EGLI SA CHE IO SO CHE TU SAI CHE EGLI SA

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EGLI SA CHE IO SO CHE TU SAI CHE EGLI SA - preambolo Il segreto è spesso un gioco: qualcosa non si dice, eppure la si intuisce. Lo ricorda bene il “segreto di Pulcinella”, il detto in base al quale ogni segreto non è più tale se qualcosa è diventata di pubblico dominio, nonostante i tentativi maldestri (di Pulcinella) di tenerla nascosta. Quello che si fa si sa, ma ben altra cosa è parlarne: in ciò l’apparente riservatezza da privacy inglese, che è rispetto, mentre invece ben altra cosa è l’omertà italica, che compartecipa, in silenzio, al gioco della congiura. E’ il vecchio “gioco dello zitto”, praticato per decenni da noi bambini nei nostri cortili. Ma è anche la complicità verso il prete ammogliato, verso l’amico con l’amante, verso il bisogno di trasgressione sana che aiuta oggi ognuno di noi a non impazzire. Il segreto fa bene alla salute, insomma! La storia gira attorno al personaggio principale, Nino, che rappresenta un po' tutti noi. Pigro, parassita, lento, manipolatore, amante sincero ed imbranato: un tipico italiano! Essendo questa una favola per adulti, ho cercato di usare un linguaggio sobrio su temi e situazioni che, solitamente, richiamano un lessico scurrile. La scommessa è infatti questa: riusciamo a parlare di fatti adulti con un linguaggio da adulti che sia anche gradevole, come nelle favole? La storia è divisa in capitoli: 1. La sveglia 2. Il cazzeggio 3. L’amore e la morte 4. La pezza a colori 5. Chi l’ha visto? 6. Morale amorale Buona lettura!


PARTE UNO: LA SVEGLIA “Nino, sveglia!” Sembrava lo voce di Dio che proveniva da lontano, dall’alto delle nubi, dal regno dei venti. Una voce musicale, soave, quasi fosse un coro di angeli a recitarla. Non un vocione grosso di un Dio vecchio e barbuto, così com’è dipinto nella cattedrale dove Nino, da piccolo, serviva alla Messa come chierichetto. Infatti un Dio che fa paura non può che avere una voce cavernosa, un po' come nei film americani su Mosè o Abramo. Questo Dio, invece, aveva una voce soave, leggera, scintillante, una voce che apriva alla vita. Eh, si, una voce da donna. Che Dio fosse femmina? In fin dei conti ciò è possibile, il messaggio d’amore del cristianesimo trova proprio l’animo femminile disposto a riceverlo. Ma allora perché mai la Bibbia è scritta al maschile, da maschi e per maschi? Probabilmente è una congiura: siccome le donne non sapevano scrivere, e gli uomini si, è stata fatta passare una storia senza femmine. Svelato il segreto! Tra questi pensieri Nino si crogiolava nel dormiveglia. “Nino, sveglia!” Ora iniziava a connettere qualcosa. Ogni cosa ha il suo tempo, pure il computer, che quando lo si accende non funziona bene da subito, ha bisogno di avviare i programmi, di operativizzare la RAM, di partire. Se lo fa il computer, che è una macchina, perché non lo può fare Nino, che è un essere umano? E poi, se il computer consuma energia elettrica e Nino no, ciò non vuol dire che l’uomo non abbia bisogno di energia, che, nel caso specifico, è autoprodotta: a costo zero, si capisce, ma sempre frutto di uno sforzo. D’altra parte Nino non è mai stato un soldato, in piedi alla sveglia con la tromba in cinque minuti, sull’attenti come una molla di fronte alla rassegna mattutina del sergente, solerte nel compiere il proprio dovere. “Si, ma con calma” era il motto di Nino. Anche perché, che fretta c’è? “Nino, sveglia!” Ecco il sergente, che invadeva la camera da letto, apriva al sole le tapparelle, spalancava la finestra per il (maledetto) ricambio d’aria. Ma non un sergente americano, tipo ranger dei marines, piuttosto un maresciallo italiano, di quelli buoni e pacifici, giustiziere con i cattivi e benevolo con i deboli. Tipo i marescialli dei telefilm nostrani, tipiche forme di potere all’italiana, persone genuine del popolo e a servizio del popolo, marescialli che tutto il mondo ci invidia e di cui dobbiamo andar fieri. Ora, se il maresciallo è


buono per definizione, come fa a non esserlo una marescialla? Infatti bene ci hanno pensato alla Benemerita: “che succede se immettiamo femmine in servizio in un mondo di maschi?” Molestie, fischi, mani sul sedere (e pure altrove….) o cosa? Et voilà, i Carabinieri hanno fatto il miracolo: dai militi semplici fino agli alti ufficiali ecco un mare di donne entrare in servizio, rispettose e rispettate a tutti i livelli. “Noi queste femmine ce le facciamo impanate e fritte” avranno detto i delinquenti (maschi) all’inizio. Invece no: ferme come rocce ma sensibili come le mamme, argute investigatrici dall’intuito sopraffino, astute ammaliatrici con la giustizia nel cuore. Insomma, non più sbirri, ma sbirre, con bollicine e schiuma, graditissime ad ogni pasto. Viva i Carabinieri e viva ancor di più (i colleghi non si offenderanno!) le Carabiniere! “Nino, sveglia!” E va bene che siamo in Italia, e va bene che Dio è donna e carabiniera, e va bene che il sole acceca e l’aria fredda fa scappare la pipì, ma il tono passava dal soave al minaccioso. Eh, si, pure la pazienza di Dio e delle marescialle dei Carabinieri ha un limite. Come dire: “buona si, fessa no”. Ed ecco che, socchiuse le palpebre, iniziava a vedersi la sagoma della dea-marescialla: era la nonna. Nonna Nina. Si, lo stesso nome suo: Nina-Nino. A dire il vero la nonna risultava sulla carta d’identità Anna; ma siccome, a suo tempo, era la cocca dei genitori, era diventata d’uso il diminutivo: da Anna ad Annina, quindi Nina. Il nipote, però, non era un Anno o Annino, quindi Nino: il nome era così fin dalla nascita, così registrato allo Stato Civile dalla nonna stessa. Eh, si, una brutta storia: la madre di Nino si fece ingravidare da un ragazzo - poi disperso in guerra e mai più ritornato - e poi morì in ospedale. La posizione podalica del nascituro e l’inesperienza delle ostetriche a quei tempi hanno creato complicazioni a seguito delle quali, per salvare il piccolo, ma madre ci ha lasciato le penne. Quindi immaginate la nonna Nina, con in mano il certificato ostetrico, in fila allo sportello nascite del Comune, con la morte nel cuore, a dichiarare la venuta al mondo del nipote. Probabilmente la povera donna, frastornata, avrà dichiarato il suo nome, mente il burocrate allo sportello lo avrà capito come nome del nascituro. “Nino, sveglia!” Altro che orfano,Nino era di più: già figlio di ragazza-madre, passava alle cure di una nonnamadre. Nonna Nina, a dire il vero, già pensava di godersi in santa pace la pur misera pensione dopo una vita passata a svolgere i mestieri più umili, dalla bracciante agricola alla domestica, dall’operaia a cottimo alla badante di anziane malate, piscione e cattivissime! Avrebbe certo dedicato delle attenzioni al piccolo, ma solo


