Ucuntu n.90

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Operai 1, Governo 0

Forza, Italia!

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E se fosse un 68? Governo sputtanato, crisi sociale, malcontento che sale. E studenti e operai giĂ insieme in piazza... Intanto, abbiamo ritrovato un'opposizione. E forse anche un governo Roberto Rossi/ Il boss ti minaccia, l'editore ti caccia Fabio D'Urso/ Un cristiano a Catania, tre anni fa || 18 ottobre 2010 || anno III n.90 || www.ucuntu.org ||


Persone

Un cristiano Caro padre Greco, sono passati tre anni che sei nato cittadino dei cieli ( “dei cieli degli occhi dei bambini, nel cuore dei semplici, dei sogni dei poeti, dei pastelli dei pittori, del rincrrescimento dei deliquenti, del sosstegno dei forti”, con le tue parole) Tu avresti sorriso dinnanzi alla tua memoria, nascosta come la tua stessa vita. Hai sorriso continuamente, andandotene nel quartiere del Pigno, negli anni Settanta estrema periferia al confine di Catania, a fare il parroco senza soldi e il povero fabbro che ha condiviso la propria vita vivendo l'accoglienza e annunciando la libertà della coscienza e la volontà di vivere il

Vangelo sulla propria pelle. Hai rinunciato a ogni onore, ma non hai mai rinunciato a vivere in solidarietà con “qualunque uomo, giallo, rosso, nero o bianco, stanco o pimpante, debole o forte, infermo o sano, scartato o assimnilato, peccatore o santo, ignorante o sapiente, di eri e di domani”. Hai sognato una chiesa aperta , che infragesse ogni muro e in cui i soli poveri fossero i soli protagonisti della sua storia. Fabio D'Urso Padre Concetto Greco 3 febbraio 1928, 21 ottobre 2007

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Bersani-Vendola

“Ha da venì er Ticket” - Eh, va là! Sessantotto!”. - Che ti devo dire. Anche allora mica la tv se l'aspettava. Intanto... - E chi sarebbe il capo di 'sto sessantotto? Vendola? Beppe Grillo? Di Pietro? - Beh, mica facile fare il sessantottino se perdi tempo con un partitino intestato al tuo nome. E allora son stati proprio i capi, come li chiami tu, a sfasciare tutto. Stavolta magari se ne fa a meno. - Vabbe', le solite fantasie. E intanto Berlusconi... - Ma intanto ridendo e scherzando ci abbiamo guadagnato un'opposizione. Prima non c'era e ora da sabato c'è. - Ma dai! - Mica lo dico io. Il Corriere lo dice. Leggi qua: “La Fiom si fa partito”., E il Corriere, quando sente guai, se ne intende... - E il piddì? E Bersani? Che fine fanno? - Bersani è uno serio, e a quest'ora s'è già accordato con Vendola per fare il ticket. - Il ticket! Te lo ricordi quando c'era Prodi e Veltroni? Il vecchio e il giovane, l'Emilia solida e la città futura, i conti in ordine e la poesia... - E dai, Veltroni... Tocco palle a solo pensarci. - Anch'io, e difatti Veltroni ha fatto la fine che ha fatto. Ha accoltellato il povero Prodi fra l'altro. Ma Vendola è un'altra cosa. Vendola non tradisce. Bersani tiene su la baracca, e lui la spinge avanti. *** Anche per noi dell'antimafia sabato è stato un bel giorno. Noi non abbiamo amici, in realtà. Non fino in fondo. Gli unici di cui ci fidiamo, sono gli operai. Sono nella stessa barca con noi. Noi abbiamo addosso la mafia, loro la Fiat. Non so qual'è peggio delle due. Ma sono nella stessa barca anche

loro, l'Italia se la dividono fra loro due, nord e sud, destra e “moderati”. Noi, ai Siciliani, l'abbiamo sempre saputo. Non abbiamo mai fatto antimafia senza pensare ai poveracci. Nè abbiamo mai appoggiato uno sciopero senza dire: “Sì, ma i veri padroni sono i Cavalieri”. Questa è la dote che noi portiamo oggi al “movimento”, qualunque cosa sia oggi questa parola, vecchia come tutte quelle dell'altro secolo ma come molte altre della nostra storia (operai e padroni, destra e sinistra, “coppole” e “cappeddi”) nella sostanza tremendamente attuale. Per questo dobbiamo sbrigarci a fare rete. I tanti nostri piccoli (e meno piccoli) siti e giornali non ci bastano più. Nè possiamo affidarci ai “cappeddi” liberali, neanche quando lottano contro Re Bomba o Berlusconi. E tanto per capirci, ecco due esempi. *** In Calabria un giornalista antimafioso, un certo (ché tanto non lo conoscete) Musolino. è stato trasferito d'autorità dalla direzione del suo giornale dopo aver fatto dichiarazioni “avventate” ad Anno Zero. A fargli questo scherzetto sono stati due padroni molto discussi, Citrigno e Aquino (occhio, si preparano a fare un giornale “democratico” a Roma) e un direttore “liberal”, Sansonetti. Di costui io aspetto ancora di sapere che cosa ne pensano i miei amici liberali, compresi i più avanzati. In Sicilia, il giornalista più in pericolo è probabilmente Pino Maniaci, quello di Telejato, delle aggressioni in piazza e della lotta antimafia a Partinico. Quest'estate un “collega”, tale Molino, l'ha violentemente attaccato, usando anche calunnie (per le quali il suo avvocato ha offerto ora una transazione amichevole, cioè soldi, a

Maniaci). Bene, vengo sapere che questo Molino, grazie a spinte molto autorevoli di una parte (non la migliore) del Pd siciliano, è stato assunto ad Anno Zero. Santoro non conosce il background, naturalmente. Ma Maniaci, così, è un po' più isolato (e in pericolo) di prima. *** Beh, parliamo un po' di cose di famiglia, ora. Oggi si laurea in giornalismo Giorgio Ruta (22 anni; lo conoscete dal “Clandestino”) e domani fa l'esame dell'Ordine Chiara Zappalà, un'altra dei nostri, 24 anni, ha vinto l'Ilaria Alpi per un video con Sonia Giardina. Credo che Pippo Fava, da qualche parte, tutto sommato stia sorridendo. Riccardo Orioles CATANIA QUANDO IL GIUDICE SI FA MARCHIONNE Tre anni fa all'Acim Group (depuratori) i lavoratori, non pagati da otto mesi, si misero in “assemblea permanente” dentro l'azienda, all'estremistico scopo di avere i loro soldi. Adesso un giudice li ha condannati per “l’arbitraria invasione e occupazione di aziende industriale” e sabotaggio, l'articolo 508 voluto da Mussolini e non applicato, per pudore, da decenni. La condanna (ventimila euri di multa e un paio di mesi di carcere: mica uno scherzo) si spinge a vietare agli operai di fare attività sindacale per cinque anni. “Ti paghiamo quando vogliamo noi, e se protesti ti tappiamo la bocca”. Pomigliano. Fra le vittime del singolare provvedimento il segretario provinciale della Fiom, Stefano Materia. Che è anche iscritto all'Anpi, così probabilmente la prossima volta lo condanneranno anche per antifascismo. r.o.

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Operai

Fiom e Marcegaglia Due mondi contrapposti e non comunicanti Da un lato una piazza piena, di gente vera, di popolo e bisogni, di determinazione. Dall’altro la sala convegni dalle luci tenui dove il presidente di Confindustria cerca di scrollarsi di dosso il fango del potere, del dossieraggio e del ricatto. Un contrasto che più stridente non potrebbe essere

Due luoghi, contemporanei, dove emergono tutte le contraddizioni di questa Italia solo apparentemente assopita. E che la Fiom, assieme a tutti quelli che si sono affiancati a lei nella buona riuscita della manifestazione di oggi, hanno definitivamente scosso. Non i partiti, non la politica dei palazzi: la gente, vera. Quella che lavora e produce e poi paga le speculazioni e la spregiudicatezza di una classe dirigente interessata solo al mantenimento del potere e del gioco equilibristico dei ricatti incrociati. Cominciamo dalla Fiom. “Piazza San Giovanni è gremita, la gente non riesce a entrare, le strade intorno sono piene. Ai giornalisti diciamo, contateci voi”, ha dichiarato il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Maurizio Landini. Non hanno nessuna intenzione di mollare, i metalmeccanici che si presumevano all’angolo dopo l’accordo di Pomigliano. Sanno quanti sono, e quanto sostegno hanno nella società reale (il termine “civile” lasciamolo alle anime belle e terziste). Erano centinaia di migliaia oggi sotto la pioggia a Roma. La più grande manifestazione in questo Paese dei lavoratori metalmeccanici. E senza Cisl e Uil. Speravano, in molti, in incidenti. Addirittura c’era chi, con istinto da piromane come il ministro dell’interno Maroni, li aveva annunciati. Delusi tutti, quelli che volevano criminalizzare il pezzo più sano

