione e ricostruzione della continuità storica, in: in: «Aion», Ricostruzione, n. 21, 2018, pp. 16-23
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degli isolati bolognesi ricostruiti in forme tipologiche da Pier Luigi Cervellati5 a Bologna, a quella legata ai nuovi processi costruttivi fondati sull’impiego della prefabbricazione nel Nikolaiviertel di Berlino Est. Sino ad arrivare al momento in cui la ricostruzione diviene scelta critica e tema progettuale: dai primi contro-progetti di Léon Krier per la ricostruzione di città tedesche come Brema alla suddetta Internationale Bauausstellung Berlin (IBA)6, il principio ricostruttivo assumerà una de nizione formale e un’accentuazione interpretativa, in bilico tra revisionismo e sperimentazione7. La terza fase qui considerata può essere vista come la conseguenza logica di tale approccio critico-interpretativo, seppur più attento nei confronti dei precedenti storici. Rispetto ai quali, le nuove realizzazioni oscillano tra 5 P.L. Cervellati, R. Scannavini, C. De Angelis, La nuova cultura delle città. La salvaguardia dei centri storici, la riappropriazione sociale degli organismi urbani e l’analisi dello sviluppo territoriale nell’esperienza di Bologna, Edizioni scienti che e tecniche Mondadori, Milano, 1977. 6 H.-W. Hämer, J. P. Kleihues (a cura di), Idee Prozess Ergebnis. Die Reparatur und Rekonstruktion der Stadt, I.B.A. 1987/ Fröhlich & Kaufmann, Berlin 1984. 7 M. Caja, Ricostruzione critica come principio urbano e altri scritti, Aión, Firenze 2017.
riproduzioni lologiche – vere e proprie riproposizioni in scala 1:1 di edi ci storici preesistenti in situ – ad altre in cui il taglio critico e interpretativo introdotto dall’IBA viene afnato in maniera più aderente all’immagine storica originale.
Correggere la città Per la portata di tali interventi, la critica recente ha parlato di una nuova ondata di ricostruzionismo letta come reazione al decostruttivismo latente, nato alla ne degli anni ‘80 ma in parte ancora presente in forma più o meno latente. Rispetto alla volontà di questo di dissezionare analiticamente la città storica sottoponendola a concettuali processi di astrazione, obbiettivo di questo nuovo fenomeno è piuttosto quello di reintegrarne i frammenti sopravvissuti e le tracce ancora presenti, per ricostruire una versione il più verosimile possibile dell’immagine storica andata perduta. Tra le varie ragioni che hanno portato a questa scelta, quella principale si spiega come risposta alla crisi di rappresentazione e d’identità a cui questi centri sono andati incontro dal dopoguerra ad oggi, in seguito a scelte sbagliate o oggi
2, 3, 4 e 5 - Edi ci a grande scala rimossi per permettere la realizzazione dei nuovi interventi ricostruttivi (dall’alto a sin.): Dresda, Neumarkt: Ampliamento della Questura Polizia; Berlino, Friedrichswerder: Ministero degli Affari Esteri; Francoforte: Municipio tecnico; Potsdam: Istituto per la formazione insegnanti.
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6 e 7 - Hildesheim: l’Hotel Rose e il ricostruito Knochenhaueramtshaus.
non più ritenute idonee, fondate su presunte nuove idee di città che si sono rivelate per lo più fallimentari. Tutti i casi qui considerati sono da intendersi come correzioni critiche di interventi passati della storia recente, attraverso la demolizione di edi ci che – per scala, impianto morfologico e tipologico, soluzioni architettonico-costruttive – appaiono oggi inadeguati e fuori luogo rispetto all’immagine storica che si vuole ripristinare. In questo senso, questi progetti costituiscono una nuova fase di ri essione sui caratteri dell’abitazione nelle città tedesche8, volta a riappropriarsi dell’identità e della memoria perdute, in un rapporto dialettico tra continuità, ricostruzione e nuova progettazione architettonica. All’interno della storia della ricostruzione, questi interventi si rivelano paradigmatici per le questioni che sollevano, ma anche per le soluzioni concrete che offrono, nel loro rapporto dialogico tra originale, copia e reinterpretazione, tali da renderli testimoni eccezionali della condizione contemporanea in cui viviamo in cui il rapporto tra autenticità e riproducibilità è continuamente messo in discussione9.
Demolire per ricostruire Un primo caso paradigmatico in questo senso è rappresentato da Hildesheim, la capitale della Bassa Sassonia, in cui un edi cio del dopoguerra è stato demolito per permettere la ricostruzione dell’antico ensemble di origine 8 G. Grassi, Caratteri dell’abitazione nelle città tedesche (1966), in: M. Caja, M. Landsberger, S. Malcovati (a cura di), Tipologia architettonica e morfologia urbana. Il dibattito italiano – antologia 1960-1980, LibraccioEditore, Milano 2012. 9 Sulle diverse interpretazioni del principio di autenticità vedi: T. Mager, Der Begriff der Authentizität im architektonischen Erbe, W. De Gruyter, Berlin/Boston 2016.
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medievale. Per la ricostruzione dell’edi cio storico più rappresentativo della Marktplatz – la Knocherhaueramtshaus (la casa della corporazione dei macellai) – costruita secondo la tipica struttura a traliccio in legno comune a molti altri edi ci che si affacciavano sulla piazza e de nita da Georg Dehio come “la più monumentale tra le case in legno in Germania”-, è stato demolito un anonimo albergo dalle tipiche forme dell’International Style degli anni ‘6010. Dopo questa esperienza, gli altri casi qui trattati hanno seguito una strategia simile di sostituzione puntuale. Al Neumarkt di Dresda, è stato necessario rimuovere un Moloch in cemento armato risalente agli anni ‘80, l’ampliamento del Presidio della Polizia, per permettere la reintegrazione del perimetro originale di uno degli otto isolati preesistenti, il Quartier III, ricostruito negli ultimi due decenni11. Al Friedrichswerder di Berlino, il Ministero degli Esteri (Aussenministerium, 1964-67) – costruito durante il regime socialista sulla area della Schinkelplatz, occupando in parte l’area della Baukademie e nascondendo con la sua altezza la retrostante Friedrichswerdersche Kirche, entrambi capolavori di Karl Friedrich Schinkel –, è stato demolito dopo la riuni cazione per permettere la ricostruzione degli isolati urbani preesistenti12. A Francoforte, il Technisches Rathaus (1972-74), un edi cio fuori scala in struttura di cemento e acciaio, dalle forme brutaliste di matrice britannica, 10 B. Häger, Der Marktplatz zu Hildesheim und das Knochenhaueramtshaus, in: «Arch+», n. 204, 2011, pp. 70-75 11 SAK (Sächsische Akademie der Künste) und Stadtplanungsamt der Landeshauptstadt Dresden (a cura di), Historisch contra modern? Er ndung oder Rekonstruktion der historischen Stadt am Beispiel des Dresdner Neumarkts, Akademie der Künste u. Stadtplanungsamt, Dresden 2008. 12 H. Stimmann, Berliner Altstadt. Neue Orte und Plätze rund um das Schloss, Dom Publisher, Berlin 2014.
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è stato asportato nel 2010 per permettere la realizzazione del Dom-Römer Areal, costruito secondo il tracciato originario di piccole strade e piazze13. A Potsdam il grande complesso edilizio sulla Friedrich-Ebert Strasse (l’exIstituto di formazione degli insegnanti, poi sede della FHP-Fachhochschule Potsdam), è stato recentemente rimosso per fare spazio ai nuovi isolati in corso di costruzione intorno al ricostruito Castello e al ricon gurato Neuer Markt14. A Lubecca due scuole professionali degli anni ’50 sono state pure spostate per riproporre la struttura originale del parcellario medievale del quartiere dei Fondatori (Gründungsviertel). Tutti questi edi ci, risalenti allo stile internazionale del dopoguerra, nelle diverse declinazioni date dal regime socialista a Est o dalla gestione tecnocratica a Ovest, hanno 13 P. Sturm, P. Cachola Sturm (a cura di), Die immer Neue Altstadt. Bauen zwischen Dom und Römer seit 1900, Jovis, Frankfurt a.M./Berlin 2018. 14 STP (Sanierungsträger Potsdam GmbH) (a cura di), Potsdam. Der Weg zur neuen Mitte, Nicolai, Berlin 2012
introdotto, con i loro volumi e la loro architettura, dei corpi estranei e fuori scala all’interno del tessuto minuto originario, un tempo fulcro della vita urbana. Per questi motivi, dopo lunghi e controversi dibattiti, in cui i cittadini sono stati coinvolti attivamente, sostenuti dalle forze politiche e dagli investitori, la decisione nale di sostituirli ha offerto l’opportunità di ripensare all’identità perduta di questi luoghi secondo spazi urbani e tipologie architettoniche reinterpretate rispetto alla contemporaneità.
8 e 9 - Dresda, Neumarkt: l’isolato Quartier I, ieri e oggi. 10 e 11 - Dom Römer Areal, Francoforte: l’Hühnermarkt, nel 1904 e oggi.
Il modello misto Diversamente da Hildesheim – una vera e propria ricostruzione in stile della sostanza originale – il modello misto adottato in questi casi si basa sulla coesistenza di Leitbauten e Neubauten – edi ci pilota ricostruiti come quelli originali e nuovi edi ci ispirati a quelli esistenti. Questo modello sarà per la prima volta adottato all’inizio del nuovo millennio negli otto isolati urbani ricostruiti intorno al Neumarkt
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12 e 13 - Berlin, Friedrichswerder: gli isolati intorno alla Schinkelplatz nel 1867 (Liebenow) e oggi (Brenner, 2005).
14 e 15 - Potsdam, Neuer Markt: Palazzo Barberini, nel 1907 (foto: E. Eichgrün) e la ricostruzione attuale (Hilmer & Sattler, Albrecht).
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di Dresda, in concomitanza con il completamento della Frauenkirche. Anche se criticato per la mediocre qualità architettonica e costruttiva dei primi isolati ricostruiti – le cui facciate sembrano in effetti più delle scenogra e teatrali dietro a cui spesso si nascondono edi ci ad uso ricettivo e commerciale a scala ben più grande rispetto alle case originali – l’ensemble complessivo ancora in fase di completamento è tuttavia stato in grado di ricreare la complessa spazialità del sistema di piazze e strade originarie sviluppate intorno alla cattedrale. Allo stesso modo, il Dom Römer Areal di Francoforte – che ha vinto il prestigioso MIPIM Award 2019 – è costituito da un insieme di piccole case a schiera di cui circa un terzo copia degli originali e il resto affidato ad una vasta gamma di architetti locali e non. Anche qui la struttura originaria a scala ridotta del tessuto storico viene ride nita secondo un’attenta riproposizione degli edi ci risalenti ad epoche diverse, dal Medioevo al
Rinascimento e al Barocco. In questo processo, gli architetti, così come gli artigiani e gli artisti coinvolti, sono subentrati solo dopo un pubblico dibattito basato sulla partecipazione collettiva dei cittadini, alcuni dei quali direttamente coinvolti in quanto testimoni diretti della città prima della guerra. Qui la permanenza di antichi reperti – frammenti di sculture antiche, elementi decorativi e costruttivi utilizzati come vere e proprie pietre da costruzione – ha offerto l’opportunità di reintegrare il vecchio con il nuovo, rendendo più veritiera la riproduzione dell’immagine storica originaria A Berlino gli isolati sulla Schinkelplatz e il Werderscher Markt – luoghi strategici del terzo nucleo storico del Friedrichswerder – sono stati da poco ultimati da un team di studi locali e non, sulla base di un piano generale elaborato secondo una struttura nuova di lotti passanti da strada a strada e una tipologia di case a blocco con terrazzamenti aperti verso i cortili interni.
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La validità del modello misto sembra essere riconfermata negli altri due casi qui analizzati. Gli isolati intorno al Neuer Markt di Potsdam, che ripongono la spazialità della piazza storica, si basano su un piano generale (Leitbautenkonzept) del 2012, secondo il quale sono state individuate diverse tipologie di intervento. Queste vanno dalla ricostruzione fedele delle facciate originali di edi ci settecenteschi – importati soprattutto dall’Italia secondo modelli palladiani e rinascimentali e ricostruiti come copie di copie (tra cui i palazzi Barberini, Pompei e Chiericati) – a case di nuova concezione che però sottostanno a linee guida volumetrico-compositive prestabilite. Anche nel caso degli isolati urbani stretti e allungati di Lubecca è stata seguita una loso a simile, dove edi ci pilota ricostruiti coesisteranno accanto a reinterpretazioni contemporanee delle case gotico-mercantili tipiche della città anseatica. Sulla base del Rahmenplan Gründungsviertel 2015 – che ha visto la partecipazione attiva dell’UNESCO – si sono de nite le basi per la riorganizzazione dell’antico quartiere sulla base degli allineamenti stradali originali, la differenziazione delle tipologie architettoniche e la variazione delle facciate in base alla forma dei tetti e alle altezze di gronda. La struttura originale dei lotti viene così mantenuta, pur adattandosi alle richieste funzionali attuali e introducendo un’ampia gamma di diversi cati usi e forme di abitare, anche di tipo sociale, all’interno del centro storico della città. Da questi esempi si delinea un modo nuovo di porsi nei confronti dell’immagine storica pervenutaci, intesa non solo come semplice memoria da rievocare in forme più o meno contemporanee, ma come concreto riferimento riproducibile, pur tenendo conto delle tecnologie e dei criteri di sostenibilità
attuali. È ancora presto per valutare se il loro effettivo ruolo all’interno della città si limiti alla pura immagine o divenga strutturale alla vita reale di chi ci vive. Ossia, se questi centri ricostruiti non rimangano semplici attrazioni turistiche o episodi interessanti dal punto di vista culturale-architettonico, ma siano in grado di divenire veri e propri luoghi dell’abitare in grado di riattivare il senso di comunità perduto nel corso del tempo15.
16 e 17 - Lubecca, Gründungviertel: piano di parcellizzazione (2015); vista del quartiere in costruzione (2020).
© Riproduzione riservata
15 Per una trattazione più ampia sul tema vedi: M. Caja (a cura di), Neue Projekte in historischen Deutschen Städten / Nuovi progetti in centri storici tedeschi, «Aión», n. 23, 2019.
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Le ragioni di Königsberg: fenomenologia di una città perduta di Marco Falsetti
La città di Königsberg, che fu per secoli capitale della Prussia, nonché uno tra i centri più vivaci del pensiero e della cultura europei, ha ufficialmente cessato di esistere nel 1945 sostituita da Kaliningrad, il tetro agglomerato realizzato nel dopoguerra sulle sue rovine, nel tentativo di obliterarne la memoria storica. La tragica vicenda di Königsberg, il cui antico tessuto – denso di monumenti e testimonianze storiche – è stato spazzato via dagli eventi bellici e dalle successive politiche sovietiche, continua a rappresentare una tra le più vistose ferite della guerra fredda, impedendo il recupero di una identità urbana, ancora condizionata dalle conseguenze del secondo con itto mondiale. L’ingresso degli stati baltici nell’Unione Europea, nel 2004, al quale ha fatto seguito un vivace ventennio di risveglio nazionale culminato nelle celebrazioni per il centenario dell’indipendenza del 2018, ha riacceso l’interesse sull’oblast di Kaliningrad, amministrativamente parte della Federazione Russa, ma da sempre legato alla storia tedesca. La singolare condizione geopolitica in cui vivono gli abitanti di Königsberg/Kaliningrad – separati sicamente dalla madrepatria e culturalmente estranei al territorio in cui risiedono - unita agli effetti della difficile situazione economica, sta spingendo molti cittadini a interrogarsi sul senso della propria identità, rivolgendosi all’architettura nel tentativo di riscoprire – e recuperare – il passato del luogo.
La “Montagna del Re”: alcuni cenni di storia recente Negli ultimi anni il problema dell’identità dei luoghi, e il rapporto che questi intessono con la memoria, la storia e la morfologia urbana, è divenuto il fulcro dell’interesse crescente di diverse discipline, come l’antropologia culturale, la lologia, le scienze politiche e
The ratio of Königsberg: phenomenology of a lost city by Marco Falsetti
The city of Königsberg, which for centuries was the capital of Prussia and one of the most vital centres of European thought and culture, ceased to exist in 1945 (destroyed by the ruinous bombing of the British RAF and later by the urban battle fought against the Red Army). It was replaced by Kaliningrad, the bleak post-war Soviet settlement built on its ruins. Its story represents one of the most tragic examples of cancelling the historical memory of territories, since the modi cation of the toponyms and the physical destruction of the German heritage was accompanied by an effort at ethnic replacement unprecedented in history. The singular geopolitical condition in which the inhabitants of Königsberg/Kaliningrad live today, – physically isolated from the “motherland” and culturally extraneous to the territory in which they live – combined with the effects of the complex economic situation aggravated by the pandemic, is pushing the inhabitants of the city to question their sense of identity, turning to architecture in an attempt to rediscover – and recover – the past of the place. In recent years, alongside bland initiatives aimed at accepting a historically questionable state of affairs - such as the conciliatory symposium “Kaliningrad: Visions of the future” in 2005, aimed at highlighting the absence of German claims and the full acceptance of the current situation - there has been a heated debate between citizens and authorities over the fate of Königsberg’s city centre and the castle area (the Altstadt), a result of the new sensibility and Germany’s twenty years of experience in rebuilding its lost heritage.
Nella pagina a anco, in alto: Kneiphof con la Cattedrale e il Collegio Albertinum in una foto degli anni 30; in basso: Abaco di tipologie edilizie e dettagli costruttivi, tratto da Stadt- und Landhäuser in Ostpreußen, di Richard Dethlefsen.
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1 e 2 - Due foto di Königsberg nel 1941 e nel 2019 che evidenziano il drammatico stravolgimento del suo paesaggio urbano con la scomparsa di tutti i landmark che identi cavano la città.
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la geogra a. Allo stesso tempo, la diffusione globale degli studi sui caratteri del territorio e le recenti esperienze di ricostruzione avvenute in diverse città europee, ha gettato nuova luce sulle possibilità di recupero di brani urbani danneggiati, alterati o distrutti dal corso degli eventi bellici. In Germania, in particolare, l’ultimo ventennio è stato caratterizzato da numerosi episodi di ricostruzione critica, alcuni dei quali di fondamentale importanza per la centralità di ruolo urbano e storico degli edi ci coinvolti, basti pensare al Berliner Stadtschloss, al Neumarkt di Dresda o all’Alter Markt di Potsdam, solo per citarne alcuni. Di fronte ai fallimenti sempre più evidenti di un certo tipo di architettura – e del modello socio-economico che le sottende – negli ultimi anni si sta affermando con sempre maggior successo la prospettiva della ricostruzione critica come alternativa possibile alla realizzazione ex-novo e alla pratica dei grandi concorsi, specialmente in quegli ambiti dove
il nuovo è chiamato a sostituire importanti episodi urbani ormai perduti. Va comunque osservato come questa pratica abbia trovato maggior successo in tutti quei contesti che hanno conosciuto, unitamente alle rovine belliche, distruzioni “mirate” di edi ci simbolici sopravvissuti al con itto, molti dei quali situati nell’Europa centro-orientale. Tra gli esempi più celebri, oltre naturalmente alla Germania, va annoverata l’Ungheria, dove dallo scorso anno è in corso la ricostruzione del Palazzo dell’Arciduca Giuseppe e del Palazzo delle Forze Armate, demoliti negli anni 60 dal regime comunista.1 Ai diversi paesi emersi dalla cortina di ferro (quasi tutti con uiti nell’Unione Europea), la ricostruzione di complessi ad alto contenuto simbolico – demoliti a scopo ideologico –, è pertanto apparsa come un processo di riscoperta (e riappropriazione) di segmenti perduti della propria identità, a partire dai quali ricostruire una storia nazionale percepita come “interrotta”. Gli eventi drammatici occorsi nell’ultimo secolo hanno infatti portato, oltre ad un continuo mutamento di stati e con ni, a massicci esodi di popolazioni (il più consistente, quello tedesco, è stimato tra i 13 e i 16 milioni di persone) ai quali è corrisposta la sparizione di intere aree culturali, come quella prussiano-orientale. Sebbene siano molte le città tedesche ad aver subito danni terribili nel corso della IIGM, il caso di Königsberg merita in tal senso una menzione speciale, in quanto, alle devastazioni materiali si è accompagnata, negli anni immediatamente successivi alla ne del con itto, un’opera senza precedenti di sostituzione etnica che è, per molti versi, alla base dell’odierna crisi identitaria dell’area, sospesa tra due mondi e due culture senza appartenere a nessuna. Nel corso del secondo con itto mondiale Königsberg fu, insieme a Dresda, la città tedesca più colpita dai bombardamenti alleati sugli obbiettivi civili, il più violento dei quali – condotto con bombe incendiarie dalla Royal Air Force britannica – fu diretto, nell’Agosto del 1944, contro il centro storico della città e il denso tessuto urbano dei distretti di Altstadt, Löbenicht e Kneiphof, che bruciarono per giorni. Un anno più tardi, la città fu teatro di una campale battaglia tra la Wehrmacht e l’Armata Rossa, che ridusse in macerie gran parte degli edi ci superstiti. Alla ne della guerra, l’intera Prussia Orien1 Cfr. https://dailynewshungary.com/palace-ofarchduke-joseph-in-castle-district-to-be-rebuilt-after50-years-photos/
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3 - Il Königsberger Schlossteich, il grande specchio d’acqua arti ciale a ridosso del Castello, un tempo molto frequentato dagli abitanti della città.
4 - Le rovine dell’Altstadt in una foto del 1957.
tale2 fu occupata dall’Unione Sovietica e, a seguito della Conferenza di Potsdam, divisa tra Polonia, Lituania e Russia; Königsberg e 2 La Prussia Orientale, un antico territorio colonizzato dai cavalieri teutonici a partire dal XII secolo, divenne stato sovrano nel 1525, con la secolarizzazione dei beni e dei territori dell’Ordine ad opera di Alberto di Prussia, ultimo gran maestro e primo duca. La capitale Königsberg, edi cata su un’isola interna del ume Pregel rappresentò per secoli uno dei fari della cultura tedesca, soprattutto attraverso l’università Albertina, fondata nel 1544, nella quale Kant insegnò per quasi cinquant’anni, e della quale fu rettore per due volte.
il territorio circostante furono annessi direttamente alla RSFSR3. L’espulsione totale della popolazione tedesca (Heimatvertriebene) – e la sua sostituzione con immigrati provenienti dall’Asia Centrale, dall’Ucraina e dalla Bielorussia – rappresenta ancora oggi, una tra le più fosche pagine del dopoguerra sebbene, per ragioni di opportunità politica, la sua trattazione sia stata a lungo evitata nei paesi occidentali. Nel suo recente volume From 3 Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa.
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5 - L’Altstadt alla ne degli anni ‘30. 6 - Facciata seicentesca sulla Fleischbänkenstraße.
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German Königsberg to Soviet Kaliningrad: Appropriating Place and Constructing Identity Jamie Freeman ha de nito l’annessione della città “una tra le più radicali distruzioni del passato mai avvenute”, un’opinione che in parte riprende quella di Inesis Feldmanis, preside della Facoltà di Storia e Filoso a dell’Università della Lettonia, per il quale l’annessione di Königsberg da parte dell’Unione Sovietica rappresenta “un errore della storia”. Nel 1946 Kӧnigsberg venne infatti rinominata Kaliningrad in “onore” di Mikhail Kalinin, il Presidente del Soviet Supremo, fedelissimo di Stalin; contestualmente venne cambiato il nome a tutte le città e i villaggi della Prussia Orientale col proposito di cancellare la memoria storica di quegli antichi territori4. Ben più radicale delle trasformazioni toponomastiche, fu l’opera di sistematica demolizione delle tracce siche del passato tedesco, molte delle quali sopravvissute in buono stato alla guerra. Tale processo, ripreso e implementato soprattutto negli anni di Brežnev, è responsabile dei danni irreparabili inferti al patrimonio artistico e architettoni-
co, non solo della Prussia orientale ma anche della DDR: proprio in quegli anni furono infatti distrutti, tra gli altri, il Berliner Schloss (1950), lo Stadtschloss di Potsdam (1959) e la Paulinerkirche di Lipsia (1968). Il Palazzo Reale (o Castello) di Königsberg, capolavoro architettonico frutto della sedimentazione di epoche e stili differenti (all’interno del quale, nel 1861, era stato incoronato Guglielmo I Imperatore di Germania) fu fatto demolire per ordine diretto di Brežnev nel 1968, nonostante le proteste di studenti ed intellettuali cittadini (che per quanto non autoctoni ne riconoscevano l’incommensurabile valore storico-artistico) e sostituito dalla Casa dei Soviet di Shvartsbreim e Misozhnikov.5 La stessa sorte toccò alle grandi tenute nobiliari del circondario, come Friedrichstein, Schlobitten e Klein Beynuhnen, oltre ad una quantità innumerevole di chiese, castelli e fabbriche civili, che ricordavano il passato tedesco della regione. Del centro di Königsberg, le cui case a terminazione triangolare, a gradini o a scudo avevano conosciuto nel tempo poche mutazioni sostanziali (circostanza
4 I toponimi di città e villaggi furono completamente stravolti adattandoli, nella maggior parte dei casi, a gure minori di combattenti della seconda guerra mondiale. L’antica Tilsit, dove Napoleone aveva rmato la pace franco-russa, divenne l’anonima Sovetsk mentre Tapiau divenne Gvardeysk, InsterburgCherniakhovsk ed Heiligenbeil-Mamonovo, solo per fare alcuni esempi.
5 La Casa dei Soviet, costruita direttamente sulle rovine del castello, si rivelò n dal principio strutturalmente instabile sia per la natura del sito – non del tutto boni cato – che per la composizione geologica dell’area – paludosa e inadatta a sostenere i 16 piani della costruzione - ragion per cui non fu mai completata. Nel Novembre 2020, dopo 50 anni di abbandono, è stata in ne decisa la demolizione.
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7 e 8 - Königsberg, ieri e oggi.
questa responsabile della singolare omogeneità del tessuto urbano) oggi non è rimasto praticamente nulla, in un cupo avverarsi dell’urbicidio di moorcockiana memoria; il centro della città, un tempo famosa per la sua ricchezza architettonica, si presenta oggi come una desolante spianata solcata dalle sei corsie del Prospekt Leninskiy6, che attraversa la Kneiphof (oggi denominata “Isola di Kant”) senza tuttavia discendervi. Quest’ultima è divenuta oggi uno spoglio parco urbano, all’interno del quale si erge l’ultima vestigia del passato splendore: la cattedrale di Königsberg (in parte ricostruita negli anni 90), sul lato della quale riposa il suo più illustre cittadino: Immanuel Kant. Se delle aule dell’Università Albertina, testimoni della lunga quanto travagliata carriera accademica del losofo7, rimane oggi un vago ricordo – espresso dal citazionista edi cio dell’Università Federale baltica –, l’area del centro continua ad apparire come un colossale vuoto urbano. Il problema del centro resta pertanto il tema più difficile intorno al quale si addensa il dibattito politico dell’enclave, stante il fatto che un numero sempre maggiore di 6 L’oblast di Kaliningrad è caratterizzato dalla singolare sopravvivenza della toponomastica sovietica, scomparsa in quasi tutto il resto della Federazione Russa. 7 Cfr. Di Donato F. (2006), Università, scienza e politica nel Con itto delle facoltà di Kant, in Bollettino telematico di loso a politica, pp. 1-37.
persone lamenta l’assenza di carattere dell’odierna Kaliningrad, un fattore che si è acuito con la diffusione e riscoperta letteraria della vecchia città prussiana. Nel tentativo di uscire dall’impasse i governatori che si sono avvicendati negli ultimi anni hanno promosso una serie di concorsi dagli esiti discutibili, nalizzati ad un recupero del centro storico in chiave modernista-citazionista (stando ben attenti ad evitare riferimenti espliciti all’architettura tedesca). L’ultimo di questi, dall’emblematico titolo “The Heart of the City” è stato vinto dal gruppo pietroburghese Studio 44 in collaborazione con l’Istituto di Sviluppo Territoriale (Institute of Territorial Development) con una proposta che recupera la lottizzazione medioevale dell’Altstadt ipotizzando una spazialità “europea” dai toni volutamente vagheggiati.
L’enclave di Kaliningrad tra non luogo e identità possibili Negli ultimi anni, accanto a blande iniziative volte ad accettare uno stato di fatto storicamente discutibile – come il conciliante simposio “Kaliningrad: Visions of the future”, del 2005, teso a palesare l’assenza di rivendicazioni da parte tedesca e la piena accettazione della situazione corrente – si è assistito ad un acceso dibattito tra cittadini e autorità sul destino del centro di Königsberg e dell’area del castello (l’Altstadt). Se, da una parte, l’a31
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9 e 10 - L’antinomia Königsberg/Kaliningrad.
immagini d’epoca. Lo studio della morfologia urbana ha permesso inoltre all’architetto Arthur Sarnitz, nativo della città, di avanzare, sulla scorta degli esempi tedeschi, una grandiosa ipotesi di restauro urbano, restituendo la complessità dei tessuti dell’Altstadt, Löbenicht e Kneiphof mediante un’opera di mappatura “archeologica”. Tale operazione sarebbe, nelle intenzioni del progettista, destinata a tradursi in azione operante mediante la ricostruzione di buona parte dei quartieri centrali, cuore della città e della sua memoria storica. Proprio la morfologia, che in Italia ha tanto a lungo costituito una chiave di lettura dei caratteri tipologici delle città storiche, disponendosi come strumento operativo per possibili ricostruzioni (senza tuttavia mai riuscire a tradursi in progetto, ad eccezione di qualche raro caso), in Germania è divenuta azione operante, permettendo il recupero di alcuni importanti episodi urbani. È bene sottolineare come quest’ultimo sia, nel caso di Königsberg, un aspetto purtroppo soggetto agli umori politici della regione, e ai più vasti equilibri di politica interna della Russia in primis e, in seconda misura, internazionali. La ricostruzione del centro richiede infatti una certa “elasticità di pensiero”, ed i temi legati agli equilibri successivi al secondo con itto mondiale sono, da sempre, considerati “sensibili” dal Cremlino; non è un caso che il progetto lologico di Sarnitz – che prevedeva tra l’altro la ricostruzione integrale del Castello – sia stato interrotto dall’elezione di un nuovo governatore, contrario a tutti quei progetti di riquali cazione che compendiavano un recupero massiccio della memoria tedesca. La Prussia orientarea più vicina all’accademia e alla politica si le del resto non appartiene alla famiglia di è arroccata su posizioni che, senza mettere territori passati sotto altra bandiera (ma che in discussione lo status quo, mirano ai gran- hanno comunque preservato una riconodi concorsi internazionali per “riquali care” scibilità dei caratteri formali degli insediail centro recuperando un’atmosfera europea menti – come l’Istria e la Dalmazia –), ben(ma a quale parte dell’ Europa debba ricon- sì rappresenta una regione culturalmente dursi questa atmosfera non è dato saperlo), estranea alla Russia9 e sicamente distante una parte rilevante dell’intellighentsia e della dalla “madrepatria” acquisita. D’altro canto cittadinanza ha riscoperto le peculiarità del è pur vero che i settant’anni trascorsi dalla ne della guerra hanno visto l’avvicendaterritorio all’ interno del quale vive, e si ritiene favorevole a riabilitarne in pieno il passa- mento di diverse generazioni, alcune delle to, a partire dal nome. Negli ultimi 5 anni la quali “legate” ormai da tempo al territorio e, sensibilità nei confronti dell’eredità tedesca è infatti notevolmente mutata: lo dimostra, 9 I ebili rimandi ai contatti storici tra Russia e tra gli altri, il Museo cittadino che da qualche Prussia Orientale – non più intensi di quelli con altri tempo ripropone una dettagliata mappatu- stati dell’epoca – e sui quali le autorità russe stanno ra dello Kneiphof8 arricchita da una serie di insistendo per presentare la storia di Königsberg come 8 Nello Kneiphof sorgevano, tra gli altri edi ci, il Collegium Albertinum dove Kant insegnava e l’antica Rathaus, sede del museo cittadino.
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quella di un territorio “conteso”, legato in egual misura al mondo slavo e a quello germanico, palesano tutta la debolezza dell’operazione, che solo per motivi di opportunità geopolitica è rimasta “sospesa” come campo di indagine.
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11 - La piazza del Castello ai primi del ‘900. Ai piedi della torre gotica, la statua del kaiser Guglielmo I.
12 - Lo Kneiphof in rovina e ricoperto dalla vegetazione in una foto della ne degli anni ‘40. Sulla sinistra si intravede la tomba di Kant.
in tal senso, la percezione della singolarità della propria condizione, accresciuta anche dall’ esperienza dei vicini paesi baltici, ha spinto alcuni cittadini a valutare la possibiltà di secedere dalla Russia per costituire uno stato autonomo. È questo il caso del Parti-
to Baltico Repubblicano (BRP; Baltiyskaya respublikanskaya partiya, fondato nel 1993 e disciolto nel 2003 per una legge che prevede che i partiti debbano avere almeno 10000 membri e sedi in almeno metà delle entità della Federazione) il cui obbiettivo era 33
TRASPORTI & CULTURA N.59 9 e 10 - L’antinomia Königsberg/Kaliningrad.
13 e 14 - Un’ altra coppia di immagini che evidenzia la drammatica distruzione del tessuto urbano di Königsberg.
quello di costituire una Repubblica Baltica indipendente, con Kaliningrad – restaurata nel toponimo Konigsberg – come capitale. A questi timori “politici” va pertanto ascritto il tentativo di disincentivare proposte lologiche favorendo soluzioni governate da logiche prevalentemente commerciali, all’interno delle quali l’esaltazione di un generico “carattere europeo” (che è l’aggettivo più ricorrente nel lessico concorsuale sul tema) è alla base della creazione di luoghi di fantasia 34
sospesi tra il Postmodern e l’immaginario della starchitecture.10. Il caso di Königsberg rappresenta un valido esempio di un possibile ricorso all’architettura per il recupero dell’identità urbana; 10 Ai progetti di recupero del centro – rimasti senza seguito – si sono recentemente affiancati alcuni concorsi limitati all’area del Castello, dall’esito particolarmente discutibile, come può osservarsi nella proposta vincitrice del milanese Sagal.
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allo stesso tempo esso è rivelatore del fatto che l’architettura è per sua natura vincolata al contesto sul quale insiste attraverso un duplice legame di necessità simbolicaantropologica e che non può esistere, nella sfera pubblica, alcuna architettura vitale concepita al di fuori di questa connessione. La decadenza e la disaffezione da parte della popolazione verso tanta architettura moderna passa anche da questo problema irrisolto, che vede contenitori scintillanti calati dall’alto all’interno di scenari e tessuti ai quali sono completamente estranei e con i quali non condividono alcun legame. Ritenere dunque di poter ricostruire, o peggio ancora, sostituire il passato di Königsberg – con le medievali case anseatiche dalle caratteristiche facciate cuspidate (Giebel-Fassaden) e il tessuto sette-ottocentesco – con esempi citazionisti ma concepiti al di fuori del proprio paesaggio culturale e delle logiche di formazione del tessuto, senza ricucire il rapporto con la sua storia è dunque un tentativo molto pericoloso che non tarderà a rivelare la sua arti ciosità. E’ super uo ribadire in tal senso quanto sia intellettualmente complesso –se non disonesto- intraprendere una operazione del genere senza metterne in discussione le premesse stesse. La città di Königsberg si è sviluppata per oltre 750 anni ed era caratterizzata da peculiari complessi architettonici, piazze e parchi che ri ettevano le tradizioni culturali e storico-artistiche e i trend estetici delle varie epoche e fasi storiche. Ricostruirne il centro senza recuperarne la storia – a partire dal nome – signi ca palesare ulteriormente la sua estraneità alla Russia alla quale è stata annessa alla ne del con itto mondiale all’interno di una logica di conquiste e spartizioni, ma signi ca al contempo disattendere i desideri della popolazione, forse più propensa della politica a riconciliarsi con il proprio passato. © Riproduzione riservata
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Water, New Towns and Interior Colonization: the experience of Spain, 1939-1971 by Jean-François Lejeune
The 1898 defeat of Spain in the SpanishAmerican War and the subsequent loss of the last colonies opened a major intellectual, moral, political and social crisis. The aftershock provided an impetus for many writers and intellectuals to diagnose their country’s ills and to seek ways to jolt the nation out of its predicament.
Franco’s Hydro-social Dream As they were forced to focus inwards, the rediscovery of the Spanish heartland, away from the big cities, was a physical, geographical, cultural, and also architectural process that would spur a radical revision of national identity. Politician, jurist, economist and historian Joaquín Costa Martínez (1846-1911) became the most important representative of Regeneracionismo (Regenerationism), a multi-disciplinary movement whose objective was the modernization of the country with a focus on the impoverished countryside. For Costa and his friends, modernization meant the remaking of Spanish nature and thus of the rural world (Swyngedouw, 1999; Swyngedouw, 2015). The erratic uvial system, the uneven rainfalls, and the long periods of drought had hampered agricultural productivity for centuries, and the complex answer involved the need for major hydrographical engineering of the country: “There are countries which [...] can solely and exclusively become civilized with such a hydraulic policy, planned and developed by means of a hydraulic policy and its necessary works. Spain is among them […] the truth is that Spanish agriculture nds itself strongly subjected to this inexorable dilemma: to have water or to die [...]” (Macías Picavea, 1977: 318-319)
Modernity became “a geographical and environmental project or, more accurately, about the production of new geographies and new
Acqua, nuove città e colonizzazione interna: l’esperienza in Spagna, 1939-1971
di Jean-François Lejeune
Ispirandosi alle opere della Tennessee Valley Authority e al recupero delle Paludi Pontine nell’Italia degli anni ‘30, la Spagna emersa dalla Guerra Civile utilizzò la “campagna” come locus e simbolo per la ricostruzione e la modernizzazione dello Stato. Nel corso di tre decenni gli architetti, i piani catori e gli operatori dell’Instituto Nacional de Colonización, INC, lavorarono in collaborazione con gli ingegneri idraulici statali alla creazione di nuovi paesaggi arti ciali (Kulturlandschaften, paesaggi culturali) costituiti da dighe, canali di irrigazione, centrali elettriche e città di nuova fondazione. Ogni nuovo pueblo fu progettato come una “utopia rurale” incentrata su una plaza major, che incarnava, tra tradizione e modernità, l’ideale politico della vita civile sotto il regime nazionalista-cattolico. Negli anni ‘50-’60, una nuova generazione di architetti, tra i quali José Luis Fernández del Amo e Alejandro de la Sota, reinventò i pueblos come piattaforme di sperimentazione urbana e architettonica nella loro ricerca di uno stile vernacolare rurale astratto e di una forma urbana organica che si armonizzasse con il paesaggio.
On the previous page, at the top: map of the interior colonization with the hydrographic watersheds and all built new towns by the I.N.C. © From: Instituto Nacional de Reforma y Desarrollo Agrario (I.R.Y.D.A.) / Historia y Evolución de la Colonización Agraria en España, Vol. III, Madrid, 1991. On the previous page, below: Aerial view of Entrerríos (1953, Badajoz, Alejandro de la Sota). © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C.
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qua non condition of the modernization of Spain. However, when Luis Buñuel shot his third lm Las Hurdes: Tierra sin pan in 1933, the gap between Spain’s urban life and the blighted countryside had reached increasingly dramatic and politically dangerous proportions. Using a George Bataille-inspired technique of chilling montage and abrupt juxtaposition, the “anarchist-surrealist” documentary about one of the poorest and most remote village of Spain was immediately censored by the Republican government, intent as it were to promote a more optimistic vision of rural Spain through various projects of agrarian reform and propaganda (Mendelson, 2005).
Water, Rural Utopia, and Modernity The Instituto Nacional de Colonización (INC) was created in October 1939 to strengthen Franco’s strategy of “ideological ruralization of the proletariat” and implement a proactive policy of land reclamation and rural foundation. In the footsteps of Mussolini in Italy (reclamation of the Pontine Marshes south of Rome) and Roosevelt in the United States (Tennessee Valley Authority), largescale irrigation, dam construction, electri cation, and foundation of new settlements were all necessary solutions to the improvement of rural life and overall political stability that the Second Republic studied, but had no time to implement (Villanueva Paredes & Leal Maldonado, 1991; Lejeune 2019; Pérez Escolano et. al., 2008)1. The Falangist planners identi ed a series of major river basins whose improvement could help spur both agricultural development and improvement of the rural way of life: among those, the Guadalquívir and its associate rivers such as the Viar in Andalucia; the Guadiana River from Badájoz to Ciudad Real; the Tagus and Alagón Rivers from the Portuguese border to Toledo; the Ebro River between Huesca and Lerida; the Duero River between Salamanca and Palencia; and the Segura River around Murcía. Over 1 - On this page, at the top: young women in a street of Valdelacalzada (1947, Badajoz, Manuel Rosado Gonzalo and José Borobio Ojeda), 1950s. © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C.
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‘natures’, both materially and symbolically” (Swyngedouw, 2015: 2). By the 1930s, decades of debates and legal initiatives, intensied during Primo de Rivera’s dictatorship and the Second Republic, had established a socio-political consensus that an ambitious state-driven hydraulic policy was the sine
1 See Javier Monclús and José Luis Oyon, Políticas y técnicas en la ordenación del espacio rural, Volume I of the Historia y Evolución de la Colonización Agraria in España (Madrid: MAP/MAPA/MOPU, 1988). In 1933, a competition was organized for the design of new towns in Andulacia’s countryside: see “Concurso de anteproyectos para la construcción de poblados en las zonas regables del Guadalquivir y del Guadalmellato,” Arquitectura XVI, nº 10 (1934): 267-298.
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three decades, the architects, planners, and workers of the National Institute of Colonization worked in collaboration with the state’s hydraulic engineers to create new manmade landscapes of dams, irrigation canals, electric power plants, and new foundations. Overall, the network of canals and reservoirs infrastructure that channeled the water within the newly irrigated elds was relatively invisible with the exception of the hundreds of dams that were constructed, mostly after 1950. As very few towns were founded on the banks of a river, the connection of the infrastructure was primarily visible from and within the elds. More than sixty- ve thousand colons and their families – thus an estimated half a million of residents considering the size of rural families and their service employees during that period – settled in these newly reclaimed and historically poor and under-equipped regions of Spain. Three hundred villages and towns were built and integrated within the new regional networks. Relatively small in size and low density (mostly one story high), they included more than forty thousand dwellings, designed both as residential and productive unit with their outbuildings and patios for animals and machines. Through human colonization, the techno-nature was transformed into Kulturlandschaften (cultural landscapes), i.e., “the human achievement of transformation in context with nature whereby the growth of culture parallels the growth of nature, aiming together towards a heightening of the natural world through manmade cultural interventions.” (Czaplicka, 2000: 5-6). They became productive territories, but they were also planned to support the full socioeconomic, cultural and religious needs of the newly arrived colons. Seen within a European and even worldwide perspective, the interior colonization led for more than 25 years by the Instituto Nacional de Colonización embodied an extraordinary experience in the history of urban form. It embraced tradition but was at the same time unabashedly modern if one considers the diversity of the aesthetic trends that were implemented on the ground – classicism, picturesque vernacular, rationalism – at times keeping them pure, at other mitigating them by absorbing elements from various aesthetics and merging them in syncretic fashion. The urban form of the pueblos was not homogenous and, beyond some aspects of their program, was not a particular built expression of Francoism, but rather of Spanish cultural identity. Essentially, the archi-
tects of the INC demonstrated their constant preoccupation with form, between aesthetics, hygiene, and practice, to give physical shape to the modern town or village, to their modern public spaces between city and countryside. Arguably, the program of colonization was not an experiment ex novo. From the Reconquista, Spain had forged a rich and brilliant tradition of urban foundation, both in America and in the Peninsula itself (De Terán, 1989). Architects and planners of the INC found a fertile ground in that heritage, yet they were equally and unequivocally aware of modern planning in Germany, Palestine, and Fascist Italy. Italian new towns like Sabaudia and Segezia, as well as the 1933 Concurso de Anteproyectos para la construcción de poblados en
2 - On the previous page, below: Rincón de Ballesteros (Cacéres, 1953, Carlos Sobrini Marín): view of the church from the plaza arcades. © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C. 3 - Aqueduct. © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C.
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4 - Aerial view of the plaza mayor in Valdelacalzada (Badajoz). © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C.
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las zonas regables del Guadalquivir served as blueprints for the rst generation of towns. In the Pontine Marshes, the most publicized program in Italy and abroad, the planners had systematically promoted the concept of the casa colonica, a farm unit often two-story high and isolated in the elds, while the towns were mostly populated by workers in the administration or commercial sectors. In contrast, the INC concluded that the concentrated village or pueblo containing all of the farmers’ houses was the most satisfactory solution. Beyond the economic and functional advantages, the concept of the compact village organized around its plaza mayor helped reinforce the regime’s ideological tenets and the importance of the church for its stability. Implicit in this policy was the polycentric structure of the new territories and landscapes, as well as the absence of any hierarchy between the new foundations. Equally critical was the symbolic, ideological, and primarily cultural value to be attributed to community living and providing the adequate urban spaces to perform that civic life. Streets and squares were indispensable to Spanish life and at the heart of its Mediterranean culture. It was thereby logical that the plaza became the point of crystallization of the village (Tamés Alarcón, 1948; Tamés Alarcón, 1988).
Accordingly, early towns like Bernuy (1944, Manuel Jiménez Varea, Gimenells (1945, Alejandro de la Sota), Suchs (1945, José Borobio Ojeda), Torre de la Reina (José Tamés, 1951) or Valdelacalzada (1947, Manuel Rosado Gonzalo and José Borobio Ojeda) were planned rationally and systematically, albeit with a lot of design diversity, according to a loose grid centered on an enclosed and at times arcaded plaza mayor. Each town was planned and built by a single architect as a uni ed project responding to a precise program. The town edges provided spaces for parks, schools, or sport elds, while the peripheral blocks created a genuine urban façade fronting the elds. Within this overall strategy, the towns continued to appear within the agricultural landscapes as compact settlements dominated by a slender, and increasingly modern in design, church tower. In 1939 the newly created National Institute of Housing directed by José Fonseca enacted the Ordenanzas de la Vivienda, a set of regulations based upon pre-Civil War research that established all technical conditions necessary for the new worker dwelling unit and colonist house, including number and dimensions of rooms, orientation, preferred materials, and ventilation systems (Fonseca, 1936). As a result, the typology within the INC projects was strictly regulated. The houses were rationally conceived behind a vernacular and, within the rst generation of towns, “regionalist” mask that would recall the typical dwellings of the region. Likewise, all basic constructive elements like windows, bars, balconies, and urban furniture were standardized (Calzada Pérez, 2005).
Modernization and abstraction of the vernacular and the urban form The Vth National Assembly of Architects of 1949 marked a seminal date for the Spanish architectural world, which opened to an international forum after ten years of relative isolation. Italian guest lecturers Alberto Sartoris and Gio Ponti argued for a new architecture of “mediation” whose modernity would re ect “the rational and functional concept of the art of building… as old as the world and born on the coasts of the Mediterranean,” thus reconnecting with the pre-Civil War debates in Spain (Pizza and Rovira, 2000: 89-90). Josep Antonio Coderch’s projects for Sitges in the 1940s, the birth
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5 - Vegaviana (1954, Cacéres, José Luis Fernández del Amo). Panels presented at the U.I.A. conference in Moscow (1958). © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C.
of Grupo R in Barcelona (1951), the Spanish Pavilion for the IX Milano Triennale (1951), and the Mani esto de la Alhambra (1953) among others, provided the impulse and the cultural alibi, not only to adopt a strippeddown vernacular as a politically acceptable form (Chueca Goitia et. al., 1953). From the early 1950s a new generation of I.N.C. towns sprang up from the drawing boards of Alejandro de la Sota, José Fernández del Amo, Miguel Herrero, Fernando de Terán, and others like Antonio Fernández Alba. For this new generation of architects, the search for a more abstract urban form to match the modernized vernacular implied that the grid and the block could lose their absolute character and be substituted by more organic plans and relationships between city and nature. Camillo Sitte’s tenets of urban composition, which provided a traditional sense of identity to the rst generation of new towns built in the 1940s, remained critical, although in a reinterpreted manner,
to the implementation of that novel dialectic between tradition and modernity (Lejeune, 2021). Accordingly, Alejandro de la Sota designed the pioneering Esquivel (1952) as a symmetrical fan-shaped gure, whose apparent rigidity re ected “it was born all at once on a at terrain” (De la Sota, 1953: 16). An extensive system of pedestrianonly streets, alleys, and small squares gave access to the front of the houses, whereas another system of streets, wider and border by high courtyard walls, concentrated all the agricultural traffic and the commercial movement. José Luis Fernández del Amo developed further the vision of a modern urban form in Cañada de Agra (1962), Villalba de Calatrava (1955), Miraelrío (1964), and especially Vegaviana (1954) (Centellas Soler, 2010). Located close to the Portuguese border, Vegaviana was praised as a work of “human, plastic, and social quality” (Saenz de Oiza, 1959: 25) “whose architecture derives from man and serves his vital ful llment”
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Conclusions
6 - Civic center of Esquivel with the church seen from the commercial arcades. © MAPA. Mediateca. Fondo I.N.C. Photo Kindel.
