Intervista a Edward
Adebiyi
E’ appena stata festeggiata nel mondo la Giornata Mondiale del Servizio Sociale. Il motto che è girato sul web, diffuso oltremodo data la pandemia, era “Ubuntu: I am because we are”. Si tratta di una credenza filosofica sull’umanità: ciò che ognuno di noi è oggi deriva da un'infinità di altre persone; ciascuno è cioè una sintesi del mondo. Il messaggio è questo: siamo tutti figli degli stessi geni, cristianamente possiamo dire che siamo tutti figli dello stesso Dio. A dire il vero, però - ce lo spiega l’antropologia preistorica -, siamo tutti figli della mamma Africa: l’homo sapiens, da cui discendiamo, era un africano che decise di invadere il mondo. “ I am because we are” si può quindi ben tradurre in “I am because i was african”. Che emigra dal grande continente, ancor oggi, porta con sé una cultura umana da cui tutto si è sviluppato. Emigrano anche colleghi, che poi ritroviamo nei nostri servizi a “dare colore” (in tutti i sensi) al tendenziale grigiore del servizio sociale italiano. Io ne ho trovato uno molto sapiens: dai sapienti si impara sempre tanto e per me è un onore averlo conosciuto!
Domanda: In un mondo che si sta sempre più globalizzando troviamo da decenni assistenti sociali italiani sparsi per il mondo, ma anche assistenti sociali del mondo che lavorano nel nostro Paese. Per questi ultimi l’impresa è irta di ostacoli, se si emigra con una laurea in tasca emessa dalla Madrepatria, è invece più facile se il percorso di studi si compie nello stesso Paese in cui si vuole lavorare. E’ il caso del collega Edward Adebiyi, bolognese, già laureato all’Alma Mater in Scienze Internazionali, da poco dottore magistrale in Servizio Sociale e Politiche sociali. Gli chiediamo: ma che ci fa un assistente sociale nigeriano in Italia? Risposta: Quando un cucciolo esce ed inizia ad avere la sua prima esperienza fuori dal branco e dalla sua cerchia familiare ed affettiva parte un nuovo pezzo di vita con tantissimi dubbi e inaspettate occasioni. Sono nato 28 anni fa in una piccola città nel Lazio, a Viterbo, “la città dei Papi”, dicono. A fine millennio, con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Bologna per lavoro. Papà faceva ogni settimana Viterbo-Bologna ed era diventato stressante per tutti (per lui la fatica di guidare così tanto cambiando due volte l’auto per via dei tantissimi chilometri era diventata asfissiante, e per noi la mancanza inestimabile di una figura paterna era tristemente palpabile, dato che eravamo sempre con la mamma, part-time casalinga e part-time lavapiatti in un rinomato ristorante vicino a Canepina, paesino dove avevamo la nostra residenza, non tanto distante da Viterbo. Giunti a Bologna, sia io che il mio gemello (ah sì, mi ero dimenticato di lui) abbiamo intrapreso gli studi, concludendo, lui in giurisprudenza ed io (in ritardo con la tesi per via della situazione pandemica attuale, ma posso dire che ormai sono al traguardo!) in scienze politiche e servizio sociale. Domanda: Un italiano, quindi, nato e cresciuto in Italia, ma in un quotidiano familiare nigeriano. Parrebbe una fortuna la “doppia appartenenza”, specie nei lavori di cura, in cui l’essere come l’altro può significare abbattere tante barriere, linguistiche e culturali, con chi si trova in stato di bisogno. Come e se se la sente questa “doppia appartenenza”?
