Paesaggi
nelle Terre di Riso di Vino e d’Acque tra le Colline Novaresi e il Sesia La storia si fa territorio e impresa
Progetto di valorizzazione territoriale - Riso di vino e d'acque. Le Terre delle Colline Novaresi e del Sesia
Fare impresa Fare paesaggio Fare paesaggio Fare impresa
Segreteria di coordinamento - Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara Con il contributo di:
Sottoscrittori e partner del progetto:
Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara, Provincia di Novara, Comuni di Comuninrete: Barengo, Boca, Briona, Caltignaga, Carpignano Sesia, Cavaglietto, Cavaglio d'Agogna, Cavallirio, Cressa, Cureggio, Fara Novarese, Fontaneto d’Agogna, Ghemme, Grignasco, Landiona, Maggiora, Mandello Vitta, Prato Sesia, Romagnano Sesia, Sillavengo, Sizzano, San Nazzaro Sesia, Suno e Villata, Diocesi di Novara Ufficio Beni culturali, Ufficio Scolastico Provinciale di Novara, Ente di gestione delle Aree Protette della Valle Sesia, Ente di gestione delle Riserve Pedemontane e delle Terre d’Acqua, Museo Storico Etnografico della Bassa Valsesia, Università degli studi del Piemonte Orientale - Dipartimento di studi per l'Impresa e il Territorio, CSI Piemonte - Sede di Novara, Slow Food Condotta di Novara, Slow Food Condotta della Valsesia, Associazione culturale Progetto Tanzio, Scrinium-Amici dell'Archivio di Stato di Novara, UNPLI e Pro Loco locali, Consorzio Tutela Nebbioli Alto Piemonte, Fondazione Agraria Novarese.
In rete per valorizzare le Terre Progetto editoriale Piano di Valorizzazione Territoriale Riso di vino e d’Acque. Le Terre delle Colline Novaresi e del Sesia Coordinamento Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara Realizzazione grafica Linea Ribelle di Silvia Sacco Introduzione Paolo Castelnovi Realizzazione e redazione delle interviste Alessandro Barbaglia Barbara Bozzola Fotografie Mario Finotti Maurizio Tosi Archivio ATL della Provincia di Novara Cartografia Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara © Agenzia Turistica Locale della Provincia di Novara - PVT Riso di Vino e D’Acque. Le Terre delle Colline Novaresi e del Sesia - 2012
Il
nesso tra luoghi e imprenditorialità, si dice, fa unico il nostro paese. Ma non è una relazione facile e banale. Da una parte fin troppo spesso, per iniziare un’agiografia aziendale, si usano metafore come “....la sua culla è stata......”; “il suo sviluppo ha profonde radici in....”, ma senza mai approfondire. Viceversa nel buon senso comune non è presente la relazione inversa: si percepisce un positivo apporto delle aziende al territorio più che per il paesaggio per gli effetti sociali, per la ricchezza (o almeno il lavoro) che innescano. Anzi si da quasi per scontato che per avere ricchezza e lavoro si può sacrificare a cuor leggero un po’ di paesaggio: sono i primi che mancano sempre, mentre del secondo c’è ne è tanto che non si sa cosa farsene..... Insomma si accetta implicitamente che le attività aziendali siano un danno per l’aspetto del territorio, un male minore da contenere, un impatto di cui valutare gli effetti per mitigarli. Questo aspetto si è
radicalizzato negli anni, alla foto scandalosa del capannone nel campo si è affiancata quella dell’infrastruttura, del centro commerciale, fino a quella dell’agricoltura intensiva e omogeneizzante. La relazione tra paesaggio e impresa, che si configura nell’immaginario collettivo, è dunque quella di una madre che alleva un figlio poco riconoscente: i flussi positivi sembrano a senso unico o quasi. Le buone pratiche che vanno in senso contrario sono rare: bisogna cercare per trovare dove l’impresa trasforma il paesaggio in meglio, dove aumenta il senso di identità locale, dove ridisegna i luoghi in modo riconoscibile con soddisfazione, dove contribuisce sensibilmente a far dire a chi abita: questa terra è la mia terra. Questo dossier non è il primo, ma certo è uno dei più mirati tentativi di esplorare la relazione positiva tra imprenditorialità e paesaggio, e lo fa nello stretto di un territorio di confine, che non viene mai considerato come unità
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di paesaggio a se stante, proprio per il suo carattere di ecotono, di fascia di bordo alimentata dall’interazione tra sistemi forti e ben identificati, della collina o della pianura, della città o della natura. É una caratteristica, quella del territorio complesso e di bordo, che porta la percezione del paesaggio nel vivere quotidiano, diversamente da ciò che avviene a chi abita in territori omogenei, come la grande maggioranza di noi. Infatti chi abita in città, o in pianura, ha poche esperienze visive di un contesto diverso dal proprio, può rintanarsi in un sistema di riferimenti chiuso, privo di dialettiche interne. Al contrario chi abita su una collina che guarda la piana (o nella piana ma ai bordi della collina) si muove percependo continuamente un mondo diverso da quello dove sta, sporgendosi su panorami aperti. In questa terra “di mezzo” ciascuno relativizza il proprio stretto contesto, ciascuno sa che casa sua fa parte di un paesaggio visto da tutti: la visibilità fa diventare pubblico il proprio spazio quotidiano, fa assumere responsabilità nelle trasformazioni che si fanno nel campo e nel cortile, fa discutere nei bar del nuovo fabbricato in fondo alla strada. Ma non c’è solo l’aspetto del paesaggio ad alta visibilità: tra le piane e le colline novaresi la ricetta alchemica per l’impresa utile al paesaggio prevede alcuni altri ingredienti che vanno tenuti in conto. Si devono aggiungere certi caratteri strutturali del territorio e aspetti peculiari del comportamento collettivo e sociale che storicamente ha distinto le comunità abitanti. Intanto il territorio, dove la struttura fondamentale si può nuovamente raccontare nell’integrazione di coppie apparentemente antitetiche. Ad esempio il novarese, fatto di nicchie ma traversato da importanti connessioni sulle rotte storiche internazionali. Non sono terre dove si fatica ad uscire dal paese, a conoscere e a percorrere il mondo, a ospitare novità e ad integrare gente nuova. Soprattutto è fecondo e frequente il dialogo con le culture alpine e transalpine. La fascinazione sembra reciproca: la dolcezza delle colline e l’ampiezza dei panorami
cattura lo sguardo montanaro e viceversa lo splendore del Rosa e l’ebbrezza delle avventure in quota ammalia molti della piana novarese. Alla scala più locale è importante la relazione città-campagna: di nuovo ci troviamo in una fascia mediana che continua a giovarsi degli effetti di entrambe le polarità, mantenendo questa posizione bertoldesca attraverso secoli di trasformazioni radicali. Infatti i paesi millenari, allineati al piede delle colline e lungo i fiumi, continuano fieramente e nobilmente ad essere paesi, conservando la dimensione che consente a tutti di conoscersi e di dare del tu al sindaco, ad ogni casa di avere orto e giardino. Ma la modesta dimensione degli abitati non precipita gli abitanti in una posizione di marginalità rurale. Tuti si sentono a pieno titolo cittadini, e questo avviene in parte per la vicinanza con la città, per la facilità dei rapporti con gli apparati produttivi e di servizi di Novara. Ma in parte conta la rete dei centri, pur piccoli, ma vicini e a buona integrazione, con l’effetto di fruire di una città multipolare, agevolata dalla forte mobilità privata. Quindi da queste parti non si riscontra alcun complesso di inferiorità del cittadino paesano rispetto al cittadino urbano, ma semmai il contrario: qui prevale la sensazione di poter cogliere il meglio delle opportunità sia urbane che rurali, e l’abitudine a fruire di entrambi gli ambienti per indirizzare le proprie iniziative, come del freno e dell’acceleratore per guidare bene un’auto. Condizioni territoriali di questo genere si rilettono e si amplificano nei comportamenti imprenditoriali: è naturale, nel prendere decisioni strategiche, fare ricorso ai caratteri di fondo della propria cultura locale. Così la relazione feconda tra molti aspetti propri delle terre di mezzo si riflette in una inclinazione spontanea per le integrazioni. Qui l’imprenditore agricolo è solo di rado un puro coltivatore diretto, ma più spesso partecipa di una filiera di lavorazioni a monte o a valle della
produzione del campo, è attento ad integrare il proprio lavoro con le innovazioni delle tecniche produttive e delle strumentazioni tecnologiche più interessanti per qualificare il prodotto, ha un’attenzione per gli aspetti ambientali che in altre situazioni manca. La sintesi tra città e campagna si traspone naturalmente nella integrazione tra agricoltura e lavorazione del prodotto, tra campo e fabbrica. Ma questa abitudine porta da una parte a considerare l’agricoltura non come luogo della conservazione e della ripetizione, ma come pezzo di un meccanismo produttivo integrato, in cui la domanda “interna” (alla filiera produttiva) spinge continuamente a migliorare ogni parte a vantaggio dell’efficacia del processo complessivo. Quindi da una parte le produzioni agricole sono incentivate ad una modernizzazione sistematica, ma dall’altra la parte industriale della filiera subisce le regole sacre dell’agricoltura: pensa agli effetti sul lungo periodo e sull’intorno territoriale, segui tutte le fasi del processo produttivo, preoccupati di non consumare la risorsa. D’altra parte nella comunità paesana se si producono benefici si è onorati, se si fan danni le lamentele non tardano a farsi sentire: oggi come ieri il controllo sociale è trasversale premiando chi migliora e censurando chi peggiora la qualità della vita di tutti e di ciascuno.
paesistico possa essere addirittura positivo, e che l’intervento migliori ambiente e paesaggio. Le trasformazioni sono naturalmente sottoposte al giudizio degli abitanti, sfidano il senso comune del paesaggio, tendono a non offendere valori consolidati, qualche volta si impegnano a segnare positivamente i luoghi, a connotarli in modo che la comunità ne vada fiera, che le sue immagini vadano in copertina al giornale locale. Perciò il paesaggio che qui si indaga non ha nulla di romanticamente conservatore: è un paesaggio che si modifica perchè ospita l’innovazione tecnologica, è un pezzo del processo produttivo perchè ne è la materia prima o anche perchè semplicemente è l’abitazione di chi al processo lavora. Le imprese di questo dossier innescano processi trasformativi del paesaggio che tengono insieme qualche aspetto naturale e i segni della storia passata, amati perchè conosciuti da sempre o perchè ispiratori di idee creative, ma aggiungono ad essi i segni della nuova storia, del lavoro che continua a modificare l’immagine collettiva del territorio. Sono processi che avvengono nella consapevolezza della sovrapposizione tra luoghi produttivi e luoghi abitativi, e della loro visibilità da parte degli abitanti. Chiamiamo questa consapevolezza senso del paesaggio.
