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Edizioni MEMORI Soc. Coop. a r.l. Via Leon Pancaldo, 88 - 00147 Roma Soci e Consiglieri: Luciano Consoli (Presidente), Giorgio Cittadini (Amministratore Delegato) Antonia Ammirati, Mario De Chiara, Emanuele Fini, Laura Formica, Massimo Ghinolfi, Cinzia Leone, Stefano Peppucci, Daniele Repetto, Stefano Sbordoni, Fabrizio Spagna, Paolo Stella, Lucia Visca. Carte Private Registrazione Trib. Roma n° 423/2004 del 28.10.2004 Primo Greganti e Luciano Consoli “scusate il ritardo” © 2006 by MEMORI Scarl Progetto grafico di: Cinzia Leone Realizzazione editoriale: Novecento Grafica e Comunicazione Immagini: archivi privati Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia. I edizione maggio 2006 ISBN 88-89475-29-3 www.memori.it Responsabile contenuti: Emanuele Fini Realizzazione e gestione: Stefano Peppucci per la DOL Data & Management srl
(CARTE PRIVATE) Umberto Cicconi con Luciano Consoli
Umberto C. dalla borgata all’archivio Craxi
ai lettori di Cinzia Leone
“In mezzo alla mischia dei fotografi io mi distinguevo. Cercavo qualcosa di diverso. Scattavo pochissimo. Ma quello che scattavo era buono al primo colpo. Scattavo con la testa io”. I paparazzi sono finiti e con loro la Dolce vita. Adesso le star sono i politici, il loro palcoscenico i Congressi, Montecitorio, i ristoranti riservati. Ci vuole uno sguardo diverso. Più sottile, più crudele. E Umberto ce l'ha. L'ha trovato nella Roma feroce della periferia, quella degli anni '60 e 70. Quella di Pasolini. Ma ce l'aveva dentro quello sguardo Umberto. Se gli altri usano la macchina fotografica come una mitragliatrice e sparano foto a raffica, lui la punta deciso come una pistola. Un occhio politico quello del giovane fotografo che, incontrando Bettino Craxi alla fine del 1978, intuisce di avere davanti la grande occa-
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6 sione professionale della sua carriera appena agli
inizi. Saprà più tardi che sarà anche la grande occasione umana della sua vita. Sfileranno davanti a lui, capi di stato stranieri, intellettuali, gente di spettacolo e tutti i grandi della prima Repubblica. E molti piccoli. Tutti in fila davanti a Craxi. Poi le file si sono rotte. Ma Cicconi è rimasto. Con il suo occhio acuto e la sua fedeltà. Prima di tutto a se stesso e alla sua macchina fotografica. Dalla prima, una Zenith comprata sui banchi del mercatino dell'usato di Porta Portese, e poi solo Leica. Le compagne del suo gioco preferito: cogliere in un lampo la persona che ha davanti: corpo e anima, difetti e virtù. Tutte gli hanno permesso di fare quello che amava di più: fotografare. “Mi avrebbero pagato per fare le due cose che mi piacevano: la politica e la fotografia”. Quando incontra Umberto, Bettino Craxi intuisce di avere davanti un tipo speciale. Si fida della sua velocità, del suo intuito, del suo silenzio vigile. Non teme l'obiettivo Bettino, anzi, ne conosce le potenzialità, ma odia lo scatto banale, a ripetizione. Vuole un'immagine “unica”, innovativa. Sa di possedere un carisma e lo gestisce in un modo assolutamente nuovo. Avevate mai visto un presidente del Consiglio in costume da bagno al mare, o addirittura in pareo lungo il bordo di una lussuosa piscina? Con Craxi i politici cominciano ad avere un corpo. Anni di ipocrisie e di pruderie svanisco-
no davanti alla sfacciata nudità della sua testa nuda. Alla sua mole esuberante, alle labbra carnose e arroganti. Lui primo politico ad offrirsi in tutta la sua fisicità all'obiettivo del fotografo si fida di un uomo altrettanto fisico e irruento. Parlano con gli stessi sguardi. Da lui si farà ritrarre anche nei sei difficili anni di Hamameth. Impudicamente. In sedia a rotelle, nel letto, con le gambe ricoperte di piaghe. Le intimità si scelgono. Nascono al di là della ragione e durano più a lungo dei ragionamenti e delle promesse. Una intimità della stessa natura lega i due protagonisti di questo faccia a faccia. Solo che questa volta è il fotografo ad essere fotografato.
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(CARTE PRIVATE) Umberto Cicconi con Luciano Consoli
Umberto C. dalla borgata all’archivio Craxi
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Bettino Craxi durante il Comitato centrale del PSI nel 1981. Alle spalle una gigantografia di Pietro Nenni.
11 “Io so. Ma non ho le prove. So perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, immaginare tutto ciò che si tace, che mette insieme i pezzi frammentari di un quadro politico” Pier Paolo Pasolini
Craxi, allora Presidente del Consiglio e Silvio Berlusconi a illa Madama nel 1985.
l’archivio ritrovato
LC: : Finalmente ti sei deciso a parlare. Fotografo personale di Bettino Craxi per più di 20 anni, sei diventato un suo amico fidato, quasi un figlio, e gli sei stato vicino fino alla morte. Ma sei anche l'uomo cui Craxi ha consegnato il proprio archivio personale. Documenti che hai provveduto a far sparire rapidamente nei giorni caldi di tangentopoli, conservandoli in luoghi sicuri per tutto questo tempo, dei quali non si è saputo nulla fino ad oggi. Adesso, a quasi 14 anni da quel 5 maggio 1994 in cui Craxi lasciò l'Italia e a otto da quel 19 gennaio 2000 in cui morì, hai deciso di raccontare in un libro la storia di questo archivio ed anche la tua vicenda personale intrecciata con quella del leader socialista. Sono lieto che tu abbia scelto me per farlo, ma anche se ci conosciamo da molti anni, più o meno da quando cominciasti a frequentare l'allora segretario del Psi, ti assicuro che non sarò accondi-
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14 scendente Potrà essere anche doloroso, ma lo ritengo
necessario. Tu sei stato un testimone importante di molti episodi, incontri, colloqui non solo pubblici ma anche privati e non solo italiani ma anche internazionali di Bettino Craxi. E se è vero che hai già scritto un libro di ricordi, che ovviamente ho letto con attenzione, non so se volutamente o meno, hai taciuto molto e addirittura, a mio parere, hai lanciato messaggi che solo pochi potevano raccogliere. Di questo ti chiederò conto. Ma preparati anche a raccontarmi chi sei veramente, la tua vita, i tuoi amori, i tuoi tormenti. Non mi accontenterò delle tue risposte, chiederò ai tuoi parenti, ai tuoi amici e se necessario anche ai tuoi nemici, conferma di quello che mi racconterai. Visto che sei un grande fotografo, per farti tornare la memoria utilizzerò anche le tue foto. Mi hai detto che adesso sei pronto a rispondere, è passato il dolore ma anche il rancore, sei sereno e ti senti di essere sincero. Bene, possiamo cominciare: cosa contiene questo archivio? UC: Le carte private di Bettino, le sue agende, i block notes nei quali la sua segretaria appuntava il nome di tutti quelli che chiamavano, con la data, l'ora e il motivo della telefonata, le lettere che riceveva e quelle che spediva, libri letti e sottolineati, appunti, discorsi scritti di suo pugno, relazioni, segnalazioni, petizioni, insomma tutto quello che per anni è passato sulla scrivania di Bettino. Incrociando i vari elementi si potrebbero ricostruire quasi interamente le sue giornate. Chi incontrava, con chi parlava al telefono, con
chi pranzava, veramente tutto. Fino a ieri pensavo che alcune di quelle carte avrebbero potuto creare imbarazzo a qualcuno e che non era ancora giunto il momento di renderle pubbliche. In tutti questi anni infatti molti mi hanno chiesto che fine avevano fatto quelle carte. Qualcuno solo per curiosità, altri credo per timore. Negli anni dell'ascesa e del potere Bettino riceveva migliaia di lettere, bigliettini, relazioni e documenti. Conservava tutto e a tutti rispondeva in un modo o nell'altro. In quelle carte c'è una parte della storia del nostro Paese, ma ci trovi anche la piaggeria, l'opportunismo e, lette oggi, il trasformismo ed il tradimento. Sono sempre stato fedele a Bettino, nella buona e nella cattiva sorte, e non mi sono mai pentito di questo. Altri non si sono comportati così, ma non posso biasimarli. Quando un grande uomo cade in disgrazia i suoi adulatori tentano sempre di saltare dalla nave prima che affondi e li trascini giù. LC: E' passato molto tempo da allora e anche se gli animi non si sono ancora placati, credo che tu abbia un dovere da assolvere: mettere a disposizione di storici e semplici cittadini un materiale che potrà aggiungere altri tasselli alla verità di quegli anni. In questo libro, anche per motivi di spazio, potremo solo anticipare alcuni frammenti dell'immenso materiale dell'archivio. UC: E' proprio per questo motivo, per far si che
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Una delle migliaia di pagine dei block notes.
questo materiale divenisse oggetto di studio, di divulgazione e consultazione, che ho deciso di rispondere alle tue domande. E questa è anche la molla che mi ha spinto a costituire una Fondazione, cui ho dato il cognome di mia madre “Allori” e alla quale sto trasferendo tutto l'archivio. Un materiale enorme che va catalogato e conservato per poterlo rendere disponibile. Servono molti soldi e da solo non ce l'avrei mai fatta. LC: Ma esiste già una Fondazione intestata a Bettino Craxi diretta dalla figlia Stefania. Perché non hai affidato tutto questo archivio a loro? Che bisogno c'era di costituire un'altra Fondazione? UC: Hai detto bene, diretta dalla figlia Stefania, ma non da tutta la famiglia. Infatti in quella Fondazione non c'è l'altro figlio di Bettino, Bobo, anzi c'era ma ne è stato cacciato. Anch'io, fino al 2003 ho tentato di collaborare con quella Fondazione, e il libro fotografico su Bettino lo abbiamo fatto insieme . Fu proprio alla presentazione di quel libro, a via del Seminario, a Roma, con Antonio Ghirelli, Pierferdinando Casini e Silvio Berlusconi che compresi lo stile di Stefania. Pensa, io ero l'autore del libro, le foto erano le mie e avevo aiutato anche a preparare quella presentazione. Arrivo a Via del Seminario e poco dopo di me arrivano Silvio Berlusconi, Pierferdinando Casini, Antonio Ghirelli e Stefania Craxi. Ci fermiamo nella sala adiacente a quella del convegno scambiandoci sa-
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18 luti e considerazioni varie. Quando ci spostiamo
nella sala ormai gremita di gente, un commesso toglie una sedia dal palco, e non per motivi di spazio. Stefania aveva fatto togliere la mia sedia e seguii la presentazione del mio libro tra il pubblico. Doveva avere lei tutta la scena e non poteva dividerla con nessuno. La sua gelosia per tutti coloro che si avvicinano al padre, o solo alla sua memoria, è proverbiale e purtroppo questo sentimento ispira anche la sua attività nella Fondazione. Per questo, se avessi consegnato quel materiale alla Fondazione di Stefania, non avrei avuto nessuna garanzia sull'uso imparziale dell'archivio. C'è troppo livore nelle sue esternazioni, troppa politica di parte. Bettino Craxi è un patrimonio della nazione, nel bene e nel male, e la sua memoria non deve essere utilizzata come una clava da brandire contro i propri nemici. E non mi piacciono neanche le conversioni postume di chi vuole mettere Bettino nel Pantheon di qualche nuovo partito. Bettino riposa nel piccolo cimitero degli stranieri di Hammamet. Lasciamolo riposare in pace li dov'è. Potevano farlo tornare per curarsi e non lo si è fatto. Potevano seppellirlo nella sua terra e non lo si è permesso. Adesso è lì, a due passi dal mare, nella terra che lo ha accolto e difeso negli ultimi anni di vita. Ma la sua opera e il suo pensiero non si possono coprire con un metro di terra tunisina. Con essi ci dobbiamo fare i conti perché fanno parte della nostra storia. Prima di morire Bettino mi ha fatto giurare che avrei messo a disposizione
di tutti gli italiani le sue carte, di amici e nemici, senza alcuna limitazione. E questo farò con la Fondazione “Allori”. LC: Torneremo sui tuoi rapporti con la famiglia, ma ora partiamo da quel giorno del 1994 in cui Craxi decise di lasciare l'Italia e ti affidò il suo archivio. Avrei potuto dire “fuggire” ma so che questo termine non ti piace. Ma tu sai che di questo si tratta. Craxi partendo si è sottratto alla giustizia del suo Paese. Era troppo intelligente per non aver valutato che la sua fuga rappresentava una ammissione di colpa per milioni di italiani e lasciava campo libero ai suoi accusatori. Del resto altri del suo stesso livello, come Giulio Andreotti, hanno deciso di affrontare il giudizio per accuse anche più gravi di quelle contestate a Craxi e oggi sono ancora in Parlamento. Ma quel che mi ha sempre meravigliato è stata la scelta del momento; Silvio Berlusconi aveva vinto le elezioni e addirittura stava chiedendo ad Antonio Di Pietro di diventare suo Ministro. Il 5 maggio Craxi parte e il 10 si forma il primo governo Berlusconi. Dopo due anni di battaglia cruenta forse quello era il segno che qualcosa stava cambiando, che anche per Craxi il clima sarebbe cambiato. UC: Craxi ha lasciato l'Italia quando ha capito, si è convinto o è stato convinto, che non esistevano più gli spazi per difendersi e forse la sua stessa vita era in pericolo. Ricordati che dalla fine del 1992, e per due anni, Bettino aveva subito un linciaggio mediatico feroce al quale aveva risposto prima con
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20 sufficienza, poi con orgoglio ed infine con rabbia.
Aveva tentato in tutte le maniere di far vincere la politica sulle emozioni, ma quando si convinse che non avrebbe potuto avere un giusto processo ma solo una gogna, decise di andarsene. All'inizio, con il “mariuolo” rivolto a Mario Chiesa prevale la sottovalutazione. Già tre mesi dopo, nel luglio dello stesso anno, il 1992, Craxi combatte con orgoglio pronunciando il suo discorso alla Camera con il famoso “jè accuse” a tutta la classe politica. Poco meno di un anno dopo, nell'aprile del 1993, tra il 29 e il 30 di quel mese, cambia ancora atteggiamento e all'orgoglio subentra la rabbia. Il 29 infatti la Camera dei Deputati nega l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Tutti, politici e media, gridano al colpo di stato e il giorno dopo, al termine di una manifestazione a Roma, in Piazza Navona, con Achille Occhetto, viene aggredito all'uscita dell'hotel Raphael. Mi sono sempre chiesto come un uomo esperto ed accorto come il prefetto Parisi, l'allora capo della Polizia, abbia concesso Piazza Navona per quella manifestazione, a dieci metri da Largo Febo dove risiedeva Bettino e come non abbia predisposto alcun servizio di vigilanza per poter assicurare l'incolumità di un ex Presidente del Consiglio. Bettino resistette un altro anno in quel clima, con il timore che dopo le monetine arrivasse qualcosa di più pesante e letale. Vorrei aggiungere che vista oggi quella decisione fu sbagliata perché to-
glieva dall'imbarazzo molta gente, permetteva a molti di coprirsi dietro il capro espiatorio di Bettino Craxi. Certo sarebbe stato duro e doloroso continuare ad affrontare la gogna e il processo, ma sono certo, come del resto poi i fatti hanno dimostrato, che anche Bettino ne sarebbe uscito, magari con qualche condanna come Berlusconi e tanti politici di allora che ancora oggi sono sulla breccia e hanno fatto dimenticare i peccati di ieri. E forse Bettino si sarebbe potuto curare e sarebbe ancora oggi tra noi. Ma la storia non è fatta di “se” e non possiamo riportare indietro le lancette. Una cosa però te la posso dire con certezza perché ne fui testimone diretto. Due giorni prima della sua decisione, stavamo passeggiando a tarda sera per Piazza Navona con la scorta a qualche metro da noi come sempre, quando stranamente un individuo poté avvicinarsi a Bettino e a me senza essere fermato. Evidentemente era conosciuto come persona non pericolosa, o magari era un collega o superiore degli uomini della scorta. Salutò Bettino con un “Buonasera Presidente” e senza darci la possibilità di chiedergli chi fosse aggiunse: “ sarebbe meglio se Lei partisse dall'Italia, il tempo si sta mettendo al brutto”. Poi, con un rapido “arrivederci”, si allontanò lasciandoci senza parole. Bettino fu molto scosso da quell'incontro, non tanto per il contenuto del messaggio ma per la facilità con cui il tizio si era avvicinato. La sua sicu-
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22 rezza non era più assicurata e questo lo spaventò
e credo che fu l'ultima spinta a prendere la decisione di partire. Quella sera continuammo a camminare per Piazza Navona fino a tarda notte e, tra un silenzio e l'altro, ripeteva tra sé e sé una frase che ancora oggi mi gela il sangue: “Se resto faccio la fine di Sindona”. Temeva per la sua incolumità, la sua e di quelli che gli stavano vicini, e non aveva torto. Del resto la storia di quegli anni è disseminata di strane morti, misteri ancora irrisolti come i “suicidi” di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro, il 20 e il 23 luglio del 1993, o le bombe a Milano e Roma, con cinque morti, il 27 dello stesso mese. Tre giorni dopo, il 30, Bettino parlò pubblicamente per la prima volta di “voler togliere il disturbo” e della sua intenzione di allontanarsi dall'Italia. Poi ci sono altre strane coincidenze. Il 2 di agosto il Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi annuncia la sua intenzione di riformare completamente i servizi segreti, e quattro giorni dopo il Parlamento respinge le dimissioni del capo della Polizia Parisi. Ad ottobre il Ministro della Difesa “dimissiona” ben trecento agenti del Sismi, il servizio segreto militare. Sono convinto che in quel maledetto 1993 siamo stati sull'orlo di un colpo di Stato: ingenti forze erano in movimento per destabilizzare la politica, i partiti e le istituzioni del nostro Pae-
se. E non mi stupirei se qualcuno di questi malintenzionati avesse messo in conto anche la morte di Bettino. Per non sembrare un visionario ti voglio raccontare un altro episodio che avvenne nel 1994, dopo poco che ci eravamo stabiliti ad Hammamet. Era tardi, credo fosse passata da poco la mezzanotte. Bettino a quell'ora così fresca e silenziosa amava passeggiare, a volte anche senza parlare. Con la sua maniera spiccia di sempre mi dice: “Umberto, andiamo a fare un giro”. Ne abbiamo fatti di giri in quegli anni! Siamo sulla soglia di casa, io davanti e lui appena dietro, sto per scendere i pochi gradini che ci portano al giardino quando con la coda dell'occhio vedo un puntino rosso luminoso tra le foglie delle siepi appena davanti a noi. E' un attimo, poi scompare. Non ho avuto il tempo di riflettere su cosa fosse di preciso, ma ero talmente teso che per istinto, con il braccio teso sposto Bettino e me lo tiro dietro facendolo sedere sui gradini. Sorpreso da quella mossa Bettino comincia a chiedere a gran voce: “Che succede? Che cosa fai?”. Non ho il tempo di rispondere che richiamata dalla voce di Bettino la guardia tunisina, di servizio in giardino, arriva correndo seguita da altri due o tre agenti. Si dirigono verso la siepe mentre noi cautamente rientriamo in casa. Il trambusto è enorme. Le intimazioni dei tunisini si accavallano con mezze parole in italiano. La notte è buia. La luna e le poche luci del giardino ci permet-
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24 tono solo di intravvedere che due estranei, appo-
stati dietro una siepe, vengono prelevati dalla sicurezza tunisina e portati via. Bettino sembrava un leone in gabbia. Non era spaventato, era furioso. Quella lucetta rossa era un puntatore a infrarossi e se non fossi uscito per primo probabilmente Bettino sarebbe stato colpito. Di quei due non ci fecero sapere nulla, ma di certo, conoscendo i tunisini, hanno buttato la chiave della loro cella e sicuramente nessuno è andato a reclamarne la liberazione. Due balordi forse, non certo professionisti, assoldati da chi sa chi e mandati allo sbaraglio. Dopo poche ore la villa di Hammamet fu presa in consegna dai corpi speciali tunisini, credo fossero 80 soldati, divisi per turni. Non li vedevamo mai, invisibili.