della nostra società e della nostra democrazia. Civili, pacifici e determinati. Irremovibili e incazzati. È stato un grande momento di politica e di democrazia. I monatti della violenza dell’insinuazione e della malainformazione se ne facciano una ragione. E se ne facciano una ragione anche tutti quelli che hanno cercato di isolare e addirittura criminalizzare il più grande sindacato italiano. La Fiom, e la Cgil tutta, ci sono e non hanno nessuna intenzione di mollare. È stato chiarissimo Guglielmo Epifani quando ha espresso con lucidità la necessità di andare avanti con la protesta contro la politica economica del governo: "dopo la manifestazione del 27 novembre in assenza di risposte da parte del governo noi continueremo anche con lo sciopero generale”. Poi andava in scena, a eoni di distanza, la “non piazza” di Confindustria. Dal palco del XII Forum delle Pmi Marcegaglia si è scagliata contro il "teatrino schifoso" in cui è piombata la vita pubblica italiana, rivendicando l'autonomia e l'indipendenza "totali" di Confindustria dalla politica. Con rabbia e orgoglio ha rassicurato gli imprenditori che non cederà mai ai ricatti, anche perché non ci sono scheletri nell'armadio, e ha promesso che porterà a termine il suo mandato fino alla naturale scadenza, nella primavera del 2012, con rinnovata determinazione e senza piegarsi alle "cortine fumogene" e ai "veleni" che

hanno investito viale dell'Astronomia. Peccato che di questo clima lei e la sua organizzazione ne hanno fatto attivamente parte. E non è un caso, infatti, che Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia, lasci il suo incarico in Confindustria e torni “in azienda”. Anche lui travolto dal meccanismo del potere. Tutto il resto è dettaglio e estetica. Quello che rimane davanti ai nostri occhi è solo il fango maleodorante di questo intreccio fra politica, impresa, speculazione finanziaria e informazione che si è palesato dal “caso Boffo” in poi. E a cui anche Confindustria si è adeguata. Ecco i due paesi che si confrontano. Due realtà assolutamente scisse. Da un lato un popolo che ha deciso di riprendere a lottare e a chiedere diritti e rispetto delle regole, libertà e dignità e rappresentanza. Dall’altro il paese dei ricatti e dei dossier, degli interessi inconfessabili. Dove politica e economia sono solo due termini dietro ai quali si nascondono gli ultimi colpi di coda di un sistema di potere arrivato a fine corsa. E forse, già in lenta emersione, si sta palesando il nuovo potere “ripulito” dei Marchionne e dei Montezzemolo. E non sappiamo se a farci più paura sia il futuro o il presente. Ma per oggi festeggiamo il ritorno al protagonismo di un intero popolo che in tanti davano per estinto. Pietro Orsatti www.gliitaliani.it

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Operai

ALBUM DI FAMIGLIA “Il Foglio degli Operai” (1993), edito dalla Redazione dei Siciliani insieme agli operai che occupavano la Itin, una delle fabbriche siciliane appartenute ai “Cavalieri dell'Apocalisse mafiosa” smascherati da Giuseppe Fava. Le foto di queste pagine sono di Sebastiano Gulisano.

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Operai

La Fiom porta in piazza l'opposizione, quella vera Ancora una volta, come già nel 94-95, tocca alla Cgil il ruolo improprio di organizzare e porsi alla testa del popolo di opposizione. E, come allora, sarà questa spinta dal basso a mandare a casa Berlusconi e i suoi scherani. Malgrado le incertezze e gli inciuci del Pd

Democrazia, diritti, dignità, lavoro, contratto: parole semplici, elementari e, proprio per questo, “alte”, in un momento storico in cui, specie nel nostro Paese, rischiano di apparire come retaggi di un passato fatto di «concessioni» che i padroni travestiti da imprenditori avevano fatto ai lavoratori. Invece, quelle «concessioni» sono elementari principi costituzionali. È questo che, il 16 ottobre è andato in scena a Roma, in risposta all’attacco ai diritti consolidati dei lavoratori che ha raggiunto il suo apice a Pomigliano, dove Marchionne e la Fiat hanno deciso di rimettere in chiaro che loro sono i padroni e, dunque, i lavoratori sono servi. A Roma c’era l’Italia dei diritti negati, non solo i metalmelmeccanici della Fiom: c’erano donne e uomini, ragazze e ragazzi, operai e pensionati, impiegati e disoccupati, precari e studenti, insegnanti e immigrati. E questi ultimi non erano certo i terribili stranieri annunciati dal ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, «infiltrati» tra i manifestanti e pronti a creare disordini e violenze. No, erano solo cittadini stranieri che rivendicavano diritti. Pacificamente. Non c’è riuscito, Maroni, con la sua intimidazione, a tenere a casa le persone. E che il suo fosse solo un tentativo di intimidire le masse è risultato subito evidente dalla rilassatezza di tutte le forze dell’ordine comandate a vigilare sulla sicurezza del corteo: non c’era nessuno in tenu-

ta antisommossa come, ad esempio, lo scorso 7 luglio, quando gli aquilani tornati a nella capitale per chiedere di non essere abbandonati a se stessi, hanno trovato soltanto poliziotti, carabinieri e finanzieri in assetto antisommossa. Che li hanno picchiati deliberatamente. È stata una manifestazione pacifica, quella della Fiom, com’è pacifico il popolo di sinistra. E lo ha dimostrato. Conferendo così un maggiore peso specifico alle proprie rivendicazioni nei confronti del Governo e di Confindustria: democrazia, diritti, dignità, lavoro, contratto erano le parole d’ordine degli operai, ma accanto a queste, fra queste, c’erano anche le richieste che arrivano dal mondo della scuola e dell’università, cioè delle istituzioni che dovrebbero formare i cittadini e le future classi dirigenti ma che, invece, sono state trasformate in potenziali “fabbriche” d’ignoranza di massa, in ossequio al principio enunciato in tv, durante la campagna elettorale del 2006, da Berlusconi durante l’unico faccia a faccia con Prodi: «Voi siete convinti che il figlio dell’operaio debba avere le stesse opportunità del figlio del professionista». Non c’è più morale, Contessa, cantava a tal proposito un sarcastico Paolo Pietrangeli nel lontano 1966. Il 16 ottobre, a Roma, c’era l’opposizione, quella vera, reale, quella che fa la spesa, paga le bollette e le tasse, manda i figli a scuola e rispetta le leggi, quella

che deve stringere la cinghia per arrivare alla fine del mese. Mancava, invece, l’opposizione parlamentare, quella senza identità, quella che preferisce gli inciuci di palazzo finalizzati all’autoconservazione (o alla restaurazione, come in Sicilia), dimentica di quello che una volta era il «suo» popolo. Ancora una volta, come già nel 94-95, tocca alla Cgil il ruolo improprio di organizzare e porsi alla testa del popolo di opposizione, allora con Cofferati oggi con Epifani e Landini. Domani con Susanna Camuso, prima donna alla guida di una grande organizzazione di massa: un fatto epocale. C’è da sperare che, in vista dell’ormai annunciato sciopero generale, il Giornale (e gli altri media berlusconiani) non si cimenti nello stesso dossieraggio organizzato, spacciato per inchieste giornalistiche, con cui nel ’94 martellò per settimane “il cinese”, metodo che negli ultimi mesi è tornato prepotentemente alla ribalta, anche se solo per colpire ormai ex alleati. Ma se anche dovesse ripetersi, saranno i pacifici cittadini stanchi di subire soprusi e angherie, ingiustizie e compressione dei diritti a mandare a casa, come nel ’95, Berlusconi e i suoi scherani. Resta solo da capire se questi cittadini troveranno il Pd al loro fianco – ché i partiti di sinistra, quelli esclusi dal parlamento, li hanno già – nella costruzione di un’alternativa culturale al berlusconismo non più rinviabile. Sebastiano Gulisano

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Operai

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ROBERTO ROSSI E ROBERTA MANI

Avamposto

Come isolare un cronista antimafia (garantisticamente) Un cronista fa dichiarazioni “avventate” (parla cioè di politici) ad Anno Zero. Poco dopo lo trasferiscono. Il giornale è Calabria Ora. Il direttore (neo-direttore, al posto dell'”avventato” Pollichieni) è Sansonetti. Gli editori (con ambizioni nazionali: hanno comprato la testata di “Paese Sera”) sono Citrigno e Aquino. Arrivano lettere anonime: “Vattene, segui Pollichieni”. E taniche di benzina. Vabbe', siamo in Calabria: tutto “normale”

Isolare un cronista. Dargli addosso per quello che ha il coraggio di documentare, scrivere e denunciare. Non si muore di ‘ndrangheta. Lo abbiamo detto e scritto un milione di volte. Si muore di solitudine. Terra bruciata attorno: ecco il modo migliore per spegnere una voce civile.C’è una storia a proposito che merita di essere raccontata, perché sintomatica, persino paradigmatica. Non ce ne vorranno, quindi, se, solo per amore della ricerca sui media studies, dedichiamo questo piccolo trattato sulla teoria e la tecnica dell’isolamento del cronista antimafia alla storia di Lucio Musolino, cronista di giudiziaria di Reggio Calabria in forza a “Calabria Ora”. Necessità di sintesi, scienza e garanzia impongono una trattazione asettica, la più asettica delle forme narrative, a discapito del godimento di chi legge: sarà una cronologia.