Su questi criteri etici di fondo si poggiano le strategie delle imprese incontrate nell’indagine, della filiera alimentare ma non solo. Alla base sta un’implicita sostenibilità delle iniziative, perchè si pensa “alla contadina”: le scelte sono per sempre, per durare, di studiano i cicli produttivi in tutti i passaggi, dalle risorse prime a quelle umane, ai rifiuti. Gli effetti sul territorio sono progettati e monitorati come se fossero nel cortile di casa: devono sporcare il meno possibile, anzi se possibile lo smaltimento feconda un bel giardino, un buon orto. Le nuove tecnologie sono misurate non per ottenere la massima quantità ma la migliore qualità, e tra gli aspetti qualitativi si conta anche che l’impatto ambientale e
Superiamo con questo dossier tutte le figurazioni e le metafore del paesaggio come un dato, un fatto da conservare come un’opera d’arte di una razza estinta, che aveva un estro e una creatività oggi perduti: cominciamo invece a studiare i soggetti e i contesti del paesaggio nel suo farsi, nell’atto sorgente in cui se ne produce il senso. Certamente il paesaggio non si fa a strappi, a colpi di acceleratore, non interessa cogliere l’evento, non ci si può affidare ad un episodio per modificare il territorio o lo sguardo di chi abita, come si illudono di fare i sindaci che incaricano archistar per aver segni di qualificazione del proprio territorio. Invece l’atto sorgente che ci interessa è la modalità di attenzione continua, di sorveglianza sulle infinite e quotidiane variazioni di percezione.
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É un atto sistematico, un processo che accomuna il produttore di paesaggio al contadino piuttosto che all’artista, e fa riconoscere come vero autore delle trasformazioni l’agente di un lavoro diuturno di accompagnamento di ritmi naturali congeniti nei luoghi, piuttosto che il progettista di un monumento ritenuto tanto più valido quanto più emerge, urla rispetto all’intorno.
Le storie d’impresa raccolte nella prima parte del dossier ci spingono ad una particolare attenzione al modo di fare, alle buone pratiche di relazione con il territorio. Le immagini seducenti della seconda parte ci spingono ad uno sguardo più libero e comprensivo delle relazioni tra nuovo e vecchio. Sono i due motori del senso attivo del paesaggio. Buon viaggio. Paolo Castelnovi
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Quando il territorio si fa azienda. E viceversa I - Azienda e territorio: anima e corpo di una stessa vita Finisce per essere un binomio a elica che si autoalimenta e gira al ritmo del sole, delle stagioni e dell’uomo: l’azienda è sempre anche un’interpretazione del paesaggio in cui innovazioni e sviluppi vengono collocati o da cui addirittura nascono. Ma non solo perché anche il territorio, il paesaggio, l’anima dei luoghi sono tutti necessariamente declinazioni, variazioni e modificazioni delle aziende che le abitano. Il rapporto tra azienda e territorio non è un dettaglio o un’alchimia che avrebbe potuto funzionare anche altrove: è un’identità necessaria. L’azienda è così perché è qui; ed è di successo perché è così. Il territorio, invece, è così perché lì c’è quell’azienda; ed è un territorio così perché così l’azienda ha contribuito a trasformarlo. Tutti i fenomeni da esportazione che conquistano i mercati globali senza scadere nell’omologazione hanno una radice da cui si alimentano, e quella radice è il territorio; è l’anima del territorio che sanno raccontare ovunque arrivino.
Tutti i territori che arrivano, a livello di idee e innovazione, in qualsiasi angolo del mondo lo fanno grazie ai propri frutti: e quei frutti sono le aziende. Ma perché tutto ciò funzioni il legame non è accessorio: è necessario. Diversamente sarebbe come domandarsi che aspetto avrebbe, e che prodotti genererebbe, una risaia adagiata nel deserto del Sahara: non solo non darebbe lo stesso riso, ma nemmeno darebbe riso. E l’azienda che investe in una follia simile non darebbe ricadute al territorio che non siano fallimentari. Insomma non ci sono dubbi: paesaggi e territori vanno studiati e analizzati quali personaggi e attori stessi dell’azienda; ingredienti di quel successo. E viceversa. In questa indagine fatta di parole, nel chiederci e domandarci quale sia, allora, il rapporto che intercorre tra territorio e azienda, siamo finiti a schematizzare per metafora un discorso che è inevitabilmente molto concreto: l’azienda e gli imprenditori (leggasi le aziende) sono un corpo che respira e si nutre di un’anima, quella del territorio. L’identità delle due componenti è scontata ed è vita. Così come viva è l’azienda. Tanto quanto è vivo il territorio.
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II - Geografie di un’anima per un corpo che fa storia
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In una città come Novara, in un territorio in cui la cui la pagina storica e letteraria più famosa (e rievocata) è la sconfitta del 23 marzo 1849 – una disfatta da cui nacque la riscossa nazionale del Risorgimento Italiano se vogliamo essere romantici – di cosa si vive e che cosa si vede? A guardarlo in una certa prospettiva il territorio novarese è così: piatto. Una vasta pianura a reticolo, che nei periodi di semina e raccolta diventa un infinito mare a quadretti. Le risaie. é un modo di vivere, e di trasformarlo in azienda, tutto nostro. Tutto novarese. E non perché le risaie non ci siano altrove, non si facciano terrazzi e gradoni in Vietnam piuttosto che in Cina o non sembrino acquitrini fangosi in regioni dell’India grandi quanto l’infinito e non ce ne fossero di simili anche solo a Pavia, ma perché questa pianura qui, questo territorio qui, ha un’anima unica. Un’anima propria. Quella del mare a quadretti. Quella dei fazzoletti d’acqua che sono, per il riso seminato là sotto, una coperta termica necessaria, un isolante che si scalda di giorno, ai raggi solari, e culla il seme di notte o nelle giornate in cui la nebbia è un dente freddo che morde di gelo. é la risaia in cui gli aironi danzano su gambe come trampoli, con quelle ali come mani con cui si aggrappano al cielo per planare di specchio in specchio. Già, gli specchi. Perché le risaie, quelle di questo territorio, sono specchi. Riflettono, dalla pianura stesa come una pasta sfoglia appena uscita dal massaggio del mattarello, le vette dei monti. I colori del Monte Rosa. Le nevi che sono altra acqua, che sono altro mare, che sono altra pioggia. Ecco, ed è questo territorio, unico in questa sua conformazione, abbracciato e attraversato dalla ragnatela dei canali – come il Cavour, per tornare a nomi del Risorgimento che qui tanto contarono (e tanto vengono rievocati) – che ha saputo farsi azienda.
Le aziende agricole che producono riso nel novarese non sono un dettaglio: la dolorosa poesia delle mondine oggi non si canta più (e se lo fa non è in dialetto novarese che si modula il canto), e i filari di pioppi sugli argini non allungano più le proprie dita come ombre sui campi. Tutto è nuovo: solo la risaia e il riso restano e crescono. Ci sono storie di aziende agricole sul territorio che hanno raggiunto 5-6 generazioni, oltre 180 anni di storia, di tradizione che si fa innovazione. E soprattutto di scelta di un territorio (molte famiglie di agricoltori di oggi avevano origini differenti in passato: 200 anni fa venivano dal Veneto) questo, perché solo qui tutto ciò sarebbe potuto accadere. Il territorio ci ha dato piane di fango, e quando non ce la ha date l’uomo le ha bonificate tali, l’azienda ci ha realizzato il riso. E il riso fa buon sangue, e l’azienda è il corpo. E il territorio l’anima. L’abbiamo già detto. E la scelta di questo territorio per fare impresa va anche oltre la presenza e la necessità del riso. É una scelta di poesia, colori e forme. Una scelta di bellezza. Lo racconta Soheila Dilfanian, che ha origini persiane e sul territorio novarese ci arriva solo nel 2001. Prima a Casaleggio poi a San Nazzaro, un’artigiana del vetro eccezionale che esporta i propri manufatti in tutto il mondo e che si nutre del paesaggio di cui si nutre e del territorio che la arricchisce. Quello della risaia. “Non so se potrei mai fare a meno dell’acqua delle risaie – racconta - di quei paesaggi che cambiano colore e che alternano il verde al giallo e al rosso neanche fossero dipinti”. Ecco il binomio, ecco la scelta. Ecco l’anima del territorio che si fa corpo. Di vetro. Che si fa impresa. Ma il territorio che si veste di acqua e di riso non è solo pianura, anzi. Verso i monti e la Valsesia si increspa. Si arriccia, è come un pugno che si stringe con le nocche che si fanno colline. E le risaie che fanno? Si arrampicano lassù? E il riso che fa buon sangue che fa si avvita in una pianura fatta pugno. No, qui corpo e anima del territorio cambiano aspetto, forma, ma non identità. Ma non ricchezza.
