Il collettivo Stramonium presenta
Triple ••• Moon Triple Moon è un incontro ricorrente che si propone di sperimentare diversi metodi di ricerca iniziatica, attraverso la diffusione di pamphlet, riflessioni, musica ed immagini, lasciando al singolo la libertà di scegliere il proprio percorso spirituale, bandendo una volta per tutte elitarismo e specialismi. Non la banalizzazione di ciò che rimane nascosto ai più, ma un semplice invito a guardare tra le righe della realtà.
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Due predatori, un solo territorio Da cosa nasce il particolare rapporto che gli esseri umani hanno fin dai tempi antichi nei confronti del lupo? Quali sono le motivazioni che hanno portato queste due specie animali ad avere un rapporto così intenso e complesso, indipendentemente dalle epoche, dalle culture e dalle zone geografiche? Del ritorno dei lupi su alcuni dei territori italiani dai quali era stato cacciato fino alla scomparsa se ne è parlato molto di recente, ma invece di procedere verso un azione di ripopolamento le discussioni più accese sono legate ai problemi rispetto al bestiame. Le lamentele ed i timori dei pastori che pretendono di poter lasciare le loro pecore al pascolo senza controllarle minimamente vengono rafforzate dalla paura ancestrale di possibili attacchi all’uomo, un pensiero scaturito più da credenze e da superstizioni radicate ormai da secoli nella cultura popolare che da fatti reali. Facendo delle ricerche mi sono reso conto di quanto esseri umani e lupi siano simili, sia a livello sociale che comportamentale. Che sia forse questo il motivo che sta alla base del particolare rapporto tra le due specie? I branchi di lupi allo stato naturale sono composti da “famiglie” formate da una coppia e dai cuccioli che rimangono con i genitori fino ai tre anni circa. Il branco medio può essere composto da 5 a 11 animali di cui 2 adulti, 3/6 adolescenti e da 2/3 cuccioli. A volte può capitare che alcune “famiglie” si uniscano formando così un branco più ampio. Raggiunta la maturità sessuale, i lupi cresciuti tendono a lasciare la “famiglia” per provare a creare un nuovo branco, di solito fondato da un maschio e una femmina non imparentati, che viaggiano insieme andando alla ricerca di una zona non occupata da altri branchi. Normalmente i branchi non adottano altri lupi, anzi, possono arrivare persino ad uccidere gli intrusi. Nei rari casi in cui un esemplare viene adottato, quasi sempre si tratta di un animale immaturo di 1/3 anni che non può fare concorrenza con la coppia dominante, oppure in alcuni casi un lupo “straniero” riesce ad inserirsi nel branco per rimpiazzare un membro defunto della coppia dominante. Il lupo, proprio come gli esseri umani, è un animale estremamente territoriale che ama conquistare territori molto più grandi del necessario per sopravvivere, assicurandosi così un rifornimento di cibo sicuro e difendendo il proprio territorio dagli altri branchi attraverso il rilascio di una combinazione di tracce odorifere come urina, feci e feromoni oltre che con attacchi e ululati. Tendono ad abbandonare il loro territorio solo nel caso di tremende carestie. Il lupo è generalmente monogamo e le coppie possono rimanere insieme anche per tutta la vita; nel caso in cui un elemento della coppia morisse, l’animale superstite è solito trovare facilmente un rimpiazzo. Esiste anche la possibilità che un lupo maschio non riesca né a stabilire un territorio, né a trovarsi una compagna; questi lupi, chiamati dagli etologi lupi Casanova, usano accoppiarsi con le figlie di coppie
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dominanti di altri branchi ma, a differenza degli altri maschi, i lupi Casanova non formano legami permanenti con le femmine con le quali si accoppiano. Nelle prime settimane di primavera, dopo la nascita dei cuccioli, le madri non lasciano la tana e contano sul padre sia per il proprio sostentamento che, soprattutto, per quello dei cuccioli. I piccoli iniziano a nutrirsi di cibo solido dopo 3/4 settimane, questo è un periodo importantissimo per la loro istruzione ed il loro addestramento dato che finalmente hanno inizio i “giochi”, composti piccole ed innocue zuffe. Nei