Risposta: Da una parte la fortuna mia è stata che nel mio percorso scolastico-universitario ho avuto la possibilità di apprendere in una dimensione “duale” il concetto di vita utilizzando sia la mentalità italiana che quella del mio paese di origine, quella nigeriana. La cultura, gli usi e costumi, la lingua, l’approccio, la modalità di ragionamento (e molto altro) italiana e nigeriana mi rendono un ibrido, pronto a comprendere situazioni abituali sul territorio (ad esempio assistere una persona anziana italiana con un percorso di affiancamento per una richiesta di sostegno sociale per contrastare la solitudine) oppure situazioni talvolta non tanto abituali dove si richiede una preparazione in più oltre alle conoscenze apprese in campo di studio; questo ultimo è il caso di un affiancamento ad uno straniero che abbia bisogno di avere degli aiuti legali, sociali o economici per il sostentamento qui sul territorio, dove spesso la sola professione e i soli strumenti appresi all’università non bastano. Nel caso specifico si diventa un sostenitore grazie al fatto di possedere un background conoscitivo di quella stessa mentalità, necessario per avvicinarsi alla persona straniera velocizzando e alleviando il percorso tortuoso per risolvere i problemi. Domanda: Da una parte con una popolazione italiana che si sta sempre più eterogeneizzando parrebbe opportuno disporre di professionisti pluriculturali. Ciò è un fatto scontato in Paesi a tradizione multiculturale, penso agli Stati Uniti, il Canada o i Paesi Bassi, ciò è invece da dimostrare ancora nei Paesi a tradizione e “consistenza” monoculturale, tra cui l’Italia. Come la vede su quest’aspetto? Risposta: Diciamo che è più semplice per un medico italiano di origini marocchine ottenere più pazienti marocchini a carico suo come è vero che è facile avere una psicologa italo-camerunese con pazienti non solo italiani ma anche stranieri e connazionali qui sul territorio (loro parlano sia inglese e francese, beati loro). Invece, considerando l’altra parte della moneta, la sfortuna, anzi, la difficoltà -meglio dire così!- è sicuramente quella di entrare in un mondo del lavoro, quello sociale, dove non si è ancora abituati ad avere stranieri o seconde generazioni. Per ora a Bologna non ho ancora visto nà sentito di assistenti sociali uomini di origini africane addentrarsi in questa sfera ancora “vergine” per delle persone come me. Questo è sia raro che incerto
perché essere in pochissimi in una situazione come la mia può portare a situazioni inaspettate e piacevoli, ma anche imbarazzanti. Mi ricordo ad una riunione regionale di tutti i volontari AUSER (sì, per mia fortuna ho svolto il Servizio Civile Nazionale, una tappa incisiva alla mia scelta di studiare Servizio Sociale), finita l’assemblea ci chiesero di alzarci tutti e venire d’avanti a fare una foto intera ed ero l’unico ragazzo di colore in quella foto con una sessantina di persone attorno a me. Non oso immaginarmi quando darò l’esame di stato per Assistenti Sociali , sarò l’unico ragazzo con un cognome straniero. Come un pesciolino fuor d’acqua che, dall’iniziale asfissia - immaginazione mia, eh - muta e scopre di riuscire a vivere anche senz’acqua fuori dal vaso di vetro. Una sfida bella ma dura, ma da qualche parte bisogna pur iniziare! Domanda: Una delle strade di adattamento di uno straniero ad una cultura è l’assimilazione: il camuffamento, il nascondimento, il provare a “sembrare come l’indigeno” è una strategia che usano anche gli antropologi: non essere notati ci fa confondere nella massa. Nel Suo caso il colore della pelle non Le dà scampo, a meno che non fa come Michael Jackson, che da nero si fece bianco, con i disturbi di personalità che possiamo immaginare. A mio modo di vedere questo aspetto della pelle scura fa evitare l’assimilazione e, molto più efficacemente, permettere un’integrazione non esteriore, ma culturale nel senso vero. Siccome non ci si nasconde, ci si mostra per come si è, diverso (da fuori) ma uguale (da dentro). Ha già fatto i conti con questa dimensione? Risposta: Purtroppo, o per fortuna, molti nella mia stessa situazione si sono imbattuti in questa scelta. Riuscire a farsi accettare dalla società “che ti accoglie” diventa uno scopo. Inizialmente pensavo che in qualche modo dovessi fondermi con la società diventando simile se non uguale con tutti gli altri, invece, maturando con gli anni, mi convincevo sempre di più del fatto che la mia appartenenza era indiscutibilmente diversa da quella a cui volevo assomigliare. Quando io con la mia famiglia ci siamo trasferiti qui a Bologna nel ’99 sia io che mio fratello abbiamo avuto difficoltà iniziali. Due bambini neri con un accento viterbese non passano di sicuro inosservati. Per farmi accettare ho cercato persino di cambiare il mio accento da viterbese a bolognese, sostituendo i pronomi personali con le persone sconosciute dal “lei” al “voi”. Però fui beccato da una mia insegnante che,