Resta il sangue buono, ma non è più quello del riso, diventa quello del vino. Le colline come spazi curvi si pettinano a filari, come treccine di acconciature tribali. É la vite. Sono gocce d’acqua nutrite a terra e sbocciate tra le foglie delle viti. Acini. Uva. Colline. Vigneti. Le colline novaresi. E questo è un piccolo squarcio di vino. Qui, a Fara, Ghemme, Sizzano, Romagnano, Boca il corpo dell’azienda beve a sorsi pieni l’anima del territorio, forse ancor più di quanto non capiti nelle risaie. La vocazione del territorio al vino e ai vigneti, qui, è quasi una profezia. Che non manca di profeti. Forse in questi termini la storia più sensazionale è quella di Christoph Künzli, svizzero, importatore di vini. Conoscitore splendente della complessa e infinita Italia del vino di quelle regioni che sono vino per antonomasia, Puglia, Umbria e Toscana. Ma di un solo territorio si innamora: Boca. La sua vicenda è sorprendente: a Le piane di Boca, in una zona a 500 metri sul livello del mare in cui i boschi stavano divorando la vite e la vigna secolare, conosce, anziano, un produttore di Boca pronto a lasciare. Ultimo e unico testimone di un territorio vocato e di una profezia, nefasta, a pochi attimi dal compiersi. Künzli sceglie e scommette: a conquistarlo è il territorio, l’anima, lo fa vivere (risorgere) al punto che dove solo 0.6 ettari di terreno erano coltivati a vite sul finire degli Anni ’80, oggi sono 30 ettari complessivi per 10 differenti imprenditori che sul territorio hanno puntato. E che hanno rilanciato. Già, ma perché? Perché l’anima di Boca è unica. Alta, ben più delle zone del Barolo che arriva a 400 metri. Perché l’anima di Boca è ricca: incide su quello che in epoche preistoriche era un immenso vulcano. I terreni, e il territorio, sono nutriti da quella presenza fattasi oggi assenza, e nutre i boschi in cui le viti si avvitano, e nutre il vino che stilla dagli acini. In questa storia il rapporto è evidente: il territorio ha permesso all’impresa di diventare un successo, l’impresa ha rilanciato il territorio. Un’equazione quasi semplicissima. Ma ad amare quelle colline e quel territorio fino a farne
simbolo e segno non c’è solo Künzli. L’azienda vinicola Rovellotti, che ha come stemma una mattonella di cotto su cui troneggia il grappolo d’uva e la vite, ha un vanto che è altrettanto un marchio: l’origine delle materie dei propri prodotti, tutti esclusivamente novaresi. Così come straordinaria è la scelta di Francoli, distilleria storica, che si lega al territorio anche in previsione di un’esaltazione dello stesso a livello culturale e turistico. Francoli che di Ghemme racconta la bellezza di un paese fatto di strade di ciottoli, del Ricetto, del canale disegnato da Leonardo da Vinci e da quegli affreschi, sparsi nelle chiesette di campagna che sono ricchezza e spiritualità da scoprire. Qui il legame con il territorio raggiunge la forma del globale che si fa locale: Francoli esporta in tutto il mondo e da ogni angolo del mondo richiama alle proprie radici. Il territorio che nutre queste dinamiche si arricchisce e ha ricadute che non potrebbe avere se non fosse così ricco l’humus in cui si affondano le radici. La solita equazione che conferma da sé il proprio essere corretta. Della bellezza dei luoghi, qui, ce n’è abbastanza per farne letteratura. E, infatti, di letteratura ce n’è tanta. Quella del vino e del Riso dei racconti di Mario Soldati, come quello di ricerca e viaggio in cui Soldati stesso dice: “Ghemme! Vino famoso di cui ricordavamo il nome ma il giusto, ahimè avevamo dimenticato”. Ed è anche qui l’azienda a farsi nume tutelare della cultura, a conservare volumi sulla distillazione e i racconti che celebrano il territorio. E le risaie che finiscono nelle storie della Marchesa Colombi, di quel Promessi Sposi al femminile che fu “Un matrimonio in provincia” o di quel testo – una denuncia fortissima e ante litteram della condizione della mondina – che fu “In risaia”. E qui c’è il territorio che si fa azienda culturale, che nutre con la propria anima le mani dei suoi scrittori migliori. Una sintesi di cultura e qualità che si fonde bene nelle parole di Francesca Castaldi, titolare dell’omonima azienda vinicola di Briona: “Il vino è espressione del territorio. La scommessa vincente non è realizzare prodotti internazionali ma prodotti legati al territorio tanto prestigiosi da poter essere presentati al mondo”.
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O nelle frasi piene d’amore di Alberto Arlunno degli antichi vigneti di Cantalupo a Ghemme: “Una realtà vinicola ha un rapporto privilegiato con il territorio dove essa opera. Sono infatti il terreno, il clima, l’esposizione ai raggi solari dei suoi vigneti a legare indissolubilmente il vignaiolo con l’ambiente che lo circonda”. E il sole di qui è quello che scalda la coperta d’acqua sotto cui dorme il riso prima di farsi spiga, quello che illumina la pianura che poi si fa pugno e collina, quello di cui è piena l’aria di cui si tinge le dita anche il Monte Rosa, quello che sta lassù e guarda i laghi increspati di luci.
Emerge costante in ogni passaggio della nostra inchiesta fatta di intrecci tra territorio e impresa il legame di necessità. E una profonda passione amorosa. Una professione d’amore. E così sono tre gli elementi che ci si fanno necessari e non sostituibili: il territorio che si fa impresa. E l’impresa che tale diventa grazie all’amore per la cultura e per lo sviluppo del territorio. Qui è successo così, e forse altrimenti non avrebbe davvero potuto accadere. Alessandro Barbaglia
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Una realtà vitivinicola
ha un rapporto privilegiato con il territorio dove essa opera
La
passione di Alberto Arlunno per quello che più che un mestiere è stata una scelta di vita, la si percepisce, appena si ha modo di parlare con lui. Gli Antichi Vigneti di Cantalupo a Ghemme, infatti, di cui Arlunno è a capo da una trentina d’anni, sono uno dei tasselli più prestigiosi della storia di Ghemme. Un’azienda agricola che, seppure di recente costituzione, affonda le sue radici in un passato lontano. “Il mio impegno è cominciato nel 1981 – racconta Arlunno - ma la mia famiglia è legata a Ghemme dall’inizio del Cinquecento. Nel primo Seicento è comunque attestato il nostro lavoro in vigna. Le proprietà viticole sono passate attraverso generazioni ma quando, alla fine degli anni Sessanta, il Ghemme ha ottenuto la Doc, abbiamo deciso di impostare una vera e propria azienda, espandendo i vigneti ed edificando l’attuale cantina, ideata a gradoni, ricavata sottoterra, nel cuore della collina. Abbiamo così radunato in un’unica struttura la produzione di Cantalupo che, precedentemente, veniva vinificata in due vecchie cantine di famiglia nel centro storico di Ghemme”. Trentacinque ettari di vigneti posti in Breclema e Carella, Roccolo della valle Maiolo, Livelli e Ronchi di San Pietro danno alla luce dieci tipologie di vino tra cui quattro differenti Ghemme: “Collis Breclemae”, “Collis Carellae”, “Signore di Bayard” e “Cantalupo”. Inoltre “Agamium” Nebbiolo delle Colline Novaresi, “Primigenia” realizzato con Uva Rara e Nebbiolo, la Vespolina “Villa Horta” e poi il “Mimo”, Nebbiolo rosato delle Colline Novaresi e
ancora il “Carolus” bianco. Diverse tipologie, con altrettanti caratteri e sapori, che si sono fatte strada nel cuore degli appassionati. “Una realtà vitivinicola ha un rapporto privilegiato con il territorio dove essa opera - continua Alberto Arlunno – sono, infatti, il terreno, il clima, l’esposizione ai raggi solari dei suoi vigneti a legare indissolubilmente l’uomo vignaiolo con l’ambiente che lo circonda. L’insieme di questi fattori crea l’identità del territorio. In tale microcosmo viticolo la risultante di queste energie è rappresentata dall’uva. Verso di essa è necessario un oculato e rispettoso approccio da parte dell’uomo che prodiga le sue cure; queste, assommate alle energie del suolo, del clima e del vitigno, puntano ad ottenere quel vino che, giovane o affinato che sia, canta la gloria della realtà territoriale. Diviene esso stesso portavoce, anima, sintesi armonica di esso e messaggero del fascino dell’intera zona”. Il legame tra i Vigneti di Cantalupo e le colline su cui sono adagiati, poi, è ancora più speciale. Riprende Arlunno: “I grandi vini possiedono la capacità di spalancare gli orizzonti, introducendoci nel fascino che non ha tempo. Nella fattispecie il curriculum storico dei vini di Ghemme si è impreziosito della presenza dei celebri monaci di Cluny, coloro che già nel Medioevo avevano posto le basi al successo dei vini della loro Bourgogne. Parte del terreno dove sorge la cantina di Cantalupo era un vigneto cluniacense. Per me è un’emozione vivere ed operare proprio qui, percorrendo quella stessa terra da essi percorsa”.
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È importante che il territorio sia consapevole di quanto possiede, così da sentirsi orgoglioso di mostrarlo. “Arrivando nella Côte d’or si rimane affascinati da quanto ci circonda. Lungo le strade ogni opportunità per evidenziare la propria identità viticola viene abbracciata: dalle rotonde trasformate in piccole vigne e in graziose cantine ricche di botti. Per non parlare poi dei villaggi che accolgono i visitatori mostrando loro tanti segni di ciò che ha reso grande agli occhi del mondo il loro territorio: viti, botti, torchi lungo le strade o nei parchi pubblici; grappoli d’uva, tralci di vite esposti in tutte le vetrine dei negozi, dal panettiere alla gioielleria.