Bettino Craxi con il Presidente Tunisino Ben AlĂŹ nel 1985 a Tunisi.
Mi raccontarono che a volte stavano per ore mimetizzati con la sabbia nei posti più incredibili. Ben Alì, il Presidente della Tunisia, si scusò molto con Bettino per quell'incidente e da allora non successe più nulla. Come vedi Bettino non era paranoico, non si inventava le minacce e i pericoli. Fu deriso per questo, ma aveva tutti gli elementi per temere per la sua vita. E così decise per il male minore: fuori dall'Italia ma vivo e con la possibilità di parlare e lottare ancora per le proprie idee. Non credo che sia fuggire questo, ma se proprio vuoi usare questo termine usiamolo: quella fu una fuga per la libertà. LC: Su di un punto non posso darti torto, Craxi ha avuto un trattamento “speciale” rispetto a molti altri protagonisti di Tangentopoli e in molti, dopo la sua morte, hanno cominciato a riconoscerlo. Barbara Palombelli in un bel diario del 2001 ha scritto: “Bettino Craxi aveva l'idea fissa che qualcuno volesse farlo fuori dalla vita politica italiana. Ridevamo, noi cronisti parlamentari, di questo incubo. Negli anni, vista come è andata a finire tutta la vicenda socialista, mi sono convinta che una sorta di complotto c'è stato davvero. E per dimostrarlo, ci vorrebbe un detective come nei gialli, perché l'eliminazione di Bettino Craxi resta un mistero e non è spiegabile soltanto con il finanziamento dei partiti (che lui ammise in Parlamento davanti a tutti)”. Mi hanno colpito le parole della Palombelli, parole credo usate non a caso: “farlo fuori” o “elimina-
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26 zione”. Fanno pensare a qualcosa di più fisico, più
materiale che non il solo aspetto politico o giudiziario. Ma torniamo a quella decisione di lasciare l'Italia. Non fu una decisione presa da un momento all'altro, se è vero che da tempo Craxi si stava organizzando per trasferirsi in Francia, sperando nell'ospitalità del suo amico e compagno François Mitterrand. UC: Bettino amava la Francia, parlava fluentemente francese, passava molto del suo tempo libero con la famiglia sulla costa francese, e aveva anche un appartamento a Parigi vicino al ponte dell'Almas, dove poi morì Diana in quel tragico incidente. Era certo che, se si fosse trasferito a Parigi, Mitterrand non avrebbe creato problemi a riconoscergli lo stato di rifugiato politico. Purtroppo non fu così. Bettino era un ospite troppo scomodo anche per Mitterrand. Fu costretto a fare un ulteriore passo indietro e si trasferì ad Hammamet. Anche per questo possiamo parlare di “fuga per la libertà” perché Bettino pensava di poter continuare a combattere la sua battaglia da Parigi, tenere conferenze, scrivere libri, incontrare persone, difendersi dalle accuse e se necessario affrontare anche il giudizio quando le condizioni minime di diritto si fossero ristabilite. A molti è stato concesso, a Bettino neanche questo. LC: Ma il punto secondo me è proprio questo: Craxi parte dall'Italia a maggio del 1994 perché ha saputo o capito che presto verrà arrestato, Ed infatti il
29 luglio e poi il 7 dicembre dello stesso anno viene condannato a pene che prevedono la reclusione. Dal clima generale e dai messaggi ricevuti si convince che una volta in carcere “butteranno la chiave” e non avrebbe goduto di nessuno sconto di pena o condizione di garanzia e, addirittura, avrebbe potuto fare “la fine di Sindona”. Quindi decide di trasferirsi in Francia, accogliere le sentenze in contumacia e attendere tempi migliori per trattare il suo ritorno e la forma per scontare la pena, magari ai domiciliari. Berlusconi aveva vinto le elezioni con la sua invenzione “Forza Italia” insieme alla Lega nord e Alleanza Nazionale. Neanche la sconfitta di quelli che Craxi considerava i suoi nemici, la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto lo fa desistere dal suo proposito. Deve essere stata una decisione sofferta. Raccontami quel 5 maggio 1994. UC: Erano giorni grigi, tristi. Ci sentivamo accerchiati, braccati. Sembrava impossibile che tutto fosse precipitato in quel modo. Vivevamo come al centro di un uragano, tutto si muoveva velocemente, tutto cambiava intorno a noi e non facevamo a tempo a capire il nuovo paesaggio che già veniva stravolto. Anche quella mattina era trascorsa leggendo le agenzie, parlando al telefono o incontrando quei pochi amici che ancora non avevano vergogna di farsi vedere con Bettino. Verso le 4 del pomeriggio lo vedo uscire dal Raphael e mi fa segno di seguirlo. Non c'era nulla di diverso da tante altre volte.
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28 Partimmo con la Fiat 113 di scorta davanti, noi
dietro nell'auto blindata e l'altra scorta dietro, come sempre. Durante il tragitto dal Raphael a Ciampino Bettino non dice una parola, legge come al solito le sue carte. Anche in questo nulla di diverso da mille altre volte. Non interrompo la sua lettura e comincio a pensare a come organizzarmi per la notte visto che eravamo partiti senza che avessi il tempo di prendere il minimo indispensabile anche solo per una notte. Questo avveniva spesso e non mi preoccupai più di tanto. Il corteo di auto entrò sulla pista e si fermò a fianco di un piccolo aereo da turismo con la scaletta abbassata e i motori accesi. Seguo Bettino sulla scaletta ma a metà si ferma, si gira e mi dice ”No, tu oggi non vieni. Torna in albergo, ripulisci tutto, prendi le mie carte e nascondile. Le carte da adesso sono tue e un giorno fanne buon uso. Non voglio sapere dove e come le nascondi”. Resto impietrito, capisco che questo é un addio. Non c'era tempo per altre spiegazioni perché nel frattempo Bettino si era infilato dentro all'aereo e io non potevo che tornare sull'auto dove Nicola Manzi, il suo autista fidato, ci stava guardando e aveva capito anche lui quello che stava succedendo. Restammo un po' in silenzio ai lati della pista con il naso al cielo finché l'aereo diventò un puntino e sparì alla nostra vista. Fummo gli ultimi a vedere Bettino in Italia ed io fui l'ultimo a parlargli. Con quel piccolo aereo partiva un pezzo di storia del nostro paese, partiva un grande uo-
mo politico e un padre per me. LC: Questo lo puoi dire adesso, ma penso che quel giorno nÊ tu nÊ lo stesso Craxi pensavate che quello sarebbe stato un volo di sola andata. UC: Hai ragione, nessuno di noi poteva anche lontanamente pensare che un uomo come Craxi potesse essere lasciato morire fuori dal suo Paese. E di certo nessuno di noi immaginava che avrebbe passato il resto dei giorni ad Hammamet. Eravamo certi che qualcuno avrebbe dato asilo politico a Bettino, prima fra tutti il suo amico e compagno Mitterrand. Altra sottovalutazione imperdonabile. LC: Siamo rimasti con il naso alzato verso quell'aereo che si allontana. Che successe dopo? UC: Risalimmo in macchina e tornammo in albergo. Appena arrivati la scorta si dileguò e noi rimanemmo soli. Ci raggiunse Luca Josi, il giovane dirigente socialista che era rimasto vicino a Bettino anche nei momenti difficili e con Nicola Manzi cominciammo a fare scatoloni, borse e pacchi di tutte le carte. Dell'albergo informammo solo l'anziano Signor Vella, che ci fece entrare nella stanza di Bettino e protesse il nostro lavoro. A tarda sera, rimasto da solo e verificato che anche i pochi clienti dell’albergo si erano ritirati nelle proprie camere, comincio a caricarmi gli scatoloni e trasferisco tutto l'archivio dalla stanza di Bettino
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30 alle cucine dell'hotel, in un angolo poco frequen-
tato e ben nascosto. Praticamente quella notte non dormii per niente, un po' per la fatica e un po' per l'agitazione e il peso della responsabilità dell'incarico che Bettino mi aveva affidato. Quelle ultime parole mi ronzavano nella mente: “Le carte da adesso sono tue e un giorno fanne buon uso. Non voglio sapere dove e come le nascondi”. Già, quello era il problema adesso: come e dove nasconderle. E non potevo parlarne con nessuno né farmi aiutare. La mattina dopo la notizia della partenza di Bettino fece il giro dei palazzi del potere, ma ancora nessuno aveva la conferma che quel viaggio sarebbe stato senza ritorno. Mi resi conto di aver poco tempo per mettere in sicurezza l'archivio prima che sciacalli e condor cominciassero a volare in tondo. Lavorai tutto il giorno ad organizzare il trasferimento, nel tardo pomeriggio dormii qualche ora e verso l'una di notte mi presentai al Raphael con un Fiorino bianco preso in affitto quella mattina. Da una entrata di servizio caricai tutte le casse sul furgoncino e partii per la seconda tappa del viaggio. Percorsa la vecchia via Portuense, superai la Magliana, fino a Ponte Galeria, e dopo qualche giro per controllare di non essere seguito, mi infilai sotto al cavalcavia dove un enorme TIR era fermo con lo scivolo abbassato. Rallentai appena e mi infilai dentro al TIR con tutto il Fiorino. Scesi e praticamente al buio scaricai tutte le casse con i documenti ripartendo subito con il Fiorino bianco. Anche per
quella notte non c'era tempo per dormire. Lasciai le chiavi e il Fiorino al deposito della rent-car, e con solo una piccola borsa di bagaglio a mano, senza prenotazione, mi imbarcai sul primo aereo per Parigi, quello delle 8,50 del mattino. Appena arrivato a Parigi presi in affitto all'aeroporto un altro furgone, un Renault ovviamente, e mi avviai verso il centro, quasi sotto la Torre Eiffel. Dopo qualche ora di attesa al Trocaderò arrivò il Tir e caricate le 15 casse di documenti sul Renault andai a cercare una sistemazione sicura per attendere qualche giorno a Parigi e valutare gli eventi. LC: Avevi portato fuori dell'Italia i documenti ma dovevi nasconderli in un posto sicuro, ancora erano su di un furgone sulle strade francesi e anche un banale incidente avrebbe potuto rovinare tutto. UC: Sapevo dove andare e qualcuno mi aspettava, anche se questo qualcuno non sapeva cosa portavo con me. Tempo addietro avevo conosciuto una ragazza franco-indiana, Sushila, che si faceva chiamare Giuliette e viveva con i suoi genitori in un piccolo borgo della Normandia, Bajer. Le avevo telefonato il giorno primo e le avevo chiesto se poteva raggiungermi a Parigi e, se necessario, ospitarmi per qualche tempo nella sua casa. Tra noi era nato qualcosa piÚ di una amicizia e lei fu ben lieta di accogliermi e di aiutarmi in momenti che sapeva essere molto difficili per me. Ancora oggi voglio ringraziarla per l'affetto e l'aiuto disinteressato che mi diede in quei giorni. Solo una perso-
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32 na come lei, dolce ed esoterica, lontana dalle vi-
cende italiane e sensibile come poche, poteva fare per me quello che ha fatto. LC: Erano passati intanto i primi giorni di lontananza di Craxi dall'Italia. Tu eri a Parigi con l'archivio in un furgone, ma senza notizie.
UC: Per precauzione non usavo il cellulare e chiamavo sempre da una cabina telefonica. Dopo qualche giorno riuscii a contattare Beppe Scanni e ad avere notizie di Bettino. Dopo un lungo giro era tornato in Francia, a Nizza dove lo avevano raggiunto la moglie Anna, con Bobo e Scilla e dove sarei dovuto andare anch'io il prima possibile. Mi assicurai che l'archivio fosse temporaneamente al sicuro, e raggiunsi Bettino a Nizza. Ci rincontrammo a Capferrat, in una casa presa in affitto per l'occasione, e cominciò l'estenuante attesa della decisione di Mitterrand di concedere l'asilo politico. LC: Come ricordi quei giorni? Come stava Craxi, cosa sperava per il suo futuro? UC: Giorni di illusioni che svanirono ben presto. Bettino era sicuro che Mitterand lo avrebbe accolto. Era certo di potersi sistemare a Parigi nel nuovo appartamento che aveva comperato nel centro della cittĂ , che sarebbe diventato la sua nuova casa-ufficio. “Saremo come Don Chisciotte e Sancho Panza, gireremo il mondo, faremo consu-
lenze, terremo conferenze, scriveremo libri e tu farai ancora tante foto”, mi diceva parlando del nostro futuro in un ristorante di Nizza mentre aspettavamo la decisione di Mitterrand. E anch'io ci credevo. Nessuno di noi poteva immaginare che la persecuzione verso Bettino sarebbe giunta ad impedirgli di continuare a fare politica. La verità è che stavamo sottovalutando il contesto nel quale l'attacco a Bettino si era sviluppato. C'era chi lo attaccava per i suoi reati, ma c'erano anche quelli che lo attaccavano per nascondere le proprie responsabilità. E furono proprio questi ultimi a darsi da fare per distruggere completamente ogni credibilità di Bettino, per togliergli qualsiasi possibilità di svolgere un ruolo politico che sarebbe stato imbarazzante per molti, per tutti quelli che cercavano di rifarsi una verginità. La Francia aveva dato asilo politico a condannati per terrorismo e non poteva accogliere un grande statista che aveva rinnovato e modernizzato il suo Paese? Questa enorme difformità di valutazione ci appariva impossibile per la Francia e per il suo Presidente socialista. Ne avemmo però un primo atroce segnale quando a Nizza ci arrivò la notizia che il Presidente Oscar Luigi Scalfaro, con una visita non programmata, in quegli stessi giorni si era incontrato con Mitterrand. Cosa si siano detti non lo sappiamo ma Bettino e noi tutti lo intuimmo. A Craxi non poteva essere permessa nessuna libertà di parola, nessun “rifugio” dove vivere, lavo-
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34 rare e curarsi. La tristezza divenne disperazione e
le passeggiate divennero più lente e più melanconiche. In una di queste, mentre precedevamo di pochi passi Bobo e Scilla, Bettino utilizzando una frase che gli avevo appena detto, elaborò politicamente la sua definitiva sconfitta: “La storia - mi disse - è una delle più belle donne del mondo. E' una donna molto esigente e mangia gli uomini che tentano di fare la storia”. Poche ore dopo arrivò la conferma ufficiale ai nostri timori: non eravamo graditi neanche nel paese delle libertà, Craxi doveva togliere il disturbo. Non restava che fare i bagagli e trasferirsi ad Hammamet in Tunisia. Era l'inizio della fine. Restammo ancora qualche gior-
Bettino Craxi si rade nella piscina della sua casa di Hammamet vicino Benedetto, figlio di Bobo e Scintilla Cicconi.
no a Nizza poi Bettino partÏ per la Tunisia ed io tornai a Parigi a recuperare l'archivio per metterlo definitivamente in un luogo sicuro. Quelle carte Bettino non avrebbe piÚ potuto consultarle. Cominciava il lungo oblio. LC: Continuiamo a seguire il viaggio di quell'archivio. Arrivato a Parigi e recuperato il furgone dove lo porti? UC: Come ti ho detto una mia amica si era resa disponibile ad ospitarmi nella casa dei suoi genitori in Normandia. Il padre era stato un famoso medico, un precursore della medicina esoterica e tutto in quella famiglia e nella loro casa aveva un sapore sovrannaturale. Arrivammo in piena notte, con una leggera nevicata e un freddo pungente. La loro casa era un tipico casale con un alto muro di cinta che proteggeva la proprietà . Mi alloggiarono in una stanza al terzo piano con un letto a cassettone, un solo comodino, un armadio massiccio ed una splendida finestrella da cui si poteva ammirare un panorama mozzafiato sul gelido mare della Normandia. Sushila dormiva al piano di sotto, proprio davanti alla stanza dei suoi genitori. Quella notte scambiammo solo poche parole. La stanchezza e la tensione accumulata ebbero il sopravvento e dormii profondamente. L'ultimo pensiero andò alle casse dentro al furgone ormai parcheggiato al sicuro all'interno del muro di cinta della casa. La mattina seguente, do-
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36 po colazione e qualche chiacchiera con i suoi ge-
nitori mi feci accompagnare da Sushila a fare un giro di perlustrazione della casa per cercare di capire dove avrei potuto nascondere il mio tesoro. Il cascinale era enorme, circa 3000 metri quadrati e non feci molta fatica a trovare un luogo appartato e sicuro dove scaricare gli scatoloni. La tensione era ormai svanita e cominciai ad apprezzare la bellezza del luogo e della compagnia di Sushila. Dovevamo comunque fare attenzione ai suoi genitori e, anche se eravamo ormai adulti e vaccinati, non volevamo creare imbarazzo a due persone meravigliose che mi avevano accolto come un fuggiasco nel pieno della notte senza fare domande. La terza sera che passammo in quella casa, durante la cena, la mamma di Sushila mi fece una strana domanda: “Umberto, quando vai nella tua
Alcuni dei block notes dell'archivio.
stanza non senti nulla?”. Come se mi avesse chiesto di qualcosa che avevo avuto sempre sotto gli occhi senza mai vederlo, mi tornarono alla mente tante strane sensazioni che avevo provato durante quelle notti passate nella stanzetta del terzo piano. “Si, ora che mi ci fa pensare, ogni sera sento come un venticello che mi sfiora tutto il corpo, penso che ci siano molti spifferi”. “No -rispose lei - sono gli spiriti degli amanti, ma ti hanno accolto, gli sei simpatico”. E così mi raccontarono una bella storia di amanti segreti che si sarebbero incontrati in quella stanza e che anche dopo la loro morte continuavano ad incontrarsi nelle freddi notte d'inverno. In quella stanza non avevano mai fatto dormire nessuno ed era rimasta intatta ormai da più di un secolo. Non ti nascondo che la cosa mi fece molta impressione e quella notte stentai a prendere sonno. Fortunatamente i genitori di Sushila si dimostrarono molto più evoluti ed aperti di noi e dopo qualche giorno ci permisero di dormire insieme, al secondo piano. Ero stato promosso sia dagli spiriti che dai genitori di Sushila. A volte tornavo al terzo piano, mi affacciavo alla finestrella e mi sembrava di sentire ancora quel venticello che come una carezza mi sfiorava tutto il corpo. Restai per un lungo periodo in quella casa, anch'io stavo convincendomi che nulla sarebbe più stato come prima e che quindi avrei dovuto ricominciare tutto da capo. All'inizio del 1995, proprio vicino al cascinale
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38 dei genitori di Sushila venne messo in vendita un
altro casale che mi affrettai a comperare per dieci milioni di lire, un vero affare. La mia nuova casa, come molte di quella zona, era circondata da un muro di cinta alto piĂš di due metri, costruito per proteggere gli alberi di mele dal forte vento del nord. In un angolo protetto cominciai a scavare una profonda buca. PotrĂ apparire ridicolo, ma in quei giorni mi sentivo un po' come i pirati che cercano un luogo sicuro nelle isole dei Caraibi per seppellire il loro tesoro. Il mio tesoro non erano dobloni o monete d'oro, ma carte, appunti, lettere, agende di un uomo che secondo me aveva fatto la storia. Stavo seppellendo la mia mappa del tesoro: migliaia di carte che un giorno storici e studiosi avrebbero saputo interpretare. Scavai per diversi giorni, la buca non mi sembrava mai abbastanza profonda. Poi quando mi sentii soddisfatto andai a comperare enormi fogli di tela cerata e foderai tutto lo scavo. Con del legno costruii una specie di gabbia di sostegno per impedire al peso della terra di rovinare gli scatoloni. Quando tutto fu pronto deposi con cura le scatole con le carte, coprendole con altro legno, una fila di mattoni e altra incerata. Come nei film americani versai una prima manciata di terra simbolica e ricoprii tutto. Cercai di togliere qualsiasi traccia dello scavo. Dopo pochi giorni la natura fece il resto e ben presto anch'io avrei avuto qualche difficoltĂ ad individuare il nascondiglio. Rimase cosi per piĂš di due anni.