correggendomi, diceva che sbagliavo il pronome dato il “voi” era utilizzato in era fascista. Ora ho una più completa padronanza della lingua italiana, grazie anche a questa meravigliosa città, Bologna (detta la “Dotta”). Domanda: Ora “dotto” lo è anche Lei, è scritto pure sulla pergamena. Un “dotto” nella “dotta”: che effetto Le fa quella provocazione “Repubblica Italiana – in nome della Legge”? Suona come un grande impegno che Le viene richiesto, quello di usare la Sua conoscenza e professionalità a servizio del popolo italiano. Un grande impegno che corona le aspettative dei Suoi genitori, i quali, senza dubbio, si sono sacrificati non poco. E’ forse arrivato il momento in cui il dottor Edward Adebiyi, dopo aver ricevuto, deve dare, a Bologna, all’Italia, ai Suoi genitori, anche alle Sue origini. Sto esagerando? Risposta: No, non sta esagerando minimamente. Anche se ho avuto una infanzia non facile, penso vivamente di avere un senso del dovere e, in primis, gratitudine di fronte a chi mi ha sostenuto fino ad ora. È cosa certa che chi si diploma o si laurea ha di fronte un impegno pattuito con chi rilascia la sua pergamena, documento con forza di delega da parte del delegante nei confronti del delegato. Con la mia seconda laurea avrò la possibilità di potermi candidare all’esame di Stato per l’Albo degli Assistenti Sociali, pertanto è a tutti gli effetti una mia responsabilità ed obbligo di ricambiare questo privilegio con serietà e coscienziosità. Nei confronti della mia Nazione d’origine diventa complessa la questione perché in effetti ho sempre vissuto qui e non mi è stato dato nulla di concreto a parte la cittadinanza, con lo ius sanguinis dei miei genitori, e la durezza della cultura nigeriana. Quest’ultima ha parecchio influenzato la mia fanciullezza ed il mio percorso educativo. Domanda: Lei è indubbiamente italiano, se è nato in Italia il diritto di cittadinanza è assicurato. Sarà un italiano di colore, ma sempre italiano sarà, e a pieno diritto! Ciononostante, come dice il proverbio, “ non butti via l’acqua sporca assieme col bambino”. Di cultura nigeriana è difficile parlare, semmai di “cultura dei propri genitori”: costoro non potevano fare altrimenti. Io personalmente mi diverto tanto con i nigeriani: sanno essere positivi (a volte superficiali, secondo i nostri canoni), sanno ridere, hanno un sano senso della bellezza e del decoro, sanno essere diretti e dire cosa pensano. Sono tutte cose che non trovo più negli italiani, presi da una
generalizzata epidemia di depressione di massa e di narcisismi spinti. Vuol vedere che, alla fine, il più nigeriano tra noi due sono proprio io? Risposta: Ha perfettamente ragione. Con il proverbio “fare di tutta l’erba un fascio” ho involontariamente generalizzato accostando la cultura nigeriana all’esperienza di vita dei miei genitori in Nigeria. È assolutamente vero che i nigeriani sprizzano di energia positiva e solare, sempre sorridenti e gioiosi. Se per caso va ad una chiesa pentecostale africana (più quella nigeriana) vedrà che le loro lodi e canti sono gioiosi ed euforici in confronto alle lodi sentite durate le messe cattoliche. Ma questa, sottolineo, è una mia umile osservazione. D’altro canto, posso ben dire che se è vero che negli ultimi tempi qui in Italia sta venendo fuori una epidemia di depressione generalizzata di massa e di narcisismi spinti, è anche vero che l’Italia ha avuto gli strumenti adatti per rendere “vivibile” la vita di chi emigra qui al confronto dello Stato nigeriano, che ha invece costretto le persone in gamba come i miei genitori a lasciare la loro terra natale. L’accoglienza e il buon cuore di alcune persone (ovviamente le mele marce purtroppo ci sono) rendono l’Italia ancora una meta scelta da tanti. Poi con la globalizzazione diventa davvero difficile prestabilire chi o che cosa determina la cittadinanza per un individuo. Un nigeriano può essere un italiano come un italiano può essere un nigeriano. Domanda: Siamo tutti cittadini del mondo e, allo stesso tempo, ognuno di noi è straniero quasi dappertutto. Ma non siamo stranieri a noi stessi: nel viaggio della nostra vita portiamo sempre con noi una valigia con dentro un pò di origini, un pò di vita vissuta, ma tanto di sogni e di aspirazioni. Nel ringraziarLa di questa bella intervista – last, but not least – Le faccio un’ultima domanda: cosa c’è nella Sua valigia? Risposta: Nella mia valigia porto tantissime esperienze di vita, piacevoli e meno piacevoli, apprese maggiormente qui assieme alla cultura “dei miei genitori” e ovviamente agli affetti creati durante il mio percorso di vita. Quello che sicuramente non manca è la speranza di un futuro migliore dato che il tragitto davanti a me può sembrare produttivo ma anche incerto. (Ugo Albano)