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Nel Novarese siamo ancora lontani da questa consapevolezza ma la valorizzazione della nostra antica terra vitata si fa comunque sempre più strada, sia da parte degli operatori, sia dall’ente pubblico”. Tanta strada s’è già compiuta, tanta altra attende. “Noi vignaioli nel diligere la fabbricazione dei vini – conclude Alunno - come aveva di noi scritto Cavour, le istituzioni, invece, sempre di più sensibilizzate a guardare a quanto ha in sé la terra loro affidata”. Intervista a Alberto Arlunno, Antichi Vigneti di Cantalupo - Ghemme Barbara Bozzola
Quel giorno
in cui ho accettato la scommessa
Lei
il “richiamo della terra” l’ha sentito forte e chiaro. E a quel richiamo ha risposto con entusiasmo. Era la fine degli anni Novanta quando Francesca Castaldi, oggi titolare dell’omonima azienda vinicola insediata a Briona, ha deciso di lasciare il lavoro nell’ufficio tecnico delle Ferrovie di Stato per dedicarsi ai vigneti. Una scelta radicale anche se non improvvisata, costruita sulla scia di echi provenienti dal passato. “Io sono figlia di viticultori – racconta Castaldi – la mia famiglia racchiude una lunga tradizione in questo ambito e, nel 1997, quando avrei dovuto trasferirmi a Milano per lavoro è capitata l’occasione di acquistare alcuni vigneti, così ho pensato fosse un po’ un segno del destino. Sapevo a cosa sarei andata incontro perché i miei nonni già erano agricoltori e, negli anni Sessanta, tanto per dare un termine temporale, l’azienda già produceva uva e imbottigliava. Negli anni Ottanta si era smesso di imbottigliare: rimasta socia della Cantina Sociale, l’azienda Castaldi produceva solamente, nella convinzione che nessuno degli eredi volesse continuare su questa strada”. Convinzione che, da Francesca, è stata smentita. “Mio fratello mi aiuta nel periodo della raccolta e nei momenti più impegnativi ma, in generale, l’azienda sono io. C’è molto lavoro, non solo in vigna e in cantina, ma anche per quel che riguarda le pratiche burocratiche che, nell’universo vino, sono numerose e assolutamente importanti. Siamo un’azienda di piccole dimensioni ma la produzione comprende diverse qualità”.
Vino da tavola rosso, Vespolina, Nebbiolo, ma anche Erbaluce, Croatina vinificato in purezza e Barbera, novità assoluta inserita in azienda proprio da Francesca. “Tutti i miei vigneti sono vigneti doc e mi piace ripetere che la mia filosofia è quella di unire l’innovazione ad una radice antica. La nostra produzione non potrebbe mai prescindere dal territorio perché solo le uve e i vitigni autoctoni possono dar vita ai nostri prodotti. Il legame con la terra è anche “fisico”; dallo scorso anno, infatti, abbiamo rilocalizzato gli spazi di lavorazione nell’antica cantina della mia famiglia dopo una ristrutturazione realizzata con i fondi della Comunità Europea. Posso dire con orgoglio che l’azienda oggi si trova a Briona, ai piedi del Castello in un luogo di grande atmosfera”. Dimensioni moderate ma un entusiasmo potente che ha spinto Francesca Castaldi a lanciarsi sul mercato. “Con il prodotto finito ci siamo affacciati all’esportazione – dice – in questo primo anno abbiamo avuto buoni risultati e fino ad oggi abbiamo avuto rapporti per lo più con gli Stati Uniti ma partecipato anche a fiere in diversi Paesi europei. Aderire al Consorzio Tutela Nebbioli Alto Piemonte, poi, ci dà l’opportunità di farci conoscere e di uscire dai confini anche se le possibilità non sono quelle della grande azienda”. Il legame tra l’impresa e il territorio, quindi, pare essere inscindibile. “Possono esserci nei quattro angoli del mondo zone che hanno una vocazione altrettanto forte per quel che riguarda la produzione del vino ma sono altrettanto certa che la nostra zona abbia peculiarità che la rendono unica per la viticoltura.
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La Vespolina, ad esempio, non si può spostare ovunque perché servono determinate caratteristiche della terra, un certo clima con un’umidità particolare e tanti altri dettagli che fanno la differenza”. E mentre il vino trae la sua forza dal luogo in cui è prodotto, allo stesso modo per un paese piccolo come Briona, l’azienda Castaldi non può che essere un fiore all’occhiello. Questione di equilibrio, insomma, come spesso accade. “In questi anni la costruzione delle infrastrutture, spesso criticata, è stata motore per l’economia della nostra zona. Abbiamo faticato e si continua a farlo per veicolare le merci e per far arrivare le persone direttamente a noi. Il segreto è far innamorare i consumatori, legarli ad un’etichetta che diventa simbolo non solo di un gusto ma di un metodo, di una storia”.
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La missione è far comprendere chiaramente alle persone quanto il prodotto dell’azienda sia qualcosa di totalmente estraneo a ciò che si può comprare banalmente nei negozi. Perché è assolutamente unico. “La scommessa vincente non è realizzare prodotti internazionali ma prodotti legati al territorio tanto prestigiosi da poter essere presentati al mondo; anche in qualità di biglietto da visita del Novarese.
É normale che si debba seguire l’evoluzione del gusto in un certo senso e per questo vengono impiegati consulenti, tecnici, agronomi ma sempre dentro certi limiti perché seguire la moda che per definizione è effimera, non ha senso. E di mode, anche nel mondo del vino, ce ne sono davvero tante”. Il giusto mix è quello fra tradizione e novità. “Il vino deve essere espressione del territorio – commenta - e posso affermare che il mio lavoro va in quella direzione. É inutile che io mi metta a produrre Chianti in questa zona come non tutti possono produrre l’Amarone anche se è un vino buonissimo; ciascuno deve esprimersi al meglio delle sue potenzialità e un marketing capace fare il resto”. Dove possibile, poi, strategia vincente significa anche promuovere sinergie: “Per un’azienda di piccole dimensioni come la nostra creare eventi non è facile perché le risorse sono poche ma far parte del Consorzio Tutela Nebbioli è una garanzia per partecipare a quel che succede – conclude Castaldi – cerchiamo di progettare, essere presenti e farci conoscere. Non è più il tempo di farsi la guerra tra aziende; il segreto è unirsi e collaborare con le istituzioni per creare una potenza”. In fondo, si sa da sempre che nella botte (e nell’azienda) piccola, c’è il vino buono. E quindi perché non brindare tutti insieme. Intervista a Francesca Castaldi, Azienda Agricola Castaldi Francesca - Briona Barbara Bozzola
La mia America,
ai piedi del Monte Rosa
Gli
Anni Cinquanta stavano volgendo al termine quando Mario Cavanna, giovane intraprendente originario di Prato Sesia, conobbe l’incarto flowpack, nato per confezionare le razioni dell’esercito degli Stati Uniti ed adottato dalla Pavesi nel 1957 per confezionare i crackers. Sono trascorsi 50 anni e una scommessa iniziale che poteva, al tempo, sembrare persino azzardata, ha condotto quello che oggi è il Cavanna Packaging Group a diventare leader indiscusso a livello mondiale, in quel settore di mercato. Quattro aziende, 42 agenzie a copertura di 58 nazioni e oltre trecento collaboratori sono solo alcuni dei numeri che raccontano il gruppo fondato da Cavanna. Un gruppo industriale che contrappone alla trasparenza dei suoi prodotti una visibilità evidente e consapevole; cosciente e fiera anche del suo punto di partenza. “Negli anni Cinquanta – racconta il presidente del gruppo – eravamo tutti alla ricerca di un’idea vincente. Sono sempre stato molto legato al mio territorio e, quando è cominciata l’avventura legata alla tecnologia del flowpack, ho subito desiderato creare la mia base a Prato Sesia, luogo dove sono nato. Ai tempi l’unica concorrente era un’azienda svizzera mentre l’abitudine era ancora quella, ad esempio, di vendere i biscotti in capienti barattoli di latta. Era il momento della svolta: l’industria alimentare aveva necessità di protezione ed ermeticità dei prodotti così abbiamo cominciato”. Progressivamente l’azienda estende la gamma dei suoi prodotti e questo, unito all’apertura di una società produttiva in Brasile, uffici commerciali all’estero, la nascita di Cartesio
Robotica, l’acquisizione del marchio Synchrosys, e per ultimo la creazione di una nuova fabbrica in USA pone le basi per la nascita di un vero e proprio gruppo internazionale in grado di gestire l’intero processo di confezionamento. Così, la sede di Prato Sesia, quegli spazi che nel 1961 contavano 5.000 metri quadrati di terreno e uno stabile di 200 metri quadri, si sono ampliati, hanno cambiato fisionomia certamente, ma non logica. “Ero e sono un uomo di provincia – commenta Mario Cavanna – e non me lo dimentico in nessun momento. Il gruppo si è inserito nei meccanismi internazionali ma il mio legame con il territorio non è mai venuto meno. Nella nostra base di Prato Sesia, ogni anno (basti pensare che si parla di più di 900 clienti assistiti), approdano manager di tutte le nazionalità e ogni volta leggo lo stupore nei loro occhi. Arrivano in un paesino che conta poche migliaia di anime e, improvvisamente, si trovano di fronte ad una struttura all’avanguardia ma al contempo, totalmente rispettosa del suo ambiente”. Russi, americani, ma anche vicini di casa europei sgranano gli occhi di fronte alla bellezza del paesaggio con lo sfondo del Monte Rosa. C’è l’impresa, certo, ma accanto anche la torre diroccata e il Castello a far da guardiani silenziosi al centro produttivo. Innovazione, quindi, che si intreccia con la tradizione. “Abbiamo un profondo rispetto per l’ambiente che ci circonda. Utilizziamo un sistema di riscaldamento a pannelli radianti e il terreno intorno è curato, persino nell’architettura vegetale. Abbiamo installato un impianto fotovoltaico di 200kw che ci rende autosufficienti.
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Desideriamo avere un’industria ecosostenibile perché tra l’impresa e il territorio c’è un legame indissolubile; se il Novarese viene valorizzato dalla presenza di un’impresa come la nostra, l’ambiente circostante è un valore aggiunto per il nostro lavoro”. E così, mentre si ringrazia un territorio che, per così dire, si è rivelato terreno fertile per un sogno diventato realtà, si deve essere sempre all’avanguardia, al passo con i tempi. “L’innovazione è fondamentale – commenta Cavanna che oggi ha lasciato ai figli Riccardo e Alessandra la gestione diretta dell’azienda – ogni anno il 3% del giro d’affari viene investito in ricerca e sviluppo. Il 25% dei collaboratori si dedica all’innovazione e l’impegno costante ha dato i suoi risultati”. Dal 2000 il Cavanna Packaging Group è dotato anche del Mit, un laboratorio prove dove confluiscono conoscenze, risultati dei test e anche osservazioni sui materiali riportati dai clienti. Perché nulla, può né deve, essere lasciato al caso. Per creare forti legami con l’estero, comunque, è stato necessario prima instaurare un proficuo spirito di collaborazione all’interno; ed ecco che ancora una volta il concetto del “punto di partenza” assume importanza. “Oggi siamo partner di riferimento in Italia e all’estero per il settore “food”; il 90% dei nostri prodotti riguarda il settore alimentare mentre la parte restante coinvolge il settore farmaceutico e cosmetico”. I materiali più innovativi e le tecnologie di confezionamento sono i punti cardine della produzione Cavanna; fiore all’occhiello di un’azienda che vanta un gruppo di circa quaranta ingegneri e tecnici specializzati e un service operativo e strutturato, sotto il controllo diretto della casa madre.”