LC: Nel corso degli anni però Craxi ti chiese di vedere delle carte. Come avvenivano le tue comunicazioni con Hammamet? Come facevi a portare i documenti? UC: Fino al 1997, anche se ci vedemmo varie volte, Bettino non mi chiese mai carte o altri documenti. Quando non stavo con lui ad Hammamet lo chiamavo spesso, sempre da telefoni pubblici, mentre lui mi faceva chiamare lui a casa, ma da amici insospettabili. Avevamo concordato una specie di linguaggio cifrato. Mi facevo quasi tre chilometri e mezzo a piedi fino al più vicino drugstore che aveva una cabina telefonica a scatti. Lo chiamavo e cominciavamo a parlare di salute, tempo e famiglia senza alcun riferimento a persone o situazioni politiche. Se aveva bisogno di qualcosa nel corso della conversazione mi avrebbe detto una frase tipo: “A proposito di quell'amica tua, me la devi portare qui, che le voglio parlare”. Con altre frasi di questo tipo cercava poi di farmi capire di che cosa aveva bisogno. Quando avevo elementi sufficienti troncavo la conversazione con un “Va bene, adesso ci parlo e cerco di portartela”. Fu cosi che mi trovai obbligato a cominciare a catalogare tutte le carte per poter rapidamente esaudire le richieste di Bettino. Con delle cartelline di plastica numerai tutte le carte e feci una specie di indice. Capisco dal tuo sorriso che tutto ciò ti sembra ridicolo. Ma ricordati che quello era il periodo in cui “Il Giorno” stava pubblicando quotidianamente le intercettazioni telefoniche di Bettino da Hamma-
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40 met, intercettazioni che non avevano nulla di rile-
vante penalmente, ma che servivano ad isolare ancora di piÚ Bettino. Un po' come come è avvenuto mesi fa con le intercettazioni del caso BNL. Chi aveva il coraggio di telefonargli anche solo per avere sue notizie doveva sapere che il suo nome sarebbe stato esposto al pubblico ludibrio. Qualcuno non si fece intimidire, ma molti altri interruppero anche quel piccolo segno di umana solidarietà . Per questo dovemmo prendere quelle precauzioni. Anche portargli le carte non era semplice. Di solito dovevo partire da Parigi per Tunisi con l'Air France, senza bagaglio e con le carte infilate dietro ai pantaloni. Non potevo togliermi mai la giacca e anche a Tunisi non potevo stare tranquillo. Il Presidente tunisino Ben AlÏ era senz'altro un amico di Bettino e gli ha sempre dimostrato riconoscenza e simpatia in tutti quegli anni, fino alla fine, ma nel suo apparato poteva esserci anche del personale corrotto che poteva vendersi per qualche dollaro. Dopo aver studiato le carte Bettino me le riconsegnava e dovevo fare il percorso inverso e rimetterle al sicuro. Non mi ha mai chiesto dove fossero e non ha mai voluto tenersi nulla
1. Barbara Palombelli - Diario di una mamma giornalista - Rizzoli editore
i conti non tornano
LC: Mi ricordo che anch'io ho avuto dei problemi a rintracciarti in quegli anni. Chissà se in qualche scaffale polveroso c'è anche qualche nostra telefonata registrata. Mi piacerebbe riascoltarla. Furono tempi duri per tutti, e sono pochi quelli che allora gioirono di ciò che stava succedendo e che a distanza di anni non si sono pentiti di quell'entusiasmo o quanto meno si sono posti dei dubbi. L'impressione di aver gettato il bambino con l'acqua sporca, di aver travalicato i limiti del rispetto dei diritti fondamentali degli imputati o presunti tali si è rafforzato negli anni e debbo dire a ragione. Per quanto riguarda Craxi e quelle intercettazioni, ad esempo, c'è stata anche una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che osserva “che alcune conversazioni rese pubbliche dalla stampa rivestivano un carattere strettamente privato e non ave-
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42 vano che modesta oppure alcuna attinenza con le ac-
cuse penali rivolte contro il ricorrente”. Insomma secondo la Corte non sussisteva “alcuna esigenza sociale imperativa di pubblicarle”. Solo per la cronaca va aggiunto che la Corte, a mio avviso in maniera pilatesca, si lava le mani dall'indagare sulle responsabilità e parla di “disfunzioni della cancelleria del Tribunale” o di ottenimento di quelle registrazioni da parte della stampa “attraverso una delle parti del processo o dei loro avvocati”. Insomma o è stato un cancelliere disattento o l'accusa, visto che escluderei che Craxi o l'avvocato della difesa abbiano divulgato quelle registrazioni. Comunque la Corte “ritiene che le autorità italiane non hanno osservato le procedure legali” e il fatto “solleva gravi preoccupazioni quanto al rispetto da parte dello Stato del suo obbligo di assicurare la protezione effettiva di questi diritti”. UC: E' ormai accertato che in quel periodo la foga giustizialista fece chiudere molti occhi sulle garanzie personali degli imputati e sui diritti dell'uomo come giustamente ha accertato in più occasioni la Corte Europea. E questi accertamenti di violazioni evidentemente danno ragione a Bettino quando sosteneva che non esistevano le condizioni di garanzia personale per sottoporsi alla giustizia italiana. E bada che lui fu il primo e l'unico ad ammettere di aver commesso il reato di finanziamento illecito. Non lo ha mai negato ed era pronto anche a pagare per questo, anche se ti assicuro che Bettino
non ha mai utilizzato quei fondi per un arricchimento personale. Ma ti pare che se Bettino avesse avuto a disposizione i miliardi che gli sono stati imputati avremmo vissuto tutti quegli anni ad Hammamet dentro una villetta bella ma certo non di lusso? Ti invito a rileggere alcune considerazioni fatte da un giornalista che certo non può essere considerato un “amico” di Bettino, Bruno Vespa. In un suo monumentale libro dopo aver ricostruito tutta la vicenda, afferma: “A oltre dieci anni dalla fuga ad Hammamet, a quasi cinque dalla sua morte, non si ha notizia di patrimoni nascosti della famiglia Craxi. E' sicuro invece che - come accade in ogni guerra agli eserciti in rotta - qualche “fiduciario” si sia sistemato alle spalle del partito. Troppe cose non tornano sui conti esteri del Psi. E se non tornavano nemmeno a Craxi ….”. LC: In questi anni qualcosa di più si è saputo, anche con una scia di sangue come la tragica fine della contessa Agusta, che se non sbaglio si impossessò con Maurizio Raggio dei fondi gestiti da Giorgio Tradati. Ma sei proprio sicuro che Bettino o qualcuno della sua famiglia non abbia approfittato di quelle somme, magari dopo la sua scomparsa? Ti ricordo la tua promessa di essere sincero. UC: Non sfuggirò alla domanda e cercherò di darti anche elementi oggettivi per verificare quello che sostengo. Innanzitutto di conti esteri del Psi intestati a Bettino sono certo che non ve ne fossero.
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44 Come le indagini hanno accertato i fiduciari dei
conti esteri erano tre: Vincenzo Balzamo, Giorgio Tradati e Gianfranco Troielli. Fino a quando Bettino era a capo del partito quei conti servirono per finanziare le campagne elettorali, le iniziative politiche e anche per sostenere partiti, movimenti o singoli leaders socialisti e progressisti di altri paesi. Bettino viveva dello stipendio di segretario, circa 200 milioni di lire l'anno, e se aveva bisogno di altro poteva tranquillamente e legittimamente chiederlo a Balzamo in virtù del dettato dell'art. 47 dello Statuto del partito. Non credo che Bettino lo abbia mai fatto, anche perché non ne aveva bisogno. Del resto dovunque andava la gente non voleva farlo pagare, per affetto o per interesse, e in molte occasioni doveva insistere per saldare il conto. Devo dirti anche che Bettino aveva poca dimestichezza con il denaro, a volte addirittura neanche ne portava in tasca. Mi ricordo un episodio, agli inizi della nostra amicizia che mi piace ricordare anche perché credo che rappresentò una prova, una specie di test, di esame sulla mia affidabilità. Era il 1983, gli inizi di aprile, e partimmo da Roma tutti insieme, per la riunione dell'Internazionale Socialista in Portogallo, ad Albufeira. All'aeroporto Bettino si accorge di non aver contanti e mi chiede dei soldi. Avevo dieci pezzi da 10.000 lire in tasca. Li prendo e glieli do tutti rimanendo senza un soldo. Arrivati a Lisbona vedo che Bettino cambia dei soldi, molti di più di quelli che gli avevo prestato, ma non accenna a restituirmi i miei.
Non ci sono macchine sufficienti per tutti così faccio il viaggio praticamente in braccio ad Anna, la moglie di Bettino. Per tutto il viaggio mi prende in giro, invitandomi a non provarci con Anna, a mettere giù le mani e altre cose del genere. A tarda notte finalmente arriviamo all'hotel di Albufeira e tutti fuggono nelle proprie stanze a riposare. Per me non c'è la stanza prenotata, o almeno non risulta alla reception, e il portiere di notte mi invita a cambiare albergo. Non avevo un soldo in tasca e quindi mi sarebbe stato difficile andare da qualche altra parte. Dopo un po' di insistenza e non ottenendo la stanza mi decido a chiamare la camera di Bettino. Gli spiego la situazione e lui si fa passare al telefono il portiere dell'albergo. Anche da lontano sento il tuono della sua voce che intima all'incaricato dell'hotel di darmi la migliore sistemazione disponibile. Vengo alloggiato nella più bella stanza con vista sul mare. Un sogno. Mai stato in una stanza più bella di quella, all'ultimo piano, una suite presidenziale credo. Non ti nascondo che l'idea di dover pagare il conto non mi fece gustare appieno tutta quella bellezza. La mattina seguente, appena sveglio vado da Giorgio Gangi e gli spiego la situazione, pregandolo di darmi un anticipo sul servizio fotografico che avrei fatto per il partito, in modo da poter pagare il conto. Lui mi guarda un po' stupito, evidentemente sapeva già tutto, e mi dice: “Tu qui sei in trasferta con Bettino, i costi sono a carico nostro”.
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Quando torniamo in Italia, alla fine dei lavori dell'Internazionale socialista, Bettino mi restituisce i soldi, dieci pezzi da diecimila, gli stessi credo, piegati come glieli avevo dati. Avevo passato tutti quei giorni senza una lira, avevo rischiato di dormire all'aperto, ma capii subito che mi aveva messo alla prova, voleva vedere fino a che punto avevo fiducia in lui e fino a che punto ero pronto al sacrificio. Credo di aver superato la prova a pieni voti. Ecco, questo era il rapporto di Bettino con i soldi, molto distaccato. Per lui dovevano servire solo per la battaglia politica, erano un mezzo non un fine. Quando decideva di fare qualcosa, fosse un evento straordinario o un aiuto ad un partito fratello, chiedeva a Balzamo se c'era disponibilità di fondi, ma non sapeva certo dove, come e quanto. Credo che con la morte di Vincenzo Balzamo cominci l'assalto al Palazzo d'Inverno: quelli che fino ad allora erano solo fiduciari cominciarono a sentirsi di fatto proprietari di quei conti. Qualcuno per paura di essere scoperto, altri perché non si sentivano più controllati, altri ancora perché avevano capito in anticipo la fine che avrebbe fatto il partito. In una maniera o nell'altra il partito perse il controllo di quei conti. Devi anche considerare che i segretari del partito dopo Craxi non vollero neanche occuparsi di recuperare la disponibilità di quel denaro per non incorrere nelle ire giudiziarie. Insomma nel “si salvi chi può” indotto dalla furia di quei giorni molti si sono arricchiti, qualcu-
no se li è potuti godere, altri no. Ma spero che a tutti rimorda la coscienza e non dormano la notte per la fine che hanno fatto fare a Bettino. Sono stato testimone degli anni di Hammamet e ti assicuro che non vivevamo nel lusso, non ricevemmo fondi da nessuno e nessuno ci fece mai sapere che, se volevamo, potevamo disporre di denaro. E Bettino ne avrebbe avuto bisogno, ma non per vivere meglio o magari per curarsi con i migliori medici del mondo. No, ne avrebbe avuto bisogno per quella voglia di continuare la sua battaglia politica, sostenere le sue idee. Da questo punto di vista sapeva bene quale era il valore del denaro per la politica. Fin da quando divenne segretario capì che se voleva combattere per le sue idee doveva disporre di risorse economiche almeno equivalenti a quelle che Dc e Pci ricevevano dall'estero o dal sistema imprenditoriale italiano. Non era un ingenuo, non poteva combattere i giganti con le sole entrate delle tessere o del finanziamento pubblico. Per questo quando a Parigi mi disse che saremmo diventati “Don Chisciotte e Sancho Pansa” capii che dietro quella frase forse c'era la pura illusione di un uomo sconfitto che non si voleva arrendere. Per questo ha ragione Vespa: Craxi non si è arricchito, sua moglie vive tuttora ad Hammamet e non naviga nel lusso, Bobo, con due figli vive a Roma con il suo stipendio. Di Stefania conosco poco, è sicuramente quella che dispone di più mezzi, ma penso che abbia beneficiato più del nome che porta che dei conti esteri.