per qualche giorno e ciò nel rispetto della propria figlia, ormai madre. Eh, si, nonna Lina conosceva bene l’importanza della maternità e della necessità di non sostituire o scavalcare il ruolo materno. Quindi con la morte della figlia la povera donna si è ritrovata con un pupo in mano da mantenere ed educare in completa solitudine. “Se almeno ci fosse stato il nonno”, diceva, “o un maschio di famiglia”, pensava. Ma non per motivi pratici, in quelli le donne sono autonome, i maschi con le pappe, i pannolini o le coliche sono davvero imbranati! Lo pensava per un sostegno morale: sentirsi dire un “brava” o sentire una pacca sulla spalla ha un suo grande valore. La preoccupazione di nonna Nina era riguardo alla crescita: da una rivista dal parrucchiere aveva letto che i maschi senza padre sono più facili a diventare gay. Che Dio ci scansi e liberi! “Nino, sveglia!” La voce soave iniziava ad incupirsi, i toni iniziali di tipo acuto erano diventati gravi, ormai assoli bassi da baritono, più simili a mugugni che a melodie. Lo dice anche la fisica acustica: i toni più sono alti, più prendono le orecchie, più sono bassi, più prendono lo stomaco. Alla dea marescialla iniziava inspiegabilmente a crescere la barba, nelle sue mani iniziava a materializzarsi non il lampo di Zeus, ma il bastone della scopa. Una dea guerriera, una valchiria, una amazzone? No, era sempre la nonna: certo, con in una mano la scopa, ma con l’altra una tazza di caffè. Ah, le donne: non c’è nulla di più piacevole che svegliarsi con la colazione al letto. Le vere amanti lo fanno per motivi erotici, ben sanno che l’erezione mattutina è la migliore di tutte e quindi se la conquistano col caffè. Ma la nonna era amore allo stato puro: il caldo del caffè, il dolce dello zucchero, il retrogusto amaro, erano tutti indicatori dell’affetto. E come si fa a non svegliarsi bene quando con noi c’è qualcuno che ci ama? E’ solo a queste condizioni che Nino si alzava dal letto.


PARTE DUE: IL CAZZEGGIO Il cazzeggio è un’arte italica. Lo stesso termine, sconosciuto al vocabolario, è entrato da poco nella lingua corrente come termine ufficiale, a riprova di una realtà preponderante nella nostra nazione. Noi siamo un popolo, come fece scrivere il fascismo a Roma sul palazzo della civiltà italiana “di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. In verità abbiamo un’altra dote in cui siamo supercampioni: amiamo cazzeggiare. Lo spiega bene il Wikipedia: cazzeggiare significa perdere tempo, dedicandosi ad attività inutili, o a discorsi su cose senza fondamento o futili oppure inconcludenti e superficiali. Altro che i peones messicani col sombrero, altro che i watussi nella calda Africa, altro che i carcerati nelle patrie galere: noi li freghiamo tutti. D’altra parte poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori e trasmigratori non sono per costituzione di indole cazzeggiatoria? Non sono cioè geni che amano giocare con la vita? Lo dicevano pure gli antichi romani: è l’ozio il massimo della creatività, è col vecchio otium latino che i patrizi romani esercitavano l’intelligenza. Gli stessi affari si chiamano ancora oggi negozio in opposizione all’ozio, ma conservandone lo stesso tema, e ciò non a caso. Chi infatti negozia, a livello economico, politico o religioso, lo fa in normalissimo relax, sempre col buffet pronto, da noi in Italia, invece, a ristorante (col preciso scopo di far ubriacare la controparte) e, se possibile, con digestivi piccanti (e non dico altro). In Italia la trattativa è un fatto seduttivo ottenuto col cazzeggio. Diplomazia pura! Il cazzeggio è per definizione un’arte, e noi in Italia siamo pieni di Accademie plurisecolari con precisi protocolli comportamentali. Prima di tutto è un’arte maschile: dalle Alpi a Lampedusa, da Ventimiglia a Santa Maria di Leuca, troverete sempre donne a casa a cucinare ed uomini in piazza o in osteria a cazzeggiare. La donna, avezza al dolore, deve infatti soffrire, mentre il sesso forte, incapace di resilienza, preferisce starsene da parte: altro che parità! Non a caso la frequenza alla chiesa è prerogativa femminile, mentre quella dei bar maschile. Beninteso: anche le donne cazzeggiano, ma in altro modo: la chiacchiera non a caso è termine di genere femminile. Ho controllato: non esiste una pubblicazione editoriale sul cazzeggio, dimostrazione del fatto che la fonte è ancora, più che orale, esperienziale. Generalmente il cazzeggio lo si impara in famiglia e si proseguono poi gli


studi tra gli amici. E’ ancora un campo vergine per gli antropologi, e non a caso: le fonti non si trovano in biblioteca, ma vanno cercate tramite la ricerca sul campo. Basta vedere i punti di aggregazione, storicamente divisi per sesso: le donne in chiesa e gli uomini al bar, le vecchiette nei cortili, gli uomini tra di loro a “fare cose” (pescare, cacciare, giocare). Il focus del cazzeggio è “stare tra gli appartenenti dello stesso sesso”: una tradizione arcaica di origine pastorizia, in cui i maschi erano soliti incontrarsi e festeggiare senza donne, anche cucinando. Insomma, il cazzeggio è una scelta di vita con un lungo periodo di paziente addestramento. Il diploma viene rilasciato solo “cum laude” e dopo anni di apprendistato. Non ci sono mezze misure, o il cazzeggio lo si fa bene, o è meglio dedicarsi ad altro: pensiero tipicamente maschile! Certo, c’è una variabile geografica che mette in evidenza un grande alleato del cazzeggio: il sole. Se il nordico, con la neve, il gelo ed il ghiaccio, è costretto giocoforza a muoversi per riscaldarsi e quindi a lavorare, il sudista, preso da attacchi di pressione bassa, rallenta i ritmi, i movimenti, finanche il battito del cuore. E’ un fatto di natura: come si fa ad essere smaniosi con l’arsura? Pure i serpenti, senza sole, non si muovono! Quel poco di energia che resta è il caso di dedicarla al bere, alla chiacchiera, al sonnecchiamento. E’ pure un fatto di salute: siccome va evitato lo stress, la preoccupazione e la pressione alta, il metabolismo ordina con i suoi enzimi il cazzeggio come comportamento preventivo di ogni malanno. L’infarto è tipico del nord, al sud è il cazzeggio ad essere la medicina naturale, tra l’altro esente da ticket! Per nord io intendo gli angloamericani; i nordisti nostrani sono invece più simili agli africani di quanto non si creda. La Lega ci ha provato a far passare l’idea che il nord sia più produttivo, ma non ci è riuscita: tutti i migliori professionisti al nord, dai primari ai giudici, dai questori agli amministratori delegati, sono quasi tutti uomini del sud, cresciuti a pane e cazzeggio, educati al negotium latino e forgiati da forte dedizione al lavoro. In una cosa i leghisti hanno ragione: i meridionali stanno invadendo il nord. Poverini, solo ora se ne sono accorti? Leghisti, una montagna di cazzeggiatori vi seppellirà! Ma torniamo a noi, ovvero alla dote italica (e non solo meridionale) del cazzeggio. Per capirlo basta andare all’estero: nelle piazze, nei circoli, sulle spiagge troverete sempre connazionali (tra milanesi e palerminani) dediti a questo sport. Gioco delle carte, sedute a bar e gelaterie, giochi seduttivi con le donne indigene,