primi quattro mesi di vita il loro peso aumenta di 30 volte e già in autunno i cuccioli sono abbastanza maturi per accompagnare gli adulti a caccia. Ma come possono comunicare ed essere così organizzati? Bè, data la sua natura gregaria, il comportamento espressivo del lupo è molto intenso e complesso. Il linguaggio del corpo consiste in una varietà di espressioni facciali e movimenti con significati precisi. I lupi alpha, per esempio, si muovono lenti e sicuri, con i peli eretti e lo sguardo fisso, attento; gli esemplari sottomessi invece tendono ad mantenere il corpo basso e l’andamento furtivo, i peli lisci ed orecchie e coda abbassate. All'arrivo dell’animale dominante, il lupo sottoposto si china permettendo così al capo di annusargli i genitali. Esiste anche una particolare forma di saluto in cui il lupo sottomesso si avvicina al dominante e mantenendo una postura bassa gli lecca il muso. Diagramma di Konrad Lorenz, dal basso all'alto: incremento di paura; sinistra a destra: incremento di Un altra forma di linguaggio fondamentale è aggressione; destra in alto: massimo di entrambi. l’ululato; utilizzato per radunare il branco, avvertirlo di un pericolo o per comunicare a lunga distanza. In certe condizioni i loro ululati possono essere sentiti entro un territorio di 130 chilometri quadrati! L’ululato dei maschi ha l’estensione di un'ottava, mentre le femmine producono un suono più “nasale”. I cuccioli tendono a ululare verso il primo anno di età. Gli ululati che vengono usati per concentrare il branco verso una preda sono prolungati, durante l'inseguimento invece, proprio come fosse un grido di battaglia, l’ululato emesso ha un timbro più alto, che vibra su due note. Quando ululano insieme, i lupi riescono ad armonizzarsi su una sola nota. Questa strategia viene utilizzata per creare l'illusione di essere un gruppo più grande di quello che è in realtà. I lupi quando sono soli tendono ad evitare di ululare in zone che contengono branchi già consolidati. Proprio come il linguaggio umano, gli ululati possono variare geograficamente: quelli dei lupi grigi europei per esempio sono più melodici e prolungati rispetto a quelli dei lupi nordamericani, più forti e con un'enfasi sulla prima sillaba. Le altre vocalizzazioni sono normalmente divise in tre categorie: ringhi, latrati e gemiti. I lupi non abbaiano continuamente come i cani, ma solo in casi di pericolo. I ringhi sono emessi soprattutto durante litigi per il cibo o durante i giochi. I gemiti invece sono sintomo di curiosità o paura.
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Tutte queste peculiarità, oltre che la spiccata intelligenza e l’organizzazione, sono state caratteristiche determinanti per il ruolo che la società umana ha affibbiato alla figura del lupo all’interno delle tradizioni, creando così un’immagine fantasiosa e leggendaria di questo schivo e misterioso animale. In Giappone, gli agricoltori veneravano i lupi e lasciavano offerte vicino alle loro tane, pregandoli di proteggere i loro raccolti dai cervi e dai cinghiali; nella mitologia scandinava il gigantesco lupo Fenrir è uno dei figli dei dio Loki ed il Sole è costantemente inseguito dal lupo celeste Sköll. Per gli antichi greci e romani, il lupo era associato al dio Apollo, inoltre fu proprio una lupa ad accudire ed allattare Romolo e Remo, rimasti orfani. I galli, dal canto loro, collegavano la figura del lupo con Belanu, dal cui nome potrebbe derivare dalla parola bretone per lupo; bleiz. Sia Apollo che Belanu sono divinità solari. Il lupo era venerato anche dai Daci, il cui nome deriva dalla parola gallica “daoi”, ovvero «popolo lupino». I Daci sostenevano che il lupo fosse signore di tutti gli animali, unica e vera protezione contro il male. Nella mitologia Pawnee il lupo fu il primo animale a subire la morte, mentre altre culture nordiche e indigene americane associano il lupo alla stregoneria; i Navajo ad esempio temevano molto i lupi credendoli streghe travestite. Nella religione tengrica, il lupo ha un estrema importanza in quanto è considerato l’unico animale, oltre l'uomo, a venerare Tengri pregandolo attraverso gli ululati. Con lo sviluppo del cristianesimo dell’età medievale il comportamento