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48 LC: Fermati qua. Ti avevo avvisato che non ti avrei
permesso di sfuggire alle domande o lanciare messaggi incomprensibili. Queste tue ultime parole su Stefania meritano una spiegazione. Mentre escludi categoricamente che Bettino, Anna e Bobo abbiano ricevuto vantaggi economici da quei famosi conti esteri,e porti giustamente come prova il loro attuale tenore di vita, su Stefania sembri non escludere nessuna possibilità . Devi spiegarti meglio e farmi capire. UC: Hai ragione, sono stato troppo generico, ma debbo farti una premessa. Bettino credeva molto nella famiglia, era un tradizionalista in questo. E da padre padrone godeva anche un po' a mettere zizzania in famiglia. Ma aveva valutato bene le caratteristiche dei suoi figli e ripeteva continuamente che Bobo avrebbe dovuto essere il suo erede politico mentre per Stefania vedeva un futuro imprenditoriale nel settore televisivo. E fino a quando ha potuto ha sempre tenuto fede a questo suo schema e non ha mai ammesso interferenze alla sua autonomia. Per realizzare questa sua ambizione per i figli ha aiutato fin da giovane Bobo ad affermarsi e lo ha stimolato e guidato nei suoi primi passi nella politica. Con la stessa passione però ha aiutato Stefania a costruire la sua prima società di produzione televisiva, la Italiana Produzioni e ne ha seguito la crescita. Ad un certo punto questo schema è saltato, e oggi le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, con i due fratelli entrambe in politica, Stefania come
deputata di Forza Italia con il centro destra e Bobo sottosegretario del centro sinistra, separati nella Fondazione che porta il loro nome, praticamente separati in casa e in disaccordo su tutti gli argomenti. Ed è innegabile che chi ha tradito le aspettative del padre è Stefania e non Bobo. Ma c'è un altro aspetto, caratteriale, che Bettino conosceva bene: la gelosia di Stefania e il suo spasmodico bisogno di emergere sul fratello e su tutti coloro che erano vicini al padre. Il matrimonio con Marco Bassetti non ha certo aiutato Stefania, anzi ha contribuito a far crescere anche invidia e venalità nei loro comportamenti. Bassetti è arrivato anche a sospettare che avessi fotografato Bettino malato o addirittura da morto per farci io dei soldi. Evidentemente giudica gli altri con il suo stesso parametro e soprattutto non conosceva Bettino e non sapeva accettare che esistano persone che possono essere fedeli anche senza interesse personale. Per queste considerazioni non posso escludere che Stefania abbia approfittato del nome che porta. Anzi, di un episodio fui testimone e te lo voglio raccontare. Eravamo alla fine del 1997 o nei primi mesi del '98 e Bettino aveva subito il primo intervento chirurgico. In quella stanzetta dell'ospedale militare di Tunisi, anche a causa dei dolori post operatori, tutto gli appariva più cupo. Ad un certo punto arrivò Stefania e, dopo aver chiesto al padre come si sentiva, attaccò una filippica accalorata sul fatto che Berlusconi non la riceveva, che non riusciva a parlarci, che tardava a firmarle un con-
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50 tratto. Ero allibito da quella scena, ma il peggio do-
veva ancora venire. Bettino ascoltò lo sfogo della figlia in silenzio, confuso e frastornato. Ad un certo punto, continuando ad invocare l'intervento del padre a suo favore, Stefania, senza tanti complimenti e senza salutare né il padre né me, se ne andò sbattendo la porta. Bettino si voltò verso di me, mi guardò per qualche secondo in silenzio. Aveva gli occhi rossi e con un filo di voce mi disse: “E' sempre mia figlia”. LC: Mi vorresti dire che era solo Stefania ad approfittare del nome di Bettino Craxi? Tu, ad esempio, non hai approfittato della fiducia e della confidenza che ti riservava per fare qualche buon affare o per vendere meglio le tue foto? Magari senza chiederlo, gli altri ti riservavano condizioni di favore pensando di fare un piacere a Craxi. Mi sembra che le cose andassero così allora e che, anche se è cambiato il numero della Repubblica, dalla prima alla seconda, questo malcostume non è cambiato. UC: No, amico mio, non siamo tutti uguali e ci tengo a spiegarti come stanno le cose. Che la mia amicizia con Bettino mi abbia portato benefici anche economici non posso negarlo perché questo sarebbe negare la mia storia e la sua generosità. Prima di conoscere Bettino ero poco più di un fattorino dell'Alleanza Contadini. Lavoravo in un ambiente molto libero, guadagnavo 125mila lire al mese, una fortuna per me a quei tempi, giravo
Roma con la Vespa Primavera, entravo nei palazzi del potere per consegnare la corrispondenza di Giuseppe Avolio, un compagno socialista allora segretario dei contadini, scomparso recentemente. Vedevo gente importante. Pensa che ci fu un periodo in cui, per fare più in fretta e meglio il mio lavoro di consegna, andai anche alla Romana Recapiti e pagai di tasca mia alcune consegne. Mi costava un po' ma almeno non ne bucavo una. Così mi organizzai con un ragazzetto, più piccolo di me, cui davo parte del mio stipendio e che mi aiutava. Alle tre e mezzo-quattro avevo fatto tutto e potevo andarmene. Un pomeriggio come tanti passo per il mercato di Porta Portese e tra i banchi della roba rubata o usata, compero la mia prima macchina fotografica, una Zenith da 50mila lire, mezzo stipendio. Pesava come un macigno e facevo fatica a tenerla in mano per troppo tempo, ma mi ha dato tante soddisfazioni. Cominciai a fotografare tutto, dalla campagna di Maccarese alla gente per strada, sviluppavo e stampavo da solo, anche se lo sviluppo non mi ha mai appassionato. Quello che mi faceva sognare era fermare con lo scatto un momento particolare, una sensazione, una emozione. Sempre per caso, ma anche per testardaggine, la fotografia divenne la mia professione. Dopo due anni che lavoravo come fattorino conoscevo tutti e tutti mi conoscevano e mi volevano bene. Un giorno che mi sentivo più sfacciato del solito affrontai Avolio e gli dissi: “Scusa Peppino, ma
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52 perché non documentiamo tutto questo lavoro e
magari facciamo anche un giornale?”. Giuseppe Avolio era un grande personaggio, dotato di grande sensibilità e mi rispose: “E chi dovrebbe fare le foto?”. “Io” gli risposi subito. Fu così che nacque Nuova Agricoltura ed io passai a fare il fotografo. Mi pagavano per quello, e continuavo anche a fare il fattorino, ma con la mia Zenith attaccata al collo. E dato che tutti mi conoscevano ormai da anni ogni tanto mi facevano entrare nei palazzi e potevo scattare qualche foto anche ai leader politici. Non puoi capire che emozione fu per me girare per Botteghe Oscure o per via del Corso senza che nessuno mi dicesse nulla. Anzi, i compagni della vigilanza mi davano le dritte: “Guarda che domani c'è questa riunione con tizio e caio ” e io imboccavo, magari da dietro, da via dei Polacchi e fotografavo tutto. Così conobbi molti politici, un po' per caso, un po' per fortuna. Ad esempio mi ricordo quella volta che Enrico Berlinguer mi fece una specie di interrogatorio in ascensore. Doveva tenersi non so più quale riunione importante e con la soffiata mi faccio trovare a Botteghe Oscure qualche minuto prima. Stavo aspettando l'ascensore quando arriva Berlinguer con la sua scorta che mi fa segno di far passare il segretario del Pci. Mi faccio da parte e cedo l'ascensore, ma Berlinguer, appena entrato, si gira e mi fa segno di entrare con lui. “Da chi vai? Perché quella macchina fotografica? Per chi lavori?”. E tutto in tre piani. Sul pianerottolo poi mi invita a seguirlo nel suo uffi-
cio e mi fa scattare delle foto. Avevo una Nikon con un obiettivo 24 e feci del mio meglio. Da allora Berlinguer ogni volta che mi vedeva mi sorrideva ed era sempre disponibile. Era un grande uomo. In una occasione simile conobbi Bettino. Era la fine del 1978 o i primi del 79. Ero a Via del Corso alla sede del Partito Socialista, Craxi era già stato eletto segretario, ma io cercavo di fotografare Nenni, ormai vecchio e malato. A un certo punto me lo trovo davanti, con il suo bastone e il suo basco, appoggiato al braccio di un altro compagno e con Craxi a fianco. Scatto rapido, senza pensarci. Corro a sviluppare le foto e per la prima volta mi decido a farle vedere a qualcuno dei giornali. Vado prima a L'Espresso, ma non mi si fila nessuno. Figurati, già allora c'erano agenzie e fotografi “free lance” che avevano rapporti consolidati e non facevano entrare nessuno nel giro. Non mi perdo d'animo e corro a Panorama. Franco Lefebre guarda le foto e mi chiede: “Ma le hai scattate solo tu?”. “Certo” gli rispondo “ ce le ho solo io”. Insomma, le prende. Dopo qualche giorno compro Panorama e le vedo stampate con sotto una piccola scritta: Foto di Umberto Cicconi. Piangevo come un vitello per la felicità. Avevo realizzato il mio sogno. Mi avrebbero pagato per fare quello che mi piaceva: politica e fotografia. Da quel giorno cominciai a fare il free lance e a vivere con le mie fotografie. Ovviamente non fu facile all'inizio e forse senza Bettino sarei rimasto uno dei tanti. Chi già faceva
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54 questo mestiere non ti faceva avvicinare, aveva le
dritte giuste e per me, ragazzino, era dura. I miei campi preferiti erano le Direzioni del Pci, del Psi, della Dc e degli altri partiti del governo, Pri e Psdi, dove avevo amici che mi aiutavano. Ma le foto dei comunisti non si vendevano, nessuno le voleva. Con il nuovo corso socialista, dopo l'elezione di Craxi alla segreteria, le foto dei dirigenti socialisti si vendevano bene ed io cercavo di non saltare un appuntamento. Ma anche con loro era dura. Quando c'erano delle occasioni pubbliche tutti i giornalisti anziani si beccavano i migliori posti e io rimanevo sempre indietro. Mi ero reso conto però che facevano tutti le stesse foto, chi meglio e chi peggio, ma tutte dallo stesso punto di vista, del resto obbligato dal cerimoniale. Avevo cominciato a tirarmi fuori dal mucchio, a girare per le sale, a cercare qualcosa di diverso, ma ancora non ero riuscito a fare molto. Mi
Il giovane Cicconi mostra orgoglioso le sue foto.
ero inventato “le accoppiate” come le chiamavo io, foto che ritraevano due dirigenti di diversa corrente che parlavano tra loro, magari di due che si erano scontrati anche duramente sui giornali. L'occasione mi si presentò nel gennaio del 1981, ad una riunione del Comitato Centrale del Psi al Palazzo dei Congressi di Roma. Craxi era alla presidenza, al centro di un lungo tavolo con dietro una gigantografia di Nenni in una strana posa riflessiva. Davanti alla presidenza il solito nugolo di fotografi. Arrivo tardi e quando entro trovo la solita ressa intorno alla presidenza. Ad un tratto, mentre mi avvicino al tavolo vedo che Bettino assume la stessa espressione di Nenni nella gigantografia alle sue spalle. E' un attimo: faccio un salto in avanti e mentre cado sulle ginocchia scatto due volte. Gli altri fotografi mi spintonano, Craxi mi nota e mi lancia uno sguardo che non mi piace, di fastidio. Corro a sviluppare le foto mentre all'Eur prosegue il dibattito. Erano bellissime. Avevo colto l'attimo. Il settimanale “Oggi” me le compra e le pubblica a doppia pagina. Qualche giorno dopo incontro Daniela Scarso, la prima assistente di Craxi, che conoscevo, e mi chiede di andare da lei, perché il segretario voleva 100 copie di quella foto. Corro a sviluppare e stampare le foto, le metto in una busta e mi presento in Direzione da Daniela per consegnarle. Pensavo di doverle lasciare a lei, invece mi invita ad entrare dal segretario per dargliele di persona e per conoscerlo.
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Ero un po' emozionato, avevo poco più di venti anni e quello era il segretario del mio partito e l'uomo politico più famoso in quel momento. Avevo cominciato a seguire tutti i partiti, De Mita e Spadolini mi conoscevano e a volte mi facevano chiamare, ma Craxi era sempre il segretario del mio partito. Daniela mi fa entrare nella stanza di Craxi e dice: “Lui è Umberto Cicconi, ti ha portato quelle foto che volevi”. Si gira, esce e chiude la porta. Resto in piedi a qualche passo dalla scrivania. Craxi stava scrivendo fitto fitto e non alza gli occhi dal foglio né dice una parola. Aspetto uno o due minuti in silenzio e intanto penso “Questo me sta sul cazzo”. Allora dico: “Che faccio? Le lascio qui queste foto?” e lui senza alzare lo sguardo dal foglio: “Siediti”. Mi siedo e aspetto. Dopo qualche
La foto del cambio della guardia del Psi. Al Midas Palace Hotel nel ‘76 Craxi e dietro di lui Pietro Nenni e Francesco De Martino.
minuto di silenzio, senza mai guardarmi in faccia, finisce di scrivere, chiama Daniela e le consegna i fogli per batterli a macchina. Allora penso che finalmente mi dirà qualcosa. Neanche per sogno, prende non so quale altro documento e si mette a sfogliarlo. Non reggo più e gli dico “Scusa, ma quanto devo aspetta' ancora? E poi perché non me guardi in faccia?”. Mi alzo, poggio le foto sulla scrivania e aggiungo “Le foto te le regalo”. Esco e me ne vado. Daniela era allibita ma non mi chiede niente, scendo le scale a piedi per sbollire la rabbia. Quando arrivo al portone il compagno della portineria mi ferma e mi dice: “Ma 'ndovai? Er segretario te vole vedè. Torna sopra”. Gli rispondo di getto “Vacce te dar segretario”. Ero incazzato nero, mi sentivo offeso, un po' come mi ero sentito all'Alleanza Contadini quando un dirigente mi trattava come il suo schiavetto personale. I compagni mi calmano un po' e mi rispediscono da Daniela. Entro nella stanza e questa volta Craxi mi guarda e mi parla: “Perché te ne sei andato?”. E io di rimando: “E tu perché non mi hai guardato in faccia?”. Adesso è lui a studiarmi in silenzio per qualche secondo. Poi dice: “Vai da Giorgio e fatti pagare le foto perché è un lavoro che hai fatto per me”. Ci salutiamo e quando esco chiedo a Daniela: “Ma chi è Giorgio?”. Era Giorgio Gangi, allora amministratore del Psi, il quale mi pagò quelle foto. Da allora Bettino non mi ha più mollato ed è stato per me un altro padre.
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Tantissimi compagni socialisti mi toccavano dicendo: “Tocco te, tocco il sole. Tu sei sempre vicino al sole”. Potevo rischiare di crederci, ma non l’ho mai fatto. Ho avuto sempre i piedi per terra. Il mio primo vero incontro di lavoro con Craxi è stato alla fine del 1980. Eravamo all’ambasciata francese e Bettino stava per incontrare Francoise Mitterand non ancora presidente della repubblica francese. Ero lì, come sempre per fotografare. Dopo l’incontro Bettino stava dirigendosi verso la sua auto blindata. Avevo finito di fotografare e mi stavo dirigendo verso la mia vespa quando sento chiamarmi: “Cecconi...!” Mi giro e vedo che mi fa il gesto di avvicinarmi. Lo avevo fotografato mille volte ma non ci avevo mai parlato. “Mi chiamo Cicconi e non Cecconi.” “Lunedì mattina fatti trovare a casa mia. Vogli che mi fotografi tutti i miei cimeli garibaldini”. Dico si sì. Era sabato e non sapevo neppure dove abitava Craxi. Mi dirigo alla sede del Psi a via del Corso e chiedo all’usciere di chiamarmi Daniela, l’assistente storica di Bettino che, alla mia domanda di sapere l’indirizzo della casa di Roma di Craxi, candidamente rispose: “Roma? Ma quale Roma, devi trovarti lunedì mattina alle dieci a via Foppa numero 5. A Milano”. Milano? Io ero sempre in bolletta ma sapevo di essere davanti a una grande occasione. Mi faccio prestare i soldi per il viaggio da Carlo Pileri, un grande amico di sempre, all’epoca sindacalista e segretario di Giorgio Benvenuto alla UIL e oggi segretario dell’ADOC associazione consumatori.
“Ti pago tutto io basta che mi ci porti”. Lo nominai mio assistente sul campo. Fotografai tutto per bene. Craxi era comparso solo una volta avvolto in un accappatoio. Stavo per andarmene quando la moglie Anna mi avverte che Nicolino, l’autista di Craxi mi aspetta sotto casa per portarmi a Piazza duomo 19, allo studio privato di Bettino. Nessuna anticamera, mi ritrovai seduto sul divano nel suo studio. Nelle due ore successive in cui craxi volle che io restassi presente ai suoi incontri della mattinata, vidi sfilare davanti a me tutto il gotha della politica e della finanza milanese e non solo. Era ormai ora di pranzo, buttai lì: “Posso fare due scatti prima di tornare a Roma?”. Non volevo rientrare a mani vuote. Bettino fu disponibile fino alla gag: per regalarmi la foto giusta si avvolse più volte una lunga sciarpa gialla attorno al collo. Non mi molla. Vuole portarmi anche a pranzo. Dal ristorante chiamo Franca De Bartolomeis la foto editor dell’espresso e gli annuncio il colpo. La risposta è : “le vogliamo. Le pagheremo bene”. Sarei subito corso a Roma. Non fu possibile. Mi trattenne a Milano. Era iniziata la mia avventura accanto a Craxi. LC: Ti ringrazio per avermi raccontato come sei diventato il “fotografo di Craxi” ma non hai risposto alla mia domanda. Hai ricevuto vantaggi?. UC: Adesso ci arrivo. Ma prima vorrei che capissi che essere il fotografo di Craxi ti dava sicuramen-
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60 te dei privilegi, ma rappresentava anche un gran-
de limite, alla tua vita privata ma anche a quella professionale. Qualunque cosa facessi poteva essere strumentalizzata contro Bettino, se mi mettevo nei guai mettevo nei guai Bettino. E non solo durante Tangentopoli, ma anche prima. E lui non faceva sconti a nessuno, tantomeno a me. Ad esempio nel 1984, Bettino era già Presidente del Consiglio e stava rilasciando una intervista a Lazzarini, un giornalista del settimanale “Gente”. Ad un certo punto Lazzarini gli fa vedere una copia del settimanale che Bettino si mette a sfogliare distrattamente. Nel frattempo io scattavo come sempre. Qualche giorno dopo appare l'intervista su “Gente” con una mia foto che riprende Bettino mentre sfoglia il settimanale. Quando la vede mi fa chiamare e mi fa un liscio e busso senza precedenti. Avevo sbagliato, non c'è dubbio, ma non per speculare, perché quel servizio fotografico lo diedi a “Gente” senza chiedere una lira. L'errore fu quello di non capire che certe foto potevo anche farle, ma non dovevano mai essere date ad altri che potevano usarle per propri fini, come in quel caso a fini pubblicitari. Insomma mi insegnò a pensare, a riflettere, a valutare che una foto in mani sbagliate poteva fare molto danno e che lui, fidandosi di me, mi stava delegando queste decisioni. Una bella responsabilità, ma credo di aver imparato la lezione. Da allora non ho mai venduto foto di Bettino che non fossero approvate da lui.