1 agosto 2010 “Te ne devi andare da Reggio Calabria, smettila di scrivere di ‘ndrangheta. Segui Paolo Pollichieni e vattene. Questa non è per la tua macchina ma per te”. Il messaggio era scritto su un foglio di carta avvolto alla tanica di benzina abbandonata nella veranda di casa sua a Reggio Calabria. Musolino lo trova alle due di notte, appena rincasato. Pochi giorni prima in redazione era arrivata una lettera anonima. Il testo: “Perché non ve ne siete andati anche voi con Pollichieni, non pensate di fare un giornale come prima, il soldi li mettono gli editori, andate a Cuba e nemmeno lì ve lo fanno fare un giornale così”. Il riferimento è alle dimissioni che l’ex direttore di “Calabria Ora” e altri otto cronisti hanno dato il 20 luglio 2010 denunciando ingerenze della proprietà sulla linea del giornale che da alcuni mesi è impegnato

nel documentare presunti rapporti tra il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti e alcuni imprenditori legati al clan De Stefano e alla famiglia Alvaro, operanti rispettivamente a Reggio Calabria e nella fascia orientale dell’Aspromonte. Il nuovo direttore del giornale è Piero Sansonetti, giornalista di sinistra, noto al pubblico nazionale per le sue apparizioni a varie trasmissioni televisive in qualità di commentatore politico. La scelta degli editori cade su di lui, dicono, per garantire un racconto delle notizie calabresi non contaminata da una visione calabrese dei fatti. E’ plausibile che Sansonetti sia stato scelto nella prospettiva di un nuovo progetto editoriale di respiro interregionale che da tempo bolle nella pentola degli editori, Citrigno e Aquino, i quali hanno già acquistato da mesi i diritti sulla testata di “Paese Sera”.

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Avamposto

Le minacce a Musolino sono considerate attendibili. Dal primo agosto vive sotto la tutela delle forze dell’ordine. 7 ottobre 2010 “Calabria Ora” pubblica su due pagine una lunga intervista del direttore Sansonetti al presidente della Regione Scopelliti. Si parla di politica, di sviluppo, di Sud, di ‘ndrangheta, di giornalismo. Dichiara a un certo punto Scopelliti: “Io sono garantista e aspetto le eventuali indagini. Ma lei pensa che non ci siano molte persone che conoscono i mafiosi e non per questo sono mafiosi? Secondo me anche alcuni giornalisti del suo giornale… Io garantista lo sono diventato, prima di demolire una persona bisogna andarci piano. Ci sono giornalisti del suo giornale che il garantismo lo conoscono poco. Per esempio Lucio Musolino…”. Sansonetti ribatte (“Musolino è un ottimo giornalista che fa con scrupolo e serietà il suo lavoro”) e pubblica. Lo stesso giorno una nota firmata da alcuni giornalisti, tra cui Enrico Fierro e Guido Ruotolo, esprime solidarietà al collega minacciato: “Le parole del Governatore costituiscono una minaccia oltre che verso il collega anche per l'autonomia dei gior-

nalisti, nell’ambito di un attacco reso pubblico, peraltro, attraverso un’intervista ospitata sulle colonne del giornale per cui lavora Musolino. L’aver messo all'indice il lavoro coraggioso di Musolino significa il tentativo di fare terreno bruciato intorno a lui: e questo è un disegno inaccettabile.” 7 ottobre 2010 bis “Annozero” si collega da Reggio Calabria con alcuni dei 26 giornalisti minacciati in Calabria negli ultimi tre anni. Tra di loro c’è Lucio Musolino, al quale viene chiesto in che contesto è maturata l’intimidazione che ha subìto. La sua risposta: “Non so chi mi ha messo la tanica. So che cosa avevo scritto: dell’inchiesta Meta che aveva descritto i rapporti dell’attuale governatore della Calabria Giuseppe Scoppelliti con alcuni esponenti della ‘ndrangheta arrestati. E di un pranzo dove il governatore Scopelliti si è visto col boss Cosimo Alvaro. Era stato invitato da un imprenditore arrestato in quest’inchiesta”. Il giornalista, a sostegno di quanto dice, cita un preciso documento giudiziario, pubblico: un informativa del Ros confluita in Meta. 8 ottobre 2010 Maurizio Gasparri e altri esponenti del

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Pdl solidarizzano con Giuseppe Scopelliti. Il governatore querela il giovane giornalista. Musolino si dice sorpreso: Perché non mi ha querelato quando ho scritto su “Calabria Ora” quella notizia? Si chiede. Perché non ha querelato altri colleghi che se ne sono occupati? 9 ottobre 2010 Titolo di apertura, prima pagina di “Calabria Ora”: “Antimafia sì, forcaioli no”. E una foto: una bocca frenata da del filo spinato. Scrive il direttore Sansonetti: “Si può fare antimafia senza essere forcaioli… Scopelliti – dicono – ha dato del giustizialista a un cronista di “Calabria Ora”. Poi però l’altra sera ad Annozero ho sentito un certo numero di giornalisti – tra cui anche uno del mio giornale – avanzare verso Scopelliti accuse molto più gravi dell’essere giustizialista o garantista. E’ stato dipinto come un mafioso e nessuno lo ha difeso. Non c’era un filo di contraddittorio, non sono stati documenti, o fatti o prove… Sono convinto che si può combattere la mafia solo se si resta garantisti. Usare i metodi della repressione, dell’autoritarismo, del forcaiolismo, vuol dire esattamente fare il gioco della mafia.”

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Avamposto

14 ottobre 2010 L’Ansa batte la notizia: “Pdci: Trasferito Lucio Musolino, è fatto grave”. E’ una nota di Ivan Tripodi, segretario reggino dei Comunisti italiani, il primo di fatto a dare la notizia dell’allontanamento di Musolino da Reggio Calabria. Qualche ora dopo, il segretario del sindacato calabrese dei giornalisti, Carlo Parisi – che pure aveva difeso Lucio Musolino nella bagarre sul giustizialismo – diffonde una nota: “Non esiste alcun provvedimento di trasferimento del giornalista Lucio Musolino firmato dal direttore di “Calabria Ora”, Piero Sansonetti. Né risponde al vero che lo stesso provvedimento sarebbe stato assunto all'indomani della partecipazione di Musolino alla trasmissione televisiva Annozero.” Risponde Musolino, sempre a mezzo Ansa: “Il mio trasferimento è diventato operativo con una nota a firma del direttore Piero Sansonetti a me inviata (conservo ovviamente la registrazione della mail) dal collega Alessandro Bozzo, componente del Cdr. Tale mail non è vecchia né di mesi e né di settimane, ma risale alle ore 21,30 dell'8 ottobre scorso. Mi pare che orario e date si commentino da sole. Vero è che tale provvedimento era stato già una prima volta annunciato, oralmente, al Cdr dal direttore Sansonetti e

vero è che il Cdr lo aveva respinto. Successivamente ho incontrato il direttore, al quale dissi che non intendevo accettare alcun trasferimento e che lo ritenevo punitivo. Mi disse che ci avrebbe riflettuto e poi avrebbe deciso. Quella notificatami l'otto ottobre è, con ogni evidenza, la sua ultima decisione.” Tocca a Sansonetti: “E’ circolata questo pomeriggio una notizia totalmente falsa, e fortemente lesiva della mia immagine, secondo la quale io, in qualità di direttore del quotidiano “Calabria Ora”, avrei disposto il trasferimento del giornalista Lucio Musolino, dopo la sua partecipazione ad Annozero. La notizia è stata fornita da una dichiarazione del segretario calabrese del Pdci Ivan Tripodi e confermata dallo stesso Musolino, nonostante la smentita informata e molto precisa del segretario regionale della Fnsi Carlo Parisi. Nella dichiarazione di Tripodi si capisce anche che la mia decisione sarebbe un cedimento a pressioni mafiose. Ho incaricato il mio avvocato di sporgere immediata querela contro il signor Tripodi, contro Lucio Musolino e contro chiunque altro abbia accreditato questa notizia.” La cronologia si ferma qua. Seguiremo la vicenda con la curiosità che deve caratterizzare un buon ricercatore di Teoria e tecnica dell’isolamento del giornalista antimafia, e

ROBERTO ROSSI E ROBERTA MANI

con una naturale disposizione al racconto asettico e garantista. A proposito di garantismo e forcaiolismo, ultima nota cronologica: 13 ottobre 2010 “Il Quotidiano della Calabria” apre la prima pagina col titolo: “Il pentito fa i nomi dei politici”. Il pezzo parla delle dichiarazioni del pentito Paolo Iannò, ex killer del clan Condello, sui rapporti fra ‘ndrangheta e politica. “Si diceva – ha dichiarato Iannò a fine settembre – che Giuseppe Scopelliti era appoggiato dalla ‘ndrangheta: lo dicevano già quando ero latitante”. Lucio Musolino scrive sulla sua bacheca di Facebook: “Il pentito Paolo Iannò fa il nome del Governatore Giuseppe Scopelliti. E sono tre i collaboratori di giustizia (due dei De Stefano e uno dei Condello per la par condicio, sic) a parlare di politica. Il quarto? Già c'è e chissà che non si avventuri pure lui a parlare dei rapporti tra 'ndrangheta e politica”. Già su Facebook, perché il 13 ottobre la sua firma su “Calabria Ora” non c’è e non c’è nemmeno la notizia con la quale il giornale concorrente ha aperto la prima pagina. Un buco, si dirà. No, “garantismo”, appunto: quella notizia su “Calabria Ora”, infatti, non c’è neppure il giorno dopo. Roberto Rossi

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Movimenti

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Mafia al nord/ Silenzi e grida

I ragazzi non devono sapere... Non tutti si rassegnano alla mafia, al nord. Non si rassegnano, ad esempio, i ragazzi di “Ammazzateci tutti” di Busto Arsizio (ce ne sono anche là) che invitano gli studenti a presentarsi con magliette “no crime no violence” al tribunale in cui si processano dei (presunti) mafiosi. La cosa solleva qualche scandalo. Qualcuno si sta arrabbiando, a quanto sembra. E non solo fra i pacifici lombardi...