reale del lupo, così schivo, furtivo e quasi invisibile viene soppiantato da un terribile alter-ego artificiale che associa al lupo delle caratteristiche estremamente negative. La bibbia associa sempre i lupi a simboli di avarizia e di distruzione, del resto gran parte del simbolismo nel nuovo testamento è basato sulla cultura pastorale del popolo di Israele e Gesù paragona la sua relazione con i discepoli a quella di un buon pastore che protegge le sue indifese pecore dai feroci e violenti lupi. Persino i falsi profeti vengono associati ai lupi, spesso travestiti da pecore. Dante utilizzò una lupa per rappresentare l'avarizia e la cupidigia nel primo canto dell'Inferno. Nelle credenze popolari i lupi sono capaci di rendere muti gli uomini con uno sguardo e possono succhiare il sangue dal collo delle loro vittime, inutile dire che queste sono tutte cialtronerie nate, oltre che dalla paura, anche dalla pretesa che il lupo accetti silenziosamente un ruolo di sottomissione naturale all’uomo. Secondo il Malleus Maleficarum, pubblicato nel 1487, i lupi sono agenti di Satana inviati con l’appoggio di Dio come punizione contro il peccato, animali ingannevoli e subdoli che hanno per scopo quello di mettere alla prova la fede dei credenti. La predazione del bestiame divenne, ed è ancora oggi, uno dei motivi principali dello sterminio dei lupi, creando seri problemi per la conservazione della specie. Gli abbattimenti ed i pericolosissimi bocconi avvelenati continuano ad essere all’ordine del giorno nonostante certi paesi cerchino di mitigare la rabbia dei pastori per le perdite economiche causate dai lupi con programmi di compensazione o di assicurazione statale. Gli animali domestici sono prede facili perché non conoscono
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comportamenti di difesa naturali ed i lupi, predatori di natura, tendono ad attaccare il bestiame quando le prede selvatiche sono estremamente ridotte. In una società che dall’alto-medioevo ad oggi non ha fatto altro che rubare irrispettosamente spazi alla Natura, disboscando foreste, cacciando per sport e creando spazi che potessero essere adatti al pascolo, all’agricoltura, ma soprattutto a strutture urbane come ferrovie e strade asfaltate, non c’è da stupirsi che specie animali come i lupi, che hanno lo stesso identico nostro diritto di vivere su questo pianeta, non avendo più spazi o prede naturali iniziassero ad avvicinarsi alla società dell’uomo, animale che solitamente i lupi tendono ad evitare più di ogni altro. Mirko Void Fonti: gli studi di Luigi Boitani oltre che lo splendido documentario "Sulle Tracce del Lupo Italiano" di Marco Visalberghi e Ugo Adilardi
789 e la risata dei maestri zen La risata è il riflesso di un'emozione profonda ma sfuggente, difficilmente definibile e perciò vittima di pregiudizio in ambito sacro, in particolare da parte delle tradizioni spirituali monoteiste. Come ci suggerisce Eco ne Il nome della rosa, il riso è qualcosa di proibito per chi si occupa di religione: è essenzialmente una distrazione, un'antitesi rispetto alla serietà del sacro, un'offesa nei confronti della verità. Questa ostilità non appare nelle religioni politeiste. Un esempio ne è sicuramente la vivace spiritualità dell'antica Grecia, per molti aspetti simile a quella giapponese antica. La mitologia di quest'ultima associa spesso il riso alla trasgressione, come nel famoso episodio in cui la dea Uzume danza ridicolizzandosi per scatenare la risata degli altri dèi davanti alla grotta in cui si era nascosta Amaterasu, dea del sole, e spingerla così ad uscire per la curiosità e riportare la luce sulla terra. Tornando alle religioni monoteiste, si può notare come all'uomo sia permesso seguire Dio, arrabbiarsi direttamente con Dio, sfidare Dio, lottare fisicamente con Dio, ma non si può mai ridere di Dio. Né Dio ride mai. Gesù mostra tutti i suoi sentimenti: rabbia, tristezza, paura; ma nei vangeli canonici non viene mai ritratto in una risata. Noi immaginiamo la sua gioia quando si trova in compagnia, ma nel momento in cui gli evangelisti si trovano a dover descrivere queste scene, non osano. Come se fosse un gesto troppo umano per un'entità superiore. E il Buddha rideva?