LC: Visto che ci sei allora spiegami quelle altre foto del leader socialista in ospedale con la maschera dell'ossigeno, la flebo al braccio. Ci fu una polemica incredibile su quelle foto pubblicate proprio da “Gente” e qualcuno ti accusò di speculare sulla malattia di Craxi. Anzi “Epoca” nel numero del 7 agosto sparava a doppia pagina un articolo dal titolo: ”Come hanno avuto questa foto? Retroscena di uno scoop”. E nel sottotitolo annunciava: “La fotografia è drammatica e senza dubbio storica. Ma chi l'ha fatta arrivare in Italia? E, soprattutto a che scopo? Tutto parte da un piccolo tradimento. Vittima: lo stesso Craxi. Autore: … leggete qui”. E guarda caso c'è la tua fotografia, molto più giovane di ora. E nel testo dell'articolo si racconta che a “rubare” la foto sei stato tu e che ci hai guadagnato 30 milioni. Ma nell'articolo si sostengono altre due cose estremamente gravi: che la foto fosse falsa, ovvero montata ad arte per impressionare gli italiani e che tu l'hai messa in giro per farci soldi anche se “il leader socialista era fortemente contrario alla pubblicazione della foto, diffusa contro la sua espressa volontà” . UC: Bettino si era da poco trasferito stabilmente ad Hammamet e in Italia la tensione era ancora alta. Credo che fosse fine maggio o inizio giugno del 1994. Io ero in giro per commissioni quando mi chiamarono per informarmi che Bettino aveva avuto un collasso cardiocircolatorio e lo stavano portando, con la Jeep bianca che usavamo di solito, all'Ospedale Militare di Tunisi. Lascio stare tutto e parto all'inseguimento della jeep sperando di
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62 beccarla per la strada. Quando arrivo in ospedale
Bettino è già dentro e i dottori gli stanno prestando le prime cure. Resto lì in attesa che ci facciano sapere come sta. Quando lo portano nella stanza che gli avevano riservata è intubato, ha la maschera dell'ossigeno sulla bocca, una flebo al polso sinistro, è in canottiera. Come mi aveva insegnato nei lunghi anni in giro per il mondo, non mi faccio prendere dall'emozione ma scatto con la Leica che ho sempre al collo. Per anni Bettino mi aveva ripetuto che voleva che tutto fosse documentato. Tutto, anche la sua morte. Dopo un paio di giorni di convalescenza il pericolo sembra scampato e comincia a riprendere il controllo di tutto quello che gli gira intorno. E' allora che mi chiede: “Hai scattato?”. Si, ho scattato, come sempre. “E adesso che ci vuoi fare?” mi dice. “Chiamo i giornali e gliela vendo”. Bettino annuisce e torna a riposare. Io capisco che vuole far conoscere agli italiani le sue reali condizioni, vuole che la gente sappia come lo stanno costringendo a vivere, e a morire. Appena fuori chiamo Gianni Briglia, il direttore di “Epoca” e gli annuncio che sarebbe andato da lui Pino Granada a portargli una foto di Bettino in ospedale. Poi faccio arrivare la foto a Pino, che gestisce una importante agenzia fotografica e che in alcuni casi mi ha aiutato a vendere le foto. Sinceramente non so bene perché Granada non si sia messo d'accordo con “Epoca” e le abbia poi vendute a “Gente”, anche perché a me arrivò esatta-
mente la cifra che gli avevo chiesto, 30 milioni e che Bettino conosceva. Come vedi anche “Epoca” ha costruito uno scoop sul niente, solo per controbattere al vero scoop che aveva fatto “Gente” pubblicando quelle foto. Ma voglio aggiungere due cose che mi premono molto: quelle foto erano vere, Bettino stava veramente male e su questo dovrebbero riflettere politici, giudici e giornalisti che ironizzarono sul suo stato di salute; e, ancora, che Bettino era assolutamente favorevole alla loro pubblicazione altrimenti io non sarei rimasto un giorno di più al suo fianco, ma mi avrebbe cacciato il giorno stesso. E se ce ne fosse ancora bisogno ci sono decine di persone che conoscendo Bettino sanno quanto per lui fosse importante farsi fotografare, documentare tutto. Ti racconto un altro episodio avvenuto proprio negli anni in cui era Presidente del Consiglio. Doveva essere dicembre del 1984, Bettino stava ricevendo una delegazione straniera a Palazzo Chigi. Io avevo comperato, giorni addietro, un bellissimo libro fotografico su John Fitzgerald Kennedy e ne lasciai una copia a Serenella, la sua segretaria, con una dedica che diceva più o meno così: “Un giorno un libro così su di te”. Accompagnando fuori i suoi ospiti Bettino vide il libro, lesse la dedica e porgendomi il libro mi disse: “Io non sono ancora morto, questo riprendilo tu” e si infilò nel suo ufficio. Mi offesi moltissimo, ma non ci fu niente da fare. Ma cambiò idea, molto tempo dopo, quando ormai sentiva avvicinarsi la fine. Eravamo ad Hammamet, era il 1998, e ritornai sul-
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64 l'argomento. Quella volta mi stette a sentire ma
non rispose. Come al solito ci pensò sopra e quando ormai ero io a non pensarci più mi diede il via. Erano passati otto o nove mesi, ma si era deciso. Così potei cominciare a lavorare al libro fotografico che da sempre volevo realizzare: “Craxi: una storia” ma che purtroppo Bettino non poté mai vedere perché nel frattempo era morto. Forse lo sapeva, lo sentiva, e mi diede il via solo quando fu certo che sarebbe stato pubblicato solo dopo la sua morte, come per quel libro su Kennedy che aveva rifiutato in dono. Quel libro è legato poi ad un altro ricordo a dir poco sorprendente. Durante l'impaginazione del libro, dopo la sua morte, stavo lavorando a casa, da solo, e avevo il tavolo pieno di foto cui cercavo di dare un ordine. Tra queste c'era anche quella della tomba di Bettino, che però non avrei voluto pubblicare e che, soprattutto, mi faceva male anche avere sotto gli occhi. Così l'avevo messa nel mucchio di quelle che non avrei pubblicato. Mentre lavoravo l'occhio andò al pavimento: quella foto era lì in terra, vicino ai miei piedi. Naturalmente la ripresi e la rimisi tra gli scarti. Dopo un po' andai in bagno. Ti ripeto, ero solo, e non sono matto. Al ritorno, ripresi a lavorare al libro. E quella foto non si trovava più tra gli scarti ma in fondo al gruppo di quelle da pubblicare. Pensa quello che vuoi, pensa pure che inconsciamente sono stato io a fare tutto questo. So solo che a quel punto la foto è rimasta lì dove si era andata a mettere e se sfogli il libro la troverai esattamente come
ultima a pag 208 con una didascalia che recita: “La mia libertà equivale alla mia vita”. LC: Non ti sei approfittato della tua vicinanza con Craxi, ma forse qualche vantaggio involontario lo hai ricevuto. Penso, ad esempio, a quei 25 ettari e al casale a Radicofani che avevi comperato e che, secondo quanto scrissero i giornali, fu restaurato con i fondi pubblici FIO. Proprio a Radicofani, il paese di Ghino di Tacco. Non potevi scegliere un posto che ti collegasse meno a Craxi? UC: Ma questo ti dimostra proprio che non c'era niente di male in quella storia del mio casale a Radicofani.. LC: O dimostra che l'arroganza del potere sfida anche l'ovvietà. Come quel bellissimo film con Gian Maria Volontè, “Un commissario al di sopra di ogni sospetto”, nel quale il commissario semina volutamente prove dei suoi reati per dimostrare il suo potere. UC: Va bene, potrebbe anche essere come dici, ma non nel mio caso e ti racconto allora anche questa. Che io sappia Bettino non era mai stato a Radicofani, mentre io frequentavo Sarteano, un comune limitrofo dove un mio amico aveva una casetta in campagna. A forza di andarci mi innamorai di quei luoghi e comperai per 90 milioni un piccolo rudere che pensavo di ristrutturare. Comincia ad andarci, ma scoprii molte cose che non mi piacevano e così lo misi in vendita trami-
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66 te una agenzia, chiedendo che me ne trovassero un
altro in una posizione migliore. Per un po' mi dimenticai di tutto, preso com'ero dal lavoro. Nel frattempo, Eugenio Scalfari aveva paragonato Bettino a Ghino di Tacco, il brigante di Radicofani. All'inizio si imbestialì per il paragone, ma come sempre gli succedeva ci ripensò e avute da Gennaro Acquaviva maggiori informazioni sul personaggio storico, molto più simile ad un Robin Hood che ad un brigante, lo assunse come suo pseudonimo. Fu così che Radicofani assurse alle cronache e anche per curiosità Bettino si fece portare a conoscere il paese. Il Sindaco, tra l'altro, era una compagna socialista molto brava, Anna Bonsignori e diventammo amici. Quando poi Bettino dovette indicare le località da inserire nei progetti del FIO per il recupero dei beni ambientali e storici volle inserire nell'elenco anche Radicofani, che in effetti aveva una struttura medievale che stava andando in rovina per mancanza di fondi. Nel frattempo l'agenzia aveva venduto il mio casale a Sarteano e me ne aveva trovato un altro che mi piacque molto, con un casale antico e circa 26 ettari di terreno. Quello incriminato appunto, ma che ancora non sapevo appartenere al comune di Radicofani. Quando andai dal notaio per stipulare l'atto di acquisto scoprii che il catasto era quello di Radicofani. Ovviamente conoscendo il Sindaco pensai che tutto sarebbe stato più semplice e mi affidai ai suoi buoni consigli. Mi feci indicare un buon geometra cui affidare il progetto di re-
stauro, la ditta per i lavori, aspettai più di quattro mesi per il nulla osta e pagai anche una sanatoria per non so che cosa. Quella casa la intestai ad una società che avevo costituito appositamente con mia madre “I lecci snc” per poter scaricare un po' di costi del restauro con i contributi della comunità montana che non fece una eccezione per me ma finanziava tutti restauri della zona. Era un vero disastro quando la comprai, erano circa trent'anni che nessuno ci faceva niente. Era di proprietà di un anziano signore di Trieste, una bravissima persona che si era da tempo trasferito e aveva quasi dimenticato quella proprietà. Vorrei spiegarti che Radicofani non era Capalbio, dove tanti censori di oggi e di ieri hanno casa, ma un paesetto fino ad allora dimenticato da Dio e dagli uomini. Comunque terreno e casale li pagai 120 milioni più altri 80 per la prima parte del restauro. Il progetto era bellissimo, molto caro ma veramente bello. Contavo di restaurare il casale con i materiali originari della zona, le tegole antiche, il cotto della zona, le travi di castagno e noce. Tra l'altro gli avevo dato anche un nome: La casa del pittore, perché avevo saputo che in una parte del casale ci aveva abitato un pittore del '300 e mi sembrava di onorare la sua memoria. Poi venne il 1992 e anche questo mio casale passò alla lente d'ingrandimento della magistratura. A dire il vero il caso fu sollevato da un deputato di Alleanza Nazionale che negli scorsi anni è diventato pure ministro con Berlusconi, ma che al
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68 tempo impegnava il suo tempo a fare girotondi in-
torno alla Camera dei Deputati con cartelli tipo “Arrendetevi! Siete circondati”. Era Altero Matteoli, che il 20 ottobre del 1994 buttò fango su di me ma solo per infangare Bettino. Comunque le indagini della magistratura non portarono a nulla di irregolare o corruttivo, ma tanto per far vedere che non avevano buttato i soldi dei contribuenti in una pratica inutile mi contestarono un reato di abusivismo per un muro di una vecchia rimessa che avevo dovuto abbattere prima che crollasse completamente. Anni dopo ho rivenduto tutto per 195 milioni, cinque in meno di quanto ci avevo speso, ad una signora romana sposata con un americano che credo ancora la usi. Eccoti accontentato anche su Radicofani. Ma c'è anche qui una morale. Come ti dicevo sapevamo bene tutti, noi che stavamo vicini a Bettino, che qualunque cosa avessimo fatto di male si sarebbe rivolta contro il nostro capo, e per quanto ne so nessuno dei suoi collaboratori più stretti ha mai infranto la regola. LC: Torniamo un attimo all'archivio. Non credo che tra le migliaia di carte che hai conservato e che stai per rendere disponibili a tutti ci sia nulla di rilevante penalmente, ma forse molte persone potrebbero provare imbarazzo a vedere il loro nome tra i questuanti, nani e ballerine come si diceva, dopo tutta la fatica che hanno fatto a far dimenticare il loro passato. Ci sarà tempo per vedere “l'effetto che fa” come can-
tava Enzo Jannacci. Adesso voglio chiederti come mai Craxi non ha mai voluto utilizzare quelle carte. UC: Perché era un politico di razza, un combattente leale che non usava l'arma del ricatto e odiava quelli che utilizzavano questi sistemi. Sarà stato arrogante, duro e spietato anche nella lotta per il potere, ma aveva un suo codice d'onore, rispettava gli avversari e non li demonizzava né li attaccava dal punto di vista personale. Voleva sapere tutto, questo si, anzi era come un bambino che godeva a conoscere anche i pettegolezzi, ma solo per capire meglio con chi aveva a che fare, ma non certo per utilizzare quegli argomenti nella battaglia politica. Credo che questo possano riconoscerglielo in tanti. E una tra i tanti è proprio Barbara Palombelli che nel libro che hai citato a questo proposito scrive: “Dal 1976 al 1992, tanti giornalisti si erano invaghiti dell'uomo forte socialista. Moltissimi di quelli che l'avrebbero poi massacrato avevano scodinzolato dalle parti di Via del Corso. Per divertimento Bettino Craxi conservava lettere e dediche di questi personaggi e le mostrava, in certe occasioni, ma non le ha mai rese pubbliche, neanche quando la rabbia avrebbe potuto prevalere”. Era proprio così, Bettino si divertiva alle loro spalle, li riteneva dei voltagabbana che non erano degni di nota, ma era anche profondamente amareggiato da questo che riteneva un vizio nazionale. LC: Debbo darti atto che tu non sei di questa pasta.
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Il giuramento nelle mani del Presidente Pertini del primo Governo di Bettino Craxi il 4 agosto del 1983.
Ti ho conosciuto che eri appena entrato nello staff di Craxi, ti ho visto a Palazzo Chigi e poi nella lunga caduta. Dall'altare alla polvere sei rimasto sempre uguale, guascone e divertente, furbetto ma leale. Forse solo ai tempi di Craxi Presidente del Consiglio avevi messo su un po' di presunzione. UC: Vivevo come in un frullatore, tutto correva intorno a me e io non facevo a tempo ad adeguarmi alla nuova situazione che già tutto cambiava e si rimetteva in moto. Avevo da poco cominciato a seguire esclusivamente Bettino come capo del Psi, non solo in Italia ma anche all'estero, che ecco la nomina a Primo Ministro e l'ingresso a Palazzo Chigi. Quella mattina arrivai tardi, anche perchÊ come al solito facevano storie per farmi entrare. Ancora non mi conoscevano e qualcuno pensava al solito paparazzo. Di quel giorno conservo due foto che ritengo molto significative. La prima è di
Bettino Craxi all'ospedale di Tunisi.
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72 Bettino dietro la sua scrivania di Presidente del
Consiglio con Giuliano Amato e Gennaro Acquaviva di fronte che parlano e sorridono. Bettino si era appena seduto su quello scranno e i suoi più stretti collaboratori stavano scherzando con lui. C'era orgoglio, eccitazione ma anche timore. Quegli uomini avevano risollevato in pochi anni un partito che sembrava morto e lo avevano portato a dirigere il Paese. Adesso spettava a loro attuare tutte quelle promesse di modernizzazione che gli avevano valso la rinascita e nelle quali gli italiani riponevano le loro speranze. La seconda foto invece è merito della pazienza di Bettino. Con tutta l'attenzione che potevo metterci non riuscivo sempre a seguire le sue mosse o addirittura a prevenirle. In quel primo giorno ero eccitato anch'io e stavo perlustrando il palazzo per potermi muovere agevolmente quando ce ne fosse stato bisogno. Fu così che non mi resi conto che Bettino si stava allontanando dal suo ufficio per infilarsi nell'auto blindata che lo aspettava nel cortile interno. Quando me ne resi conto mi buttai di corsa per le scale ma giunto nel cortile Bettino era già nell'auto. Mi vide e lesse la mia disillusione; avevo sperato di poterlo fotografare mentre scendeva quello scalone per la prima volta da Presidente. E da grande qual era, si fermò, mi chiamò e tornò sulle scale. Scattai rapido mentre scendeva. Quando mi passò vicino, a mezza bocca mi soffiò nell'orecchio: “La prossima volta non torno indietro”. LC: Ci teneva molto anche lui a quelle foto. Sapeva
il valore storico che certe foto possono rappresentare per le future generazioni e per gli studiosi. UC: Ma non era per vanità personale. Se fosse stato per vanità non mi avrebbe certo chiesto di fotografarlo con la gamba malata e non mi avrebbe certo fatto giurare che lo avrei fotografato anche nella tomba. Bettino sapeva di non essere un uomo qualsiasi, sentiva che tutto quello che stava facendo, la gente che incontrava, erano parte della storia del Paese e andava documentato. Anche dal quel punto di vista fu un innovatore. A quei tempi nessun leader aveva un suo fotografo personale. La “categoria” nacque con lui e c'è una foto dei primi cinque o sei fotografi di leader e capi di Stato che risale proprio a quegli anni. Per farti un esempio quando arrivammo a Palazzo Chigi nessuno sapeva come mi avrebbero dovuto inquadrare: ufficio stampa, segreteria particolare o che altro. Non volevo entrare in nessuna di quelle strutture, non per presunzione, come dici tu, ma solo perché avrei dovuto rispettare gerarchie, orari e procedure burocratiche che mi avrebbero impedito di fare bene il mio mestiere. Fu così che dissi subito a Bettino che avrei accettato solo un incarico come fotografo personale. E se la qualifica non c'era o si inventava o potevo rimanere free lance. Ci vollero più di tre mesi per dirimere la questione, ma alla fine Bettino chiamò Giuliano Amato e gli spiegò la situazione: “Visto che Umberto
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74 si è autonominato mio fotografo personale come
facciamo a pagarlo e inserirlo nella struttura?”. Giuliano Amato, da profondo conoscitore del sistema, trovò subito la soluzione: “Tu come Presidente hai a disposizione un plafond con cui puoi pagare chi ti pare”. E così fu. Su questa vicenda il missino Teodoro Buontempo fece pure una interrogazione parlamentare.
1. Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo - Caso Craxi contro Italia (n°1) sentenza del 17 luglio 2003, Ricorso n° 25337/94 vedi www.dirittiuomo.it 2. Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi - Mondadori, Rai-Eri pag 363 3. Gente - 28 luglio 1994 - pag 6 4. Epoca - 7 agosto 1994 pag 44
vizi privati e pubbliche virtù
LC: Una delle accuse maggiori che rivolsero a Craxi fu quella di essere nepotista. Tu e Paolo Pillitteri eravate imparentati con la famiglia Craxi. Pillitteri era suo cognato, mentre tu sei fratello di Scilla, che ha sposato Bobo. Non a caso i primi avvisi di garanzia nel luglio del 1992 arrivarono proprio a voi due, e a Pillitteri non fu permesso neanche di recarsi ai funerali di Craxi a Tunisi. Leggendo un interessante libro uscito quest'anno, “La Casta” di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella direi che il nepotismo è diventato addirittura sistema nella seconda Repubblica. Ma allora queste parentele fecero scandalo. Mi raccontasti anche che qualcuno aveva pensato che avessi organizzato tutto tu per legarti al “capo”. Come è andata veramente la storia?
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76 UC: Avevo seguito Bettino come fotografo per-
sonale a Palazzo Chigi, ma finita quell'esperienza mi dividevo tra il mio ufficio dove sviluppavo e catalogavo le foto e la direzione e non sempre riuscivo a stare dietro alle mille cose che faceva Bettino. Un giorno mi decido e propongo a Craxi di curare l'archivio fotografico del Psi. All'inizio cerca di evitare l'argomento, tenta di dirmi che l'archivio c'è già a L'Avanti, il quotidiano di partito, ma in fondo non ci credeva neanche lui anche perché l'archivio del giornale era vecchio e male organizzato. Come spesso gli capitava, Bettino sulle cose ci pensava qualche giorno. Così, quando ormai mi ero dimenticato di quella proposta, lui ci torna sopra e mi da il via. Per convincerlo avevo citato una frase di Robert Capa, il fotografo fondatore dell'agenzia Magnum, che mi era rimasta molto impressa: “Noi giriamo e scattiamo, ma se non conserviamo, non siamo nulla. I negativi sono patrimonio dell'umanità”. La lessi nel 1976, all'inizio della mia passione per la fotografia e mi tornò in mente in quell'occasione. Anche prima di avere l'autorizzazione da Bettino avevo cominciato a comperare pezzetti di archivi di altri fotografi e stavo cominciando a sognare di poter creare il più grande archivio fotografico della storia degli italiani. Con il consenso di Bettino quel sogno faceva un altro passo avanti e per prima cosa chiesi di avere a disposizione una stanza a via del Corso per potervi concentrare, al sicuro, tutti i negati-
vi che stavo raccogliendo. Anche se il capo aveva dato il suo benestare dentro alla direzione nessuno mi voleva aiutare, anzi mi accampavano sempre scuse patetiche: non abbiamo stanze, dopo vediamo e altre cose del genere. Un giorno come un altro, dopo l'ennesima risposta elusiva, decido di fare a modo mio. Avevo visto che al primo piano di via del Corso c'erano un paio di stanze dove avevano accatastato mobili rotti e altre cose che non sarebbero mai più state utilizzate. Con un calcio secco sfondai la porta, cambiai la serratura e annunciai con enfasi: “Da oggi questo è l'archivio fotografico del Psi”. Bettino era a Bolzano per un comizio, lo avvisai prima che altri lo facessero in maniera malevola e tutto andò liscio. Lavorai per giorni a pulire e sistemare tutto e chiamai Scilla ad aiutarmi. Con Bobo ci conoscevamo da tempo ed eravamo diventati amici, ma ci vedevamo poco perché lui stava a Milano ed io in giro con suo padre. Nel 1988 invece, con lo scioglimento della Fgsi e la creazione del Movimento Giovanile Socialista, Bobo comincia a frequentare spesso il segretario del Movimento, Michele Svidercoschi che aveva l'ufficio di fianco al mio. Io stavo sempre in giro con Bettino, ma mia sorella non si muoveva di li e spesso beccavo Bobo nella mia stanza che parlava con Scilla. All'inizio non avevo dato importanza alla cosa:
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78 Scilla è una bella ragazza e Bobo non era l'unico
che le faceva il filo. Un giorno però una compagna della segreteria, con un po' di malizia mi dice: “Che bella operazione hai fatto, sei riuscito a far fidanzare tua sorella con Bobo”. Mi sono sentito come un imbecille che non aveva capito niente e passavo pure per uno interessato. Mi precipitai subito in ufficio da Scilla e non certo con calma le comunicai che dal giorno dopo non sarebbe più dovuta venire in ufficio e avrebbe dovuta smetterla con Bobo. Ero avvelenato.