La maxi-operazione “Crimine”, la più grande della storia dell'antimafia reggina, conferma che la 'ndrangheta non è più un problema solo calabrese, ma un problema nazionale. “Si scopre l'acqua calda”, si potrà replicare. Che i boss avessero oramai traslocato baracca e burattini oltre i confini meneghini lo sapevano oramai anche le pietre, da almeno vent'anni. C'è voluto un atto di forza, potremmo definirlo anche “dimostrativo”, da parte di inquirenti e forze di polizia calabresi e lombarde assieme ed uno spiegamento di forze di migliaia di uomini, per rendere questa verità una “notizia”. Oggi la presenza della mafia calabrese in Lombardia, specie nell'asse Milano-Varese è una certezza: da Buccinasco, divenuta quasi una frazione di Platì, a Busto Arsizio, Legnano, Malpensa. La 'ndrangheta si muove dove si muove l'impresa. Ed evidentemente sguazza bene dove girano soldi e traffici di droga. Ma la vera novità degli ultimi tempi è che adesso i mille rivoli delle diverse operazioni antimafia in terra lombarda, dalle estorsioni, all'usura, al riciclaggio, non investono il tribunale milanese, bensì anche quelli minori. Come Busto Arsizio, dove

sono stati portati a processo per i reati appena citati alcuni presunti 'ndranghetisti (mai come in questi processi il “presunti” sarà d'obbligo fino all'ultima sentenza) affiliati ai clan del crotonese. Ma a Busto è successo anche quello che non ti aspetti: l'antimafia sociale arriva in città prima di quella investigativa. Almeno ufficialmente. Dal 2007 arrivano Massimo Brugnone (coordinatore regionale di Ammazzateci Tutti e dal 2009 membro dell'Esecutivo nazionale) ed un gruppo di coraggiosi ragazzi con il brutto vizio di non farsi i fatti loro.Organizzano incontri nelle scuole con Rosanna Scopelliti, Gian Carlo Caselli, Alberto Nobili, Marco Travaglio. Stampano tshirt, volantini, improvvisano blog e giornalini. Mettono in rete nomi, operazioni, collegamenti tra i clan. Riempiono teatri, auditorium, cinema, librerie. Per dire che la mafia è ad un passo dalle loro case. Ed i bustocchi rispondono sempre positivamente. Non ricordo una sola poltrona vuota ad ogni iniziativa di Ammazzateci Tutti. Poi un giorno Massimo ed i ragazzi decidono che non basta portare la gente in platea, ma che bisogna guardarla in faccia

la mafia, pardon, la presunta mafia. Vogliono esserci, lì, in Tribunale. Vogliono far sentire la presenza della comunità, dei giovani soprattutto. Nasce così l'idea di far partecipare gli studenti delle scuole che vorranno aderire all'udienza del 12 ottobre scorso. Il preside del Liceo scientifico “Tosi”, dimostrando grande senso di responsabilità, decide di favorire l'iniziativa ed autorizza la partecipazione di un gruppo di studenti, accompagnati da un docente e da Massimo. Quando arrivano in tribunale indossano tutti la stessa maglietta: “No crime, no violence”. Un grande rettangolo nero su fondo bianco. L'hanno disegnata e realizzata gli studenti del liceo artistico un paio d'anni fa. Ma sono ancora di moda purtroppo. Chissà quanta paura avranno fatto quelle magliette e le facce pulite di quei ragazzi e di quelle ragazze poco più che diciottenni in quell'aula del palazzo di giustizia. Al punto da portare qualcuno a prendere carta e penna e scrivere una “lettera” formalmente indirizzata al Preside, ma fatta pervenire alle redazioni di tutte le testate locali. «Sono stanca di tutta questa situazione – scrive la donna - sono la moglie di un

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Mafia al nord/ Silenzi e grida

“cattivo ragazzo” e voglio dare sfogo a quanto stiamo subendo in questa orribile esperienza. Ho letto sulla Prealpina del 10 ottobre “Liceali in aula per studiare la ndrangheta”. Mi rivolgo a lei caro Preside, nulla in contrario verso l'informazione ma ritengo che l'informazione debba essere a doppio senso di circolazione. Le volevo sottolineare che il processo è in fase dibattimentale, dove accusa e difesa si scontreranno davanti alla corte per dimostrare l'innocenza o la colpevolezza degli indagati. Noi siamo ancora imputati e quindi non colpevoli. I suoi studenti devono conoscere gli atteggiamenti di persone che a oggi rappresentano la giustizia italiana». E poi continua con l'elencazione di fatti, intercettazioni, mancate comunicazioni. Più che una lettera di sdegno sembra l'arringa difensiva di un bravo penalista. Continua la missiva: «Ritengo giusto che chi commette reato debba essere condannato, se mio marito è colpevole è giusto che paghi ma non per un aperitivo al bar, un saluto per strada, una stretta di mano. Devo ammettere che gli attimi di cedimento sono stati molti, la voglia di difenderci è tanta ma mi chiedo se ha senso combattere quando a priori siamo per molti già colpevoli.

Mi spiace Preside per questo sfogo, ma pensare ai liceali in aula preparati solo a guardare in faccia i presunti ndranghetisti, non lo accetto, sono stanca di affermazioni offensive e prive di conoscenza. Nello stesso articolo Massimo Brugnone dice “Non vogliamo che le aule siano riempite solo da chi quegli imputati vorrebbe vederli liberi”. Ci limitiamo solo a sostenere la persona a cui teniamo in questa brutta disavventura. Lei cosa farebbe? Approfitto anche per controbattere le affermazioni del pm Venditti sulla Prealpina del 9 giugno: “Mafioso è chi non riconosce l'autorità dello Stato, quindi chi in aula si permette di alzare la voce” (va detto, infatti, che in una precedente udienza i parenti degli imputati avevano tenuto comportamenti poco consoni ad un'aula di tribunale, inveendo con urla contro la Corte, NdG). Ribellarsi alle autorità, far valere i propri diritti non sono atteggiamenti mafiosi, al contrario chi abusa del proprio potere, lei come lo definisce? Questo processo è diventato mediatico: bisogna dare l'esempio a questi alunni, non importa se qualcuno sarà innocente, per la giustizia italiana deve esistere un colpevole». Ora, è facile comprendere lo stato

d'animo di una donna (certamente istruita e forse ben inserita nella società) che si trova un marito in galera, imputato in un processo di mafia. Ma l'emotività è una cosa, la giustizia un'altra. I cittadini hanno il diritto di assistere ad ogni udienza si tenga nel nostro Paese, sia questa per un omicidio o per una scazzottata al bar. E quegli studenti, con la loro presenza in aula, hanno dato una lezione di civiltà ad un'intera comunità. Non va sottovalutata però la gravità del fatto: la moglie di un accusato di mafia non ha timore di indicare direttamente il nome ed il cognome del “colpevole”, un ragazzo di ventidue anni che non si fa i fatti suoi e che porta i ragazzi in tribunale, su tutti i giornali del luogo. Il nome di Massimo è entrato nei bar, nelle case, in procura, nelle sedi di partito, al salone del barbiere, in caserma, nelle carceri. Massimo ha già ricevuto nelle scorse settimane alcune telefonate dai parenti di un altro presunto 'ndranghetista originario di Platì. Massimo Brugnone ci ha messo la faccia, è esposto. Aldo Pecora Presidente di "Ammazzateci Tutti"

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Sicilia/ Impresa e carte false

Mafia e post-mafia sempre a spese dei cittadini Operazione “Old town”: un controllo della Finanza, coordinata dal procuratore di Ragusa Petralia, porta al sequestro di uno stabilimento vinicolo e al blocco di un contributo europeo. Siamo ad Acate, al “Feudo Arancio”, un'azienda da più di mille ettari dove un tempo regnavano i cugini Salvo, gli esattori di Cosa Nostra L’operazione “Old town” prende vita a fine 2009 tramite un controllo eseguito dalle fiamme gialle in seguito all’erogazione di un contributo dell’Unione Europea pari a 4,3 milioni di euro. Viene fuori una presunta frode ai danni dello Stato e dell’U.E. in quanto la Future Tecnologie Agroalimentari srl (Fta), che nel 2006 ha acquistato la cantina dal gruppo Mezzacorona, in realtà è proprietà del medesimo gruppo. Infatti, l’81% di essa è di Fabio Rizzoli, amministratore delegato del gruppo Mezzacorona, mentre il restante 19% risulta appartenere alla Nosio spa, subholding dello stesso gruppo, la quale ne controlla tutte le attività di capitale e le partecipazioni strategiche e conta 400 soci. Una vendita fittizia, come anche apparente è stata la creazione di nuovi posti di lavori in quanto non si è proceduto a nuove assunzioni, bensì allo spostamento di alcuni dipendenti da un’azienda ad un’altra sempre all’interno dello stesso gruppo. Scatta in tal modo la denuncia ad otto indagati: Fabio Rizzoli ed il figlio Claudio, il quale procede materialmente alla vendita, Luca Rigotti, amministratore della Nosio, Guido Conci, presidente del Gruppo Mezzacorona, Paolo Carli, consigliere d’amministrazione, Salvatore Cacciatore, dipendente della Fta ed unico locale, Bartolomeo Curatolo, consulente, Ferdinando Musco Castagna, funzionario della Banca Nuova di Palermo. Eh si, perché in questa complessa vicenda ci sta anche il funzionario della banca concessionaria che pare non abbia svolto i controlli in modo meticoloso prima di con-