(Castro Arines, 1983). As Fernández del Amo later wrote: “I have run across the Spanish land and have learnt, in all its corners, what an anonymous architecture could teach me [ … ]. Going from surprise to surprise, I have been taught to guess the measure and the function of the spaces that man built to shelter his life and his work, and how he set up an environment for social life. So were born and were made the villages and small towns that I admire and from which I have gathered the hidden laws of spontaneous organization” (Fernández del Amo, 1995: 77).
In contrast to the Fascist Pontine cities whose public buildings and spaces were scenically and politically conceived as objects of propaganda to be extensively photographed and visited, the 300 Spanish towns were built along little traveled roads, almost anonymously, and thus far from the tourists’ gaze. Beyond the pragmatism of the program and the timeless quality of their streets and patio-based housing fabric, at times a “surrealist” atmosphere transpired. In Profession Reporter (1975), Michelangelo Antonioni captured the power of the “metaphysical” or rather “surrealist” spirit, when, leaving the Palacio Güell on their way to Almería, Nicholson/Locke and the Girl enter the sun-scorched and last Andalusian town of the INC, Solanillo designed in 1968 by Francisco Langle Granados (Lejeune, 2021). Forty-two years after Luis Buñuel’s Las Hurdes, the image of the Spanish village had changed dramatically. That year marked the end of Franco’s regime and the return to democracy.
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The new pueblos were not garden cities that imitate the countryside for very different users, potentially nostalgic of a past that they have never experienced. On the contrary, they were genuine agricultural villages for genuine workers of the land. In other words, there was no ‘displacement of meaning’ between architecture, urbanism, and users – something that happens every day with tourist developments, the transformation of historic villages into tourist havens and even middle-class villas in subdivisions that are taking over the Spanish peripheries, especially the Mediterranean coasts, to host retirees from Spain and other European countries. This coda does not pretend to suggest solutions or imagine what kind of regulating infrastructure would be required in order to better control development. It simply aims to frame a historical case study within a future perspective, whose analysis and emulation in democratic Spain – and more globally across Europe and America – could provide the ammunition necessary to challenge the status quo of international real estate market forces. © Riproduzione riservata
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L’autostrada come opera d’arte collettiva nella Jugoslavia di Tito di Aleksa Korolija e Cristina Pallini
Nel luglio 2018 il MoMA inaugurava una mostra sull’architettura jugoslava1 e un anno dopo la torre Genex e le piramidi di Konjarnik nivano sulle pagine del Guardian2. Questi edi ci-manifesto del brutalismo socialista si trovano a Belgrado lungo l’autostrada A3, già Autostrada della Fratellanza e Unità. Il motto dei partigiani jugoslavi ancorò negli ideali della rivoluzione la linea di movimento su cui sarebbe stato costruito il Paese; non a caso Davor Konjikušić ha visto nell’autostrada un monumento all’identità collettiva perduta3. Nel 1960 la rivista Arhitektura Urbanizam presentò l’autostrada come acceleratore di modernità, anche per il confronto che ne era scaturito tra ingegneri, urbanisti, architetti e paesaggisti4. Passa – oggi come allora - dalla Slovenia, dalle pianure della Sava, della Croazia e della Vojvodina, dalle colline della Serbia e dalle gole della Macedonia. Nelle quattro capitali federali - Lubiana, Zagabria, Belgrado e Skopje – l’autostrada ebbe un effetto “poleogenetico”5, aprendo la strada all’urbanistica e all’architettura socialista “con cui Tito comunicava al mondo la modernità della Jugoslavia e la distanza da Stalin”6. Il cantiere richiamò le Azioni di Lavoro Giovanile (ORA, Omladinske Radne Akcije) e la divulgazione dell’opera nelle mostre di Belgrado e Zagabria scardinò i cano1 Martino Stierli e Vladimir Kulić (a cura di), Toward a Concrete Utopia: Architecture in Yugoslavia 1948-1980, MoMA, New York 2018. 2 Ivana Šekularac, “Former Yugoslavia’s brutalist beauty-a photo essay”, The Guardian, 31/ 10/ 2019. 3 Cfr. Autocesta, una mostra itinerante allestita presso la Šira Gallery di Zagrabia (2017), la Vetrinjski dvor di Maribor (2018), la Artget Gallery di Belgrado (2018) e la Salon Galić Gallery di Spalato (2019). 4 Svetislav Stajević, “Naši putevi” (Le nostre strade), Arhitektura Urbanizam, n. 3, 1960, pp. 6-11. 5 Nell’interpretazione corrente tra gli archeologi e gli esperti di tarda antichità, il termine “poleogenetico” viene riferito ai processi generativi della vita urbana. 6 Lorenzo Pignatti, Modernità nei Balcani da Le Corbusier a Tito, LetteraVentidue, Siracusa 2019, p. 189.
The highway as a collective work of art in Tito’s Jugoslavia
by Aleksa Korolija and Cristina
Pallini
The Highway of Brotherhood and Unity - the motto of Yugoslav Communists - may help us decode the multiple layers of meaning interlocked in the built environment. Undoubtedly, the construction of the Highway was organic to national cohesion. Built by brigades of young volunteers, the Highway made it possible to travel across Yugoslavia in one day: an experiential approach to the common motherland which gave ‘federalism’ a concrete dimension. From an architect’s point of view, our contribution sets out a project-oriented approach to the Highway as a coherent built form, posing new technical problems, yet orienting urban change and opening up a whole range of narratives. To do that, we oscillate back and forth between the actual construction of the Highway, which combined engineering, landscape design, urbanism and architecture, and its role as a catalyst for new collective perceptions and behavioural patterns. The Highway provided the centre of gravity for a farreaching cross-cultural venture, a largescale collective work of art.
Nella pagina a anco, in alto: vista dell’autostrada appena costruita dall’ automobile di Tito, 1948. Dall’album fotogra co Passeggiate lungo l’Autostrada Bratstvo i Jedinstvo (Muzej Istorije Jugoslavije). In basso: Tito e il sindaco Branko Pesić con i rappresentanti dell’Istituto di Urbanistica di fronte al modello di Nuova Belgrado. In basso a destra uno svincolo dell’autostrada, 1967. (Muzej Istorije Jugoslavije).
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1 - Alternative di tracciato per il passaggio dell’autostrada da Belgrado in relazione alla linea ferroviaria e alla con gurazione orogra ca della città storica, schizzo di Nikola Dobrovic, 1946. Da: Urbanizam Beograda n.25 (1974), p. 33.
ni del realismo socialista in favore dell’arte astratta7.
L’autostrada come metafora della Jugoslavia Il progetto dell’Autostrada della Fratellanza e Unità risaliva al primo piano quinquennale (1947-1951) che avviava l’industrializzazione e la collettivizzazione rurale. Nel dicembre del 1945, Tito dichiarò che l’autostrada era una necessità, anche per attutire i forti divari regionali8. La realizzazione del progetto subì i contraccolpi del con itto sovieticojugoslavo (1948) e del Periodo ‘Informbiro’ (1948-1955). I lavori partirono in Croazia nel 1946 e in Serbia l’anno successivo9, rallentati dalla ricostruzione in corso a Zagabria e a Belgrado e dalla rottura con l’Unione Sovietica. Le ORA, nate durante la lotta partigiana e ancora attive in ottemperanza al motto “nessun riposo durante la ricostruzione” (dok traje obnova nema odmora), ripresero slancio quando l’URSS e il Cominform imposero il blocco economico alla Jugoslavia. I volontari che ne facevano parte lavorarono all’auto7 Ana Ofak, Agents of Abstraction, Sternberg Press, Berlino 2019. 8 Saša Vejzagić, “The importance of Youth Labour Actions in Socialist Yugoslavia (1948-1950): a Case Study of the Motorway Brotherhood-Unity”, MA Dissertation, Central European University in Budapest, 2013, p. 39. 9 Il numero iniziale di lavoratori salariati si rivelò insufficiente, visto che nel 1946 si completò solo il 2% dell’opera. Cfr. Reana Senjković, Svaki dan pobjeda. Kultura omladinskih radnih akcija (Ogni giorno una vittoria. La cultura delle Azioni di Lavoro Giovanile), Institut za etnologiju i folkloristiku, Zagabria 2016, p. 131. Stefanović sostiene che i giovani volontari, i soldati e brigate del Fronte Popolare arrivarono in cantiere da subito, cfr. Momčilo Stefanović, Svitanja na rukama (Albe sulle mani), Export-press, Belgrado 1969, p. 23.
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strada, a Nuova Belgrado10, nei grandi cantieri industriali come in quelli delle ferrovie Brčko-Banovići, Šamac-Sarajevo e DobojBanja Luka.. I primi 382 km di autostrada mobilitarono 200.000 volontari11 con militari e idealisti provenienti da tutto il mondo. Nelle ORA, ragazzi e ragazze dalle campagne e dalle città si conoscevano senza intermediari: molti imparavano a leggere e a scrivere12 e tutti seguivano i corsi di tecnica popolare condividendo un avviamento professionale oltre che ideologico. L’epica dell’autostrada nasceva da loro: arrivati il 1° aprile del 1948, completarono il 30% dei lavori a ne anno; in mancanza di macchinari, 40.000 volontari a turni serrati avevano modellato trincee e terrapieni, posato decauville, boni cato paludi e aperto varchi nelle foreste. Incarnavano l’ideale marxista dell’azione come la forma più alta di vita13. 10 Jovan Golubović, Beograd - grad akcijaša (Belgrado - città d’azione), Gradska Konferencija SSO Beograd, Belgrado 1985. 11 Secondo Vejzagić, le Azioni erano un mondo a parte dove si consolidarono le differenze dal comunismo sovietico. L’attuazione del primo piano quinquennale coinvolse circa 319.000 volontari; complessivamente, oltre 70 progetti ne coinvolsero più di un milione. Il movimento risultò organico a tutti i quadri economici, sociali e ideologici no al decollo dell’industria. Cfr. Saša Vejzagić, “The importance of Youth Labour Actions in Socialist Yugoslavia (1948-1950): a Case Study of the Motorway Brotherhood-Unity”, MA Dissertation, Central European University in Budapest, 2013, pp. 11, 24. 12 Stefanović riferisce che circa 20.000 volontari dell’autostrada uscirono dall’analfabetismo, un numero che raddoppiò alla ne dei lavori ferroviari. Cfr. Stefanović, Svitanja na rukama, p.42 13 Rudi Supek, Omladina na putu do bratstva. Psihosociologija radne akcije (La gioventù sulla strada della fratellanza. Psico-sociologia delle azioni di lavoro volontario), Mladost, Belgrado 1963, p. 7; Vejzagić, The importance of Youth Labour Actions, cit., p. 19.
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Belgrado e Zagabria, le città più popolate delle repubbliche più con ittuali, furono collegate in tre anni. La Lubiana-Zagabria fu completata nel 1958 con 54.000 volontari. L’anno successivo partirono i lavori da Paraćin a Niš (Serbia) e da Negotino a Demir Kapija lungo la valle del Vardar. Nel 1960 fu la volta delle tratte da Niš a Grdelica e da Demir Kapija a Gevgelija. Nel 1962 rimanevano indietro solo la tratta da Skopje a Titov Veles e quella da Belgrado a Paraćin, nevralgica per le miniere di carbone, gli impianti siderurgici e la produzione di materiali edili, tessili e alimentari. La geogra a sica aveva suggerito il raccordo a Skopje tra l’autostrada e la dorsale in costruzione dal 1954 lungo la costa e i porti dell’Adriatico (Jadranska Magistrala / Dorsale Adriatica)14. A Skopje, le provenienze dall’Europa occidentale sarebbero state incanalate lungo la storica rotta del Vardar verso il Mediterraneo. Secondo i dati della Banca Internazionale, per la Ricostruzione nel quinquennio 1957-1962 gli investimenti avevano generato un raddoppio del traffico autostradale, con ripercussioni signi cative sull’industria dei trasporti. Con un bacino d’utenza pari a un terzo della popolazione e a metà dell’economia nazionale, l’autostrada integrata alla rete europea avrebbe incentivato le esportazioni e il turismo15. Fatalmente, il 26 luglio 1963, Skopje fu devastata dal terremoto.
Propaganda, arte e architettura del paesaggio Oggetto di alcune recenti mostre16, le ORA pubblicavano i propri giornali di lavoro. Bratstvo i jedinstvo, list omladinskih radnih brigada na gradnji autoputa Beograd-Zagreb (Fratellanza e unità, un giornale delle brigate giovanili che lavorano alla costruzione dell’autostrada Belgrado-Zagabria) era 14 Melita Čavlović, “Constructing a Travel Landscape: a Case Study of the Sljeme Motels along the Adriatic Highway,” Architectural Histories, n. 6, 2018, p. 3. 15 IBRD, “Appraisal of a Highway project in Yugoslavia, Technical operations projects series; n. TO 367a, IBRD, International Development Association, 7/ 6/ 1963. 16 Ivan Hofman, Mi gradimo prugu - pruga gradi nas. Omladinske Radne Akcije u Jugoslaviji 1946-1951. Katalog izložbe (Noi costruiamo la ferrovia – la ferrovia costruisce noi. Le Azioni di Lavoro Giovanile in Jugoslavia 1946-1951), Arhiv Jugoslavije, Belgrado 2012; Bachrach Krišto ć and Krišto ć, Omladinske radne akcije: dizajn ideologije (Azioni di Lavoro Giovanile: progettare l’ideologia), Zagreb, Umjetnička organizacija Kultura umjetnosti, 2017.
il notiziario dei volontari dell’autostrada17. Poiché la catena di informazioni alimentava la coesione federale e il reclutamento18, i mezzi variavano al variare dei destinatari. Se nell’immediato dopoguerra i gruppi Agitprop distribuivano ancora i tipici volantini e i manifesti colorati dell’anteguerra alla popolazione rurale, le mostre allestite a Belgrado e a Zagabria nel 1950 segnarono la transizione dal realismo socialista all’arte astratta. In entrambi i casi, il gruppo Exat 5119 aveva sperimentato la “visione in movimento” di Lazlo Moholy-Nagy20 per evocare i molteplici bene ci del primo tratto di autostrada21. I visitatori entravano in uno spazio reso uido da esili telai espositivi che scomponevano il campo visivo su diversi piani. La trama e l’ordito generavano un’atmosfera sospesa, mentre le singole unità espositive (montabili) documentavano la costruzione dell’autostrada nella sua concretezza con la
2 - Lo svincolo di Autokomanda in un modello di studio. Il progetto è stato attuato solo parzialmente, nessuno degli edi ci è stato costruito. Da: Arhitektura Urbanizam 61-62 (1970), p. 29.
17 Youth Railway, il giornale della ferrovia Banja LukaDoboj, includeva i contributi del paci sta britannico Edward Palmer Thomson e del giornalista danese Gert Petersen, entrambi volontari in Jugoslavia (19461947). Cfr. Edward Palmer Thomson, The railway: an adventure in construction, British-Yugoslav Association, Londra 1948. 18 Tea Sindbæk Andersen, “Tito’s Yugoslavia in the making”, in Machineries of Persuasion. European Soft Power and Public Diplomacy During the Cold War, a cura di Óscar J. Martín García e Rósa Magnúsdóttir, De Gruyter, Berlino-Boston 2019, pp. 113-120. 19 L’acronimo sta per Eksperimentalni Atelje (Atelier Sperimentale), un gruppo fondato a Zagabria nel 1951 da architetti, artisti e designer che rimase attivo no al 1956. 20 László Moholy-Nagy, Vision in Motion, Paul Theobald, Chicago 1947. 21 Ana Ofak, Agents of Abstraction, Sternberg Press, Berlino 2019, p. 200.
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architetti come Mihjlo Mitrović, Radivoje Tomić24 e Fedor Wenzler, che partecipò a un concorso riservato a gruppi misti (serbi e croati) per un’aerea di sosta lungo l’autostrada (1950). Si trattava di una stazione di servizio dotata di un albergo-ristorante con attrezzature sportive e un monumento ai giovani costruttori25. Con l’autostrada emerse una nuova sensibilità ambientale; i paesaggisti affiancarono gli ingegneri, gli architetti e i piani catori per meglio integrare l’autostrada nel paesaggio, tenendo conto della diversa natura dei luoghi e progettando in dettaglio le scarpate e i bordi delle carreggiate. Milorad Macura considerò che la plasticità di ogni singolo manufatto contribuiva all’orchestrazione di effetti spaziali: la Jugoslavia, che in meno di 256.000 km2 racchiudeva tutti i paesaggi d’Europa, offriva ai progettisti la possibilità di tornare a cimentarsi con le forme della natura26. Aleksandar Krstić, agronomo per formazione, sosteneva che l’autostrada avrebbe potuto diventare un parco lineare: gli automobilisti avrebbero condiviso un’esperienza estetica alla scoperta del “carattere dominante” di ogni regione27. Senza “intenzione compositiva”, la geometria del tracciato non bastava a garantire “la bellezza riconoscibile di una strada”: bisognava saper pensare tridimensionalmente in termini dinamici per orchestrare la percezione visiva lungo una linea di movimento28. Mentre emergeva la speci cità disciplinare dell’architettura del paesaggio, dopo il 1960 cambiava il signi cato dell’autostrada, di pari passo con i piani per le principali città. A Lubiana, a Zagabria e a Skopje l’Autostrada della 3 - Schema del nodo di Zagabria. La linea spessa indica i con ni comunali. In nero la zona di Trnje, tra il centro storico e l’area di Nuova Zagabria. Da: Arhitektura Urbanizam n.39 (1966), p.36. 4 - Il raccordo tra l’autostrada Bratstvo i Jedinstvo e la Dorsale Adriatica nella conca di Skopje. La linea spessa indica il sistema di valli interconesse che da Belgrado scende a Salonicco. Rielaborazione degli autori sulla base dello schizzo della Doxiadis Associates.
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partecipazione dei “lavoratori d’assalto”22. Exat 51 stabiliva così un punto di equilibrio tra arte e architettura, tra lo spazio reale e quello immaginato, una sintesi riproposta da Vijenceslav Richter nel padiglione per l’Expo di Bruxelles del 1958. Nel 1960, Arhitektura Urbanizam descriveva l’autostrada come un’opera d’arte in sè: la vegetazione tra le carreggiate bianche, i simboli colorati della segnaletica, le curve degli svincoli: “ bre del cuore della vita moderna”23. Tra i partecipanti alle ORA ci furono anche volontari con competenze tecniche, tra cui 22 Gli udarnici jugoslavi possono essere paragonati agli stacanovisti sovietici. Cfr. Lewis Siegelbaum, Stakhanovism and the Politics of Productivity in the USSR, 1935-1941, Cambridge University Press, Cambridge 1988, p. 40. 23 Milorad Macura, “Autoput” (The Highway), Arhitektura Urbanizam, n. 3, 1960, p. 5.
24 “Putnička železnička stanica u Zenici na Omladinskoj pruzi Šamac-Sarajevo” (Stazione viaggiatori a Zenica lungo la ferrovia Šamac-Sarajevo), Arhitektura, n. 8-10, 1948, pp. 39-40. 25 Fedor Wenzler, “Stanica na autoputu ‘Bratsvo-jedinstvo’” (Una fermata lungo l’Autostrada della Fratellanza e Unità), Arhitektura urbanizam, n. 9-10, 1950, pp. 35-37. 26 Milorad Macura,“ Tuge i ushiti pejzaža” (Tristezza e gioia del paesaggio), Arhitektura Urbanizam, n. 56-57, 1967, p. 46. 27 Aleksandar Krstić, “Obrada predela duž saobraćajnica (Architettura del paesaggio lungo le strade), Arhitektura Urbanizam, n. 56-57, 1969, p. 85. 28 A questo ne Bohinec de nì un sistema di proiezioni basato sul metodo tedesco della “prospettiva spaziale” e dei “modelli a gradiente”. Marjan Bohinec, “Urbanističko-arhitektonski elementi pri projektovanju i izgradnji autoputeva – povodom autoputa Ljubljana-Zagreb (Elementi urbanistico-architettonici nel progetto e nella costruzione delle autostrade – lungo l’autostrada Lubiana-Zagabria)”, Arhitektura Urbanizam, n. 3, 1960, p. 38.
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Fratellanza e Unità passava a una certa distanza dal centro, ma a Belgrado de niva l’impianto della nuova capitale in costruzione.
La capitale federale tra addizioni e innesti A Belgrado il paesaggio “extra-territoriale”29 della nuova capitale si innestava proprio lungo l’autostrada, aprendo il campo alla sperimentazione progettuale. Il tracciato de nito nel 1950 passava per la Città degli Studenti (Studentski Grad), Nuova Belgrado, il ponte sulla Sava30; poi proseguiva a ovest della città storica per raccordarsi alla tratta per Skopje, completata nel 1963. Complessivamente, il passaggio da Belgrado raggiungeva una lunghezza di 9,3 km e doveva fare i conti con gli accidenti della topogra a e con lo spostamento della ferrovia per Zagabria, che interferiva con il tracciato previsto. Progettato tra il 1968 il 1970, questo tratto di autostrada rese necessario il trasferimento di circa 1.000 famiglie e 120 unità produttive e integrò una serie di opere di urbanizzazione primaria. Per non interferire con il traffico locale, tra l’altopiano di Bežaniska Kosa a Nuova Belgrado l’autostrada passava a una quota ribassata rispetto al piano di campagna, con una sezione di 21 metri dotata di un sistema di drenaggio e divista in tre compartimenti per il collettore fognario e le condutture elettriche e telefoniche. In questa tratta l’autostrada scendeva di circa 24 metri e attraversava Nuova Belgrado con un rettilineo perpendicolare all’asse rappresentativo tra il Palazzo della Federazione e la nuova stazione ferroviaria. Nel 1960 furono banditi una serie di concorsi per gli svincoli più complessi. Quello di Mostar, nella stretta valle tra le colline di Vračar e Topčider attraversata dalla ferrovia e da un piccolo corso d’acqua, era l’interscambio con tre importanti direttrici urbane. Il progetto vincitore dell’ingegnere Jovan Katanić31 e dell’architetto Branislav Jovin sfruttava abilmente le differenze di quota per ricavare un parcheggio da 200 posti auto sotto a una piazza dalla quale si diramavano le connessioni pedonali verso le aree circostanti32. 29 Ljiljana Blagojević, Novi Beograd. Osporeni modernizam (Nuova Belgrado. Il Modernismo conteso), Zavod za Udžbenike, Belgrado 2007, p. 73. 30 Il Ponte Gazela di Milan Djurić, 1966-1970. 31 Jovan Katanić aveva lavorato per Auto-put, al piano per l’autostrada adriatica nella baia di Kotor in Montenegro. 32 Branislav Jovin, “Detaljni urbanistički plan za
Anche il progetto di Autokomanda a sud di Belgrado prevedeva un nodo di interscambio con parcheggi coperti, un centro servizi e spazi commerciali. In entrambi i progetti Jovin incastonò il centro del raion33 nel cuore dello svincolo, concentrando i servizi di quartiere nella zona del basamento, dalla quale sarebbero emersi una torre-albergo (nel punto più alto di Mostar) e un edi cio alto 65 metri (al centro di Autokomanda)34. Accessibili in auto da tutto il paese, questi nodi erano predisposti a concentrare le principali funzioni pubbliche. L’idea di monumentalizzare l’ingresso a Nuova Belgrado risale al concorso del 1961 per il III raion, un’area di 6,98 ettari all’estremità occidentale della città. Mihajlo Mitrović immaginò un grande plinto con quattro torri ruotate di 45 gradi. I tre edi ci a gradoni della collina di Konjarnik, invece, componevano il pro lo di una piramide all’incrocio tra l’autostrada e il boulevard Revolucija35 che cominciava allora a prendere corpo. La presenza di un declivio naturale suggerì la contrapposizione tra il pro lo della piramide che monumentalizzava la collina e le masse cubiche più a valle. Arrivando dall’autostrada, l’intero quartiere avrebbe segnato la “porta meridionale” di Belgrado36. A parte il percorso pedonale di Mostar e le “porte della città” la maggior parte di questi progetti rimase inattuata. Ancora oggi le piramidi di Konjarnik dialogano a distanza con la Torre Genex di Mihajlo Mitrović37, due edi ci in simbiosi diversi per forma e funzione sollevati su archi di cemento che incorniciano il panorama della città. A Belgrado l’autostrada aveva offerto una linea di innesto per nuove addizioni urbane. Attraversandola, gli edi ci brutalisti emergevano come ‘moderne pietre miliari’ lasciando l’impressione di una città di grattacieli. izgradnju auto-puta kroz Novi Beograd” (Piano dettagliato per la costruzione dell’autostrada a Nuova Belgrado), Arhitektura Urbanizam, n. 41-42, 1966, pp. 22-23. 33 Nell’urbanistica sovietica il termine raion (dal francese rayon; reon o rejon in serbo-croato) designava il distretto come la più piccola entità amministrativa. 34 Branislav Jovin, “Auto-put kroz Beograd” (L’autostrada a Belgrado), Urbanizam Beograda, n. 1, 1969, p. 3. 35 Oggi Bulevar Kralja Aleksandra. 36 Milica Janković, “Detaljni urbanistički plan stambenog naselja Konjarnik u Beogradu” (Piano urbanistico dettagliato del quartiere residenziale di Konjarnik), Arhitektura Urbanizam, n. 41-42, 1966, p. 51. 37 La Torre Genex fu progettata nel 1970 e completata nel 1980. Cfr. Aleksandar Kadijević, Mihajlo Mitrović. Projekti, graditeljski život, ideje (Mihajlo Mitrović. I progetti, la vita, le idee), Muzej Nauke i Tehnike-Muzej Arhitekture, Belgrado 1999, p. 70.
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Zagabria e Skopje L’impatto con le altre capitali federali fu meno dirompente. A Zagabria, inizialmente, l’autostrada passava lungo la Sava, ma nel 1977 fu deviata a sud, lontano al centro38 ma sempre parallela al ume, alla ferrovia e alla Proleterskih Brigada39, la nuova strada che attraversava la zona semi-rurale di Trnje. L’autostrada fu riportata a sud per facilitare le connessioni con l’aeroporto e con la Dalmazia. Alcuni piani e progetti di concorso registrano l’impatto di queste divagazioni. Il piano Antolić (1940) identi cò il nuovo centro di Zagabria nella Proleterskih Brigada40, che diventò il più grande cantiere della Croazia del dopoguerra. Il concorso per il nuovo municipio lungo la Proleterskih Brigada (1955)41 aprì la strada all’alternativa di un asse nord sud scandito da una sequenza di piazze monumentali, una delle quali avrebbe accolto in trincea il passaggio dell’autostrada. Il trasferimento della Fiera oltre la Sava e la costruzione di Nuova Zagabria42, dove sorgevano importanti edi ci pubblicii43, sancirono la prevalenza dell’asse nord-sud. La direzione est-ovest della ferrovia e dall’autostrada continuò a convogliare le relazioni territoriali, riaffermando il ruolo chiave delle infrastrutture nell’”impalcatura” nazionale44. Là dove la valle del Vardar lambisce la conca di Skopje, l’autostrada formava una cuspide protesa verso la città e il raccordo con la Dorsale Adriatica. Lo spazio geogra co indirizza38 Vanja Radovanović, “Kako smo gradili autoput” (Come costruiamo l’autostrada), Pogledaj.to, 7/ 11/ 2014. 39 Oggi via Vukovarska. 40 Vedran Ivanković, “Moskovski boulevard - Ulica grada Vukovara u Zagrebu 1945-1956 (Moskva Boulevard – La strada di Zagabria dal 1945 al 1956), Prostor: a journal of architecture and urban planning, vol. 14, n. 2 (32), pp. 186, 192. 41 Neven Šegvić, “Stanje stvari – jedno viđenje 19451985” (Lo stato delle cose – una visione 1945-1986), Arhitektura, n. 196-199, 1986, p. 123. 42 Dubravka Vranić, “The Zagreb Fair as a Generator of New Zagreb’s Planning”, Journal of Planning Histo-
ry, gennaio 2020, p. 22.
43 Tra questi la Galleria Strossmayer, la Biblioteca dell’Accademia Croata delle Arti e delle Scienze, il Padiglione dell’Arte, la Sala Concerti e il Museo di Arte Contemporanea. Cfr. Eve Blau e Ivan Rupnik, Project Zagreb: Tradition as Condition, Strategy, Practice, Actar, Barcellona 2007), p. 194. 44 Kimberly Zarecor ha riferito la nozione di scaffolding (impalcatura) alla “struttura profonda” delle città socialiste, data dalla coesione tra reti infrastrutturali, residenza e programmi culturali. Cfr. Kimberly Zarecor, “What Was So Socialist about the Socialist City? Second World Urbanity in Europe”, in Journal of Urban History, vol.44, n. I, 2018, pp. 95-117.
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va l’impalcatura infrastrutturale che avrebbe sostenuto l’articolazione produttiva e insediativa. Il terremoto del 1963 accese i ri ettori sulla capitale della Macedonia, che diventò “un laboratorio progettuale, una scuola, un cantiere e, al contempo, un’esposizione internazionale”45. Il ruolo di Skopje nel sistema dei trasporti in corso di completamento imponeva una ride nizione dell’impianto urbano in relazione alle gravitazioni di ampio raggio e alla riforma del nodo ferroviario. Lo sviluppo urbano avrebbe assunto una con gurazione lineare parallela al Vardar e il raccordo tra l’autostrada e la Dorsale Adriatica (che non avevano subito danni sostanziali), avrebbe de nito il con ne della città e del suo comparto industriale. Un boulevard ad alto scorrimento avrebbe aggregato i quartieri residenziali mentre l’industria pesante si sarebbe concentrata lungo l’autostrada. Il piano de nitivo dell’Ufficio Urbanistico di Skopje (1964) si concentrò sul rapporto tra l’insediamento e le nuove infrastrutture46 che de nivano il centro della città come un quadrilatero di strade espresse a cavallo del Vardar. Fu proprio il concorso internazionale del 1965 a innescare la ricerca di un’espressione gurativa della forma urbana. Nel progetto di Kenzo Tange, teso a “urbanizzare l’architettura e spazializzare la città”47, l’ambiguità tra infrastruttura e architettura raggiunse il culmine. Signi cativamente, il monumentale City Gate corrispondeva all’attestamento autostradale e ferroviario al centro di Skopje, quindi dava espressione alla rinascita della città come chiave nazionale e internazionale dei Balcani48. L’irrompere delle infrastrutture nella forma urbana rimise in campo il rapporto con la geogra a.
Alcune considerazioni Lyubomir Pozharliev de nì l’autostrada come una materializzazione della volontà di Tito di forgiare un’identità in nome del futuro comune. Invece, paradossalmente, l’autostrada acuì il divario regionale e la mobilità individuale favorì il consumismo49. 45 Ines Tolić, Dopo il terremoto. La politica della ricostruzione negli anni della Guerra Fredda a Skopje, Diabasis, Reggio Emilia 2011, p. 91. 46 Saša Sedlar, “Problemi urbanistici della ricostruzione di Skopje”, Umana, rivista di politica e di cultura, no. 5-6 (1966), p.20. 47 Kenzo Tange, “Skopje Urban Plan 1965,” The Japan Architect, no. 31-2 (1967): 30. 48 Ibid., 35. 49 Lyubomir Pozharliev, “Collectivity vs Connectivity:
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5 - I giovani volontari lungo l’Autostrada presso Skopje, 1961. La struttura a cavallo dell’autostrada riporta scritte inneggianti alla fratellanza e unità e al passaggio di testimone tra generazioni (Muzej Istorije Jugoslavije).
Già nel 1948, il piano di Nikola Dobrović per la Grande Belgrado (Regulacijoni Plan Velikog Beograda) assumeva l’autostrada come cardine della nuova capitale federale extraterritoriale. Negli anni Ottanta l’autostrada alimentò lo shopping transfrontaliero50. La percorrevano i campeggiatori diretti in Calcidica e gli emigranti che lasciavano la Germania Ovest per le vacanze. Avvistando la Torre Genex capivano di essere arrivati a Nuova Belgrado, dove passavano vicino al Sava Centar, il più grande edi cio polifunzionale della Jugoslavia progettato per ospitare la conferenza dell’OSCE nel 1976. Dopo il Ponte Gazela scorgevano la nuova Fiera e, sulla sinistra, il pro lo della città storica. Passavano da Mostar, Autokomanda, Dušanovac, Konjarnik, poi continuavano verso Niš, Skopje e la dogana di Gevgelija per passare in Grecia. L’edi cio doganale progettato da Mihajlo Mitrović nel 1964 era minimalista solo in apparenza. Tra i mattoni faccia vista c’era un diorama di frammenti scultorei, repliche degli originali del monastero di San Giovanni a Kaneo sul lago di Ohrid51. La ricerca architettonica in bilico tra espethe Techno-Historical Example of Motorway Peripherization in Former Yugoslavia”, intervento alla 12 Conferenza Annuale della International Association for the History of Transport, Traffic and Mobility (T2M), Filadela, 18-21/ 9/ 2014,. 50 Maja Mikula, “Highways of Desire. Cross-Border Shopping in Former Yugoslavia 1960s-1980s”, in Yugoslavia’s Sunny Side: a History of Tourism in Socialism (1950s-1980s), a cura di Hannes Grandits e Karin Taylor, Central European University Press, Budapest 2010, p. 211. 51 Mihajlo Mitrović, “Zapis o tri moja dela” (Tre mie opere), Arhitektura Urbanizam, n. 66, 1970, pp. 22-27.
rienza individuale e dimensione collettiva aveva prodotto opere di grande originalità. A cavallo degli anni Sessanta, soprattutto nelle zone di frontiera, emersero le prime tendenze verso il simbolismo. È il caso di Bogdan Bogdanović e della sua idea visionaria di “monumentalizzare” i con ni52. Anche in mancanza di un riferimento esplicito all’Autostrada della Fratellanza e Unità, possiamo ipotizzare che avesse immaginato il monumento di Beleg per essere visto arrivando dalla Slovenia o dalla Macedonia. Aveva previsto “una bella colonna di marmo con una amma in cima: [...] Il simbolo della amma è nato all’interno della nostra Rivoluzione ed è interamente nostro. [...] C’è un modo migliore per segnalare l’ingesso nel nostro paese?” 53 © Riproduzione riservata
52 Bogdan Bogdanović propose che venissero installate delle pietre miliari monumentali per segnalare eventi o luoghi importanti e in particolare i passaggi di con ne. Il simbolo della amma avrebbe sostituito la stella a cinque punte e le tavole di marmo con iscrizioni. 53 Bogdan Bogdanović, “Belezi (Pietre miliari),” in Mali Urbanizam (Sarajevo: Narodna prosvjeta, 1958), 50.
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La canzone urbana di Korça, un commento contemporaneo di Andrea Bulleri
L’Albania ha rappresentato per secoli una border-zone, un luogo di transizione tra Occidente ed Oriente. Sotto l’Impero Ottomano, il “vicino Oriente” identi cava la frontiera orientale (The East End of Europe), un territorio proibito, prossimo al bacino Mediterraneo ma interdetto. Nei momenti di maggior fermento bellico, il timore ingigantiva la diffidenza verso popolazioni squadrate con sospetto e poi con crescente curiosità, verso la ne dell’Ottocento, al tramonto della potenza turca. Il fascino dell’inconsueto attirava i viaggiatori occidentali, che descrivevano modi ed usanze per loro inedite, con notazioni folkloristiche dal sapore quasi caricaturale. Di maggior rilievo appaiono le descrizioni delle città visitate che inquadrano una dimensione architettonica ed urbana profondamente differente dalla concezione europea. Le città balcaniche – “giardini edi cati” dotati di una delicata armonia – si connotano come insediamenti spontanei in un disteso equilibrio paesistico, nei quali il peso dei volumi edi cati non risulta mai preponderante. Gli impianti urbani erano privi del rilievo politico e rappresentativo della città europea. Distesi sull’orizzontale, con abitazioni distribuite in ordine sparso nel verde, si de nivano per: l’assenza di una piani cazione strutturata; la mancanza di una gerarchizzazione degli spazi o una loro quali cazione simbolica, di impronta occidentale; la carenza sostanziale di strutture ricreative e di servizio ed una conformazione composta principalmente da abitazioni. Questi semplici requisiti, radicati in cinque secoli di formazione, hanno contraddistinto ogni agglomerato urbano no alla decadenza politica dell’Impero Ottomano. Concluse le guerre balcaniche, all’inizio del Novecento, nel giro di pochi anni ogni città cambiò volto, adottando un’idea super ciale di modernità europea, culturalmente distante dagli usi e dai modi di vivere che quegli stessi centri avevano generato. Si tratta di un
Korça’s urban song: a contemporary commentary by Andrea Bulleri
On the contemporary scene, Korça’s urban redevelopment stands out as a virtuous exception to other Albanian cases. The 2009 masterplan introduced a strategy compatible with preserving its historical heritage, though aimed at reinforcing the original building fabric. Targeted interventions redeemed the dispersive, indeterminate spaces of the centre, introducing empathic relationships and sophisticated connections between the old and new. Bolles + Wilson, the creators of the masterplan, directors of an unprecedented large-scale urban operation and designers of the built architecture, identi ed ve areas in the redevelopment of the city centre of Korça, for a total area of 197,000 square meters. Each area has a unique character and becomes part of a complex mosaic of public spaces with proportions based on the historical scale. Its homogeneous language makes it easy to read the complex relationships between past and present: a commentary on and connection to a coherent shift between the small and large scale. The backbone of the project is the historical central axis, the Bulevardi Shën Gjergji, highlighting its character as a typical urban promenade. Its pedestrianization rede nes the spatial boundaries and the role of the existing architecture, enhanced by a new visual backdrop.
Nella pagina a anco, in alto: Bolles+Wilson, masterplan 2009; in basso: Palazzo Romeo: schizzo di studio (per le due immagini: Courtesy of BOLLES+WILSON GmbH & Co. KG).
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1 - Korça masterplan: vista dall’alto. 2 - Red Bar in the Sky: prospettiva di studio (per le due immagini di questa pagina: courtesy of BOLLES+WILSON GmbH & Co. KG).
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processo profondo di revisione storica che accomuna l’intera regione balcanica e i suoi centri più rappresentativi: Tirana, Skopie, Sarajevo (la “Damasco del Nord”), Bucarest, So a. La celebrazione dell’indipendenza stabilisce – con l’affermazione acritica del modello occidentale – una netta cesura simbolica con il precedente passato: un arresto tanto repentino quanto deludente nella sua traduzione architettonica e urbana. Ciò che colpisce è l’evidenza, l’assorbimento degli aspetti esteriori della città “occidentale” – strade ampie e dritte, estese linee di tram, negozi, teatri, municipi ecc. –, privi di una forza tale da scardinare veramente la natura dell’assetto precedente, ma forti abbastanza da in uenzarne l’immagine. Il passaggio è consumato in fretta, alla velocità inusuale ed allora insensata dell’Orient Express, il “tappeto magico dell’oriente”. Interi quartieri furono rapidamente demoliti: “abbiamo sprecato 500 anni e adesso siamo pronti a riprenderci il tempo perduto” (Ellison, 1933, pp. 91-92). Come annota Jezernink (2010, p. 312), “È quindi la storia a spiegarci perché nelle città balcaniche non vi sia niente degno di nota dal punto di vista architettonico, fra le rovine del periodo classico e le costruzioni senza carattere dell’ultimo secolo […]. Le tracce ‘turche’ erano del tutto scomparse: i bagni pubblici che i musulmani avevano costruito in tutta la Turchia europea furono abbandonati o deliberatamente distrutti”. Ri uto e omologazione: la dicotomia fra matrici strutturali contraddittorie alimenta molti luoghi e spazi inconsueti del panorama balcanico ma diventa ancora più interessante considerando il caso albanese. A cavallo delle due guerre, l’Albania ha vissuto
la sua prima stagione storica di “omologazione” occidentale, culminata con l’affermazione sistematica di architetture d’importazione, durante il periodo del protettorato e poi dell’occupazione italiana. Una stagione breve, interrotta ancor prima di pervenire a maturazione, per ragioni storiche piuttosto che culturali; perciò il territorio albanese manifesta una reale differenza geogra ca e culturale. Ogni epoca è stata rappresentata e celebrata: nel tempo i vari modelli hanno contrattato la loro sopravvivenza in base all’intrinseca capacità di resistenza. Impianti romani, assetti veneziani, complesse trame ottomane, moderne rifondazioni italiane e revisioni socialiste solo in Albania è possibile ritrovare un numero così rilevante di matrici strutturali, spesso incompatibili eppure capaci di stabilire modelli inusuali di coesistenza. Una città accanto all’altra, senza meccanismi di transizione. La distanza, una voluta indeterminatezza nel rapporto fra le parti, riducono l’evidenza delle differenti impostazioni strutturali e ideologiche. La deliberata rinuncia all’affermazione di un solo indirizzo urbano avviene per un atteggiamento di agnostica tolleranza e la stagione comunista accoglie le diverse voci urbane in un coro polifonico perché diffida della “città”: in una realtà profondamente rurale, rinuncia allo sviluppo dei centri urbani. Anzi, l’accettazione di un composito mosaico consente una logica additiva, l’indolore accostamento di nuovi linguaggi (il neoclassicismo russo, un’architettura “realistica”, la celebrazione del culto della personalità ecc.) e la sistematica distruzione dei precedenti simboli culturali e religiosi, senza particolari traumi e cautele.
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3 - Bulevardi Shën Gjergji, vista notturna (© Roman Mensing. All rights reserved).
Agnostica tolleranza e sincretismo: l’isolazionismo del regime di Hoxha accentua l’esclusività di questi caratteri no al 1997, quando il paese si impone all’attenzione del panorama europeo con contraddittoria evidenza. Lo Stato più giovane d’Europa ha manifestato i maggiori cambiamenti negli ultimi decenni, attraverso una crescita controversa e repentina che ha compromesso i tratti della città storica e determinato un profondo dissesto urbano e territoriale, alti tassi di inquinamento, una gestione problematica delle reti impiantistiche ed infrastrutturali. Le città sono letteralmente esplose, tras gurate dall’avanzare del nuovo, imposto in modo selvaggio e privo di ordine. Tra il 1997 ed il 2001 il fenomeno ha portato all’occupazione indiscriminata di ogni vuoto urbano, aree marginali e super ci verdi: un bulimico consumo di spazio ed architetture senza nessuna piani cazione strategica, cautela o misura urbana. L’abusivismo ha dilagato: soprattutto nelle aree periferiche la crescita dell’area urbana è stata esponenziale. Il 70% delle costruzioni realizzate dopo il 1991 è risultato sprovvisto di ogni autorizzazione edilizia. Con l’affermazione de nitiva di un governo democratico, in una prima fase, senza stravolgere il particolare carattere polisenso dell’impianto preesistente, il rinnovamento dell’immagine urbana è stato perseguito
ancora con una logica additiva, attraverso l’introduzione di landmark urbani aggiornati sulla cifra del villaggio globale: “grandi interventi di sapore mediatico, riferimenti urbani dal grande potere attrattivo, in grado di sostituire gli apparati simbolici e segnici della città preesistente” (Bulleri, 2011, p. 73). Il fenomeno ha interessato soprattutto Tirana, palcoscenico internazionale della “nuova” architettura, ma non ha inizialmente compromesso il carattere sincretico del centro urbano e la vocazione “orientale” dei suoi spazi aperti1: la sua composita ricchezza è invece venuta meno con l’abbandono della sua na1 “Tirana’s culture is still very social relative to the West. However, lifestyle changes in the use of public spaces. Research revealed that both Westernizing and Orientalizing forces (i.e. a revival of Albania’s Ottoman legacy) are at play. While westernizing trends have led to a withdrawal to domestic and virtual spaces, Orientalizing (or re-Orientalizing) trends are held responsible for the move of social encounters from public spaces to ‘third spaces’ […]. Once outside the home, socializing tends to take places in cafés, bars and restaurants, where entry is limited to the more affluent, in contrast to the communist era when socialization took place in parks and promenades where access was universal. The inner city has thousands of ‘third’ spaces, which are full most of the day with people of all ages. They give the city a kaleidoscopic look”. Pojani D., Maci G. (2015), “The Detriments and Bene ts of the Fall of Planning: The Evolution of Public Space in a Balkan Post-socialist Capital”, Journal of Urban Design, n. 2, p. 263.
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4 - Il nuovo municipio: prospettiva di studio. 5 - Il teatro Andon Çajupi: la facciata (per le due immagini di questa pagina: courtesy of BOLLES+WILSON GmbH & Co. KG).
turale tolleranza e la de nitiva affermazione, negli ultimi cinque anni, di un’omogenea “occidentalizzazione”. Ciò ha comportato la cancellazione di importanti testimonianze del patrimonio architettonico e di ampi settori del tessuto urbano di derivazione ottomana2. Il “fenomeno Tirana” ha monopolizzato a lungo l’attenzione mediatica, marginalizzando l’interesse su scenari alternativi che rappresentano una virtuosa eccezione: tra i questi il caso di Korça merita un’analisi più approfondita. Centro consolidato di media grandezza, Korça si trova nella regione storica dell’Epiro, al margine del con ne macedone ed in prossimità del lago di Ohrid, uno dei più antichi e profondi d’Europa. Il paesaggio predomina – 2 Per maggiori approfondimenti: Bulleri A. (2018), Back to the Future. Architecture and urban planning for an (extra)ordinary metropolis, Oil Forest League, Rionero in Vulture, pp. 113-126.
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il lago e, sullo sfondo, le montagne della Morava – ed in tale contesto la città si adagia. Occupa, infatti, una vasta valle altrimenti priva di insediamenti e conserva ancora la delicata morfologia dei villaggi in pietra: stradine in acciottolato disegnano sottili trame labirintiche tra un’edilizia serrata e minuta. L’impronta storica è analoga a Berat o Girocastro – città patrimonio dell’umanità –, affini per prossimità geogra ca e culturale, ma da queste si distingue, tanto da essersi guadagnata il soprannome di “piccola Parigi d’Albania”. Korça ha un respiro urbano più aggiornato, per la presenza di boulevard alberati, centri culturali e parchi ben curati, che denotano un assetto piani cato e ben determinato: Montanelli (1939, p.15) la de nisce “una piccola Milano”3. Una condizione ben diversa da Tirana, “une avenue sans capitale”, come la descrive Arnaud (1994, p. 4). L’utilizzo di matrici urbane occidentali è riconducibile alla presenza dell’esercito francese, durante la prima guerra mondiale (19161920), che consentì il rientro di numerosi emigranti albanesi ortodossi e la proclamazione della repubblica autonoma albanese di Korça. L’episodio storico, pur modesto, precisa un cambiamento: da borgo ottomano di media importanza a signi cativa realtà urbana in un’Albania per la maggior parte rurale. Non si tratta però di un esempio ben riuscito di un mero modello d’importazione, al di là delle apparenze, il risultato è sincretico, vi è una sommatoria di esperienze: “All here is Albanian” (Durham, 1905, p. 252). Ogni passaggio ha lasciato un segno, elementi di derivazione orientale e balcanica si fondono con una sensibilità di tipo occidentale in un centro esposto a molteplici sollecitazioni culturali – greche, turche, rumene, francesi ma anche nordamericane e italiane – che trovano una meravigliosa sintesi nella “canzone urbana di Korça”, una raffinata tradizione melodica (come i ritmi del rebetiko e quelli zoppi) interpretata da Spanja Pipa. La “canzone urbana di Korça” è il riferimento culturale più prossimo, l’analogia appropriata per descrivere la loso a di accettazione e coinvolgimento dell’esistente sperimentata dal masterplan del 2009 che ha introdotto una strategia compatibile con la salvaguardia del patrimonio storico, seppur mirata all’intensi cazione dell’originario tessuto edilizio. Interventi puntuali hanno riscattato gli spazi dispersivi e indeterminati del centro, utilizzando rapporti empatici e relazioni 3 “Korça, la più orientale dell’Albania è la città più occidentale di essa, una piccola Milano”.