LC: In quei giorni ci vedemmo e mi raccontasti qualcosa, ma mi sembra anche di ricordare che a un certo punto intervenne direttamente Bettino. UC: Prima non direttamente. Scilla ovviamente fa il diavolo a quattro e continua a lavorare, ma evidentemente avvisa Bobo della mia ira e anche se cerco di beccarli insieme evitano per un po' di darmi un qualche pretesto. Contemporaneamente Bettino mi vuole sempre con sé e non mi lascia un attimo libero. All'inizio mi sembra solo un periodo più intenso di lavoro, poi capisco che lo sta facendo apposta per togliermi di mezzo. E infatti dopo qualche giorno Bettino mi chiama e secco mi dice: “Perché ti metti in mezzo tra Bobo e Scilla?”. Ne parliamo e scopro che Bettino non solo sapeva tutto prima di me, ma aveva
fatto l'esame a Scilla, a modo suo, e che la ragazza gli piaceva. Si sposeranno nel 1991, poco prima della bufera. In molti comunque hanno continuato a pensare che tutto sia stato opera mia e qualcuno addirittura ha parlato di nepotismo, come nel caso di Paolo Pillitteri. Evidentemente la pensavano cosi anche i magistrati. LC: Ho un altro ricordo molto chiaro dei nostri incontri. Eravamo in una trattoria di Via Savoia a Roma, vicino ai miei uffici di allora. Era appena stato arrestato Mario Chiesa e ci vedemmo a pranzo per chiacchierare un po' di quello che stava capitando. Ero curioso di sapere come stavi vivendo tutta quella faccenda che a me sembrava già molto grave. Ebbi l'impressione che tu fossi sufficientemente tranquillo. Fingevi anche con me o veramente non avevate colto la gravità di quello che stava per accadere? UC: Potrei dirti che avemmo subito sentore del dramma incombente, ma direi una bugia. L'arresto di Mario Chiesa ci sembrò quasi un incidente di percorso con aspetti anche locali, legati alla lotta per il potere a Milano. Devi sapere che a Milano il Psi era fortissimo e Mario Chiesa con il Pio Istituto Trivulzio gestiva un potere enorme, sia elettorale sia economico. Ovviamente era ambizioso e voleva diventare deputato, ma aveva suscitato anche molte invidie in altri esponenti del partito. Credo che fos-
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80 se il 1990 e Bettino conosceva solo di nome Ma-
rio Chiesa anche perché a Milano facevano di tutto per non farli incontrare. Fui proprio io ad essere avvicinato da Mario Chiesa che mi spiegò la situazione e mi pregò di far arrivare a Bettino la sua richiesta di poterlo conoscere di persona. Naturalmente riferii il messaggio a Bettino che dopo qualche tempo andò in visita al Trivulzio. Pensa che qualcuno si chiedeva chi mi avesse pagato per farli incontrare. Insomma la situazione a Milano era piena di veleni e invidie e quando il 17 febbraio 1992 arrestarono Mario Chiesa pensammo persino che ci fosse lo zampino di qualche suo avversario politico. Quel giorno eravamo a Como per un comizio elettorale. Con noi c'era anche Paolo Pillitteri. Fu in quell'occasione che, pensando di non essere ascoltato Craxi si fece sfuggire la famosa frase del “mariuolo” che fu invece captata e rilanciata da un giornalista della sede locale dell'agenzia Ansa. Risalimmo in macchina per tornare a Milano mentre tutte le agenzie rilanciavano in tutto il mondo quella parolina. Per tutto quel breve tragitto sia io sia Pilletteri cercammo di convincere Bettino a smentire la notizia e a far arrivare a Mario Chiesa la sua solidarietà. Non ci fu niente da fare. Adesso, dopo tanti anni, posso dire che quello fu uno sbaglio madornale, una impuntatura inspiegabile da parte di un uomo così intelligente come Bettino. Anche se penso che abbiano influito da una parte la sua estrema sicurezza e dall'altra il diabete che aveva cominciato a minare
il suo corpo e gli stava cambiando visibilmente l'umore. LC: I fatti di quei due anni, gli anni di Tangentopoli, dall'arresto di Mario Chiesa alla partenza di Craxi, sono ormai storia anche se molto deve essere ancora scritto. Ma la storia non è solo fatta di date e avvenimenti. Ci sono le emozioni, i dolori e le sofferenze dei singoli che ci aiutano a ricostruire esattamente il clima di quei giorni. E' questo che cerco di fare con te in questo libro. Cosa provava Craxi, la sua famiglia, tu e gli altri amici che gli erano rimasti fedeli? UC: Non furono anni felici, anche se ovviamente ci furono anche momenti di gioia, come la nascita della nipotina, e di serenità. E se non furono ancora più dolorosi lo dobbiamo solo alla speranza, alla scarsa consapevolezza che tutto sarebbe finito in quella maniera. Ho spesso pensato a quegli anni come ad una lenta agonia di un malato terminale che però non sa né quanto durerà né che la fine è inevitabile. La speranza e l'attaccamento alla vita ci aiutano in quei momenti a non vedere la fine, a non considerare impossibile un rimedio, una cura, un miglioramento. Se Bettino avesse avuto subito la netta percezione di quello che sarebbe successo, se si fosse convinto che ogni cura sarebbe stata inutile, credo che avrebbe agito diversamente. Era un uomo troppo sicuro di se, troppo orgoglioso per accettare una fine lenta e dolorosa.
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La speranza di poter un giorno tornare nel suo Paese lo ha accompagnato fino all'ultimo giorno. E anche in quei due anni prima del suo esilio volontario la speranza non lo aveva abbandonato, anzi lottò come un leone per difendersi e difendere il suo partito e le proprie idee. LC: Con molte divagazioni siamo arrivati al 1993, Tangentopoli è nel pieno delle indagini, Berlusconi sta “scendendo in campo”, la Procura di Milano ha la fila di imprenditori e politici che si presentano spontaneamente a confessare o a patteggiare, Occhetto sta montando la sua “macchina da guerra”, lo Stato e la politica sembrano aver abdicato a svolgere la loro funzione e gli animi sono sempre piu esacerbati. L'antipolitica sembra aver vinto. Ma nel frattempo la gente cerca di stare bene, i giovani si sposano, qualcuno muore, i bambini nascono, insomma la vita di ognuno di noi continua. E anche per te e Craxi la vita riserva un lieto evento, la nascita di una splendida bambina figlia di Bobo e Scilla. UC: Quando Bettino seppe che Scilla aspettava un bambino era fuori di se dalla felicità. Diventava nonno e, anche se perennemente occupato e preoccupato da quello che avveniva intorno a noi, la notizia gli ridiede momenti di serenità. Una nuova vita che cresce ti dà sempre una carica, una voglia di vivere, anche nei momenti più scuri e difficili. Lui poi ci teneva in modo parti-
colare, era il classico capo famiglia che distribuisce i posti a tavola e che vuole tutti intorno a sé. Una figura importante, ingombrante a volte, che crea anche gelosie e rivalità. E, purtroppo, anche in quell'occasione non mancarono i dissapori e i dispiaceri. Stefania, la figlia di Bettino, ha sempre sofferto di un sentimento di gelosia nei confronti di Bobo. Fin da piccola non aveva accettato che un fratellino le portasse via una parte dell'affetto del padre. Per attrarre l'attenzione su di sé, da bambina si nascondeva per ore e tutta la famiglia entrava in agitazione per cercarla. Per i primi sei anni il piccolo Bobo dovette vivere con la nonna a Chiavari per impedire a Stefania di fargli del male. Quando erano un pochino più grandi le cose andarono meglio, ma questa invidia non si è mai sopita e dopo la morte di Bettino è riesplosa in maniera virulenta. Bettino rappresentava un argine a queste intemperanze, riusciva a controllarne gli effetti. Come vedi ti sto dando ragione. In ogni scelta politica o pubblica c'è sempre una influenza personale, se non fosse così saremmo macchine, computer. Se invece consideriamo anche l'aspetto personale allora riusciamo a spiegarci ad esempio perché Stefania sta con il centrodestra e Bobo con il centrosinistra, perché nella Fondazione Craxi Stefania non ha voluto il fratello e anche perché Bobo è così paziente con la sorella e cerca di evitare qualsiasi motivo di attrito.
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Purtroppo la notizia che Scilla aspettava un bambino rese felici tutti ma non certo Stefania. Ancor meno quando seppe che Bettino aveva consigliato Scilla di far nascere il bambino fuori Milano, nella loro casa al mare a Capferrat. Erano appena le otto del mattino e Stefania si presentò in casa di Scilla e Bobo in Via Foppa, a Milano, urlando frasi del tipo: “Ci devo venire anch'io a Capferrat, sono io che me lo merito, non tu che sei una mantenuta” rivolta a Scilla che le aveva aperto e aveva un pancione di otto mesi. Le grida di Stefania nel frattempo avevano fatto accorrere Bobo che mise alla porta la sorella che, non soddisfatta, cominciò a prendere a calci la porta di casa. In ogni caso poi il bambino nacque a Milano e non a Capferrat perché forse per la tensione o lo stress a Scilla si ruppero le acque e par-
Bettino Craxi ad Hammamet con Scintilla Cicconi e i suoi due bambini, Benedetto e Vittoria.
torì tre giorni dopo il fatto. Era l'ottobre 1993 e Vittoria Craxi nacque bella e paffuta. LC: Forse la tensione di quei giorni aveva acuito in Stefania la gelosia, che del resto è un sentimento molto comune e vorrei dire umano, dal quale nessuno è immune. UC: Certo, siamo tutti gelosi, ricchi e poveri, potenti e deboli, ma non per questo ci lasciamo andare ai nostri istinti. Anche Bettino era geloso e me lo dimostrò in varie occasioni. Una volta ad esempio, ero andato ad Ansedonia a casa di Giuliano Amato per fargli delle foto. Mentre ero li chiamò Bettino e Giuliano gli disse che c'ero anch'io. Alla fine della giornata, mi richiamò e mi fece una vera scenata di gelosia. Ma debbo confessare che mi fece piacere. Per tutti coloro che furono vicini a Bettino, quei giorni, quei mesi e anni furono una grande prova. Ma proprio in momenti come quelli si è visto chi veramente gli voleva bene e chi lo voleva solo utilizzare. Lasciami dire poi che si può giustificare un momento di gelosia, anche violenta, ma quando questa si ripete allora bisogna reagire, come ha fatto mia sorella ad Hammamet. Era la primavera del 1994, Vittoria aveva sei mesi, e Bettino per stare insieme alla piccola nipotina aveva chiesto a Bobo e Scilla di raggiungerlo ad Hammamet, e si erano sistemati nella casa sotto a quella dove viveva Bettino. Stefania
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86 si presentò chiedendo spiegazioni a Scilla su “co-
sa ci state a fare in questa casa che è mia?” e buttando tutto all'aria. Mentre continuava ad urlare “ve ne dovete andare” si avvicinò alla carrozzina di Vittoria cercando di spingerla lontano. A quel punto mia sorella non ci ha visto più e ha presso a schiaffi Stefania difendendo come una leonessa la sua bambina. Bettino, informato dell'episodio ne restò molto turbato e si scusò con Scilla anche a nome della figlia, che nel frattempo si era chiusa nella sua camera e aveva messo l'armadio davanti alla porta per non far entrare nessuno. Pensa che le dovettero lasciare il cuscus fuori per permetterle di mangiare. Con tutto quello che aveva per la testa Bettino in quei giorni sua figlia non lo aiutò certo ad essere più sereno.
LC: Vorrei tornare un attimo all'archivio. Dopo che Craxi ti disse di metterlo al sicuro tu svuotasti tutto quello che c'era nella suite all'hotel Raphael. Ma era tutto o c'erano altre carte, magari al partito o in altri uffici? Immagino che tu sappia perché ti faccio questa domanda. Il figlio di Craxi, Bobo è stato querelato da Saverio Borrelli , il capo del pool di Mani Pulite, perché aveva parlato di una telefonata dello stesso Borrelli alla segretaria di Craxi per ringraziarlo dell'interessamento per la sua nomina a capo della Procura di Milano. Dato che ho visto con i miei occhi con quanta precisione la segreteria del leader socialista appuntava tutte le telefonate ricevute e le sot-
toponeva a Craxi, se questa telefonata ci fosse stata veramente se ne sarebbe trovata traccia. UC: No, purtroppo non era tutto. Mancavano diverse carte che recuperai con il tempo, ma non tutte. Personalmente non potevo sapere cosa mancasse, ma proprio quando scoppiò il caso Borrelli, Bettino si ricordò di quella telefonata e si ricordò anche che nel '95 aveva già chiesto informazioni a Serenella Carloni, la sua segretaria, che gli aveva confermato l'episodio e anche l'esistenza del block notes. Quando venne a sapere della querela Bettino mi chiamò e mi pregò di cercare quel block notes. Nell'archivio nascosto in Francia non lo trovai e allora andai nell'ufficio di Roma dove ancora potevano esserci delle carte. Doveva essere il 1997 o i primi del '98 e Bettino manteneva ancora un ufficio in Via Boezio a Roma dove per quattro o cinque ore al giorno lavorava Serenella, in realtà senza molto da fare visto l'isolamento assordante che circondava Bettino. A questo proposito è impressionante sfogliare quei block notes. I primi, quelli del periodo del successo, riportano decine di chiamate ogni giorno, poi dalla metà del '92 cominciano a diminuire, fino a fogli che riportano solo la data e sotto nessuna chiamata. Se potessi fare una sequenza filmata di quelle pagine non ci sarebbe bisogno di alcun commento, basterebbero i nomi e le richieste di un tempo e le pagine bianche a quadrettini finali per de-
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88 scrivere non solo il declino di un grande uomo
ma anche la meschinitĂ di tanti italiani. Comunque, tornando a quella telefonata, andai in Via Boezio e chiesi a Serenella di darmi gli ultimi block notes perchĂŠ Bettino ne aveva bisogno. E le chiesi anche di quella telefonata di Borrelli. Con mia grande sorpresa, e di Bettino quando lo seppe, Serenella mi disse che non si ricordava di nessuna telefonata di Borrelli e che soprattutto non aveva nessun block notes di Bettino. Sapevo che stava mentendo e potevo anche capire il perchĂŠ, ma certo fu una grande delusione. Da lei non me lo sarei aspettato. Ne avevo visti di voltagabbana, traditori e opportunisti, ma Serenella era sempre stata molto legata a Bettino e potevamo sempre contarci. Cercai di farla ragionare, feci leva sul suo affetto per Bettino, ma non ci fu nulla da fare. Cercai anche quelle carte nell'ufficio di via Boezio, pensando che forse Serenella le aveva messe in qualche cassetto e non si ricordava della loro esistenza, anche se il sospetto del tradimento cominciava a prendere forma. Non trovai nulla e informai Bettino. Ne rimase molto dispiaciuto e con il dolore nel cuore mi disse di lasciare stare e di tornare ad Hammamet. Rimuginai per tutto il giorno quella storia, vagai per la cittĂ come una furia, combattuto tra l'ordine ricevuto da Bettino e la rabbia per quello che era successo. Come sempre prevalse il mio istinto animale e verso la mezzanotte mi presentai a casa di Serenella, vicino a Porta Portese, a Roma, a pochi
passi dal deposito degli autobus di Viale Trastevere. Suonai a lungo al portone, ma nessuno mi aprì. Era evidente che Serenella era dentro e non voleva parlarmi e darmi spiegazioni. Continuai a suonare poi riuscii ad aprire il portone. Il primo ostacolo era superato, rimaneva solo la porta dell'appartamento al primo piano. Altri minuti attaccato al campanello, nessuna risposta, ma dai rumori attutiti che venivano dall'interno ebbi conferma che Serenella era in casa. Comincia ad accanirmi sulla porta a calci e spinte e alla fine riuscii ad aprirla, o forse Serenella tolse i paletti e mi fece entrare. Non so dirti esattamente come andarono le cose perché non ci vedevo più dal dolore. Per me quel non volermi aprire rappresentava una ammissione di colpa. Quando fummo uno di fronte all'altra gridai come un ossesso di darmi quei block notes, Serenella continuava a negare sempre più debolmente fino a quando non ce la fece a resistere e mi consegnò i block notes, quattro per la precisione. Da allora non ci siamo più visti e forse fino ad oggi nessuno ha mai saputo del suo tradimento, tranne, ovviamente, Bettino che ne soffrì molto. Immagino che anche Serenella non sia stata bene per quello che ha fatto all'uomo che l'ha sempre considerata come una collaboratrice fidata, e penso che se è arrivata a fare quello che ha fatto debba aver ricevuto grandi pressioni. Serenella non sarebbe stata capace di una tale bassezza e soprattutto non avrebbe avuto nessun interesse a far spa-
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90 rire proprio quelle carte. Serenella è morta qual-
che anno dopo, credo con quel rimorso. Anche qui, come vedi e come dice giustamente Pier Paolo Pasolini, racconto i fatti, faccio delle ipotesi ma non ho prove. Ho solo quei quattro blocchi ritrovati ai quali mancano delle pagine. Perché proprio di questo ci rendemmo conto quando Bettino esaminò le carte. Alcuni fogli erano stati strappati e si vedeva benissimo: erano rimasti dei lembi di carta e, soprattutto, veniva interrotta la cronologia delle telefonate. Comunque in quei block notes della telefonata di Borrelli non c'è traccia. Chi ha strappato quei fogli forse ci potrebbe raccontare la verità, ma sicuramente non lo farà mai. LC: Adesso ti faccio tre nomi: Cappellari, Caporaso e Sartawi. Tre episodi della tua vita molto im-
Il block notes con le pagine mancanti
portanti e dolorosi, tre occasioni in cui hai rischiato la vita e hai sentito fischiare le pallottole a pochi centimetri da te. In due occasioni hai anche visto la morte con i tuoi occhi. A Roma si dice che “ti protegge Santa Pupa” perché con il carattere che ti ritrovi oggi non saresti qui a raccontarmi quegli episodi se qualcuno non ti avesse protetto. Cappellari era un boss della malavita assassinato sulla strada che collega Ostia a Fiumicino, nei pressi di Isola Sacra, nel1974. Giovanni Caporaso un fotografo free lance come te al quale spararono, mancandolo a Viale Trastevere nel 1979. Sartawi il capo palestinese crivellato di colpi in un hotel in Portogallo durante l'internazionale socialista nel 1983. Tre episodi cruenti dei quali sei stato testimone diretto uscendone illeso. Racconta. UC: Evidentemente fare il fotografo non è come fare l'impiegato statale o l'idraulico, con tutto il rispetto per queste professioni. Se devi documentare i fatti ci devi stare dentro, il più vicino possibile a dove si svolgono. Questo avvenne per Caporaso e Sartawi. Per Cappellari invece ero molto piccolo e fu solo una conseguenza dell'ambiente in cui ho vissuto la mia giovinezza e della mia parentela con “Bolero”, mio zio Ernesto. Ma andiamo con ordine. Erano i tempi della guerra, la fame era tanta e il primo pensiero che tutti avevano quando si svegliavano la mattina era quello di trovare qualcosa da mangiare. Mio zio Ernesto cominciò così, rubando i cavalli all'esercito tedesco.