spaparanzati sulle sedie a sdraio, con caffè e granite: noi italiani siamo tutti lì. D’altra parte, se il nostro Paese è di cultura contadina, con un otium giocato per i maschi per secoli dai nostri nonni in osterie e piazze, noi degni nipoti continuiamo la tradizione. Che male c’è? Ma è una cultura a serio rischio di estinzione per via dei telefonini. Se oggi i giovani si siedono al bar e smanettano questi marchingegni, noi veterani, invece, ci guardiamo negli occhi tra di noi e, specialmente, in quelli del gentil sesso. Se i giovani mandano sms e whatsup all’altro sesso (speriamo), noi radiografiamo le donne che ci passano davanti ed immettiamo potenti campi magnetici che non lasciano la vittima indifferente. Si tratta di un’arte: il silenzio comunicativo. Il silenzio non è assenza di comunicazione, ma proprio il contrario: si ipercomunica a più livelli e senza filtri, certi della chiara intellegibilità dei nostri messaggi. Altro che la macchina enigma dei nazisti, il nostro segnale è chiaro e forte, e pure bio! Così chiaro che il sistema trascende i codici linguistici e si afferma iperefficacemente senza parole. Un po' come i sordomuti che si capiscono senza le parole ma a gesti, i geni-cazzeggiatori non gesticolano, né si muovono, al massimo fanno occhiolini, smorfie o sospiri, i quali sono messaggi internazionali. Questo gioco è molto amato dalle nordiche, le quali giocano attorno all’amo come pesciotte apparentemente indifferenti. D’altra parte il cazzeggio è parente del corteggiamento: più che le parole, sono i gesti ad avere un senso. Poteva il nostro Nino essere indifferente a questa cultura? Lui che, senza padre, cercava figure di riferimento nel mondo? A dire il vero la nonna ci provò ad avvicinarlo alla chiesa: vuoi che, tra preti e sacrestani, tra animatori e catechisti, non esca fuori un padre putativo, che se lo prenda a cuore e lo educhi? Infatti per essere padre non è necessario generare, San Giuseppe ne è la dimostrazione: la paternità è una scelta di testa e di cuore, non di testicoli o di sperma. Sebbene la parrocchia sia un potenziale ricettacolo di pedofili e perversi, la nonna valutò bene il rischio prima di favorire l’accesso di Nino a quel mondo. Le donne, si sa, sono come la Gestapo: orecchie dappertutto, rete di spioni fidati, dossier sulle persone fino alla quinta generazione! Le donne sanno tutto, ma non dicono mai niente: magari sanno del rapporto sessuale del prete con una perpetua, ma lo valutano pure salutare, anzi a garanzia dell’umanità del sacerdote. Anche in presenza di sanità psichica del parroco, un rischio c’era: l’ipotesi di avviare Nino verso il seminario, magari sotto l’egida


della pecorella smarrita. Non se ne parla mai, ma il nuomero degli inviati in seminario è uno degli indicatori di performance valutati da Monsignore verso ogni Don. Ma c’era un problema: a Nino piacevano le donne. Per essere più chiari: le femmine, lato A e lato B, tette, culo e tutto il resto. Sollevato dal rischio gay di nonna Nina, gli fu permesso l’accesso all’Accademia del cazzeggio: il bar. Chi lo frequenta, generalmente, deve pagare la tassa quotidiana (un caffè, un cappuccino, un’aranciata), dopodichè può trascorrere l’intera giornata gratis, consumazioni gratuite comprese (acqua del rubinetto) o quelle offerte dagli amici o frutto di scommesse vinte. Ma il bar può anche essere scuola di vita, non luogo di perdizione. Di mattina, per esempio, fanno colazione imprenditori ed operai. Se si vuol lavorare basta spargere la voce, mentre alle referenze (in italiano: raccomandazioni) ci pensano gli altri compari di ugual censo. I compari non sono da intendere in maniera dispregiativa: derivano il nome dal latino “cum panis, cioè “che mangia lo stesso pane” (come gli apostoli di Gesù), quindi è richiesta lealtà, solidarietà, fratellanza. “Libertè, fraternitè, egalitè” non è solo il motto della Rivoluzione Francese, ma anche il codice deontologico dell’Accademia del cazzeggio. Non dimenticatelo mai.


PARTE TRE: L’AMORE E LA MORTE La vita di Nino procedeva tranquillamente tra (brevi) lavori saltuari e (lunghi) periodi di riposo all’Accademia. A lui servivano, in fin dei conti, solo i soldi per pagare le consumazioni, pagarsi l’ingresso a qualche concerto o contribuire alla benzina quando si andava al mare con gli amici (spiaggia libera e pranzo con panini alla frittata fatti dalla nonna). Quando poi i soldi erano in abbondanza (quasi mai) Nino si concedeva dal salumiere mega-panini (detti paninazzi) con l’immancabile mortadella, salume-simbolo del proletariato. Era un momento mistico la divisione in spiaggia dei paninazzi tra i compari, silenzio religioso ed ascesi spirituale: da li il detto “proletari di tutto il mondo, (con la mortadella) unitevi”! Altro che pani e pesci, è la mortadella che crea “un cuor solo ed un’anima sola”. Nino amava la vita e alla morte non ci pensava mai. A dire il vero da chierichetto ci pensò più volte, specialmente alla consacrazione, quando, secondo i cattolici, Gesù si trasforma in pane e vino. Ma è un fatto solo simbolico? Macchè, i cattolici, diversamente dai protestanti, hanno inventato la transustanziazióne: l’ostia ed il vino non sono simbolo del corpo e del pane di Gesù, sono proprio il corpo e il pane di Gesù. E’ per questo che tutti fanno la comunione con facce tristi, con animo pio, con spirito contrito: ma che c’entrano i fedeli, mica sono stati loro ad uccidere Gesù? Pure alla prima comunione Nino aveva tanti dubbi, nonostante il catechismo: allora con l’ostia si mangia il corpo di Dio? Siamo cannibali? Certo, misteri di fede, che un bambino non può capire. Ma i grandi? Quindi la settimana santa era un vero e proprio calvario - è il caso di dirlo!- per il nostro Nino: più leggeva a Bibbia e più non capiva. Certo è che restava l’idea della morte, ingiusta, inattesa, meschina per ogni uomo. E meno male che arrivava Pasqua: ai dubbi teologici di Nino rispondeva l’esplosione della Resurrezione. La morte non esiste, è solo un passaggio verso la gioia. Ma allora perché si festeggia la passione di Gesù Cristo per tutta la Quaresima e la sua resurrezione in un giorno solo? Perchè amiamo più la croce che la vita eterna, il dolore più della felicità? Che poi Nino nella sua vita tante gioie mica le aveva mai avute. A cominciare dall’amore: innamorato sempre, fidanzato mai. L’amore, si sa, pare un fatto di cuore, ma poi diventa un fatto di testa e di portafoglio. A Nino piacevano le donne: gli occhiolini, le battutine, gli approcci durante i balli di coppia (occasione in cui la


passione si faceva sentire, eccome!) facevano ben sperare, ma poi non si concludeva nulla. Certo qualche bacio, qualche bella pomiciata, qualche invito intimo e fugace, ma alla fine poco si concludeva. Il motivo tutti lo capivano, ma non Nino: non era un buon partito. Infatti le donzelle, quando si innamorano, fanno prima domanda in carta da bollo alla Gestapo (le amiche) per desumere informazioni. Scapolo, orfano, disoccupato e cazzeggiatore diventavano i capi d’accusa nei suoi confronti. E restava solo, senza capire perché: infatti è tipico dei maschi non capire proprio nulla riguardo al cuore femminile! “Signori della Corte”, esordì uno dei compari dell’Accademia; “quì la situazione è seria e va intentata qualsivoglia iniziativa per favorire l’iniziazione di questo giovane virgulto”. Il verdetto fu unanime e corroborato da una raccolta fondi da fundraising: Nino doveva essere portato a prostitute. No, ma non quelle sulla strada, una “pulita”, dolce e sensuale, che faccia un po' da maestra, un po' da amica. La scelta cadde su Agata, detta Agatina (per la sua statura bassa): bidella di scuola di giorno ed accompagnatrice di sera. Non una prostitutabagascia, ma neanche una escort da champagne e caviale: una cosa a metà, persona seria, prezzo abbordabile, pizza e birra comprese. Agatina non lo faceva (solo) per soldi, lo faceva (anche) per passione: il maschio gli doveva comunque piacere. Il fatto poi che fosse la sua prima volta e che tutti i compari avessero fatto una colletta convinse Agatina a contribuire allo sforzo umanitario. Con l’animo crocerossino diede quindi l’assenso a quest’opera di bene. Ma non fu facile, per i compari, accompagnare il nostro Nino al luogo del misfatto. Beninteso, egli sapeva già come funzionava, ma le sue esperienze si fermavano all’autoerotismo. Certo, tra riviste e internet sapeva com’era fatta una vagina, ma la realtà lo spingeva ad avere una grande paura. Altro che performance da pornostar: c’era ansia a mille ed una maledetta paura di fare cilecca. Quindi l’incontro a Teano fu tra una sabauda Agatina (sicura di sé) ed un garibaldino Nino (imbranato come non mai). Quando si ha paura nella vita due sono le scelte: o si scappa, o ci si lascia fare. E meno male che Agatina ci sapeva fare: doccia calda, tenere carezze, colori e penombra della camera, musichetta di sottofondo e profilattici sul comodino. E così fu che Nino perse la verginità: non più illibato!