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ricercate tra vecchio e nuovo. Registi di un’inedita operazione urbana a larga scala e progettisti delle architetture costruite, Bolles+Wilson identi cano cinque settori nella riquali cazione dell’area centrale di Korça, per una super cie complessiva di ben 197.000 mq: la “Cultural Promenade”,la piazza del teatro, la piazza della cattedrale, il parco centrale, il “Green Heart” e le “Development Islands” (un sistema integrato di aree verdi, nuovi edi ci e ville preesistenti restaurate). Ogni zona possiede un carattere unico e si quali ca come parte di un complesso mosaico di spazi pubblici proporzionati sulla scala storica. L’omogeneità del linguaggio sempli ca la lettura delle complesse relazioni tra passato e presente: commento e legame di un coerente passaggio tra la piccola e la grande scala. La “Cultural Promenade” occupa il Bulevardi Shën Gjergji o Pedonalja – denominato “Viale Regina Elena” durante il periodo italiano – e rappresenta l’asse principale del piano, in grado di ri-orientare l’intero assetto urbano sulla Cattedrale della Resurrezione. La piazza della cattedrale è il fondale tematizzante, punto di convergenza prospettica del boulevard e “cerniera” per il viale trasversale di attraversamento (il Blv. Republika). È ricomposto un legame storico: l’originario edi cio di culto era stato demolito nel 1968, durante la dittatura comunista, la nuova chiesa ortodossa è stata ricostruita nel 1992: il masterplan le restituisce un ruolo urbano adeguato
alla sua importanza sociale e culturale. La pedonalizzazione della nuova passeggiata urbana ride nisce i con ni spaziali e il ruolo delle architetture esistenti, ivi compresa la predisposizione di un nuovo fondale, all’estremo opposto della cattedrale della Resurrezione: la sua imponenza visiva è controbilanciata dal “Red Bar in the Sky”, uno snello campanile costruito sulla piazza del teatro (Bolles+Wilson, 2014). L’edi cio assume le sembianze analogiche di una “facciata” – nell’ironica evidenza della sua bidimensionalità –, proponendosi come un belvedere sul palcoscenico urbano: la piattaforma panoramica consente uno sguardo privilegiato sulla città in formazione. Alla nta facciata sull’asse verticale risponde, sul piano orizzontale, l’impronta della facciata della chiesa di San Giorgio (oggi scomparsa) nel ri-disegno della pavimentazione, contrappuntata da raffinati “tappeti” cromatici. La promenade è pensata come un luogo della memoria in cui ricollocare ogni oggetto del passato esattamente al suo posto: la riproposizione di legami supera la caducità temporale. Vale anche per la riquali cazione della biblioteca del periodo socialista, recuperata e riportata al suo ruolo storico di Municipio, sul margine del boulevard: simbolicamente il suo ripristino chiude la parentesi socialista. La pesante volumetria scatolare è alleggerita dall’utilizzo gra co di una bordatura bianca sul paramento in pietra e dal parapetto traforato. Grandi persiane scorrevoli sottoli-
6 - Piazza della Casa Blu: vista generale (© Roman Mensing. All rights reserved).
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7 - Icon Museum: la Gold Room (© Roman Mensing. All rights reserved).
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neano l’importanza delle bucature ricavate nel volume del primo piano che si oppone, per contrasto, alla luminosa permeabilità del piano terra, in rapporto con la strada. Al primo livello interrato la luce è più soffusa e la variopinta parete di bottiglie di vino della Camera del Consiglio riecheggia sensibilità orientali oltre ad assicurare uno “smorzamento acustico”. Il nuovo asse de nisce così gli spazi della “permanenza” istituzionale e culturale e quelli del movimento e della provvisorietà, predisponendo una strada/piazza fruibile per eventi di maggior richiamo (festival, ricorrenze civili e religiose). L’ampia piazza del teatro, di forma triangolare, controbilancia visivamente il fondale della cattedrale e introduce un “sottotema”: il teatro Andon Çajupi, nel rinnovato contesto, è rielaborato in un processo di ri-scrittura della facciata e di ristrutturazione interna (Bolles+Wilson e DEA Studio, 2017). Il nuovo impaginato è contraddistinto, nel volume principale, da una gigantesca faccia nera, in rilievo su campo bianco: la “Maschera tragica”. La “Maschera comica”, bianca e incavata, è invece posta al centro di un volume cubico secondario, in basalto nero. Una teoria di 140 facce in terracotta completa lo spartito della facciata principale: rappresentano gli abitanti di Korça, un pubblico emblematico e partecipe. Alla piccola scala, i termini di recupero dell’esistente sono stati contrattati dai progettisti con la municipalità di Korça, in un’intensa cooperazione site-speci c che ha fornito soluzioni inattese, e talvolta imprevedibili, per la riquali cazione di situazioni marginali e nodi
irrisolti del tessuto esistente. Si tratta di una forma aggiornata di “agopuntura urbana” che ha arricchito la città di nuove ri-letture, inediti registri espressivi per vecchi edi ci. In un tale contesto, le piazze costituiscono gli spazi di transizione e di passaggio tra i vari ambiti, lungo il rinnovato sistema di sequenze urbane, con gurando tre luoghi principali di recente riquali cazione, identi cabili: nell’area verde antistante il Pazari i Vjetër, il caratteristico bazar ottomano; il Giardino del Paradiso, prossimo alla moschea di Iljaz Mirahori (1494), la più vecchia dell’Albania; la piazza della Casa Blu, così denominata per l’intenso blu applicato su un edi cio abusivo, prossimo alla demolizione (Bolles+Wilson, 2016). In quest’ultimo caso la ri-signi cazione cromatica dell’object trouvé – utilizzata da Bolles+Wilson anche a Tirana –, conferma un tratto peculiare della poetica dello studio tedesco: il ready-made consente il riscatto estetico dello “scarto” urbano. Sono esempi che sottolineano l’importanza di una progettualità diffusa, coerentemente orchestrata e rispettosa dell’esistente, sviluppata secondo previsioni urbane attuate per step successivi – dal centro alla periferia – che stabiliscono nel tempo una continuità d’azione. Korça propone un’alternativa nello sviluppo contemporaneo delle città albanesi e balcaniche in generale. Bolles+Wilson utilizzano infatti una metodologia progettuale non convenzionale: i primi schizzi di Peter Wilson precisano strategie d’intervento sugli scenari urbani (il concept); un’equipe di giovani architetti albanesi (Olgert Maxhe, Andronira Burda) ha poi il compito di trasporli in formati digitali, successivamente manipolati e perfezionati in una sequenza iterativa di aggiustamenti sul sito. Si tratta di una loose- t procedure – denominata “Scenographic Urbanism” dai due architetti – che persegue un’idea di tolleranza: una logica debole e appropriata alle limitazioni nanziarie di un paese in via di sviluppo, orientata all’utilizzo di tecniche artigianali locali di consolidata tradizione (piuttosto che prodotti high-tech). Un approccio incompatibile, sotto molti punti di vista, con l’utilizzo di protocolli architettonici n troppo vincolanti o eccessivamente succubi delle convenzioni costruttive europee. L’edi cio per appartamenti “Palazzo Romeo” (Bolles+Wilson, 2020) ha avuto questa genesi: ricerca un legame più stretto con il contesto proponendo una tipologia edilizia in grado di contrastare il peso visivo dei pesanti casermoni del periodo comunista. Fra i progetti realizzati, l’architettura più
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8 - Icon Museum: studio d’insieme (Courtesy of BOLLES+WILSON GmbH & Co. KG).
rappresentativa a livello internazionale è l’Icon Museum o Medieval Art Museum (Bolles+Wilson e DEA Studio, 2016), uno spazio pensato per ospitare 300 icone ortodosse: la maggior collezione in Europa. Simbolicamente il museo rappresenta la “celebrazione della sopravvivenza”: le icone sono miracolosamente scampate alla sistematica distruzione messa in atto dalla dittatura di Hoxha; l’edi cio stesso recupera un autentico rudere di cemento (per l’abbandono conseguente alla caduta del regime e la successiva spoliazione). Il percorso espositivo si sviluppa sui due piani dell’edi cio, nella successione spaziale di quattro “stanze”, contraddistinte anche cromaticamente, a partire dalla lobby d’accesso. L’ampio spazio a doppia altezza della Gold Room accoglie il maggior numero di opere – ordinate su una grande pareteschermo – e conduce al White Balcony, posto ad un livello superiore: un’eterea stanza bianca che ospita due icone del XIV sec.. Il Black Labyrinth occupa la parte centrale del museo ed è scandito da piccoli locali in penombra, disposti lungo un percorso che si conclude nel Red Salon: l’ampia sala dedicata alle iconostasi. Questo contributo rappresenta una sintesi, sono molte le architetture recentemente completate – National Sports Center + Kids Museum (2019), Spiro Bardhi Hotel (2019) – o in corso di costruzione (Korça Bus Station e i piccoli interventi di densi cazione previsti per il quartiere Ligor Rembeci). “Equilibrio” e “rispetto” possono essere considerate le parole chiave della riquali cazione urbana intrapresa a Korça ed ancora in divenire. Una simile procedura di rigenerazione ha pochi precedenti – tra i quali l’attività di Snozzi a Monte Carasso –, relativi però a realtà provinciali più piccole. In una realtà
complessa come quella descritta, un esito positivo non era affatto scontato. Gran parte del merito è da ascrivere alla coerenza e alla continua capacità di mettersi in gioco di Bolles+Wilson che hanno agito a tutto campo e ad ogni livello di scala, dall’ideazione del piano, alla progettazione e successiva realizzazione degli interventi architettonici. © Riproduzione riservata
Bibliogra a Arnaud C. (1994), Le Caméléon, Grasset, Paris. Bulleri A. (2011), “Tirana. La capitale colorata”, Paesaggio urbano, n. 6, pp. 56-81. Bulleri A. (2018), Back to the Future. Architecture and urban planning for an (extra)ordinary metropolis, Oil Forest League, Rionero in Vulture.
Durham M.E. (1905), The Burden of the Balkans, G. Allen & Unwin, London. Ellison G. (1933), Yugoslavia. A New Country and Its People, John Lane, The Bodley Head, London. Jezernink B. (2010), Europa selvaggia. I Balcani nello sguardo dei viaggiatori occidentali, EDT, Torino. Montanelli I. (1939), Albania una e mille, Paravia, Torino. Pojani D., Maci G. (2015), “The Detriments and Bene ts of the Fall of Planning: The Evolution of Public Space in a Balkan Post-socialist Capital”, Journal of Urban Design, n. 2, pp. 251-272.
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Paradigmi segnici nel paesaggio lituano: alcuni progetti recenti di Palekas di Donatella Scatena
Le tre repubbliche baltiche di Lituania Lettonia e Estonia rappresentano una interessante realtà in fertile trasformazione dentro l’Europa; la spinta verso la contemporaneità che le anima non ha però messo in discussione una loro forte e ricercata consapevolezza culturale. Paradigma di quella che potremmo de nire una identità multipla1 è la città di Vilnius, capitale della Lituania, dove le varie e ripetute dominazioni che si sono succedute negli ultimi secoli non sono state mai subite dal paesaggio urbano e hanno invece creato i presupposti per sperimentazioni linguistiche ed innesti nel contesto territoriale sedimentato. Ancora nel 1991 lo storico lituano Vladas Drėma2, nel solco di un certo pensiero conservatore che rintraccia la bellezza esclusivamente nell’architettura della tradizione, temeva che la dominazione sovietica fosse riuscita a cancellare la bellezza della città: “Non è un segreto che ora, con lo sviluppo delle costruzioni industriali e un tipo edilizio uniforme, in questa lotta continua per la supremazia economica, c’è il pericolo che la città assuma un aspetto monotono e perda la sua identità, quella speci ca alla quale gli abitanti del luogo sono abituati e per la quale la città è ricercata con passione dai viaggiatori […]. Il patrimonio culturale e artistico delle città antiche è amato anche per la qualità intrinseca della sua architettura, per i valori culturali che si generano nei contesti di altre epoche, per l’opportunità di vedere lo sviluppo storico di questi valori artistici e per la possibilità di riconoscere i caratteri distintivi e le tradizioni della storia”3. 1 De nizione di Amarthya Sen economista e premio Nobel che in Identità e violenza (Laterza 2008) studia il valore anche economico delle differenti identità presenti contemporaneamente nel corpo sociale e nella mente umana, senza acquisire valenze patologiche e senza perdere l’unicità dell’insieme. 2 V. Drėma, Dingęs Vilnius, Vaga, 1991, p. 392. 3 J. Reklaitė, R. Leitanaitė, Vilnius 1900-2013. A guide to the City’s Architecture, Architektūros Fonfas, 2013 p. 6 (Trad. di D. Scatena).
Sign paradigms in the Lithuanian landscape: recent projects by Palekas by Donatella Scatena
Located in the exact geographical centre of today’s Europe, at the intersection of its eastern and western parts, Vilnius has always been a multicultural city. Tomas Grunskis writes: “Being between Eastern and Western Europe, on a crossroads between these two worlds, Vilnius has either been the last outpost of the culture of Western Europe, or the East European city of the Western culture. Because of transformations in sociocultural conditions, whatever the context around it, it has always acquired traits of the context, sometimes becoming a multicultural West European city, sometimes the distant province of an empire”. As all these dominations have left their symbols and historical marks on it, Vilnius is now multinational and open to all. The work of Rolandas Palekas is particularly sensitive to these aspects. Born in 1963, he was educated in the 1980s at the Institute of Engineering and Architectural Studies, now VGTU, where he is an Associate Professor. In 2001 he founded Paleko Architecture. During this time, Palekas’ evolution overlapped with the transformation of his country which nally and de nitively won its independence from the Soviet Union after 1990. This article presents a selection of projects designed by Paleko Architecture from 2003 to 2017, which offer the reader an effective and signi cant perspective of the evolution and maturation of Palekas’ work. They also re ect the new social and architectural image of the Lithuanian urban landscape.
Nella pagina a anco, in alto: Milda House (a sinistra); blocchi di appartamenti a Basanaviciaus, passarella aerea tra i due blocchi dentro il parco (a destra). In basso: Rasu Namai, veduta dalla strada interna.
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preoccupazione di Drėma che Vilnius soccombesse sotto la monotonia grigia della cementi cazione (o sotto qualunque altra imposizione politica o culturale) non si è avverata e la natura del luogo ha prevalso e in uenzato anche il lavoro di architetti contemporanei. Attraverso una ride nizione di linguaggi minimali e puristi che si innestano con attenzione al luogo nei quartieri sovietici o ride niscono spazi della città consolidata e antica, pur denunciando la loro aderenza al linguaggio odierno, gli architetti lituani stanno contribuendo alla ride nizione di una capitale dinamica, iconica e attraente. Particolarmente interessante è, sotto questo aspetto, il lavoro di Rolandas Palekas. Come molti suoi coetanei nati negli anni ’60, Palekas fa parte di una generazione che ha studiato negli anni ’80 delle grandi università sovietiche, ha avuto un periodo di ri essione e formazione sul campo nel periodo che vedeva sgretolarsi il grande impero comunista ed emerge nell’ambito della disciplina architettonica all’inizio del nuovo secolo. Nel 2001 fonda lo studio di architettura Paleko5, con il quale progetta, realizza e vince concorsi e premi nazionali ed internazionali. L’evoluzione dell’architetto si sovrappone alla trasformazione del suo paese che dopo il 1990 aveva conquistato, appunto, l’indipendenza dall’Unione Sovietica.
Le case sul pendio
1 - Blocchi di appartamenti a Basanaviciaus, assonometria. 2 - Rasu Namai, il modello.
Vilnius non ha mai smarrito la sua autenticità perché, sorgendo nel centro geogra co esatto dell’Europa odierna, all’incrocio tra la parte orientale e quella occidentale, è sempre stata culturalmente ed etnicamente varia: “I segni della globalizzazione sono sempre stati evidenti” afferma Tomas Grunskis… “Attraverso la sua storia (Vilnius, nda) è stata l’ultimo avamposto della cultura occidentale nell’Europa dell’est e contemporaneamente la prima città dell’est in occidente. In seguito alle trasformazioni socioculturali, in qualunque modo esse siano avvenute, la città ha sempre assorbito nuovi caratteri da ogni contesto, alle volte diventando una città dell’occidente europeo multiculturale, altre volte trasformandosi nella lontana provincia dell’impero”4.
Quindi, si può senz’altro affermare che la 4 J. Reklaitė, R. Leitanaitė, Op. Cit.
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Lo studio della residenza è un tema che ha permesso all’architetto lituano di sperimentare il rapporto con il contesto, la natura collinare intorno alla città, e il rapporto con la tradizione dell’abitare. Molti i progetti, tra questi: Milda House, il complesso Basanaviciaus e la piccola lottizzazione di Rasu Namai (2013 – 2015 con Plazma Architects). Milda House (2003) è uno dei primi progetti dello studio Paleko e si inserisce in quel sentimento borghese della casa unifamiliare, isolata con giardino. Edi cata a nord-est del centro urbano, nel quartiere di Antakalnis, è in un’area residenziale al limite di un vasto bosco, su un lotto in pendenza a ridosso della via e si con gura come un parallelepipedo sospeso e retto da una struttura in acciaio. La base, che in tal modo risulta libera dall’ingombro del fabbricato, viene destinata a verde e a parcheggio privato. 5 Lo studio Paleko è composto da R. Palekas e i soci Bartas Puzonas, Alma Palekienė, Dalia Uogintė, Ugnė Morkūnaitė, Karolina Burbaitė, Radvilė Samackaitė, Rokas Stasiulis.
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L’ingresso all’abitazione avviene attraverso il volume a piano terra, arretrato rispetto al lo del prospetto principale, che contiene i locali tecnici e le scale per l’accesso al piano superiore: qui si trovano la zona soggiornopranzo-cucina con una piccola corte, un salotto e la zona notte. Il volume quadrato, a un piano, di matrice purista, appare sospeso sul pendio e la sua con gurazione spaziale genera un contrasto tra pieno e vuoto: i prospetti anteriore e posteriore interamente bucati, sfruttano al meglio i bene ci del soleggiamento ed enfatizzano il contatto visivo con il contesto naturalistico. I fronti laterali, invece, sono caratterizzati da una predominanza del pieno sul vuoto, per risolvere la questione dell’introspezione. Un cortile interno è posto tra il salotto e la cucina. Il fronte sul retro orientato a sud è protetto da un aggetto schermante che funge da ltro tra interno ed esterno e si con gura come un’estensione della zona soggiorno-pranzo. L’obiettivo è quello di salvare ed enfatizzare la relazione tra gli spazi interni e la natura circostante, per permettere di vivere su un unico livello. Con il complesso residenziale di via J. Basanaviciaus (2015), nella città consolidata, Palekas riprende e interpreta le gure architettoniche della tradizione come il tetto a falde. Le coperture infatti, fortemente spioventi, riprendono il pro lo tipico delle architetture residenziali limitrofe e della vicina città storica. I tre blocchi di appartamenti possono anche essere considerati un ottimo esempio di edilizia contemporanea che si relaziona e si lega al contesto urbano, paesaggistico e storico-culturale in cui sorge: un’area di margine tra Senamiestis6, coincidente con il centro storico di Vilnius, e Naujamiestis7, ovvero la città sviluppatasi nella seconda metà del diciannovesimo secolo. L’intervento restituisce al sito di forma irregolare e perpendicolare alla strada, adibito per un periodo a parcheggio, l’originaria funzione residenziale ricostruendo anche il fronte dello strategico viale urbano. I tre edi ci ad appartamenti, staccati l’uno dall’altro e connessi da passarelle, hanno volume e super cie simili e si adattano alla morfologia del luogo intessendo un tto dialogo con il tracciato urbano: due dalla strada commerciale scendono verso il parco cittadino, il terzo, sistemato più in basso nel verde, sceglie il morfotipo della villa nel bosco. 6 La città vecchia. 7 La città nuova.
I blocchi seguono giaciture differenti: l’edicio prospiciente la via J. Basanaviciaus si allinea al fabbricato adiacente; il blocco retrostante si insedia perpendicolarmente al precedente; il terzo ed ultimo subisce una lieve rotazione per sfruttare meglio la discesa. Il piano terra dell’edi cio su strada è destinato ad attività commerciali; nel primo e nel secondo blocco i prospetti presentano un rivestimento ad intonaco di colore chiaro per riprendere le qualità materica e cromatica degli edi ci limitro , per uniformare i colori dell’edi cio immerso nel parco alla stagionalità degli alberi è stato utilizzato il legno. Il dialogo con l’area urbana è demandato anche alle bucature modulari, omogenee, impostate su una geometria regolare che non lascia trasparire la funzione degli ambienti interni e riprende l’impaginato dei prospetti tipico del centro storico di Vilnius. I fronti laterali di ciascun edi cio sono segnati da un forte contrasto luce/ombra data la presenza di balconi fortemente aggettanti.
3 - Litexpo. 4 - Padiglione Litexpo.
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5 - Veduta planimetrica del complesso museale Litexpo alla base delle colline di Lazdynai.
Il terzo blocco di appartamenti è più basso di un piano: il legno grigio scuro del rivestimento e la rotazione in pianta gli conferiscono un carattere di “villa urbana” immersa nella natura. Sempre immerso nel bosco e sempre caratterizzato da un declivio il quartiere di Rasu Namai sorge su un lotto che un tempo era zona militare e dove oggi sono rimaste antiche cripte per munizioni costruite dai Polacchi nel 1920. Il lotto ha una forma a cul-de-sac e le diciotto unità che compongono l’abitato sono al centro di due terrazzamenti, uno sulla riva di un torrente e uno sulla strada: al centro delle costruzioni una strada-corte diventa luogo privato e insieme della collettività e realizza l’idea di uno spazio condiviso e urbano, seppure immerso nella natura. Tutti gli edi ci hanno una forma compatta che riduce la perdita di calore e contemporaneamente favorisce l’accessibilità alle pos-
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sibili riparazioni, il colore e l’uso dei materiali è uniforme: le facciate sono rivestite di larice siberiano, che si trova facilmente nelle foreste della regione, per rispettare l’uso della tradizione locale. Otto case sono rialzate su pali ssati ai muri di sostegno delle volte militari per captare meglio il sole unite a due a due da scale con ringhiera in metallo in corrispondenza delle cripte, che sono di proprietà degli inquilini che abitano al di sopra mentre la soprelevazione consente il libero accesso dalla strada alle volte storiche con le facciate decorate. I volumi sono a due piani, hanno piante regolari e tetti spioventi con una forte inclinazione. In basso le altre case unifamiliari guardano verso il torrente. Le s de incontrate dai progettisti qui sono state vinte: i problemi legati al sito estremamente stretto con differenti pendenze, la sua mancanza di soleggiamento e la presenza di reperti storici anziché contrastati sono stati
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enfatizzati proprio con la giacitura rialzata e ribassata delle residenze. Il progetto per la sua attenzione al luogo e al rapporto tra innovazione e tradizione ha avuto una segnalazione al Premio Mies van der Rohe nel 2017.
En plen air: le grandi strutture educative e culturali Due edi ci istituzionali nuovi e due riquali cazioni dello studio Paleko riallacciano le trame tra epoca sovietica e contemporaneità in un ambito di spazi collettivi e azioni culturali in diretta connessione con i piani aperti immersi nel verde della periferia. Nel 2008 si realizza l’ampliamento dello spazio espositivo Litexpo e, di fronte, un nuovo Padiglione sempre per mostre e installazioni nella parte periferica a ovest della città di Vilnius, tra le colline e il ume Neris. Qui sorge Lazdynai, quartiere modello dell’architettura modernista. In epoca sovietica la forma della città si era espansa, per decisione del gruppo di progettazione urbanistica del partito comunista, all’esterno dell’agglomerato urbano, verso nord ovest, dove era possibile trovare grandi aree libere in cui inserire le fabbriche e accanto i nuovi suburbi e i loro servizi. Lazdynai rappresentava proprio «La creatività nell’abitazione di massa»8, poiché, nonostante le ferree regole della urbanizzazione sovietica che prevedeva una gerarchizzazione delle zone, nel 1959-1969 si assistette all’ascesa di una scuola razionalista lituana composta da giovani architetti. Il quartiere residenziale di Lazdynai, progettato nel 1962 e terminato nel 1973 da due giovani piani catori e architetti Vytautas Brėdikis e Vytautas Čekanauskas, raffigura una rivoluzione nella concezione dei quartieri a blocchi di case, già dal nome che porta con sè una storia millenaria, poiché Lazdynai sembra provenire dalla parola polacca “nocciole”, frutto abbondante dei boschi che coprono il territorio su cui sorge. All’inizio, poi, Lazdynai avrebbe dovuto coprire una vasta super cie dove ora si trovano ben tre distretti: Lazdynai, Karoliniškės e Viršuliškės, ma, per non abbattere gran parte della foresta circostante, l’architetto Čekanauskas, che si ispirava alle recenti comunità urbane nlandesi, decise di progettare un quartiere più piccolo, preservando 8 M. Dremaite, Baltic Modernism. Architecturenand Housing in Soviet Lithuania, Dom publishers, 2017, p. 174.
così la foresta e adattandosi ad essa. Come a Tapiola anche a Lazdynai gli architetti volevano mantenere il rapporto naturale con le colline e la foresta, realizzando blocchi di appartamenti innovativi di 5, 8 e 10 piani disposti seguendo il declivio delle colline. Alla base di queste colline, per continuare la realizzazione dei servizi di Lazdynai, troviamo quindi il padiglione Litexpo, costruito nel 1980 dall’architetto Edmundas Stasiulis. Poco più di vent’anni dopo, lo studio Paleko è incaricato della riquali cazione architettonica e della ricostruzione parziale dell’edi co e dei suoi spazi espositivi. L’edi cio sovietico è vincolato e la sua implementazione è stata eseguita secondo le linee guida dell’Istituto di Conservazione del Patrimonio Culturale, per preservare il progetto originale, rinnovando le parti ormai deteriorate del padiglione: ricostruzione della copertura e della sua struttura portante.
6 - Biblioteca Universitaria, vista esterna. 7 - Kairenai, terrazza del laboratorio botanico.
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8 - Kairenai, veduta della facciata del laboratorio botanico. 9 - Progetto di concorso per la piazza Lukiskes.
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Al suo interno l’obiettivo è stato di preservare il progetto originario, conservando, dove possibile, la pavimentazione in granito, integrandola contemporaneamente con nuove parti realizzate in un materiale con le stesse qualità della pietra originaria in una sorta di ricucitura con la preesistenza. Di fronte all’edi cio dello scorso secolo, lo studio Paleko realizza poi anche il Litexpo Pavilion, una nuova costruzione che instaura un dialogo con il landscape circostante. Im-
postato su una pianta di forma triangolare, si connette visivamente con le pendenze verdi e si dispone per un eventuale ampliamento futuro della struttura espositiva. Il taglio triangolare è inoltre un segno urbano chiaro nel territorio, che ha permesso la creazione di uno spazio pubblico antistante articolato in modo lineare, coperto in parte da una pensilina, che sporge rispetto al fronte dell’edi cio, in profonda comunicazione con l’interno del padiglione. Interno ed esterno dialogano e rappresentano l’uno l’espansione dell’altro. Il prospetto che si affaccia sullo spazio pubblico è completamente vetrato, in contrapposizione con gli altri lati, uno opaco e un altro su cui si attestano i servizi. Dietro la parete vetrata un sistema di pilastri a pianta circolare sorregge un ballatoio che guarda all’area espositiva, completamente libera, pensata per ospitare conferenze con anche 2000 posti a sedere. Come nell’interno del padiglione sovietico, anche in questo caso il design è minimale, per enfatizzare le opere messe in mostra negli edi ci. Pannelli acustici di colore bianco coprono gli impianti posti sotto al solaio di copertura e rivestono i due lati opachi. Contemporaneamente i pannelli, per assolvere la loro funzione acustico-ingegneristica, possono essere ruotati, modi cando la percezione della texture del muro agli occhi dei visitatori. La Biblioteca Universitaria di Vilnius progettata da Palekas nel 2013, è un altro oggetto che si incastona nella periferia cittadina dove dal 1968, in un’area di 175 ettari, si trova il campus universitario caratterizzato da una pianta aperta che ancora oggi viene implementata. Bisogna ricordare che i grandi complessi universitari, come anche quelli ospedalieri e sportivi, nascono in seguito ai due decreti di Khrushchev del 1957, che incentivavano l’industrializzazione e la prefabbricazione, ma avevano in realtà sviluppato anche un programma di stato sociale che garantiva la realizzazione di una casa per ogni famiglia sovietica, e lo sviluppo dei servizi per la cura e la salute e l’istruzione di tutti, pensati in grande e per essere ampliati negli anni. Alla nuova biblioteca, che si compone di tre volumi bianchi simili a pietra dalle forme irregolari e si trova sul viale in asse con i tre parallelepipedi sovietici della didattica, si accede da una piazza leggermente incavata nel terreno, de nita da scalini che si snodano attorno al perimetro, reminiscenza dei posti a sedere dell’an teatro.
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Dopo il piovoso e gelido inverno la piazza, rivestita di calcestruzzo privo di giunti, si anima di persone, di eventi artistici, di sculture ed istallazioni e di tavoli della caffetteria che ha un accesso diretto all’esterno. Sul lato opposto della passeggiata il prato diviene un’oasi per rilassarsi in solitudine e per fare picnic. Procedendo sulla strada nord est si raggiunge il parco regionale Kairenai, dove si trova l’Orto botanico dell’università, composto da 199 ettari, 9000 piante, 886 tipi di peonie, liane, rododendri, lici e dalie, stagni, vegetazione incolta, rovine del XVI secolo, ritenuto il giardino più grande della Lituania. Anche qui Palekas e il suo studio effettuano un intervento di riquali cazione di una scuderia sovietica (2016): la teca di cristallo, che ha dato origine al Centro di Ricerca e ai suoi laboratori annessi, è stato vincitore del premio Mies van der Rohe. Si tratta di una serra completamente trasparente ed esposta su tre lati che smaterializza il perimetro dell’edicio e annulla il con ne tra interno ed esterno, mentre il tetto è trasformato in un’area di caos ricreativo in cui la terrazza con un giardino a nord diventa una passeggiata in quota, da cui è possibile osservare l’intero Orto Botanico. L’elemento che desta maggiore stupore è la pelle completamente avvolta nel verde. Una serie di elementi verticali costituiscono una rete a maglia a cui si ancorano le piante disposte in lari erbosi. Tutte le colonne sono progettate come elementi mobili, che possono essere rimossi o spostati se necessario. In tal modo si ha la possibilità di regolare l’irraggiamento solare a seconda delle stagioni dell’anno o addirittura a seconda delle ore del giorno. Nel periodo estivo la rigogliosità delle piante riduce gli spazi tra le colonne, proteggendo così i locali dal surriscaldamento, mentre in inverno i lari si fanno spogli, permettendo in questo modo il totale passaggio della luce. L’insieme è una struttura assolutamente permeabile: la trasparenza e la tecnologia della sua “pelle” rendono difficile capire dove nisca il Parco e dove cominci l’edi cio.
ed è situata tra l’ex palazzo del KGB, oggi museo, e la chiesa dei Santi Patrizio e Giacobbe. La parte settentrionale della piazza si congura come uno spazio più aperto rispetto alla città con pochi alberi e con la presenza di padiglioni che possono contenere diversi usi come l’ingresso al parcheggio sotterraneo, caffè o spazi per mostre fotogra che. Questa piazza ha un signi cato speciale per la città, che il progetto di Palekas ha saputo recepire e restituire alla città attraverso una sospensione, il vuoto centrale protetto da un boschetto di tigli, a raffigurare la memoria collettiva. Vilnius, ancora una volta, accoglie e fa suoi i nuovi usi dello spazio urbano, delle architetture e della trasformazione del suo skyline. © Riproduzione riservata
La foresta urbana al centro della città In ne una rinascita di un luogo urbano, che riannoda architettura e storia. La piazza Lukiskes è un progetto di riquali cazione (2011), uno spazio trapezoidale bordato di tigli con al centro la zona più commemorativa
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Transizioni macro-scalari. Piani cazione urbana e modi cazione nella Cina di oggi di Giusi Ciotoli
«C’è ancora chi si immagina che la Cina d’oggi continui a vivere, serrata e impenetrabile nella immobilità dei millenni, dietro il baluardo della Grande Muraglia, costruita dai più antichi imperatori per sbarrare le strade alle invasioni che venivano dal nord»1. Con queste parole Piero Calamandrei presentò al pubblico italiano un numero della rivista Il Ponte divenuto “storico”; si trattava della raccolta di appunti di viaggio e saggi critici redatti dai 18 intellettuali i quali, tra il settembre e l’ottobre 1955, visitarono la Repubblica Popolare Cinese come parte della Delegazione Culturale Italiana. Proprio quel viaggio, grazie anche all’intervento del segretario del Partito Socialista Italiano (PSI) Pietro Nenni, segnò una svolta nei rapporti economici, politici e culturali tra il nostro Paese e la Cina, delineando così un primo quanto fondamentale passo verso la cosiddetta “normalizzazione”2 delle relazioni tra i due stati. Dopo circa 65 anni, le parole di Calamandrei forniscono una testimonianza diretta di come, dal 1955 a oggi, la Cina abbia sperimentato cambiamenti traumatici che, 1 Calamandrei P. (2020), “Guardare oltre la Grande Muraglia”, in Il Ponte, anno LXXVI, n. 5, settembreottobre 2020, p. 69. Si tratta della riedizione aggiornata del numero de “Il Ponte”, La Cina d’oggi curato da Calamandrei e pubblicato nell’aprile del 1956. 2 Pietro Nenni, allora segretario del PSI, si impegnò molto per la cosiddetta “normalizzazione” dei rapporti tra i due Stati. Per giunta, si sottolinea come, nello stesso periodo del viaggio della Delegazione Culturale Italiana guidata da Calamandrei, lo stesso Nenni visitò la Cina, venendo accolto dal Presidente Mao Tsetung e dall’allora vice primo ministro del Consiglio di Stato Deng Xiaoping. Cfr.: Lin Y. (2020), “Uno sguardo al passato: i rapporti tra Cina e Italia prima della normalizzazione delle relazioni diplomatiche”, in Il Ponte, anno LXXVI, n. 5, settembre-ottobre 2020; Polese Remaggi L. (2010), “Pechino 1955. Intellettuali e politici europei alla scoperta della Cina di Mao”, in Mondo Contemporaneo, n. 3, pp. 55-89.
Macro-scalar transitions. Urban planning and modi cation in today’s China by Giusi Ciotoli
The People’s Republic of China appears today as one of the most important “open-air” construction sites in the world. In addition to a renewed interest in the infrastructure network, enhanced over the past ten years by the “Belt and Road Initiative” programmes, the country has proposed numerous urban development programmes. The “opening of China”, which began under Deng Xiaoping, initiated a series of urban policies that, from the 1980s through 2014 – the year in which the NUP New-Type Urbanisation Plans were adopted – have brought profound changes to the urban form of Chinese cities. It is important to emphasize how the NUPs not only identify new sites in which to build cities for the country’s new expansion, they also seek to include a substantial number of rural villages within the borders of these new cities. The peasants who inhabit these places are the ideal users for the new Chinese cities, and are considered to be a fundamental component in the process imagined by Xi Jinping to “convert” rural China into urban China. It is clear that, in the act of altering the agricultural vocation of entire contexts and the prospects of life of the inhabitants therein, the cultural and social speci cities of these places risk being totally lost, to comply with the logic by which each citizen must contribute to the country’s great urbanization plan.
Nella pagina a anco, in alto: costruzioni recenti sostituiscono le abitazioni più vecchie nei villaggi rurali sulla via da Pechino per Xi’an, nella provincia dello Shaanxi. Foto di Marco Falsetti. In basso: costruzione di architetture rmate situate nella zona nord-est di Pechino lungo i margini del Ponte Xiaojie. Sulla destra è possibile vedere il Linked Hybrid di Steven Holl. Foto di Marco Falsetti.
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1 - Il porto uviale di “Tongsiou” ovvero Tongzhou, in Cina, disegno originale dell’esploratore Johan Nieuhof pubblicato nel 1665. Fonte wikipedia.
2 - Mappa della città di Tongzhou risalente al 1883.
nell’ambito di una visione mondiale di tipo globalista, hanno investito il Celeste Impero coinvolgendo anche le nostre realtà. La presunta immobilità della Cina, già contestata da Calamandrei, sarà uno stereotipo completamente abbandonato qualche anno più 70
tardi – precisamente sul nire degli anni Settanta – quando si avrà l’avvio più che ufficiale del “Gǎigé kāifàng” (letteralmente “politica di apertura”) ovvero il programma di riforme di stampo socialista promosso dall’allora presidente Deng Xiaoping.
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3 - La pagoda Randeng in una immagine storica del XIX secolo. Foto di Felice Beato del 1860. Fonte wikipedia.
L’inizio della modi cazione. Dall’apertura dengista all’adozione dei NUP L’apertura dengista dà il via a una serie di politiche urbane che, dagli anni Ottanta sino al 2014 – anno in cui vengono adottati i NUP New-type Urbanisation Plan – segnano profondi cambiamenti nella forma urbana delle città cinesi. Dapprima si segnala come la preferenza di puntare su alcuni centri, a discapito di altri, abbia consentito la crescita sempre più incontrollata di vere e proprie megalopoli. L’iper-densità di Shanghai piuttosto che di Shenzhen e di Guangzhou è dovuta soprattutto ad una sequela di concause veri catesi durante gli anni Novanta. Da una parte, infatti, ci troviamo di fronte alla scelta di investire su tali città, situate in prossimità di importanti aree di scambio dedicate al commercio internazionale: Shanghai è il polo ultimo di un percorso commerciale che si diparte da Wuhan passando per Nanchino e costeggia il sistema urbano che si affaccia sul ume Azzurro, mentre Shenzhen e Guangzhou sono due nuclei nevralgici che, sotto il piano politico e urbano, devono “contenere” le peculiarità (leggasi “problematicità”) della città stato di Hong Kong. Dall’altra parte, «(…) l’allentamento del rigido sistema di registrazione delle famiglie – l’hukou – ha acuito il già consistente usso migratorio
dalle zone rurali agli agglomerati urbani»3; si pensi, in tal senso, al considerevole aumento dei ussi migratori dalle zone interne alle aree di maggiore espansione economica (SEZ Special Economic Zones) indotto dall’estensione dell’urban hukou a tutti i membri della famiglia, applicando in tal senso una sorta di ricongiungimento familiare. Il registro dell’hukou fu introdotto nella legislazione della Repubblica Popolare nel 1958 perseguendo l’obiettivo di applicare una vera e propria distinzione sociale e anagraca tra abitanti delle campagne e cittadini; attraverso questo meccanismo il governo comunista cercava di controllare contemporaneamente sia il numero complessivo di nascite che i complessi fenomeni legati alla densi cazione. Con le politiche di “apertura” inaugurate negli anni Ottanta, il registro ha stabilito alcune facilitazioni nello spostamento dalle aree rurali alle fasce periurbane delle megalopoli, cominciando dunque ad innescare un intenso processo di svuotamento delle prime e di iper-densi cazione 3 (traduzione dell’autrice), «(…) the relaxation of the rigid household registration system, the hukou, exacerbates the already consistent migration ow from ruralities to urban agglomerates», da Semprebon G., Fabris L.M.F. (2019), “Shaping afuture countryside. Light and shadow on rural settlement’s models in Chinese urban-rural continuum”, in Środowisko Mieszkaniowe, n. 26, 2019, p. 45.
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4 - Il downtown di Yongding County. Foto di BreakdownDiode.
delle seconde. È bene sottolineare come l’istituzione dell’hukou negli anni Cinquanta e la successive riforme – l’ultima delle quali risale al 2014 – siano state fonte di ispirazione per gli indirizzi di politica urbana di altri paesi asiatici del blocco comunista, quali ad esempio il Vietnam; nel paese del Drago ascendente, a seguito delle politiche di apertura varate nel 1986 con il Doi Moi (vale a dire “rinnovamento”), si cercò di attirare un maggior numero di abitanti nelle città, tentando di trasformare il vietnamita tipico da agricoltore in operaio. Ovviamente tale cambiamento, che sottende ingenti mutamenti sotto il pro lo economico-sociale, ha provocato un notevole incremento di cittadini solitamente situati in aree marginali, alcune delle quali assumono i caratteri di vere e proprie bidonville4. Si sottolinea come 4 Le analisi del Vietnam National Institute for Urban and Rural Planning mettono in evidenza come il usso migratorio di popolazione che abbandona le campagne per dirigersi verso i grandi centri sia iniziato nella seconda metà degli anni Settanta, quando il con itto con gli USA era ormai terminato. Negli ultimi anni il fenomeno è praticamente raddoppiato e ha
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anche il Vietnam avesse adottato, durante i primi anni del regime comunista di Hồ Chí Minh, un registro di controllo del tutto simile all’hukou cinese, chiamato ho khau (letteralmente signi ca registrazione familiare). Contrariamente a quanto potrebbe supporre e ipotizzare un lettore occidentale, l’allentamento della morsa istituzionale garantita dall’hukou non ha dato luogo a vantaggi effettivi per la popolazione rurale cinese. A riguardo Fei-Ling Wang, nel libro Organizing Through Division and Exclusion. China’s Hukou System argomenta una serie di scenari, del tutto realistici nella Repubblica Popolare, fatti di sfruttamento e di emarginazione tra gli abitanti. In realtà, «nonostante le riforme abbiano reso più essibili i sistemi di distribuzione e controllo della migrazione, questi non alterano il sistema di gestione delle persone in esame. Invece, lo istituzionalizzano ulteriormente»5. Il dato vita a una iper-densi cazione dell’area periurbana di Hanoi. Cfr. Aimini M. (2013), Hanoi 2050: Trilogia di un paesaggio asiatico, INU, Roma. 5 (traduzione dell’autrice), «Although the reforms make the systems of distribution and control over
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fattore discriminante incide maggiormente sugli individui «con poche risorse culturali o economiche, ma sebbene questi lavoratori siano il più delle volte relegati in posizioni svantaggiate all’interno del mercato del lavoro, sono comunque in grado di sviluppare le competenze necessarie per l’integrazione. Lo si può vedere dalla loro mobilità professionale e dalla loro attività imprenditoriale»6. migration more exible, they do not alter the system for managing targeted people. Instead, they institutionalise it further», da Wang F.L. (2005), Organizing Through Division and Exclusion: China’s Hukou System, Stanford University Press, Stanford. 6 (traduzione dell’autrice), «In Shanghai, the organs for controlling migration discriminate against workers with few cultural or economic resources, but although these labourers are most often relegated to disadvantageous positions within the labour market, they are nonetheless able to develop skills needed for integration. This can be seen by their occupational mobility and their entrepreneurial activity», da Roulleau-Berger L., Lu S. (2005), “Migrant Workers in Shanghai Inequality, economic enclaves, and the various routes to employment”, in China Perspectives, n. 58, marzo-aprile 2005, p. 5.
Le politiche urbane degli ultimi venti anni hanno determinato l’ultima modi cazione, in ordine di tempo, dei circa settant’anni di Repubblica Popolare Cinese. Se Shanghai e il blocco urbano di Shenzhen-GuangzhouHong Kong costituiscono il risultato più visibile e ostentato della potenza economica cinese rispetto al mondo Occidentale, le aree interne offrono la possibilità di soffermarsi su due fenomeni attualmente in corso: da un lato la migrazione dalle campagne verso le megalopoli, dall’altro la costruzione di nuove e colossali città, solitamente collocate nei pressi delle rinnovate infrastrutture.
5 - Vista dall’alto di Yongding County, nella prefettura di Longyan (provincia del Fujian). Oltre all’emergenza architettonica delle tulou, ormai diventate attrazioni turistiche, è possibile intravedere le costruzioni più recenti. Foto di Zhang Yuanbai.
Il banco di prova del modello cinese Il modello cinese, così come è applicato nelle vaste campagne della Repubblica Popolare, è «(…) comunemente riconosciuto dagli studiosi in quanto genera forme insensibili alle speci cità contestuali, adottando soluzioni ripetute e appiattite dall’assenza di variazio73
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ni tipologiche»7. La presunta de-contestualizzazione dei masterplan che riguardano la nascita e la successiva crescita di città per milioni di abitanti, solitamente prendono in considerazione un raggio di espansione molto ampio, così da inglobare nei propri con ni un cospicuo numero di villaggi rurali. I contadini, abitanti di tali luoghi, sono i fruitori ideali per le nuove città cinesi, e sono considerati quali componente fondamentale per quel processo di “conversione” della Cina rurale nella Cina del Futuro immaginata da Xi Jinping. È chiaro come, nell’atto di alterare la vocazione agricola di interi contesti e delle prospettive di vita dei relativi abitanti, si vedano perdute speci cità culturali e sociali proprie di tali luoghi, il tutto in virtù della logica più grande per cui ogni cittadino deve contribuire, come può, al grande piano di urbanizzazione del Paese. La scelta delle aree che ospiteranno le nuove città risponde a due criteri, ciascuno dei quali è ben lontano dall’obiettivo di dare una risposta concreta alla necessità di recuperare e restaurare il patrimonio culturale e architettonico del paese. Il primo passo per la selezione dei siti è dettato dalla «(…) istituzione delle cosiddette Zone di sviluppo economico speciale (SEZs), ovvero aree che bene ciano di privilegi legali e scali nalizzati a facilitare il potenziamento del territorio e gli investimenti esteri, di cui Shanghai e Shenzhen sono le espressioni più note. Un altro elemento è lo scambio di diritti d’uso del suolo, che produce fondi da destinare ad attività imprenditoriali quali la realizzazione di infrastrutture. In Cina tutto il terreno è di proprietà dello Stato, ma il diritto a utilizzarlo può essere venduto per determinati periodi di tempo»8. Dunque il sistema 7 (traduzione dell’autrice), «The Chinese model applied to ordinary practices is commonly acknowledged by scholars to produce built forms insensible to contextual speci cities, adopting repeated solutions attened by the absence of typological variations», da Semprebon G., Fabris L.M.F. (2019), op. cit., p. 45. 8 (traduzione dell’autrice), «The thrusts of urban growth can be found in several factors. One is the institution of the so-called “Special Economic Development Zones” (SEZs), namely areas which bene t from legal, scal and use privileges to facilitate land development and foreign investments, among which Shanghai and Shenzhen are the most known expressions. Another element is the trading of land use rights, which produces funds to be devoted to construction activity such as infrastructures. In China all the land is astate-owned property but the right of using it can be sold for certain time-spans. Moreover, the relaxation of the rigid household registration system, the hukou, exacerbates the already consistent
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di sviluppo previsto dal Governo di Pechino prevede sia un recupero delle parti marginali delle megalopoli, attraverso la creazione di un corollario di new town che possano decongestionare i central district e ricollocare i cittadini verso i con ni della zona urbana, che la creazione di new town nelle aree rurali interne, generalmente localizzate nelle vicinanze di infrastrutture di recente costruzione. La programmazione dei NUP prevedeva il proprio termine nel 2020 e stabiliva nuovi target per le conurbazioni a venire, così che fossero sostenibili da un punto di vista energetico, climatico ed etico. Si pensi, in tal senso, al report China’s New Urbanisation Opportunity: A Vision for the 14th Five-Year Plan, redatto nell’anno della pandemia da ricercatori della Hong Kong University of Science and Technology e dalla Tshingua University, che sottolineava le potenzialità tutte cinesi di dare vita a future forme di urbanizzazione improntate al green. Secondo gli autori, no alla prima decade del XXI secolo, «l’urbanizzazione della Cina è stata guidata da tre motori correlati e che si rafforzano a vicenda: l’industrializzazione, la mercatizzazione (la transizione da un’economia piani cata a un’economia di mercato) e la globalizzazione. Per ragioni diverse, tutti e tre i motori stanno ora rallentando, rendendo più difficile il superamento delle s de dell’urbanizzazione e lo sfruttamento delle città come forza positiva (…)»9. Nel report si fa riferimento alla Quinta Sessione Plenaria del 18° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese del 2015, che ha avuto il merito di introdurre «(…) cinque concetti di sviluppo che dovrebbero essere alla base della nuova fase di urbanizzazione della Cina: innovazione, coordinamento, sostenibilità, apertura e condivisione».10 Secondo i sostenitori delle politiche di Xi Jinping – e di gran migration ow from ruralities to urban agglomerates», ibidem. 9 (traduzione dell’autrice), «China’s urbanisation has been driven by three interrelated and mutually reinforcing engines: industrialisation, marketisation (the transition from a planned to a market economy) and globalisation. For different reasons, all three engines are now slowing, making it more difficult to overcome the challenges of urbanisation and harness cities as a positive force (…)», da AA.VV. (eds) (2020), China’s New Urbanisation Opportunity: A Vision for the 14th Five-Year Plan, Report Hong Kong University of Science and Technology, Tsinghua University, 2020, p.15. 10 (traduzione dell’autrice), «In 2015, the Fifth Plenary Session of the 18th Central Committee of the Communist Party of China introduced ve development concepts that should underpin China’s new stage of urbanisation: innovation, coordination, greenness, openness, and sharing», ivi, p. 29.