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Questa semplice domanda ha aperto un enorme dibattito, ma la risposta che sembra prevalere è che non sia da escludere. Nel IV secolo è stata stabilita a questo fine una scala a sei stadi del riso, per giustificare il Buddha senza sottrargli valore. “Secondo Srila Rupa Gosvami, il riso accompagnato da amore estatico si manifesta in sei modi che corrispondono alle diverse intensità dei sorrisi, che la lingua sanscrita definisce smita, hasita, vihasita, avahasita, apahasita ed atihasita. Il sorriso che non lascia apparire i denti, ma provoca una netta trasformazione degli occhi e dalle guance, è definito smita. Il sorriso in cui i denti si vedono appena è detto hasita. Si chiama vihasita il sorriso in cui i denti sono visibili distintamente. Quando, nel sorriso, le narici si dilatano e gli occhi luccicano un po', si tratta del sorriso avahasita. Quando il riso scuote le spalle e si mischia alle lacrime si chiama apahasita. Quando, sotto l'effetto del riso, si battono le mani e si salta di gioia, questo riso si chiama atihasita, cioè riso incontenibile” (tratto da “Bhakti-Rasamrta-Sindhu”, Rupa Goswami)
I primi due stadi sono considerati più consoni, più alti a livello spirituale, in quanto silenziosi e quasi impercettibili; gli ultimi due sono al contrario l'antitesi dell'esperienza mistica. Si ammette che il Buddha avesse riso da giovane, ovvero quando si trovava nel mondo, ma dal momento in cui ne esce, questo diritto gli è negato. Nella scuola Zen in particolare, il riso è un'esperienza fondamentale: i maestri affermano che senza di essa non può esistere una vera illuminazione. Leggenda vuole che l'origine stessa della corrente Chan –antecedente dello Zen e sua corrispondente cinese– sia determinata da un sorriso, quello di Mahākāśyapa. “Quando il Buddha si trovava sul monte detto Picco dell’avvoltoio per fare un discorso, girò un fiore tra le sue dita e lo mostrò all’assemblea. Tutti rimasero in silenzio. Solo Mahākāśyapa si aprì in un sorriso a questa rivelazione. Allora il Buddha disse: «Io ho l’occhio del vero insegnamento, il cuore del Nirvana, il vero aspetto di ciò che non ha forma. Esso non è espresso con parole, ma trasmesso in modo speciale al di là dell’insegnamento. Questo insegnamento lo ho dato a Mahākāśyapa»” Molti grandi maestri Zen hanno capito e amato il riso come percezione più profonda del vero, in antitesi con una spiritualità più composta e radicale ma meno autentica. Su Bodhidharma, il celebre monaco che meditò per nove anni all'interno di una grotta fino a perdere l'uso delle gambe, oltre alle lodi si ricordano anche le critiche: “Bodhidharma è santo, e avrà anche la suprema sapienza, ma non può giocare, perché chiuso nella sua caverna. Non può danzare, perché ha perso l'uso delle gambe. Non può ridere, perché non vede al di là della parete di meditazione.”
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Esistono numerosi ritratti di Bodhidharma, inizialmente abbellito come idolo e poi nel tempo sempre più semplificato e ironizzato, quando subentra la consapevolezza che egli in realtà si discosta dallo spirito buddhista, che dovrebbe spingere i discepoli ad allontanarsi dal maestro per cercare la propria via e divenire così maestri di se stessi. Venerare qualcuno porterebbe ad una dipendenza spirituale inconcepibile per il buddhismo, che è essenzialmente liberazione dalla condizione umana. Al contrario, Ikkyū Sōjun può essere ingenuamente considerato l'anti-modello, l'opposto rispetto a Bodhidharma, che in seguito ad una vita trascorsa in meditazione in un tempio appartato, all'improvviso decide di darsi alla trasgressione più totale: si trasferisce in città, frequenta bordelli, si ubriaca, perde credibilità e ammirazione. Tutto ciò per dimostrare che perseguire l'illuminazione vivendo unicamente nel bene è facile, ma provare il male –che non coincide con il male morale delle religioni occidentali, ma si identifica con le illusioni del mondo– e sapervi rinunciare rappresenta il vero ostacolo. “Non si può dare speranza senza provare la disperazione, e allora capirete che speranza e disperazione sono la stessa cosa” (Ikkyū Sōjun)
I monaci sanno benissimo che il riso può essere terribile, sadico, morboso o cinico, perché nulla è univoco, ma è soprattutto una via per l'emancipazione. Non un modo per evitare le responsabilità, ma un momento di autoindulgenza. “Quando l'uomo saggio sente parlare della Via, ascolta, la comprende, e cambia la sua vita. Quando l'uomo mediocre sente parlare della Via, ascolta, forse la comprende, ma non cambia la sua vita. Quando l'uomo sciocco sente parlare della Via, non ascolta ma ride. Lascialo ridere, perché anche questa è la Via.” (tratto dal Daodejing)
“Siedo come il Buddha ma nel mio Nirvana sono punto dalle zanzare” (Otomo Oemaru)
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“Un giovane monaco chiede al maestro: «Qual è il significato della verità del Buddha?» Il maestro si strofina le mani e scoppia a ridere” “L'abate ha commentato a fondo il sutra, dall'inizio fino all'ultima riga. È stato come mettere un cappello sotto un altro cappello, sopra una testa che non c'è.” “Anche se i maestri non predicano la dottrina, i fiori sbocciano lo stesso in primavera, e poi appassiscono, e si perdono nel vento” Il riso si rivela un modo per non cadere nella tentazione narcisistica della perfezione e nell'illusione del proprio io. I maestri ridono della pedanteria della ragione, dell'aspirazione umana ad una verità che non è realmente percettibile, né in una misera vita quotidiana né nella più rigorosa analisi dei sutra. Essendo impossibile costruire un discorso razionale sulla verità, la risata è l'unica risposta, nonché la più umile emancipazione dall'ineffabile.