Il sesso è chiamato in tanti modi nel mondo, ma da noi in Italia si usa dire “fare l’amore”. Il rapporto sessuale non è, in fin dei conti, una mera penetrazione vaginale col pene, ma una relazione bella e buona. Quindi anche con le prostitute si fa l’amore: certo, c’è una vagina da penetrare, dei seni da manipolare, tutto un corpo da gustare, tutto quanto si farebbe con la propria fidanzata, ma…..senza baci! Infatti le professioniste serie non baciano, né usano la bocca per stimolare il pene (lo chiamano fellatio, in onore dei latini che l’hanno inventato): il bacio è amore, riservato a chi si vuole bene, non certo ai clienti. Però ci sono prostitute e prostitute: Agatina apparteneva al vecchio stampo e considerava i suoi clienti come amici. Certo, scop-amici, ma sempre amici sono. Non amanti, e quindi niente baci, né fellatio. Nino era abituato, nella masturbazione, a bruciare le tappe, a liberarsi dalla voglia fino all’esplosione finale, dopodichè subentrava la desolazione della solitudine. Con Agatina fu però diverso: prima di tutto lei gli montò sopra e guidò il gioco a ritmo lento, di conseguenza Nino imparò a rilassarsi per davvero, aiutato da seni ballerini e pieni, da succhiare, da massaggiare, da giocarci all’infinito. Era un gioco nuovo questo amore: guardare la donna, divertirsi allo svolazzare dei suoi capelli, annusare e gustare l’odore della pelle, frammista a deodoranti, molto probabilmente a base di fenormoni. E poi l’esplosione, irrefrenabile, compulsiva, incredibilmente magnifica. L’orgasmo è come la morte: dolce, calda, accogliente. Non è solo un fatto ormonale, ma spirituale: con l’orgasmo si sale al settimo cielo, sparisce tutta la tensione e si cade tra le braccia di Morfeo. Che bella la morte: lasciarsi andare, sapere di trovarsi tra braccia sicure, sprofondare in tutte le sinuosità che sono lì, a portata di mano. Ci sono tanti modi per morire, quella più sublime è sicuramente quella di lasciarsi andare in un orgasmo. D’altra parte ognuno di noi è concepito con un atto d’amore, perché mai si dovrebbe morire senza di questo? Lo indica la natura: se il maschio, dopo l’orgasmo, ha voglia di dormire, è un atto d’amore della donna accompagnarlo verso il sonno, cioè affidarsi alla cura della partner. E’ un atto che unisce la donnaamante alla donna-mamma: amore, appunto. In fin dei conti era la stessa estasi che Nino provava a vedere le (poche) immagini della resurrezione, del paradiso o del giudizio universale in giro per le chiese: stelle, cielo, vento, luna e luce dell’eternità. Che bello morire così: tra le cosce di una donna!


Compiuto il fatto ed esposto un preciso resoconto all’Accademia (solo quella volta pagante), fu gentilmente accompagnato (a piedi) a casa. Fu la prima volta che realizzò l’inopportunità a che si aprisse con la nonna. A dire il vero lo aveva fatto altre volte quando le piaceva qualcuna o quando si innamorava. Quella volta no: era un fatto suo, intimo, personale. Ma la nonna avrebbe capito lo stesso: gli occhi lucidi, la muscolatura rilassata, l’umore gentile, sono tutti indicatori di una buona consumazione. Gli anziani non sono mica rimbambiti: a loro basta uno sguardo per capire tutto. E la nonna sapeva il fatto suo! Ergo: porta aperta pian pianino, scarpe tolte in religioso silenzio, vestiti appoggiati sul divano e...di fila a letto! Bello il letto, fresco, morbido, accogliente, quasi un tappeto volante, dove proseguire il sogno. Che sogno non era: Agatina esisteva veramente, tutta pappa e ciccia, calda e voluttuosa, maestra e compagna. Il sonno arrivò presto, più pesante che mai, favorito anche dal fatto che la nonna, quella notte, non russava. “Grazie a Dio”, sospirò Nino, e si addormentò. “Nino, sveglia!”. In verità si aspettava questa tiritera quotidiana, che però tardava ad arrivare. Più che altro l’attesa riguardava principalmente il caffè al letto, oltre alle altre operazioni da caserma di nonna Nina. Il caffè è una droga, attiva la circolazione, stimola la defecazione, alza la pressione, attiva cioè in contemporanea tutte le funzioni del ritorno dalla morte alla vita. Tanti che conosco, me compreso, senza caffè di mattina non connettono, i pochi neuroni rimasti attivi al massimo spingono a fare pipì o a catapultarsi sotto una doccia fredda. Bisogna un po' costringersi a svegliarsi, ci vuole un po' di autodisciplina e coraggio verso la vita. I nordici sono soliti spalancare la finestra di botto, anche d’inverno: i più arditi (noi italiani no di certo) se ne vanno nudi nella neve per riprendere senno, spesso dopo una bronza. Ma non era il caso dell’italianissimo Nino. “Nonna, sveglia!”. Era la prima volta che lo diceva, di sicuro con l’ultima energia rimasta, bisognosa di un pietoso pieno di caffè. Probabilmente il silenzio era l’effetto della “piacevole droga” della sera prima: Ah, Agatina, altro che “Hey Jude” o “Lucy in the sky with diamonds”: la prima l’aveva toccata e gustata, dea mediterranea, le seconde chi cavolo le conosceva, i nomi richiamavano solo fredde donne inglesi, pallide presenze senza sentimento. Quindi nell’intento di andare al bagno, supponendo che nonna Nina fosse fuori a


fare la spesa, sbirciò tra la porta socchiusa della cameretta: la nonna era ancora li. La pigrona dormiva placidamente, serenamente, con un ghigno tipico di chi ha sempre capito tutto: “vuoi vedere che sa di me ieri sera”? Convinto che fosse stanca, le allungò una carezza: freddo assoluto. E’ lì che Nino scoprì la morte.