cedere il contributo. E poi siamo in terra di Sicilia, e vista la passata gestione, viene al colonnello Fallica, colui che sta svolgendo le indagini, anche il sospetto di una presunta infiltrazione mafiosa. Ad avvalorare questa tesi è la presenza all’interno del collegio sindacale della Fta di tre soggetti nati tutti a Castelvetrano, oggi centro nodale di Cosa Nostra: Vito Stallone, presidente del collegio, Giovanni Italia, sindaco effettivo e Giovanni Falsetta sindaco supplente. Il collegamento strano è dato proprio da Stallone, il commercialista di Giuseppe Grigoli il quale a sua volta è collegato a Matteo Messina Denaro per reinvestire il denaro nella grande distribuzione. Inutile negare che Rizzoli e gli esponenti del Gruppo negano la truffa, come anche la consapevole o meno possibile presenza di interessi mafiosi nelle loro attività. Ed infatti agli indagati sono contestati gli artt. 640 bis del codice penale ossia la truffa aggravata e il 416 c.p. ovvero l’associazione a delinquere semplice e il 416 bis, ossia l’associazione di tipo mafioso. *** Abbiamo chiesto al colonnello Francesco Fallica, comandante provinciale della Guardia di Finanza e in passato rappresentante dell’Italia al Comitato di lotta alla frode dell’Unione Europea, di rispondere a qualche domanda. Colonnello, ci vuole parlare dell’operazione “Old town”? Si tratta di un argomento interessante da molti punti di vista: sociologico economico. C’è una grande azienda, il gruppo Mezzacorona che viene in Sicilia per comprare

due grandi feudi dalla famiglia Salvo. Questo non è di per sé un comportamento illecito, però nella nostra esperienza abbiamo imparato che quando un mafioso vende – perché qui parliamo di una famiglia mafiosa che ha fatto i soldi perché erano i c.d. esattori della mafia – lo può fare per diversi motivi come ad esempio perché può subire un sequestro o può fare un fallimento pilotato oppure entrambe le cose. Tali vendite sono interessanti anche perché spesso le vendite sono simulate, spesso si paga in contanti e nel caso dei mafiosi è importante capire il giro che questo denaro compie. E sapendo che il venditore del feudo era la famiglia Salvo ci volevamo già capire qualcosa di più allora. Un giorno mi arriva il c.d. art.10. Questo è un segnale che arriva a tutte le forze di polizia e che funge da campanello d’allarme quando un’azienda sta per prendere un contributo, un appalto o comunque contratta con la Pubblica Amministrazione, al fine di verificare se ci siano infiltrazioni mafiose all’interno della stessa. Cosa avete notato di strano? Nel caso specifico ci sono diverse anomalie: non si tratta di soggetti siciliani (i siciliani siamo obiettivo 1 per quanto riguarda i contributi da ottenere sul territorio), la cantina già esisteva in contrada Torrevecchia. Andando nello specifico mi sono reso conto che l’intero collegio sindacale era formato da soggetti di Castelvetrano e proprio il presidente è Vito Stallone, il quale, come attestato dalla Questura di Trapani, è il commercialista di Giuseppe

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Sicilia/ Impresa e carte false

Grigoli. Giuseppe Grigoli è in atto detenuto per associazione a delinquere di stampo mafioso, definito il cassiere della mafia trapanese. Vito Stallone che sta nel collegio sindacale della è il commercialista di Grigoli, inserito nelle società dello stesso e questo è attestato dalla Questura di Trapani. Ogni attività economica ha sempre destato l’interesse della mafia. Se poi questi interessi sono rimasti fuori dalla porta, se sono entrati dentro casa o sono diventati proprietari io non mi accampo a dirlo, ma ripeto che ci sono interessi mafiosi che vanno dai cugini Salvo ad oggi a Matteo Messina Denaro. Il collegamento Vito Stallone, Grigoli Giuseppe Matteo Messina Denaro è un’autostrada. Il collegamento c’è ed è fortissimo. Inoltre il campiere, l’uomo di fiducia del feudo, è lo stesso che c’era quando la tenuta era di proprietà dei Salvo. Come avveniva la truffa? Già dal primo momento la truffa è stata chiara. C’è la vendita di una cantina all’interno dello stesso gruppo pagata dallo Stato. Inoltre, quando viene dato un contributo oltre alla realizzazione di un obiettivo, in questo caso la riattivazione di una cantina il programma Sikelia prevedeva anche che fosse data una svolta occupazionale, incremento che nel caso di specie non c’è stato perché sono stati presi alcuni dipendenti di Nosio e Villa Albius società facenti parte del gruppo e sono stati passati alla FTA che è per l’81% di Fabio Rizzoli, amministratore delegato del gruppo Mezzacorona, e per il restante 19% della Nosio, azienda facente parte del medesimo gruppo.

In che termini è stato effettuato il sequestro preventivo? Qui ho doluto salvare due situazioni principali. In primo luogo ho voluto conservare i soldi dello Stato. Il nostro simbolo è un grifone con la mano sul forziere. Io ho voluto rimettere la mano sul forziere e per fare ciò ho bloccato la somma di 1.455.564 euro presso il Ministero delle attività produttive e ho sequestrato la cantina che vale 2 milioni e mezzo di euro. Non ho mandato a casa nessuno, non ho detto chiudiamo tutto perché c’è il sequestro, ho avuto senso di responsabilità neanche di andare a sequestrare i soldi all’azienda perché spesso per i signori i soldi ci sono, per gli operai non ci sono mai per far sentire il peso della pressione politico-sociale, almeno così ci fanno sempre pensare. Per evitare ciò e garantire comunque i soldi allo Stato ho messo un’ipoteca sulla cantina. Di conseguenza se la società vende c’è prima lo Stato. Il mio secondo obiettivo è quello di non far perdere il lavoro a nessuno, anzi di continuare a lavorare. Non ho voluto dare fastidio a nessuno, ho fatto solo il mio lavoro. Qualcuno ha obiettato sul fatto che sono andato con l’elicottero, ma vista l’estensione del territorio, ben 652 ettari, non si poteva fare altrimenti. Il diritto di proprietà non limita il potere della magistratura di fare una perquisizione e nel caso specifico questa era autorizzata dal Procuratore della Repubblica di Ragusa. E il coinvolgimento della Banca Nuova? La banca concessionaria secondo noi non

si è azionata in maniera virtuosa. Nella richiesta di contributo la banca deve fare una serie di riscontri. Sarebbe stato semplice riscontrare che la vendita è avvenuta all’interno dello stesso gruppo. Noi non denunciamo tutta la banca, ma solo il funzionario che ha trasmesso la pratica che fra l’altro indica che ci può essere una vendita a se stessi, ma poi la sottace. È come se gliela desse a denti stretti, senza approfondire la questione. Proprio per questo abbiamo segnalato alla Procura la responsabilità penale di questo soggetto. A che punto è il procedimento? Dal punto di vista amministrativo si deve verificare se è giusto che il contributo venga erogato, da quello penale c’è un procedimento in corso per appurare se esistono responsabilità. Non è il primo servizio che facciamo su questo caso. Arrivano parecchi contributi europei che abbiamo verificato e continuiamo a verificare. Questo ci è saltato agli occhi per via del collegio sindacale composto da soggetti di Castelvetrano ed è necessario verificare se, in un luogo come il Feudo Arancio, nel quale prima c’erano infiltrazioni mafiose, ci siano ancora interessi del genere anche se sappiamo che ora ci sono dei trentini che non sono mafiosi, ma dobbiamo verificare se per caso hanno fatto entrare qualcuno e non se ne sono accorti. Secondo me questo dei contributi erogati dallo Stato è un settore molto importante anche per la gente, ci sono tanti imprenditori giovani che vorrebbero entrare. Angela Allegria Il Clandestino

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Vittoria

Ragazzi, qua si gioca a pallamarcia Ombre sulle squadre di calcio I dirigenti che si sono succeduti alla guida delle società calcistiche cittadine hanno spesso mostrato legami più o meno forti con personaggi legati alla mafia locale e alla criminalità organizzata. E anche la politica ha recitato il proprio ruolo. Che il mondo del calcio fosse in grado di suscitare particolari interessi e di muovere ingenti somme di denaro è cosa nota. Da ciò deriva l’interesse che spesso porta imprenditori e politici ad avvicinarsi al mondo del pallone, con risultati spesso poco gratificanti dal punto di vista della legalità. Tale fenomeno si sviluppa in buona parte della Sicilia nella seconda metà degli anni ’80, quando gruppi legati alla criminalità organizzata decidono di investire sulle società di calcio, da Palermo, a Catania, alle piccole squadre di Agrigento, al fine di ottenere il consenso necessario per gestire i propri affari in città. E’ quanto accaduto nel corso degli anni a Vittoria, dove spesso le squadre di calcio che si sono succedute hanno visto alla guida personaggi poco puliti, sia direttamente, che indirettamente attraverso uomini a loro vicini. Si parte dagli anni settanta, quando la squadra locale, allora iscritta al campionato professionistico di serie C2, viene acquistata da Giuseppe Cirasa, ucciso a Vittoria il 9 Settembre 1983, che intratteneva rapporti con l’imprenditore calabrese Pasquale Pizzimenti, coinvolto nel 1992 in un’operazione antimafia nei confronti del clan Dominante-Carbonaro e trovato morto in un pozzo nelle campagne di Vittoria il 16 Dicembre 2001. Nella seconda metà degli anni ’80 i Carbonaro decidono di prendere in mano la squadra e costituiscono la soci-

età sportiva Vittoria Colonna. Andando avanti nel tempo troviamo l’ex sindaco Aiello, al tempo parlamentare regionale, che spinto da un’irrefrenabile passione per il calcio a Vittoria, viene fotografato nel maggio del 1991 allo stadio, seduto sulla panchina della Vittoria Colonna, società che vinse il campionato di terza categoria nella stagione 90/91.