Marilyn Pastis questo articolo è fortemente ispirato dalla conferenza omonima tenuta dal professor Massimo Raveri in data 9 maggio 2016 presso l'Università di Bologna.
2 Dialogo sull'estetica e sul giudizio “Non le dice niente?” Di fianco a lui, una donna di trent’anni indicava con aspettativa un bidone dell’immondizia nero opaco. Sradicato dalle sue fondamenta di cemento, il bidone giaceva abbandonato di fianco al sentiero di ghiaia che si introduceva nel parco ormai immerso nella nebbia serale. “No, affatto. È un bidone.” “Possibile che non riesca a vedere oltre le cose? E che mi dice di quello?” Il nuovo soggetto dell’interesse della donna era un ragazzo che, avvolto in una giacca di cotone, stava attraversando a passo veloce il marciapiede sotto la luce dei lampioni, stringendosi i lembi di tessuto sul petto per limitare l’umidità che vi filtrava attraverso. “Quello è un passante.”
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L’uomo stava palesemente simulando una poco convincente ottusità, e se ne rendeva conto; cionondimeno, riteneva che la parte che si era assegnato fosse appropriata ed anzi, si inseriva bene in quell’improvvisato teatrino privo di spettatori. In fondo, le argomentazioni della donna non erano più sensate del suo ostinato inibire la comunicazione. A quanto pareva, chiunque a parte lui era in grado di leggere qualsiasi manifestazione materiale del mondo con la stessa precisione degli antichi auguri latini: ogni piccolo gesto o scelta estetica dell’uomo nascondeva un universo di ideali e comportamenti che, come in una mentalità collettiva, erano infallibilmente ed univocamente compresi da qualsiasi osservatore. Gli oggetti, passivi veicoli della volontà umana, portavano su di essi il marchio dell’azione creatrice divenendo memento di istanti e messaggeri dall’aldilà irraggiungibile dei ricordi altrui; nello stesso istante in cui l’oggetto diventava espressione diretta dell’uomo, l’uomo diventava proiezione univoca degli oggetti ad esso collegati e passivo veicolo del messaggio. Ora, come in ogni teoria, gli ideali della donna non erano completamente errati. In fondo, anche lui era convinto che dietro ogni azione dell’uomo ci fosse un’intenzione. Lo riteneva ragionevole, quantomeno. Ciò che la donna gli rimproverava - e che lui tendeva a rifiutare - era più fine: lui non coglieva i messaggi delle cose, né li cercava. Come se dietro ogni oggetto, in una visione quasi animistica, si nascondesse un piccolo scorcio dell’iperuranio. La donna sembrava convinta che ogni uomo avesse il dovere morale - o l’abilità innata - di cercare e cogliere i segni dell’arte e del simbolismo nella sua vita, per farsi guidare da essi nella ricerca dell’Essenza. Baggianate, pensò. Un moto di violenta ira verso la donna lo assalì velocemente, mentre le controargomentazioni si accavallavano nella sua mente. Perché gli voleva ad ogni costo affibbiare un compito così gravoso, arrivando al ricatto di additarlo come essere incompleto se lui si fosse rivelato inadeguato? Non era forse evidente che una ricerca di questo tipo fosse squisitamente elitaria? Lui era un esempio lampante di essere umano escluso dalla caccia alla verità: non avrebbe dovuto forse essere, questa, fruibile da chiunque in quanto essere umano ad essa naturalmente convocato? L’esistenziale negativo, con la potenza inflessibile della logica matematica, contraddiceva l’universale positivo rendendo la teoria della donna un assurdo indimostrabile. Ed ancora, l’interpretazione del sensibile che lei sembrava ritenere così evidentemente oggettiva, nell’oggettiva realtà non lo era affatto. Lui capiva bene che lei percepiva nel bidone un senso di sconsolato abbandono e passivo subire l’ignoranza altrui, che lo avvicinava concettualmente ad una certa figura famosa del Nuovo Testamento cristiano; eppure, non aveva considerato che per ogni Cristo crocifisso c’era un Barabba liberato. L’autore dell’opera d’arte urbana probabilmente avvertiva nel bidone sacrificale l’esaltato senso di liberazione del fedele unto dal sangue degli Dei, o la pia tranquillità dell’orante che aveva versato l’obolo al santuario. Oppure, più probabilmente, una inconsapevole insofferenza. Doveva forse lui, in quanto dotato di sensibilità, farsi carico della colpa delle cose? Velocemente com’era arrivata, l’ira si spense in un piccolo sospiro. In fondo, la donna non aveva colpa - e di cosa poi? Lei aveva semplicemente una spiritualità