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parte degli investitori occidentali – l’aspetto positivo dei NUP è stato quello di prevedere scenari futuri per la Repubblica Popolare, stabilendo così due diversi centri propulsori: un’urbanizzazione basata sul criterio della qualità di vita che si oppone alla cosiddetta quantity centred urbanization nora raggiunta dal Paese. La visione di una Cina futura, improntata sulla rinnovata centralità del singolo (inteso, cioè, come individuo autonomo e indipendente) entra però in contrasto con le numerose operazioni di “riscrittura” del passato che la Repubblica Popolare continua ad attuare. Certamente, siamo lontani da quanto argomentava Tiziano Terzani circa «le distruzioni avvenute al tempo della Rivoluzione Culturale non sono che la logica conseguenza di tutta la politica comunista cinese intesa a eliminare dalla testa della gente tutto ciò che aveva a che fare con il passato e a sostituirlo con nuovi valori. “Combattere il vecchio”, “Lottare contro le superstizioni e le false credenze”, diceva il partito durante le varie campagne»11, ma possiamo de nire ciò che accade oggigiorno come una sostituzione lenta quanto progressiva delle funzioni, dei valori e dei simboli che molta architettura rurale aveva per gli abitanti dei suoi villaggi.
La Repubblica Popolare Cinese e la dicotomia tra futuristici quartieri amministrativi e nuove fenomenologie rurali L’adozione delle new town non è un tema insolito per l’Asia: si pensi, ad esempio, ai numerosi processi di de-centralizzazione attuati in Vietnam con l’adozione del Masterplan for Hanoi 2030, attraverso i quali erano state fondate alcune città medio-grandi situate nell’area periferica della capitale. La de-centralizzazione vietnamita era, ed è tuttora, attuabile grazie a generosi interventi nanziari promossi da banche e istituti di credito esteri (in particolare coreani, come è possibile veri care nella due città satelliti di Ciputra e Splendora)12. Diversamente dall’esempio vietnamita, nella Repubblica Popolare Cinese, la maggior parte degli interventi infrastrutturali e residenziali è sostenuta da banche cinesi quali 11 Terzani T. (1984), La porta proibita, Longanesi, Milano, p. 130. 12 Per approfondimenti si rimanda il lettore al seguente testo: Aimini M. (2013), op. cit.
la China Construction Bank (CCB), l’Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) e la Bank of China (BoC) – si tratta di tre tra i maggiori istituti bancari al mondo –. Le peculiarità cinesi si riscontrano, inoltre, nella volontà di raggiungere, contemporaneamente, due obiettivi tra loro solitamente opposti. Da un lato c’è la realizzazione di new town e new district, ovvero parti autosufficienti dotate di servizi in grado di polarizzare gli incrementi di future aree urbane; dall’altro la volontà di urbanizzare anche territori no ad oggi rurali, così da far compiere un ulteriore “balzo in avanti” alle comunità cinesi. Il primo caso è facilmente comprensibile alla luce di quanto è accaduto negli ultimi vent’anni nella periferia orientale di Pechino, per l’esattezza a Tongzhou13. Quest’ultima è «(…) considerata uno dei nuovi poli di espansione della capitale cinese nel Masterplan 2004-2020 (…)»14 e, secondo dati attuali ha una popolazione che supera il milione di unità. Nelle previsioni del Detailed Regulatory Plan for the Sub-Center of Beijing (2016-2036) «entro il 2035, la popolazione permanente del distretto di Tongzhou sarà prossima ai 2 milioni/2,05 milioni di unità (…)»15. Si precisa come Tongzhou sia diventata distretto della capitale soltanto nel 1997, e soltanto negli ultimi anni sia diventata teatro di molteplici cantieri che hanno dato vita ad una vera e propria megacity16, densamente abitata, caratterizzata da grattacieli che spiccano rispetto ai grandi parchi che costeggiano i canali. Quella di Tongzhou è una delle new town più caratteristiche dell’intero progetto urbano stabilito dai NUP, dal momento che si tratta di un antico centro fondato già nel secondo secolo a.C., da sempre strategico in quanto situato in prossimità della con uenza di numerosi corsi d’acqua (Yunchaojian, Wenyu) con il ume Tonghui e la parte settentrionale del Canal Grande. Sulle sponde del Tonghui aveva sede uno scalo portuale tra i più tran13 Tongzhou è anche chiamata Tungchow o Tungchou. 14 “Dall’immaginazione alle realtà urbane: quattro new town”, in Bonino M., Carota F., Governa F., Pellecchia S. (a cura di) (2020), China Goes Urban. La nuova epoca della città. The city to come, Skira, Milano, p. 96. 15 Cfr. Detailed Regulatory Plan for the Sub-Center of Beijing pubblicato sul sito ufficiale: http://www.china. org.cn/china/2018-03/30/content_50778965.htm 16 La dimensione di Tongzhou è notevole, basti pensare che è costituita da dieci città (Lucheng, Yongshun, Liyuan, Songzhuang, Zhangjiawan, Kuoxian, Majuqiao, Xiji, Taihu, Yongledian) e un totale di sei sotto-distretti (Zhongcang, Xinhua, Tongyun, Beiyuan, Yuqiao, Luyuan).
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6 - Stele commemorativa di Matteo Ricci situata nel Tempio Xianhua a Zhaoqing, nella provincia del Guangdong. Sulla destra si vedono alcune costruzioni recenti situate nel quartiere di Duanzhou. Foto di Zhangzhugang.
sitati dell’Impero e Tongzhou era una delle tappe del lungo percorso uviale che collegava la capitale con il nord del Paese, per l’esattezza con Tianjin e Linqing. Sono straordinari, in tal senso, i disegni dell’esploratore olandese Johan Nieuhof che furono dati alle stampe intorno al 1665 e che ritraevano alcune scene di vita urbana della Cina Imperiale; tra queste è possibile ammirare anche le mura difensive della vecchia Tongzhou, dietro le quali intravediamo alcuni caratteristici tetti dei templi buddisti oltre che l’emergere della cosiddetta “Torre di Tongzhou”, ovvero la pagoda Randeng. Quest’ultima è una struttura antichissima, soggetta a numerosi episodi distruttivi nel corso dei secoli, che è arrivata sino a noi con le sembianze di un’architettura del XVII secolo (l’ultima ricostruzione, in ordine di tempo, fu portata a termine sotto la dinastia Qing). Oggi la pagoda e il complesso religioso nel quale è inserita, sono le uniche preesistenze archeologiche17 ancora esistenti a Tongzhou. Delle mura difensive, che cingevano il vecchio scalo portuale delineando una curiosa forma ad L (così determinata perché seguiva la morfologia del luogo), non è rimasto nulla. Anche i numerosi piccoli canali che attraversavano le mura, “tagliando” trasversalmente la città, sono stati tombati e, negli ultimi dieci anni, è stato “ridisegnato” il piccolo lago attorno al quale oggigiorno si articola il parco Xihaizi. Come già anticipato, attraverso il New Socialist Countryside i NUP riescono a razionalizzare 17 Il complesso religioso è articolato con tre templi dedicati rispettivamente al buddismo, al confucianesimo e al taoismo. Si sottolinea, inoltre, come, ai margini settentrionali di Tongzhou sia presente un’altra emergenza architettonica da tutelare, ovvero il ponte Baliqiao.
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le risorse e le infrastrutture delle campagne; in particolare, le new town organizzate nelle aree ex agricole, hanno subito un processo di “abbellimento” (beauti cation in inglese). In effetti i villaggi individuati seguendo le direttive dei piani quinquennali di crescita economico-sociale «(…) sono stati rinnovati e “decorati” come parte del programma governativo chiamato Beautiful Countryside, un progetto destinato a integrare i NUP, migliorare i paesaggi rurali e preservare l’estetica bucolica e pastorale del villaggio a fronte dell’incessante urbanizzazione»18. Il geografo americano Tim Oakes si riferisce a queste nuove creazioni dell’urbanistica cinese come a «paesaggi di macerie»19, all’interno dei quali è percepibile l’incertezza dovuta alla sospensione temporale che si manifesta dal momento in cui viene presa la decisione di distruggere parti – ritenute obsolete – di infrastrutture e architetture ereditate dal passato e il successivo arrivo dei servizi urbani in campagna (con annesso corollario di imprenditoria, lavoro e ricchezza). L’abbellimento è ugualmente negativo rispetto alla distruzione sica del luogo; per poter adornare un edi cio con fregi piuttosto che con murales (come effettivamente avviene) è necessario avere un chiaro canone formale da raggiungere. Stiamo parlando, perciò, di un concetto estetico a priori che deve essere quanto più possibile condiviso da tutti, non solo dagli abitanti quanto dai turisti occidentali che, un giorno, potranno visitare questa parte della Cina rurale. D’altronde, sempre secondo Oakes, «(…) il “bel villaggio”, un’infrastruttura di nostalgia rurale al servizio delle esigenze del tempo libero della classe media urbana, non è in realtà lo spazio di transizione da campagna a città che la visione convenzionale dell’urbanizzazione sembra indicare. È, invece, uno spazio in cui quella transizione rimane sospesa. (…) Il “bel villaggio” è un nuovo tipo di spazio urbano, uno spazio ambiguo che sempre più caratterizza i paesaggi cinesi innervati dalle infrastrutture. Mentre questi villaggi hanno lo scopo di ricordare agli abitanti delle città le caratteristiche di una campagna ambita, molti dei loro residenti si riferiscono a essi come “piccole città”, “mezze città” e “villaggi che sembrano città”».20 18 Oakes T. (2020), “Non ancora urbano, non più rurale. Not urban yet, no longer rural”, in Bonino M., Carota F., Governa F., Pellecchia S. (a cura di) (2020), op. cit., p. 200. 19 Ivi, p. 198. 20 Ivi, p. 200.
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Nell’ottica più attuale dei burocrati cinesi, l’obiettivo da raggiungere è quello di plasmare progressivamente la campagna, mutando il modello dei contesti rurali poveri, ma quantomeno produttivi, in immagini bucoliche ma stereotipate del Paese. I cambiamenti che, attualmente, sono imposti ai tanti villaggi (per esempio quelli collocati nella provincia del Guizhou, del Fujian oppure del Guangdong) hanno il demerito di avanzare ipotesi alternative rispetto all’archetipo del “villaggio tradizionale”. Ciò è testimoniato dal fatto che, terminato l’abbellimento del borgo, gli abitanti cerchino di allontanarsi da queste architetture vernacolari falsi cate, preferendo vivere (nella maggior parte dei casi) all’interno di una megalopoli. Il mancato riconoscimento del villaggio presuppone una non identi cazione dell’abitante all’interno di quel sistema di tradizioni (costruttive quanto culturali) che, una volta venute a mancare, è davvero difficile riprodurre. In conclusione, possiamo affermare come i paesaggi estetizzanti della Beautiful Countryside cinese facciano tornare alla mente le parole del critico cinematogra co Umberto Barbaro, uno dei delegati culturali italiani durante il viaggio del 1955, il quale
alludeva a un presunto “paradosso” nella fotogenia della Cina di Mao. Dopo 65 anni, se il paese resta comunque “fotogenico”21, così come era stato descritto da Barbaro, la limpidezza della Cina avvertita dall’autore ha ormai lasciato il passo a più attuali stereotipi formali.
7 - Il contrasto tra il tempio Xiwutai Yunju e i palazzi in costruzione del nuovo centro di Xi’an. Foto di Marco Falsetti.
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21 Barbaro U. (2020), “Paradosso sulla fotogenia della Cina di Mao”, in Il Ponte, anno LXXVI, n. 5, settembreottobre 2020, p. 111.
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Politiche urbanistiche in Cina, verso megacittà a modello unico Intervista a Ruggero Baldasso a cura di Laura Facchinelli
In Cina, un Paese ampio come un continente, le dinamiche tendono a connotarsi per rapidità e grandi dimensioni. Questa è anche l’impronta delle trasformazioni urbanistiche, soprattutto quelle che interessano le metropoli. Su questo argomento abbiamo ascoltato la testimonianza di Ruggero Baldasso, architetto che da anni ha esperienza diretta di progettazione nel territorio cinese. Laureato in Progettazione Architettonica presso la University of Manchester, nel Regno Unito, Baldasso nel 1999 fonda lo studio RBA e si occupa prevalentemente di progettazione strategica in Italia, Europa e Sud-Est asiatico. Negli anni insegna e si occupa di Progettazione Strategica e Sostenibile presso la South China University of Technology (Canton, Cina) e la Graduate School of Design presso la Harvard University (Boston, USA). Al contempo lo Studio in Italia sviluppa soluzioni architettoniche ad alta performance energetica ed ambientale, collaborando con aziende ed istituzioni specializzate nella ricerca di tecniche costruttive innovative per l’edilizia sostenibile. Trasporti & Cultura – Architetto Baldasso, nella Cina sono oggi in corso trasformazioni urbane senza precedenti. Ce ne vuole parlare, in base alla sua esperienza di progettazione? Ruggero Baldasso – Nel territorio cinese, ciò che maggiormente colpisce è il dato quantitativo. I numeri sono enormi: si prevede che, nei prossimi vent’anni, verranno costruiti circa 140 miliardi di mc di edi ci, e questo soprattutto per far fronte alle proporzioni gigantesche della migrazione in atto dalle campagne verso le aree urbane. I dati numerici degli interventi programmati sono strettamente legati e proporzionali alla dinamica della crescita urbana. È un fatto che – calcoli alla mano – in soli due anni la Cina costruisce quello che l’Italia ha costruito nel corso di duemila anni. E il numero dei professionisti è limitato: mentre in Italia ci sono 250.000 pro-
Urban planning policies in China, towards a single model of megacity Interview with Ruggero Baldasso by Laura Facchinelli
Dynamics in China tend to be characterised by speed and scale. This is also the pattern for urban transformations, in particular those involving metropolises. On this theme, we spoke to Ruggero Baldasso, an architect with many years of experience as a designer in China. The numbers are enormous: plans for the next twenty years include the construction of over 140 billion cubic meters of buildings. The intent is primarily to address the gigantic proportions of migration from rural areas (currently 20 million people every year) towards the cities. The size of the urban dimension in China is clear in the ambitious project for the city of Xiongan, the new capital advanced by the president Xi Jinping. A metropolis that has undergone signi cant transformations in recent decades is Shanghai, and if we consider the cities of Canton, Shenzhen and Hong Kong together, we are talking about the greatest conurbation in the world, with a rapidly increasing population of 120 million inhabitants. The construction of new residential complexes, new urban districts, new cities (operations based on forced expropriations and mass transferrals of the population) require enormous real-estate investments, primarily from the private sector, and are huge business deals. What is striking about the activity of the real-estate sector is the uniformity of the projects: one single morphological model is reiterated in all the cities, in the absence of any debate about city planning and with no consideration of existing historical buildings.
Nella pagina a anco, in alto: masterplan della Smart City Nansha nel Guangzhou, fonte Wikipedia; in basso: Shanghai Urban Planning Exhibition Hall (foto di Luca Casonato).
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1 - Immagine dello Yu Garden a Shanghai. In lontananza si vede la Shanghai Tower, all’epoca ancora in costruzione. Foto di Marco Falsetti.
gettisti, includendo architetti e ingegneri, in un paese di dimensioni vaste come la Cina sono operanti solo poco più di 30.000 architetti progettisti. Per comprendere meglio, anche a livello emozionale, le dimensioni del fenomeno edilizio cinese, possiamo pensare all’immagine della “città ideale” come è stata rappresentata dagli artisti del Rinascimento italiano: ebbene, la scala alla quale 500 anni fa si immaginava la città sembra perdere signi cato, oggi, rispetto alla scala dimensionale della Cina. T&C – Può farci comprendere con un esempio l’entità di questo “gigantismo” urbano? Baldasso - La misura della dimensione urbana in Cina è evidente, per esempio, nel progetto della città di Xiongan, la nuova capitale voluta dal presidente Xi Jinping. È un progetto molto ambizioso - che è rimasto a lungo segreto - ispirato dall’idea di lasciare ai posteri un segno epocale, così come, nella tradizione, avveniva per ogni imperatore cinese. Mentre, in precedenza, Deng Xiaoping aveva puntato sull’importanza di Shenzen, soprattutto in
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vista dell’annessione di Hong Kong, l’attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping vuole essere ricordato per questa città di nuova fondazione, Xiongan. Come sappiamo, alcuni tentativi novecenteschi di città di nuova fondazione non hanno avuto successo (si pensi a Brasilia), ma Xiongan è un progetto molto ambizioso. La città è in costruzione 24 ore su 24 e si stima che verrà completata entro il 2035. Le infrastrutture sono state progettate all’insegna della sostenibilità. La città – che avrà una dimensione di circa 200 kmq, tre volte New York - è già considerata il modello per il “nuovo millennio cinese”, una struttura urbana realizzata secondo i dettami del cosiddetto “nuovo socialismo”. Tutto sarà di proprietà pubblica, verranno ospitate funzioni prevalentemente amministrative e verranno bandite logiche di mercato e di competizione. Sarà anche il più grande investimento pubblico nella storia della Cina: secondo Morgan Stanley avrà un costo di realizzazione compreso fra i 200 e i 300 miliardi di dollari, una cifra che corrisponde a 20 volte il costo per le Olimpiadi di Pechino del 2008. La città sarà servita dal Bullet train, collegamento ferroviario ad alta velocità, con convogli che viaggeranno a 350 km/h, rendendo il treno più conveniente dell’aereo per i percorsi no a 1.000 km (considerato che Xiongan disterà da Pechino circa 100 km, il percorso dalla capitale politica a quella amministrativa potrà essere compiuto in tre quarti d’ora). La stazione di Xiongan per la ferrovia ad alta velocità costerà quasi mezzo miliardo di dollari. T&C - Una metropoli che ha subito grandi trasformazioni nei decenni recenti è Shanghai… Baldasso – Sì, la città di Shanghai è importante per comprendere le trasformazioni urbanistiche in atto nella Cina contemporanea, in particolare considerando il distretto di Pudong. La scala degli interventi urbani risulta evidente già esaminando le dimensioni del masterplan, per la cui presentazione sono stati realizzati appositi edi ci, all’interno dei quali sono stati collocati i modelli della futura città. Si tratta di plastici che hanno talvolta una estensione di svariate migliaia di mq: sono talmente ampi che, per renderli visibili dall’alto, occorre costruire passerelle e veri e propri ponti. E a proposito di grandi dimensioni, se consideriamo insieme le città di Canton, Shenzen e Hong Kong, parliamo della più grande conurbazione del mondo, con 120 milioni di abitanti. Anche quest’area è interessata da una gigantesca migrazione.
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Si è calcolato che, in Cina, ogni anno 20 milioni di persone si spostano dalle aree rurali verso le città (e sono autorizzate a spostarsi solo con permesso di soggiorno e contratto di lavoro). Si calcola pertanto che, nei prossimi 20 anni, ben 400 milioni di persone si trasferiranno nei principali centri urbani, che di conseguenza si amplieranno notevolmente. E se Hong Kong ci sembra una grande città, ci si deve ricordare che in realtà conta “solo” 8 milioni di abitanti e quindi - alla scala cinese - è una città piccola, molto più piccola rispetto alle metropoli che attualmente si stanno sviluppando. Insomma la Cina è il paese delle grandi masse: basti pensare che, per le festività del Capodanno, si sposta circa mezzo miliardo di persone. T&C - Come vengono progettate le grandi trasformazioni urbane, o addirittura le nuove città? Quali soggetti entrano in gioco? Ruggero Baldasso – Per soddisfare il bisogno abitativo di un numero così rilevante di persone, occorrono investimenti immobiliari imponenti, che sono messi in atto soprattutto da privati. Sorgono complessi abitativi per i nuovi ricchi (ci sono circa 30 milioni di milionari, calcolati in dollari) e spesso si tratta di vere e proprie torri residenziali che si concentrano nelle zone centrali delle città. Poi ci sono i cosiddetti “compound”, enormi complessi recintati da muri, che accolgono a volte no a 300-400 mila persone ciascuno: in questi vive la nuova borghesia. I progetti, in questo caso, tendono ad imitare gli stilemi formali di tipo occidentale, dato che l’Europa è il fondamentale punto di riferimento culturale. In queste aree sono diffusi marchi come McDonald’s e Starbucks, che chiaramente richiamano il modello americano, molto apprezzato dalla popolazione. Si tratta comunque di abitazione d’elite: i prezzi sono altissimi (mentre gli stipendi sono paragonabili a quelli occidentali). Per acquistare un appartamento occorre fare un mutuo, anche di 40 anni: sicché molto spesso i genitori, vendono la casa e vanno a vivere con i gli.
T&C – Lei parlava prima dei nuovi ricchi e della borghesia, ma penso che la maggioranza della popolazione, nelle aree urbane, viva in condizioni molto diverse e piuttosto critiche… Baldasso – Certo, si calcola che 650 milioni di persone (nelle aree rurali) vivano con un reddito bassissimo. Se si spostano in città, queste si trovano a sopravvivere in condizioni precarie, tanto da essere costrette ad abitare in spazi minimi, a causa dei costi molto elevati delle abitazioni. In certe situazioni, una famiglia può acquistare solo una “fetta” di casa, di fatto una stanza, nella quale tutti dovranno vivere assieme. Queste condizioni riguardano soprattutto le persone che tentano di in ltrarsi irregolarmente in città, e che di conseguenza diventano “invisibili”. T&C – Quando si realizza un nuovo quartiere, occorre spostare un gran numero di persone, di famiglie, interi condomini. Operazioni complesse sul piano organizzativo e, per le persone interessate, un vero e proprio shock. Baldasso – Per realizzare grandi complessi immobiliari si attuano espropri forzosi che possono interessare anche interi quartieri, pertanto si procede con trasferimenti di massa. La comunicazione viene data appena 30 giorni prima della data del trasloco, sicché le famiglie sono costrette a sgombrare in tutta fretta la casa in cui vivono. Ai proprietari vengono offerti compensi economici oppure alloggi alternativi. Si potrebbe pensare a proteste su larga scala, in coincidenza con queste iniziative che potremmo de nire quanto meno “sbrigative”. Ma alla gente viene, in certo senso, naturale assoggettarsi allo spostamento, perché la società cinese si ispira alla dottrina di Confucio, secondo la quale il singolo deve sacri carsi a vantaggio della collettività. C’è poi un altro aspetto da considerare: per il cinese è normale che tutto sia di proprietà dello Stato e che pertanto lo Stato possa decidere anche per quanto riguarda il suo alloggio.
T&C – In Cina c’è la proprietà privata?
T&C – Lei diceva che i progetti immobiliari seguono un modello unico….
Baldasso - In Cina non esiste la proprietà privata: chi acquista sa che avrà un diritto sull’immobile al massimo per 70 anni se si tratta di una casa, 40 se si tratta di un ufficio. Quella regola resterà invariata? Al momento non siamo ancora arrivati a quelle scadenze, pertanto non sappiamo se quei diritti verranno, in futuro, rinnovati.
Baldasso - Quello che colpisce, nell’attività del settore immobiliare, è proprio l’uniformità dei progetti: se si osservano i rendering, si comprende che il modello morfologico delle città si reitera costantemente. Il contesto non esiste più. In altre parole, poco importa in quale luogo si deve attuare l’intervento di trasformazione: nel mercato immobiliare si
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2 - Complessi residenziali nei pressi di Pechino. Foto di Laura Facchinelli.
opera secondo prototipi morfologici votati alla massima efficienza e al massimo pro tto. Si applica, ovunque, un unico modello: questo signi ca che se in 100 luoghi si stanno realizzando 100 “compound”, questi saranno tutti uguali. Tutto questo avviene nella pressochè totale assenza di un dibattito urbanistico, perché tutto si risolve secondo logiche di natura strettamente mercantile: quelle degli sviluppatori immobiliari. Queste logiche schiaccianti impediscono qualsivoglia dibattito/confronto nelle università e nelle professioni. T&C – Tuttavia, nelle città, si nota una certa cura, per esempio nell’arredo delle strade e delle piazze, con inserimento di vegetazione persino sotto i viadotti… Baldasso – Sì, nelle città si nota la presenza di vegetazione, ma non si tratta di un vero progetto di paesaggio urbano all’insegna dell’armonia e della salubrità dell’ambiente: il verde è puramente esornativo, inserito per
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propaganda, tanto che in certi casi si ricorre persino all’erba sintetica. La verità è che si costruisce la maggior cubatura possibile, con un enorme consumo di suolo. Da notare – e questa è un’altra considerazione doverosa - che gli interventi immobiliari vengono attuati cancellando le preesistenze, in questa, come nelle precedenti fasi di edi cazioni di massa. T&C – Questo è un argomento che ci interessa moltissimo. Da decenni, in Cina, si cancellano le testimonianze storiche di quella che è stata una grande civiltà millenaria. Baldasso - Infatti, in Cina, ogni volta che si fa una rivoluzione, si distrugge quello che c’era prima. Si calcola che Mao Tse Tung abbia distrutto 18 mila monumenti: tutti i templi e gli edi ci storici di Pechino sono stati abbattuti. Si sono salvati soltanto gli edi ci della Città Proibita e il Palazzo d’Estate, oltre al Tempio della Pace Celeste: sono i luoghi che erano frequentati dall’Imperatore e sono
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stati risparmiati soltanto per le proteste dei cittadini che non volevano veder cancellati quei simboli così importanti. All’epoca, l’idea ispiratrice di quegli interventi distruttivi era quella di ricostruire la Cina come una rinata fenice (è interessante, per conoscere il fenomeno, il libro La porta proibita di Tiziano Terzani). Negli anni più recenti, per realizzare il primo raccordo anulare di Pechino sono state demolite le forti cazioni della città. Oggi l’intenzione di Xi Jinping – che si autodichiara presidente a vita – è quella di costruire una nuova città per erigere un monumento a se stesso. Insomma negli ultimi decenni, in Cina, si è inteso ricostruire annullando il passato e negandone la narrazione; in questo paese non esiste più quello che rappresentava la storia. Dal punto di vista etico ci si può chiedere: la condizione di una Cina che, per una vasta parte del suo territorio, è ancora medioevale, come si concilia con questa realtà attuale delle radicali trasformazioni urbane e dei cambiamenti di vita? Ci sono molte contraddizioni. E comunque ci sono speci cità che permangono nei modi di vivere: si pensi, ad esempio, al mercato degli animali vivi, un ambiente che, per le sue condizioni igienicosanitarie, è stato additato dalla comunità internazionale come possibile luogo di origine del Covid 19. Da un lato, il Governo tenta di opporsi a queste realtà, ma dall’altro lato permane una tradizione culturale per cui si mangia tutto quello che si muove. Per non parlar del fatto che i ricchi vogliono mangiare animali rari, perché questo continua ad essere considerato un fatto di prestigio. T&C – Tornando all’attività del costruire: che spazi ci sono, in Cina, per i progettisti occidentali? E per le imprese di costruzione? Baldasso - In questa fase, la realizzazione di nuovi complessi abitativi, nuovi quartieri urbani, addirittura nuove città è un affare gigantesco, sia per le società di progettazione che per quelle di costruzione. Si pensi che il mercato dello sviluppo immobiliare rappresenta il 17% del PIL della Cina. Altro dato signi cativo: nella classi ca delle banche più grandi del mondo, le prime quattro sono cinesi, e la seconda, in particolare, è la China Construction Bank, l’istituto di credito che nanzia le infrastrutture e il real estate, quindi l’industria edilizia della Cina. È evidente che, per realizzare un complesso abitativo di dimensioni enormi, che comporta costi ragguardevoli, occorre un real estate di
dimensione gigantesche e una società di costruzioni operante con centinaia di migliaia di dipendenti: su questi numeri, un’azienda occidentale non può competere. In altre parole, se un architetto occidentale può – col proprio assetto organizzativo - progettare in Cina, una società di costruzione occidentale non è in grado di lavorare alla scala richiesta per il territorio cinese.
3 - Costruzioni recenti che torreggiano rispetto ai tessuti storicizzati. Foto di Marco Falsetti. 4 - Periferia di Guilin. Foto di Marco Falsetti.
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Stazione di Picaleña in Colombia, un patrimonio culturale per la comunità di Olimpia Niglio
Nel 1804 Richard Trevithick (1771-1833), ingegnere inglese di origine russa, aveva realizzato la prima macchina a vapore in grado di avanzare sui binari, dopo che James Watt ne aveva brevettato un prototipo nella seconda metà del XVIII secolo. Nel 1814 George e Robert Stephenson intrapresero l’ambizioso progetto di sviluppare questa macchina con locomotive destinate ai treni per il trasporto di passeggeri. Qualche anno dopo e precisamente nel 1825 fu inaugurata la prima linea ferroviaria tra i centri di Stockton e Darlington, in Inghilterra, alla quale fece seguito la linea interurbana Liverpool-Manchester (Hylton, 2007). Questi primi esperimenti si svolsero nel continente europeo ma non trascorse molto tempo prima che questi venissero compiuti anche nel continente americano e in particolare nel sud della Colombia, dove già nel 1824 Juan Bernardo Elbers, un uomo d’affari tedesco, introdusse la navigazione a vapore sul ume Magdalena che collega il Mar dei Caraibi con le regioni interne del paese (Poveda, 1998; Fischer, 2003).
Introduzione storica La prima legge colombiana sul trasporto ferroviario risale al 1836, ma le prime reti furono istituite solo nella seconda metà del XIX secolo. Tra il 1869 e il 1873 fu costruita la prima rete ferroviaria di Bolivar, nota anche come Barranquilla Railroad, che dalla città di Barranquilla, importante scalo portuale, si estendeva su tutto il versante nord del paese sull’Oceano Atlantico. La linea ferroviaria prese il nome dell’ingegnere cubano Francisco Javier Cisneros, alla cui paternità era legata anche la linea ferroviaria denominata Usted Dorada, tra Conejo e Arranca Pluma, nel centro della Colombia. Questa linea fu inaugurata nel 1882 e successivamente ampliata con molte reti secondarie (Arias de Greiff, Kitson Dewhurst, 2006; Bateman Quijano A. 2005). Nel 1893 il Governo centrale del Dipartimento
The Picaleña station in Colombia, a cultural heritage for the community by Olimpia Niglio
The political and social plurality of different cultures implies diversity in the de nition of the concept of Cultural Heritage as conceived by local communities. In Colombia, in particular, the topic of tangible and intangible Cultural Heritage requires authoritative tools and methods to initiate a correct conservation procedure, together with the training of operators. In Colombia, the preservation of the cultural heritage is affected by the changing situation of society and its ever-changing processes. For this reason, the choice of reference values in a conservation project also requires a thorough knowledge of the territory and its needs. This paper illustrates an example of architectural restoration, of an ancient railway station restored and renovated as the result of a long archival, anthropological and sociological research study that also led to the implementation of an interesting program of active participation by the local community. It describes the result of an educational research project developed during the “Architectural Restoration” course conducted at the University of Ibagué, Architecture Programme, between 2010 and 2020.
Nella pagina a anco: Ibagué (Colombia) Stazione di Picaleña prima del restauro (2015) e dopo il restauro inaugurato nella primavera 2020 (archivio Carlos Pinilla).
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1 - Ibagué (Colombia) Stazione di Picaleña (archivio dell’autore, 2010).
del Tolima rmò un contratto con Carlo Tanco per la costruzione di una ferrovia che collegava la città di Ibagué, capitale del Dipartimento, con Girardot e Bogotá. I lavori durarono a lungo e la linea fu inaugurata solo il 7 gennaio 1921. Due anni dopo il Dipartimento del Tolima rmava un nuovo accordo per la costruzione della ferrovia tra Ibagué e Ambalema, come previsto dalla legge 57 del 1917, i lavori della quale furono completati nel 1926, quando fu inaugurata anche la stazione centrale di Ibagué. Lungo questa linea ferroviaria furono costruite molte stazioni secondarie per collegare i piccoli villaggi periferici con la città di Ibagué (Nieto, 2011). Intorno alla metà del XX secolo il sistema ferroviario colombiano è stato dismesso per favorire lo sviluppo di reti stradali, anche se la complessa orogra a del paese non ha mai favorito un’adeguata infrastrutturazione della nazione, se non per speci che zone. Così, a seguito della dismissione, molte di queste stazioni secondarie sono state demolite o destinate ad altri usi: nella maggior parte dei casi sono state occupate da famiglie indigenti. Solo in alcuni casi queste piccole stazioni sono state convertite ad altre funzioni, principalmente commerciali. Nel Dipartimento del Tolima, tra Ibagué e Girardot, all’estrema periferia del capoluo-
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go regionale e precisamente nel quartiere di Picaleña, si trova una piccola stazione ferroviaria che no al 2018 era adibita ad uso residenziale promiscuo. La prima pietra di questo edi cio, alle porte della capitale Ibagué, fu posta nel 1921, quando fu ultimata la linea ferroviaria che collegava la città con Girardot. Il nome del progettista non è noto, così come è sconosciuto l’anno in cui terminarono i lavori di costruzione: tuttavia, possiamo ipotizzare che la sua ultimazione sia contemporanea a quella della stazione centrale di Ibagué, inaugurata nel 1926 (poi demolita nel 1982). In generale lo stile architettonico di queste stazioni trova un chiaro riferimento nell’eclettismo europeo di ne XIX secolo e tale inuenza non è casuale poiché molti ingegneri del Vecchio Continente avevano lavorato in Colombia per la costruzione sia delle reti ferroviarie che delle stazioni (Meisel, Ramírez, Jaramillo, 2014). La realizzazione della stazione di Picaleña contribuì signi cativamente allo sviluppo del borgo, tanto che tra il 1921 e il 1960 l’area si sviluppò in modo signi cativo no ad assumere una propria con gurazione urbana, sociale ed economica strettamente connessa alle attività che dipendevano dalla stazione ferroviaria.
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Nel 1958, con atto notarile 1828 del 12 aprile, la proprietà della stazione di Picaleña fu trasferita alle Ferrovie Nazionali della Colombia e da queste ultime ceduta, a titolo gratuito, alla Compagnia delle Ferrovie Colombiane, con atto notarile 2272 del 31 dicembre 1991 (Pachón, Ramírez, 2006; Niglio, 2012). Nel 1982 la linea ferroviaria di Ibagué-Girardot è stata de nitivamente dismessa e, di conseguenza, sono state chiuse molte stazioni ferroviarie, alcune delle quali poi demolite. Quella di Picaleña si è salvata da queste “imperanti demolizioni” in quanto sin da subito è stata riutilizzata per accogliere famiglie indigenti. Nel frattempo, da oltre 60 anni, la vita del quartiere di Picaleña, sia socialmente che economicamente, è stata fortemente inuenzata dalla presenza della stazione, tanto che, anche dopo la dismissione, è divenuta un simbolo per la comunità e questo ne ha favorito senza alcun dubbio anche la conservazione, seppure per un uso promiscuo.
La stazione di Picaleña. Patrimonio Culturale della Comunità Durante i corsi di restauro architettonico svolti dalla scrivente presso l’Università di Ibagué a partire dal 2009, sono stati avviati i primi studi sulle stazioni di Picaleña e di Ambalema, due importanti scali ferroviari della linea Ibagué-Bogotá. Per entrambe le stazioni ferroviarie sono state attivate le procedure per realizzare progetti di restauro e così destinare questi edi ci alle funzioni richieste dalle rispettive comunità locali. Nel caso di Ambalema la stazione è stata oggetto di studio e restauro a partire dal 2009 ed è stata inaugurata nel 2016. Diversamente, per la stazione di Picaleña le procedure sono state avviate a partire dal 2010, poi si sono interrotte nel 2015 per questioni amministrative, quindi nalmente si è potuto procedere al restauro, che si è brillantemente concluso nel 2020, anno in cui l’edicio è stato anche selezionato per la Biennale di Architettura Colombiana che si è svolta presso la città di Cartagena de Indias. Il progetto di restauro a Picaleña è il risultato di un lungo percorso favorito da uno studio parallelo tra indagini archivistiche, rilievi diretti e analisi antropologiche e socioeconomiche. Sin dal principio la metodologia adoperata ha previsto una diretta collaborazione con la comunità, che è stata molto attiva in tutte le fasi del progetto (Niglio, 2011). È nata così una prima importante esperien-
za di “progetto partecipato” dove la comunità locale ha assunto un ruolo determinante nello studio dell’edi cio e nelle scelte progettuali adottate. Infatti la valorizzazione della vecchia stazione di Picaleña, nella città di Ibagué, ha consentito di sperimentare la stretta relazione che esiste tra Cultura locale, Patrimonio Culturale e Comunità. Una prima e fondamentale analisi ha riguardato lo studio del quartiere di Picaleña, dalle origini no all’attuale sviluppo urbano strettamente legato alla rapida crescita di Ibagué; tale processo ha prodotto profondi cambiamenti non solo ambientali ma anche sociali, interessando gran parte dei settori più deboli e le periferie. Il problema dell’urbanizzazione, soprattutto nei paesi dell’America Latina, è profondamente legato alla mancanza di politiche culturali (alle quali va ascritta anche la diffusione della violenza urbana) che ha generato un’enor-
2 e 3 - Ambalema (Colombia). La stazione ferroviaria allo stato di rudere (2008) e dopo il restauro inaugurato nell’aprile 2016 (archivio dell’autore).
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me quantità di insediamenti informali e di strutture siche, territoriali e sociali senza alcuna piani cazione. Questa migrazione interna, insieme ai cambiamenti ambientali e ai disastri naturali, ai con itti armati e ad altre calamità causate dall’uomo, ha generato molteplici problemi sociali e soprattut-
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to non ha favorito l’inclusione e la coesione comunitaria. Queste complesse condizioni nelle città latinoamericane non hanno permesso di valorizzare ciò che realmente rappresenta il primo patrimonio dell’umanità, ossia la vita delle persone, la loro dignità e i diritti umani. Nella maggior parte dei casi,
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le politiche adottate nora, hanno prodotto solo grandi fallimenti e la perdita totale del patrimonio culturale. Contrariamente a questo scenario, il progetto promosso dall’Università di Ibagué per il restauro della stazione di Picaleña ha avuto il merito di valorizzare prima di tutto le persone e l’intera comunità che ancora vive nei dintorni dell’edi cio, al ne di avvicinare queste stesse al bene culturale e contribuire così a preservare e migliorare le identità locali e favorire il sentimento di appartenenza. Tutto questo perché il patrimonio culturale si identi ca con la comunità e la sua conoscenza promuove la crescita e il pensiero critico delle persone, oltre a costruire opportunità di lavoro e generare coesione sociale, benessere e inclusione. Così, il progetto di restauro ha promosso, per la prima volta, un dialogo attivo con le famiglie che abitavano nell’edi cio, perché sfollate da altri luoghi, e le ha coinvolte nel suo processo di valorizzazione così da avvicinarle alla comprensione del suo signi cato. Un’altra questione importante è legata alla ricerca storica del luogo e dell’edi cio alla quale si è unita la narrazione degli abitanti del quartiere che ancora oggi rappresentano una testimonianza vivente della storia del quartiere e delle sue trasformazione. Allo stesso tempo anche il dialogo con la sfera privata ha stimolato lo scambio e l’integrazione tra le diverse opinioni sul futuro
della stazione permettendo di accrescere la consapevolezza del valore del patrimonio culturale e di comprendere gli effetti devastanti e disastrosi che la mancanza di una politica culturale ha prodotto, negli anni precedenti, anche sul tessuto sociale. I processi sopra elencati si sono tradotti in azioni concrete che hanno contribuito alla realizzazione di un progetto di restauro di tipo conservativo molto scrupoloso, cantierizzato tra il 2019 e il 2020 dall’architetto Carlos Pinilla della città di Ibagué.
Verso un patrimonio culturale centrato sulle persone: il patrimonio vivente Il tema del “patrimonio vivente”, non sempre adeguatamente valorizzato e forse non del tutto compreso, nel 2020, durante l’Assemblea Generale dell’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites), è stato al centro di un interessante dibattito internazionale che ha visto l’approvazione della Risoluzione 20GA/19 “People-Centred Approaches to Cultural Heritage” sulla centralità della persona, argomento già in elaborazione nel 2015 in una ricerca promossa dall’ICCROM su “People-Centred Approaches to the Conservation of Cultural Heritage: Living Heritage” (ICOMOS, 2020). In particolare il documento afferma che “il patrimonio culturale viene
4 e 5 - Nella pagina a anco, in alto e al centro:: Ibagué (Colombia), Stazione di Picaleña prima del restauro (2010, archivio dell’autore) e dopo il restauro inaugurato nella primavera 2020 (archivio Carlos Pinilla). 6 - In questa pagina: Ibagué (Colombia) Stazione di Picaleña, attuale biblioteca civica di quartiere con parco giochi e servizi alla comunità (2020, archivio Carlos Pinilla).
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7 - Ibagué (Colombia). La ex stazione, attuale biblioteca civica e la comunità del quartiere di Picaleña durante un evento cinematogra co (2020, archivio Carlos Pinilla).
creato dalle persone ma è anche realizzato per le persone”1 e quindi rappresenta esso stesso la comunità. Per questo motivo la partecipazione attiva della comunità alla tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale è fondamentale e pertanto non la si dovrebbe mai escludere dalle decisioni che riguardano un patrimonio di cui è parte integrante: il lavoro svolto per il restauro della stazione di Picaleña in Colombia ne è, in tal senso, un chiaro esempio. Questi principi sono già stati espressi dal comitato scienti co internazionale ICOMOS-CIVVIH, che nel 2011 ha pubblicato un importante documento sui “Principi per la salvaguardia e la gestione delle città storiche, dei paesi e dei villaggi” (ICOMOS, 2011). Questo documento analizza un tema molto importante, ossia la conoscenza del patrimonio storico a livello territoriale, insieme ai suoi valori intangibili e viventi, come le persone, le diverse identità, le tradizioni culturali, i costumi, i fattori socio-economici, la storia, e come tutto ciò con guri il “paesaggio culturale”, una base comune fondamentale per avviare un processo di valorizzazione di un patrimonio che è lo specchio della comunità. Tutti i popoli costituiscono complessi “sistemi 1 “Cultural heritage has been created by people and it has been created for people”, da Aa.Vv.(eds), PeopleCentred Approaches to the Conservation of Cultural Heritage: Living Heritage, ICCROM, Roma 2015.
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culturali” che esprimono l’evoluzione di una società e la sua identità culturale. Essi sono parte integrante di un contesto naturale o antropizzato più ampio, e dovrebbero pertanto essere considerati inseparabili da esso. Non è possibile pensare a un progetto di restauro di un’opera di architettura senza tener conto della sua storia precedente o di quella del sito sul quale essa insiste. Per questo motivo, per intervenire in un processo di salvaguardia di un sito storico, come Picaleña nella città di Ibagué, è necessario includere procedure per la sua protezione, conservazione e gestione che mettano al centro la comunità, le sue decisioni e le sue esigenze, perché solo questo permetterà un processo coordinato di sviluppo socio-economico e un riutilizzo armonioso degli edi ci esistenti adatto alla vita contemporanea. Ovviamente, questa è la direzione in cui dovrebbero essere sviluppate le regole per promuovere azioni corrette sui territori, nonché piani di gestione che speci chino nel dettaglio tutte le strategie e gli strumenti che saranno utilizzati per la tutela del patrimonio e al tempo stesso rispondano ai bisogni della vita della comunità.
Conclusione La metodologia proposta e adottata nel caso di Picaleña ha consentito di valorizzare e tutelare un patrimonio culturale di interesse sociale all’interno di un contesto particolar-
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mente complesso ma coinvolto ed attento a trovare le migliori soluzioni al ne di destinare l’antica stazione a luogo della cultura; in tal modo è stato possibile rigenerare il senso di identità e di appartenenza della comunità locale, creando nuove economie ed opportunità di lavoro. Oggi, a più di dieci anni dall’inizio di questo importante percorso, si può affermare che il restauro della stazione di Picaleña ha consentito di promuovere il primo progetto in Colombia realizzato in stretta collaborazione con la comunità locale, favorendo allo stesso tempo la formazione delle persone e quindi del “patrimonio vivente”, la tutela del bene e la sua gestione, tutti fattori che hanno permesso lo studio e l’applicazione di modelli innovativi di sviluppo urbano sostenibile. A tal proposito ci auguriamo che queste esperienze accademiche e sociali – che hanno promosso nuove visioni e prospettive di intervento –, possano essere l’inizio di un nuovo e più produttivo percorso per il benessere e l’inclusione della comunità (primo patrimonio culturale dell’umanità), così come raccomanda anche l’Agenda 2030 con i suoi 17 obiettivi che dobbiamo raggiungere tutti insieme, in questi anni, per un mondo più sostenibile basato sull’equità sociale ed economica.
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Quando il progetto si confronta con la Storia di Lucio Altarelli
Progettare in una città strati cata, densa di tracce e sedimenti del passato, signi ca venire a patto con la Storia e trasformare i lasciti dell’antico in materiali che indirizzino l’interrogazione del presente. L’antico, la memoria e le presenze del passato dunque come incitamento al nuovo e non come autoritas che comprime gli spazi del progetto e la legittimità stessa del nuovo. Due gli estremi per lo scrivente che sono da evitare: quello della patologia della memoria, le cui derive oscillano tra le forme di un conservatorismo immobile e pratiche ambientali o, all’opposto, quelle legate alla rimozione di qualsiasi appartenenza e, conseguentemente, all’adozione di ottiche immemori e omologanti. Il rischio di questi due estremi è, rispettivamente, quello di un eccesso di sudditanza all’antico o, all’opposto, quello di considerare i temi stessi di tradizione, patrimonio e identità dei luoghi come retaggio di presunti valori del passato che non hanno più ragion d’essere nell’epoca della globalizzazione e dell’attuale pervasività dei media. Questa contrapposizione radicale che oggi si rinnova nella endemica polemica tra innovatori e conservatori, tra globali e locali non è nuova nella cultura italiana fortemente divisa, a partire dal Novecento, sui temi che riguardano i rapporti tra Storia e progetto, tra le ragioni del passato e la necessità del nuovo. La cultura internazionale ha sempre guardato l’Italia come un laboratorio ideale in cui sperimentare la dialettica tra tradizione ed innovazione; dove il nuovo convive e si confronta con l’antico, sia sicamente, nei processi di crescita delle città, sia idealmente nella costruzione della sua teoresi. A queste temi la cultura italiana ha risposto attraverso radicali prese di posizioni e contrastanti dibattiti. La complessità del tema ha generato nel tempo aspre polemiche, come quelle che hanno visto la contrapposizione tra futuristi e meta sici, tra conservatori ed innovatori, tra apocalittici ed integrati cui
When design engages with History by Lucio Altarelli
To design in a strati ed city, dense with the traces and sediments of the past, means coming to terms with History and transforming the legacy of yesteryear into materials that direct our interrogation of the present. International culture has always looked to Italy as an ideal laboratory in which to experiment with the dialectic between tradition and innovation; where the new coexists with and dialogues with the old, both physically in the city’s growth processes, and ideally in constructing its theoretical bases. The complexity of the theme has fostered bitter debate across time, for example in the opposition between the Futurists and the Metaphysicians, between conservatives and innovators, between doomsday believers and conventionalists, and most recently between globalists and localists. These cyclical disputes reveal the raw nerves underlying a theme that stirs consciences, but also re ects the innate propensity of Italian culture to interpret the themes of memory and History, in the past and in the present, as a contradistinction viewed in ideological rather than in operative terms. The reference to these recurring antinomies in Italian culture not only responds to the themes addressed in this issue, it also serves to clarify the goals and meaning of some of my architectural choices. The projects I have developed over the years in sensitive areas, prevalently in Rome and its territory, re ect a critical approach that takes its distance both from environmental practices, with all the limits and meanings that revolve around the word “environment” today, and the selfreferential signs that are indifferent to the context and seek visibility for their personal architectural style, as is the case with many of today’s starchitects.