Negli anni abbiamo risolto grossi problemi che si erano venuti a creare nel settore alimentare e anche oggi siamo costantemente alla ricerca dei bisogni della nuova società civile. Una volta la necessità primaria era quella di confezionare pasticceria industriale monotipo, ad esempio, oppure biscotti e prodotti per la prima colazione così come sostituitivi del pane. Oggi sono i single il target più appetibile e anche più esigente del mercato: le monoporzioni devono essere necessariamente presenti sugli scaffali dei supermercati per evitare gli sprechi. Questo discorso, certo, non lo facciamo da oggi e nemmeno da ieri perché per esser davvero competitivi bisogna precorrere le mode, carpire in anticipo le esigenze che si vanno a formare e agire di conseguenza. Sempre nella stessa ottica, siamo impegnati nello studio di macchinari che possano essere lavati e sterilizzati per evitare il contatto con qualsiasi virus”. E se tutta questa perfezione sembra quasi impossibile, lo sembra ancora di più se si pensa che il motore di un meccanismo così potente è nascosto lì, ai piedi delle montagne e accomodato sulle colline del Novarese, in un piccolo borgo che porta il nome di Prato Sesia. Un luogo che è stato per Mario Cavanna punto di partenza da cui spiccare il grande volo, con tenacia e coraggio, ma al contempo un punto caro dove tornare e, in fondo, rimanere per realizzare qualcosa di grandioso, senza mai abbandonare quei principi etici fondamentali derivanti dall’insegnamento dei padri. Intervista a Mario Cavanna, Cavanna spa - Prato Sesia Barbara Bozzola
Quando è il grappolo lo stemma di famiglia
Una
mattonella in cotto, con raffigurato il grappolo d’uva e la vite. Questo stemma troneggia in cima alla storica finestra della cantina situata nel Ricetto di Ghemme, pittoresco complesso che è sede dell’impresa Rovellotti, guidata da Paolo, dal 2009 anche Presidente della Camera di Commercio di Novara e dal fratello Antonello. Una storia, quella della vocazione vinicola dei Rovellotti, cominciata circa seicento anni or sono, interrottasi per alcuni periodi ma poi ricominciata, esattamente quarant’anni fa, grazie all’entusiasmo e alla tenacia dei due fratelli. Una famiglia che è diventata un tutt’uno con il territorio, a partire dall’area della collina ghemmese che coltiva, la Baraggiola, quella più idonea alla vite per esposizione e microclima. “Siamo assolutamente legati al Novarese – spiega Paolo Rovellotti – perché materie prime e, di conseguenza, prodotti provengono esclusivamente dalle nostre colture”. Tra le varietà a bacca nera, il Nebbiolo e la Vespolina e marginalmente la Bonarda Novarese con una menzione speciale al Ghemme Riserva Docg mentre per la bacca bianca l’Erbaluce e il Valdenrico. “Nel 1970 ci siamo fatti restituire la vigna che era di proprietà del nonno e da allora abbiamo investito risorse ed energie per arrivare ai venti ettari odierni che costituiscono il punto di partenza dell’impresa”. Che si suddivide in quattro nuclei: vinificazione, etichettatura, invecchiamento nel legno e imbottigliamento; un percorso, insomma, che segue tutto il ciclo dell’uva. Tecniche e metodi che hanno saputo creare una tradizione ma che non rinunciano alla
modernità e al desiderio di diventare un marchio forte a livello mondiale. “Provengo da una famiglia umile – prosegue Rovellotti – e il lavoro non ci ha mai spaventato. Abbiamo sempre scelto le tecniche più mirate e che dessero i risultati migliori ed è per questo che siamo voluti ripartire proprio dalla cantina di nostro nonno anche se l’insediamento in una struttura più moderna sarebbe sicuramente stato più facile”. La tecnologia, in quel caso, avrebbe fatto la propria parte: “Il tempo nelle fasi di trasformazione tra uva e vino è fondamentale. Il mosto, ad esempio, non deve rimanere a contatto con la luce e l’aria a lungo perché altrimenti le sue caratteristiche si modificano e le tecniche più innovative fanno sì che ciò non accada. Noi ci mettiamo la cura e l’esperienza. Dobbiamo produrre vini moderni, al passo con i tempi e con il gusto ma sempre seguendo la tradizione perché non avrebbe nessun senso rincorrere una produzione che non sia nostra, che non sia adatta alla terra che la ospita”. Per gli stessi motivi si vinifica e si affina il vino nelle storiche cantine del Ricetto. “Nella nostra storia non abbiamo mai usato, ad esempio, piccole barrique per conservare il vino perché non sono adatte alle nostre uve così come non penseremmo mai di cominciare a produrre il Chianti; è un discorso che si può fare anche per quel che riguarda il riso, ad esempio. Una determinata qualità di chicco, con una sua consistenza e un suo gusto ha fatto sì che nella cucina piemontese potesse nascere il piatto della paniscia. Non sarebbe potuto accadere con altri. Il vino segue le medesime regole.
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La nostra forza, come azienda, deve mettere radici e insistere sui prodotti che sono sinonimo di qualità e sono diventati la nostra cultura”. Venti ettari di vigneti, rispettati e curati fino all’ultima foglia tanto che le tecniche di conduzione dei vigneti osservano il reg. 2078 di rispetto ambientale, con l’assistenza tecnico–agronomica dell’Associazione Produttori Vignaioli Piemontesi. “Ci premuriamo costantemente di mantenere intatto l’equilibrio che regola la produzione di uve di alta qualità, riducendo al minimo i trattamenti chimici e affidando alla natura ogni attività di controllo. La vigna, poi, non va mai stressata. Venti ettari coltivabili producono circa 900 quintali di uva che è una quantità contenuta. Se così non fosse, la produzione eccessiva di grappoli porterebbe a una perdita di qualità nel prodotto finito”.
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Il mercato di Rovellotti è rivolto per il 10% all’esportazione verso l’Europa e il Giappone anche se grande attenzione viene rivolta al consumatore “fidelizzato”: “Soprattutto d’estate molti stranieri vengono a visitare la nostra cantina; inglesi ma anche russi e gente dal Nord Europa. Quel che amo molto è vedere il rapporto che si crea con le persone: abbiamo clienti che al ritorno dei loro viaggi ci portano in omaggio bottiglie di vino che provengono da tutti i quattro angoli del mondo; questo ci aiuta ad avere sempre più esperienza così la nostra matrice locale non ci ha impedito di diventare piccoli esportatori”. L’Europa, il mondo: il dialogo fuori dai confini è ogni giorno più necessario.
“Siamo nel 2012 e Novara è il centro della Pianura Padana – commenta Rovellotti – così, pur mantenendo forti le nostre tradizioni, dobbiamo lottare per conoscere e farci conoscere perché è proprio l’arretratezza comunicativa il dazio che stiamo pagando oggi. Le infrastrutture insufficienti verso l’aeroporto di Malpensa sono solo un esempio come può esserlo la mancanza della banda larga che in altre zone d’Italia è una realtà già da tempo. Dobbiamo adeguarci per rispondere alle esigenze del mercato sempre senza deturpare l’ambiente che ci circonda”. Collaborare, creare sinergie, eliminare un’eccessiva burocratizzazione che stritola gli imprenditori, anche quelli più convinti e determinati. “In questi ultimi anni le istituzioni si sono accorte di quanto sia importante valorizzare il territorio e i suoi prodotti ma ancora oggi non è semplice. Le aziende avrebbero bisogno di un sistema di controlli ma al contempo di non essere bloccate da una burocrazia talvolta inutile perché ciò spinge a fuggire, lasciare le proprie terre, magari anche solo preferendo la vicina Svizzera che in questo senso è più avanti”. Per fortuna, però, ci sono uomini come Rovellotti che ci credono strenuamente, si battono per migliorare la situazione e non hanno nessuna intenzione di “abbandonare il campo”. Perché il bicchiere è “mezzo vuoto” ma, a guardarlo bene, è sicuramente anche mezzo pieno e se si tratta di buon vino, sia mai che ce lo si perda. Intervista a Antonello e Paolo Rovellotti, Azienda Rovellotti Viticoltori - Ghemme Barbara Bozzola
Il vetro, inaspettato arcobaleno di colori
Qu
ando sul ponticello che sovrasta la roggia tintinnano i suoi pesciolini trasparenti, non ci possono essere dubbi, il laboratorio di Soheila Dilfanian, architetto ma soprattutto maestra artigiana del vetro, è aperto a chi voglia entrare. Entrare in un mondo fragile per natura ma che si è costruito un’ossatura stabile, forte di una sapienza che sembra venire da lontano e che, invece, ha legami con il territorio e con quell’angolo di Novarese che è San Nazzaro Sesia, davvero profondi. “Sono persiana – spiega Dilfanian – ma per gli studi universitari mi sono trasferita in Italia. Per un gioco del destino mi sono trovata a seguire un maestro vetraio e ho capito che quella sarebbe stata la mia strada così, dal 1984 ho aperto il mio laboratorio che inizialmente era situato a Casaleggio e poi, nel 2001, si è spostato a San Nazzaro Sesia”. Il laboratorio utilizza tecniche molteplici combinando l’arte dei mastri vetrai all’innovazione e alla tecnologia: dalla legatura a piombo fino alla decorazione a gran fuoco, non c’è oggetto o vetrata che non possa essere affrontata. “In linea generale il mio team sono io; poi ci sono momenti in cui chiedo aiuto ai ragazzi che negli anni sono passati nel mio laboratorio per stage o periodi di lavoro. Per imparare tutti i meccanismi e tutti i tipi di lavorazione si deve rimanere almeno cinque anni e non capita mai perché se le soddisfazioni personali sono altissime, non lo sono altrettanto quelle economiche. Si deve avere grande motivazione”.
