Fior di Mandorlo non ha paura della morte
I bambini amano la vita: correre per i prati, accarezzare un coniglio, andare a scuola, aiutare i nonni a fare la pizza. Prima di nascere nuotano del buio della pancia della mamma, ascoltando musica, voci ed anche i rutti! Quando nascono escono dalla piscina buia e, uscendo con fatica dalla grotta, si ritrovano all’improvviso in un mare di luce: eh, si, questa è la vita! Le voci, le musiche, le carezze, le ninna-nanne, ma anche le pappe, il seno caldo della mamma, il caldo della pipì nel pannolino. Il buio non c’è più, o meglio, c’è se si chiudono gli occhi: ma che noia dormire, forse è meglio frignare per andare nel lettone di mamma e papà!
Fior di Mandorlo era uno di questi: amava giocare, saltare, correre, cantare, guardare i fiori e stupirsi di fronte ad un tramonto. Si chiamava così perché il suo nonno, quando nacque, poiché non aveva soldi per fargli un regalo, si impegnò a vendere le mandorle del suo podere per assicurare lo studio al nipote. “Vedi”, diceva, “io sono un vecchio contadino che non sa leggere, perché ai miei tempi i poveri non andavano a scuola. Voglio però che tu lo faccia per me”. Il nonno era sempre al lavoro in campagna, da mattina a sera, a curare il suo bosco di mandorli: li potava (con le cesoie), li concimava (con le cacche delle mucche) e li proteggeva dai parassiti senza medicine: al massimo, una volta all’anno, passava sui tronchi la calce per allontanare le bestiacce. Pregava inoltre Dio, perché facesse piovere al tempo giusto e splendere il sole quando ce n’era bisogno. “Ma gli insetti sono nemici degli alberi?” chiedeva Fior di mandorlo. “Non tutti”, ribatteva il nonno, “anzi ce ne sono alcuni che sono un aiuto, perché si mangiano i parassiti, come le coccinelle”. Al che l’idea: “nonno, perché non alleviamo coccinelle?” Idea bislacca, ma che il nonno prese molto sul serio: fu da allora che il mandorleto divenne dimora stabile di tante coccinelle. Fu così che nacquero le cosiddette “mandorle della fortuna”, famose in tutto il mondo. Dopo la scuola Fior di Mandorlo era sempre dal nonno ad aiutarlo: portava via le potature, faceva essiccare le mandorle raccolte su grandi teli bianchi, cucinava per il nonno la pastina in brodo. C’era sempre qualcosa da fare in campagna, ma ad una cosa il nonno non rinunciava mai: la pennichella dopo pranzo. Sia che fosse inverno (a casa col camino acceso), sia che fosse estate (all’aperto tra i mandorli) il nonno era abituato a stendersi sull’amaca dopo il lavoro. Fior di Mandorlo amava questi
momenti, perché lui, il piccolo nipote, poteva accudire il grande nonno, per esempio dondolando di tanto in tanto l’amaca o allontanando col ventaglio qualche mosca fastidiosa in giro. Fior di Mandorlo, invece, non dormiva mai di giorno: e come fare, se doveva fare i compiti, se doveva badare al nonno, se tutta la natura attorno lo distraeva? Poi aveva un altro compito: svegliare il nonno con una tazza di caffè. “Sai, Fior di Mandorlo”, diceva il nonno, “dormire è come staccare la spina dalla vita, si ritorna nei propri ricordi, nel proprio passato, finanche la morte non fa più paura se è dolce”. Fior di Mandorlo sapeva che il nonno aveva bisogno del caffè per svegliarsi bene, ma questa idea della morte lo spaventava. “Che cos’è per te la morte, nonno?” chiese una volta Fior di Mandorlo. “Un pisolino, solo un pò più lungo”. Che strano nonno, capace di scherzare su cose per le quali altri avrebbero pianto disperati. Infatti capitava a volte in parrocchia, dove faceva da ministrante, di assistere il parroco per dei funerali: tutti vestiti di nero, musiche tristi, parenti che piangono e si disperano. Il ricordo della morte era di una tristezza infinita, quasi di disperazione, a vedere le lacrime di chi subisce una perdita: era chiaro che la persona morta non sarebbe più ritornata in vita, il suo unico fine era quello di diventare cenere sottoterra. Al cimitero ogni volta si fermava di fronte ad una tomba con un teschio scolpito nel marmo, sotto del quale si leggeva una scritta “quel che tu sei io ero, quel che io sono tu diventerai”: mamma mia, che paura, ma allo stesso tempo che grande verità! Anche i morti una volta erano vivi, anche noi vivi saremo morti, prima o poi. “Siamo come le mandorle”, diceva il nonno, “in giovinezza siamo fiori, a maturazione veniamo raccolti e seccati, per il gusto di altri veniamo poi mangiati per poi finire, dopo della digestione, nella cacca”.