Nella pagina a anco, in alto: Giovanni Battista Piranesi, Arco di Pola, in Istria, vicino alla Porta, acquaforte, Museo di Roma; al centro e in basso: Centro commerciale e spazi aperti tra la Porta e la Stazione Ostiense. Manuale dei luoghi del collettivo urbano. Ricerca commissionata dal Comune di Roma (Ufficio Centopiazze). Coordinatore generale Raffaele Panella; Lucio Altarelli, Maria Angelini, Roberto Cherubini, Antonino Terranova (coordinatore), Ariella Zattera. Con Anna Conti e Giovanna Donini. Collaboratori: Laura Alpi e Ugo Giuliani.
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hanno fatto seguito, in tempi più recenti, quelli tra globali e locali. Questi ciclici dissidi mostrano i nervi scoperti di un tema che agita le coscienze; ma che rispecchia anche l’innata propensione della cultura italiana a ricondurre, oggi come ieri, i temi della memoria e della Storia ad una contrapposizione vissuta più in chiave ideologica che operativa. Dai primi decenni del Novecento in poi emerge una riconoscibile linea di continuità in cui le divisioni in gruppi, ideologicamente contrapposti, hanno spesso vani cato scelte culturali e operative più durature. Una perdurante inconciliabilità di vedute pervade la nostra Storia più recente: quella che va dagli anni del Fascismo no ai nostri giorni. Durante gli anni del Fascismo assistiamo a due idee contrapposte di modernità e a due modi di risolvere il rapporto con l’antico. Da un lato la patologia del passato declinata da Valori Plastici e attraverso le Muse inquietanti di Giorgio de Chirico, le deserte Periferie di Mario Sironi, con i tram immobilizzati nel fango della Storia, i Nuotatori di Carlo Carrà, raffigurati come rari nantes bloccati in un mare color piombo, e il realismo magico di Felice Casorati. Dall’altro lato una patologia del progresso, sublime ma utopica, come quella perseguita dal Futurismo nel suo sogno avanguardistico di città nuove, caratterizzate dalla presenza di trionfali stazioni e smisurate centrali elettriche, come quelle immaginate da Antonio Sant’Elia. Tendenze contrapposte della cultura italiana che hanno prodotto, nei rispettivi schieramenti, risultati di assoluto rilievo. Ma che tuttavia sembrano evadere la concreta costruzione del presente: celebrando o il mito del passato o quello del futuro. In entrambi i casi emerge una confrontabile meta sica del presente espressa, rispettivamente, attraverso la meta sica del passato e la meta sica del futuro. Il decennio del dopoguerra è quello che alimenta diversi movimenti di revisione critica della tradizione del Moderno. I temi legati al binomio distruzione/ricostruzione vengono accompagnati da una parallela volontà di superare precedenti codici e di inaugurare nuove operabilità. La ricostruzione postbellica di intere città e di nuovi quartieri rappresenta anche l’ansia di ricostruzione della memoria e delle identità perdute: temi quali luogo, tradizione, comunità e ambiente vengono sentiti quali valori da contrapporre alla strategia della tabula rasa perseguita dal Movimento Moderno. Il revisionismo post-bellico innesca in Italia due diversi esiti: il Neoliberty e il Neorealismo.
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Entrambi questi movimenti sono orientati verso l’attualizzazione dell’idea di tradizione ma con diverse motivazioni: perseguite dal Neoliberty, nell’ambito prevalente del nord Italia, come rilettura delle con gurazioni storiche del passato; come nella Torre Velasca dei BBPR a Milano, nel Palazzo Cicogna di Ignazio Gardella alle Zattere di Venezia e nella Bottega d’Erasmo di Roberto Gabetti e Aimaro Isola a Torino; architetture queste tutte degli anni ’50. Nell’Italia centro-meridionale si consuma, invece, la breve stagione del Neorealismo che, in uenzato dall’ideale olivettiano di Comunità, sperimenta quartieri a misura d’uomo, radicati nei rispettivi contesti sia sici che culturali di appartenenza. Gli esiti più riconoscibili di questa esperienza sono quelli rappresentati dal Tiburtino di Mario Ridol e Ludovico Quaroni, dal Valco San Paolo e dal Tuscolano di Mario De Renzi e Saverio Muratori, dall’Unità d’abitazione orizzontale di Adalberto Libera, tutti questi situati a Roma, e dal quartiere Spine bianche di Carlo Aymonino e dal borgo La Martella di Quaroni, entrambi a Matera. Le opere architettoniche legate alla corrente del Neorealismo ri ettono analoghe istanze sociali che nel dopoguerra italiano vengono rappresentate nei lm di Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Pietro Germi e Renato Castellani. Nell’architetture del Neorealismo anche le pratiche costruttive sono legate alle risorse speci che dei luoghi, in antitesi all’ideologia corbusiana dell’abitazione come machine à habiter. Il manifesto dell’esaltazione del localismo è rappresentato dal Manuale dell’architetto di Mario Ridol , fortemente legato a pratiche costruttive tradizionali e aliene dalla sperimentazione di procedure più avanzate di costruzione. Le derive di questo movimento, rigidamente vernacolari ed in quanto tali rinunciatarie, saranno sottolineate da uno dei suoi stessi protagonisti: Quaroni che, retrospettivamente, dieci anni dopo il Tiburtino, in un celebre articolo di «Casabella-Continuità» del 1957, parlerà degli interventi del Neorealismo come un’esperienza volta a consolidare un “paese dei barocchi”; dove il presunto barocchismo è attinente più alle discutibili premesse ideologiche di queste realizzazioni che al loro linguaggio strettamente formale. Tuttavia, nello stesso dopoguerra, esistono anche voci di aperto dissenso nei confronti della stessa critica del Moderno come quella espressa dal critico inglese Reyner Banham che, in un articolo di «Architectural Review» del 1959, giudica il Neoliberty come il sin-
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tomo della “ritirata italiana dall’architettura moderna”. Giudizio questo che innescherà una polemica tra Ernesto Nathan Rogers, direttore della rivista «Casabella-Continuità» e Banham, quest’ultimo tacciato dal primo di porsi come “guardiano dei frigoriferi” e come epigono del Movimento Moderno. Vicende queste che sottolineano come la revisione del Movimento Moderno, attuata negli anni ’50, registri diverse sensibilità e contrastanti sbocchi sia teorici che operativi. Gli anni ’70 e ’80 vedono la contrapposizione tra due opposte tendenze, riassumibili nel divario tra il Postmoderno promosso da Paolo Portoghesi e il Codice anticlassico di Bruno Zevi. Gli aspri confronti tra Portoghesi e Zevi avvengono attraverso le pagine delle rispettive riviste: «Controspazio», diretta da Portoghesi dal 1969 al 1985, e «L’Architettura Cronache e Storia», diretta da Zevi dal 1955 no alla sua scomparsa nel 2000. A queste si aggiunge il ruolo esercitato da entrambi nella
Facoltà di Architettura di Roma attraverso le rispettive cattedre: quella di Letteratura italiana, tenuta da Portoghesi dal 1962 al 1966, e quella di Storia dell’architettura, tenuta da Zevi dal 1963 no alle sue dimissioni date nel 1979. Emergono due diverse posizioni: una legata alla Presenza del passato, l’altra alle Invarianti del Linguaggio moderno dell’architettura che ri ettono le diverse posizioni della cultura architettonica di quegli anni e che riguardano il ruolo della Storia, della memoria e del lascito del Moderno. Due diverse scelte sia di linguaggio che di idea di città. Il Postmoderno, teorizzato in America da Charles Jencks e in Francia da Jean-François Lyotard, è promosso in Italia da Portoghesi che, nella doppia veste di critico e di progettista militante, guarda alla Storia tutta come un inclusivo magazzino della memoria dal quale poter attingere liberamente, senza remore storicistiche: il Classico dunque come codice popolare.
1 e 2 - Piazza Balsamo Crivelli: Lucio Altarelli, Anna Conti, Giovanna Donini (capogruppo), Marco Panattoni, Pierluigi Pastori.
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La Presenza del passato, del 1980, celebra l’avvento del Postmoderno attraverso un’istallazione-evento di sicuro impatto visivo: una Strada Novissima, lunga più di 70 metri, posta nel vuoto recuperato delle Corderie dell’Arsenale veneziano, costituita da venti facciate progettate da altrettanti architetti e realizzate al vero, con materiali effimeri, dalle maestranze di Cinecittà nei rigidi spazi degli intercolunni delle Corderie1. L’uso disinibito e ludico della Storia è un atto di liberazione dai dogmi del Movimento Moderno che vedevano nell’azzeramento delle tracce della Storia la pre-condizione per conformare il nuovo. La critica che Portoghesi muove alle ansie rifondative del Movimento Moderno non costituisce un appel à l’ordre tendente a ripristinare i fondamenti della tradizione architettonica. La sua è un’opera di liberazione dalla soggezione nei confronti della Storia. Colonne, lesene, archi e serliane costituiscono un’inclusiva grammatica architettonica più che il ritorno ai sacri fondamenti della composizione architettonica tradizionale. Il suo, semmai, è un atteggiamento deliberatamente Pop e rappresenta la rivendicazione di un linguaggio che superi “le inibizioni dell’architettura moderna” L’attenzione di Portoghesi verso tutte le forme storiche dell’architettura garantisce una visione inclusiva che esclude revival stilistici come quelli a vario titolo e con diversi riferimenti presenti nell’esperienza del Neoliberty. Su un lato diametralmente opposto a quello rappresentato da Portoghesi e dalla Tendenza milanese si colloca Zevi che con Il linguaggio moderno dell’architettura aggiorna il lascito del Movimento Moderno, guardando alle gure di Frank Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman e Zvi Hecker come epigoni di questa trascorsa stagione. Dopo un iniziale sodalizio con Portoghesi in occasione del libro comune Michelangiolo architetto e della omonima Mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, Zevi rompe con Portoghesi, accusando il Post-Moderno di essere l’”estremo tentativo di fermare il corso della modernità” attraverso “imbrogli storico-critici” e la pratica di “evasioni e cinismi”2. Post-Moderno e classicismo accademico sono, per Zevi, la stessa cosa. I temi del decostruttivismo, del grado zero, del codice anticlassico, della poetica 1 Portoghesi, Paolo, Il riemergere degli archetipi, in: Numero speciale di «Controspazio» n. 1-6, dedicato a La presenza del Passato, Dedalo 1980, pagg. 2-64 2 Muntoni, Alessandra ( a cura di), Scritti di Bruno Zevi, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma 2002, pag. 34
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dell’imperfetto, della tridimensionalità antiprospettica e dell’action-architecture sono i valori che Zevi contrappone alla simmetria, allo spazio statico, alle scatole chiuse e alla “arroganza” delle città ideali del Rinascimento. Il linguaggio moderno dell’architettura, del 1973, è una guida-manifesto del codice anticlassico declinato attraverso sette invarianti che scaturiscono da precise esperienze: quelle di William Morris (l’elenco come metodologia progettuale), dell’Art Nouveau e del Bauhaus (asimmetria e dissonanze), dell’Espressionismo di Gaudi, Mendelsohn e Scharoun (tridimensionalità antiprospettica), del movimento De Stijl di Theo van Doesburg (scomposizione quadridimensionale), delle strutture ingegneristiche più avanzate (strutture in aggetto, gusci e membrane), del genio di Wright (temporalità dello spazio) e delle moderne acquisizioni urbanistiche (reintegrazione edi cio-città territorio)3 Se Il linguaggio moderno dell’architettura è legato ai codici dell’architettura moderna e contemporanea, l’idea di città viene affidata al concetto di “urbatettura” come sintesi tra urbanistica ed architettura; dove, però, le forme dell’architettura anticipano quelle del piano, invertendo la sequenza dell’urbanistica tradizionale attestata su rigide regole prescrittive, prive di intenzionalità formali. Il manifesto dell’“urbatettura” è nell’assioma: “Urbanistica = Mondrian. Paesaggistica = Pollock”4. Immaginando un’urbanistica legata alle forme dell’Espressionismo astratto americano. La posizione paesaggistica di Zevi trova riscontro nel suo ruolo di consulente dello Studio Asse, formato da numerosi progettisti, tra cui Quaroni, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Vincio Delleani, Vincenzo e Fausto Passarelli, studio incaricato di redigere il nuovo Asse Attrezzato di Roma. Le forme smaglianti del piano che rappresentano una visione ottimistica sulle potenzialità del segno architettonico, se da un lato sono la continuazione delle precedenti esperienze quaroniane di town design, inaugurate con le Barene di San Giuliano a Mestre, dall’altro ri ettono l’in uenza di Zevi e i principi dell’“urbatettura”. Le istanze rifondative del dopoguerra, le inessioni vernacolari del Neorealismo, le contrapposizioni tra i “guardiani dei frigoriferi” e i “paesi dei barocchi”, tra l’Angelo della Storia del Postmoderno e le ansie neoavanguardi3 Zevi, Bruno, Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico, Einaudi, Torino 1973 4 Muntoni, Alessandra ( a cura di), op.cit., pag. 34.
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stiche di Zevi, rappresentano le anime dissonanti di un confronto critico con la tradizione del Moderno che si è perpetuato in diverse stagioni e con diverse argomentazioni. L’insieme di questo confronto differito che ha prodotto adesioni, polemiche, movimenti, scissioni e abiure in rapida successione, ci restituisce i fotogrammi di temperie culturali che si è portati a leggere come lontane o che per alcuni sono del tutto superate. Nel presente emergono altre priorità e narrazioni: la ne delle ideologie, certi cata dal crollo del Muro di Berlino, il superamento delle divisioni in classi sociali, l’attuale assetto della società liquida, la globalizzazione e la coabita-
zione di soggetti plurimi e diversi sono tutte condizioni che depotenziano il ruolo sociale ed ideologico dell’architettura. I temi, particolarmente sentiti in Italia, del confronto con la Storia, con la tradizione del Moderno e con la ricerca di una possibile identità, si scontrano oggi con la prevalenza dell’istantaneità, con il dominio del presente e con i temi imperanti della globalizzazione. Rimane un certo rimpianto per le posizioni e i dibattiti aspri del recente passato, a volte n troppo accesi e partigiani, ma che risultano tuttavia meno omologanti degli attuali, contrassegnati da una sorta di esperanto dei linguaggi.
3 e 4 - Parco di Centocelle. Lucio Altarelli (capogruppo), Roberto Capecci, Anna Conti, Giovanna Donini, Maria Cristina Marchetti, Francesco Marchetti, Silvio Militello (consulente per il verde), Carla Testa (consulente per l’archeologia).
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Alcuni progetti per le molte città che chiamiamo Roma Il riferimento a queste ricorrenti antinomie della cultura italiana, oltre a rispondere ai temi promossi dal presente numero di «Trasporti e Cultura», serve a chiarire le nalità e il senso di alcune mie scelte architettoniche5. I progetti che ho elaborato nel corso degli anni in aree sensibili, dense di eventi e preesistenze, e che hanno riguardato prevalentemente Roma ed il suo territorio, come quelli qui presenti, ri ettono una linea critica di distinzione sia dalle pratiche ambientali, con tutti i limiti e i signi cati che vengono oggi connessi al termine “ambiente”, sia da segni autoreferenziali indifferenti al contesto e tesi alla visibilità della propria cifra stilistica, come avviene oggi in molte archistar. I progetti romani qui presentati, nelle diversità delle rispettive funzioni e collocazioni, tra centro e periferia, rispondono tutti ad una preliminare interrogazione dei luoghi, affidata ad un elemento che reputo decisivo di ogni impostazione architettonica: la pianta. Intesa questa, soprattutto negli interventi urbani, come luogo dell’intreccio tra le tracce del luogo ed i segni del progetto, espresso attraverso l’impostazione di tracciati, assi prospettici e reticoli che agiscono per conformità o per dissonanza rispetto le valenze dei luoghi. Come afferma Le Corbusier in Verso una architettura la pianta richiede la più attiva immaginazione e insieme la più severa disciplina. La pianta determina tutto: è il momento decisivo”6. Non esiste evidentemente una regola pressata cui affidare la dialettica tra ascolto ed invenzione, tra memoria e progetto. A volte prevalgono le tracce di un luogo che orientano le trame del progetto; altrove i segni del progetto sono prevalenti ed impongono le loro regole all’area del progetto. I progetti romani per Borghetto Flaminio, per l’Ostiense e per Piazza Crivelli rispondono al primo caso, confrontandosi, rispettivamente il primo con l’asse della via Flaminia, piazza del Popolo e le pendici di Villa Borghese, il secondo con Porta San Paolo, la stazione Ostiense ed il tracciato ferroviario della Roma-Lido e il terzo con i principali attraversamenti pedo5 Altarelli, Lucio, Paesaggi dell’architettura, presentazione di Franco Purini, Gangemi, Roma 1998; Altarelli, Lucio, Architetture residuali, Diagonale, Roma 1999. 6 Le Corbusier, Vers une Architecture, Edition Crés, Paris 1923 [trad. It.: Verso una Architettura, Cerri, Pierluigi e Nicolin, Pierluigi (a cura di), Milano 1973, pag. 36.
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nali della piazza principale di Casal Bruciato. Il progetto per l’area di Centocelle risponde invece al secondo caso, con gurando un impianto stellare, una sorta di cosmogonia terrestre che racchiude e ri ette l’immagine di Roma, città in sideris forma. Quello che deriva da questa impostazione è il palinsesto di diverse scritture e narrazioni che danno luogo a maglie e a trame sovrapposte e diversamente orientate che evocano i disegni degli scavi stratigra ci degli archeologi; primi tra tutti quelli della Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani, redatti tra il 1893 e il 1901, estremamente affascinanti anche per il loro valore estetico. Per l’archeologo lo scavo stratigra co è la ricerca dell’unità perduta; per il progettista la stratigra a esprime la sovrapposizione di diverse narrazioni e gure. Per l’archeologo lo scavo stratigra co procede dal presente al passato, per il progettista l’immagine della stratigra a è un codice compositivo che proietta le tracce del passato in assetti futuri dove vengono descritte le interrelazioni tra diverse temporalità. Altri elementi che caratterizzano questi progetti si possono riassumere, sinteticamente, nei temi seguenti. La predilezione per paesaggi orizzontali, prossimi alla terra, come opposizione rispetto la verticalità eroica del Moderno e dell’International Style. La scelta di un linguaggio sottrattivo, con ampi spazi ricavati al disotto del livello terra, come adesione ai temi della decrescita, più o meno felice. In ne un’architettura fatta di scavi e riporti come declinazione di un paesaggio arti ciale che escluda però qualsiasi indulgenza verso le sollecitazioni del cosiddetto garantismo ambientale. Il tema della commistione ed ibridazione di diverse giaciture che orientano questi come altri miei progetti, viene espresso, inoltre, in alcuni disegni particolari che, partendo da progetti compiuti, approdano a gradi progressivi di astrazione attraverso l’elaborazione di gure bidimensionali ricavate da operazioni di scomposizione, frammentazione e straniamento applicate ai singoli progetti. Queste gure rappresentano le sezioni piane applicate ai volumi e ai livelli organizzativi del progetto; sono come una sorta di tomogra e applicate al corpo dell’architettura. La costruzione di questa Flatlandia, per citare il noto romanzo di ne Ottocento di Edwin Abbott, mentre misura la distanza dall’architettura, libera nuove energie: accentua il valore dei segni e le interrelazioni delle gure che sensibilizzano lo spazio bidimensionale della tela o del foglio in cui sono inscritte.
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La costruzione di queste gure non vuole essere un’incursione nel mondo dell’arte, anche se i con ni tra arte e architettura sono del tutto permeabili. Le forme di queste stratigra e vogliono continuare a parlare di architettura da un altro punto di vista e a recepire diverse sollecitazioni7. Tra queste quella del primato della pianta in architettura; tema da rivendicare anche e soprattutto nell’epoca del digitale che favorisce un approccio plastico ed immediatamente tridimensionale a scapito, spesso, del valore iniziatico della
pianta. Ma soprattutto queste gure, nella loro bidimensionalità, parlano del valore germinativo delle forme, in cui ogni segno si relaziona ad un precedente e, parallelamente, apre all’urgenza di nuove scritture. Spesso a nostra stessa insaputa.
5 e 6 - Riquali cazione del Borghetto Flaminio. Lucio Altarelli, Barbara Briganti (consulente per il verde), Anna Conti, Giovanna Donini (capogruppo), Marco Panattoni, Pierluigi Pastori.
© Riproduzione riservata
7 Altarelli, Lucio, Stratigraphies; Stratigra e, in: «Disegnare, Idee Immagini» n. 42, “Sapienza Università di Roma”, Roma 2011, pagg. 7-11; Altarelli, Lucio, Editorial. Threads of design ; Editoriale. Trame del progetto, in: «XY. Rassegna critica di studi sulla rappresentazione dell’architettura e sull’uso delle immagini nella scienza e nell’arte», Università degli Studi di Trento, Officina, Roma 2019, pagg. 4-7
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Identità, architettura, regionalismi di Marco Maretto
Affrontare il tema del luogo e dell’identità in architettura signi ca studiare, di fatto, la storia stessa della disciplina architettonica. Ma se il tema del luogo e dell’architettura come arte di disegnare i luoghi, si colloca lontano, alle origini stesse della storia dell’umanità, la sua percezione come problema è tutta interna alla “modernità”. Affondando così le sue radici nei dibattiti contemporanei e successivi alla Rivoluzione Industriale e trovando piena epifania nella “crisi” novecentesca. Il campo d‘indagine, apparentemente vasto e confuso, si restringe e si concentra così, da subito, sui grandi fenomeni culturali, economici, sociali e dunque architettonici che hanno animato il XX secolo, trovando un punto di contatto profondo e diretto con tutta la Storia dell’Architettura Moderna. Tanto che si potrebbe parlare di un’’’altra modernità”, proprio perché di una modernità “altra” si tratta, di un’interpretazione del moderno che non rinuncia al dialogo con il contesto, sentendo altresì l’imperativo etico di darne un’interpretazione “contemporanea”, pena la sua stessa perdita di signi cato civile ed identitario. Le implicazioni connesse all’indubbio fascino di una possibile “modernità delle differenze” sono però ancora troppo estese e complesse per poter essere affrontate in un saggio critico. Ho creduto opportuno, allora, porre in evidenza le due “sponde” al cui interno si è animato, nel corso del Novecento, il dibattito architettonico intorno ai temi del luogo e dell’identità: il Regionalismo, concetto spesso abusato, su cui si cercherà di fare un po’ di chiarezza e di abbozzare una prima sistematizzazione, da un lato e l’ampia produzione scienti ca maturata intorno agli studi condotti da Christian Norberg-Schulz e Martin Heidegger, dall’altro. La profonda diversità di approccio di queste due esperienze ha giusti cato una loro trattazione separata, pur facendo parte dello stesso fenomeno di cui, anzi, rappresentano le manifestazioni più signi cative. Esse rimangono infatti, tutt’oggi, le due anime scienti che principali di un
Identity, architecture, regionalisms by Marco Maretto
To address the theme of place and identity in architecture means to study the very history of the architectural discipline. But while the theme of place and of architecture as the art of designing place is rooted far back in time to the very origins of the history of humanity, its perception as a problem is unique to the “modern” age. Both the multifaceted regionalist experience and the exegetic studies by C. Norberg-Schulz present a phenomenon that is complex and rich in widely-explored content, but even more so in potential content. A review of the work of Biasutti, Pagano, Frampton, Pallasmaa and NorbergSchulz clearly reveals the potential for a theoretical approach that does not reject the contemporary at all, but on the contrary establishes a renewed relationship with modernity. In an increasingly globalized, smart and liquid world, what emerges most powerfully are the differences: cultural, economic, linguistic, religious, etc. An “architecture of place” must therefore necessarily begin with a synthesis of the experiences that preceded it, clarifying and selecting them in response to the needs of the twenty- rst century. Yet it is even more important to acquire the tools for a critical reading of the anthropic landscape and the components relevant to its history and identity. These tools must relate to how and why different environmental contexts have been shaped and strati ed over time; they must have a capacity for generalisation so that they might be applied to very different places, but must be equally precise in their capacity to de ne the essence of the mechanisms and logics (always different and always the same) that underlie the continuity in change that channels the identity of an anthropic place.
Nella pagina a anco: Christian Norberg-Schulz, Genius Loci, Towards a Phenomenology of Architecture, frontespizio; Vincet B. Canizaro, Architectural Regionalism: Collected Writings on Place, Identity, Modernity, And Tradition. frontespizio; Juhani Pallasmaa e Peter MacKeith, Encounters vol. 1, frontespizio; Casabella n.550, Marzo 1984, frontespizio; estratti tratti dal libro Architettura Rurale Italiana di Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel 1936.
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dibattito solo apparentemente eclissatosi a cavallo del XXI secolo e che le nuove istanze globali e smart di una ormai fattuale società liquida, pongono con urgenza. Il termine Regionalismo, in architettura, é stato utilizzato per de nire esperienze e “correnti”, successive alla Rivoluzione industriale, spesso sensibilmente differenti l’una dall’altra ma che in comune ricoprono un chiaro anti-accademismo di fondo e trovano le loro radici nel “culto del luogo”. Una prima distinzione fondamentale é, a nostro parere, quella tra un “Regionalismo Storico”, che si estende sostanzialmente no all’ultimo Con itto mondiale ed il fenomeno conosciuto con il nome di “Regionalismo Critico”. Entrambi rappresentano, evidentemente, due aspetti consequenziali dello stesso fenomeno, ma la chiara lontananza dei rispettivi fondamenti metodologici é tale da renderne super ciale una indistinta lettura unitaria. Se dunque, il problema del luogo è una delle questioni fondamentali del dibattito architettonico contemporaneo, ciò che però distingue una normale attenzione al contesto, dal regionalismo è la scelta critica, operata a monte dell’esperienza progettuale, di leggere, comprendere e partecipare consapevolmente al dialogo, sempre rinnovato, con i “linguaggi” dei luoghi, sì da renderli sempre comprensibili nel loro viaggio attraverso la storia. Il regionalismo non va però confuso (e qui si traccia un primo, grande spartiacque), a nostro parere, con lo Storicismo o con l’Eclettismo. Il progetto del luogo prevede sì una visione prospettica delle sue strati cazioni, ma si tratta di una visione critica, volta a ricercare quegli elementi in grado di veicolare quella continuità nel mutamento su cui si fonda l’identità di un luogo antropico, ben lungi dunque da una concezione statica, immanente (e dunque storicista) della storia.
Il Regionalismo “storico” Il tema del rapporto tra luogo ed architettura affonda le sue radici nella crisi, a livello teorico ed operativo, che ha coinvolto la società tra il XVIII e il XIX secolo. La Rivoluzione Industriale, come sappiamo, aveva radicalmente sconvolto e trasformato i fondamenti che avevano caratterizzato e legittimato per secoli le precedenti società d’Occidente, minandone alla base gli stessi presupposti economico-sociali. Le origini del regionalismo “storico” si fondano così sulla reazione veemente al dilagante imporsi della cultura eclettica, glia di una industrializzazione in102
controllata ed alienante che vedrà nell’Inghilterra di John Ruskin e del movimento delle “Arts and Crafts” e nella Francia di Viollet Le-Duc, le due anime di un dibattito che si protrarrà sino al secondo dopoguerra. In comune alle due esperienze, quella inglese e quella francese, é la questione costruttiva, attraverso cui verranno introdotti alcuni dei concetti fondamentali per tutta la teoria architettonica no alla prima metà del XX secolo: la sincerità costruttiva, la corrispondenza alle caratteristiche del materiale utilizzato etc., recuperando un certo funzionalismo settecentesco che raccomandava, non a caso, un uso dei materiali consono e consequenziale alla loro qualità e natura1. La differenza profonda tra le due teorie si consuma altresì sul tema della macchina: accolta in Francia in tutte le sue valenze, non ultime quelle estetiche è invece fortemente osteggiata in Inghilterra e nell’ambito della teoria del restauro: impostato in senso decisamente positivista da Viollet-le-Duc al punto da sostenere la riconduzione degli edi ci ad ipotetici stati originari di compiutezza, più che mai contrastante con la concezione loso co-culturale empirista anglosassone Ruskin: “Il restauro è distruzione!” (aforisma 31)2. Nella seconda metà del XIX secolo si delineano così due correnti culturali fondamentali. Da un lato un mondo più razionale, glio diretto del pensiero illuminista settecentesco, legato a questioni funzionali e costruttive ma scisso tra classicismo ed anticlassicismo; dall’altro un mondo più romantico, legato a questioni morali e sociali, che si contrappone all’industrializzazione incontrollata della società confrontandovi un’acuta sensibilità naturalistica pervasa non di rado dal fascino del “fantastico”3. Questo é il territorio culturale ed operativo su cui, agli inizi del Novecento, si insedierà quella corrente architettonica de nita “Regionalismo Storico”4. Con il XX secolo inizia, infatti, un processo di “sistematizzazione” di tutte le esperienze precedenti, inaugurando una grande stagione di studi e ricerche intorno all’ar1 Cfr. Kruft, H.W. (1987) Storia delle teorie architettoniche. dall’Ottocento ad oggi Laterza, Bari. 2 Cfr. Ruskin, J. (1849) The Seven Lamps of architecture, Londra. 3 Cfr. Pevsner, N. (1969) Ruskin and Viollet-le-Duc: Englishness and Franchness in the appreciation of Gothic Architecture, Londra. 4 Si potrebbe obbiettare che queste siano anche le origini, le fondamenta indiscusse di tutta l’architettura moderna. Ebbene, come vedremo, il regionalismo ed il problema del luogo (ovvero il tema del luogo inteso come problema) nascono contestualmente all’affermarsi della cultura moderna dell’architettura.
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chitettura popolare ed in particolare quella rurale: il minimo comune denominatore è il “funzionalismo”5. Più che mai notiamo, dunque, come il fenomeno regionalista appartenga a tutta l’esperienza moderna dell’architettura, di cui si propone, anzi, come corrente fondamentale, foriera di contributi originali la cui validità si estende, crediamo, in parte sino ad oggi. Lo studio dell’evoluzione della casa rurale, impostata da Biasutti e portata però a piena maturazione dal grande lavoro di sintesi condotto da Pagano, è così di estrema importanza in quanto, se da un lato, mette ordine tra tutte le esperienze precedenti, dando per altro una risposta efcace alle tematiche architettoniche di quegli anni, dall’altro, getta delle fondamenta imprescindibili per il successivo studio delle identità ambientali. La casa rurale, infatti, nella dinamica storica delle sue trasformazioni, testimonia quel primo rapporto empirico, tra uomo e natura che è alla base della storia dei luoghi antropici ed “assume il valore di un documento importantissimo nella storia della civiltà umana”6. La stagione del regionalismo “storico” si chiude così con l’assunzione da parte del Movimento Moderno (o almeno, di una parte di esso) dei fondamenti stessi dell’edilizia rurale e dunque con la risoluzione del confronto culturale tra il modello nordico e quello mediterraneo, a netto favore di quest’ultimo7. Sarà questo però, in un certo senso, il “canto del cigno” del regionalismo “storico”, il quale nel momento in cui perderà il suo carattere multi-culturale e pluralista in favore di un modello forte, unitario ed internazionale (“stilistico”?), perderà i suoi stessi presupposti fondativi.
Kenneth Frampton e Il Regionalismo “critico” Il secondo con itto mondiale rappresenta un complesso spartiacque economico, sociale e culturale che segna l’inizio di un profondo periodo di crisi e di ri essione da parte di tutta la cultura occidentale. Se da un lato, allora, si assisterà alla perdita di certezza nei confronti dei forti riferimenti progettuali 5 La Francia, che vanta una lunga esperienza, a partire da Viollet-le-Duc, nello studio delle case rurali in termini funzionalistici, gioca dunque un ruolo da protagonista per tutta la prima metà del secolo, innalzando una netta divisione tra il modello culturale nordico e quello mediterraneo di ispirazione, appunto, francese. 6 Ibidem. 7 Vedi le esperienze di “Quadrante”, Sert, Loos etc.
del Movimento Moderno; dall’altro si porrà il problema di una riorganizzazione generale della disciplina architettonica. In questa direzione la teoria “critica” del regionalismo in architettura sarà quella che maggiormente cercherà un legame, costruttivo o distruttivo, con la storia recente dell’architettura moderna. A lei forse, per la prima volta, dobbiamo un ampio ed acceso dibattito intorno ad alcune delle maggiori tematiche sviluppatesi dalle profonde trasformazioni sociali, economiche e politiche successive alla ne della seconda guerra mondiale. Sul problema regionalista abbiamo così, sin dall’inizio, due orientamenti teorici: entrambi colgono la necessità di superare l’utopia, un po’ ingenua, di un internazionalismo inteso come massi cazione socio-culturale, di impostazione funzionalista; l’una però in chiara e violenta antitesi con la tradizione moderna; l’altra invece alla ricerca, proprio nei fondamenti morali ed “arcaici” del Movimento Moderno, degli elementi di continuità con il rinnovato interesse per il “luogo”8. Le soluzioni che vengono fornite sono però vittime di una sostanziale contraddizione di fondo: il loro tentativo rimane quello di rispondere alle profonde trasformazioni in atto utilizzando gli stessi strumenti di cui hanno riconosciuto l’inadeguatezza. “Manifesto” della prima corrente, in ogni caso, può essere considerata la mostra organizzata da Mumford nel ‘49 a San Francisco, dal titolo eloquente: Domestic architecture of the San Francisco Bay Region. Il riferimento, infatti, non é soltanto all’opera di Frank Lloyd Wright ma anche e soprattutto ad autori come Maybech e Greene & Greene, veri e propri maestri della architettura West Coast americana e soprattutto William W. Wurster, l’architetto che forse meglio rappresenta questa tendenza, il quale, interessato all’architettura spontanea e vernacolare, scriverà nel 1958 un saggio dal titolo eloquente: Row house vernacular and high style monument - Il più importante tentativo di sintetizzare tutti i termini del dibattito in una teoria che in qualche modo superasse i limiti storici e geogra coculturali della ricerca regionalista proprio alla luce ed in risposta concreta alle nuove problematiche della società contemporanea 8 Il contributo di Pagano e di una parte importante dell’architettura italiana di quegli anni non hanno trovato, a nostro parere, il giusto risalto nella Storia dell’architettura moderna, né hanno ricevuto quell’attenzione critica che renderebbe la loro esperienza, così mediata, di grande utilità per il dibattito contemporaneo.
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confronto del processo ideativo e produttivo della forma architettonica: “poli” in equilibrio dinamico tra loro, molecole in perenne stato tensionale. In conclusione, la teoria cosiddetta “critica” del regionalismo in architettura nasce, così, dalle ceneri loso co-culturali oltre che socioeconomiche della seconda guerra mondiale. Il suo principale merito é sicuramente quello di aver sensibilizzato al tema del luogo gran parte della cultura architettonica contemporanea e di aver compreso l’esigenza di ampliare l’orizzonte di analisi superandone il limite storico-stilistico. Il suo “limite” principale è stato quello di caratterizzarsi, necessariamente, come fenomeno colto ed elitario; un approccio critico (al luogo, all’architettura, alla realtà) richiede, infatti, il possesso di adeguati strumenti intellettuali e soprattutto, di una forte consapevolezza civile. L’esigenza-mancanza di una sua più ampia diffusione e comprensione, sia culturale che operativa del regionalismo costituisce, allora, una delle scommesse ancora aperte, a cui, come vedremo, il lavoro di Norberg-Schulz cercherà implicitamente di dare una risposta.
Il “Luogo” Heideggeriano ed il concetto di paesaggio in Norberg-Schulz
1 - Tessuti di S. Vito Romano. Disegno di Saverio Muratori, Renato e Sergio Bollati, Guido Marinucci e Alessandro Giannini, 1969. Fonte: Biblioteche del Comune di Modena, fondo Saverio Muratori.
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o, per dirla con Jean Francois Lyotard, “nella condizione postmoderna della società” è quello portato avanti da Kenneth Frampton. Così scrive: “Per Regionalismo Critico non intendo qualunque genere di stile, né ho in mente qualsiasi genere di revival vernacolare e in questo caso nemmeno forme di spontaneità da zona rurale. (...) In teoria é una cultura del costruire che, mentre accetta il ruolo potenzialmente liberativo della modernizzazione, nondimeno resiste all’essere totalmente assorbita dagli imperativi globali della produzione e del consumo”, e conclude: “Per un salvataggio culturale ci occorre quindi un regionalismo mentale, una strategia di resistenza”. Frampton elabora così l’idea di una Architettura della resistenza impostata su di una complessa metodologia articolata secondo cinque “coppie contrastanti” da considerarsi come luogo di
Cristian Norberg-Schulz è forse uno dei primi critici dell’architettura a mettere in evidenza l’importante legame teorico che collega il tema del Luogo a quello del Paesaggio. La differenza esistente tra i due concetti risiede, secondo lui, nella sostanziale diversità di “scala” a cui fanno riferimento, con il Luogo che, intervenendo a scala più speci ca ed individuata, rappresenta la sostanza su cui si fonda il Paesaggio: costituito dall’insieme di luoghi naturali e di luoghi arti ciali. Proprio a partire da questa differenza di fondo, tra luoghi arti ciali e naturali, all’interno della più ampia problematica del rapporto tra uomo e natura, Norberg-Schulz comincia la sua complessa trattazione intorno al tema del contesto, nelle sue valenze storicosociali e nelle sue importanti implicazioni psicologico-comportamentali. Fondamento di tutta la sua trattazione é, come afferma lui stesso, la attenta ricerca elaborata da Martin Heidegger intorno al tema dell’abitare, quale parte signi cativa della sua Weltanschauung. Il losofo tedesco é infatti, forse, uno dei primi studiosi ad occuparsi in maniera esplicita e signi cativa dei problemi
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inerenti allo “stare dell’uomo sulla terra”: “La loso a di Heidegger è il catalizzatore che ha reso possibile il presente libro e ne ha determinato il tipo di accostamento”9. In particolare i volumi Intenzioni in architettura (1963) e l’Abitare (1984), riassumono forse il maggior contributo del critico svedese al tema dell’identità nella sua accezione più totale. Il carattere marcatamente teorico e antropologico, piuttosto che metodologicooperativo di queste opere, consente al nostro autore di porre ordine nel campo altrimenti confuso e spesso contraddittorio di tutte le precedenti ricerche svolte intorno al tema del luogo (con l’eccezione, come detto, dell’importante lavoro condotto da Frampton). La sintesi organica che ne deriva é, dunque, una premessa teorica fondamentale per chiunque intenda dedicarsi criticamente allo studio dei luoghi nelle loro valenze identitarie e di appartenenza. Allora, se la condizione dell’abitare implica che si sia stabilito un rapporto signi cativo tra un essere umano ed un dato ambiente, questo rapporto consiste in un atto di identi cazione, ossia nel riconoscimento di appartenenza ad un certo luogo. Insediarsi, scrive Norberg-Schulz corrisponde al riconoscere sé stessi in relazione al proprio “essere nel mondo”. Poiché però ogni forma di insediamento può essere concepita solo in relazione con un dato ambiente, uno studio sugli insediamenti implica una analisi dell’ambiente naturale. Tre, infatti, sono le forme dell’abitare, secondo il critico svedese: l’abitare collettivo, l’abitare pubblico e l’abitare privato. La città ed i propri spazi urbani sono da sempre il luogo dell’abitare collettivo, l’edi cio pubblico costituisce la base, il fondamento, dell’abitare pubblico mentre la casa rappresenta da sempre la sfera privata. Insieme, città, edi cio pubblico e case costituiscono un ambiente “totale”. Questo é però impensabile se non in stretto rapporto con il dato, ossia con la natura, lo spirito del luogo che “nel nostro contesto signi ca soprattutto il paesaggio”. Lo studio condotto da Norberg-Schulz muove quindi dall’analisi di questi tre fondamentali livelli dell’abitare attraverso quello che dovrebbe essere il loro denominatore comune: il processo di identi cazione ed orientamento. Mentre infatti l’identi cazione indica “l’esperienza pregnante di un ambiente totale” e si riferisce quindi alla “qualità” 9 Cfr. Norberg-Schulz, C. (1979) Genius Loci, Electa, Milano.
delle cose, l’orientamento ne coglie la loro interrelazione spaziale. Heidegger illustra il problema con l’ormai nota immagine del “ponte”: “un ponte non collega solo due rive già esistenti, le rive emergono come rive solo nel momento in cui il ponte attraversa il ume. Il ponte (...) raduna la terra come paesaggio intorno al ume”10. Il paesaggio acquista dunque valore come tale attraverso il ponte; precedentemente il suo signi cato era solo potenziale, “nascosto”. Ed ancora: “il ponte raduna l’essere in una certa ubicazione che possiamo chiamare luogo. Questo luogo tuttavia non esisteva come entità prima del ponte (benché esistessero
2 - Italia oggi. Disegno di Saverio Muratori, Renato e Sergio Bollati, Guido Marinucci e Alessandro Giannini, 1969. Fonte: Biblioteche del Comune di Modena, fondo Saverio Muratori.
10 Cfr. Heidegger, M. (1976) Saggi e discorsi, Milano.
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molti “luoghi” lungo le rive), bensì entra in vista con e come il ponte”. Ma torniamo allo studio del paesaggio nelle sue componenti antropiche e identitarie. Quando un centro naturale é usato come localizzazione di un insediamento, l’architettura serve a “rivelare” ed a portare “in presenza” quelle qualità che gli sono connaturate attraverso un processo che, spiega il nostro autore, può essere de nito di visualizzazione. Quando invece un centro naturale non è presenti cato, come nel caso del deserto, o di una pianura molto estesa, é compito dell’architettura “aggiungere quel che manca”, attraverso un processo di complementazione. L’architettura del deserto è costituita infatti, come sappiamo, da due elementi fondamentali dal punto di vista paesaggistico-individuativo: il “recinto” o “limite” e l’elemento verticale (minareti ecc.) che funge rispettivamente da centro e da axis mundi. Non è un caso che, in fondo, tutto il sistema antropico del deserto sia costituito da “percorsi” (di attraversamento) e “recinti” (di sosta) e che la stessa moschea islamica non sia considerata la “casa di Dio”, ma bensì un recinto in cui riunirsi per la preghiera: il “recinto”, il “moto” e la “sosta”, dettati dalla liturgia islamica, generano lo spazio e la disposizione degli elementi architettonici. Ma per assumere il ruolo di meta, un insediamento deve anche possedere, nei confronti dell’ambiente circostante, una determinata qualità gurale, la quale é però, per sua natura, soggetta alle variazioni dettate dalle condizioni topogra che locali, da quei fenomeni cioè su cui trova fondamento lo spirito di un luogo. L’insediamento si presenta, così, scrive Norberg-Schulz, con un particolare carattere locale che complementa e visualizza l’ambiente. Il suo compito é quello di “condensare” tale carattere operando da punto focale, da “luogo”, ove si raccolgono tutte le diverse proprietà dell’ambiente. Gli spazi urbani debbono possedere però anche altre proprietà. Prima di tutto, spiega Norberg-Schulz, devono essere racchiusi, ossia debbono essere degli interni, solo così possono assumere una loro qualità gurale e lo spazio da essi delimitato essere una effettiva gura spaziale“. È evidente che l’immagine ambientale e l’organizzazione spaziale non debbano necessariamente coincidere: l’immagine é una funzione dello spazio vissuto, mentre l’organizzazione diventa spesso uno schema astratto riconoscibile solo dall’alto. Sia la forma costruita che la de nizione spaziale di strade
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e piazze costituiscono così, nell’insieme, quelle gure urbane che “portano in presenza l’abitare collettivo”. L’attuale perdita del luogo corrisponde non a caso alla perdita dello spazio urbano. Ma l’ultima forma dell’abitare, ricorda il critico svedese, è l’abitare privato di cui la casa costituisce la principale (ed unica) manifestazione fenomenica. Qual é il signi cato ambientale che la casa visualizza e raduna? “É il manifestarsi del mondo dei fenomeni anziché di quello pubblico delle “spiegazioni”. Così ad esempio, la qualità della luce varia da luogo a luogo, spiega Norberg-Schulz, ma non è facile coglierne le variazioni prima che essa si sia “manifestata per mezzo di una forma costruita”, o meglio, aggiungiamo, prima che si sia “identi cata” e sia stata “riconosciuta” a contatto con la materia ed i materiali di un determinato contesto ambientale. In effetti se la casa ha il compito di rivelare il mondo come “materiale e colore, topogra a e vegetazione, stagioni, condizioni del tempo e della luce”, offre però, al tempo stesso, un rifugio da quello stesso ambiente. In un certo senso, potremmo dire, crea quella “distanza” necessaria per l’osservazione ed il “riconoscimento” della realtà pur essendo parte della realtà essa stessa. Date, infatti, le multiformi possibilità del quotidiano e le svariate condizioni locali, la tipologia della casa si presenta, tutto sommato, molto più complessa che non quella dell’edilizia pubblica. “Ciò malgrado tutti sappiamo che esistono dei tipi ben de niti di case”, argomenta Norberg-Schulz e quando i tipi fondamentali della casa vengono ripetuti, essa diventa “l’elemento costitutivo del fondo dell’esistenza”.
Identità vs Genius Loci? Come abbiamo visto in altri momenti della nostra ricerca11, Hegel dà inizio alla sua Filoso a della Storia con un capitolo sulle “Basi geogra che della storia del mondo” e si propone di de nire la “tipologia naturale della località che a sua volta é in stretto rapporto con il tipo ed il carattere della gente nata sul suolo in questione. Tale carattere é il modo stesso in cui i popoli appaiono e trovano il loro posto nella storia del mondo”12. L’architettura è dunque l’atto del fare i luoghi: “l’architettura vernacolare delle fattorie e 11 Cfr. Maretto, M. (2006) Il Paesaggio delle Differenze ,Ed. Aion, Firenze. 12 Cfr. Hegel, G.W.F. (1973) Lezioni sulla loso a della storia, La Nuova Italia, Firenze, voll. 4.
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dei villaggi, concretizza i signi cati locali immediati della terra e del cielo, quindi é congiunturale e connessa ad una particolare situazione; l’architettura urbana, invece, essendo basata sulla simbolizzazione e la trasposizione, presuppone un linguaggio formale, uno stile”13, in essa i concetti “esterni” incontrano il genius locale e ne derivano un sistema di signi cati più complesso, sempre e comunque “catalizzato” dallo spirito del luogo. Per questa ragione, gli spazi urbani non costituiscono un mondo interno indipendente, ma proprio per consentire l’orientamento e l’identi cazione devono concretizzare la situazione generale dell’insediamento. Ora però, mentre gli spazi interni degli insediamenti, che NorbergSchulz chiama vernacolari, sono una continuazione dell’esterno ed intrattengono un rapporto diretto con esso, gli insediamenti urbani si distinguono per una de nizione di fulcri spaziali grazie a cui il cittadino esperisce il ruolo del luogo nel territorio. In un certo senso, usando una bella immagine del nostro autore, “i percorsi illustrano il modo in cui i signi cati vengono portati dentro la città, passando per la soglia della porta cittadina”. I percorsi e le piazze urbane sono poi de niti da edi ci che incorporano i signi cati radunati dalla città. Questa capacità, afferma il nostro autore, dipende da come gli edi ci poggiano, si elevano e si aprono: “in genere l’edi cio poggia nel terreno, sul terreno o sopra il terreno. L’essere nel terreno esprime un rapporto romantico con il luogo, che di solito si concretizza col far crescere l’edi cio dal suolo senza una base percettibili. L’essere sul terreno signi ca invece che l’edi cio é posto su una base classica, tra terra e cielo. L’essere sopra il terreno indica, in ne, che la continuità del suolo é preservata e l’edi cio é collocato su pala tte e sembra quindi esistere in uno spazio cosmico astratto”.