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diversa, una in cui ogni cosa era foriera di un messaggio e di un atto. Lui, al contrario, era convinto profondamente dell’innocenza delle cose. Essendosi elevato ad avvocato della deresponsabilizzazione, portava con sé l’ideale del diritto universale alla non comunicazione, al non giudizio e, in definitiva, all’oblio. In fondo, se si ammetteva un significato univoco per ogni oggetto del mondo sensibile, si ammetteva implicitamente la possibilità che una composizione - un’opera d’arte, un codice di abbigliamento, anche semplicemente il colore del muro di casa - potesse trasmettere un messaggio diverso da quello inteso. Si ammetteva, in definitiva, la stessa contraddizione di un messaggio univoco ma fraintendibile che distingue la filosofia dalla religione, e lui riteneva insensato battersi per sostenere la propria religione. Avendo infine maturato la tanto desiderata apatia nei confronti delle opinioni della donna, emerse dalla sua trance interiore per chiudere quello strano doppio monologo. La sua interlocutrice era però scomparsa, come se a darle forma fosse stata la sua iniziale apertura nei confronti delle idee altrui. Sentendosi in parte liberato ed in parte risentito, emise un altro sospiro - surrogato della risposta che stava prendendo forma - e si incamminò placidamente verso casa, superando un bidone che era solo un bidone, attraverso un parco che era solo un prato alberato con qualche sentiero in ghiaia, sotto una luna che era solo un satellite roccioso illuminato da luce riflessa. Jacopo Freddi
1 Dello sciopero degli studenti parigini, o della possibilità di ottenere qualcosa in tempi non sospetti.
"Au vent qui sème la tempête Se récoltent les jours de fête." (Raoul Vaneigem)
Un marzo parigino del 1229, il freddo pungente dell’aria mentre le folle riscaldano le strade con quelle festanti ritualità per il martedì grasso che la Chiesa non riesce del tutto a capire. Fra queste masse in festa si distinguono un gran numero di ubriachi e scherzosi "tricksters" ebbri di alcool e giovinezza: sono gli studenti dell'Università di Parigi, fondata alla metà del dodicesimo secolo e una delle più antiche d'Europa. Sotto il controllo delle autorità ecclesiastiche locali, questi giovani studenti giunti da tutta Europa si sentono al sicuro dalle violenze delle leggi statali, pagando però il prezzo di un insegnamento castrato, ove una grande quantità di autori -Aristotele in primis- sono espressamente proibiti.
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La repressione e i severi insegnamenti non riescono mai a contenere del tutto il desiderio di libertà selvaggia, che quest'oggi esplode nella strade della città. In un'osteria alcuni studenti si rifiutano di pagare all'oste il conto salato che egli porge loro, ne nasce una rissa in cui i giovani hanno la peggio e, mentre la città si addormenta, essi si ritirano doloranti nelle camere dell'università a cospirare con i compagni. Mercoledì delle ceneri: il popolo si appresta a smaltire la sbornia nelle Chiese, i preti pregano, i nobili ingrassano, i poveri muoiono di fame e freddo. Tutto va come dovrebbe andare. Un nutrito gruppo di studenti si dirige armato di bastoni e mazze verso l'osteria dove la sera prima erano stati malmenati i compagni e, dopo averla ridotta in macerie, debordano per le strade distruggendo una gran quantità di esercizi commerciali. Talvolta la sommossa non necessita di validi motivi per scoppiare, talvolta è solo indice di una volontà di vivere troppo a lungo repressa: pazzi quei preti e quegli insegnanti che credono che il sapere tenga seduti, innocui, sopiti. Il cancelliere del reame francese, Blanche di Castiglia, saputo della rivolta si scaglia contro i responsabili ecclesiastici dell'università; impauriti e timorosi di una rappresaglia che possa togliere loro i privilegi sulle imposte, questi ultimi acconsentono a scatenare le guardie reali per punire e reprimere gli studenti. Quella stessa sera, un gruppo di giovani dell'università viene accerchiato dalle guardie, che cominciano a colpirli con ferocia. Finita la mattanza, due adolescenti non si rialzano più. Il giorno dopo, in accordo con gli insegnanti, comincia lo sciopero: l'università viene occupata, le lezioni completamente bloccate. Studenti e maestri chiedono di farla finita con le violenze sbirresche, di poter usufruire di un insegnamento più libero, senza le continue censure della Chiesa, di poter essere autonomi tanto dal potere religioso che da quello secolare. Dopo un primo momento di occupazione, l'università viene completamente abbandonata. Lo sciopero continua per due anni, studenti e maestri si trasferiscono o si guadagnano da vivere con i lavori