PARTE QUATTRO: LA PEZZA A COLORI Il cazzeggio è un castello fatto con le carte da gioco: tiene finché dura, quando però una sola carta si smuove o quando spiffera un po' di vento, ecco che casca tutto, irrimediabilmente. E’ come nascere ed uscire al freddo dopo una gestazione al caldo, con musiche e voci, con carezze e colpetti di risposta: uno shock! C’è un prima ed un dopo, un prima fatto di agiatezza, un dopo fatto di solitudine, un prima fatto di calore ed affetto, un dopo fatto di tristezza e sregolatezza, un prima fatto di soldi, un secondo al verde! Gli fu chiaro che la festa era finita e che lui, Nino, non poteva più esimersi dal diventare adulto. D’ora in poi al bar non ci sarebbe più andato, comunque non più da mezzogiorno in poi, bensì all’alba, nel tentativo di incrociare gli operai per capire dove e come lavorare. Il lavoro ora non era più un’opzione, un diversivo per bamboccioni, ma un dovere, una necessità per campare. La nonna, nel bene o nel male, aveva la pensione. “Pochi, maledetti, ma subito” diceva all’inizio di ogni mese alla cassiera della Posta, che ogni volta le propinava conti, carte di credito, investimenti, assicurazioni ed altre cose strane. “Pochi, maledetti, ma subito” significava sull’unghia, cash, in contanti. Lo sapeva solo lei cosa doveva fare, ma era tutto nella sua testa: le bollette, il mangiare, il grembiule scolastico per Nino. Restava ben poco, ma bastava: miracoli delle donne, vere regine del focolare da sempre! “Pochi, maledetti, ma subito”: l’ultima volta che lo disse fu poi scippata da due tipacci in moto, al che tirò avanti per tutto il mese con prestiti del bottegaio ed aiuti in natura da parte delle vicine-vedove. Tirare la cinghia, appunto! E fu così che finì la trattativa finanziaria con l’Ente Poste: si aprì un libretto postale con accredito della pensione e prelievi settimanali, ma dopo essersi fatta giurare solennemente da parte di tutti gli impiegati postali della gratutà della questione. La cosa pare funzionasse, non solo a danno dei maledetti scippatori, ma pure a suo vantaggio: i piccoli risparmi di ogni mese non finivano più nel porcellino salvadanaio, ma restavano sul libretto, e pure con una sorpresa: la posta scaricava a fine anno pure gli interessi. Evviva la posta! Era comodo: quando servivano soldi li si andava a prendere, quanto c’erano bollette da pagare le si pagava senza maneggiare denaro, ogni volta l’impiegato stampava il saldo con cui farsi una mano di conti fino a fine mese. I soldi si accumulavano pian piano e la nonna Nina riuscì ad accumulare un bel gruzzolo: “questi sono per te,


Nino, se ti sposi, o per me se muoio”. Insomma amore e morte diventavano ora alternative, specie a livello finanziario. “Nonna nonna, perché mi hai lasciato?” ripeteva Nino con una mano sul volto della defunta e con l’altra sul libretto postale. La questione era seria: senza la pensione e senza il libretto come avrebbe vissuto? Chi avrebbe fatto la spesa e cucinato? Chi avrebbe pagato bollette, tasse e...(d’ora in poi) Agatina? La questione apparve tragica fin da subito, al che si mise a pensare: siccome il problema si risolve con la nonna, costei non deve morire. D’altra parte pure Gesù Cristo è risorto, perché non la nonna? Nell’indecisione, da vero stratega quale era, optò per lo status quo: la nonna non era morta. E siccome servivano soldi, e quelli erano sul libretto, ecco il nostro Nino fare la fila alle poste. I postali, si sa, sono un po' come i Carabinieri, se possono chiudono un occhio, anzi tutti e due! Però, come i Carabinieri, non devi prenderli in giro, nel cui caso diventano fiscalissimi, più dei doganieri svizzeri. Ed infatti fu comunicato a Nino l’impossibilità di prelievo, essendo il libretto intestato alla nonna. “A meno che” - disse l’impiegata, che da decenni conosceva nonna e nipote. Che frase magica questo “a meno che”, dà speranza oltre il buio, apre portoni apparentemente serrati a catenaccio. “A meno che non ci sia delega firmata”. Sperando di fare cosa gradita alla nonna affaccendata a casa e al nipote servizievole, consegnò il relativo modulo, da firmare e corredare con fotocopia di carta d’identità. Detto fatto: firma imitata (Nino lo faceva quando marinava la scuola) e fotocopia allegata, soldi incassati e buona notte ai suonatori. Se la pensione veniva versata in automatico ed i prelievi avvenivano tramite delega, il gioco iniziò ad incepparsi sia quando i postali mandavano i saluti alla nonna, sia quando le vedove-vicine bussavano alla porta. E fu così che nonna Nina, la calorosa nonna Nina, finì nel congelatore. Il gioco non poteva però durare a lungo, al che si imponeva una “pezza a colori”. Questo era un modo di dire della nonna, rammendatrice da sempre, nel trovare la giusta soluzione a tutto: se, come diceva Gesù, non si mette una pezza nuova su di un vestito vecchio (perché la stoffa si strappa), allo stesso modo bisogna riparare gli strappi nel giusto modo, quindi sul vestito a colori va la pezza a colori!


Se a sbrogliare la matassa ci vuole un esperto, questo gli venne in mente dai ricordi sui Promessi Sposi di Manzoni dalla scuola media: l’azzeccagarbugli. Le matasse di nonna Nina, quando si ingarbugliavano, richiedevano tanta pazienza, ma pure un colpo di genio per essere sbrogliate. Insomma un pazzo che sappia il fatto suo, sia riservato, sia economico: l’avvocato del sindacato. Vecchio volpone, sigaro spento in bocca ed amante delle cause perse, ecco l’azzeccagarbugli ideale, protettore delle pezze a colori, appunto, amico del popolo e dei poveri, avvocato al quadrato! Il quesito di Nino era diretto e semplice: poteva lui, in quanto unico erede di nonna Nina, ereditare pensione e libretto? “Dipende”, rispose l’azzeccagarbugli. Tipica risposta italiana, a cui solitamente si risponde o con una banconota (questa è la corruzione) o con una domanda: “dipende da che?”. Si tratta di una dinamica molto cara nel nostro Paese: si, c’è la regola, ma come la si può aggirare? Da cui il proverbio “fatta la legge, trovato l’inganno”. Paese strano, il nostro, culla del Diritto ma reticente alla regola, per la cui mediazione esiste il popolo degli avvocati: ne abbiamo il numero più alto tra i Paesi dell’Unione Europea, segno di una tendenza al litigio che è ormai diventata sport nazionale. E’ ormai diventato il normale “modus operandi” degli avvocati: prima attizzare il litigio, poi arroccarsi sugli estremi, poi lasciar tempo al cliente a disperarsi per poi giungere ad un accordo con la controparte, cosa che si sapeva fin dall’inizio: l’attesa è solo dovuta a far pagare gli avvocati! E’ quindi un fatto economico: chi ha i soldi paga, chi non li ha chiede il patrocinio gratuito a carico dello Stato. Nino che non era ricco, anche se povero non era, non aveva accesso ai soldi di nonna Nina, per cui il consiglio legale non poteva che essere onorario, cioè “senza onorario”. La risposta al “dipende da che” arrivò subito dall’esperto, che però non lasciò speranze. “Ai sensi della Normativa vigente la possibilità di subentrare alla pensione della nonna si chiama trattamento di reversibilità. Esso spetta ai figli minorenni alla data del decesso, ai figli inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso, ai figli maggiorenni studenti, a carico del genitore al momento del decesso, che non prestino attività lavorativa, che frequentano scuole o corsi di formazione professionale equiparabili ai corsi scolastici, nei limiti del ventunesimo anno di età, ai figli maggiorenni studenti, a carico del genitore al momento del decesso, che non prestino attività lavorativa, che frequentano l’università, nei limiti della durata legale del corso di studi e non oltre il ventiseiesimo anno di età. Il superstite viene considerato a carico dell’assicurato o


del pensionato deceduto al sussistere delle condizioni di non autosufficienza economica e di mantenimento abituale. Per l’accertamento della vivenza a carico assume particolare rilievo la convivenza del superstite con il defunto”. “Cioè?”, chiese Nino. “non ti spetta nessuna pensione”, fu il responso. Per il libretto la questione apparve assai più complicata: bisognava fare prima la dichiarazione di successione all’Agenzia delle Entrate. C’era un presupposto: andavano dichiarati tutti gli eredi. Nino era l’unico nipote, ma sapeva, dai racconti di nonna Nina, che costei aveva due fratelli emigrati nel dopoguerra in America. Quindi era necessario, secondo l’azzeccagarbugli, reperire i loro nomi, i codici fiscali e gli indirizzi, a pena di nullità dell’Atto. Infatti costoro avrebbero, in via teorica, potuto rinunciare all’eredità, ma anche accettarla. Non solo: a loro sarebbero andati i due terzi della somma, mentre a Nino solo un terzo, tolte le imposte e le spese. A questo punto la pezza a colori non reggeva, i punti di filo non avrebbero tenuto e Nino rischiava di restare con un pugno di mosche in mano.