Conclusione Sia la variegata esperienza regionalista che lo studio esegetico condotto da Norberg-Schulz ci consegnano un fenomeno complesso, ricco di contenuti già esperiti ma ancor più di contenuti possibili. Ripercorrendo il lavoro di Biasutti, Pagano, Frampton, Pallasmaa e Norberg-Schulz emergono, infatti, con chiarezza le potenzialità di un approccio teorico che non rinnega affatto la contemporaneità ma, anzi, stabilisce 13 Cfr. Rapoport, A. (1969) House form and Culture ,Englewood Cliff.
un rinnovato rapporto con la modernità intravedendo la possibilità di scrivere una Storia dell’Architettura Moderna intrecciata con la storia dei luoghi. Ed è forse questo l’elemento più importante. In un mondo sempre più globalizzato, smart e liquido, ciò che emerge e si afferma sono le differenze: culturali, economiche, linguistiche, religiose etc. Una “architettura dei luoghi” non potrà che muovere allora, evidentemente, dalla sintesi delle esperienze che l’hanno preceduta, chiari candole e selezionandole in risposta alle esigenze del XXI secolo, ma, ancora di più, dovrà dotarsi di strumenti idonei a leggere criticamente il paesaggio antropico nelle sue componenti storiche e identitarie. Strumenti che si dovranno riferire al come ed al perché i diversi contesti ambientali si sono formati e strati cati nel tempo, che dovranno essere sufficientemente generalizzabili da poterli applicare a luoghi diversi fra loro, ma altrettanto precisi nella loro capacità di individuare l’essenza dei meccanismi e delle logiche (sempre diverse e sempre uguali) che stanno alla base di quella continuità nel mutamento che veicola l’identità di un luogo antropico. Una unità di strumenti che non signi ca unicità di lettura, poiché i fenomeni storico-ambientali (la Storia è innanzitutto “Storia dei luoghi”) ricorda Gadamer, non si possono “spiegare” (erklären) ma solo “comprendere” (verstehen) e la comprensione è sempre e comunque selettiva, legata allo “stare dell’uomo sulla terra” ed al suo modo di riconoscersi nella realtà. É possibile, però, comprenderne le logiche che ne hanno sotteso i processi di formazione e trasformazione. É possibile de nire una struttura concettuale capace di guidare, con consapevolezza “informale” le scelte e le strategie progettuali del cambiamento, laddove l’identità, la storia, la forma dei luoghi antropici, non hanno nulla di immanente, agendo quali strumenti dinamici per la loro stessa trasformazione. Semmai, dunque, è possibile ed auspicabile, sviluppare degli “strumenti concettuali o categorie, per usare le parole di Marx, che mentre salvano la concretezza dei fatti empirici cui vengono applicati siano in grado di riconnetterli in un’unità organica”, siano in grado di costituire, cioè, un quadro critico-metodologico di riferimento su cui fondare una consapevole “architettura delle differenze”. © Riproduzione riservata
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Passaggi, presidi e infrastrutture della montagna: possibili strategie post-Vajont di Mickeal Milocco Borlini, Lorenzo Gaio e Giovanni Tubaro
Il signi cato etimologico di passaggio1 assume diverse accezioni, tra cui quello di transito, luogo di attraversamento, spostamento da un punto all’altro e cambiamento di stato. Nello speci co, il passaggio si esempli ca con l’infrastrutturazione di un luogo e con la presenza di vie di comunicazione come le strade. Si considerano emblematiche le aree colpite dall’evento Vajont e il sistema vallivo del Cellina.
Introduzione La strada presa in considerazione, la SR251, quella da Barcis a Cimolais, può essere vista come una dorsale che tocca tangenzialmente e non direttamente i paesi ai lati come fossero satelliti raggiungibili attraverso costole stradali quasi invisibili; in questa infrastruttura viaria e sovra-regionale si possono quindi riconoscere due “stazioni di testa”: da un lato Montereale Valcellina, dall’altro, più a ovest, Longarone. La SR251 innerva, proprio come un nastro, le vallate di questo ambito territoriale: è un “monumento alla via” dove altre infrastrutture si insinuano nel paesaggio montano2. Questa strada non fu pensata in termini di sostenibilità (cfr. art 9 Agenda 2030), ma a favore dell’industria in pianura e dello sfruttamento energetico (idroelettrico). Emerge che il passaggio, inteso anche come luogo che viene contraddistinto da un mutamento, era in passato de nito da una demogra a ed economia tipicamente di sussistenza, connotata anche dalla presenza dell’acqua come elemento di unione tra le diverse vallate e i borghi in esse presenti, dove la gola del Vajont consente di raggiungere lo spartiacque, passo Sant’Osvaldo, tra le valli del Piave e del Cellina. Oggi, questi luoghi paiono privi di vita socia1 Cfr. dizionario Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/passaggio/ , consultato gennaio 2021. 2 Cfr. Le Corbusier, Progetto per Rio De JaneiroProgetto e Algeri (Plan Obus).
Passages, structures and infrastructures: possible post-Vajont strategies
by Mickeal Milocco Borlini, Lorenzo Gaio and Giovanni Tubaro Passage might be exempli ed by the infrastructure in a territory, and the presence of communication routes such as roads. In this essay, the areas affected by the tragedy of the Vajont dam and the Cellina valley system are considered emblematic. The road taken into consideration, the SR251, can be viewed as a backbone that tangentially touches the villages along the sides, while recognizing a supra-regional infrastructure with two stations at the ends: Montereale Valcellina and Longarone. The SR251 unfurls through the valleys like a ribbon, and is a “monument to the road” where other infrastructures insinuate themselves into the mountain landscapes. It was not, however, designed with an eye to sustainability but to support industries and energy exploitation. Today, these places are lacking in social life and are undergoing a process of deserti cation as a result of the post-Vajont dynamics. In the 1960s, there was a sudden exodus towards urban areas where it was easier to nd work. The transition from the rural dimension, restricted by the availability of natural resources alone, has shifted towards a dimension in which water and its use in industry have led to the construction of infrastructure for the exploitation of resources, to development plans and, most recently, to the elaboration of possible new sustainability strategies that can overcome resilience and make it possible to experiment with new transformation models.
Nella pagina a anco, in alto: cartolina di Longarone, vista valle del Piave, 1961; in basso a sinistra: Monte Toc (foto Lorenzo Gaio, 2021); in basso a destra: Borgo di Erto (foto Lorenzo Gaio, 2021).
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1 - Diga del Vajont (foto Francesca Bassi, 2021).
2, 3 e 4 - Nella pagina seguente, dall’alto in basso: Borgo di Casso (foto Francesca Bassi, 2021); vista sul Borgo di Erto da SR251 (foto Francesca Bassi, 2021); Ricostruzione residenze a Longarone (foto Lorenzo Gaio, 2021).
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le e in via di deserti cazione a seguito delle dinamiche post-Vajont: negli anni ‘60, si è infatti assistito ad un repentino abbandono, verso aree urbane dove era più facile trovare lavoro. Pertanto, il passaggio dalla dimensione rurale, condizionata dalla possibilità di avvalersi delle sole risorse naturali, si modi ca verso una dimensione in cui l’acqua e il suo utilizzo industriale ha portato alla infrastrutturazione per lo sfruttamento delle risorse, al palese disastro conseguente, ai piani di sviluppo e, solo recentemente, alla maturazione di possibili nuove strategie sostenibilità che superino la resilienza e consentano di sperimentare nuovi modelli di trasformazione. Attraverso le differenze di declinazione tra natura e infrastrutture nelle valli si può parlare di modelli “nel passaggio” (e viceversa) dove vi è necessità di valorizzare gli aspetti caratteristici del luogo e della comunità locale. Il Vajont come modello dovrebbe essere preso ad esempio per la possibile valorizzazione degli aspetti cardine dell’infrastruttura viaria, dove i singoli insediamenti potrebbero fare comunità per diventare “antifragili” (Blecic I., Cecchini A. 2016); pertanto non vi è spazio per parlare esclusivamente di limiti amministrativi tra comuni, province e regioni.
Contesto territoriale e storico Approcciarsi, oggi, al territorio del Vajont signi ca inevitabilmente conoscere i fatti del 9 ottobre 1963 quando, in tarda serata, una parte del Monte Toc frana all’interno del lago e la pressione generata sull’acqua, anziché rompere l’imponente diga in cemento armato costruita per ospitare il bacino arti ciale, genera un’onda che la sovrasta, provocando un autentico disastro ambientale. Interessati dall’evento sono in primis gli abitati che costeggiano il lago arti ciale e gli altri borghi della valle, la maggior parte dei quali vengono sommersi dall’acqua, ma i danni maggiori si generano oltre la gola del Vajont, dove Longarone e le frazioni limitrofe vengono distrutte dalla forza dell’onda (Losso, 2013). La ricostruzione, quasi immediata, coinvolge un ampio ambito territoriale che si rami ca lungo tre vallate, quella del Piave, quella Vajont e quella del Cellina, de nite da caratteri paesaggistici unici dove l’acqua è sempre stata fonte di vita prima che di morte. Analisi del territorio: tra ricostruzione e nuovi assetti urbani - L’indagine sulla ri-composizione del territorio prende le mosse dall’epicentro del disastro. I centri abitati di Erto e Casso hanno mantenuto la connotazione di borghi
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antichi nella parte non interessata dal disastro, ma sono rimasti a lungo abbandonati o sottoutilizzati (Fabietti et al., 2013). Una scontta per la comunità che già dalla prima fase di progettazione della Diga è stata obbligata a cedere i propri terreni, a rinunciare a fertili aree di coltivazione e ha dovuto iniziare lo sfollamento per permettere la realizzazione del bacino del Vajont. A Casso oggi vivono poche persone e gli interventi messi in atto per far rivivere il paese sono pochi, comunque sufficienti a rendere comprensibile il desiderio della popolazione locale di ripartire dal patrimonio autoctono: dalla identità delle comunità. Erto si è espansa attraverso la realizzazione di un nucleo abitativo posto ad una quota più alta di quello antico e costruito per sostituirlo. L’intervento di progettazione territoriale è stato messo in atto dal gruppo di tecnici coordinati dal professor Giuseppe Samonà (Fabietti et al., 2013, Pujia, 2020), architetto e urbanista italiano che ha operato anche nella ricostruzione di Longarone, nel quartiere “Nuova Erto” a Ponte nelle Alpi e nella realizzazione dell’assetto cittadino del Comune di Vajont, sorto nel 1971 all’interno dell’ambito amministrativo di Maniago, in un’area agricola. A valle della Diga, sulla sponda destra del ume Piave, è rinata Longarone grazie a una legge speciale, Legge 4 novembre 1963, n. 1457. La morfologia del costruito appartenente a queste terre ha cambiato aspetto: i palazzi signorili sono stati ricostruiti con edi ci a schiera e palazzine condominiali che, a fronte delle notevoli varianti in corso d’opera susseguitesi in fase di ricostruzione, hanno reso il tessuto urbano articolato e frammentato. I piani urbanistici di Samonà, generarono anche la costruzione del quartiere “Nuova Erto” nel bellunese e del Comune di Vajont nel pordenonese. La necessità di realizzare urgentemente delle abitazioni in cui spostare la gente sfollata produsse, però, un’omologazione post-emergenza con la massima sempli cazione degli insediamenti. Nuova Erto, oggi, è inglobata totalmente nell’abitato urbano di Ponte nelle Alpi, mentre Vajont è una cittadina a sé stante, priva di ogni identità tipica dei borghi storici: del comune montano che doveva sostituire, infatti, non ha altro che il nome.
Considerazioni sul territorio e sull’infrastruttura a diverse scale Il territorio del Vajont ha subito un iniziale intervento infrastrutturale durante la Gran-
de Guerra, quando è stata realizzata la prima tratta di collegamento da Longarone a Maniago, oggi modi cata e nota come la Valcellina.
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5 - Chiesa di Michelucci a Longarone (foto Lorenzo Gaio, 2021).
La SADE (Società Adriatica Di Elettricità) ha proceduto alla trasformazione del paesaggio antropico di queste valli, dapprima con l’utilizzazione e sbarramento del torrente Cellina e, successivamente, del Vajont: nel 1954 è stata terminata la costruzione della diga di Barcis, non lontano dalla pianura friulana. Poi c’è stata la nazionalizzazione con l’ENEL, la sciagura e, solo in anni più recenti, lo sfruttamento irriguo con la realizzazione della chiusa di Ravedis, a valle di Andreis. Alla ricostruzione di Longarone hanno fatto seguito le realizzazioni di tre aree industriali, signi cative come riferimento economico per l’intera valle del Piave, che ha così attratto nuova popolazione attraverso la consistente offerta di lavoro, ha permesso la ricostruzione della linea ferroviaria e il potenziamento più signi cativo è stato rappresentato dalla realizzazione del tratto autostradale Vittorio Veneto–Pian di Vedoia (Ponte nella Alpi), portato a termine nel marzo 1973. Discussione: lettura dei territori dal 1963 ad oggi - Le infrastrutture hanno cambiato il paesaggio antropico di queste terre, condensando lavoro e nuova popolazione principalmente nei fondi valle del Bellunese e del Pordenonese. I territori sono stati ripensati in funzione dell’infrastruttura e i simboli culturali, affiancati all’imponenza della diga, si scorgono 112
solo di passaggio, perché le strade SS51 e SR251 sono come “nastri” che tagliano i luoghi - con differenze altimetriche - e quasi li evitano, rendendo il percorso un veloce passaggio nel paesaggio. A Fortogna, nei pressi dell’imbocco autostradale bellunese, vi è uno dei simboli del disastro, sorto dove l’onda ha trasportato la maggior parte dei corpi degli abitanti dei Comuni colpiti, il Cimitero delle Vittime del Vajont, realizzato dagli architetti Gianni Avon, Francesco Tentori e Marco Zanuso tra il 1966 e il 1972, è monumento nazionale dal 2003. Luogo di culto che perde memoria è anche la chiesa di Longarone realizzata dall’architetto Giovanni Michelucci, simbolo controverso dell’architettura moderna perché capace di porre interrogativi ed emozioni contrastanti a seconda di chi la osserva. Percorrendo la strada che porta alla Diga vi è poi un elemento caratteristico della cultura di queste aree montane che solca il conne tra ambito amministrativo e territoriale: il Museo degli Zattieri del Piave a Codissago, spazio dedicato all’importanza dell’acqua e del legname per queste valli, che, provenienti anche dalla forra del Vajont, hanno costituito per secoli l’economia di sussistenza di queste aree montane. La Galleria di Sant’Antonio consente scorci suggestivi sulla gola e la Diga, parzialmente
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visitabile ed essa stessa monumento nazionale; poi, entrando nel territorio friulano, la strada diventa scorrevole evitando quasi tutti i borghi della Valcellina. Lo spopolamento di queste aree non è diverso da quello di altri contesti alpini3 e fragili (Blecic I., Cecchini A. 2016), ma la massiccia infrastrutturazione delle valli che doveva essere catalizzatrice di popolazione e lavoratori, dopo il disastro, è stata causa di un repentino abbandono dei luoghi, in un primo momento obbligato e successivamente necessario, dove la resilienza dipende dai pochi che hanno conosciuto la tragedia. L’interesse per i territori del Vajont attrae oggi turisti principalmente per la risonanza culturale offerta da spettacoli teatrali, cinematogra ci e artistici rievocativi della sciagura, oltre che per la maestosità dell’opera ingegneristica alta 261,60 metri, ma questi luoghi sono alla continua ricerca di uno sviluppo sostenibile, di una nuova identità e di accomunare la memoria del disastro alle peculiarità naturali che de niscono il paesaggio alpino. La strada, intesa in parte come elemento negativo di attraversamento, da altri punti di vista concede l’opportunità di continui e differenti sguardi sul paesaggio alpino che permettono di osservare e leggere le trasformazioni delle valli4. Connettere il territorio signi ca anche rivalutare la conformazione infrastrutturale e la strada si pre gge di valorizzarlo come belvederi e possibili soste tra un borgo e l’altro. La spinta di rinascita e ri-valorizzazione è dettata anche da piccoli elementi puntuali che caratterizzano l’ambito come gli alberghi diffusi (a Casso, Erto, Cellino di Sopra e Barcis), edi ci identitari locali ristrutturati che accolgono sia il turista di passaggio che quello interessato a godere qualche giorno delle bellezze naturalistiche delle valli. Gli interventi di riappropriazione delle terre alte dipendono anche da altri fattori, come la recente realizzazione di una stazione di servizio tra Erto e Casso (altrimenti presenti solo nei fondivalle a Longarone e Barcis). Le valli del Vajont e del Cellina, così come quella del Piave, godono della magni cenza delle proprie montagne e corsi d’acqua. Importante è la recente istituzione del Parco 3 Cfr. Snai FVG, 2015, https://www.regione.fvg.it/ rafvg/cms/RAFVG/economia-imprese/montagna/FOGLIA14/, consultato gennaio 2021. 4 Si consiglia la visione del sito Architetti Arco Alpino, AAA, http://architettiarcoalpino.it, consultato febbraio 2021.
Nazionale delle Dolomiti Friulane, non meno affascinante della diga del Vajont, il cui territorio a sud è de nito dal nastro infrastrutturale. L’ambito alpino del Vajont vuole riappropriarsi della propria identità e catturare l’attenzione della popolazione e del turista anche attraverso l’arte, la cultura del disastro e tramite ciò che offre la natura. Sono infatti stati realizzati nuovi centri culturali a Casso e Erto che accomunano territorio e disastro, valorizzando il contesto nella sua interezza. Non è da trascurare nemmeno la necessità di servizi di prossimità che consentano di godere di standard minimi quali acquistare generi alimentari e altri servizi per la persona (commercio ambulante, servizi a rotazione, farmacie con recapito). L’infrastrutturazione di queste terre ha portato più disastri che bene ci, pertanto sarebbe giusto ribaltare la tendenza.
6 - Galleria di S. Antonio nei pressi della diga del Vajont (foto Francesca Bassi, 2021).
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Passaggi: Cultura, identità e paesaggio Il passaggio tra le realtà alpine esistenti risulta la chiave d’accesso alla comprensione del territorio. Memoria, cultura e identità non possono essere considerate come entità separate e statiche (Lenzini 2017; Coppola Pignatelli 1997), ma in continua evoluzione e accrescimento e quindi parti integranti del paesaggio/passaggio. In questo testo si considera l’unicità identitaria di un luogo e delle persone che lo abitano come punto de nito all’interno di un insieme di moltitudini che hanno dignità di essere riconosciute e valorizzate. La strada, quasi come un “nastro”, de nisce un percorso che tocca tangenzialmente tutti i borghi. L’aspetto critico è che la strada non è un percorso preferenziale in quanto, per motivazioni commerciali e di trasporto, è preferita la SS51 e l’A27 con uscita diretta sulla zona industriale di Longarone, servita anche da una strada ferrata, elemento non presente nelle valli friulane considerate (tranne Maniago). L’altro aspetto critico è che la strada in questione, non attraversando i paesi, ma accostandoli, ne decreta la loro mancata fruizione; questo aspetto potrebbe essere facilmente superabile attraverso la disseminazione di servizi minimi per gli automobilisti e i turisti, sul percorso in discussione, o attraverso segnaletiche di orientamento. Pertanto il paesaggio è di (rapido) passaggio e ciò non permette la sua fruizione “lenta”. Come anticipato, la rilocalizzazione degli agglomerati urbani post disastro è avvenuto repentinamente, omologando e dislocando alcuni borghi (Nuova Erto e Vajont - par. 1.2). Questo tipo di azione piani catoria può essere considerato come dislocazione, che avviene in situazione non emergenziali come trasferimento da un luogo all’altro per raggiungere una migliore qualità della vita (servizi) ed è tendenzialmente un processo lento; quando esso si presenta in situazioni post-disastro, può portare con se diverse criticità: le più evidenti sono sicuramente come nel caso della nuova Vajont - la deserti cazione e l’allontanamento dall’identità culturale alpina che caratterizzava gli insediamenti originari. Goetz (2018) ricorda che i principi della dislocazione si manifestano sui margini territoriali, come un intervallo tra gli stessi. Sfortunatamente dislocazioni come quella di Vajont portano alla luce le disgiunzioni
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del paesaggio, sia esso culturale che territoriale, staccandosi completamente dalle dinamiche socio-urbane primigenie e trasformandone il linguaggio (shock); sono mosse giusti cate da urgenze insediative che travalicano i complessi equilibri insediativi dei borghi storici. Pertanto, se dovesse risultare nuovamente necessario procedere, nel futuro, con ulteriori dislocazioni, sarebbe opportuno che il piani catore-progettista tenesse in considerazione il territorio come un uniucum e intervenisse con strategie che non spostino solamente un agglomerato urbano da un punto all’altro per motivi di pubblico interesse, ma che rimettano in connessione il “nuovo” borgo con quello vecchio. Strategie sistemiche sono essenziali per permettere ad un territorio speci co - in questo caso alpino - di non dimenticare le proprie origini e di ricollegarsi con il paesaggio. Le nuove localizzazioni sono paesi che hanno cambiato la loro origine geogra ca ma mantengono quella culturale (cfr. nomadismo); in localizzazioni a breve distanza questo è più comune, mentre in quelle a “lungo raggio” si rischia, generazione dopo generazione, di perdere l’identità originaria (la contaminazione con nuove identità è un processo virtuoso). È possibile, grazie alla riquali cazione dell’asse infrastrutturale di comunicazione (SR251) e al riconoscimento delle differenze delle nuove strutture urbane, integrare i percorsi con i servizi necessari, rallentando la deserticazione dei territori fragili (Blecic I., Cecchini A. 2016). Creare nuove “situazioni” e legare i nuovi luoghi porterebbe alla de nizione di innovative relazioni tra componenti tra di loro connesse (a rete, a maglia e/o a satellite), che mantengano le speci cità di ognuno, ma condividano la loro cultura e identità in continua evoluzione (Coppola Pignatelli 1997).
Conclusioni: scenari alternativi Tra le possibili soluzioni si possono considerare tutte quelle pratiche che mettono in testa le esigenze della popolazione e la loro storia. Declinando nuovamente la parola passaggio attraverso l’esempli cazione della strada, si evince che quest’ultima “avvicina alle vette” e pertanto, oggi, diventa un asse di supporto al Parco delle Dolomiti Friulane; quest’ultimo è un’entità riconosciuta e la diga del Vajont ne è uno dei punti cardine, un landmark, antropizzato, nel paesaggio montano; così la strada ricongiunge il “passante”, semplice viaggiatore o abitante, alla natura de nita
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dagli ambiti territoriali amministrativi e ne declina gli itinerari nel paesaggio alpino. Considerando l’Agenda 2030 (2016), per le aree prese in considerazione, a livello sperimentale, si dovrebbe ripensare il paesaggio in termini sostenibili, accessibili e di resilienza attraverso metodologie di riconnessione (insiemi e sottoinsiemi tra i borghi), rurali, e viabilistiche di supporto anche al ciclismo e al suo trasporto dove le infrastrutture per la viabilità lenta si sovrappongano o si affianchino a quella veloce, dando maggior valore all’asse già presente e ri-polarizzando i borghi presenti sul percorso5; considerando tempi molto lunghi (opposti ai tempi brevi del disastro), si possono usare le risorse già presenti per attivare trasformazioni guidate a diverse scale e con diversi ni, tra loro coerenti. Pertanto recuperare i paradigmi dell’abitare antico e la cultura insita tra le pieghe identitarie di questi luoghi de niti è certamente un punto di partenza verso una sperimentazione più ampia, che parte dalla storia e ricollega sistematicamente tutte le caratteristiche presenti, mettendo a sistema i caratteri topogra ci, naturali, sociali, culturali e di infrastrutturazione, in modo sostenibile. Questo signi ca che operare nella valle del disastro Vajont richiede un’elevata attenzione a tutte le sfumature e a tutti gli elementi già presenti dove, per raggiungere obiettivi di ripopolamento, sono necessari tempi molto lunghi. Si dovrebbe passare da una forza centrifuga (cfr. post Vajont) ad una centripeta, riattivando l’interesse “di vita” in queste zone in modo da consentire la presenza di giovani generazioni o possibili trasferimenti di nuovi abitanti di rientro, ma non solo, non più solo una via di “passaggio”. La strada, che è un elemento critico, può diventare l’elemento positivo, che può attivare l’inversione di tendenza riconosciuta in tutte le aree marginali (cfr. Snai 2018, FVG). Il nastro stradale non può operare da solo e non può avere tutta la “responsabilità” di riattivazione dei borghi ad esso limitro ; infatti bisogna considerare l’inclusività degli insediamenti declinando i principi già attivati nei tessuti urbani più grandi verso frammenti territoriali marginali, da ricucire e ritessere verso un unicum culturale e insediativo più ampio.
Bibliogra a Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (2016), https:// unric.org/it/agenda-2030/, ONU. Blecic I., Cecchini A. (2016) Verso una piani cazione antifragile: Come pensare al futuro senza prevederlo, Kindle Edition, Franco Angeli, Milano. Chinellato F., Petriccione L. (2019), Vie d’acqua e ambiente costruito. Le prime centrali idroelettriche in Friuli Venezia Giulia, Forum Edizioni, Udine. Coppola Pignatelli P. (1997), L’identità come processo: cultura spaziale e progetto di architettura, Officina, Roma. Goetz B. (2018), La dislocation : Architecture et philosophie, Verdier, Paris. Evangelisti F., Orlandi P., Piccinini M. (a cura di) (2011), Disegnare la città. Urbanistica e architettura in Italia nel Novecento: appunti da un ciclo di conferenze, SATE industria gra ca, Ferrara. Fabietti V., Giannino C., Sepe M. (a cura di) (2013), La ricostruzione dopo una catastrofe: da spazio in attesa a spazio pubblico, INU edizioni. Ligi G. (2009), Antropologia dei disastri, Laterza, Roma-Bari.
Legge 4 novembre 1963, n. 1457, Provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963., https://www.gazzettaufficiale.it/eli/ id/1963/11/09/063U1457/sg, consultato febbraio 2021. Lenzini F. (2017), Riti Urbani. Spazi di rappresentazione sociale, Quodlibet, Macerata. Losso A. (a cura di) (2013), “Vajont 50° Anniversary”, http://www.vajont.net, consultato febbraio 2021. Ionico M. (a cura di) (2019) “Organizzare la mobilità e i servizi di trasporto nelle aree interne e di montagna”, in TP Trasporti Pubblici, STR PRESS Srl, Pomezia, marzo/ aprile. Pujia L. (a cura di) (2020), Rileggere Samonà, Edizioni Roma TrE-Press, Roma. Winterle A. et. al. (2018), Alpi Architettura e Paesaggio, Ri essioni sulla trasformazione del paesaggio, http://architettiarcoalpino.it/alpi-architettura-paesaggio, consultato gennaio 2021. Winterle A. (2020), “Leggere le Alpi”, Turris Babel, Rivista della Fondazione Architettura Alto Adige, n. 118, Bolzano.
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5 Confronta con F.U.C., Turismo FVG, https://www.turismofvg.it/bici-treno-f-u-c , consultato gennaio 2021.
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Le strade degli itinerari culturali, una ricerca in territorio sardo di Marco Cadinu e Stefano Mais
I nostri paesaggi sono solcati da una tta maglia di percorsi, alcuni testimoni di antichi itinerari. Il recupero di queste linee permette di riconoscere alternative percorrenze tra la città e la sua forma territoriale storica. In Sardegna antiche strade medievali e moderne, così come i percorsi dell’acqua, possono fornire alle comunità locali nuovi e inaspettati “monumenti”.
Le strade, reti della geogra a sica e culturale del paesaggio Le strade sono l’architettura fondante delle città e dei territori, linee il cui disegno è segnale di appartenenza e controllo, relazione tra le comunità, quindi espressione della volontà tecnica di un determinato periodo storico. In effetti le strade, benché spesso tracciate attraverso i passaggi obbligati indicati dalla natura dei luoghi, come passi montani o guadi, sono state nella storia il frutto di impegnative proposte progettuali. I progettisti di strade hanno proposto nella storia ai loro governanti nuove linee, talvolta impegnative e ardite tanto da s dare le capacità tecniche disponibili. I loro progetti, perseguiti con fermezza, hanno dotato i territori di nuovi vettori commerciali su cui incardinare attività produttive o nuove fondazioni urbane, dando quindi lustro e magni cenza al governo che li aveva promossi. In altri casi le strade sono state un atto politico, decise su nuove linee attraverso cui due comunità limitrofe hanno pattuito un nuovo tracciato di incontro e ne hanno condiviso gli oneri (Cadinu, 2012). Le strade hanno quindi origine per i motivi più diversi e, se il loro successo si radica nel tempo, intrecciano lungo il loro percorso ulteriori elementi infrastrutturali, arricchiti da altri signi cati e usi. Lungo di esse si sono riconosciuti i con ni statali e istituzionali, si sono costruiti ostelli, stazioni di posta, case
The paths of cultural itineraries, research in the territory of Sardinia
by Marco Cadinu and Stefano
Mais
Our landscapes are crossed by a dense network of paths, some of which are traces of original itineraries, now in ruins: routes travelled for work, trade, pilgrimage or transhumance have structured the physical and cultural geography over the centuries. The populations of the past moved within these networks, linking the needs of their time with a profound aesthetic sense. Restoring these lines, based on historical material evidence, will make it possible to recognize lines of identity and to reconnect alternative routes, short or long, between the city and the historical form of its territory. In Sardinia, the ancient medieval streets, the nineteenth-century thoroughfares and the waterways are joining more consolidated religious itineraries, to provide local communities with new and unexpected “monuments”.
Nella pagina a anco, in alto a sinistra: planimetria degli itinerari delle architetture dell’acqua in Sardegna, recentemente realizzati all’interno della ricerca di base “Architettura, arte e luoghi urbani degli acquedotti storici, delle fonti e delle fontane nei paesi e nelle città della Sardegna tra medioevo e modernità”. Gli itinerari sono fruibili gratuitamente sul sito www.fontanedisardegna.eu. In alto a destra: originario tracciato dell’ottocentesca Strada Reale Carlo Felice tra Bonorva e Giave (Sassari), oggi declassato ad arteria della viabilità rurale e possibile segmento di rinnovati itinerari paesaggistici (foto Stefano Mais); abbeveratoio nelle campagne di Nurri (Cagliari) nei pressi della Strada Statale 128 (foto Stefano Ferrando). In basso: fontana Su Cantaru nel centro storico di Paulilatino (foto Stefano Ferrando).
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cantoniere e altre architetture tese al controllo del territorio. Sono guidate da questa strategia, ad esempio, alcune fondazioni medievali di nuovi borghi e la generale organizzazione del contado (Guidoni, 1970). Le strade, quale esito di importanti impegni economici e politici, sono rese “belle” e arricchite di signi cati estetici che vanno oltre il mero aspetto funzionale. Rientrano in questo quadro le grandi strade alberate, sinuose o rettilinee, medievali o moderne, disegnate nelle città o nei territori, il cui percorso – e quindi il paesaggio – è sottolineato da un segno forte e di grande fascino, ancora oggi riconosciuto (Piazza, 1997)1 . Tra tutte le strade nuove molte hanno avuto successo tanto da determinare le geogra e al contorno e da renderle stabili e immodicate nel tempo, come ad esempio la via Emilia; in altri casi, attorno al primo tracciato, miglioramenti tecnici o tensioni politiche hanno portato a ritracciare e deviare la linea dei percorsi, determinando nuovi ussi commerciali, disegnando vie di pellegrinaggio, di strategia militare, e portando quindi all’abbandono di città e alla nascita di nuovi centri, come nei differenti tratti pontini o campani della via Appia lungo i secoli. Le grandi strade territoriali del passato, simboli di forza tecnica e di successo politico, hanno avuto sempre nel tempo una grande in uenza nell’immaginario dei progettisti, anche su quelli più vicini ai nostri tempi. Ancora no a tutto l’Ottocento, le strade consolari e imperiali romane sono state un costante punto di riferimento nei grandi progetti infrastrutturali. Più di recente è emerso il riconoscimento del tempo medievale, epoca di strade nuove e di “tagliatori di via”, maestri di strade, programmatori di ridisegni territoriali (Cadinu, 2012). La complessità della rete viaria territoriale, giunta alle soglie dell’età moderna, è quindi il prodotto di un lungo processo avviato in antichità e ristrutturato in molteplici occasioni lungo il medioevo e l’età moderna. L’articolazione dei percorsi, lungo città e borghi, verso campagne e luoghi del lavoro, è ben percepibile attraverso le carte topogra che del tempo sette-ottocentesco che illustrano il capillare reticolo di sentieri e vie minori tra le mete e le arterie principali. A questi processi storici infrastrutturali di lunga durata si è sovrapposta – in tempi relativamente rapidi – la costruzione di ferrovie, strade 1 Si vedano, più in generale, i contribuiti presenti in “Le strade alberate”, Storia dell’Urbanistica, 2/1996, 1997.
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nuove carrabili e autostrade, accompagnate da molte successive derivazioni ridisegnate secondo le logiche della moderna viabilità. La mancata piani cazione delle relazioni tra le nuove reti e il reticolo delle strade storiche ha generato modi che radicali nelle reti dei percorsi rurali, molti di essi antichi di secoli, anche su lunghe percorrenze, e usuali percorsi delle comunità insediate. Intercettate dalle grandi infrastrutture, private di ponti o di passaggi a livello, le strade antiche hanno perso le funzioni e continuità; in alcuni casi dai loro tracciati si sono generate nuove e insensate varianti necessarie a superare i grandi tagli territoriali moderni, con la perdita però in genere della logica e della convenienza iniziale. Ecco che il nostro territorio si presenta ricco di vie interrotte, di linee parallele o divergenti ormai prive di connessione con le originarie mete, comunque reinterpretabili quale tta maglia di percorsi alternativi, ancora riconoscibili per via dei loro connotati di itinerari allo stato di rudere2. Con alcuni gesti di risarcimento, in genere costituiti da ponti ciclo-pedonali in grado di superate le moderne cesure, possiamo recuperare vie del lavoro, del pellegrinaggio o della transumanza quale conveniente rete itineraria dotata di forti connotati culturali, ricca di memorie strati cate nei secoli, di testimonianze delle genti del passato e dell’identità dei luoghi. La progressiva frammentazione e obliterazione dei vecchi itinerari, cancellati da miopi logiche di interpretazione e disegno della città e del territorio, è da tempo sentita come una perdita culturale che è opportuno risarcire. La volontà di recuperarne parti che spesso rappresentano ancora la memoria delle comunità, quindi il cardine culturale della loro posizione geogra ca e storica, si unisce ora alle opportunità di recupero o ridisegno. Si tratta di un processo che dovrebbe evitare la semplice opportunità turistica per cogliere, insieme a questa, logiche di rivitalizzazione delle componenti paesaggistiche, sociali e economiche locali. La generalizzata tendenza alla costruzione di strade intese come “cammini”, cui conferire nuovi signi cati – spesso incardinati sulle religioni o su scenari di tempo antico – è da valutarsi positivamente sebbene sia oggi necessario indirizzarne obiettivi e risorse alla luce di più ampie letture territoriali. Davanti alla proliferazione di questo tipo di progettualità è sorta l’esigenza di fare ordine, tanto che nel 2016 è stato istituito il registro dei 2 Sui ruderei stradali vedi Cadinu, 2015, p. 893.
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Cammini d’Italia, ad oggi 53 in tutto il territorio nazionale per 25.964 chilometri totali, dispiegati in 1.453 comuni (Agnoletto, Piraccini, 2020). L’iniziativa, realizzata nell’Anno dei Cammini d’Italia, ha cercato di mettere a sistema azioni di istituzionalizzazione degli itinerari già sorte a livello regionale, come il Registro dei Cammini di Sardegna e degli Itinerari turistici religiosi dello spirito” in vigore dal 2012 3. È quindi necessaria una ri essione critica profonda per de nire quali, tra i tanti itinerari possibili, siano quelli che effettivamente attivino un corretto processo di ricostruzione dei signi cati e delle relazioni tra i luoghi, siano in grado di svolgere i loro tracciati in conformità con le caratteristiche che considerano il “camminante” quale prioritario utente, in un aggiornato quadro di lettura. Progettisti dalle speci che competenze in architettura del paesaggio, storici della topogra a e dei processi formativi dei luoghi, possono essere la guida delle migliori progettazioni future, in collaborazione con tutti gli specialisti di settore.
Gli itinerari culturali e la de nizione del patrimonio monumentale locale Gli itinerari tracciati nel perseguire effimere opportunità possono essere in niti. Quelli culturali non lo sono in quanto necessariamente legati al recupero di linee identitarie, riconosciute e riannodate per costruire una rete alternativa di percorrenze brevi o lunghi tra la città e i luoghi della sua forma territoriale storica. Sono itinerari basati sulla riscoperta delle progettualità del passato che tendono ad alimentare quelle odierne secondo una rinnovata base storico-culturale. Si differenziano dagli altri perché invitano le comunità a chiedersi che relazione ci sia tra esse e i propri beni culturali. Non tutti gli itinerari hanno infatti caratteristiche emotive ed empatiche tali da creare un valore identitario che aiuti effettivamente a riscoprire le qualità dei paesaggi e degli ambienti. La loro strutturazione deriva da un’accurata e articolata lettura storica delle 3 Il Registro dei Cammini di Sardegna e degli Itinerari turistici religiosi dello spirito (Deliberazione della Giunta Regionale n. 48/9 del 2012) prevede attualmente i cammini di San Giorgio primo Vescovo dell’Ecclesia Barbariensis, Santa Barbara di Nicomedìa patrona dei minatori, San Giacomo (Santu Jacu) apostolo, Sant’Esio martire, Nostra Signora di Bonaria e il Percorso Francescano della Sardegna
vicende culturali, capace di andare oltre uno sguardo epidermico e tesa alla valutazione dell’effettiva eredità del passato; elementi spesso celati da assetti alternativi della conformazione storica, del tutto o in parte derivante da mutamenti recenti. La ricostruzione storica degli itinerari è comunque possibile e, fondata su analisi e studio degli elementi materiali in relazione alla documentazione d’archivio e alla cartogra a storica, ha la possibilità di disvelare l’articolato impianto delle città e del territorio. Su tali presupposti i recenti itinerari reinterpretano le forme di percezione dei segni materiali e di conseguenza propongono inedite e pregnanti modalità di racconto dei valori disseminati nei luoghi. Osservazione e lettura della città e del territorio sono i pilastri per la riattivazione di efficaci itinerari culturali. Questi strumenti, consolidati nella letteratura, mettono in relazione l’oggetto architettonico e il suo contesto alle scale più diverse identi cando il usso dei processi di trasformazione ed evoluzione (Terranova, 1984). Storia e tradizioni dei luoghi, messa in valore della realtà materiale locale quale prodotto della società nel tempo, diventano strumenti di base nella progettazione, nella scelta dei materiali e nella costruzione di una dimensione gra ca unitaria di architetture e infrastrutture che sostanziano i percorsi, gli itinerari e in de nitiva il “viaggio”, inteso come racconto. Ancor più che le grandi azioni monumentali, le “piccole” attività di progetto e ricostruzione delle strati cate realtà locali – basate ad esempio sull’interpretazione delle tradizioni produttive, sui valori trasmessi da racconti o credenze, su quelli simbolici depositati in determinati distretti geogra ci – veicolano la profondità delle azioni materiali, il cui carattere è tutt’altro che circoscritto nel con ne locale ma assume una connotazione identitaria di più ampia valenza (Guidoni, 1980). D’altra parte l’identità culturale italiana si può a buona ragione individuare come risultato del complessivo patrimonio dei tanti “piccoli comuni” (così oggi de niti sotto i 5.000 abitanti) che rappresentano il 69,5% del totale dei comuni italiani. Una costellazione ampia e diffusa che custodisce il 31,1% dei luoghi di cultura di proprietà dello Stato (Agnoletto, Piraccini, 2020). In essi si conserva spesso la genuinità del tessuto urbano di fondazione e un ricco deposito storico-artistico. Itinerari dell’acqua - Tra gli itinerari recentemente progettati, quelli legati alle architetture storiche dell’acqua si sono rivelati molto
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utili nel rendere evidente un patrimonio comune e diffuso – sebbene spesso sottostimato – inteso nel tempo come generatore di spazio quali cante e verso cui le comunità hanno avuto tradizionalmente un approccio ricco di legami dallo sfondo identitario o emozionale (Cadinu, 2015a, pp. 37-125). I percorsi di questa caratura, disegnati recentemente in Sardegna, sono esito del progetto della ricerca di base “Architettura, arte e luoghi urbani degli acquedotti storici, delle fonti e delle fontane nei paesi e nelle città della Sardegna tra medioevo e modernità. Metodi di analisi e riconoscimento dei signi cati culturali e simbolici, in relazione con i processi di tutela e programmazione della città e del territorio storico. Costruzione di itinerari tematici e di nuovi programmi di formazione sulla risorsa acqua” 4. Da questo studio è emersa una complessa dimensione territoriale dei manufatti legati all’uso dell’acqua che storicamente ha innervato il territorio costituendone talvolta il fondamentale principio organizzativo. Lungo queste e altre linee sono stati progettati itinerari di scoperta di singole architetture dell’acqua nell’intera isola: fontane, lavatoi, abbeveratoi e altre architetture, messe in relazione tra loro e con altri beni identitari. Il racconto della loro vicenda formativa è stato l’occasione per la formazione di un progetto rivolto sia al mondo accademico sia, più in generale, alle comunità locali 5. I luoghi dell’acqua, per lunga tradizione legati tra loro da reti antichissime di percorsi, sono alla base dell’esposizione didattica dei luoghi; la loro nuova riconoscibilità da parte delle popolazioni avviene attraverso itinerari radicati nelle storie delle comunità e narrazioni legate alle forme monumentali o arcaiche delle loro architetture. I luoghi dell’acqua, e in particolare le fontane, sono stati anche al centro dal lm documentario intitolato Funtaneris. Sulle strade dell’acqua (regia di Massimo Gasole, 2019, 68’). Nato come prodotto di divulgazione della ricerca universitaria, il documentario racconta il 4 La ricerca è stata nanziata dalla Legge della Regione Sardegna n. 7 del 7 agosto 2007, Promozione della ricerca scienti ca e dell’innovazione tecnologica in Sardegna, annualità 2010, ed è stata coordinata dal Prof. Marco Cadinu, Università di Cagliari. Il progetto, durato alcuni anni, ha visto una larga partecipazione di docenti, ricercatori e studiosi anche di altre università italiane, tra cui l’Università di Sassari, il Politecnico di Torino e l’Università della Tuscia (Cadinu, 2015). 5 Gli itinerari, nonché gli esiti più generali dell’intera ricerca, sono stati diffusi mediante la divulgazione accademica e popolare gratuita di libri, una mostra, un sito internet e una App. Cfr. Cadinu, Mais, 2020.
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viaggio di due architetti e un fotografo su insoliti itinerari con cui vengono riscoperti i valori e il senso culturale delle architetture dell’acqua: piccoli e grandi oggetti preziosi di pietra, calce e acqua, simboli di legami tra progresso, potere e civiltà si susseguono lungo tutta la narrazione lmica. Il viaggio, che si svolge sulle note di una colonna sonora blues, assume i toni di una ricerca sul campo con cammei in cui i cittadini – spesso anziani custodi delle storie e tradizioni locali – diventano casuali testimoni incontrati sul territorio6 . Ampi itinerari regionali si alternano a percorsi di dimensione urbana, come quello che si dipana nel capoluogo sardo, dove un cammino che ha origine dalla sorgente della Fossa di San Guglielmo mette in evidenza una densa geogra a di storiche monumentalità religiose, talvolta legate all’utilizzo rituale dell’acqua (Cadinu 2020, p. 59). Strade antiche - Se da un lato le linee dell’acqua e delle connessioni tra le architetture hanno supportato la costruzione di inediti itinerari tra città e campagna, dall’altra linee di percorrenza consolidate nel paesaggio hanno sostenuto il disegno di tracciati di godimento paesaggistico in una dimensione territoriale ugualmente ampia. La riattivazione delle strade storiche e degli antichi percorsi si propone in questo quadro di azione quale occasione di ricongiunzione di luoghi rilevanti, disegnando una secondaria rete autonoma e separata da quella dedicata alla viabilità contemporanea. Porzioni delle antiche strade, incredibilmente conservate tra le linee moderne, giungono a noi come supporti vocati ad accogliere rotte di scoperta della trasformazione e permanenza dei caratteri dei territori. Tra queste strade storiche, o loro brani, risaltano i segmenti abbandonati o sottoutilizzati della Strada Reale Carlo Felice, progettata nel 1821 da Giovanni Antonio Carbonazzi che, reinterpretando antiche percorrenze, disegnò una rinnovata percorrenza tra Cagliari e Porto Torres (Mais, 2020, pp. 185-257). Una linea di oltre 200 km che attraversava longitudinalmente l’intera isola, la cui traccia originale si trova spesso al lato dell’odierno tragitto viabilistico. La sua reinterpretazione 6 Il lm-documentario è stato proiettato gratuitamente in pubblico in oltre 50 iniziative, tra cui il Salone Internazionale del Libro di Torino 2019, università italiane e europee, e altre iniziative locali, a vantaggio di migliaia spettatori e studenti. Il lm è visibile gratuitamente su https://www.fontanedisardegna.eu/ il-documentario/. Una recensione del lm è offerta in Randaccio, 2019.
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in chiave di bene paesaggistico apre interessanti prospettive culturali tese alla creazione di vie di riscoperta del territorio lontano dalle mete tradizionali e lungo arterie su cui si son sviluppati borghi e tradizionali attività regionali (Mais, 2017). Queste e altre vie di collegamento proposte nell’età moderna – tra cui si evidenzia anche il cammino progettato da Giuseppe Moja per il collegamento di Cagliari con il porto di Palau passando per Nuoro – si propongono oggi come spina dorsale per un ridisegno generale della geogra a culturale sarda. Strade ancora più antiche, spesso obliterate da espansioni urbane prive di relazione con i paesaggi storici, potrebbero invece costituire il supporto per cammini e tragitti che dai centri urbani maggiori si dispiegano verso i paesaggi extraurbani e verso le limitrofe aree rurali tra costa e entroterra. Vanno in questa direzione gli itinerari individuati tra Cagliari, Santa Maria di Sibiola, Sant’E sio di Nora e altre monumentalità del sud Sardegna, frutto di recente attenzione documentaria e cartogra ca (Cadinu, 2015b). Il disegno culturale sotteso a tali processi di studio e recupero mira prioritariamente alla de nizione di strumenti di analisi della documentazione storica e delle geogra e proprie delle epoche in cui le architetture – strade o fontane in questo caso – partecipavano in modo unitario a de nire la storia dell’insediamento. Quale secondario ne, non minore in termini di importanza, simili recuperi mirano a coinvolgere le comunità insediate in percorsi di riconoscimento dei loro beni, spesso svalutati in quanto esterni ai circuiti di maggiore richiamo culturale. La loro ricchezza si ampli ca nel momento in cui alcuni li di lettura vengono riconnessi, quando cioè si riconsiderano funzioni antiche – quale il camminare nel paesaggio o l’adoperare l’acqua come valore della tradizione – nella loro proporzione e funzionalità; quando, in de nitiva, racconti e signi cati che sembravano perduti riprendono a scorrere donando nuovi e inaspettati “monumenti” alle comunità che li possiedono. © Riproduzione riservata
Nota - Il presente contributo è frutto della ricerca condivisa dai due autori. Il paragrafo Le strade, reti della geogra a sica e culturale del paesaggio è curato da Marco Cadinu, il paragrafo Gli itinerari culturali e la de nizione del patrimonio monumentale locale da Stefano Mais. Le illustrazioni e l’Abstract e sono esito della ricerca comune.
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Infrastrutture sostenibili e partecipazione di Federica Bosello
“Serit arbores, quae alteri saeclo prosint”, ossia: “pianta alberi, che gioveranno in un altro tempo”. Questo noto motto latino1 potrebbe essere il giusto punto di vista da adottare nel piani care le infrastrutture. È evidente l’analogia tra l’ampio arco di tempo che intercorre tra la piantumazione di un albero e il momento in cui potrà ergersi in tutta la sua altezza e rigogliosità e la lunga gestazione che porta alla realizzazione nale delle opere infrastrutturali, di molto successiva alla posa della prima pietra. Come per le “piante perenni”, le infrastrutture, una volta “piantate”, alterano l’ambiente in modo pressoché permanente e gli impatti delle stesse – bene ci o meno – vanno ad incidere su assetti territoriali e comunità futuri. Data la mole di capitali pubblici e privati che implicano e il carattere di irreversibilità c’è da chiedersi quali siano i requisiti che dovrebbero garantire, per essere certi che vadano a vivi care un territorio come fossero “alberi” che si integrano nell’habitat, non tanto attuale quanto futuro, in cui hanno messo radici. Una prima risposta ci viene fornita dall’Agenda 2030 dell’ONU per lo sviluppo sostenibile2 che dal 2015 è diventata la bussola delle politiche di sviluppo di 193 Paesi e che riserva uno dei suoi 17 Obiettivi - il numero 9 - alla costruzione di infrastrutture capaci di supportare lo sviluppo economico e al contempo quello dell’essere umano attraverso opere di qualità, affidabili, inclusive, sicure e soprattutto sostenibili. 1 Motto tratto dal capitolo ventiquattresimo del “Cato Maior de senectute”, opera loso ca scritta nel 44 a.C. da Marco Tullio Cicerone poco prima della sua morte. 2 L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità, sottoscritto il 25 settembre 2015 dai Governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU. È costituita da 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs – inquadrati all’interno di un programma d’azione più vasto costituito da 169 target o traguardi, ad essi associati, da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale entro il 2030.