più disparati, ma non cedono di un passo dalle loro richieste. Per due anni l'università rimane vuota, e la città subisce ingenti danni economici. Nell'aprile del 1231, dopo estenuanti negoziati, Papa Gregorio X capitola ed emana la bolla "Parens Scientiarum" (madre delle scienze), dove limita ulteriormente il dominio del cancelliere sull'università, ponendo sotto la sua diretta protezione i suoi abitanti, e dà una notevole autonomia nella vita interna alla scuola, lasciando agli insegnanti gran parte delle decisioni relative all'ordinamento scolastico. L'abitudine alla sopravvivenza viene annichilita anche in tempi non sospetti grazie a due anni di determinazione, mostrando come, slanciandosi oltre la rassegnazione del quotidiano, sia possibile conquistare quelle vittoria che rendono la vita degna di essere chiamata tale. "E all'aurora, armati di ardente pazienza, entreremo nelle splendide città". Luca Andalou
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e la lotta per la loro terra Il 27 Aprile, in occasione dell'annuale incontro degli azionisti della General Electric, rappresentanti e attivisti degli indigeni della foresta amazzonica Munduruku si sono presentati per discutere dei progetti distruttivi della compagnia che comprendono la realizzazione di dighe idroelettriche nella regione del Tapajós. Il fiume Tapajós sfociante nel Rio delle Amazzoni scorre per 2,291 km e dal suo scorrere dipendono le vite delle comunità indigene oltre che delle specie animali da esso ospitate, tra le quali il raro delfino rosa. Cinque di quelle dighe sono già in cantiere, la più grande di 729 chilometri quadrati. Adalto Jair rappresentante dei Munduruku dice "Siamo venuti qui per parlare con la leadership del GE e incontrare chi vuole trarre profitto dal trasferimento di migliaia di persone dalla nostra terra natia contro la nostra volontà, distruggendo il nostro ambiente naturale". I Munduruku si stanno muovendo per discutere con tutte le compagnie che hanno il potere decisionale riguardo a progetti di costruzione di dighe: Andritz e Siemens ne sono un esempio. La Fondazione Nazionale dell'Indio (FUNAI), che su carta si pone come associazione di tutela verso le terre e la cultura dei popoli indigeni, ma di fatto spesso le pratiche tendono ad essere rimandate, mobilitando le popolazioni che ricorrono ad occupazioni per sollecitare il riconoscimento loro legittimo delle terre, siano comunque riuscite a porre delle fondamenta legali per richiedere la sospensione della diga più grande, la São Luiz do Tapajós, tracciando dei confini di territorio per i Munduruku. Sawre Muybu è il nome degli oltre mille chilometri quadrati riconosciuti ai Munduruku, perché purtroppo non è sufficiente l'autoctonia, ma è necessario continuare a porre nomi e confini che rispecchiano solo il triste profitto dello stato e di nomi come GE. Il Brasile aderisce alla Convenzione 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sui diritti dei popoli indigeni nella quale si cita la tutela dei loro valori. I Munduruku dichiarano: "Il fiume e la foresta sono la nostra vita: sono parte della nostra famiglia, e come tali ci appartengono. Se il fiume Tapajós venisse arginato e le terre vicine allagate, noi perderemmo la nostra più importante fonte di sostentamento, il nostro principale mezzo di trasporto e il pilastro fondamentale della nostra cultura." I Munduruku sono circa 11.630 individui, parlano la lingua Munduruku della famiglia delle lingue tupi, vivono in 22 villaggi negli stati di Pará e Amazonas. Secondo i loro miti di origine, essi sono emersi dal ventre della terra
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per abitare sopra il suolo, con l'ausilio di Karosakaybo, il dio creatore di tutte le persone e gli animali, che ha spinto il ventre con il suo piede permettendo ai suoi discendenti di uscire dall'oscurità. Karosakaybo viveva indipendente e autosufficiente nella foresta, impiegando piume e ossa di uccelli per ogni atto di creazione, trasformandosi a volte lui stesso in diverse specie. Era un ottimo cacciatore e agricoltore. I Munduruku utilizzano le piume degli uccelli come ornamento, come per esempio nei copricapi, perché indossare piume specialmente sulla testa porta loro attributi divini. Diverse specie di uccelli sono associate a spiriti che danno nome ai clan dei Munduruku. Fino al 1940, quando la pratica era ormai quasi estinta, erano la comunità indigena più tatuata del Sud America. Tradizionalmente, a sei anni si praticavano i primi tatuaggi per terminarli dieci anni dopo, quando la maturità veniva raggiunta sia