PARTE CINQUE: CHI L’HA VISTO? La vita a volte pare un tunnel senza uscita. Anche dei drogati si dice che stiano in un tunnel. Chissà i giovani come se la immaginano la metafora, se una galleria non l’hanno mai vista. Nino invece si: in adolescenza, in fase di cazzeggio estremo, quando alto è il rischio dello scommettere con se stessi, in galleria c’era stato. Era in gruppo, tutti quindicenni scapestrati, a vedere come passare il tempo a fare cose fuori dal comune. Un gioco rischioso era appunto fare i fuochi d’artificio col treno: come gli indiani appoggiavano l’orecchio sulle rotaie per avvertire, diversi minuti prima, l’arrivo del convoglio. Pure quello faceva parte del gioco: il treno poteva anche arrivare all’improvviso, la fortuna aiutava - se non era troppo tardi – sentendolo con congruo anticipo. Ma per fare che? Per mettere dei petardi sui binari e poi nascondersi bene per meglio ascoltare il botto. Petardi d’inverno, sotto natale, e pietre d’estate. Il massimo era appoggiare sui binari delle monete: appiattite dal passaggio del treno, diventavano ottimi monili, pronti per l’uso, bastava solo bucarli e corredarli di laccio. Ma la vera prova di forza era attraversare la galleria all’oscuro: come i drogati o i disperati ci si immergeva nel buio più fitto avendo accortezza di camminare radenti alle pareti. Paura da farsela addosso, che poi in galleria non dev’essere proprio il massimo, senza luce e senza carta igienica! Quindi la paura del tunnel Nino la conosceva molto bene, come anche l’esplosione di felicità nel vedere da lontano l’uscita, la luce, la soluzione ad ogni problema. La casa della nonna era un tunnel: il libretto postale sul tavolo, la nonna in freezer, il bisogno di soldi per campare (iniziavano ad accumularsi le bollette) e nessuna luce indicatrice di salvezza. Lo stesso azzeccagarbugli del sindacato dei poveri non aiutava certo a trovare qualsivoglia pezza a colori, figuriamoci una onorevole via d’uscita. Ogni tunnel ha l’imbocco, ogni luogo ha la sua uscita di sicurezza, ma Nino nuotava nel buio più pesto, neanche fosse pece, che quella con un fiammifero ti brucia e finisce lì. La vita in quel momento non era come un cartone animato, in cui il mumble mumble continuo qualche idea prima o poi la partorisce. Appariva semmai come un film horror, in cui alla disperazione si rispondeva solo con la propria morte. Ah, la morte: a volte la si chiama per porre fine ad ogni angoscia, ad ogni dubbio, alla disperazione più totale. Ma come faceva Gesù Cristo ad affrontare la morte, una morte ingiusta, una morte disperata? E va bene che sapeva di risorgere, ma qualche dubbio l’avrà avuto sul Golgota. La morte è infatti un passaggio


dalla luce al buio, dalla certezza all’incertezza, dalla gioia al dolore eterno. Quà invece la situazione di Nino si poneva proprio al contrario: nella morte c’era già e di resurrezione neanche l’ombra. Quando lo spirito va in tilt, si sa, non ha senso insistere. Anzi, più lo si fa, più ci si dispera. Lo aveva capito negli anni all’Accademia del bar: i disperati tali restavano, il ricorso all’alcool o alla droga non faceva altro che alleviare per un po’ il dolore, trasformandolo però in maniera ancora più insopportabile, dopo il passaggio dell’autosedazione. Nino quindi cerca di spostare la tensione dalla testa alle gambe: più che sprofondare sul divano, inizia a girare per casa. Quante volte è il movimento che ci alleggerisce dai pesi dei pensieri? Quante volte è girando e rovistando che alla fine si trova la soluzione? E questo faceva Nino: apriva cassetti, sfogliava album fotografici, passava in rassegna tutti gli oggetti di casa, dai quadri alle suppellettili, dai tegami ai vestiti. Era come se nonna Nina fosse ancora là, tutto fosse immutato, riusciva addirittura a sentire la sua voce: “Nino, sveglia!”. Ed ecco finalmente la luce in fondo al tunnel: se nonna Nina fosse ancora lì con lui, tutto si risolverebbe in un attimo. Magari era solo un sogno ed ora Nino si sarebbe svegliato con la solita tazza di caffè portata a letto, pronto per un nuovo giorno di studio all’Accademia. Invece no, la nonna non c’era. Lo realizzo guardando le bollette sul tavolo, la priorità di spesa della nonna da lei affrontata con puntualità. Eppure, se la nonna ci fosse davvero? Era questo a cui pensava, scorgendo i vestiti della nonna ancora appesi in armadio, le scarpe perfettamente appaiate sotto la finestra, la vestaglia appesa all’attaccapanni come la divisa di un tenente dopo la battaglia. E se la nonna non fosse morta? Ecco il lampo di genio: bastava ripetere questa domanda omettendo il punto interrogativo finale, ed il gioco era fatto. Bastava poco: una passeggiata della nonna di mattino presto, un giro al supermercato nell’ora di calma, un prelievo mensile alle Poste centrali, dove nella ressa di fine mese gli impiegati iperindaffarati non stanno certo a perdere tempo a riconoscere i clienti. L’idea avrebbe potuto funzionare se la nonna avesse avuto una gemella, ma non era così. Si ricordò vagamente le battute degli amici del bar, che sostenevano la somiglianza di Nino alla nonna. Quindi se uno più uno fa due, ecco la genialata: Nino si sarebbe vestito da


nonna per farla vivere. Poco sforzo, tanta resa: la pensione arriva, i soldi vengono prelevati, le bollette pagate e….chi s’è visto s’è visto. L’operazione non fu facile. Nino si spogliò tutto, avendo cura di schiacciare il pacco con le mutande elastiche della nonna. Una tortura per i maschi, ma un prezzo necessario da pagare per vivere. Ecco poi la parte più difficile: il reggiseno con due mele dentro. Calzamaglia sotto, un gonnone largo sopra tutto ed una bella blusa colorata, qi quelle usate solo nei giorni di festa. Una parrucca in testa, un filo di rossetto, gli occhialoni scuri da spiaggia, ed ecco...voilà: la nonna. La voce camuffata ed un po' di auto-osservazione allo specchio fecero il resto: “nonna, sei proprio bella”, si disse da solo Nino. Era il primo del mese e c’era la solita festa dell’assalto alla diligenza: tutti i pensionati in fila alle Poste centrali. “Ma perché mai non aprite un conto corrente o non chiedete l’accredito della pensione sul libretto?” si affannava a ripetere ogni volta l’impiegato di sportello, dovendosi sorbire ogni volta le stesse frasi, dal classico “fatti i cavoli tuoi” al più elegante “pochi, maledetti, ma subito”. In verità il motivo era facile da capire, bastava osservarli: era un’occasione in cui rivedere gli amici, era un’opportunità per i vedovi di cercare moglie e per le zitellone di cercare marito (il calcolo era fatto sul tempo trascorso a contare il denaro, per individuare il “buon partito”). A dire il vero l’appuntamento era ghiotto anche per scippatori e malintenzionati di ogni risma, ma a ciò servivano i bastoni e le ronde civiche, vero deterrente della criminalità organizzata. Mai fidarsi dei pensionati inferociti: se ti prendono, sei finito, rischi di fare il Mussolini appeso a piazzale Loreto! In questa bolgia appare Nino, detta Nina, che, con incedere elegante e senza proferir parola, si mette in fila, senza dare alcuna confidenza, aspettando il suo turno. Un timido buongiorno, consegna della distinta di prelievo già firmata, carta d’identità, e tanto tanto palpitio, da far diventare rosso tutto il viso. Era un rosso di vergogna, non certo di timidezza o improvvisa vampata da menopausa ritardata della nonna. Meno male che le mutande elastiche trattenevano non solo il pacco, ma pure gli sfinteri, perché la paura era tanta. Rischiava infatti tanto il nostro Nino, se scoperto: sputtanamento generale da parte degli altri anziani, probabile spedizione punitiva da parte della ronda, esclusione dall’Accademia per aver violato il più sacro dei