Il nonno filosofo, come tutti i nonni, si ammalò col tempo e fu costretto a stare a casa. Gli mancavano i suoi mandorli, gli mancava il movimento, gli odori dei fiori ed il gusto della pennichella dopo le ore sotto il sole: ora sull’amaca ci stava tutto il giorno, ma non ne era contento, anche perché ormai non vedeva più ed era sempre più arrabbiato con la vita. Se prima con la morte ci giocava, abbandonandosi tra le braccia di Morfeo dopo ore di duro lavoro, ora nella morte ci viveva ogni minuto. Ma non era la morte buona, quella che ti fa stare bene coi tuoi ricordi e coi tuoi sogni, era quella cattiva, che ti fa sentire inutile, che ti spoglia del pudore anche per andare al bagno, che ti fa odiare il tuo corpo che ti trattiene in vita, mentre tu vorresti andare via da te stesso. Il nonno odiava tutto e tutti, si rifiutava di mangiare e di bere, era infelice e voleva morire. L’unico che riusciva a parlargli era proprio Fiore di Mandorlo: gli riferiva del lavoro in campagna, della raccolta delle mandorle e dell’ultima novità. “Che novità?”, chiedeva il nonno. “Abbiamo vinto un premio mondiale, nonno, per l’introduzione delle coccinelle nella coltura dei mandorli. Verrà domani il Presidente a darti il riconoscimento”. Con questa notizia, che sembrava una luce nel buio continuo del quotidiano, il nonno accettava di buon grado di farsi imboccare dal nipote. Venne quindi il Presidente, vennero i giornalisti e pure tanti agricoltori interessati alle coccinelle, ed il nonno rivide la luce, la stessa luce che lo aveva tenuto in vita, la medesima luce al calore della quale chiedeva però di morire. Ma noi non siamo i padroni della nostra vita, ancor meno i padroni della nostra morte. D’altra parte si può essere vivi nel corpo, ma morti nell’anima, vita e morte sono inizio e fine di un romanzo in cui
ognuno è attore di se stesso. Noi recitiamo la nostra vita sul palcoscenico, accorgerci o meno della luce dipende dall’attore stesso. “Nonno, noi non possiamo decidere se e quando morire, questo spetta a Dio, noi possiamo solo chiedergli di vivere con amore tutto, sia la vita che la morte”, ripeteva sempre Fior di Mandorlo, sapendo che il nonno avrebbe annuito. “Sai, ho capito solo ora che Dio mi ha sempre parlato, anche se non lo sentivo, il buio della pennichella è sempre stato un contatto con lui”, diceva il nonno al nipote. “Mi ha parlato con l’idea delle coccinelle e mi parla con la tua voce, con i tuoi canti, con il tuo respiro”: e quando parlava così a Fior di Mandorlo veniva una lacrima. Lui che non piangeva mai capiva che il nonno era pronto a morire, e questo lo colpiva nell’anima. Venne quindi il giorno in cui il nonno chiamò il nipote e gli disse: “sai, non a caso ti ho fatto studiare, proprio per evitare di restare ignorante come me. Prendi quindi carta e penna e scrivi le mie ultime volontà”. In grande silenzio Fior di mandorlo scrisse il testamento: il mandorleto sarebbe andato al nipote, ma non le coccinelle, perché decidono loro dove andare; il funerale lo voleva come una festa, con gli amici che ballano e l’orchestra che suona; il medico, il dottor Salvatutti, sarebbe dovuto stare zitto se il nonno avesse rifiutato cibo e acqua, perché così lui voleva! Quindi, su ordine del nonno, Fior di Mandorlo si scapicollò in Comune per depositare il testamento, perché sia chiaro per sempre che va fatta la volontà del nonno, e non quella dei parenti. Quando morì il nonno volle Fior di Mandorlo accanto a sé, è stringendo la mano al nipote che esalò l’ultimo respiro. Tutti piansero, anche il Presidente del premio ed il Sindaco, ma non Fior di
Mandorlo: anzi, sembrava assai tranquillo. Moglie e figli erano già pronti a spartirsi il mandorleto, il prete aveva già addobbato di nero la chiesa, anche il dottor Salvatutti era arrivato con l’ultima vaccinazione cinese, “che fa resuscitare i morti”, affermava. Fior di Mandorlo, di fronte a tutto quel teatro attorno all’unico attore senza parola, ricordò l’importanza del copione: andò in Comune a prendere il testamento, tornò a casa con due Carabinieri in alta uniforme e proclamò – in nome della Legge! – le volontà del nonno. Tutti protestarono, c’era chi voleva strappare il testamento, ma i due Carabinieri impedirono tutto. E così fu. Da allora Fior di Mandorlo coltiva il mandorleto, le coccinelle si sono moltiplicate e distribuite per tutti i poderi, dopo il lavoro anche lui fa la pennichella. Non è triste, affatto: sa di continuare il sogno del nonno, anzi sa di dover lavorare bene, perché prima o poi dovrà dar conto non solo al nonno, ma pure a Dio. A primavera gioisce a vedere i mandorli fioriti, le api in azione ad impollinare, le coccinelle a caccia di parassiti: gli spunta una lacrima nel dire “grazie, nonno!”. La primavera gli ricorda il suo nome - Fior di Mandorlo! – ed i profumi dei boccioli in fiore, i colori dei loro petali, il vento caldo dell’est lo mandano in estasi. Alla ricerca del nonno alza gli occhi al cielo, totalmente azzurro e con un sole abbagliante, alza le mani e proclama “grazie, Dio”. Solo ora capisce che Dio c’è sempre stato, che Dio gli ha parlato tramite il nonno. La morte? Non esiste, è solo un passaggio, Fior di Mandorlo non ne ha paura!
Ugo Albano