Sustainable infrastructure and participation by Federica Bosello
To the extent that infrastructure affects a territory from an economic, social and cultural point of view, in measuring its effective sustainability, one of the reference criteria is the participation of the various stakeholders during the planning phase, when all the alternatives are still possible. This approach fosters a “dialogue of values” between different interpretations of both the infrastructure and the territory by the various actors involved, in an attempt to achieve a balance between different visions and needs to reach a nal decision on the project and, at the same time, on its sustainability. To achieve this result, it is necessary for citizens, stakeholders, experts and administrators to share the conviction and mutual acknowledgment that they are striving for a common purpose: the construction of a new territorial concept, achieved by sharing and enhancing different skills without hierarchical constraints.
Nella pagina a anco, in alto: il gap temporale tra la fase di piani cazione, quella di realizzazione dell’infrastruttura e quella di realizzazione dei risultati che essa persegue riduce la nestra di opportunità che i Governi hanno a disposizione per guidare la transizione a economie carbon neutral e concentrare gli investimenti pubblici in progetti sostenibili (fonte: Multilateral Development Bank Infrastructure Cooperation Platform, “A Common Set of Aligned Sustainable Infrastructure Indicators”, settembre 2020). In basso: lo “stakeholder engagement” è uno degli indicatori di sostenibilità di un’infrastruttura (fonte: Multilateral Development Bank Infrastructure Cooperation Platform, “A Common Set of Aligned Sustainable Infrastructure Indicators”, settembre 2020).
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1 - Come per le “piante perenni”, le infrastrutture, una volta “piantate”, alterano l’ambiente in modo pressoché permanente e gli impatti delle stesse – bene ci o meno – vanno ad incidere su assetti territoriali e comunità futuri (fonte: foto di Marguy Wennmacher da Pixabay).
Quest’ultimo requisito non si realizza solo nel rispetto di determinati parametri economici e di tutela dell’ambiente, ma si declina in modi differenti e comprende anche gli aspetti sociali e culturali3, per fare degli esempi: il rispetto dei diritti umani in fase di costruzione, la tutela degli interessi della collettività, la creazione di impatto positivo sugli stili di vita degli abitanti di un territorio. Solo nel rispetto di tali caratteristiche, dunque, gli investimenti infrastrutturali – reti per le connessioni materiali e immateriali, impianti per l’irrigazione per la produzione e distribuzione di energia, ecc. – contribuiranno al benessere delle comunità in molti Paesi, favoriranno la crescita della produttività e dei redditi, così come miglioreranno i risultati nella sanità e nell’istruzione. Una conferma forte del consolidamento di questo cambio di prospettiva a livello mondiale viene dal mondo della nanza internazionale. Come si chiarisce nell’ultimo Rapporto della “Multilateral Development Bank Infrastructure Cooperation Platform”, pubblicato lo scorso anno e quindi a distanza di un lustro esatto dall’Agenda 2030, le infrastrutture non sono più considerate leve di progresso tout court, ma piuttosto strumento fondamentale per “[…] trasformare il modo con cui gli sviluppatori di progetti pubblici e privati piani cano, forniscono, nanziano e gestiscono opere che devono soddisfare tutti i criteri di sostenibilità - sociale, ambientale, istituzionale ed economico- nanziario – per tutto il ciclo di vita degli asset4”. 3 La dimensione culturale dello sviluppo sostenibile è stata aggiunta a quelle economica, sociale e ambientale derivanti dal rapporto Brundtland (1987) dalla “Dichiarazione Universale sulla diversità culturale” dell’UNESCO del 2001, artt. 1 e 3. 4 Il report “MDB Infrastructure Cooperation Platform: A Common Set of Aligned Sustainable Infrastructure Indica-
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Gli autori del Rapporto riconoscono che è urgente chiarire, rendere uniformi e universali i parametri che de niscono un’infrastruttura come sostenibile e come tale quindi anche l’investimento nella stessa. Si aggiunge che l’urgenza di esplicitare in indicatori univoci la de nizione di “infrastruttura sostenibile” è resa ancora più pressante dall’avvento della pandemia e della recessione economica che, mettendo a dura prova le casse dei Governi, rende indispensabile l’intervento degli investitori privati cui è essenziale poter fornire riferimenti certi, misurabili, universalmente riconosciuti a garanzia di uno sviluppo infrastrutturale inclusivo e resiliente e di una ripresa economica a basse emissioni. Tra l’altro, tenendo conto dei tempi lunghi di realizzazione di tali opere, di cui si è già detto, è evidente che la nestra temporale di intervento in questo campo è veramente stretta a fronte della signi cativa capacità di condizionare lo sviluppo di un territorio detenuta dalle infrastrutture. Ne risulta l’individuazione di 16 indicatori, posti in connessione con gli SDGs, cui possono fare riferimento gli attori pubblici e privati incorporandoli e monitorandoli in tutte le varie fasi del ciclo di vita dell’opera infrastrutturale. Posto che la dimensione sociale e quella ambientale catturano insieme 12 indicatori su 16, di particolare interesse ai ni dell’integrazione dell’opera nel contesto territoriale risulta l’indicatore numero 8: Stakeholder engagement. Secondo il Report i progetti infrastrutturali - per poter risultare sostenibili - devono identi care e ingaggiare ex ante stakeholder e comunità coinvolte per comprendere pienamente i loro bisogni e incorporarli nel progetto. Ciò signi ca consentire a tutte le parti interessate di essere incluse nella fase di piani cazione quando tutte le alternative progettuali sono ancora possibili, fornendo così un peso reale agli stakeholder. Il rispetto di tale indicatore consente poi di raggiungere speci ci target di cinque dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile5 con ciò rivetors” è stato pubblicato nel 2020 a cura dell’Inter-American Development Bank Group in collaborazione con European Bank for Reconstruction and Development, World Bank, International Financial Corporation, Asian Development Bank, New Development Bank, European Investment Bank, Islamic Development Bank e African Development Bank. 5 Si tratta dell’SDG 5: Parità di genere, SDG 6: acqua pulita e servizi igienico-sanitari; SDG 10: ridurre le disuguaglianze; SDG 11: città e comunità sostenibili; SDG
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lando la sua funzione strategica e trasversale. Del resto, partecipazione del pubblico e cittadinanza attiva erano state dichiarate la chiave per garantire la protezione dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile già nel 1992 nella Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo6 e poi, nel 1998, nella Convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale7 che ha recepito e dato concretezza a tale principio. Il vero cuore della Convenzione è, infatti, il cittadino e l’idea che esso, avendo a disposizione più informazioni, possa ampliare le opportunità e le scelte a propria disposizione e possa avere un peso nelle scelte che vengono prese ad alto livello, realizzando il proprio diritto a vivere in un ambiente che rispetti il proprio benessere e la propria salute. La Convenzione di Aarhus dunque già spostava il processo partecipativo dalla fase istruttoria a quella prodromica alla decisione pubblica relativa a un procedimento che
comportasse una trasformazione territoriale con impatti sull’ambiente. Circa vent’anni dopo, la co-progettazione, la costruzione condivisa della scelta progettuale - conseguente all’aver indagato e vagliato pubblicamente le possibili alternative, discutendone i pro e i contro con gli stakeholder coinvolti - diventa indicatore di sostenibilità di un’infrastruttura e dell’investimento nella stessa. È interessante notare che, se sul fronte giuridico i processi partecipativi, anche se introdotti da tempo, sono previsti solo nel caso di infrastrutture di un certo calibro8, sul fronte nanziario gli Istituti che regolano gli investimenti a livello globale – e che quindi devono anche ridurne i rischi9 - affermano che la dicotomia tra opere infrastrutturali incentrate sulla logica sociale e quelle incentrate sulla logica di mercato è de nitivamente superata, mentre va perseguita la creazione di valore condiviso. Archiviato dunque l’approccio delle opere pubbliche disegnate in luoghi di potere
16: pace, giustizia e istituzioni solide. 6 La Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo, denisce in 27 principi diritti e responsabilità delle nazioni nei riguardi dello sviluppo sostenibile ed è uno dei risultati del cd. Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull‘ambiente. cui parteciparono 172 governi e 108 capi di Stato o di Governo, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative. 7 La Convenzione di Aarhus, è un trattato internazionale volto a garantire all‘opinione pubblica e ai cittadini il diritto alla trasparenza e alla partecipazione in materia di processi decisionali di governo locale, nazionale e transfrontaliero concernenti l‘ambiente.
8 Anche nel caso del Debat Public francese, pur introdotto già nel 1995 con l’approvazione della Legge Barnier e oggi molto strutturato, è previsto solo per opere superiori a 300 milioni di euro o di interesse nazionale o di particolare impatto ambientale o socio-economico. 9 Sempre riferendosi ai dati relativi ai casi studio francesi – più numerosi visto l’istituto di lunga data - questi evidenziano che, in media, dopo lo svolgimento dei Debat Public, un terzo dei progetti è stato confermato nella versione originaria, un terzo è stato modi cato e un terzo è stato abbandonato per cui il confronto riduce il rischio di uno spreco di risorse in progettazione o peggio ancora di avvio di realizzazione di opere poi bloccate in quanto oggetto di forte contestazione.
2 - Indicatori di sostenibilità delle infrastrutture (fonte: Multilateral Development Bank Infrastructure Cooperation Platform, “A Common Set of Aligned Sustainable Infrastructure Indicators”, Settembre 2020).
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3 - Cinque sono gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 ONU in linea con l’indicatore di sostenibilità di una infrastruttura “stakeholder engagement” (fonte: Multilateral Development Bank Infrastructure Cooperation Platform, “A Common Set of Aligned Sustainable Infrastructure Indicators”, settembre 2020).
politico o economico e calate dall’alto indipendentemente dal sentire delle comunità, va consolidato quello della gestione partecipata degli spazi collettivi, ove i cittadini esercitano un ruolo non tanto di controllo sulle scelte relative alle opere infrastrutturali, quanto di stimolo ad una maggior vivibilità degli spazi in funzione di un contesto di vita, di relazione, di ben-essere che è “proprietà”, competenza e responsabilità della popolazione.10 Nella misura in cui le infrastrutture incidono su un territorio, va ricordato anche che, ancora vent’anni fa, la Convenzione europea del paesaggio11 sollecitava a porre attenzione al processo partecipativo, nelle varie fasi della progettazione, della decisione, dell’attuazione e della veri ca, senza tuttavia indicare i metodi per assicurare una partecipazione attiva e responsabile. In linea generale, negli anni successivi è emerso sempre più dai vari casi studio analizzati che la via maestra è quella di allargare 10 Giuseppe Scalora, Gianluigi Pirrera, Infrastrutture verdi e partecipazione sociale. Un modello bio-ispirato di rigenerazione urbana, Libellula Edizioni, 2016. 11 La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000. Secondo tale documento, il “paesaggio” è il frutto dell’evoluzione nel tempo dell’interazione dell’azione dell’uomo con la e nella natura, ma anche nel territorio antropizzato.
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l‘arena
degli attori protagonisti e di creare spazi di dialogo in cui interagiscono e si confrontano i diversi portatori di conoscenze ed esperienze nell’intento di trovare soluzioni condivise a tematiche complesse, tenendo conto in modo bilanciato di aspettative e bisogni espressi nel confronto. Va tenuto presente che ogni categoria di stakeholder ha una diversa visione e un diverso peso ex ante12. I politici e gli amministratori hanno potestà legislativa e decisionale e la loro visione di strategie e scenario attiene ad una dimensione legata al contesto normativo e quindi è più astratta e di cornice e tende ad essere proposta dall’alto, con una capacità di incidere forte sia in termini normativi che nanziari. Vi sono poi i portatori di interesse che “pesano” in termini economici, occupazionali e/o di capacità di mobilitazione. La loro visione varia a seconda che si tratti di stakeholder economici, socio-culturali, amministrativi. Poi, vi sono gli esperti e i tecnici che contribuiscono al processo decisionale con un apporto scienti co che tuttavia difficilmente è neutrale. In ne, ci sono i cittadini non organizzati che hanno una visione sul territo12 Benedetta Castiglioni, “Aspetti sociali del paesaggio: schemi di riferimento”, in Di chi è il paesaggio?, a cura di Benedetta Castiglioni e Massimo De Marchi, CLEUP, Padova, 2009.
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rio come contesto di vita e pesano in modo diretto attraverso la creazione di comitati più o meno stabili o attraverso stakeholder già strutturati. Rispetto alle modalità di interazione, sebbene ogni contesto richieda un suo proprio percorso partecipativo che tenga conto delle sue speci che caratteristiche culturali, economiche, sociali e ambientali, vi è convergenza sull’efficacia di una combinazione tra approccio tradizionale top-down e metodo bottom-up, che prenda la forma di “forum ibrido” dove vi è collaborazione tra “esperti” e “profani”13. Quanto più tali forum sono istituzionalizzati, tanto più riescono a in uenzare effettivamente i processi decisionali, in quanto minimizzano la diffidenza dei cittadini sulla reale possibilità da parte loro di contribuirvi e quindi consentono ad essi di concorrere di fatto alla co-produzione della conoscenza, non più delegata solo agli esperti. Ciò favorisce quello che è stato de nito un “dialogo di valori”14 tra obiettivi sociali, economici ed ambientali, ma anche tra diverse interpretazioni dell’opera e del territorio da parte di stakeholder che si confrontano per un certo periodo per cercare di arrivare ad un momento di equilibrio tra diverse visioni e necessità decretando la decisione nale sull’infrastruttura e contemporaneamente, appunto, la sua sostenibilità. Per giungere a tale risultato è necessario che tra cittadini, stakeholder, esperti e amministratori vi sia la convinzione e il riconoscimento reciproco di tendere ad uno scopo comune, quello di contribuire alla costruzione di un nuovo concept territoriale attraverso una condivisione e una valorizzazione delle diverse competenze senza vincoli gerarchici. Quanto più ampio è l’impatto territoriale del progetto in questione, tanto più ampie e solide devono essere le basi relazionali e cognitive che hanno condotto alla sua de nizione, così come, tornando alla metafora iniziale, quanto più ampia è la porzione di terreno in cui affondano le radici, tanto più l’albero aumenta il volume della propria chioma e cresce vigoroso vivi cando l’ambiente.
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13 Callon, M., Lascoumes, P., & Barthe, Y., Agir dans un monde incertain: Essai sur la démocratie technique, Paris, Seuil., 2001. 14 Blake D. Ratner, “Sustainability” as a Dialogue
of Values: Challenges to the Sociology of Development, 22 January 2004, https://doi.org/10.1111/ j.1475-682X.2004.00079.x
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Contemporary memory: la s da tra identità e omologazione di Stefanos Antoniadis
Alla progressiva erosione in ambito intangibile e speculativo di concetti e congetture su verità, origine, oggettività, unicità e identità corrisponde, secondo una dinamica di reciproca causalità non del tutto appurata – viene prima l’uovo o la gallina? –, una graduale disgregazione delle categorie formali del territorio tangibile. Con la strutturazione del cosiddetto “pensiero debole” assistiamo parallelamente alla manifestazione del paesaggio scattered (Rasmussen, 1974), ovvero una territorialità frammentata, disintegrata, liquida e cangiante, e del nonluogo (Augé, 1992), ossia lo spazio privo di identità, originalità, coincidenza storica. Qual è la consistenza di un territorio oggi? Quale la forma della città? Cosa può essere de nito patrimonio riconoscibile? Cosa conferisce valore a un luogo? Evitando di addentrarci oltre misura nel dibattito che coinvolge diverse discipline e scienze, dure e molli, che da tempo scandagliano le plurime declinazioni del relativismo – esiste una letteratura sterminata, punteggiata da qualche colpo di coda neorealista – il breve saggio propone strategie per scongiurare la crisi del linguaggio scaturita, evidentemente, dalla dissolvenza dei con ni tanto dei domini di validità quanto dei territori sici della contemporaneità, con la convinzione della necessità di misurarci restando all’interno del campo disciplinare speci co della composizione architettonica. Il testo del territorio in cui viviamo non è più costituito da elementi del vocabolario storico e consolidato. Gli elementi che lo compongono sembrano non concordare più con la grammatica del passato, e a volte nemmeno con la semantica (in verità, è questo il nodo più interessante da sciogliere). L’abaco degli oggetti che concorrono alla de nizione del paesaggio contemporaneo si è arricchito considerevolmente. Sul territorio non insistono più solo palazzi, magioni, abbazie, e altri dispositivi architettonici dalle tutto sommato contenute declinazioni
Contemporary memory: the challenge identity vs standardisation by Stefanos Antoniadis
Whether we like it or not, the territory we live in is no longer composed of elements from the consolidated historical vocabulary. The elements of which it is composed no longer seem to agree with the grammar of the past. The atlas of objects has been considerably enriched. These products, often seen as Non-Place replicas, represent a considerable amount of our contemporary landscapes and of professional opportunities for us as designers, increasingly forced to manipulate the complexity of these objects through our gaze and our action. The aim of this paper is therefore to suggest a reading of the contemporary landscape as a fundamental means to reassess certain objects, with the purpose of developing a more appropriate approach to the complexity of managing this landscape. This essay investigates a series of compositional techniques for acknowledging the object itself – or objects if a plurality – in many possible new ways that are functional to the design of the landscape, of collective space and the forms of contemporaneity. The practice of gathering and matching fragments of the contemporary like a game of Memory (and with memory), the abstraction of the forms studied by our geographies, the systematic comparison between the standardised objects of the present and cases from the past the quality of which is universally consolidated and acknowledged, could prove to be a sound exercise for moving past the dichotomy between uniqueness and uniformity.
Nella pagina a anco, in alto: Porto di Genova, (foto Stefanos Antoniadis, 2012); in basso: Feira da Ladra, Lisbona (foto Stefanos Antoniadis, 2015).
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1 - Contemporary Memory: ex stabilimento per la produzione di olio di fegato di baccalà, Ginjal, (S. Antoniadis, 2016) e Partenone, Atene, 445-432 a.C. (S. Antoniadis, 2010).
tipologiche. Inevitabili evoluzioni costruttive, tecnologiche, dei trasporti, unitamente a correlate dinamiche – non necessariamente interne alla disciplina dell’architettura, ma che sarebbe comunque errato non contemplare – di trasformazione sociale e di interesse economico, hanno modi cato l’ambiente in cui viviamo: i territori di oggi si presentano costellati da grossi volumi produttivi e commerciali, stadi, hub intermodali, aste infrastrutturali, svincoli a raso e in quota, idrovie, elettrodotti, tralicci, antenne, gru da cantiere, cave, discariche, ciminiere, torri piezometriche, depositi d’acqua pensili, silos, interporti ricoperti da migliaia di container, immense banchine portuali, estese gure piane asfaltate, aeroporti. È evidente che il banco di prova offertoci è molto più simile ad un groviglio di serpenti vivi (Barone, 2010) – Koolhaas direbbe junkspace1 (Koolhaas, 2002) – o a una bancarella del mercato delle pulci che a un precostituito e ordinato scacchiere di un gioco fantasy (e irreale) composto da contee e lande ben de nite e riconoscibili. Eppure più nel paesaggio contemporaneo si manifestano sovrapposizioni disomogenee di materiali urbani e dissolvimenti dei con ni tra città e 1 “Junkspace is what remains after modernization has run its course, or, more precisely, what coagulates while modernization is in progress, its fallout.”Cfr. Koolhas R. (2002), “Junk Space”, vol. 100, October, Obsolescence, The MIT Press, Boston, p. 175.
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campagna, più nell’animo del bricoleur2 (LéviStrauss, 1962) si radica la volontà di mettere ordine, in un agognato e chimerico tentativo di restituire identità (spesso attraverso pure invenzioni), unitarietà (oppure omologazione?) e valore (spesso del tutto arbitrario o, peggio, fondato sulla legge di “chi ce l’ha più vecchio”). “È come se [le teorie di montaggio e racconto di una storia della realtà] dinnanzi a una simile prospettiva (che ne decreterebbe l’inutilità) corressero il rischio di essere loro stesse le principali, nostalgiche, sostenitrici di un’immagine ancora univoca delle forme tradizionali (archetipi e Nomi-del-Padre), accentuando così quella scissione cui queste ultime sono andate nel frattempo incontro” (Barone, 2010, p. 207). Richiamando un celebre passaggio mitologico, di inesauribile speculazione interpretativa, nonché orida codi cazione del pensiero alla base della stessa civiltà occidentale, è persino troppo facile confessare che, evidentemente, il vaso di Pandora è stato aperto – non è questa la sede per dissertare sui motivi – e le forze che ne sono uscite hanno trasformato, più o meno repentinamente, il tempo e lo spazio antropico – e non solo, pare –, che lo vogliamo o meno. E, come insegna il mito, risulta piuttosto improduttivo – nonché anacronistico non solo culturalmente, bensì entropicamente – ostinarsi a voler cacciare a calci e pugni tutte queste risultanze nuovamente dentro al vaso. Ricordiamoci che neppure Elpís, Speranza, venne lasciata dov’era e com’era sul fondo del vaso, bensì fatta deliberatamente uscire, a signi care che assieme a tutte le altre istanze che plasmano continuamente l’esistenza e l’habitat del genere umano convive, sempre, l’opportunità di trarre vantaggio, di aggiornare e riformare, in meglio, la nostra condizione. Eppure assistiamo molto spesso a tentativi di restaurazione – di ricacciamento delle forze dentro al vaso – dei nostri territori, ancora visti per parti, incomunicabili e in opposizione forzata tra loro, anziché per layer (orizzontali o verticali che siano), organizzabili e riorganizzabili in sempre nuove, plurime e mutue relazioni. Ad ogni occasione di trasformazione sembra possano cadere identità e valori (si pensi all’inquietudine in cui versano molti territori patrimonio Unesco a cospetto dell’eventuale perdita del titolo o del diritto a candidarsi tali). È, ancora una volta, utile puntualizzare che con questo scritto non s’intende 2 Colui che usa gli strumenti che trova a disposizione intorno a sé e cerca di adattarli secondo vari tentativi ai suoi scopi. Cfr. Lévi-Strauss C., The Savage Mind, University of Chicago Press, Chicago, 1962, p. 12.
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indagare l’utilità o la sostenibilità, economica o ambientale che sia, relativa ad alcune operazioni di trasformazione o insediamento di nuove architetture o infrastrutture, piuttosto si vuole discutere di questioni squisitamente formali che concorrono, appunto, alla costruzione di apparati diversi cati, riconoscibili, identitari oppure omologati. E non si tratta nemmeno di tentare una positivizzazione della dinamica che ci ha inghiottito, condensabile, approssimativamente, nella formula “è così, e quindi va bene”, o approntare un’apologia di visioni piuttosto semplicizzanti, come ad esempio alcune teorie della disfatta o di ne della storia3 (Fukuyama, 1992). Si tratta piuttosto di predisporre una terza via, che si snoda lungo il sentiero scivoloso, e a tratti contro-intuitivo, della percezione e dell’apparenza – non super cialità –, della capacità di astrazione – non aberrazione – della forma, spostando il focus sulla modalità di osservazione delle cose, piuttosto che sulle cose stesse. Essa comporta l’educazione e l’allenamento dello sguardo, misurandoci anzitutto con la capacità di leggere e riscrivere ciò che osserviamo descrivendo l’oggetto, manipolandolo senza poterlo toccare, attivando nuove relazioni tra esso, altri elementi e i layer dei nostri paesaggi, rivelando identità e memorie condivise. In uno scenario da seconda ondata di International Style4 (Johnson, Hitchcock, 1932) che vede i nostri territori contaminati questa volta da elementi copia-incolla e di certo meno pregevoli, a volte replicati per convenienza tecnologica, altre imitati con intenzionalità ideologica, quali capannoni, outlet, commercial mall, caselli autostradali, hub logistici, ripetitori, poco conta parteggiare per l’identità o l’omologazione, il global o il local, l’originale o il derivato, il patrimonio o il trascurabile. La sterile lotta tra parrocchie si è rivelata un prevedibile quanto triste siparietto di strate3 La ne della storia è un concettochiave dell’analisi loso ca del politologo Francis Fukuyama espresso nel 1992 con il saggio “The End of History and the Last Man”, secondo cui il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe già raggiunto il proprio apice alla ne del secolo scorso, pertanto rientriamo attualmente in un processo di chiusura della storia in quanto tale con l’impossibilità, banalmente, di produrre qualcosa di nuovo. 4 Espressione coniata nel 1932 da Philip Johnson e Henry Russell Hitchcock nel saggio “The International Style: Architecture since 1922” con il quale gli autori, architetti, auspicavano la realizzazione di un linguaggio architettonico internazionale – nient’altro che il Movimento Moderno – che scongiurasse qualsiasi regionalismo.
gie orientative delle masse5 e sfociate spesso nella formazione di comitati e associazioni6 di natura sempre più ostativa che propositiva. Ciò che conta, invece, è saper continuamente leggere e rileggere, in autonomia e critica, i frammenti del contemporaneo per aggiornare e congegnare un vocabolario più ricco, consapevole, trasformabile e condivisibile. È opportuno dunque avviare un processo di ride nizione, in termini più consoni al nostro tempo, delle tavole della dignità degli oggetti che costellano i territori in cui viviamo. L’accreditabilità, termine che forse meglio identi ca una distinzione, un valore in potenza, di un oggetto – un’architettura, un’opera di ingegneria – è connessa a caratteristiche intrinseche ed estrinseche dello stesso. Essa consta certamente di caratteristiche formali proprie – forma, dimensioni, materiali impiegati –, ma anche e soprattutto di condizioni estrinseche all’oggetto in sé. Queste ultime tracciano il terreno più interessante sul quale trasferirsi per favorire la metamorfosi di elementi di omologazione in forme identitarie, grazie all’attivazione di nuove e multiple relazioni tra l’oggetto osservato e altri elementi del territorio, sia materiali (altri oggetti e altre forme) che immateriali (geogra e culturali e narrazioni). Alla luce di questa “marcata predilezione del pensiero occidentale per i fenomeni dell’ottica” (Magrelli, 1995)7, iniziata con la metafora della caverna platonica e assurta a indagine fondativa della scienza moderna con il cannocchiale di Galilei, lo scarto identità/omologazione e valore/disvalore si riduce se tessiamo con smania di ricerca corrispondenze tra i frammenti, rivelando costellazioni inattese, 5 Poco più di vent’anni fa si fomentava la globalizzazione a partire dalla straordinaria batteria di temi in classe proposti ai giovani scolari, mentre dieci anni dopo – all’inorridimento per l’effetto globalizzazione-omologazione – ha avuto inizio una campagna uguale e contraria che ha portato oggi alla celebrazione, ancora una volta eccessiva, del “chilometro zero” come intrinseco e irrinunciabile parametro che conferisce valore per ogni cosa: dalla commestibilità di un ortaggio alla validità di un’architettura. 6 “…diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più ri essi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in de nitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come...” Pasolini P. P., “Il nudo e la rabbia di Luisella Re”, in La Stampa, 9 gennaio 1975. 7 Magrelli V. (1995), “Paul Valéry e la fotogra a”, in L’obiettivo e la parola, Quaderni del Seminario di Filologia Francese, Ets-Slatkine, Pisa-Paris, p. 54.
2, 3, 4 e 5 - Nella pagina seguente (dall’alto in basso): capannone industriale in ZIP (Zona Industriale di Padova), Padova (S. Antoniadis, 2016) e mura difensive di Sabbioneta, Mantova (S. Antoniadis, 2012). Idrovia Padova-Venezia: chiusa destra Brenta, Vigonovo (S. Antoniadis, 2017) e Champ Elysees con Arc de Triomphe, Parigi (immagine da web, 2017). Idrovia Padova-Venezia, Vigonovo (immagine da web, 2017) e Via Panisperna, Roma (immagine da web, 2017). Zona industriale di Carmignano di Brenta (PD) (immagine da web, 2021) e Cretto di Burri, Gibellina (TP) (immagine da web, 2021).
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riconoscendo relazioni formali tra le cose, in una sorta di partita a Memory8, che richiede 8 Il popolare gioco di carte per bambini – marchio registrato da Ravensburger nel 1959 – in cui i giocatori devono accoppiare le carte mescolate e disposte a casaccio – proprio come gli elementi del paesaggio contemporaneo – e a dorso coperto sul tavolo.
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concentrazione e memoria, ove non ha importanza tanto la categoria della gura scoperta (oggetti, ori, animali, creature fantastiche…), quanto l’operazione di riconoscere e comporre relazioni formali. Il metabolismo dell’urbanizzazione produce continuamente infrastrutture, relitti, accumu-
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li di materiale omogeneo ed eterogeneo che, se osservati attentamente, possono trasformarsi e guadagnare un carattere distintivo. Tra gradienti di unicità e omologazione scorrono trasversalmente alcune favorevoli ambiguità formali che non necessitano di rivisitazioni posticce, né tantomeno della difesa o replica di oggetti archetipici del passato. È sufficiente cimentarsi in quel “lavoro […] apparentemente giocoso e disimpegnato ma che rivela, in un processo di progressivo disvelamento di senso” (Viola, 2014) di oggetti e territori. Una costruzione d’identità – o meglio multi-identità – a partire dalle molteplici e continue risemantizzazioni che possono scaturire dall’osservazione, scoprendo che la vasta facciata cieca di un anonimo capannone industriale nel territorio rururbano del Nord Italia può facilmente apparire come un segmento delle mura difensive di una cittadella forti cata; che un comunissimo e scoperchiato magazzino per lo stoccaggio di olio di fegato di baccalà sul versante del ume Tago che la mitologia vuole essere stato visitato da Ulisse si affaccia solenne come un Partenone della contemporaneità; che un pressoché ignorato sistema di chiuse nella campagna veneta conclude la prospettiva di un’idrovia commerciale mai ultimata come il celebre Arco di Trionfo domina gli Champs-Elysées, e che la stessa infrastruttura, mai concepita come elemento cosmetico del paesaggio, lavora invece con le trame agricole del territorio esattamente come un grande retti lo urbano ottocentesco ride nisce i bordi degli isolati sventrati. In questo modo, un distretto industriale-artigianale può assumere – grazie a iniziative progettuali che seguitano e completano l’operazione di rilettura – plurime identità: il conglomerato di capannoni non è solo luogo di lavoro, ma anche opera di land-art (si pensi al Cretto di Burri osservato dall’alto), o cittadella forti cata (osservato da terra), o altro ancora a seconda dei casi e delle opportunità; e così per il magazzino-tempio, l’infrastruttura-promenade, l’edi cio-montagna, la torre-colonna, la chiusa-monumento... Questi sono solo alcuni esempi di luoghi, architetture e opere di ingegneria disponibili alla costruzione di una base comune per dialoghi, narrazioni, risigni cazioni e pratiche di cosmesi – non falsi cazione – in grado di superare la visione dicotomica identità vs omologazione, sorgente della crisi del linguaggio e causa della perdurata difficoltà a trattare ciò che costituisce, in vero, l’attributo principale di ogni oggetto per come ci appare: la forma.
Bibliogra a Augé M. (1992), Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Le Seuil, Paris.
6 - Estádio José de Alvalade, Lisbona (S. Antoniadis, 2016).
Barone P. (2010), “Un groviglio di serpenti vivi”, in Kirchmayr R. e Odello L. (a cura di), Aut Aut, vol. 348, Georges Didi Huberman. Un’etica delle immagini, Il Saggiatore, Milano, pp. 203-210. Fukuyama F. (1992), The End of History and the Last Man, Penguin Books, London. Koolhas R. (2002), “Junk Space”, vol. 100, October, Obsolescence, The MIT Press, Boston, p. 175. Johnson P., Hitchcock H. R. (1932), The International Style: Architecture since 1922, W. W. Norton & Co., New York. Lévi-Strauss C., The Savage Mind, University of Chicago Press, Chicago, 1962, p. 12. Magrelli V. (1995), “Paul Valéry e la fotogra a”, in L’obiettivo e la parola, Quaderni del Seminario di Filologia Francese, Ets-Slatkine, Pisa-Paris, p. 54. Rasmussen S. E. (1974), London: The Unique City, The M.I.T. Press, Boston, cap. 1. Viola E. (2014), “Collezione Perino & Vele”, Museo Madre di Napoli (www.madrenapoli.it/collezione/perinovele).
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L’immagine urbana newyorchese protagonista di Ghisi Grütter
La cultura americana è sempre stata tendenzialmente anti-urbana proprio a causa delle proprie origini. Molti degli emigrati europei, infatti, scappavano proprio dalle situazioni urbane - dove avevano vissuto di stenti - per raggiungere la “nuova terra” il cui con ne si spostava sempre più a Ovest. Ciononostante le rappresentazioni urbane, a mio avviso, fanno trasparire un certo sentimento di ambivalenza. Infatti, la cinematogra a statunitense, n dagli esordi, ha messo in scena le contraddizioni nei confronti della città. Pensiamo, ad esempio, al primo lm statunitense di Friedrich W. Murnau “Aurora” del 1927, dove un contadino viveva felice nella sua fattoria con la moglie e il glio, quando l’arrivo di una donna cittadina gli trasforma la vita. La donna lo seduce, lo plagia psicologicamente e lo convince a lasciare la famiglia per seguirla in città. Gli suggerisce di liberarsi della moglie annegandola, durante una gita sul lago. L’uomo acconsente, ma si fermerà un attimo prima di compiere il suo gesto e chiede perdono alla moglie. Questa, sconvolta, era salita su un tram, dove lui la raggiunge e insieme si recano nel downtown che appare radioso, pieno di luci e di trasparenze e, divertendosi, scoprono nuovamente di essere innamorati e complici, quindi si riconciliano completamente. Ecco dunque la doppia valenza: una volta la città è simbolo di depravazione e di perdizione, un’altra volta, diventa il luogo dell’intrattenimento. Negli ultimi anni, il proliferare di serie televisive su varie piattaforme, ha contribuito a rilanciare l’immagine di New York dopo che aveva avuto grande successo negli anni ‘60/70 del secolo scorso. In una recente docu-serie di sette puntate Martin Scorsese, ad esempio, intervista Fran Lebowitz in una serie da lui prodotta per Net ix dal titolo Una vita a New York, meno pungente di quello originale “Pretend it’s a city” Lebowitz, poco conosciuta in Italia, è una scrittrice, speaker e umorista, che ha eletto New York a sua casa e a suo universo: si tratta di un’intellettuale
The urban image of New York as protagonist by Ghisi Grütter
American culture has always been considered to be anti-urban mainly because of its origins. Many European emigrants had in fact escaped from cities – where they lived in hardship – to reach the “new land” and the frontier which was moving further West. Nevertheless, urban representations, in my opinion, reveal a certain ambivalence. From the beginning, American movies have represented these contradictory attitudes towards the city as in, for example, Friedrich W. Murnau’s rst US lm “Aurora” in 1927. In any case, the urban image of New York is a constant presence in many artistic representations and visual media. I have selected three recent lms shot in New York, which I liked very much but may well have been underestimated, that could be considered as “real tributes” to the Big Apple: Todd Haynes’s “Wunderkammer Wow - World of Wonder” (2017), Edward Norton’s “Motherless Brooklyn” (2019) and Woody Allen’s “A Rainy Day in New York”, which had limited distribution in the US. Similarly, New York is an important presence in much of New York’s Jewish literature (as in the books of Isaac Bashevis Singer, Philip Roth, Bernard Malamud, Paul Auster, Nathan Englander, Cathleen Schine, among others). New York is the main protagonist in music as well: in 1968 Leonard Cohen dedicated his 13-minute song “Please Don’t Pass Me By” to the city.
Nella pagina a anco, in alto: Friedrich W. Murnau, Aurora 1927 da GG, Tre saggi sulla rappresentazione, Casa del libro, 1978.; in basso: Motherless Brooklyn di Edward Norton (2019) da GG, Al cinema con l’Architetto, vol.4, Timìa, 2021.
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ti: «Sono l’unica a New York a usare le strisce pedonali”, sostiene, ed è convinta anche di essere l’unica ad avere rispetto per gli altri scansandosi quando vede arrivare qualcuno, e non fermandosi di colpo in mezzo alla strada affollata. Una città in cui “nessuno può permettersi di vivere: eppure ci viviamo in otto milioni. Come facciamo? Non si sa». Ma molti anni fa, contemporaneamente all’arrivo della Lebowitz nella Big Apple, il cantante canadese Leonard Cohen, nel suo album del 1973 Live Songs, trasponeva in musica New York con una canzone-nenia lunghissima (13 minuti) che trasmetteva tutto il senso di disagio dell’anonimato e la consapevolezza di essere all’interno di una massa di “diversi”, ripetendo il ritornello in modo ossessivo Please Don’t Pass Me By: I was walking in New York City and I brushed up against the man in front of me. l felt a cardboard placard on his back. And when we passed a streetlight, I could read it, it said: “Please don’t pass me by - I am blind, but you can see - I’ve been blinded totally - Please don’t pass me by.” I was walking along 7th Avenue, when I came to 14th Street I saw on the corner curious mutilations of the human form; it was a school for handicapped people. And there were cripples, and people in wheelchairs and crutches and it was snowing, and I got this sense that the whole city was singing this: Oh please don’t pass me by/oh please don’t pass me by/ for I am blind, but you can see/ yes, I’ve been blinded totally/oh please don’t pass me by etc.
1 - Andy Warhol con Fran Lebowitz al Village negli anni ’70 è tratta dalla rivista Bust.com https://www. pinterest.it/ 2 - Un giorno di pioggia a New York di Woody Allen (2019) da GG, Al cinema con l’Architetto, vol.4, Timìa, 2021.
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ebrea che è stata amica di molti personaggi tra cui la scrittrice Toni Morrison e il famoso contrabbassista jazz Charles Mingus. Lebowitz collabora, inoltre, con Interview, la rivista newyorchese doc fondata da Andy Warhol. Nata in una cittadina tranquilla del New Jersey nel 1950, è arrivata cinquant’anni fa a New York diventando una sua cantrice e una delle prime donne a essersi ben inserita nell’ambiente artistico. Nel lmato, Scorsese le chiede che cosa ci sia a New York: perché tanta gente ci va a vivere? E lei risponde «New York. La domanda è: che cosa non c’è, dalle altre parti?». La nota aggressività e scortesia degli abitanti di Manhattan è uno dei soggetti principali dei suoi sarcastici raccon-
Cohen è nato nella francofona Montréal, in Quebec, da genitori ebrei. La sua attività artistica è iniziata come poeta e scrittore e la sua prima collezione di poesie, Let Us Compare Mythologies, è stata pubblicata nel 1956, quando era ancora studente universitario. Il suo album d’esordio, Songs of Leonard Cohen, uscito nel 1968, era quanto di più lontano si possa immaginare dalle inclinazioni “rivoluzionarie” dell’epoca: mentre songwriters come Bob Dylan e Joan Baez abbracciavano la politica, Cohen ripiegava sull’individuo. Impeccabile è la combinazione della voce, che sussurra con la delicatezza d’un menestrello medievale, con la chitarra classica nemente arpeggiata. Diventa così il cantore della malinconia, della solitudine, dell’emarginazione e degli amori persi. Cohen può essere considerato il più “europeo” dei cantautori d’oltre oceano, infatti il suo repertorio, oltre al folk americano, è glio della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens. Inoltre, ha anche una singolare predilezione per la mitologia classica e per i temi biblici,
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3 - Yumiro Kobayashi and Ryo Watanabe, New York Detail (courtesy of Chronicles Books).
grazie all’in uenza delle sue radici ebraiche e Yiddish. In quegli anni New York diventa il simbolo della contro-cultura. Fiorisce la cinematogra a indipendente con produzioni alternative a Hollywood. Un esempio di produttore (ma anche regista) di questo periodo è il newyorchese Bob Rafelson - che ha diretto Cinque pezzi facili - fondatore della Raybert Production che diverrà poi la BBS, casa produttrice di lm quali Easy Rider di Dennis Hopper del 1969. Le sue opere innestano la ricerca di nuove frontiere interiori che vanno al di là dell’immagine alienante imposta dal contesto sociale. La cultura di quegli anni, il dissenso giovanile, il pathos di vivere, la ne del sogno americano, hanno avuto un ruolo importante nella cinematogra a americana degli anni Settanta, no ad arrivare a una vera e propria frattura tra il cinema hollywoodiano e quello statunitense, e da allora le due cinematogra e non poterono più essere identi cate. La diffusione del cinema europeo negli Stati Uniti, inoltre, ha
contribuito a far considerare il regista come autore aumentando l’importanza di opere di registi come Robert Altman, Woody Allen, John Cassavetes, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Milos Forman, Sidney Lumet, Sam Peckinpah, Roman Polansky, Sydney Pollack e tanti altri. Fiorisce in contemporanea una certa letteratura ebraica newyorchese con tematiche sul con tto tra religiosità e laicità, tra tradizione e modernità: Isaac Bashevis Singer (nato nel 1902) vincerà il premio Nobel nel 1978 dopo che aveva scritto il libro Shosha, tutto in Yiddish. Singer era cresciuto in una famiglia in cui tutto ruotava intorno alla religione e la parola “uomo di lettere” suonava invece, come una persona senza Dio e un bugiardo. Infatti, il padre di Singer era un rabbino chassidico, ma anche sua madre proveniva da una famiglia di rabbini. Lo chassidismo ebraico-mistico dell’Europa orientale combinava la dottrina del Talmud e la fedeltà alle scritture e ai riti, con la vivacità e la sensua-
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carnalità intrusiva e colorata, ma anche oscena o violenta. Ho nito da poco di leggere il suo libro Il ciarlatano il cui protagonista Hertz Minsker, un ebreo polacco che ormai vive a New York, sembra girare a vuoto, barcamenarsi e si appoggia economicamente agli amici ricchi e alle donne che seduce. Ma è un intellettuale che conosce varie lingue, recita le poesie in greco e in latino, conosce il Talmud, lavora a un libro da quarant’anni ma non ha mai nito il primo capitolo. Alcuni dei temi trattati da Singer vertono attorno alla vita degli ebrei così come erano vissuti nelle città e nei villaggi di provenienza, nella povertà e nella persecuzione, pervasi di riti che abbinavano spesso alla superstizione. La lingua Yiddish è quella della gente semplice, delle donne, delle madri che hanno conservato e custodito ricordi, abe, aneddoti e leggende per centinaia di anni. Molti altri scrittori ebrei newyorchesi (di fatto o di adozione) autori di best-seller raccontano eventi legati sia al passato, che ha segnato la storia di un popolo, sia alle difficoltà del presente. Tutti, in ogni modo, mantengono la loro identità culturale ben salda. Basti citare i due più famosi come Philip Roth e Bernard Malamud. Poi ci sono gli scrittori nati a New York nella seconda parte del secolo come Nathan Englander, scrittore di short story e novelle, Cathleen Schine, scrittrice ironica che ha raggiunto notorietà con la commedia romantica La lettera d’amore da cui è stato tratto anche un lm, e Paul Auster, saggista, sceneggiatore, regista, attore e produttore cinematograco - considerato tra i primi post-modernisti statunitensi - i cui libri sono stati tradotti in più di quaranta lingue.
La rappresentazione di New York in tre lm recenti
lità dell’esperienza umana; infatti, il mondo descritto nelle storie di Singer, oltre a essere molto ebraico è anche molto umano, include piacere e sofferenza, grossolanità e sottigliezza. Nei suoi scritti troviamo anche una 138
Prendendo in considerazione le recenti produzioni cinematogra che vorrei citare due lm che mi pare siano un vero e proprio omaggio a New York e che sono stati forse sottovalutati: La stanza delle meraviglie di Todd Haynes (2017) e Motherless Brooklyn di Edward Norton (2019); inoltre un terzo, Un giorno di pioggia a New York di Woody Allen, che avuto problemi a essere distribuito. La stanza delle meraviglie è un lm appagante e commovente, una specie di aba malinconica raccontata in modo delicato e raffinato dal regista Todd Haynes, famoso per creare e trasmettere atmosfere particolari. In questo lm, il regista è alle prese con l’adattamento di un testo di Brian Selznick Haynes, che ne
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è anche lo sceneggiatore. A New York, una bambina e un bambino entrambi scappati da casa, cercano, in parallelo, i genitori. Sono entrambi sordi, per ragioni diverse: Rose è sordomuta dalla nascita e passa le sue giornate a ritagliare articoli sui giornali che parlano della mamma attrice (Julianne Moore); Ben invece è stato colto da un fulmine che gli ha tolto la possibilità di sentire suoni e voci e passa il suo tempo rovistando tra i cassetti e le carte della madre (Michelle Williams), per cercare indizi che lo conducano a sapere qualcosa di suo padre. Rose vive con il padre - siamo nel 1927 – separato dalla moglie, ed è in cerca della madre, un’affascinante e nota attrice che sta recitando al Promenade Theater di Broadway. Ben invece è in cerca di suo padre – siamo esattamente cinquant’anni più tardi - di cui non ricorda quasi nulla e del quale sa pochissimo, e tenta di trovare informazioni in una vecchia libreria a Manhattan vicino al Museo di Storia Naturale su Central Park West. Il lm è pieno di riferimenti cinematogra ci nelle due storie, sovrapposte nel montaggio: naturalmente in bianco e nero con sottofondo di musica sinfonica – come sempre nei lm muti - la storia della bimba in cerca di quell’affetto che solo il fratello le saprà dare; a colori e accompagnata da musica funky anni ’70 la storia del bambino rimasto orfano di madre e alla disperata ricerca del padre. Ben è nato e cresciuto in Minnesota, su un lago al con ne con il Canada, è abituato al freddo e alla neve ma non alla città, specialmente se questa città si chiama New York. Altrettanto vale per Rose, che viene da una zona suburbana ricca del New Jersey, ma non conosce la metropoli. Così il regista ci svela il tessuto urbano (e sociale) attraverso gli occhi dei bambini - la camera è proprio a quella altezza! - maggiormente aperti non avendo più l’udito. La New York in bianco e nero è una città in eri, quasi in costruzione: lì si fa spettacolo (i teatri di Broadway) e lì si fa cultura (i Musei e le librerie). Negli anni ’70 New York è al massimo del suo splendore ed è lì che si può trovare il massimo di tutto: i migliori direttori d’orchestra (Leonard Bernstein), i migliori locali di jazz (il Village Vangard), i migliori architetti al M.O.M.A. (i Five Architects) e così via. Rose per raggiungere Manhattan prende un traghetto mentre Ben, scappato dall’ospedale dove è stato ricoverato dopo l’incidente del fulmine, prende prima uno school-bus, poi un railbus che lo fa sbarcare ad Harlem, il quartiere nero che attraverserà senza soggezione. Le due ricostruzioni di New York, in due diverse epoche, sono scru-
polose e attente. In particolare, nel periodo degli anni ’70, Todd Haynes ne ripropone le musiche, i vestiti colorati, i cappelli e i vestiti alla moda. Le due storie trovano il loro fulcro nel Museo di Storia Naturale e si sovrappongono a quella di uno splendido cabinet of curiosities: una volta lì, infatti, tutti i musei discendono dalle Wunderkammer, collezioni di oggetti bizzarri. Il regista va avanti e indietro tra fantasia, sogno (o incubo) e desiderio, con molto garbo e senza appesantire o complicare la storia, o meglio le storie, che man mano si dipanano no ad incontrarsi nel nale. Un ennesimo tributo alla città viene dal modello analogico in scala 1:200, detto “Panorama”, costruito per l’Expo Internazionale del 1964 (New Year World’s Fair), voluto dal famoso urban planner Robert Moses e conservato al Queens Museum – museo d’arte e centro educativo fondato nel 1972 - dove convergono alla ne tutte le vite incontrate: quelle di Rose, di Ben e del suo amichetto portoricano Jamie. Motherless Brooklyn è tratto dal romanzo noir omonimo di Jonatham Lethem (1999) e co-
4 - Nella pagina a anco, in alto: Eric Drooker, New Yorker, 30 settembre 1996. 5 - Nella pagina a anco, in basso: La stanza delle meraviglie di Todd Haynes (2017) da GG, Al cinema con l’Architetto, vol.3, Timìa, 2019. 6 - In questa pagina: Aldo Scarpa, foto da Qui Nuova York, anni ’70 (courtesy of TCI).