Ma andando ad osservare l'assetto societario della Vittoria Colonna ci si accorge che sono diversi i personaggi ad avere qualche problema con la giustizia. Presidente della società, infatti, era un certo Giovanni Cilia, imprenditore, socio della cooperativa Maxiflora, arrestato nel 1995 e ritenuto esponente della cosca mafiosa DominanteCarbonaro; vice-presidente era tale Antonino Mandarà, proprietario di un autosalone e anch’egli arrestato per mafia. Inoltre la rosa societaria vantava tra le proprie fila personaggi del calibro di Titta Molè, arrestato per mafia, e di Bruno Carbonaro, leader della cosca locale insieme ai fratelli Claudio e Silvio, tutti e tre arrestati tra il 1992 e il 1994 e poi diventati collaboratori di giustizia. Segretario era Claudio La Mattina, diret-

tore generale del Vittoria Calcio durante la presidenza di Giombattista Molè, direttore sportivo agli inizi della gestione Dezio, e poi nuovamente direttore generale nella stagione 2009/2010 e attuale segretario particolare del sindaco di Vittoria Giuseppe Nicosia, solo omonimo dell’allora medico sociale. Dopo i Carbonaro la squadra passa nelle mani dei D’Agosta, più precisamente nelle mani di Salvatore D’Agosta, figlio del boss Francesco D’Agosta, detto il mammasantissima, che ricopre la carica di presidente. A ricoprire il ruolo di presidente del Vittoria calcio alla fine degli anni ’90 è stato Giombattista Molè, manco a dirlo, anch’egli arrestato per mafia. E’ strano notare come fino alla fine degli anni ’90 la squadra ha ottenuto parecchi sponsor, con circa il 70/80 % degli imprenditori vittoriesi che concedevano gli sponsor alla squadra (è da chiedersi se quelle sponsorizzazioni non fossero estorsioni indirette da parte di chi gestiva la squadra). In quegli anni, inoltre, tutte le amministrazioni comunali partecipavano attivamente alle attività della squadra, nonostante tutti sapessero che la società era in mano a gruppi criminali. Nei primi anni 2000 la squadra locale ottiene i migliori risultati, con la storica promozione in serie C1 conquistata nella stagione 2003/2004, quando alla guida del Vittoria calcio c’era l’architetto Angelo Dezio. Gli ultimi anni hanno visto le squadre vittoriesi vagare per i campi delle categorie minori, guidate da piccoli imprenditori locali. Giovanni Lonico Il Clandestino

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Ragusa

Supermercati La mafia nel carrello Il business dei centri commerciali Il nuovo business della mafia si concentra attorno ai centri commerciali e alla grande distribuzione. E la mafia, forse, arriva sui carrelli anche in provincia di Ragusa. Come funghi spuntato anche nell’area iblea centri commerciali e ipermercati: enormi, forse sproporzionati. Ma c’è un giro d’affari così ampio da giustificare questi investimenti? Forse si, vista la ricchezza della nostra provincia, ma qualche dubbio sorge. A Modica nel raggio di poche centinaia di metri sono situati tre centri commerciali: la Galleria Solaria, Al Plaza Shopping, e la neonata costruzione dall'altra parte della strada. Gli ultimi due sono stati costruiti da Cappello Raffaele, imprenditore vicino al gruppo Minardo, lo stesso che costruisce il futuro albergo nella zona di Treppiedi, nel polo commerciale, proprio dietro la pompa di benzina Giap. L’ultima novità per la città della contea è la costruzione del centro commerciale La Fortezza, sulla Modica – Ispica, vicino la zona artigianale di C.da Michelica. La struttura presentata in pompa magna al teatro Garibaldi, con tanto di saluto del sindaco Buscema, dovrebbe ospitare settantacinque negozi su due piani, sparsi in sessantottomila metri quadrati di superficie, con millesettecento posti auto. Manco a dirlo, l'ennesimo schiaffo alla campagna modicana, sempre più violentata. Il mega impianto è realizzato dalla Sercom spa del gruppo calabrese Russo, proprietario anche della Rivazzurra srl, titolare di supermercati DiMeglio, e della Cibus srl, società di ristorazione. Fin qua nessuna anomalia. Ma la storia della società calabrese presenta qualche

neo. Infatti, la Sercom si occupò dei lavori del centro commerciale La Vigna, a Castrofilippo nell’agrigentino. La società del gruppo Russo acquistò per 4 milioni di euro le autorizzazioni e i terreni da una società di Canicattì riconducibile a persone “vicine” a Cosa Nostra. Quest’ultima società aveva precedentemente acquistato i terreni situati in contrada Cometi e aveva avviato le pratiche per la concessione edilizia. Ai lavori, realizzando ingenti guadagni, avrebbero partecipato alcune imprese di soggetti vicini al boss mafioso di Campobello di Licata, ritenuto il numero uno di Cosa Nostra nell’agrigentino e – prima del recente arresto – fra i 30 ricercati più pericolosi d’Italia, Giuseppe Falsone. Da quanto riportato dal giornalista Antonio Mazzeo, da indagini e soprattutto grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Beniamo Di Gati si è scoperto che uomini appartenenti alle cosche locali avrebbero realizzato ingenti investimenti nei lavori edili, partecipando alla progettazione e alla realizzazione del centro commerciale. Per questo fu disposto il sequestro dell’impianto, poi revocato a fine 2008 per “l’estraneità della Sercom alle indagini dell’inchiesta Agorà e del legale rappresentate Rosario Russo , ascoltato solo come “persona informata sui fatti””. Addirittura per la costruzione de “La Fortezza” il gruppo calabrese ha proposto un protocollo di legalità per non ricevere infiltrazioni mafiose. Ma pare che l’orientamento della Prefettura, a cui spetta il compito di accordare il protocollo, sia negativo. Per quale motivo? Forse l’impresa non possiede tutti gli elementi della limpidezza?

Chissà, intanto gli occhi sono puntati sulla Sercom e sull’inchiesta di Agrigento. Intanto, possiamo rivelare che è in corso un’inchiesta sui centri commerciali nell’area iblea, nata da una precedente inchiesta sul centro commerciale ragusano “l’Ibleo”. Grandi interessi, a volte poco limpidi, si annidano sui mega store. Si fa avanti la mafia legalizzata. Altra infiltrazione mafiosa in provincia pare ci sia stata in alcuni super e iper mercati. In particolar modo quelli con il logo Despar o Eurospar. In provincia sono presenti a Modica, Comiso e Ragusa e sono di proprietà dell’Aligrup Spa riconducibile a Sebastiano Scuto. Dal 2001 la società è sotto il controllo dell’amministrazione giudiziaria. Ma chi è Sebastiano Scuto? Nella relazione annuale, del 2008, sulla ‘ndrangheta della Commissione parlamentare di inchiesta, realizzata da Francesco Forgione, si parla della società G.D.S. srl, con sede a Salerno, di cui “è socio anche Salvatore Michele Scuto, figlio di Sebastiano Scuto che ha precedenti per associazione per delinquere di tipo mafioso e secondo la Direzione nazionale antimafia verosimilmente affiliato alla potente famiglia mafiosa dei Laudani di Catania”. La Despar nella Sicilia Occidentale è stata controllata da Gricoli indagato per essere il prestanome di Matteo Messina Denaro. Da recenti indagini si scopre che il commercialista di Gricoli è tale Vito Stallone, presidente del collegio sindacale della Feudo Arancio. Giorgio Ruta e Francesco Ruta Il Clandestino

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Europa

Gay pride a Belgrado Orgoglio e rabbia “Ho gli occhi aperti dal mattino presto, finalmente svegliato non dai piedi gelati ma dal sole obliquo sulla mia faccia. Dalla strada non giungono suoni, mentre aspetto si scaldi l’acqua del tè mi chiedo dove sia finita la lunga fila di auto clacsonanti che mi ha strappato un sorriso a ogni risveglio questi ultimi giorni, facendomi pensare al traffico di via Duomo a Napoli...”

