Alessandro Ferrero
EDITORIALE
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Sveglia!
Wake up! Cari lettori, Come tutti i motti coniati più per parlare alla pancia che alla testa, anche il famigerato “Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori” è stato molto ben assimilato dalla pancia e continua a fare danni, assegnando alla scienza, nell’immaginario popolare e rispetto ad altri campi della cultura, il ruolo della figlia di un dio minore. Come tutto ciò che è destinato alla pancia, questo motto non ha passato il filtro della testa, altrimenti ci si sarebbe accorti che, per essere bravi navigatori, la matematica e la fisica (e non solo) ci devono essere ben note. Ci si sarebbe anche accorti che, oltre a santi, poeti e navigatori, questo paese ha dato i natali a fior di scienziati che potrebbero tranquillamente essere ricordati per le loro scoperte, senza bisogno di aggiungere patenti di filosofi o letterati (Galileo docet), campi in cui, salvo rarissime eccezioni, hanno brillato assai meno che in quello scientifico. Perché inizio queste mie considerazioni da qui? Potreste pensare che questa sia, oggi, una sterile polemica e che tutti quei personaggi che ancora negano l’evidenza di risultati scientifici validati con dovizia di prove (scientifiche!), dai terrapiattisti ai no vax, ai fautori dell’agricoltura biodinamica, con i loro corni di bue riempiti di sterco, siano una minoranza alquanto rumorosa di personaggi “originali”, da guardare scuotendo la testa con aria tra il compassionevole e il rassegnato. Se così fosse, mi limiterei anche io a fare spallucce e passerei ad altro. Purtroppo, però, questo atteggiamento di strisciante sfiducia nei confronti della scienza si è radicato anche in settori che hanno ben altro peso di qualche folkloristico gruppo di terrapiattisti & C. Per esempio tra i nostri legislatori. Nell’articolo di Veronica Scotti, in questo stesso numero, troverete la loro ultima perla, per cui le misure legali (cioè quelle che regolano tutte le transazioni commerciali oggi in Italia, anzi, in tutta la UE) non sono quelle definite dal SI. Non è l’unico caso, e viene da chiedersi come mai l’apparato normativo e regolatorio sia sempre in ritardo rispetto ai progressi della scienza. È certamente normale e comprensibile che le applicazioni innovative di nuove scoperte scientifiche vengano recepite con un certo ritardo, dovuto alla necessità di comprenderle, di capirne per quanto possibile le implicazioni economiche, sociali e legali (si pensi alle auto a guida autonoma e, in genere, alle applicazioni più avanzate dell’intelligenza artificiale), per poi poterle correttamente regolamentare. Ma quando si ha a che fare con le variazioni dettate
dal normale progresso delle conoscenze, da dove viene questo ritardo? Sembrerebbe dal fatto che il legislatore non ami rimandare, per gli aspetti tecnici, alla normativa tecnica. E allora recepisce, nel testo di legge, definizioni, valori numerici, relazioni matematiche, ecc., che così perdono la loro caratteristica scientifica di essere in continua evoluzione (perché giustamente assoggettate alle sfide lanciate dalla comunità scientifica) e si cristallizzano in norme cogenti che, quando tenute in vigore troppo a lungo ignorando il progredire della scienza, assomigliano più a tabù che a giuste leggi. E da dove viene questo furor normandi che ha portato a includere nelle leggi (la direttiva 80/181 CEE, in primis, e il DPR 802/82) le definizioni delle unità di misura? Non bastava dire che le unità di misura legali erano quelle del SI, con le definizioni approvate dalla CGPM? Evidentemente non si ha abbastanza fiducia nella scienza e si teme che chissà cosa possano combinare quei matti di scienziati (per non parlare dei metrologi!): meglio definirle per legge, queste unità, che se poi la CGPM (dove peraltro non siedono tecnici, ma delegati dei governi) dovesse cambiarle in un modo che non piace, ci si tiene quelle in vigore. Con tutti i problemi che ne possono, in prospettiva, derivare. Forse è davvero arrivato il momento di svegliarsi e ridare alla scienza il ruolo che le compete nel creare conoscenza e, quindi, cultura. E, all’interno della scienza, restituire alla sperimentazione il ruolo (che le ha assegnato Galileo) di verifica e validazione delle teorie. Come ben dice Dario Petri nell’articolo che troverete più avanti, compito degli esperimenti, e quindi delle misure, è quello di comprendere i limiti dei modelli e valutare l’affidabilità dell’informazione disponibile. Senza questo approccio, in cui le misure giocano un ruolo rilevante, temo che difficilmente riusciremo a distinguere i dati realmente utilizzabili dalla massa d’informazioni che le nuove tecnologie mettono a disposizione. È per questo motivo che condivido i timori espressi da Dario Petri sulle conseguenze di una sottovalutazione della cultura delle misure a favore di una cieca e acritica fiducia nel dato: in mancanza di quell’approccio critico tipico delle misure, sarà sempre possibile estrarre dati che “provano” che la Terra è piatta, o peggio. È davvero tempo di svegliarsi: certi sonni, lungi dall’essere ristoratori, rischiano solo di riportare molto indietro l’orologio dell’umanità. Buona lettura! Alessandro Ferrero
(alessandro.ferrero@polimi.it)
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2/19 ƒ 85