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Li portava poi a Pietralata dove venivano macellati alla buona e ci mangiava tutto il quartiere. Mio nonno era più il tempo che stava in galera che fuori. Era un anarchico e i fascisti lo arrestavano a ogni occasione pubblica del Duce. A ogni visita ufficiale, ad ogni ricorrenza ufficiale del regime, i fascisti arrivavano a casa e se lo portavano via, qualche giorno prima e lo rilasciavano qualche giorno dopo. E la famiglia non aveva di che sfamarsi. Così mio zio cominciò a darsi da fare, ma ti giuro che non si arricchì mai. Se rubava c'era sempre qualcosa per amici, parenti e conoscenti. E per questo, anche se tutti sapevano come arrivava quella manna dal cielo nessuno, ma proprio nessuno, disse nulla o fece nulla contro mio zio. Tutti gli volevano bene, lo rispettavano. Credo che abbia fatto da padrino al battesimo di migliaia di bambini prima di Pietralata e poi di Ostia. Lui apparteneva a quella malavita romana popolana e popolare del dopoguerra, del furto con scasso, con destrezza, mai con quella violenza che purtroppo dopo qualche anno prese il sopravvento anche a Roma. Cresciuto con la fame imparò a rubare per la fame. Quello per lui era un lavoro, l'unico che sapesse fare bene. Dai cavalli dei tedeschi passò a piccoli furti nei negozi e fu in uno di questi che lo presero per la prima volta e lo condannarono a qualche mese di carcere. Ma quell'episodio gli cambiò la vita. Con dei suoi amici stavano svaligiando una pellicceria a
Piazza del Popolo, al primo piano, quando furono sorpresi da due guardie. Per salvare i suoi amici si fece inseguire fino al secondo piano, mentre gli altri fuggivano per la strada. Vistosi in trappola tentò l'ultima disperata fuga gettandosi dalla finestra ma si ferì ad una gamba e fu arrestato e condannato. In carcere conobbe altri ladri di quel tempo ed in particolare un esperto di casseforti che lo prese a ben volere e gli insegnò “i trucchi del mestiere”. Quando mio zio uscì di galera cominciò ad applicare quegli insegnamenti e divenne un esperto, un maestro nel campo, che tutti cercavano. La tecnica era proprio quella che ci raccontano i film dell'epoca: lo studio attento del piano, ore e ore di osservazione e appostamento, il tragitto nelle fogne, il “buco” da una parete vicina, e poi entrava in campo mio zio ad aprire la cassaforte o la porta blindata o qualunque cosa avesse una serratura. Poi via con la refurtiva, senza mai fare del male a nessuno. A volte ho avuto l'impressione che facesse quel “mestiere” più per il gusto di riuscire in una impresa, di farla franca, che non per il bottino. Non che gli mancassero i soldi, ma quando li aveva li spendeva abbondantemente per tutti. E cercò anche di cambiare vita, aprì un negozio di mobili a Montesacro, che andava anche bene, ma purtroppo vicende famigliari molto tristi e dolorose lo costrinsero a tornare sui suoi passi. A quei tempi la malavita non era organizzata,
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94 non era violenta, e non c'era bisogno di bande.
Si conoscevano tutti e quando qualcuno aveva bisogno di mio zio lo chiamavano e lavoravano insieme al piano. Poi ognuno per la sua strada. Ma ovviamente non poteva durare e infatti ben presto molti dei suoi figliocci che aveva battezzato divennero adulti: furono alcuni di loro, che io conoscevo bene perché stavano sempre da mio zio, che successivamente furono accusati di essere tra i protagonisti di quella che fu chiamata la “Banda della Magliana”. Fu allora che mio zio capì che il suo tempo era passato e si ritirò. Morì solo, dopo aver fatto del bene a tanta gente, nel 1988. Ero ancora un ragazzo, ma quelli della Banda della Magliana me li ricordo tutti, sia i giovani sia quelli più anziani, la vecchia guardia come mio zio. A un certo punto, tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 a Roma le cose cambiarono radicalmente. La malavita popolana, non violenta, legata al territorio, venne soppiantata dalla malavita organizzata che voleva controllare i grandi traffici, i grandi affari. E i giovani cresciuti all'ombra di mio zio si allearono con altri venuti da fuori Roma, e cercarono di assumere il controllo del territorio. Nacquero bande locali che si contendevano i vari quartieri e che presto entrarono in guerra tra di loro. Si ammazzavano l'un l'altro e cercarono anche di far fuori i vecchi maestri che non volevano accettare le nuove regole.
Tentarono di far fuori anche mio zio nel 1968: era appena uscito dal carcere per lo scandalo delle bische clandestine. Però, non avendo il coraggio di farlo direttamente, chiamarono altri sicari venuti dal sud. Per fortuna, o forse per la stima che mio zio aveva nel quartiere, l'attentato fallì. Altri, grandi amici di mio zio, come Umbertino Cappellari non ebbero la stessa fortuna. Era un venerdì, faceva caldo, e stavo prendendo un gelato a Piazza Anco Marzio a Ostia con Luisa, una ragazzina bellissima della mia età. Cappellari mi si avvicina alla guida di una BMW ultimo modello, bianca con delle strisce tricolori sui fianchi. Lo conoscevo bene perché stava spesso con mio zio Ernesto. Di fronte al mio stupore per quel bolide nuovo di zecca mi chiede se voglio farci un giro. Non me lo faccio dire due volte e con la ragazzina facciamo per montare in macchina. Lui ci ferma e mi dice che devo salire solo io, ma che se mi dispiace lasciare sola la ragazza sarà per un'altra volta. Parlo con la mia amica che non è proprio felice ma mi lascia andare con Cappellari. Appena dentro alla BMW vengo investito da un profumo di nuovo, mi sembrava di stare nella carlinga di un aeroplano. Facciamo un giro per Ostia, mi chiede dei miei progetti, parliamo del più e del meno, poi a un certo punto sul lungomare si ferma e mi dice di scendere. Io protesto, gli chiedo di accompagnarmi almeno in piazza dove mi aveva preso, ma lui inflessibile mi dice di no, devo scendere subito e tornarmene a piedi.
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A uomini come Cappellari non si poteva disobbedire e così a malincuore scendo dalla BMW e mi incammino verso casa. Lui ingrana la prima e se ne va, ma non faccio a tempo ad attraversare il lungomare che sento una raffica di mitra. Due con il casco, a cavallo di un Kawasaky 750 lo hanno freddato cento metri più avanti con decine di colpi. Il Kawasaky allora si riconosceva dal rumore del motore, e quel rumore non me lo scorderò mai. Umbertino Cappellari sapeva che sarebbe morto, forse aveva già visto i suoi assassini che probabilmente lo seguivano e ha voluto vivere mezz'ora di più caricandomi sulla macchina e facendomi fare quell'ultimo giro di Ostia. Era certo che finché stavo con lui gli assassini non avrebbero osato ucciderlo, mi conoscevano tutti a Ostia come il nipote di Bolero ed ero benvoluto da tutti. Oggi forse i sicari non si fermerebbero neanche di fronte ad un bambino, come troppo spesso ci capita di leggere sui giornali. Era il 1975, e da allora tutto cambiò. Era finita l'epoca romantica della banda del buco, di quelli della lancia termica e era iniziata l'epoca della Banda della Magliana, degli spietati intrighi tra politica, affari e malavita organizzata. LC: Tu ad Ostia, io a Trastevere. Non ci conoscevamo ancora ma posso sicuramente dire che siamo stati fortunati e che ci ha salvato la politica. Se non ci fossero state le sezioni locali del Psi per te e del Pci per me avremmo potuto tranquillamente fare la fine di tanti giovani amici di quel tempo che poi
abbiamo ritrovato coinvolti in fatti di sangue. E secondo me ci siamo incrociati anche nel secondo episodio, quello che ti vede protagonista con Giovanni Caporaso, perché si svolge nel mio quartiere e quel giorno io c'ero ma non facevo fotografie. UC: Era la fine del 1978 o i primi del 1979, i famosi anni di piombo e io stavo cercando di trovare il mio spazio come fotografo free lance. Seguivo la politica, fotografavo i dirigenti dei partiti, ma non potevo “bucare” le grandi manifestazioni e gli scontri di piazza che in quei mesi erano praticamente quotidiani. Quel giorno c'era stata l'ennesimo corteo che era sfociato in uno scontro violento all'altezza di Ponte Garibaldi, proprio li dove nel 1977 era stata uccisa Giorgiana Masi, in Piazza Gioacchino Belli. La polizia sparava lacrimogeni, ma i veri scontri erano tra i manifestanti di sinistra e gruppi di destra che erano venuti a provocare. Come poi si seppe, in certe occasioni a quegli scontri prendevano parte anche strani personaggi che non avevano nulla a che fare né con la sinistra né con la destra ma erano provocatori in borghese che si infiltravano per cercare il morto. Giovanni Caporaso aveva più o meno la mia età, era del 1955 come te, e anche lui tentava di affermarsi come fotografo. Giravamo con la mia vespetta rossa, sviluppavamo le foto nello stesso laboratorio e quando capitava le vendevamo anche insieme. Insomma eravamo una bella coppia e ci divertivamo molto. Anche quel giorno arrivammo in-
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98 sieme e cominciammo a scattare quando parti-
rono gli scontri. Volava di tutto, mattoni, sampietrini, cartelli stradali, sacchetti dell'immondizia, ma anche bottiglie incendiarie, le famose “bombe Molotov”. E noi gelidi a scattare. Poi un tizio con una specie di manganello nero, cilindrico e rigido come il ferro si avventò anche contro di me. Riuscii a evitare il colpo ma mi fece infuriare e cominciai a tirargli contro tutto quello che trovavo. Tiravo e scattavo, scattavo e lanciavo. Giovanni a un certo punto mi guarda e nel casino generale mi dice: “Voi fa' la rivoluzione o le fotografie?”. Ridemmo come due bambini e decidemmo di andare subito a sviluppare e vendere le foto. Mentre sviluppavamo mi resi conto che le foto non solo erano belle e nitide ma permettevano sicuramente l'identificazione di tutti quelli che avevo immortalato negli scatti. Misi allora dei piccoli rettangoli neri sui volti e feci una copia delle foto per poterle vendere. Giovanni non volle coprire i volti e purtroppo quello fu l'inizio dei suoi guai. Andammo insieme alla redazione dell'Europeo e vendemmo subito le foto. Le pubblicarono a piena pagina con tanto di riferimento al fotografo, le mie con i rettangoli neri, quelle di Giovanni al naturale e era impossibile non identificare chi c'era. Tre giorni dopo la pubblicazione di quelle foto eravamo ancora insieme sulla mia Vespa, e sempre a Viale Trastevere, quando sentimmo due
colpi di pistola e dallo spostamento d'aria capimmo che ci era mancato poco che ci colpissero. L'istinto di conservazione mise le ali al mia Vespone, con manovre spericolate mi lanciai nel traffico e riuscimmo a dileguarci. I nostri attentatori avevano un Triumph, erano due con i caschi, ma non riuscii a vedere di più. Ci fermammo solo quando fummo sicuri dello scampato pericolo. Tremavamo come foglie. Collegammo subito l'episodio alle foto pubblicate e soprattutto a quelle senza il rettangolo, cioè a quelle di Giovanni e gli consigliai di sparire almeno per qualche tempo. Cercai di avere qualche informazione su quello che era successo, ma nessuno sapeva dirmi niente. Furono loro, gli attentatori, a trovare me. In groppa al mio fedele Vespone ero fermo ad un semaforo. Vicino a me come al solito c'erano altre moto e motorini, tutti in attesa di partire a razzo un secondo prima che scattasse il verde. E' un gioco che fanno in molti a Roma, si “ingarellano”. Di solito ci si guarda un po' in cagnesco, per valutare chi potrebbe rappresentare un pericolo o un avversario da sfidare. Alla mia sinistra c'era una Honda con un tizio senza casco. Quando mi giro mi sta guardando, e mi dice: “Tu sei stato regolare, non ce l'abbiamo con te. Dì a quell'infame di non farsi più vedere”. Scattò il verde e persi la corsa, anzi mi suonarono anche le macchine che avevo dietro e che volevano passare.
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Lo feci sapere a Giovanni che decise di espatriare definitivamente e si trasferì in un paese sudamericano dove poi ho saputo che ha fatto carriera nel settore edilizio. Non ci vedemmo né sentimmo per anni. Nel 1986, io ero già con Bettino, una sua fidanzata mi contattò con un messaggio di Giovanni. Voleva tornare in Italia ma voleva che mi informassi se poteva farlo. Questa volta avevo maggiori conoscenze e riuscii ad avere informazioni più dirette, ma non furono positive per Giovanni: “restasse dove sta”. Riferii il messaggio che fu preso alla lettera da Giovanni Caporaso, grande fotografo, grande amico e oggi grande imprenditore edile.
Bettino Craxi con Issam Sartawi, rappresentante dell’OLP in occasione dell’Internazionale Socialista in Portogallo. Poche ore dopo sarà assassinato.
LC: Almeno si è salvato. Purtroppo non fu cosÏ per Issam Sartawi stretto collaboratore di Arafat e esponente di punta dell'ala riformista palestinese che la mattina del 10 aprile 1983 fu crivellato di colpi da sicari del gruppo di Abu Nidal, nell'androne di un hotel di Albufeira, in Portogallo, dove si stavano svolgendo i lavori dell'Internazionale Socialista. UC: Lo uccisero davanti ai miei occhi, nella hall dell'albergo dove era ospitato insieme a tanti altri leader. La sera prima lo avevo incontrato e ci eravamo accordati per vederci il mattino seguente, alle 8,45 per un servizio fotografico. Come al solito, in queste occasioni, io arrivo sempre prima per studiare un po' gli ambienti e scovare le inquadrature giuste. C'era tanta gente in giro anche a quell'ora e non notai nulla di strano. Ero in maniche di camicia con la Leika al collo, quando Sartawi uscÏ dall'ascensore gli andai incontro. Non feci in tempo a fare due passi che lo vidi letteralmente saltare in aria crivellato da decine di colpi di mitraglietta. Con tutti quei leader presenti, con le loro scorte, mi risulta ancora impossibile immaginare come sia stato possibile uccidere in quel modo un uomo mite come Sartawi. Lui rappresentava l'ala morbida dei palestinesi, voleva trattare con gli israeliani e per questo lo hanno ucciso. Da allora anche Arafat fu piÚ debole e dovette cominciare a trattare con le ali oltranziste. LC: Craxi era considerato un grande amico di Ara-
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102 fat e non si è mai risparmiato in aiuti e collabora-
zioni, rischiando anche qualche crisi internazionale con gli americani come nel caso del sequestro dell'Achille Lauro e di Sigonella. Personalmente a me non è mai piaciuto, lo consideravo un personaggio ambiguo, anche se ho sempre appoggiato la causa palestinese per un proprio Stato indipendente. Quando poi nel 2002 il magazine Forbes classificò Arafat tra gli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio personale di 1,3 miliardi di dollari, cominciai a capire perché non mi era simpatico. Nel 2003, Arafat ancora in vita e Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, il Fondo Monetario Internazionale condusse una inchiesta che confermò che Arafat aveva spostato circa un miliardo di dollari di fondi pubblici palestinesi su conti correnti controllati da lui. Nello stesso anno il ministro palestinese delle finanze, Salam Fayyad, incaricò una società internazionale di revisione di analizzare la situazione dei fondi facenti capo all'Autorità Palestinese. Il team giunse alla conclusione che Araf_t disponeva di un patrimonio occulto di almeno un miliardo di dollari. Questo patrimonio era suddiviso in finanziamenti a un'azienda che imbottigliava la Coca Cola a Ramall_h, una compagnia telefonica tunisina e capitali dislocati negli Stati Uniti d'America e nelle isole Cayman. Il team giunse alla conclusione che i finanziamenti per le sue imprese commerciali erano pervenuti da fondi pubblici che Arafat aveva stornato e posto sotto il suo controllo personale invece di utilizzarli in
modo trasparente per la causa palestinese. Il team sottolineò che nessuna di queste operazioni era stata resa pubblica dall'Autorità Palestinese. Insomma molti sapevano, nessuno parlava, forse anche altri rubavano e il popolo palestinese moriva di fame. Tutto questo per farti due domande secche: che tu sappia, Craxi sapeva o aveva avuto qualche sospetto di questi utilizzi impropri di fondi di Arafat?E la seconda domanda: Secondo te Craxi ha fatto come Arafat? UC: Accetto il paragone tra Craxi e Arafat, e aggiungo che mi auguro vivamente che ci siano nel mondo altri uomini come loro due. Non sono un giudice, e quindi non posso stabilire se hanno commesso reati e di che genere. Posso solo testimoniare per la mia diretta conoscenza che erano due uomini eccezionali, animati da una grande passione, che hanno speso una vita per cambiare il mondo e che hanno aiutato il mondo a migliorarsi. Queste potrebbero essere chiacchiere, qualcuno potrebbe pensarla diversamente, e allora aggiungo che per me anche Ronald Reagan e Bush padre sono altrettanto innovatori. Ho avuto la possibilità di frequentarli fuori dall'ufficialità e posso testimoniare che anche in loro sentivi la passione, la forza delle idee. Ma tornando a Bettino e ad Arafat vorrei aggiungere un elemento inconfutabile: hanno vissuto dei loro emolumenti e non si sono mai goduti quei soldi che avevano portato all'estero. Craxi è vissuto ad Hammamet fino alla fine
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104 senza lusso e senza nessun beneficio da quei sol-
di e Arafat ha vissuto una vita blindata con 100 uomini di scorta, cambiando alloggio ogni settimana e senza mai un momento di tranquillità. Ma tu pensi davvero che se avessero avuto la disponibilità di tutti quei soldi non avrebbero potuto vivere diversamente? La verità è che sia Bettino che Arafat hanno sempre anteposto le proprie idee agli interessi personali. Con quei soldi hanno finanziato la politica, i loro compagni di lotta in giro per il mondo. Di Bettino so per certo che ha inviato regolarmente denaro in Grecia al partito socialista di Andreas Papandreu, in Spagna a quello di Felipe Gonzalez, in Portogallo a Mario Soares, e a tanti movimenti e partiti socialisti, come in Cile sotto Pinochet o negli altri paesi dell'America Latina o dell'Africa.
Bettino Craxi e Antonio Badini con Yasser Arafat.