Belgrado. Via Admirala Geprata è deserta, alle due estremità poliziotti in assetto da guerra in doppia fila, con i caschi lucenti e i manganelli riposti. Benvenuto al giorno dei colori e della libertà d’espressione, dell’orgoglio di sentirsi diversi, ma più che altro della possibilità di esprimerlo senza subire pestaggi: il Gay Pride di Belgrado. Hanno detto in tv che più di seimila poliziotti sono stati schierati lungo tutto il percorso della manifestazione e in diversi punti della città, collegati a unità mobili per spostarsi tempestivamente dove richiesto, e appoggiati da elicotteri, hammer corazzati e reparti dell’esercito. Questa volta lo Stato serbo si è preso la responsabilità della parata dispiegando tutte le sue forze, memore dei linciaggi del 2001, il primo tentativo di un Gay Pride nella città, e dell’umiliazione governativa del 2009, quando la manifestazione fu prima spostata e poi cancellata dagli organizzatori per l’impossibilità di garantire la sicurezza dei manifestanti. Dopo una doccia veloce, cammino allegro verso il parco Manjez, punto di partenza della parata, incrociando cordoni di polizia in ogni strada; pochi i passanti, un po’ perché è domenica, un po’ perché molti belgradesi si aspettano il peggio. Un amico che doveva raggiungermi mi chiama angosciato dicendo che non può uscire: alcuni gruppi di ragazzi stanno ingaggiando uno scontro con la polizia proprio nella sua stra-

da, hanno già dato alle fiamme due auto, lui per ora resta barricato in casa. L’atmosfera diventa più pesante quando degli agenti mi controllano diverse volte i documenti, mi perquisiscono e fanno domande, prima di lasciarmi entrare nel parco dotato di un braccialetto e di un adesivo rosa di riconoscimento. Nel giardino sembra di essere in un sogno, la musica alta manda a ripetizione pezzi glam e rock anni Settanta e Ottanta, una miriade di colori festanti, sorrisi, coppie gay e etero, hippies giovani e anziani, eleganti signori in doppiopetto, gruppi antifascisti e organizzazioni dei diritti umani, delegazioni dai paesi balcanici e dall’est Europa, si preparano a sfilare. Conosco diversi ragazzi e ragazze belgradesi, sono in fibrillazione, continuano a dirmi come questo sia un momento storico, finalmente il sospirato Gay Pride può aver luogo senza paura degli estremisti di destra e degli hooligan che infestano la città. Sorridiamo calorosi, ma siamo tutti coscienti di come questo parco sia un ghetto presidiato dall’esercito, se non ci fossero le armi a difenderci non ce la passeremmo così bene, e un certo timore resta sospeso nell’aria pensando al momento in cui usciremo di qui. Sul palco allestito per l’occasione prendono la parola rappresentanti dell’OSCE e del parlamento europeo, e il ministro serbo per i diritti umani e delle minoranze Sveto-

zar Ciplic, fischiato per la sua tiepida difesa dei diritti della comunità LGBT. Molti rappresentanti diplomatici europei sono mescolati alla folla, visibilmente compiaciuti. Si è letto ultimamente nei giornali critici con il governo Tadic di come il Gay Pride sia stato per molti più un evento “politico” allestito per l’Europa, un “test di democrazia” agli occhi degli stranieri, che la vera espressione dei sentimenti popolari. In effetti, ieri hanno manifestato pacificamente il proprio dissenso alla parata molte famiglie e fedeli della chiesa ortodossa, appoggiati da alcuni pope dalla barba lunga, brandendo croci di legno e additando gli omosessuali come “sodomiti”. Proteste contigue ma diverse dagli estremisti del “Gruppo 1389” e di Obraz (Dignità) che hanno minacciato “sangue fino alle ginocchia” e “morte ai gay” sui muri della città e nei loro bollettini. Usciamo scortati da ogni lato, le bandiere della pace sventolano nel sole di Belgrado. Saremo non più di mille, tutti stretti per farci coraggio ora che siamo in strada. Ai lati, nonostante la dissuasione della polizia, ragazzi incappucciati ci osservano aggressivi mostrandoci il dito medio. Passando vicino a una chiesa osservo un piccolo gruppo di fedeli che verso di noi intona inni sacri con le immancabili icone, profondendosi in teatrali segni della croce, guardato a vista da un cordone di agenti.

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Europa

Sulla strada Nemanjina il corteo incrocia i due scheletri degli edifici militari bombardati dalla Nato nel 1999, un cupo sfondo all’allegria che ci attraversa. La parata dura pochissimo, dopo neppure due isolati, percorsi in mezz’ora, arriviamo al Centro Culturale Studentesco e lo invadiamo pacificamente prendendo parte alla festa organizzata all’interno. Musica disco, birre e danze liberatorie smorzano l’ansia, la Gay Parade è andata bene, le notizie dalla città sono inquietanti ma nessun manifestante è rimasto coinvolto. Nel primo pomeriggio la festa continua ma comincia l’”evacuazione”. La polizia ha pensato a tutto, è pronta a caricare piccoli gruppi su camioncini utilizzati per il trasferimento dei detenuti, per guidarli verso un luogo sicuro. Poco lontano da qui, alcuni sciacalli non attendono altro che qualche incauto partecipante si avventuri da solo verso casa. Entro in un mezzo insieme a una decina d’altri, stiamo stipati come sardine, non c’è luce e solo un flebile soffio d’aria entra dal finestrino. La situazione è grottesca, siamo qualcosa a metà tra prigionieri e minoranza a rischio, non so neppure esattamente dove ci conducono. Dopo aver guidato per un quarto d’ora, finalmente aprono il portellone per farci scendere davanti a una centrale di polizia a Novi Beograd, apparentemente lontano dagli scontri. Decido di camminare verso le zone del

centro, ho sentito che sono in corso guerriglie in diversi punti della città. All’incrocio Terazije c’è un folto gruppo di ragazzi che sta devastando vetrine e auto. I passanti guardano curiosi, qualcuno si rifugia nei pochi negozi aperti. Un uomo mi dice che questa situazione gli ricorda la guerra, è di Sarajevo. Le facce di questi ragazzi, additati a seconda dei casi come ultranazionalisti, naziskin, hooligan o semplicemente facinorosi e teppisti, sono tirate, ma sembrano divertirsi distruggendo e creando caos. Sono giovani, molti di loro hanno meno di vent’anni, alcuni sono con le ragazze che li osservano da poco lontano. C’è anche qualche veterano, con anfibi e testa rasata. Decidono di sfondare la vetrina del megastore della Nike, si passano i palloni e inscenano una partitella tra le pietre e i vetri rotti. Nemmeno due minuti dopo arrivano in corsa i poliziotti in assetto antisommossa, distribuendo colpi e calci e arrestando un paio di manifestanti. Mi trovo in mezzo agli scontri e mi salvo dalla polizia solo perché resto fermo e non corro, dimostrando così di non essere tra i violenti. I ragazzi, vestiti con tute acriliche e scarpe da ginnastica alla moda, scappano in ogni direzione, fermandosi un istante solo per lanciare pietre agli inseguitori. Alla fine, il bilancio degli scontri in città sarà di centoventiquattro poliziotti e diciassette rivoltosi feriti, duecentoquattro arresti e un milione di euro di danni stimato. Gli

estremisti, si dice, erano più di seimila. Sui notiziari locali e internazionali saranno gli scontri a tenere banco, facendo scivolare in secondo piano la ben riuscita parata dell’orgoglio gay. Alcuni esponenti dei partiti d’opposizione riaffermano le critiche nei confronti della decisione del governo di tenere la parata pur sapendo che ci sarebbero state proteste violente. Per molti qui in Serbia, come per lo stesso sindaco di Belgrado, la sessualità è un affare da tenere dentro le mura domestiche. Torno a casa, un po’ angosciato. Come me anche qualcuno degli “estremisti” scampati all’arresto starà rincasando, forse in una periferia tra campi brulli e cemento, in una famiglia che non gli dà molto ascolto, troppo presa a venire a capo delle spese o troppo assorta davanti alla tv. Ho la sensazione che i gay c’entrino poco con la rabbia e l’odio che si sono visti per le strade di Belgrado; oggi sono stati loro l’obiettivo, domani possono esserlo i musulmani, i kosovari, le donne emancipate, i venditori ambulanti, gli immigrati. Per una parte della generazione serba cresciuta a pane e tifo calcistico, infarcita di spot televisivi e di slogan etnici della “Grande Serbia”, con poche prospettive davanti e molti dilemmi irrisolti dietro, l’esplosione di rabbia sembra più una dimostrazione disperata di presenza nel mondo. Salvatore De Rosa Napoli Monitor

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Nell'anno di Gelmini

Confessione di una ricercatrice a un ministro del Regno Caro Ministro Gelmini, sono una ricercatrice di Cà Foscari, insegno sociologia. Mai avrei pensato di scriverle sino ad oggi, ma la situazione è grave. Mi perdoni se per un istante le parlo apertamente. Ho due anni meno di lei e sono rientrata in Italia nel 2008 dopo aver trascorso il resto degli anni 2000 negli Stati Uniti. Quand'ero un Ph.D. student negli States con molti docenti c'era un rapporto di amicizia. Nel mio Dipartimento c'erano molte donne, young faculty, associate o full professors. Il reclutamento di nuovi docenti era un processo in cui erano coinvolti tutti, anche i graduate students avevano potere decisionale. Tra le tante cose che valutavamo c'era l'età del candidato, perché più l'Università è giovane e più è viva, dinamica, propositiva, proliferante di sapere. Ricordo che al mio arrivo come studente di dottorato al primo anno avevo trovato ad attendermi all'aeroporto il direttore del Dipartimento. Mi aveva ospitata a casa sua per circa un mese. Amava gli studenti perché credeva rappresentassero il futuro e voleva che fossimo tutti nelle condizioni migliori per lavorare. Ricordo che a lezione gli undergraduates non avevano timore di porre domande, che c'era complicità tra studenti e docenti, che si respirava un'orizzontalità a me sino ad allora sconosciuta. Nel 2008 sono rientrata in Italia. Non era mio desiderio, ma la vita a volte fa strani scherzi. Ricordo con opacità un concorso con altri sei colleghi. Due di noi avevano trent'anni, gli altri ne avevano più di quaranta. Discutevano di candidati interni o esterni, del numero di concorsi tentati e destinati ad altri, di anni di ricerca e di didattica precaria, di corsi di didattica frontale retribuiti con circa 2 mila euro netti l'anno. Parlavano di famiglie e di figli, di bollette, di una passione messa a dura prova dalla precarietà e dalla svalutazione del sapere. All'epoca sapevo poco dell'università italiana. Non sapevo che cosa significasse essere un ricercatore, sapevo che il mio stipendio entrante negli Stati Uniti era tre