Vetrate artistiche a mosaico con vetri colorati, restauri conservativi, ma anche lampade Tiffany a mosaico, sculture e oggettistica: il successo di pubblico e i riconoscimenti tra cui il marchio dell’Eccellenza Artigiana conferito dalla Regione Piemonte hanno costellato la storia di Soheila. Ma cosa c’entrerà mai la lavorazione del vetro con gli scenari orizzontali della pianura? “Io credo non potrei lavorare altrove – spiega – nel mio lavoro è molto importante la concentrazione e la campagna, le risaie, i colori di questi luoghi sono a dir poco perfetti. Ho lavorato molto nelle chiese qui intorno ma devo dire che il lavoro all’interno del mio laboratorio è quello che prediligo perché mi rilassa e mi fa avere risultati ottimi”. Creatività, manualità ma anche sperimentazione, la bottega di Soheila Dilfanian, avvolta nella campagna della Bassa e adiacente all’abbazia romanica, è un luogo magico dove tradizione e novità si fondono. “Questi ultimi anni soprattutto, ma si parla di dieci anni almeno, la crisi ha modificato molto il mio mestiere. Prima in molti osavano di più, c’era più richiesta; oggi le possibilità si sono ridotte e alcune fabbriche che producevano le materie prime sono state costrette a chiudere anche per questioni ambientali, perché era diventato difficile lo smaltimento. Ci sono dei componenti come il colore in silice che sono altamente inquinanti e poche ditte hanno la possibilità di andare avanti. Ne conto una negli Stati Uniti, una in Francia e una in Germania; un numero davvero esiguo”. E mentre sono più di quattromila anni che l’uomo plasma il vetro, solo negli ultimi trenta anche i profani, grazie all’innovazione e allo studio, possono cimentarsi.
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E perché no, magari anche con discreti risultati. “Durante i mesi estivi e primaverili sono solita tenere dei corsi teorico–pratici per la divulgazione delle tecniche e delle metodologie della lavorazione del vetro - commenta – è importante che le persone capiscano che dietro ad ogni singolo oggetto, anche il più piccolo, ci stanno talento ed esperienza in egual misura”. Fondere, piegare, saldare, dipingere: nel laboratorio di Soheila Dilfanian tutto quel che è restauro, è possibile. “Persino a Murano per molti anni la tradizione non ha fatto nessun passo per porsi al passo con i tempi ma da circa cinque anni le cose sono cambiate e al lavoro artigianale si è affiancato anche quello artistico; una classe giovane di maestri vetrai si sta affacciando sulla scena e i cambiamenti si vedono”.
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La ricerca del nuovo, quindi, ma soprattutto quella del bello che in fondo non passa mai di moda. “Non si devono seguire tendenze effimere ma nemmeno ci si può isolare senza tener conto di quel che succede intorno: una buona fetta del mio mercato è all’estero e partecipo spesso alle fiere di settore tra cui quella di Milano e Torino. I miei prodotti finiti, invece, hanno raggiunto gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e l’Olanda, paese che ha da sempre un suo peso specifico nell’ambito della lavorazione del vetro”. Affacciata alla sua finestra,
insomma, Soheila ha saputo guardare molto lontano, pur rimanendo sempre lì, a due passi dalle risaie: “Non so se potrei mai fare a meno dell’acqua delle risaie, di quei paesaggi che cambiano colore e che alternano il verde al giallo e al rosso neanche fossero dipinti. L’alta velocità in parte ha cambiato il paesaggio circostante ma capisco che le infrastrutture siano necessarie; in primis alle imprese come la mia. Rimanere isolati non porterebbe a nulla ma la mia speranza è che l’impatto delle infrastrutture sia sempre controllato perché in primo luogo è il territorio a dover essere salvaguardato”. Quel territorio che, tanti anni fa, ha accolto lei e il suo sogno. Che oggi è una bella realtà targata Novara. “Mi piace molto quando ogni anno organizziamo la manifestazione “Botteghe aperte” – conclude – e le persone possono entrare liberamente nella mia per vedere come lavoro, cosa faccio, quali sono le potenzialità del vetro. Io partecipo sempre volentieri alle iniziative organizzate dagli enti istituzionali o dalle associazioni di categoria non solo perché è un buon modo per farsi conoscere ma anche perché credo sia importante fare rete, sostenersi in un momento di difficoltà come questo”. Ancor di più quando la rete c’è ma non si vede, è trasparente ma compatta. Proprio come il vetro. Intervista a Soheila Dilfanian, artista del vetro - San Nazzaro Sesia Barbara Bozzola
Tra presente, passato e un futuro che è dietro l’angolo e ha l’aroma del mercato globale
Po
nti, su fiumi di aceto, golfi di gusto, insenature di tradizione e promontori di innovazione, sviluppo e qualità. Perché non ci son santi, servono i ponti se si vuole andare da qualche parte, e i Ponti (maiuscolo stavolta) grazie a loro sono arrivati in tutto il mondo. Ponti, un cognome destino, perché lo sanno e la raccontano in prima persona con gusto - ovviamente - la famiglia che dall’Ottocento a oggi (dal 1867 per la precisione), per oltre cinque generazioni, ha fatto dell’aceto e del sottaceto un marchio di qualità e un’eccellenza del territorio; lo dicono anche loro, insomma: la loro storia ha tutto un altro sapore. Quello del territorio. Una storia di intreccio e sviluppo che parte e affonda radici nel terreno novarese e nel suo territorio; una storia prestigiosa di sviluppo e lampi di genio, una storia che ha, come tutte le storie, una data di inizio: il 1867; e un capostipite: Giovanni Ponti. Giovanni Ponti in quell’anno di grazia che oggi fa immaginare immagini in bianco e nero, a Sizzano, si sposa. In paese, da tutti, è conosciuto solo così: con un nome Giuanin; e con una vocazione D’la asei. Giuanin d’la asei, Giovannino dell’aceto, perché è quello che è ed è quello che fa: produce aceto. Che la sua piccola azienda del novarese sarebbe diventata uno dei primi marchi d’aceto nazionali (ma anche europei e mondiali con 70 mercati esteri conquistati) forse non lo poteva immaginare. Eppure i primi ponti per il raggiungimento di quel traguardo li poggia lui. “É così - racconta oggi Cesare Ponti erede di quel Giovannino e attuale amministratore dell’azienda di famiglia
- nell’archivio parrocchiale che attesta il suo matrimonio abbiamo trovato specificata la sua attività fin dalla metà dell’800. Lavorava e produceva aceto in maniera artigianale, a casa, dietro la chiesa di Santa Maria: lavava e lavorava i trucioli nel cortile. Poi con il calesse batteva il territorio per vendere il suo aceto”. Aceto. Ma perché? E perché a Sizzano? E quanto conta il territorio nelle curve che deve fare questa storia per arrivare fino a oggi? “Sizzano ha il vino e l’uva nel proprio DNA. É un territorio vocato; senza dubbio. Fino ai miei nonni, infatti, la produzione dell’azienda era duplice: vino e aceto così come sta scritto nella terra di queste zone; è stato poi mio padre che ha puntato deciso sull’aceto e ha scommesso sull’aceto abbandonando il vino: il vino viveva in quegli anni una fase di crisi; quello dell’aceto era invece un mercato in cui c’era spazio di espansione. Senza contare che anche i miei nonni materni erano produttori di aceto. Mio padre aveva l’aceto come obiettivo di crescita imprenditoriale e ha messo a punto sistemi di acetificazione eccezionali, molto più veloci rispetto ai trucioli”. Ed è a questo punto che la Ponti da Sizzano si trasferisce a Ghemme, si cambia area ma il territorio rimane il medesimo. “Fondamentalmente sì. Siamo rimasti a Sizzano fino al 1948, e non ci saremmo spostati se avessimo potuto allargarci; ci siamo invece poi spostati a Ghemme per ragioni di ampliamento”. É un anno importante il 1948: Guido Ponti ottiene il diploma della Regia Scola di Vinicoltura ed Enologia di Alba: è ufficialmente il maggior esperto del settore. E così, a Ghemme, la Ponti cresce. Si ammoderna, si sviluppa. Nel 1965 i figli di Guido, Cesare e Franco, attuali amministratori dell’azienda,iniziano a collaborare con il padre.
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La quarta generazione dà un fortissimo impulso di crescita all’intera azienda. “A Ghemme quando siamo arrivati noi l’azienda più importante in assoluto era la Crespi. Ma sono convinto che il nostro ruolo sul territorio sia stato molto importante, e viceversa. Quando il tessile ha avuto difficoltà, noi abbiamo compensato e siamo, contemporaneamente, cresciuti. Abbiamo creato occupazione e dato crescita e sviluppo al territorio. Allo stesso tempo i nostri dipendenti erano i figli del territorio, e questo è un territorio che ha l’uva e l’aceto nel DNA, l’abbiamo già detto. Oltretutto quando la Ponti, già dall’80 con “Peperlizia”, ha raggiunto una diffusione nazionale, il richiamo a Ghemme non è mai mancato, la pubblicità del prodotto rimandava al territorio con spunti turistici e culturali; il territorio ci dava la forza di arrivare lontano e là dove arrivavamo noi abbiamo sempre indicato a tutti il punto da cui eravamo partiti”. Quindi un rapporto territorio-azienda che è sempre stato di reciproco sostegno e crescita? “Il territorio ha dato grande accoglienza all’azienda, da sempre. L’azienda è stata sempre vissuta come parte della collettività, si è ben inserita e l’azienda si è sempre resa partecipe dello sviluppo territoriale”. E così a Ghemme nasce il Pala Ponti, il palazzetto dello sport per il basket, la parrocchia stessa viene appoggiata dall’azienda, e pure lo spazio per gli anziani. Non solo: viene istituito anche il fondo “Vittore e Guido Ponti” nella Fondazione Comunitaria Novarese per attività culturali e sociali a Ghemme e Sizzano e per il sostegno dei disabili nel novarese. “Abbiamo sempre ritenuto che l’azienda dovesse essere ben radicata sul territorio e che fosse doveroso contribuire alla comunità e alle associazioni”.