comandamenti (maschio è maschio e femmina è femmina!), incarcerazione da parte della Polizia per i tanti reati commessi. Che poi arrivare in cella con calzamaglie, mutande elastiche, reggiseno e gonnone non è il massimo della vita: si rischia di passare da Nino a Nina in tutti i sensi! Comunque, svuotato il libretto, pagate le bollette e messo il resto in una busta, nascosta a sua volta a casa nella Bibbia (con la speranza che eventuali ladri non vengano colti da improvvise crisi di ravvedimento), finalmente si spogliò. Il rilassamento era tale da renderlo così felice da uscire di casa: Nino in carne ed ossa. “Ciao, Nino, è un po' che non ti si vede”, dicevano i vicini. Tutti chiedevano ripetutamente della nonna, la quale “stava a casa al fresco”: al fresco in tutti i sensi, visto che era nel congelatore. Neanche fosse stato in America o Dio sa dove: solo allora si rendeva conto di essere sotto controllo. Ma non della polizia, dei vicini, i quali sono sbirri per natura a cui non sfugge nulla. Non a caso in diverse contrade d’Italia è d’uopo imbattersi in cartelli stradali che rimandano al controllo di vicinato, non a quello di polizia, il che la dice lunga sui nostri pensionati, dal fiuto lungo e sicuro, altro che Sherlock Holmes! Ma è diverso da altri Paesi, la Svizzera per esempio, in cui i pensionati fungono da rete di delatori della polizia: ogni sospetto, ogni fatto illecito, ogni schiamazzo fa partire telefonate anonime dei nonnini elvetici ai poliziotti i quali -in Svizzera si annoieranno, perché non succede mai nulla!- arrivano in due minuti. Da noi no: visto che gli sbirri locali hanno tanto da fare (infatti sono sempre in coppia), sono i vecchietti a scendere in strada, con lente d’ingrandimento, con macchina fotografica e con bastone roteante, pronto all’uso. “Ciao, Nino, è un po' che non ti si vede”, dicevano gli amici del bar, mentre in sottofondo la televisione mandava la sigla del programma di Rai tre sugli scomparsi. La battuta era d’obbligo: “chi l’ha visto”. E li cominciavano le provocazioni: ti sei fidanzato e non ci dici nulla? Ti ha assunto come dirigente una Multinazionale e te la tieni per te? Hai vinto alla lotteria ed hai trasferito i milioni all’estero nei paradisi fiscali? Ma che paradiso d’Egitto , il nostro Nino aveva l’inferno dentro, penava come un cane bastonato, trafitto dai sensi di colpa che non poteva che ingoiare nel più assoluto silenzio. Che male fa il vuoto, ancor più se autoimposto: magari a parlare ci si alleggeriva, qua invece toccava diventare muti a vita, l’aveva fatta troppo grossa! Ma chi l’ha detto che il silenzio non comunica? Proprio gli amici del bar avevano invece filtri interni


per decifrare qualsivoglia onda del pensiero di Nino. Ed il verdetto fu unanime: Agatina! Ma stavolta doveva pagarsela lui.


PARTE SEI: MORALE AMORALE Avere un bel rapporto sessuale parve a Nino come una grande liberazione, non solo fisica, ma spirituale in tutti i sensi. Come con gli eroinomani, che sommano alle naturali endorfine cerebrali gli effetti della sostanza, allo stesso modo Nino aveva bisogno di liberare tutte le tensioni tramite il doppio svuotamento, testa e testicoli (termini che, se hanno la stessa radice, un motivo ci sarà pure!), al che la determinazione all’azione parve l’unico motivo della sua vita. Il fatto poi di avere i soldi (della nonna) in tasca gli dava quella dignità necessaria ad ogni eroe per le imprese più ardue. Ma andare, consumare e pagare non era il suo stile: troppo squallido, e lui non lo era di certo. Allora andò prima a casa, si fece una bella doccia, si improfumò come non mai, indossò il vestito delle grandi occasioni, passò dal fioraio per acquistare un mazzo di fiori e si diresse, spedito e sicuro, alla casa di Agatina. I maschi, com’è noto, nascono imbranati e, nella vita, mai se ne rendono conto. Aveva pensato a tutto, ma non alla donna, la quale era a casa si, ma in compagnia di un altro cliente. Di conseguenza grande fu la sua sorpresa di fronte al silenzio del citofono. Fosse partita? Avesse le sue cose? Lo avesse magari dimenticato? E così, come un cane bastonato se ne tornò a casa. Era in bicicletta, quindi passò per lo stradone dove passeggiavano altre professioniste del sesso, quasi tutte straniere, ipertruccate ed aggressive; il richiamo vocale delle signore era forte, il richiamo ormonale suo pure, ma da buon boy scout non cadde in tentazione e resistette al maligno. Non fu facile: come un rabdomante che cerca l’acqua, anche Nino aveva il suo bastone, con le ghiandole piene da lupo ululante. La vera santità, infatti - lo diceva spesso il parroco alla messa – non consiste nell’astenersi da qualcosa, ma nel resistere alla tentazione. Il diavolo, infatti, non è un pauroso cornuto con la coda e la fiocina, bensì una sinuosa donna dalla sensualità forte: come dirgli di no? E Nino disse no alle donzelle di strada: che fosse dimostrazione di santità o imbranataggine, non ci è concesso saperlo. Si dimostrò comunque signore: diede ad ogni donna di strada un fiore del suo mazzo ed andò via. Non fu un gesto stupido: molte buttarono il dono floreale alle ortiche, alcune però si strinsero sul petto l’omaggio, facendo partire qualche lacrima nascosta. Ebbene si, le donne di strada non sono solo schiave, sono anche donne, mamme e figlie, con un cuore. Non sorprende che Gesù Cristo abbia amato proprio una prostituta, la Maddalena, segno certo del rivoluzionario amore di Dio. Ma l’amore sessuale non è solo platonico, emozionale,


idilliaco, esso è pure pratico, animalesco, istintuale. Aiutò a spegnere i bollori non solo una doccia fredda, ma pure un bel bidet con i cubetti di ghiaccio del freezer. Ah, che sollievo la castità! E Agatina? A dire il vero a casa c’era e, in una pausa tra un amplesso e l’altro (perché alcuni clienti hanno gli arretrati e pagano anche doppia tariffa) una sbirciata dalla finestra del bagno, dietro la tenda (fatta all’uncinetto quando era ragazzina) gliel’ha data. Sorpresa, imbarazzo, ma anche un sottile senso di piacere la avvolgeva: il cliente inaspettato non era arrivato a farle il mazzo, ma a portarle un mazzo. Difficilmente un cliente fa così: costoro riservano le emozioni per la famiglia, alla prostituta riservano invece ben altro. E’ la scissione maschile: dall’ombelico in su sono tutti premurosi padri, mariti e fidanzati, mentre dall’ombelico in giù sono sanguigni stalloni, trapani da officina, scopatori energici. Quindi l’approccio del nostro Nino era quanto meno originale agli occhi della professionista, la quale apprezzava non poco. Si sentiva davvero donna a sapere di essere oggetto di attenzioni disinteressate, ed i fiori lo sono sempre. Donna, non femmina: una persona con cuore, sentimenti ed aspirazioni, non un pezzo di carne da inforcare in tutti i possibili buchi, e solo per soldi! Anche le prostitute hanno un’anima, ed Agatina ce l’aveva grande, anche se non lo faceva capire. Queste donne sono solite mettersi a nudo in tutti i sensi, ma mantengono sempre il pudore della loro anima: si può penetrare ogni orifizio carnale, ma per nulla l’intimità del cuore e della testa. Questo è l’amore. E’ l’amore che spinge a fare le cose più strane. Il giorno dopo fu Agatina a fare il percorso inverso, da casa sua a quella di Nino. Ma in paese era conosciuta come la bidella (per le donne), ma anche come la zoccola (per gli uomini). Che poi zoccola non è un’offesa: si tratta della topa femmina, notoriamente pelosa e calda, probabilmente gradita ai maschietti. Ma la prudenza non è mai troppa: ci andò all’imbrunire, quando in giro c’è poca gente e quando l’attenzione delle vedette è al minimo. E fu così che Agatina bussò al citofono di Nino, il quale, sorpreso ed ammaliato, non esitò un attimo e la fece entrare in casa. L’attivazione dell’impianto subombelicale fu automatica, ma questa volta un corto circuito attivò la parte superiore: risultato (tipico per i maschi innamorati) fu il silenzio e l’immobilismo. Assenza di coscienza? Macchè, tutto il contrario, lui c’era, eccome, ma non capiva niente.