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7 - Joel Meyerowitz, Ground Zero, 2002 (courtesy of The guardian.com).
stituisce una buona prova di Edward Norton alla regia e alla sceneggiatura. Ambientato nella New York negli anni Cinquanta, Motherless Brooklyn narra la storia di Lionel Essrog, un giovane investigatore (Edward Norton) affetto dalla sindrome di Tourette, una sorta di tic nervoso che lo porta a dire ogni tanto cose strane girando la testa da un lato. È come se avesse una seconda personalità anarchica, che gli fa produrre suoni e parolacce. È un ragazzo detto Brooklyn, dotato di una memoria sorprendente, un po’ come gli autistici, ricorda a memoria ogni dettaglio di una conversazione. Cresciuto in un orfanotro o, dopo la morte prematura del-
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la madre, si era legato a Frank Minna (Bruce Willis) che lo aveva preso a protezione. Frank ha un’agenzia che, sotto copertura, si occupa di investigazioni private, dove oltre a Lionel lavoravano altre due persone. Un giorno Frank, dopo aver scoperto qualcosa di grosso che non ha rivelato ai suoi, viene picchiato e ucciso. Lionel si mette in testa di individuare cosa avesse scoperto e chi erano i mandanti dell’omicidio del suo mentore. Così il lm si dispiega lungo le strade della città dove Lionel porta avanti le sue ricerche tra Harlem, Brooklyn e il Queens, scavando nei torbidi rapporti dei politici amministratori assetati di potere. Facendosi passare per un giornali-
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sta del Post, conoscerà Laura Rose che lavora contro la gentri cazione: i quartieri poveri e delle minoranze vengono acquistati e demoliti, costringendo i residenti ad abbandonare le loro abitazioni. Il capitalismo, infatti, utilizza l’inarrestabile progresso tecnologico per sottolineare le differenze sociali e per sfruttare la povera gente. A livello urbano la costruzione di parchi e di spiagge sono il contentino populista che i costruttori danno ai cittadini newyorkesi in cambio di demolizioni di interi quartieri. L’applicazione della politica di urban renewal non tiene conto delle reali esigenze degli abitanti e, invece di incentivare le infrastrutture primarie e i servizi di quartiere, gli amministratori privilegiano le “grandi opere” creando il malcontento nella popolazione. Verso la ne del lm, nei locali di una piscina coperta, Moses Randolph (Alec Baldwin) - costruttore e Assessore all’urbanistica, la vera anima nera della città - spiegherà al protagonista come il “potere” faccia fuori ogni ostacolo si frapponga al suo esercizio, in una terribile ma esatta descrizione. Come non riscontrare un riferimento al famoso urban planner Robert Moses che in quel periodo fu Presidente della Commissione del Parco Statale di Long Island, costruì due campus per due ere internazionali e, qualche anno più tardi, farà elaborare il plastico della città di New York in scala 1:200 per l’Expo internazionale (New Year World’s Fair) del 1964? Edward Norton è molto bravo nell’impersonare Lionel con i suoi tic. Questo improbabile Marlowe condivide con Elliot Gould de Il lungo addio (Robert Altman, 1973) una notevole simpatia e anche la compagnia di un gatto, come segno del voler colmare la propria solitudine metropolitana. Splendida è la ricostruzione urbana della New York di quegli anni così come la musica jazz che accompagna tutto il lm. Woody Allen adora Manhattan anche in autunno e quando piove e su queste luci particolari (fotogra a di Vittorio Storaro e scenogra a di Santo Loquasto) costruisce il suo lm Un giorno di pioggia a New York del 2019. Attraverso gli occhi di una giovane coppia formatasi al college si riscontra tutto il fascino della New York vecchia generazione. Il protagonista, Gatsby (Timothée Chalamet), vuole essere un Woody giovane, un po’ demodé, innamorato della sua città e dei suoi valori culturali. I due decidono quindi di passare un intero week end nella Grande Mela, da soli, senza neanche dirlo ai genitori. Lui viene da una famiglia di intellettuali dell’Upper East side - la madre è una donna dall’e-
ducazione un po’ rigida - conosce la musica, suona il pianoforte e vuole mostrare alla sua ragazza i locali “giusti”; amando l’arte la vuole portare a vedere una mostra al MOMA. Lei, Ashleigh (Elle Fanning), da brava provinciale, è sicuramente eccitata all’idea di andare a Manhattan, anche se sembra sia più entusiasta dell’idea che della reale possibilità di conoscere a fondo la Big Apple. Avendo vinto a poker, Gatsby prenota una suite al Pierre e un pranzo al Café Carlyle, ed è ansioso di trasmettere alla sua danzatina tutto il suo attaccamento a quella città. Ashleigh incontra all’Hotel Soho il regista da intervistare, che le si rivela in crisi creativa e la coinvolge nella visione del suo nuovo lm di prossima uscita. Salta così il pranzo con Gatsby e, a causa di tutta una serie di contrattempi, salteranno anche i vari programmi pomeridiani e il week-end non si concluderà nel modo sperato. New York fotografata da Storaro è comunque strepitosa!
Conclusioni Nonostante oggi le città che riscuotono maggior successo economico e nanziario siano asiatiche o medio-orientali, si può facilmente affermare che New York - anche se con un sapore un po’ vintage - è ancora una fonte di ispirazione per vari artisti di ogni genere: scrittori (Nathan Englander, David Leavitt, Jay McInerney, Cathleen Schine, Donald De Lillo), cineasti (Martin Scorsese, Woody Allen, Francis Coppola, Noah Baumbach, Spike Lee) e pittori (Charles Sheele, Joseph Stella, Georgia O’Keeffe, George Ault). A mio avviso, vorrei aggiungere che Big Apple può essere considerata l’ultima grande città occidentale che in qualche modo si possa de nire ancora culturalmente “europea”. © Riproduzione riservata
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The historical garden in Syria between tradition and identity di Nabila Dwai
The designed landscape form in the Middle East in uenced by symbols, beliefs of the ancient societies and religion as well as the geographical factors that have played a crucial role in the Middle East where the desert occupies large areas of it. Archaeologists recorded the earliest design landscape as a garden form in the middle east was used at the rst Ancient Persian Era the Achaemenid dynasty (559-530)B.C. which was established by Cyrus the Great, in the royal palaces of Pasargadae1. The location was in the southern region of the Iranian plateau, an area known today as “Fars’’, a part that participated in the traditional Ancient Near East with Elam the ancient Pre Iranian civilization. It was part of the Fertile Crescent where most of humanity’s rst major crops were grown2. The empire was in uenced by the already well-established practices of the conquered lands which were based on the previously existing civilizations knowledge and accomplishments in the middle east. The quadripartite design was used as a feature of a plan of the Ancient Persian garden. It was known as a “Chahar bagh” meaning “four gardens”3. It presents a system composed of two perpendicular axes intersecting de ning four equal quadrants. The form referred to the Neolithic period deity ‘“Ishtar”. It was associated with many symbols, as Firas Alsawah has referred in his book “Mystery of Ashtar”4. The form connected by an adopted canal technique, a way of moving water to a particular area, without exposing it to the evaporating by the high heat of the desert. it spreads throughout the land and over 1 D. Ruggles F., Islamic Gardens and Landscapes, University of Pennsylvania, 2006, p. 40. 2 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/History_of_Iran. 3 Adlerd M.C., The Garden as a Metaphor for Paradise, Rhodes University, 2001. 4 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Halaf_culture
Il giardino storico in Siria fra tradizione e identità by Nabila Dwai
Il giardino, inteso come parte di un più vasto ambito del progetto di paesaggio, ri ette il particolare rapporto tra uomo e natura che si esprime all’interno di speci che dimensioni e condizioni geogra che. Il giardino Chahar Bagh o “quattro giardini” rappresenta un elemento comune a diverse civiltà del Medio Oriente, in virtù della sua forma archetipica capace di strutturale formalmente il paesaggio agricolo. Sin dai primi insediamenti islamici in Medio Oriente, il modello tradizionale di giardino ha incarnato numerosi signi cati simbolici associati all’immagine del Paradiso come metafora della religione islamica unitamente al fatto che la forma stessa testimonia i caratteri tipici del contesto antropico di riferimento. Al giorno d’oggi sono molte le città siriane che presentano problemi legati all’assenza di aree verdi pubbliche laddove giardini e parchi, che svolgono ovunque un ruolo importante nel ridurre la discontinuità spaziale del piano urbano, potrebbero implementare laprotezione dall’inquinamento valorizzandone l’identità, e preservando anche le risorse della comunità. Lo studio analitico degli elementi ricorrenti del giardino islamico, dalla sua forma alla compresenza di diversi elementi architettonici e naturali, è utile nell’individuare un abaco di tipi storici del paesaggio tradizionale siriano. Dallo studio di queste componenti e attraverso una visione processuale dell’architettura, il presente contributo intende ri ette sulle modalità attraverso cui il giardino storico reitera caratteri singolari, utili a promuovere uno sviluppo urbano sostenibile per il futuro delle città siriane.
On the previous page: Alhambra Palace, Court of Lion, Granada, Spain. Source: https://commons. wikimedia.org/wiki/ File:Alhambra_-_Court_of_ the_Lions.jpg
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1 - Detail of arabesque decoration at the Alhambra Palace in Spain. Source: https://en.wikipedia.org/ wiki/Islamic_art 2 - Water features in the Palacio de Generalife, Granada, Spain. Source: https://en.wikipedia.org/ wiki/Generalife
the region, provides high amounts of water which helped to extend widely the agricultural landscape. The form of the garden with its sophisticated irrigation system was used to organize the agricultural landscape. The philosophical design concept of the garden based on the Zoroastrian four sacred elements of water, wind, re and soil of the cosmos. The other distinctive feature of Persian gardens as many desert inhabitants are the thick brick walls, which surround the entire rectangular plan of the garden.
The main architectural elements of the garden When Islam, as a new power, conquested Persia (637–651), it became the official re144
ligion of Iran since then. The previous unIslamic Zoroastrian origins of the Chahar bagh were imbued with Islamic signi cance, but the form of the Chahar bagh was adopted by the Muslims and widely used in their gardens. Islam represents another meaning for the gardens form of the four parts which depends on the description of the Quran (which Muslims believe to be the literal word of God). The four parts garden represents the paradise concept which was mentioned in details in their holy book with its four rivers. The Quran promises believers who perform these and other righteous acts5. The garden form remained enclosed with a high wall surrounding the outside. Most gardens have rectangular plans and have been divided into square or pseudosquare shapes. Despite the Islamic period has presented one ideology for the form of “cross-axis” garden design depending on the Quran imaginary of paradise. The whole Islamic landscape shares the garden meaning, but the gardens in the Andalusia palaces has presented many symbolic vocabularies with manipulation of irrigation system exploiting the site features and Mediterranean climate in a new development of the gardens form. The open courts and gardens in Spain give an excellent example of the supreme level of the landscape in the Islamic period. The cross-axial plan continued appearing in the most if not entire palatine setting as in the large agriculture landscape, but the scale was reduced in the palaces. The daily irrigation canals and wells that provided the water for the agricultural landscape were presented as decorative water channels and fountains in palace gardens, as Alhambra Palaces in Granada, 1370. The centre of the courtyard contains the celebrated Fountain of Lions, a magni cent alabaster basin supported by the gures of twelve lions in white marble6. Besides the advanced and complex technique of the irrigation system, the palace presented the water construction divided the oor into four parts that became a remarkable sign of the Andalucía palaces gardens. It presents symbolic meanings, regarding the symbols of the four-part plan and the lion statues which they used previously in the courtyard houses of Damascus. It originally could be linked to the ancient history of Syria that associated with one of the Ne5 Adlerd M.C., The Garden as a Metaphor for Paradise, Rhodes University, 2001. 6 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Court_of_the_ Lions
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olithic deity symbols “Ishtar” which was well presented in the agricultural societies beliefs and myths. The garden plan looks like an unconscious expression of the memory, carried its symbolic through history. By the time it lost its provenance to be used in another place and time. The meaning of this gure still refers to power and in uence. Some of these references could be found in the ancient sites, for example the “Halaf site”7 in Syria, which is an ancient culture that used the lion symbol in the temple of their deity. Ishtar, the Neolithic religion, goddess of fertility and immortality. This symbolic vocabulary of the traditional landscape is still in the unconscious of the ancient middle east societies. After the religions emerged as a result of the social classes as Angeles explains, most of these beliefs have disappeared and the Myths of that period of human history has associated with the reference with the new holy books. So when Islam entered Syria and Mesopotamia, it has contained this heritage that extended to many thousand years ago, with its new ideology. It makes the Quran the main references to all these Myths that have already existed in the history of the ancient Levant. Therefore, the religion presents continuity in the culture of the ancient east while it has contained many of the heritage of the ancient east and its early agricultural civilizations. The Chahar bagh garden that known later as the Islamic garden presents archetypal form as the ensemble of characteristics produced in a speci c geography and period of history. Its form and philosophy the paradise concept has developed through ages by many ancient civilizations in the Middle East, which adopted the form and used it with different interpretations and beliefs. All of these civilizations shared the same geographical area. As Saverio Muratori explains: «a type is also a generative action a priori: it already exists in the subconscious of the designer, and it is an integral part of collective imagery, thus anticipating the act of building. In the entire Islamic world, there is an archetypal form that has become almost synonymous with the Islamic garden, namely, the Chahar 7 Halaf site on the Euphrates river where a palace façade composed of many lion gures , its dated back to the period between 6100 and 5100 B.C.E,and the site belong to Neolithic period , and their deity was Ishtar. Now the facade of the palace became the Aleppo museum facade. Cfr. https://en.wikipedia.org/ wiki/Halaf_culture
bagh, a system composed of two perpendicular axes intersecting and de ning four equal quadrants sometimes featuring a monumental landmark»8.
3 - Calligraphy in Andalucia palaces. Detail in the Alcazaba of Málaga, Spain. Source: Photo by Giusi Ciotoli.
Towards the de nition of an abacus of the Syrian garden An Islamic garden is a landscape designed according to certain ideological principles. It employed certain physical elements and focused on certain intentions. The articulation of these elements and intentions is deeply rooted in the teachings of the Islamic faith and Muslim culture9. 8 Petruccioli A., Rethinking the Islamic Garden, Islamic Environmental Design Research Centre, Como, Italy. http://environment.yale.edu/publication-series/ documents/downloads/0-9/103petruccioli.pdf 9 Hamed S.E., Paradise on earth: Historical gardens of the arid Middle East, http://ag.arizona.edu/oals/ ALN/ aln36/Hamed.html
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He referred to the concept of space in a culture that evolved from the desert and the necessity of protecting living space and transforming the enclosure into an archetypal sign of distinction, not only separation between the nomadic and the sedentary, between oasis and desert, irrigated and arid land but because there is no dialogue between the two. The enclosure becomes a fortress under constant attack from the desert symbolism-thirst, death, and evil spirits; therefore it was sheltered by high walls10. All these aspects gathered to produce this protection to the organized and domesticated landscape. The gardens with their walled landscape presented treatment in the desert or Sahara regions, but the development of cities which are surrounded by natural views should consider another planning system to employ the natural features and invest them in the urban plan development and solving its problems.
4 - Layout of the Charbagh at the Tomb of Jahangir in Lahore. Source: https://en.wikipedia.org/ wiki/Charbagh#/media/ File:View_from_atop_ the_left_minaret_Tomb_ of_Jahangir_gardens.jpg 5 - Painted vessel, Isfahan, Museum of Iran Antiquities, Tehran, Iran. Source: Halsted D., The Perso-Islamic Garden: a reclassi cation of Iranian Garden Design after the Arab Invasion, Tesi del Davidson College, 2014.
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The essential physical elements that de ne the Islamic garden are as follows. The walls (enclosure wall) - Most of the desert civilizations referred to the archetype of the fence, and the designed landscape as traditional gardens were surrounded by walls. It had inward-looking composition which is interpreted as an attempt to isolate humanmade order from the perceived chaos of the surrounding harsh desert, and to protect the domesticate and cultivate area. Attilio Petruccioli has referred that the Islamic garden portrays an attitude toward the environment, the taming and glori cation of nature enclosed within four walls juxtaposed with the hostile areas of the outside world.
The gradation and successive levels - It’s a part of constructions of views in the Islamic gardens. It helped to view panoramically and to control the garden and the surrounding landscape. It was used in the gardens of the Achaemenids kings which is a pre-Islamic period on a sloped site. It’s also considered as a part of the hierarchy in the palaces complex that put the king as the representative of God on earth. This was in uenced by the religion of Mesopotamia, which has been adopted by many civilizations that coexisted in the Middle East. Ruggles interprets this design in the palaces gardens as: «a social hierarchy design», and explains that this design of view from a high and vast expanse of land was an act from the ruler to signify his colossal power over the land and its inhabitants. It served state ideology and became a part of the palace typology that presented the sovereignty and the power of the king. This design became one of the architectural characters of Islamic gardens11. Pavilions - The Pavilion was used in the garden layout for relaxation, gazing and contemplation. It provides a shaded vantage point in which everyone could sit and view the magni cent garden and surrounding 10 Petruccioli A., Dar al Islam architetture del territorio nei paesi islamici, Carucci, Roma 1985. 11 Ruggles D.F., Garden, landscape, and vision in the palaces of Islamic Spain, The Pennsylvania State University Press, 2000.
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landscape and contemplate inner thoughts. It also provides a shelter from the heat of the desert. Typically had a rectangular platform with open porches, probably columned, added to each of its shorter sides. In the religious context, it is mentioned in the description of paradise in Quran and also in the Hadith of the prophet Muhammad12. But historically, the pavilion is used in Persian gardens for the rst time in the Achaemenids empire period in the king’s palaces garden before Islam, and it was used as an important central element in the design of palaces gardens in Syria Al-Rusafa (Byzantine site) and then it belonged to the Umayyad caliphs. The pavilion was elevated and surrounded by an arcade and had an opening on each side from which three steps ran down to the garden13. The pavilion form changed from one gardens layout to another. Emma Clark refers to the Mughol gardens pavilion form and its symbolism. «The pavilions at the four corners of many Mughol mausoleums including the Taj Mahal, are octagonal and the throne of God is supported by eight angels, signifying the renewed man after he has travelled through the seven heavens and regained paradise» 14. But in Spanish gardens layout, it presented a distinctive feature of a small bower (Glorieta). It symbolized the pearl pavilion of the Quranic paradise. It was located at the junction path. It was often formed of Cypress trees the top of which would bend or clipped to form arches. Alternatively, a light arch might be built and covered with vine15. Shadows - Shadows serve the purpose of a cool place of rest and re ection and in Islamic garden as a reminder of paradise, and this evolves from an environmental perspective as It is a stark contrast between the harsh and arid landscape in most parts of the Islamic World and the gentle cool given by trees and the foliage of a garden and with a green canopy of shade. 12 Halim Ibn Muhammad Nassae As-Sala A., Description of Paradise In The Glorious Quran, Darussalam Publisher, 2010. 13 Ruggles D.F., Garden, landscape, and vision in the palaces of Islamic Spain, The Pennsylvania State University Press, 2000, p. 178. 14 Clark, E., Symbolism of islamic garden. http://islamic-arts.org/2011/the-symbolism-of-theislamic-garden/ 15 Lehrman J.B., Earthly Paradise: Garden and Courtyard in Islam, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1980, p. 89.
Shadows beside the water are considered the most important aspect in the garden in Quranic text; Emma Clark explains the effect of the environment of a desert on the sacredness of the Islamic elements: «Two indispensable elements of the Islamic Gardens of Paradise are already evident here – water and shade. It is important to remember just how much more a garden means to those brought up in a hot desert climate than to those brought up in countries where rain is frequent and where the popular idea of paradise is a desert island with a palm tree»16. This aspect is highly considerable in gardens features and presents a high-value environmental role in moderating climate and reducing the heat which are important factors for the environmental improvements in the landscaping study and design.
Water features - «Water is the secret of the soul in many sacred traditions, its uidity and constantly purifying aspect is the re ection of the soul`s ability to renew itself17. Water has crucial importance in every living aspect, “and we made everything alive from water” it’s a keynote in Quran that refers to the role of life-giving water in all of Islamic culture. Water role was signi cant in the ancient Middle East, where it’s considered a sacred element regarding its importance and in uence on human life existence. It has made civilization possible, most of the ancient civilization settled near the water sources like rivers, and its economy depended on the water ability for irrigation and agriculture and trade, like Mari kingdom on Euphrates River in Syria or Mesopotamia and Nile River in Egypt. Therefore, water was considered a sacred element in many ancient civilizations and it is even mentioned in their myths. In the hot arid climate where desert water is essential to life and to survive so far, it is associated with wealth and fertility. Emma Clark points out In the Epic of Gilgamesh that water has much more value to people who live in arid countries and that desert dwellers traditionally viewed water as a symbol of God’s mercy. This idea is evident in numerous verses of the Quran, where water and mercy are inseparable18. 16 Clark E., The art of Islamic garden, Times offset, Malaysia, 2010. 17 Clark, E., The art of Islamic garden, Times offset, Malaysia, 2010. page28. 18 Clark, E., The art of Islamic garden, Times offset, Malaysia, 2010.
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In the garden, the water is located in the centre of the courtyards where there is a fountain from which radiate four paths. It’s placed at the heart of the garden, and playing many roles within the garden design; it is emphasizing architectural elements, masking outdoor noise, producing pleasing sounds, refreshes the eyes, cooling the body in the high temperatures and providing a space for spiritual contemplation. Irrigating plants, and soothing the dusty wind19. Water moves through the Islamic garden in many ways, it changes level over chutes and waterfalls, and spurts into the air from fountains. It sends out plums or bubbling out in sprays and swirls, lling the air with sound. In Spain, courtyard water has played a signi cant role in gardens as well as in other architectural spaces. Water features viewed as part of the spiritual conception of the landscape, while in other spaces the absolute stillness of a large pool would create almost perfect re ections of the surrounding architecture, even more, it’s played a role as a divider of spaces like the courtyard of the Alhambra and The Generalife in the Patio de la Acequia. It has re ected and presented a high level of water irrigations developments through the recognizable water features and construction.
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the garden, as does the vegetation, it contains the generous planting of chinar trees (the plane tree, Platanus orientalis) with their large, shade-giving leaves, and the cypress, the palm-tree and the olive, as well as the different kinds of fruit trees: g, cherry, peach, citrus, pomegranate and almond, with their abundant blossom and fruit Flower-beds were most likely to be lled with fragrant varieties such as jasmine, roses, narcissus, violets and lilies20.
Plants and trees - In the dry, desert climate of Arabia, where Islam originated, a lush, green, and shady garden with water presented the paradise on Earth. From this environmental background of view, plants and trees in the Islamic world have acquired sacred and symbolic meanings, but trees in the three holy books of Judaism, Christianity and Islam are prominent and beyond their utilities. They are important for the holy books as a symbol and metaphor. In the Koran, trees are most frequently cited as gifts of a bene cent Creator, shady and fruitful trees are highly valued and many trees have mentioned in the Quran as olive, g, and pomegranate. We can nd them in most of the Islamic gardens (also of different period) in the palaces of Umayyad princes or as well as courthouse in Damascus and Aleppo, the power of the ruler stemmed from the productivity and fertility of the landscape that brings prosperity and richness. Emma Clark refers to the vegetation in Islamic gardens, that greenery softens the ordered and geometric nature of
Arabesque and ornaments - Islamic art encompasses many visual arts produced from the 7th century. But not all of these arts restricted to religious matters but includes all the art of the rich and varied cultures of Islamic societies as well21. Ornamentation is a central feature in many Islamic architectural types. Islamic gardens with their enclosed form and surrounded walls have over many Islamic periods presented a kind of ornamentations and calligraphy arts. It has added an aesthetic value to space. Geometric patterns make up one of the three non- gural types of decoration in Islamic art which also include calligraphy and vegetal patterns. Whether isolated or used in combination with no gural ornamentation or gural representation, geometric patterns are popularly associated with Islamic art largely due to their anionic quality. These abstract designs not only adorn the surfaces of monumental Islamic architecture but also function as the major decorative element on a vast Array of objects of all types. While geometric ornamentation may have reached a pinnacle in the Islamic world. Islamic art developed from many sources like Greeks, Romans, Early Christian art, Byzantine styles, and Sasanians art of pre-Islamic Persia. Islamic artists appropriated key elements from the classical tradition, then complicated and elaborated upon them in order to invent a new form of decoration that stressed the importance of unity and order. The signi cant intellectual contributions of Islamic mathematicians, astronomers, and scientists were essential to the creation of this unique new style. In the use of geometrical oral or vegetal designs, there are repeated elements, and it is known as the arabesque. The arabesque in Islamic art is often used to symbolize the transcendent indivisible and in nite nature
19 Hamed,S.,E.,Paradise on earth: Historical gardens of the arid Middle East http://ag.arizona.edu/oals/ALN/ aln36/Hamed.html.
20 Clark, E., The art of Islamic garden ,Times offset, Malaysia, 2010. 21 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Islamic_art
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of God. Islamic art has focused on the depiction of patterns whether purely geometric or oral and Arabic calligraphy, rather than on gures. Human representation for worship is considered idolatry and is duly forbidden in Islamic law 22. Calligraphy on walls - One of the decorative forms of art developed in Islamic culture is calligraphy, which consists of the use of artistic lettering. That is combined with geometrical and natural forms. As in other forms of Islamic art, Calligraphic design is omnipresent in Islamic art, whereas in Europe in the Middle Ages religious exhortations including Quranic verses. It may be included in secular objects, especially coins, tiles and metalwork, and most painted miniatures include some scripts, as many buildings. Other inscriptions include verses of poetry and inscriptions that record ownership or donation. Two of the main scripts involved the symbolic ku c and naskh scripts which can be found adorning and enhancing the visual appeal of the walls and domes of buildings, the sides of minbars, and metalwork. Islamic calligraphy in the form of painting or sculptures is sometimes referred to as Quranic art23. 22 Cfr. http://www.metmuseum.org/toah/hd/geom/ hd_geom.htm 23 Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Islamic_art
Conclusions
6 - Water features in the Alcazaba of Málaga, Spain. Source: Photo by Giusi Ciotoli.
While the historical garden – conceived as an enclosed form – was part of the palaces of kings and elite classes during the Islamic period, subsequently it was used as a part of the landscape design. This form was employed for the distribution of the agricultural resources in the arid land where protection from the surrounding desert was required. In Syria, the recent decades have witnessed high urban expansion that caused the consumption of green areas, and inside the city, many gardens and green areas are neglected, exposed to be abandoned without care and maintenance. Therefore, the current gardens need to be reorganized and to be renewed in addition to the use of the vegetation cover, different types of trees, and water features, besides the art workings and constructions which enhance the identity of the place and the culture of the societies. The study of the typological characteristics of the historical garden is therefore fundamental to understand, and perhaps direct, further and possible developments of this particular architectural form that belongs to the urban landscape of Syria (and of the Middle East in general). © Riproduzione riservata
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Trasformazioni urbane, il contributo essenziale degli Artisti di Laura Facchinelli
Ci sono libri che aprono nuove prospettive. È il caso di Sguardi sulla città moderna di Giandomenico Amendola (edizioni Dedalo, 2019): un libro che già nel sottotitolo – Narrazioni e rappresentazioni di urbanisti, sociologi, scrittori e artisti - annuncia la precisa presa di posizione dell’autore. La progettazione di spazi urbani viene tradizionalmente intesa con riferimento alle intenzioni di amministratori, urbanisti, architetti, ma a vivere gli spazi sono i cittadini, le persone, quindi gli uomini, le donne, gli anziani e i bambini. Un progetto dovrebbe essere concepito per soddisfare i loro bisogni, per rispondere ai loro desideri. Ma chi è in grado di comprendere bisogni e desideri, e soprattutto: chi si propone davvero di comprenderli? Sanno farlo soprattutto artisti, scrittori, registi, musicisti. Perché, mentre committenti e professionisti della progettazione studiano i problemi razionalmente (con l’obiettivo di garantire l’efficienza funzionale del sistema), i cultori delle arti osservano le persone, ascoltano, intuiscono stati d’animo, colgono sfumature impercettibili e sentimenti non espressi (avendo in mente il benessere dei cittadini). Per questo sono anche capaci di cogliere e raccontare, a posteriori, le trasformazioni vissute dalle città e i loro effetti. L’obiettivo di questo libro è proprio questo: raccontare le trasformazioni subìte nell’800 da grandi capitali europee – Parigi, soprattutto, e poi Londra, Berlino, Barcellona - completandone la descrizione attraverso dipinti, romanzi e poesie, lm, brani musicali. La nuova realtà – scrive Amendola - è “estremamente complessa e impone allo studioso, e specialmente a chi deve governare e progettare, di abbandonare le certezze del proprio territorio scienti co e professionale e di camminare sui con ni disciplinari, che sono di certo sdrucciolevoli ma che consentono letture e analisi approfondite”. Haussman, nel riprogettare Parigi, aveva come paradigma il corpo umano. “Gli imperativi sono quelli siologici della circolazione (di persone e merci), della difesa dell’organi-
smo (con spostamento in periferia dei fattori di aggressione sociale e militarizzazione della città), della respirazione (i grandi parchi)”. La metropoli, esattamente come l’organismo umano, deve essere “bella, funzionante e duratura”. In modo analogo si poneva Ildefons Cerdà nel trasformare Barcellona. A raccontare il vissuto delle nuove metropoli della modernità industriale saranno soprattutto scrittori e poeti, scrive Amendola, che cita Edgar Allan Poe, Émile Zola, Victor Hugo, Charles Dickens, Charles Baudelaire. “Il grande romanzo urbano dell’Ottocento rappresenta la necessaria integrazione della lettura della città, fuorviante e unilaterale, fatta dagli urbanisti. Esso, infatti, offre al lettore il punto di vista e l’esperienza delle persone che nella città della modernità vivono e che a questa devono adeguarsi”. Gli esempi citati sono numerosi. E poi c’è la pittura, che comincia a cercare “la molteplicità dei punti di vista”. L’Impressionismo si propone di “rappresentare il carattere frammentato, mobile e soggettivo del nuovo mondo urbano”, con i vari mutamenti e il succedersi dei momenti, colti, per esempio, da Monet quando mette in scena la cattedrale di Rouen nelle diverse ore della giornata. Nelle città nuove e diverse si fa strada anche tra sociologi e loso il concetto di esperienza urbana. Si individuano gure metaforiche come il âneur. Nelle città moderno-industriali ci sono, da un lato, i ricchi quartieri borghesi, dall’altro i territori dove il proletariato vive in condizioni disperate: strati di popolazioni che convivono ma sono reciprocamente invisibili. “Il processo di modernizzazione, che travolge le strutture sociali e le forme siche della città, investe, modi candola, la stessa personalità dell’individuo”. L’impatto “non si limita a spingerlo verso la super cialità per difendersi dal sovraccarico di stimoli, ma provoca anche patologie tali da consentire un rapido sviluppo della psichiatria e la nascita della psicanalisi”.
Nella pagina a anco, in alto: Charles Marville, Vues du Paris d’Haussmann: Blulevard Saint-Germain, Museo d’Orsay, Parigi, 1877; in basso: Alfred Morgan, An Omnibus Ride To Piccadilly Circus, Mr. Gladstone Travelling with Ordinary Passengers, collezione privata, 1885.
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Filo conduttore delle letture della città della modernità è l’analisi che contrappone la Comunità alla Società: la Comunità è quella del villaggio e della città medioevale “dove dominano, con quella emotiva, le disposizioni mentali tradizionali”; al contrario la città della modernità rappresenta la società dell’intelletto, che si ispira al “freddo ragionamento”
1 - La copertina del libro di Giandomenico Amendola.
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Nella Parigi trasformata da Haussmann l’occhio è protagonista: la città è uno straordinario palcoscenico, luogo di incontri e di stimoli, col traffico veloce dei veicoli e il passeggiare lento dei pedoni. Con l’illuminazione stradale a gas, anche la notte diventa vivibile (e Parigi diventerà, nell’immaginario, la Ville Lumière) e l’introduzione della luce elettrica segnerà un passaggio ulteriore, consentendo di illuminare le vetrine dei negozi, i teatri, i caffè. E anche gli Impressionisti, che pur prediligono la pittura en plein air, rappresentano con entusiasmo l’illuminazione arti ciale delle strade. Analoghe le esperienze a Londra, a Berlino e nelle altre metropoli europee. Sono sempre romanzieri e pittori a dare gli spunti per decifrare una città resa nuova delle tecnologie, dalle ferrovie, dalla luce elettrica, dalla varietà della popolazione a seguito dell’immigrazione, da un’economia industriale. C’è una corsa rapida al consumo (comportamento collettivo, con l’ostentazione di beni costosi per comunicare il proprio status sociale). C’è anche l’idea, borghese e illuminista, che la città debba essere fruita da tutti: ed ecco, nella Parigi mitica dell’800, i grandi magazzini e, soprattutto, l’omnibus, che offre a tutti la possibilità di andare dappertutto. È vero che ci sono due diverse tariffe, ma le classi sociali si incontrano, e la pittura dell’epoca ne è testimone. “Negli anni in cui si sviluppa il grande romanzo urbano aumentano rapidamente le fonti di conoscenza della città, si moltiplicano le indagini demogra che, le ricerche sulla sanità, sulla povertà e sulle abitazioni, i rapporti di polizia e le statistiche sulla criminalità. Inoltre nasce e si afferma il giornalismo d’inchiesta che esplora, documentandola, la città povera e invisibile. Tutto questo entra nel romanzo urbano e accresce la sua capacità di comunicare la città nuova al grande pubblico”. Oltre ai pittori impressionisti e ai romanzieri, anche i fotogra vanno alla ricerca della quotidianità della metropoli. Per esempio documentano (si pensi a Henri Le Secq ed Eugène Atget) la distruzione della vecchia Parigi e la nascita, sulle sue rovine, della prima grande
metropoli dell’era industriale. Nel frattempo i âneur esplorano, con occhi spalancati e indagatori, città sempre più articolate e labirintiche. Il contributo di scrittori, pittori e musicisti introduce punti di vista differenti: quello della gente ricca, da un lato, e quello della classe povera e lavoratrice dall’altro, il punto di vista maschile, ma anche quelli della donna e del bambino. Per la sociologia urbana (che prende avvio dalla Scuola di Chicago degli anni ’20) la città “è un sistema che, esattamente come il corpo umano, funziona secondo leggi ben de nite. L’ambiente urbano […] ha una propria siologia che consente al sistema di tenere in utile equilibrio concentrazione e diversità della popolazione”. Secondo sociologi come Wirth e Simmel, per il moderno cittadino le trasformazioni psicologiche sono enormi: è più libero, ma al tempo stesso deve “ricercare le strade per una maggiore creatività e difendersi dall’eccesso di stimoli”, rischiando la crescente indifferenza emotiva. Si afferma comunque, nei sociologi, l’esigenza di fare i conti con l’esperienza, quale è offerta in particolare dai romanzi: questo al ne di ricomporre il rapporto tra il sistema città e la soggettività. Dal punto di vista della pittura, gli Impressionisti ssavano sulla tela in particolare lo
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sguardo dei borghesi, tuttavia non mancavano di esplorare i luoghi dei servizi pubblici e del lavoro (dalla Gare Saint-Lazare ai bevitori d’assenzio ai raschiatori di parquet), scon nando quindi nella città “invisibile”. Anche l’Espressionismo tedesco è una pittura urbana, particolarmente interessata a mostrare la reazione dell’individuo alla modernità, in un mondo spesso confuso e disorientante. I Futuristi, invece, esalteranno la città come emblema di modernità. La città è anche ambiente sonoro e gli scrittori danno spesso conto delle esperienze acustiche legate alla folla, alle fabbriche, alla circolazione stradale, che nella città moderna è diversa rispetto al passato, spesso traducendosi in uno sgradevole sovraccarico sensoriale. L’Impressionismo coinvolge anche la musica: in particolare Claude Debussy comunica, nelle sue composizioni, i suoi stati d’animo legati ai luoghi. La città nuova – nota Amendola – entra nella musica come sensazione, ma non come tema: i musicisti dell’800 ignorano la città. “Ciò che impedisce di evocare la città nuova non è tanto il clima culturale quanto il limite tecnico della musica dell’epoca che, romantica e armonica, non conosce la dissonanza. Senza di essa sembra impossibile dal conto della nuova città che, segnata dai rumori, dalle sofferenze e dai con itti, è dissonante per de nizione”. Dall’inizio del ‘900, acquisiti gli strumenti dell’atonalità e della dissonanza, musicisti come Mahler, Schönberg, Stravinskij, Cage riusciranno a rappresentare le contraddizioni della città. Nelle città americane cambiano i parametri di presa d’atto delle trasformazioni ed è dif-
cile cogliere i grandi mutamenti perché, in qualche maniera, “in città senza un passato con cui confrontarsi non è facile isolare e rappresentare i segni della modernità sia nelle forme siche che negli stili di vita”. In un paese dove le parole chiave sono crescita e sviluppo, sono il cinema e i romanzi, per esempio, a “ricordare ai newyorchesi come la loro città si chiamasse in origine New Amsterdam e come i coloni l’avessero acquistata dagli indiani”. In pittura, gli Impressionisti americani amavano rappresentate la natura, mentre gli esponenti del Realismo erano attenti alle condizioni di lavoro nelle industrie. Amendola sintetizza le visioni degli artisti (il più noto è Edward Hopper, che rappresenta la solitudine negli spazi urbani) e i diversi atteggiamenti degli scrittori. Signi cativa l’entrata in scena di un elemento tipico del paesaggio urbano americano, il grattacielo, grandioso frutto della tecnologia che diventa segno identitario e orgoglio della nazione.
2 - Demolizione del complesso di Pruitt-Igoe a Saint Louis (Missouri), U.S. Deparment of Housing and Urban Development’s Office of Policy Development and Research, 1972.
In tempi recenti, deindustrializzazione e globalizzazione hanno radicalmente trasformato la città “che deve oggi reinventarsi per sopravvivere”, per rispondere non solo ai bisogni, come nel passato, ma anche ai desideri del cittadino consumatore. Nella progettazione e nel governo della città, gli amministratori devono mettere in atto nuove modalità di analisi, inoltrandosi nel terreno delle emozioni, dell’identità, dell’immaginario. Solo se si terrà conto della sua esperienza, del suo punto di vista, il cittadino potrà partecipare alla costruzione del futuro della propria città. © Riproduzione riservata
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Paesaggi oltre il paesaggio di Luigi Siviero
Con una frase di Michael Jacob, Marco Falsetti, in apertura all’introduzione di Paesaggi oltre il Paesaggio, ci ricorda che le “in nite” forme del paesaggio non possono essere mai descritte in un apparato di regole onnicomprensivo, che le accarezzi e le domini tutte, fornendoci una visione limpida e distinta aderente a tutti i paesaggi, o a tutto il Paesaggio. Ciò tuttavia non deve trasformare il paesaggio, tema già molto complesso, in un soggetto inafferrabile, vago o distante dalla realtà. Falsetti percorre quindi una via difficile, ma forse la più giusta possibile, ovvero quella della selezione di argomenti che insieme compongono una delle in nite possibili mappe in grado di fornire un percorso (nel libro trasversale e ricchissimo di riferimenti a culture eterogenee sia per provenienza, sia per forma di rappresentazione), verso un grado di conoscenza più elevato. Il libro nasce da ri essioni scaturite nell’ambito di attività didattiche (in particolare al Corso di Elementi di lettura del paesaggio urbano, tenuto da Falsetti alla facoltà di Architettura di Roma “La Sapienza”). L’attività didattica, scarsamente valutata con incosciente noncuranza dal sistema universitario, quando condotta con consapevolezza è la matrice di un pensiero parallelo, che si sempli ca e schiarisce il fumo della complessità in linee più nitide. La ricerca che Falsetti ci descrive in questo libro ne è un esempio. Paesaggi oltre il Paesaggio si suddivide in due parti. Nella prima, Themata, Falsetti identi ca una selezione di cinque argomenti strutturalmente diversi: l’immagine del paesaggio, il paesaggio dell’utopia, della complessità e della rovina ed il paesaggio del mediterraneo. Nella seconda, Ultra, Falsetti dà voce a cinque studiosi che affrontano il tema del paesaggio da cinque punti di vista diversi: Lucio Altarelli, sul tema della rovina come elemento dal molteplice valore in grado di fornire più letture del paesaggio: rovina come “maceria”, o elemento di “sottrazione” o ancora di “strati cazione” in un paesaggio costituito
di livelli sovrapposti in una continua tensione reciproca; Giusi Ciotoli, che dà forma ad un breve quadro evolutivo del paesaggio Nord Americano attraverso documenti, mappe e “misurazioni”, ma anche testimonianze più comuni come immagini pubblicitarie e cartoline, e che riescono a farci intraprendere un interessante viaggio, a partire dall’”utopia”, passando attraverso le forme del paesaggio, no all’”identità” di un popolo; Giovanni Multari, che descrive il Centro Direzionale di Napoli come uno dei pochi esempi riconducibili alla cultura architettonica della grande dimensione, ma proiettato in una Italia pervasa, almeno sino agli anni Duemila, dall’armonia dimensionale con gli elementi del paesaggio urbano dell’antichità; e a chiudere, Franco Purini e Carlo Ravaioli, che affrontano il tema della rappresentazione pittorica del paesaggio il primo con alcune interessanti note sulla pittura ed il paesaggio italiano, e il secondo raccontando la città, attraverso l’interpretazione di alcune sue pitture. E proprio questi due ultimi contributi, così legati alle molteplici immagini che il paesaggio può assumere, ed alle diverse rappresentazioni dell’”idea di paesaggio” speci camente affrontata da Falsetti nel capitolo iniziale, ci fanno approdare ad uno degli aspetti più signi cativi di questa ricerca, forse il più interessante, ovvero la incredibile quantità di riferimenti che l’autore cita in modo approfondito e sempre proli co, attingendo indifferentemente e con abilità dalle esperienze più alte e note alle più popolari, allineandole, confrontandole ed imbrigliandole in una logica stringente e sempre raffinata. © Riproduzione riservata
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Dal grattacielo al tessuto verticale di Roberto Secchi
C’è una vasta letteratura sul grattacielo. Molti sono gli articoli e i volumi che se ne occupano. Però, per lo più la trattazione riguarda i singoli edi ci, rassegne di esemplari. Se ne parla come tipologia architettonica, come di icone della contemporaneità, come di landmark metropolitani nella competizione internazionale tra le città, del prestigio che arrecano alle società per più multinazionali che ne costituiscono la committenza e di cui spesso portano il nome, come di oggetti nei quali ha luogo l’innovazione strutturale e tecnologica più spinta, se ne studiano gli impianti e le soluzioni di facciata, la componentistica, la ricchezza delle funzioni compresenti. Il tema è affrontato con un approccio oggettuale, al massimo si studia come un individuo signi cativo del paesaggio urbano. In ne, nella competizione tra gli esemplari sparsi in tutto il mondo, si parla delle loro altezze, sempre più grandi, smisurate, della s da al cielo e alla gravità. L’originalità e il merito del volume di Giusi Ciotoli Dal grattacielo al tessuto verticale. Nuovi sviluppi architettonici e urbani (Officina edizioni, Roma 2017) consiste nella costruzione di una trattazione impostata, al contrario, sulla relazione tra grattacielo e lottizzazione dei terreni secondo lo schema della griglia. Un’ottima intuizione la porta a parlare di tessuti. La parola “tessuto” appare anche nel titolo con l’aggiunta dell’appellativo “verticale”. Contrariamente a quanto tramandato dalla tradizione della letteratura dell’architettura, che ha parlato di tessuti alludendo a forme di insediamento prevalentemente orizzontali, spesso debitrici per la propria morfologia alla sfera della biologia e della siologia, la Ciotoli affronta il tema della verticalità nel rapporto con la griglia stradale tipica delle città americane, lì dove nasce il grattacielo e si perpetua in tutte le city degli USA, e, in seguito, in tutte le megalopoli del mondo.
Considerato sotto questo punto di osservazione, il libro propone una trattazione che si preoccupa di illustrare e approfondire, innanzitutto, il concetto di tessuto e le sue varie forme, classi candole con esattezza. A partire dal grande rilievo assegnatogli da Gottfried Semper nel suo trattato, via via ripercorrendone le tappe dell’evoluzione. Passando per gli esempi più celebri sino alle sperimentazioni di ibridazione praticate nella contemporaneità, non manca affatto un’interpretazione critica di questa evoluzione che annuncia la perdita di identità del grattacielo nei riguardi della sua capacità di costruire trama urbana. La Ciotoli, infatti, considera con attenzione il rapporto tra la tipologia del grattacielo e le diverse varianti della morfologia del tessuto di città diverse geogra camente e culturalmente, ne registra la deriva verso il ripiegamento in una dimensione di isolamento ed unicità, e ne mette in evidenza la problematicità. D’altra parte lo studio della tipologia, presa anche in considerazione come modalità di proposta di uno stile di vita, di una forma di aggregazione di funzioni pratiche e valori sociali e commerciali, è oggetto di un’analisi attenta e perspicace. Il volume presenta una considerevole quantità di illustrazioni, alcune delle quali niente affatto scontate. Si va dagli schemi dei tessuti, ai disegni emblematici degli autori, alle immagini delle opere costruite con ordine e pregnanza di signi cati nella redazione del testo. La bibliogra a è vastissima e ben organizzata per offrire al lettore e allo studioso la possibilità di approfondire e ricercare a sua volta, dando continuità ad una indagine signi cativa di uno dei fenomeni più diffusi del nostro tempo. © Riproduzione riservata
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Chiesa di San Clemente e Zona Industriale di Padova. Foto di Stefanos Antoniadis, pilota drone Giacomo Bellussi (2021).
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Autori Giusi Ciotoli – Dottore di ricerca, Ricercatore Indipendente Marco Falsetti – Ricercatore postdoc, Università degli Studi di Roma La Sapienza Alberto Ferlenga – Rettore, Professore ordinario di Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Culture del Progetto, Università Iuav di Venezia Michele Caja – Professore associato di Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano Jean-François Lejeune – Full professor of Architectural design, Urban design, and History-theory, University of Miami Aleksa Korolija – Ricercatore postdoc, Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano Cristina Pallini – Professore associato di Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano Andrea Bulleri – Ricercatore postdoc Donatella Scatena – Ricercatore universitario in Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Architettura e Progetto, Università di Roma La Sapienza Olimpia Niglio – Professor of History of Architecture and Architectural Restoration, Hokkaido University, Graduate School of Humanities and Human Sciences, Sapporo Lucio Altarelli – Professore ordinario di Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Architettura e Progetto, Università di Roma La Sapienza Marco Maretto – Professore associato di Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Ingegneria e Architettura, Università di Parma Mickeal Milocco Borlini – Ricercatore postdoc, Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura, Università di Udine Lorenzo Gaio – Dottore in Architettura, Università di Udine Giovanni Tubaro – Professore Associato di Produzione Edilizia, Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura, Università di Udine Marco Cadinu – Professore associato di Storia dell’Architettura, Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura, Università di Cagliari Stefano Mais – Ricercatore postdoc, Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura, Università di Cagliari Federica Bosello – Communication Manager e socia professionista Federazione Relazioni Pubbliche Italiana Stefanos Antoniadis – Ricercatore postdoc, Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale, Università di Padova Ghisi Grütter – Professore Associato di Disegno, Dipartimento di Architettura, Università Roma Tre Nabila Dwai – Ricercatore postdoc, Antioch Syrian University Luigi Siviero – Ricercatore postdoc, Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale, Università di Padova Roberto Secchi – Professore ordinario di Composizione architettonica e urbana, Dipartimento di Architettura e Progetto, Università di Roma La Sapienza
Questo numero è stato curato da Pina (Giusi) Ciotoli, Dottore di ricerca Ricercatore Indipendente e Marco Falsetti, Ricercatore postdoc Università degli Studi di Roma
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