Insomma l’azienda nasce nell’800, di generazione in generazione viene ampliata: nel 1939 inizia la produzione di conserve vegetali sott’aceto che la porta a sconfinare e a raggiungere mercati interregionali. Negli Anni ’60 vengono acquisiti i maggiori acetifici concorrenti e la produzione viene diversificata; poi il grandissimo successo di quel colpo di genio che fu (ed è) “Peperlizia”, il primo prodotto agrodolce nazionale, l’innovazione dei processi, dei prodotti e l’organizzazione aziendale portano la Ponti ad essere leader nel settore nazionale con le verdure dal fresco, il marchio agrodolce e la valorizzazione degli aceti del territorio in Italia e all’estero. Il tutto in quattro generazioni. E adesso? Quali sono i prossimi passi della quinta generazione? Dove porterete il territorio e dove il territorio vi condurrà? E oggi i prossimi passi hanno già un nome, quello di Giacomo Ponti, nipote di Cesare, la quinta generazione a partire da Giovannino d’la asei. “Le nuove sfide – spiega Giacomo Ponti - sono l’internazionalizzazione e il consolidamento dei nuovi mercati. Il programma di sviluppo su cui si lavora punta su un presupposto: l’apprezzamento della qualità del prodotto italiano. É su questo che noi puntiamo: esportiamo in 70 paesi al mondo, e ovunque portiamo il marchio Ponti. Australia, Giappone, Cile o Germania che sia, è l’apprezzamento del prodotto italiano che garantisce una buona penetrazione del prodotto”. Cesare Ponti è di una gentilezza squisita, e l’ultima battuta è la sua: “Abbiamo negli anni creato un’azienda all’avanguardia nel settore, con un’impronta familiare nei confronti dei collaboratori e una conduzione diretta dei rapporti con grande attenzione al sociale e al territorio. Tutto questo mi stimola ancora molto a innovare e a ricercare nuovi prodotti; a contribuire al miglioramento dei nostri prodotti, della loro qualità e quella della vita”. Intervista a Cesare e Giacomo Ponti, Ponti spa - Ghemme Alessandro Barbaglia
Per il territorio è una vera resurrezione, una storia che lascia a bocca aperta ma solo per gustare il vino
C’è
della profezia se in un bosco selvaggio e in un territorio fatto di storia che si sta per concludere qualcuno ci vede, precisissimo, un segno di vino. E una terra promessa. Un nitido segno di vino e vite che non deve smettere di fare quel che sa fare: scavare nel terreno per succhiarne porfido e sali. Come accade da secoli. C’è della profezia e della vocazione, quella del territorio, è vero, ma in qualche modo bisogna essere profeti per leggerla e coglierla prima che sia troppo tardi. Christoph Künzli, svizzero, importatore di vini, discendente di una famiglia che in Toscana faceva il Chianti a livello amatoriale, quasi per scherzo dirà lui, oggi titolare dell’azienda Le Piane, agli inizi degli Anni ’90 quel segno a Boca lo vede. E ci crede come per atto di fede: dall’esperienza decennale dell’importazione e dell’assaggio di vino, a colpo d’occhio sceglie tra tutti i territori italiani che gli è capitato di assaggiare (in formato vino, s’intende) l’unico che lo faccia perdutamente innamorare; l’unico su cui pensa valga la pena di scommettere: il territorio di Boca. Un territorio che nel 1991, quando Künzli lo vede per la prima volta, era una collina diventata bosco con viti di oltre 50 anni che si stavano inselvatichendo. Un progetto e una vocazione territoriale che si stava smarrendo: un bicchiere che non era più nemmeno mezzo vuoto, era destinato a non riempirsi più. Mai più. Poi il segno: il territorio. E un incontro: quello con Antonio Cerri. E l’azienda Le Piane, a Boca, appunto, la sua azienda che oggi festeggia 14 anni, nasce così.
“Era la fine degli Anni ’80 – spiega Christoph Künzli – quando mi sono imbattuto in Antonio Cerri. Nella sua Boca. Cerri era l’ultimo produttore rimasto a fare dei Boca incredibili. Mi mostrò la zona, la sua vigna che fino al ’91 gli permetteva di produrre 25 ettolitri l’anno, e quel fazzoletto di viti nel bosco, 0.6 ettari di Spanna, il vigneto Campo delle Piane, con piante tutte superiori ai 50 anni di età. Era nella parte più alta della collina. Cerri aveva 80 anni allora, mi mostrò la terra e mi fece assaggiare il vino. Fu un’illuminazione. Quel terreno e quel vino erano dei capolavori che non andavano persi”. E invece è proprio verso la sparizione che stavano andando. Tutta la zona stava morendo, e nessuno sembrava disposto a investire sul territorio. Künzli con Le Piane ne cambia il destino. “Fu lo stesso Cerri a propormi di prendere in gestione il terreno e la cantina. Non ci pensai su un istante: la comprai. Poi, come a ricostruire un territorio smarrito fatto di schegge da ritrovare, cercai di ingrandire la vigna originaria, cercai altri vigneti attorno a quello del Cerri, fu un’avventura: alcuni fazzoletti di bosco erano di 10 proprietari differenti… In 4 anni arrivammo a 5 ettari di bosco tutto da impiantare, e per bosco intendo proprio bosco: selvaggio. Nel ’98 impiantammo il primo vigneto, oggi abbiamo 8 ettari: 5 di Boca 3 di Colline Novaresi”. Il che significa, per il Boca a rischio sparizione, una resurrezione arrivata a un passo dall’estinzione e, contemporaneamente, per il territorio, una riqualificazione che davvero sembrava impossibile. Ma quali fattori hanno determinato questo miracolo? “I vini sono la prima prova.
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Quando si assaggia un grande vino e si capisce che ha le qualità per tenere 50 anni, si ha la certezza che quello è un vino di straordinaria qualità e che di conseguenza lo è il terreno che lo ha nutrito. Il terreno e il territorio di Boca mi hanno convinto subito. É un terreno unico nel suo genere, c’è il porfido strutturatosi al centro del vulcano preistorico che c’era in queste zone nelle ere glaciali, è un terreno unico. E poi l’altitudine: i miei vigneti arrivano fino a 520 metri di altezza, siamo 100 metri sopra le altitudini dei grandi Barolo e dei grandi Gattinara. Questo garantisce fragranze e aromi unici anche in una fase di riscaldamento globale decisamente evidente come questa. E poi il paesaggio è straordinario: tutti i vigneti sono circondati da boschi, si crea un ecosistema virtuoso praticamente senza impatto ambientale”. Quindi è stata proprio l’unicità e le peculiarità del terreno e del territorio che le hanno fatto scommettere su Boca. “É così e il processo di crescita dell’azienda e del territorio è stato assolutamente sincrono. Io non volevo che questo territorio perdesse il suo frutto e la sua tradizione più nobile, la vocazione al vino. Ma il territorio era davvero degradato: quando sono arrivato ero solo ed ero pessimista, ho temuto che sarei stato l’unico produttore in zona e che avrei dovuto davvero fare moltissima fatica a valorizzare il territorio. Lentamente invece il territorio è cresciuto assieme ai successi dell’azienda. Oggi siamo 10 produttori per 30 ettari complessivi di vigneti (dagli 0.6 del Cerri degli anni ’90: ndr). É stato un grandissimo rifiorire del territorio. E ci sono molti giovani tra gli altri produttori che ho attorno a me. Noi siamo stati pionieri e le esportazioni ci hanno portato alla ribalta, ma in molti ci hanno seguito e per il territorio è davvero un grande successo. Tutti possono seguire il nostro solco, se fanno buoni vini. Se si fanno buoni vini si può davvero arrivare ovunque”. E a Boca i vini si fanno buoni per quale ragione? “Fondamentalmente perché si deve aver voglia di lavorare bene.