Il silenzio proseguì per tutto il tempo, e da entrambe le parti: un silenzio pieno, fatto di sguardi, di sospiri, di annusate ad occhi chiusi, di carezze tremanti. Un silenzio che richiedeva solo la fusione tra i due corpi, entrambi sudati, entrambi con la pelle d’oca, entrambi sensibili ad ogni toccata. Un silenzio che si affoga solo col bacio, necessario preambolo a qualsiasi rapporto, test ormonale a verifica preventiva della compatibilità, presagio della penetrazione che, a sua volta, vuole il giusto rituale nel giusto tempo. Un bacio che Agatina non dava mai ai clienti: una cosa era infatti il rapporto orale, dove la bocca funge da vagina, ben altra cosa è invece il bacio, che richiede solo il gioco del tocco tra le labbra, al massimo con una penetrazione linguale. Il gioco non solo emozionava i due, ma li imbarazzava pure, tant’è che il rossore comparve sui loro visi. Sembra un paradosso il fatto che una prostituta arrossisca, ma può succedere: il cortocircuito tra le aree sub e sovraombelicale non è solo questione maschile, lo è anche femminile. Almeno in questo maschi e femmine si assomigliano! Ma ci sono differenze, eccome! Se i preamboli preparano la donna all’atto, tendenzialmente fanno il contrario all’uomo. L’eccitazione maschile è immediata ma breve, mentre quella femminile è più lenta, ma più duratura: una perfetta dicotomia che crea molti ostacoli alla vita di coppia. A dire il vero le prostitute lo sanno bene, infatti incassando la mercede a cottimo, sono solite far eiaculare i clienti nel più breve tempo possibile. Come dire: “incassati i soldi, avanti un altro!” Solo che, in questo modo, alimentano l’insicurezza maschile, il che spinge l’ansia verso l’eiaculazione precoce: tipico del mondo industrializzato, dove il “tutto e subito” si trasforma in fast food, usa e getta, sesso fugace. Un po' diverse sono le prostitute asiatiche, le quali applicano la filosofia del tempo lento pure al sesso: massaggi con oli profumati, bagni con spezie odorose, preamboli molto lenti e penetrazioni dal tempo infinito. Se il cliente europeo smania verso l’orgasmo più veloce possibile, quello asiatico ama rilassarsi durante il coito, così come un uccellino che non vuole uscire più dal nido. Agatina era esperta di sesso, sapeva come muoversi e come far condurre il gioco al cliente; dimenticò, però, che di cliente non si trattava quella volta. Seppur predisposta ad ogni paradigma orientale, dovette prendere atto che, dopo tutti i preliminari possibili ed immaginabili, l’erezione di Nino non aveva luogo. Altro che rossore di passione, era proprio un rossore di vergogna: fare cilecca per un uomo è proprio questo, e Nino era


in grande crisi. Capita spesso se la partner non piace, in questi casi, nonostante la volontà, il meccanismo proprio non si avvia. Capita anche con lo stress: se il maschio non è concentrato sul sesso, semplicemente il meccanismo di inceppa: da qui il detto popolare “il pene non vuole pensieri”. Lo sanno bene le casalinghe svogliate che sono solite placare i fumi maschili parlando di bollette da pagare o rate del mutuo: basta poco per smontare un attacco ben voluto e ben pianificato. Neanche Annibale sarebbe stato miglior stratega contro i Romani! Quindi, come fu e come non fu, con Nino proprio non fu! Nino scoppiò a piangere. Ma non era un pianto di vergogna. Agatina era lì, nuda sul letto, sensuale come non mai, eppure non funzionava. Solo ora si rendeva conto del macigno che portava sulle spalle. Sentiva a pelle di potersi fidare di quella donna, anche se tutti gli altri non parlavano mai di fiducia, bensì do semplice godimento penetrativo. Ma Nino non era “tutti gli altri”, lui era lui, unico, originale, indistruttibile. Eppure anche le montagne non sono eterne e si sgretolano, non è detto che il terremoto non serva a nulla; nella vita da cosa nasce cosa, dalla tragedia nasce il bene, dal vecchio nasce il nuovo. Sentiva di potersi fidare; anzi, come ogni maschio fa glielo chiese pure: “mi posso fidare?” La risposta non fu un si o un no, ma il silenzio, lo sguardo profondo, le orecchie pronte. E fu così che Nino si liberò del peso, la nonna morta in frigo, la storia del libretto e la sceneggiata del travestimento. Che fare? La pezza a colori che l’azzeccagarbugli non trovò, arrivò da Agatina. Se nella lingua italiana la persona scaltra è anche detta “figlio di puttana” un motivo ci sarà pure. Che poi, se scaltro è il figlio, vuoi che non lo sia la madre? Una scaltrezza necessaria a vivere, a protezione di sé contro clienti violenti, sfruttatori o semplicemente imbroglioni. Donne che intuiscono ogni voglia altrui captano anche ogni pensiero recondito. Agatina guidò Nino verso la scelta più naturale: accettare la morte per cambiare la vita. Scongelarono quindi il cadavere e, alla giusta temperatura, chiamarono l’ambulanza. La trafila la sappiamo: pronto soccorso, medico legale, obitorio, funerale e cimitero. In chiesa alle esequie c’erano tutti: i vicini di casa, i membri dell’Accademia del bar, gli impiegati postali (che sapevano dello svuotamento del libretto poco prima che morisse) ed Agatina, vestita di nero e con le lacrime agli occhi. Che fossero finte o vere nessuno lo sa: ma quante false lacrime si vedono nei funerali? Specie tra i parenti-serpenti?


Fu una liberazione in tutti i sensi. Nino si liberò dal senso di colpa. Nino si liberò dallo status di cazzeggiatore a vita, iniziando a lavorare. Si liberò pure il cortocircuito tra la parte sub e quella supra, con buona pace per il sesso sano e rilassato. Che poi Agatina sapeva il fatto suo ed applicava tecnica ed esperienza a passione e scelta di vita. Scelta di vita? Si, eccome: i due si sposarono e, rifiutando ogni contraccezione, sfornarono un intero plotone di figli. Lei bidella, lui operaio, la casa ereditata dalla nonna ed il matrimonio: il parroco, che dal confessionale sapeva le lunghe storie dei piccioncini, benedisse i due sull’altare con immensa gioia. E vissero felici e contenti. Loro si, ma gli altri? I clienti di Agatina, i membri dell’Accademia del bar, la confraternita del cazzeggio? Tutto passa, nella vita, e se le teste non cambiano, mutano però gli attori. La vita è bella, perché a tutto c’è una soluzione e l’amore, alla fine, vince. Ma questa frase non l’aveva già detta qualcuno? Ugo Albano


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