volte lo stipendio che prendo ora. Non mi sono stupita ovviamente quando nessuno è venuto a prendermi all'aeroporto, mi sono stupita quando mi sono accorta di avere poche colleghe donne, quando ho conosciuto colleghi che avevano due volte e mezza i miei anni, quando ho realizzato che durante le riunioni ufficiali i ricercatori difficilmente parlavano. Negli anni mi hanno colpita anche altre cose, ad esempio il fatto che l'autonomia di pensiero venisse a volte considerata non tanto come una conquista sublime ma come un segno di arroganza precoce; che in Università come in strada esistessero parole come protettore e tradimento, e che la giovane età non fosse un pregio bensì un difetto: i giovani del resto non hanno un nome, non hanno capitale, non hanno reti di conoscenza già intessute, non hanno potere politico. I giovani non esistono se non in potenza, perciò devono avere pazienza, e prima o poi se hanno fortuna qualcuno li aiuterà. Capirà con quanta meraviglia abbiamo vissuto questi mesi, quant'è stato travolgente vedere migliaia di ricercatori mobilitarsi a partire dal senso di stima di sé, dalla responsabilità per il futuro, dall'entusiasmo, dall'amore per il sapere. Capirà con quanta energia abbiamo cominciato a parlare negli atenei della sua riforma e quant'è stato rigenerante scoprire che potevamo cambiare le cose in meglio. Ci siamo accorti che l'Università pubblica può essere riformata anche senza mutilazioni, che basterebbe invertire un po’ la piramide ordinari-ricercatori per ridurre di molto i costi, per aumentare la democrazia interna, per dare un significato onesto al concetto di meritocrazia. Ci siamo resi conto anche che la sua riforma non va in questa direzione, accentra il potere verso l'alto piuttosto che distribuirlo verso il basso, esclude ancora una volta i più giovani e i precari ed attribuisce il potere decisionale maggioritario ad un Consiglio di Amministrazione esterno ed al Rettore, a scapito addirittura di organi interni sino ad oggi importanti quali il Senato Accademico. Ci siamo resi conto che la sua riforma vorrebbe tagliare i corsi di laurea

“inutili”, ma che la definizione di inutilità è sempre un po' ambigua, del resto anche le dittature sudamericane la utilizzavano per mettere al bando i corsi di filosofia e di sociologia. Infine ci siamo dovuti arrendere al fatto che lei non pensa ai giovani, anzi propone il blocco delle assunzioni di nuovi ricercatori a tempo indeterminato, cosa che non solo spingerebbe i migliori di noi all'esodo, ma che data l'età media del corpo docente italiano spingerebbe nel medio periodo l'Università pubblica al collasso. Non entro nel merito degli effetti congiunti del suo DdL e dei tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario all'Università, perché se lo facessi dovrei concluderne che il governo ha in mente un progetto antropologico regressivo per il popolo italiano. Voglio piuttosto dire che tutti noi siamo preoccupati: ricercatori, precari, studenti, professori associati, professori ordinari e presidi. Siamo preoccupati perché ci sembra che stiate per votare con semplicismo ed irresponsabilità un DdL di estrema importanza. Siamo preoccupati perché ci sembra che vi interessi di più il bene di pochi che il bene di tutti, e che Confindustria abbia più diritto ad entrare nel governo dell'Università di quanto quei giovani “capaci, meritevoli ed anche privi di mezzi” di cui parla la Costituzione abbiano diritto di studiarvi. Siamo preoccupati perché ci sembra che un disegno di legge di questa portata non andrebbe votato in notturna con la fretta che caratterizza le fughe dei ladri ma alla luce del sole, in aperta collaborazione con tutti coloro che desiderano anteporre ai propri interessi l'amore per il futuro. Siamo preoccupati perché crediamo che in questo quadro fosco fatto di crisi economica, di precarietà e di crisi di governo non abbia senso dare prove di forza o perseguire un voto politico, come ci sembra stia accadendo. Crediamo che il diritto all'istruzione in Italia sia in pericolo, e che sia nostro dovere proteggerlo oggi domani e sempre, sino a quando riusciremo a creare un'università aperta, orizzontale e di tutti. Francesca Coin Cà Foscari / Rete 29 Aprile

|| 18 ottobre 2010 || pagina 20 || www.ucuntu.org ||


Nell'anno di Gelmini

Catania/ Una giornata particolare Non è una giornata qualunque. Sono le ore 11.00 del 14 Ottobre e girando per le strade di Catania ti aspetteresti il solito andirivieni di gente che fa acquisti, le voci dei turisti, il rumore del traffico snervante e in sottofondo l'abituale silenzio degli estranei. Eppure se hai avuto modo di passeggiare per le strade centrali di questa mattinata di sole, sai bene che non è così. C'è molto più rumore del solito, ma non un rumore fastidioso, sono suoni piacevoli, voci, risa, idee che si propagano come una ventata d'aria fresca. In piazza Università non ci sono i soliti sconosciuti, c'è Adriana che ti viene incontro per spiegarti in che disastroso stato stanno riducendo l'istruzione pubblica, Matteo che grida a gran voce le proprie idee, Marco che continua a raccontare con le foto ciò che accade e come loro molti altri che mettono in campo nuove forme di comunicazione per parlare purtroppo degli stessi vecchi problemi. E non sono soli, c'è gente di tutte le età e siano essi docenti, ricercatori o precari hanno le stesse nuove idee. Alla Camera dei Deputati non s'è discusso, come previsto, della "riforma" Gelmini e così invece di lottare, di arrabbiarsi, ci si è goduti la vittoria “relativa” di questa battaglia (bada bene non della guerra! dice Alessandro, ricercatore) e abbiamo festeggiato facendo ciò che sappiamo fare meglio: trasformando in azione politica, la nostra cultura e le lezioni di docenti e di ricercatori della nostra università. Con il “sit in”, davanti alla porta del palazzo centrale del nostro Ateneo, abbiamo voluto significare Catania come una città davvero universitaria. Una città in cui è il sapere a saltarti addosso, che ti viene incontro e ti mostra tutta la sua bellezza e il

suo valore. Così in piazza, uno spazio che per eccellenza rappresenta la libertà d'espressione, si sono tenute lezioni e ci sono stati dibattiti, gli stessi che la democrazia dovrebbe insegnarci a fare, ma a cui la letteratura ci abitua molto di più, come ha detto Attilio ad un pubblico di studenti più che mai interessato. Solo in un clima di questo tipo, si sono potute pensare proposte per una Università alternativa, che abbia pari rappresentanti tra studenti, docenti e ricercatori e che garantisca il diritto allo studio per tutti, conferma ne è il documento che Edoardo e Luca hanno stilato e letto e che porteranno a Roma. C'è ancora tanto da costruire, ci sono ancora parole da rilanciare, voci da ascoltare, attività da portare avanti, nomi e volti da rappresentare. Ma la nostra idea di cosa voglia dire fare parte di una società dinamica e aperta, fondata sui Saperi, la abbiamo messa in campo oggi. Quello che vogliamo è una piattaforma in cui scambiarsi idee ed esperienze, che non si stanca di contrastare riforme distruttive e di formularne di nuove e produttive, che ha la forza di ridare vita

ad una intera città. Questa piattaforma, nella dimensione di Piazza multiculturale in cui sia possibile parlare liberamente, noi la abbiamo individuata nell'Istruzione Pubblica e siamo volenterosi di metterla in campo. Valentina Ferro redazione Uni_Verso

foto di Marco Scalisi

|| 18 ottobre 2010 || pagina 21 || www.ucuntu.org ||


Stampa libera v

“Mamma!â€? al festival della creativitĂ di Firenze Amici, lettori, fiancheggiatori, abbonati! E' con grande piacere che vi segnaliamo la presenza di Mamma! (la rivista di giornalismo che fa satira a fumetti) all'interno del Festival della Creativita' di Firenze. L'appuntamento e' per VENERDI' 22 OTTOBRE alle 17:00 a FIRENZE, presso la CUPOLA CONVEGNI del Festival della Creativita', situata in PIAZZA DUOMO. Qui ci sono i dettagli e la mappa dell'iniziativa: http://2010.festivaldellacreativita.it/node/2837 Nel corso dell'iniziativa sara' presentato ufficialmente il programma autunnale di Mamma!, e i nostri ambiziosi progetti per il futuro: - l'uscita di un nuovo numero monografico (anzi bi-grafico) dedicato ai temi dell'Africa e della Follia; - la partecipazione della rivista a Lucca Comics, per lanciare una collana di saggi a fumetti che esordisce con la traduzione di un manga giapponese sulle armi all'uranio impoverito e sui rischi del nucleare civile;

- la nascita dell'associazione culturale "Altrinformazione" che diventera' l'editore ufficiale di libri e rivista, per offrire anche supporto legale e logistico a tutti i vignettisti, giornalisti e fumettari che vogliono tutelare la loro libera espressione dal rischio di querele e ritorsioni; - l'invito alla mobilitazione antibavaglio per contrastare il blitz governativo del primo aprile scorso, che ha azzerato le tariffe postali agevolate per le riviste spedite in abbonamento; - l'idea di costituire un "gruppo d'acquisto" per aggregare e organizzare i piccoli editori e le autoproduzioni a caccia di tipografie che offrano prezzi competitivi. Per contatti e informazioni: Mamma! Se ci leggi e' giornalismo, se ci quereli e' satira Carlo Gubitosa Direttore Responsabile www.mamma.am info@mamma.am 345.9717974

|| 18 ottobre 2010 || pagina 22 || www.ucuntu.org ||


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