Qui quando sono arrivato era tutto bosco, senza un grandissimo lavoro non si sarebbe potuto fare nulla nonostante le caratteristiche straordinarie del territorio. Poi è ovvio che il territorio ha parte consistente in questo sviluppo: conosco bene tutta l’Italia del vino e in nessun altra zona avrei piantato un vigneto, solo a Boca”. E perché? “Perché qui i nostri vigneti sono in grado, in soli 5 anni, di arrivare ad una qualità superiore e non paragonabile a quella di nessun’altra zona, ad un livello che altrove si impiegherebbero 30 anni per raggiungere. É una zona vocatissima che anche nell’alto Piemonte è poco conosciuta e si sta riscoprendo adesso. Io oggi ho vigneti che hanno tra i 15 e i 20 anni e che ogni hanno sono sempre migliori. E poi ci sono i terreni del Cerri (Künzli li chiama ancora così nonostante siano suoi ormai da quasi da 20 anni: ndr), terreni su cui ci sono piante di 100 anni: lì non passiamo nemmeno con le macchine, facciamo tutto a mano per mantenere l’equilibrio intatto. Tutto immerso nei boschi che fanno da straordinario ecosistema, da barriera e alimento”. E qual è il futuro della sua azienda a Boca Le Piane? “Io voglio far crescere azienda e territorio nella qualità. Voglio arrivare ad avere vitigni ancora migliori e vini ancora più buoni, non è la quantità che mi interessa, ma è la qualità, sono i grandi vini a cui punto sempre. Il successo sul mercato mondiale è importante, i nostri vini arrivano in tutto il mondo, Stati Uniti, Europa, Australia, Giappone… Sono grandi mercati e noi vogliamo dare sempre maggiore qualità. Il tutto in uno sviluppo coordinato con il territorio: noi forse siamo più avanti nelle esportazioni, ma a Boca non siamo più gli unici. Ed è un bene. E altri stanno lavorando con qualità. Qui ormai c’erano solo boschi: oggi i boschi sono rimasti, nessuno li ha cacciati, ma sono rifioriti i vigneti e sbocciate 10 aziende di produttori. Per il territorio è una vera resurrezione”. Una storia che lascia a bocca aperta. Ma solo per gustare il vino, s’intende. Intervista a Christoph Künzli, Le Piane - Boca Alessandro Barbaglia
Distillazione come immagine del sole. Che scalda e fa maturare i frutti del territorio
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istillare è imitare il sole, che evapora le acque del mare, dei laghi e dei fiumi per portarle in cielo a formare le nuvole e poi le ritorna alla Terra come pioggia”. Il ciclo perfetto della vita al ritmo del sole e delle stagioni. Il primo a descrivere così il principio fisico della distillazione fu Dioscoride Pedanio, medico, botanico e farmacista greco vissuto nel I secolo d.C. in quella che oggi chiamiamo Turchia. Un processo, un ciclo, che nasce dal territorio e al territorio torna, trasformato e arricchito nelle sue forme e nei suoi valori. E questa, quella dell’azienda Francoli, è una storia così: di trasformazioni, di distillazione, di territorio inteso come base che dà impulsi e che riceve frutti. La famiglia Francoli ha in sé la distillazione dalla fine dell’800 ma la scelta del territorio di Ghemme, quello che oggi è la radice del futuro e l’humus della tradizione, è una scelta e una conquista più recente. La famiglia è originaria della Valchiusella, una terra di grande tradizione distillatoria. A Ghemme la distilleria Francoli viene fondata nel 1951 da Luigi Francoli. L’azienda di Ghemme arriva a traguardi importanti con oltre 50 dipendenti e un milione di bottiglie vendute l’anno oltre alla produzione liquoristica di pari volume. Luigi non è solo in queste fasi iniziali, con lui i 4 fratelli guidano l’azienda con passione fino alla quinta generazione di distillatori, quella attuale, quella dei cinque cugini, con Alessandro Francoli come timoniere. Una generazione giovane e ambiziosa che fa le scelte più radicali, quella di vocarsi completamente al territorio piemontese, ad esempio, e quella di portare l’azienda oltre i confini nazionali con un
progetto innovativo e probabilmente unico di equilibrio tra produzione, azienda, territorio, tradizione e cultura. “Il fatto che si sia arrivati oggi alla quinta generazione di distillatori – spiega Alessandro Francoli – è vero, ma non tutti l’hanno fatto in maniera professionale e non tutti a Ghemme. A Ghemme l’azienda arriva subito dopo il secondo dopoguerra perché qui uno zio già distillava. La scelta di questo territorio, lo spostamento dalla Valchiusella, è motivata da due ragioni: la presenza di un ramo della famiglia che giustificasse lo spostamento e la straordinaria vocazione del territorio in cui c’erano un’importante produzione vitivinicola e grande abbondanza di vinaccia per la distillazione”. Il territorio, appunto, ma come una famiglia che arriva da lontano diventa un cardine di questo territorio? “Le radici con il territorio di origine dei nostri avi sono state fortissime per anni. É stato poi il passaggio dell’azienda dalla gestione dei 5 fratelli, Luigi Francoli e gli altri quattro, ai cinque cugini che ha portato un’adozione fortissima e radicale di questo territorio anche concettualmente, culturalmente e artisticamente. Nel 1998 si decide di essere novaresi al 100% e il legame con la regione, la provincia e il territorio diventa sensibilmente più forte”. Un senso di appartenenza che nel rapporto azienda-territorio crea risultati e benefici in entrambe le direzioni: all’azienda e al territorio. “É così. Il territorio ha certamente beneficiato, da sempre, della presenza dell’azienda e il nostro senso di appartenenza ha messo in moto un circolo virtuoso molto importante per il territorio. A tutto tondo, dalle sponsorizzazioni delle società sportive, all’esportazione del nome e delle
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immagini di Ghemme nel mondo, la valorizzazione del patrimonio culturale, turistico ed enogastronomico delle terre su cui incide l’azienda. Basti pensare allo spazio dedicato, all’interno del Francoli Center, alla biblioteca internazionale dell’acquavite e del liquore che raccoglie volumi e codici sull’arte della distillazione. O all’asta benefica Sorsi di pace e la Francoli Cup, un concorso con finalità formative per gli studenti. Ghemme è, soprattutto, un territorio molto bello, è un bel paese in cui si vive bene: c’è il canale molto probabilmente disegnato da Leonardo, il Ricetto, le strade acciottolate, gli affreschi sparsi nelle chiese e nelle cappelle delle campagne. Questo è un valore di crescita per il territorio e per l’azienda”. Ma come funziona il legame tra il territorio e l’azienda? E come si strutturerà in futuro? “C’è da parte nostra una grandissima attenzione alla valorizzazione del territorio nell’ottica di produzione di altissima qualità. Le distillerie Francoli hanno raggiunto, proprio a questo riguardo, un grande traguardo: sono la prima distilleria in Italia ad essere stata certificata come azienda a impatto ambientale zero. Le emissioni industriali sono minimizzate e praticamente azzerate dal fatto che gli unici combustibili che si usano in azienda sono vegetali, non impattanti neppure dal punto di vista dell’emissione di anidride carbonica. L’elettricità impiegata è prodotta da pannelli fotovoltaici propri o comunque derivante da fonti rinnovabili. I gas serra emessi dai mezzi di trasporto usati per la consegna delle merci, le visite di rappresentanza e i viaggi aziendali sono compensati dalla crescita di una porzione di foresta tropicale che Distillerie Francoli ha “adottato” in Costarica per i prossimi quarant’anni.
E il progetto futuro è quello di creare un equilibrio virtuoso tra azienda e territorio che probabilmente non ha eguali nel mondo”. Ovvero? “Il progetto è quello di terminare la realizzazione di una centrale a biomasse che abbia un fortissimo legame con il territorio. Sarà una centrale alimentata a cippato, legno di potatura delle nostre vigne, vinaccia residua dopo la distillazione, insomma tutti combustibili del territorio che serviranno per dare energia al territorio stesso. É un’idea, questa, che oltre l’idea di business, è un’idea virtuosa. Il calore residuo della lavorazione potrà essere utilizzato per riscaldare le serre con un impatto sull’ambiente praticamente nullo. Il tutto genererà una coesistenza tra ambiente, territorio e azienda davvero straordinario: sarà presente e vivo il mondo agricolo della vigna, quello industriale della distilleria, sarà visibile e visitabile il ciclo del vino e dell’acqua, si potrà vedere il processo che va dal frutto, l’uva, alla grappa passando per il vino e la vinaccia, osservare il ciclo dell’energia e del calore, e quello della fertilizzazione del terreni. Tutti cicli territorio-azienda a impatto zero sull’ambiente e con la produzione di energia. Anche da un punto di vista turistico e culturale è un progetto nel quale credo molto”. É questa la sfida del futuro per la distilleria Francoli? “Le sfide sono molte, vanno dall’affermazione sui mercati esteri, passano per la produzione che deve sempre puntare a miglioramenti qualitativi e arrivano fino a queste nuove frontiere di equilibrio tra azienda e territorio”. Il tutto nella straordinaria forma circolare già descritta nel I secolo d.C.: distillazione come immagine del sole. Che scalda e fa maturare i frutti del territorio. Appunto. Intervista a Alessadro Francoli, F.lli Francoli spa - Ghemme Alessandro Barbaglia
Pianura risicola novarese
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Pianura risicola novarese
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Il lavoro dell'uomo nella risaia: coltivazione del riso nero venere a Casalbeltrame
Il lavoro dell'uomo xxxx
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Pianura risicola novarese: allagamento delle risaie
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Pianura risicola novarese: allagamento delle risaie
Pianura risicola novarese: allagamento delle risaie
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Pianura risicola novarese
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Pianura risicola novarese
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San Nazzaro Sesia: i cappelli delle mondine interpretati da Soheila Dilfanian
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San Nazzaro Seisa: i pesci in vetro realizzati da Soheila Dilfanian
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Il letto del fiume Sesia
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Il letto del fiume Sesia
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Briona: rotonda incrocio statale della Val Sesia con Proh
Briona e la sua rocca
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Gli antichi sentieri che conducono alle colline vitivinicole novaresi
Gli antichi sentieri che conducono alle colline vitivinicole novaresi
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Briona: Francesca Castaldi al lavoro nel vigneto
Francesca Castaldi nella cantina vitivinicola
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Colline novaresi, antico vigneto
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Le colline vitivinicole novaresi
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Ghemme
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Le colline novaresi con vista sul Monte Rosa
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Ghemme: alveari
Ghemme Alberto Imazio al lavoro
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Ghemme: la roggia Mora
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Ghemme: la roggia Mora
Ghemme: archeologia industriale, l'antica ciminiera
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Ghemme: i vinigeti cluniacensi degli antichi vigneti di Cantalupo
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Ghemme: gli antichi vigneti di Cantalupo
Ghemme: gli antichi vigneti di Cantalupo
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I fratelli Rovellotti in vigna
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Ghemme: antico castello ricetto, cantina Rovellotti
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Sizzano: oratorio di San Giuseppe
Ghemme: rotonda con alambicco curata dalla distilleria Francoli
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Colline novaresi antico vigneto
Ghemme - Romagnano Sesia vigneto
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Romagnano Sesia azienda florovivaistica Donetti
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Cavaglietto: azienda Oioli stagionatura del gorgonzola
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Cavaglietto: azienda Oioli stagionatura del gorgonzola
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Cavallirio: azienda Palzola
Cavallirio: azienda Palzola
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Suno: preja da Scalavè (masso erratico)
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Boca: azienda vitivinicola le Piane
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Boca: azienda vitivinicola le Piane coltivazione alla maggiorina
Boca: azienda vitivinicola le Pisane, Christoph K端nzli
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Prato Sesia: veduta dall'alto dell'azienda Cavanna
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Il Monte Rosa visto dai vignet di Ghemme
Boca Le Piane Briona Azienda Agricola Castaldi Francesca Ghemme Antichi Vigneti di Cantalupo Azienda Rovellotti Viticoltori F.lli Francoli spa Prato Sesia Cavanna spa San Nazzaro Sesia Soheila Dilfanian, artista del vetro Sizzano Ponti spa
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