dagli uomini che dalle donne. I tatuaggi consistevano in fini e distanziate linee parallele verticali, a motivi che ricordavano il piumaggio di un volatile, delle linee orizzontali sul torso e sul seno, mentre intorno agli occhi una singola linea ad ellisse e dalle orecchie alla bocca linee semicurve che riempivano il volto. Uomini e donne svolgevano il ruolo di tatuatori utilizzando spine di palma e diversi pigmenti, dopo aver forato la pelle, il succo di genipa veniva cosparso sulla zona interessata per rendere il tatuaggio indelebile. Il nome Munduruku (anche se il nome utilizzato da loro per identificarsi è Wuyjuyu) significa "formiche rosse" in riferimento alla loro antica tattica di attacco in massa; i teschi dei loro nemici venivano mummificati e tenuti come teste trofeo dalle proprietà magiche. L'organizzazione sociale dei Munduruku si basa sull'esistenza di due metà esogamiche, identificate come la metà bianca e la metà rossa, ci sono circa 38 clan divisi tra le due metà, la discendenza al clan è ereditata di padre in figlio. Kirixi, Akai, Saw alcuni nomi di clan della metà bianca; Kabá, Tawé, Wako di quella rossa. I nomi dei clan corrispondono a diversi elementi della natura, come alberi, uccelli e mammiferi. Quando un uomo si sposa, e solo con una donna appartenente alla metà opposta alla sua, va vivere nella casa del padre della moglie aiutandolo a svolgere le attività legate alla manutenzione della casa come la pesca, la caccia e il lavoro, tra i quali l'estrazione della gomma. Dopo questo periodo che dura all'incirca fino alla nascita del secondo figlio, il marito costruisce una casa per la sua famiglia. Negli ultimi anni, tra le attività produttive dei villaggi si trova il lavoro nei siti di oro, nella regione dei fiumi Kaburuá e Tropas, dove si sfruttano le piccole grotte. La religiosità tradizionale dei Munduruku è ancora molto presente in tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche se sta subendo notevoli cambiamenti. Testimonianze degli anni 1950 spiegano come i Munduruku
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sedessero attorno al fuoco tramandandosi, da adulti a bambini, miti e storie, questa pratica è considerata estinta dal 1980. Gli sciamani hanno tuttora un ruolo fondamentale, di cura e di contatto con il mondo degli spiriti. Malattie e morte provengono dagli stregoni e dai caushi (oggetti infetti e maledetti) che diffondono gli stregoni, quando qualcuno si ammala o muore, lo sciamano identifica tra gli altri uomini del villaggio lo stregone, che sarebbe il colpevole. Solitamente il sospettato è un altro sciamano, poiché avrebbe i poteri per praticare la stregoneria. Sciamani e stregoni sono quasi sempre maschi. Se un individuo si sente depresso o malato si dice che abbia perso l'anima. Lo sciamano richiama l'anima perduta, incoraggiandola ad entrare dentro un teschio di tapiro per poi tornare al legittimo proprietario, queste pratiche non escludono comunque l'utilizzo di medicinali industriali quando necessario, che sostituiscono gradualmente sempre di più le vecchie tradizioni. Con il boom economico della gomma in Amazzonia, nel XIX secolo il territorio era sempre più frequentato, poi dal 1960 i coloni hanno cominciato a stabilirsi con delle aziende agricole cominciando a rovinare il terreno e a deforestare. Ci sono due missioni religiose stabilite in due villaggi, dal 1911 quella di São Francisco sul fiume Cururu; e dalla fine del 1960 la Baptist nel villaggio Sai Cinza, sul fiume Tapajós, ne sono derivate delle interferenze culturali e religiose per i Munduruku, anche se la maggior parte di loro non partecipa alle funzioni cattoliche e protestanti e non possono considerarsi convertiti. In passato i cristiani si sono sentiti in dovere di mettere in discussione le pratiche sciamaniche, ma ciò non ha comunque influito sulla vita religiosa dei Munduruku che hanno continuato a seguire le loro tradizioni senza dare a ciò importanza. Ci sono delle tradizioni che sono destinate a trasformarsi, ma l'appartenenza ad un luogo e il suo valore culturale è un fattore storico dal quale dipendono delle vite.
Kuro Silvia Fonti: Greenpeace, Povos Indigenas
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In copertina: • Arthur Rackham - Midsummer Night's Dream • Artemisia vulgaris to open the sacred area, juniper communis to gain protection, taxxus baccata to embrace death, hypericum perforatum to succeed and shine. BLUTTANZT Retro copertina: • Your concrete can´t stop the wild - BLUTTANZT bluttanzt.tumblr.com
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