Ad esempio mi ricordo quella volta che venne Daniel Ortega, il capo sandinista non ancora Presidente del Nicaragua e si presentò in Via del Corso con una tuta mimetica militare. Quando lo vidi sussurrai a Bettino: “Adesso te la fai coi militari?” e lui serio mi dice: “Caro Umberto, questi sono quelli che fanno la rivoluzione”. Bettino per anni aveva aiutato Ortega nella sua lotta di liberazione e a volte neanche i suoi collaboratori più stretti ne erano a conoscenza. Tutti quegli uomini poi sono stati eletti dai loro popoli a capo dei rispettivi governi. Del resto il Partito Comunista non faceva altrettanto? Non finanziava i partiti fratelli? E come pensi che li trovasse i soldi? Non mi raccontare la storiella delle Feste dell'Unità, che da una persona intelligente come te non l'accetto. All'inizio anche per me fu duro accettare una simile realtà, ero forse ingenuo, ma Bettino mi spiegò più volte che la politica è fatta di idee ma le idee si debbono diffondere e difendere e per far questo servono i soldi. Senza soldi non c'è politica. In Italia come all'estero. Nelle carte di Bettino trovi tutto, le richieste e le lettere di ringraziamento per i contributi a “Il Manifesto” ad esempio o al Partito Radicale di Marco Pannella, o alle decine di circoli, associazioni o riviste non solo socialiste. Ricordo come se fosse oggi gli occhi preoccupati di Pannella mentre Craxi pronunciava il suo discorso alla Camera dei Deputati. Forse temeva che Bettino rivelasse quei contributi, ma evidentemente anche lui non co-
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106 nosceva bene Bettino. Non utilizzò mai quegli
aiuti per ottenere qualcosa e anzi in molte occasioni gli aiutati si rivolsero contro di lui. Ma questo Bettino lo metteva nel conto. E sapeva anche che nei Paesi dove non c'era democrazia, di soldi ce ne volevano ancora di più. Da questo punto di vista Arafat ha fatto la stessa cosa, era il capo di un popolo senza patria e senza terra, aveva nemici potenti, ricchi ed armati e doveva difendersi. Ed era un uomo straordinario che emanava un grande fascino. Ogni volta che lo incontravo succedeva qualcosa. La prima volta fu nel 1981 all'hotel Excelsior di Roma. Non ero ancora entrato nello staff di Bettino, ma già conoscevo tutti e tutti conoscevano me. In particolare a quel tempo c'era Bica Uckmar come assistente di Bettino per i rapporti con l'internazionale socialista. Ero molto simpatico a Bica e mi aiutava sempre nel mio lavoro. Quel pomeriggio la hall dell'Excelsior era stracolma di fotoreporter, giornalisti e cineoperatori non solo italiani. Craxi e Arafat erano al primo piano, in una saletta riservata difesa dalla scorta con le mitragliette ben in vista. Se fossi rimasto nel mucchio non avrei avuto alcuna possibilità di fotografare i due leader, cosi mi rivolgo a Bica che mi fa salire da un corridoio laterale. Quando apre la porta della sala dove stavano parlando Bettino e Arafat non perdo tempo e scatto rapido in sequenza. Pochi attimi e la porta si richiude. Mi basta per chiamare Pippo Marra, il patron dell’AdnKronos e annunciargli il servizio.
Non riuscii mai a portarglielo, perché gli altri colleghi stipati nella hall avevano notato lo strano movimento e con urla di disappunto stavano inveendo contro Bica, che vistasi scoperta si era impegnata a farli salire per il momento più importante della giornata, cioè l'incontro a tre con Enrico Berlinguer, che di li a poco arrivò in hotel e raggiunse Craxi e Arafat. Tutti furono accontentati ed io fui accompagnato fuori dall'hotel con una guardia del corpo di Arafat, ma ci restai per poco. Passata la buriana delle foto di massa, tutte uguali necessariamente, ritornai sui miei passi e mi appostai vicino alla stanza del colloquio senza farmi vedere. Tutti i colleghi soddisfatti si erano allontanati per sviluppare le foto e montare i servizi mentre io restai in attesa. Come avevo previsto dal movimento capii che i tre leader si stavano spostando in un'altra stanza per consumare la cena. A quel punto mi infilai anch'io e scattai le mie foto, uniche e storiche, di Arafat tra Berlinguer e Craxi intorno al tavolo apparecchiato. Qualche anno più tardi, nel 1987, intorno al tavolo c'ero anch'io, con Bettino e suo figlio Bobo, ma non eravamo in un hotel ma più semplicemente in quella che a quel tempo era una delle case clandestine e superprotette di Arafat, a Sidi bu Said in Tunisia. La casa era semplice e spoglia, si vedeva che era provvisoria, e che presto Arafat si sarebbe dovuto spostare. Tutto era impersonale, solo oggetti utili per vivere, niente foto, pochi libri, nessun
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108 soprammobile.
Il pranzo era naturalmente arabo, con un grande piatto di cuscus al centro e altre portate di carne, salse e verdure bollite. Come sai ho la cattiva abitudine di mangiare veloce e finii la mia porzione mentre gli altri avevano appena iniziato. Arafat se ne accorse e con l'espressione soddisfatta mi riempĂŹ il piatto prendendo con le sue mani dei bei pugni di tutti gli ingredienti. Io mangiavo e lui riempiva, sempre con le mani, per ben tre volte. E rideva di cuore, spiegando agli altri che stavo onorando la sua tavola. Ci vedemmo ancora tante volte: quando uccisero Sartawi in Portogallo, durante l'incontro segreto con Craxi e Andreotti, e ogni volta era un'avventura; anche nelle peggiori situazioni, anche quando la sua vita era in pericolo, aveva sempre un sorriso per me.
La cena all'Hotel Excelsior di Roma tra Craxi, Arafat e Berlinguer nel 1982.
Questo per me era Arafat, un uomo braccato, cordiale e semplice, che lottava per le sue idee e per il suo popolo. Come per Bettino i soldi servivano certo, ma non per loro ma bensì per aiutare chi condivideva le loro idee e combatteva per i loro stessi ideali. LC: Le tue sono osservazioni di un uomo di parte che ha voluto bene a Bettino come un figlio e quindi le rispetto anche se mi permetterai di avere ancora qualche dubbio. Ma su una cosa ti posso dare ragione: se ci fosse stato un patrimonio occulto nelle disponibilità di Craxi i magistrati lo avrebbero trovato o comunque se ne sarebbe avuta qualche traccia. Ma allora seguendo il tuo ragionamento, non è illecito l'uso di quei soldi, ma la loro provenienza. Sia nel caso di Craxi che in quello di Arafat erano riserve che venivano stornate da fondi pubblici o da attività economiche connesse al potere pubblico. Anche su questo hai una tua risposta? UC: Il problema del finanziamento della politica non l'ho inventato io e mi sembra che nessuno lo abbia ancora risolto. Ma far passare gli industriali come giuggiole, poveri imprenditori concussi e costretti a pagare, anche questa è una sciocchezza madornale. Quando fummo con Bettino a Santiago del Cile, durante la dittatura di Pinochet, ci recammo a rendere omaggio alla tomba di Salvador Allende, il Presidente legittimamente eletto dal suo popolo e destituito dal golpe militare. Di fronte a quella tomba anoni-
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110 ma, che riportava un nome diverso da quello di Allende, c’era scritto Edoardo Grave, Bettino mi parlò di quello che era successo in quel lontano 1973 e di come dopo si venne a sapere che gli scioperi dei camionisti che paralizzarono il paese e contribuirono a creare le condizioni per il golpe erano stati finanziati dalle grandi industrie americane che temevano per il loro mercato. Che gli industriali abbiano sempre cercato di condizionare la politica non è solo un fatto, ma è dimostrato con decine di documenti, dai tempi di Adamo ed Eva ad oggi, passando per i Krupp in Germania per finire ai finanziamenti dell'industria degli armamenti e petrolifera alla campagna di Bush figlio. Solo da noi qualcuno si stupisce ancora e pensa che gli industriali non si interessino di politica. Mentre non solo si interessano ma la finanziano e finanziano anche le idee dei singoli uomini. Nel 1976 ad esempio, prima di diventare leader del partito socialista, Bettino disponeva già di numerosi fondi che gli provenivano da Attilio Monti. E Pietro Nenni non è un mistero che quando stava ancora in esilio a Parigi ricevesse denaro da Angelo Rizzoli. Bettino mi raccontò che era ancora assessore a Milano quando fu avvicinato da Attilio Monti che voleva conoscerlo, avendo apprezzato le sue posizioni innovatrici, e gli offrì il suo aiuto economico. Traccia di questi aiuti li puoi trovare addirittura su alcuni documenti della Cia recentemen-
te resi pubblici. E Bettino, e prima di lui Nenni, non ci si sono comprati le ville con quei soldi ma li hanno spesi per fare politica, per sostenere le proprie idee, e che io sappia non hanno mai fatto vincere appalti o gare pubbliche né a Monti né a Rizzoli. Anzi, Bettino incoraggiò Edilio Rusconi, allora direttore di “Oggi”, un periodico di Rizzoli, a mettersi in proprio e a costruire quella che diventerà una delle case editrici concorrenti di Rizzoli stesso. Se sfogli i block notes dell'archivio troverai tutti i nomi dell'industria italiana: chiamavano loro, non era Bettino a cercarli. E nelle mille volte che sono stato testimone di incontri con questi industriali, sinceramente nessuno mi ha dato l'impressione di essere costretto o malversato da Bettino. Con alcuni poi era proprio amico, come con Silvio Berlusconi o Nicola Trussardi. E se li ha aiutati è stato sempre per una idea che aveva. Ad esempio nel settore televisivo voleva assolutamente aprire il mercato ad altre imprese per rompere il monopolio della Rai. Per questo difese Berlusconi dai tentativi di oscuramento delle sue televisioni. Ma ancora prima aveva spinto Rusconi a entrare nel settore con “Italia 1”. Per Rusconi quello non era il suo mestiere e faceva fatica a mandare avanti l'iniziativa così Bettino gli presentò Berlusconi e nel 1982 “Italia 1” passò di mano. Mi ricordo che in quel periodo eravamo a Cap Ferrat, a casa di Bettino e c'erano anche Rusconi, Berlusconi e un Clemente
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112 Mastella molto più giovane di oggi e con una ma-
glietta a righe anni Sessanta, che allora era portavoce di Ciriaco De Mita. Come vedi le cose, viste da vicino sono sempre diverse da come le vogliono far sembrare. E c'è di più. A volte il politico è come un apprendista stregone che per le sue idee evoca mostri che poi non riesce più a controllare. Per me la storia di Silvio Berlusconi è proprio quella di un mostro evocato da Bettino. Il giorno del discorso per l'insediamento del suo primo governo, nel 1994, eravamo a Cap Ferrat in attesa del trasferimento ad Hammamet. Eravamo davanti alla tv ad ascoltare Berlusconi, quando Bettino spense la tv e mi invitò a fare il solito giretto. Aprì il cancelletto e si incamminò senza dire una parola. Io lo seguivo in silenzio. Conoscevo quei suoi momenti e sapevo che ave-
Bettino Craxi, Pietro Nenni e Enzo Biagi ospiti di Angelo Rizzoli a Ischia nel 1969.
va bisogno di pensare senza nessuno intorno. Io ero una scusa, un accompagnatore discreto che non faceva domande. A metà del vialetto, seguendo i suoi pensieri cominciò a ripetere una frase che era la sintesi di quello che andava da tempo rimuginando: “Megalomane e bugiardo, megalomane e bugiardo”. Bettino avrebbe voluto un terzo polo televisivo, avrebbe voluto la concorrenza vera, non il duopolio Rai-Fininvest, ma il mostro che aveva generato e le indagini di Mani Pulite gli impedirono di portare avanti il progetto. Questo duopolio va bene a tutti, partiti e Berlusconi, ma ti assicuro che Bettino non lo voleva. LC: Ci torneremo su questi aspetti, ma mi ha colpito quel tuo ricordo sulla tomba di Salvador Allende. Certo ricorderai che. in quel terribile 11 settembre del 1973, si ebbe notizia che la Massoneria aveva inviato un aereo per salvare il confratello e condurlo fuori dal Cile. Questo mi dà lo spunto per chiederti spiegazioni su di un altro tema che hai lasciato in sospeso nel tuo precedente libro: la Massoneria. In “Segreti e misfatti” tu a un certo punto scrivi: “Pur di tenermi accanto a sé (Bettino ) mi aveva isolato dal mondo: non mi consentì nemmeno di aderire alla Massoneria. “Non c'è alcun bisogno che tu diventi massone, per ora, mi rimbrottò seccamente quando gliene parlai. Ci sono già io a proteggerti. Mi sembra sufficiente” . Le domande sarebbero tante, perché volevi entrare nella Massoneria? Craxi era Massone? E quel ”per ora”
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114 significa che dopo la sua morte avresti potuto o dovuto farti massone? Insomma cerca di farmi capire un po' meglio questa storia.
UC: Innanzitutto spazziamo via il campo dalle deviazioni. La Loggia P2 è stata una distorsione che ha portato gravissimo danno alla Massoneria, quella vera, esoterica, che crede nella fratellanza e nei valori universali degli uomini. Molti grandi uomini erano fratelli Massoni, Giuseppe Garibaldi per primo. Io sono stato sempre affascinato dalla Massoneria. Per questo, quando ebbi l'occasione ne parlai con Bettino che mi sconsigliò, almeno in quel momento. Se Bettino fosse o no iscritto alla Massoneria non saprei dirtelo, anche se penso che molti uomini di Stato lo sono e magari appartengono a Logge molto esclusive. Con questo non devi pensare a chi sa quali intrighi, complotti o sedute segrete. E' un legame di fratellanza, una comunanza di valori nobili che condividono e che si impegnano a rispettare. Io condivido molti di quei principi e per questo ero attratto da loro. Non ho mai pensato di ricavarne un beneficio, anche se sapere che in tutto il mondo ci sono altri uomini che ti chiamano fratello e sono pronti ad aiutarti in maniera disinteressata, debbo dirti che fa effetto, almeno in me, cresciuto tra Pietralata e Ostia e catapultato in giro per il mondo con i potenti della terra. In questa attrazione che provo per la Massoneria forse c'è anche il bi-
sogno di sentirmi parte di una famiglia, di un gruppo che condivide idee comuni, che è pronto al sacrificio per gli altri.
1. Il La Casta - Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella - Rizzoli 2006 2. Bruno Vespa - Storia d'Italia - pag 328 3. www.forbes.com/global/2001/1001/015.html 4. http://electronicintifada.net/cgi-bin/artman/exec/view.cgi/7/1958 5. Umberto Cicconi - Segreti e Misfatti - pag 203
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In alto Umberto Cicconi, l’ultimo a destra, a Washington con con Ugo Intini, Nicola Trussardi, Bobo Craxi e Cornelio Brandini nell’ '88. In basso tra Craxi e Occhetto durante un incontro al PSI.
l’album di famiglia
LC: Non vorrei essere scortese, ma mi sembra che tu abbia sempre bisogno di appartenere ad una “banda”, ad un gruppo ristretto e fidato che si guarda le spalle, che condivide nel bene e nel male tutte le vicende della vita, senza mai tradire. E di bande nella tua vita ne sono passate molte, da quella dell'800, la famosa banda Ciccone, a quella di tuo zio Ernesto detto “Bolero”, alla banda della Magliana che hai conosciuto ma fortunatamente non ti ha attratto, alle tue piccole bande di ragazzini a Pietralata, per finire a quella che qualcuno ha chiamato la banda di “Craxi”. Tu sai che non considero Craxi un capo banda e quindi mi perdonerai l'accostamento, ma mi serviva per capire meglio questa tua necessità di sicurezza, di fratellanza, ma anche di onore. Sentimenti di altri tempi.
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118 UC: Ho avuto una grande fortuna, quella di ave-
re tre grandi figure maschili nella mia vita che mi hanno insegnato a vivere. La prima è certamente mio padre Edoardo, la seconda mio zio Ernesto detto “Bolero” e infine Bettino. Tre grandi personaggi, nel bene e nel male, che mi hanno dato tanto e da cui ho imparato tutto. Senza di loro avrei potuto perdermi, avrei potuto finire nella strada come è successo a tanti come me, miei amici d'infanzia, e come succede ogni giorno a tanti ragazzi di borgata o dei quartieri poveri delle periferie delle grandi città. La mia famiglia ha origini abruzzesi, mio nonno Umberto, da cui prendo il nome, morto il 30 ottobre 1963, era nato a Antrodoco un piccolo paese che allora, nei primi anni del '900 era Abruzzo e che Mussolini fece diventare del Lazio. Prima di lui c'era stato anche un Giacomo,
La banda Ciccone.
capo di una banda di briganti che venne fucilato dalle guardie regie il 21 aprile del 1868 assieme a tutti i suoi compagni. Non so dirti che grado di parentela avesse con me, forse un cugino del mio bisnonno, ma per certo apparteneva alla mia famiglia anche se le cronache riportano di un brigante di nome Giacomo Ciccone e non Cicconi, ma probabilmente il cognome cambiò negli anni, forse anche per dimenticare quell'antenato scomodo. Questa vena di ribellione è ancora forte nella mia famiglia e io ne sono un esempio.
Il “capo banda� Giacomo Ciccone.
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Una delle poche foto di Errico Malatesta.
Mio nonno Umberto viveva con la famiglia ad Antrodoco, ma ad appena 12 anni scappa di casa e a piedi nudi, per valli e montagne arrivò a Roma, senza un soldo e senza un mestiere. Lavorando da umile manovale si avvicino agli ideali anarchici e conobbe Antonio Dreher, un triestino, anarchico, fondatore della Birra Peroni e della famosa birreria Dreher. Ma l'amicizia che più lo coinvolse fu quella con Errico Malatesta, il capo riconosciuto degli anarchici di quel tempo. E per una strana coincidenza Malatesta aveva cominciato la sua carriera di rivoluzionario proprio nel Matese, la zona dove operava la banda di Giacomo Ciccone. Anche le date sono simili: la banda Ciccone viene fucilata nel 1868 e Malatesta e Cafiero avviano il loro tentativo insurrezionale nel 1877, appena 9 anni dopo. Tornando a mio nonno Umberto l'amico anarchico Dreher lo chiamò a lavorare con lui; portava il ghiaccio alle trattorie con un carrettino tirato da un ronzino, e piano piano si fece strada fino a diventare dirigente della Birra Peroni. Con il tempo riuscì a sistemarsi in una casa al centro di Roma, a Via dei Greci e lì nacquero i sedici figli tra cui mio padre Edoardo e mio zio Ernesto. In quella casa per alcuni mesi Errico Malatesta visse con mio nonno, nascosto con la famiglia, prima di trasferirsi a Londra. Ad ogni occasione ufficiale i fascisti arrivavano a casa di mio nonno e lo arrestavano per qualche giorno.
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Erano piĂš i giorni che passava in galera che quelli in cui poteva lavorare. Per fortuna Dherer lo proteggeva altrimenti si sarebbe trovato sul lastrico. Mussolini e i fascisti forse sapevano di Malatesta ma non osarono toccarlo. Ma fecero di tutto per cacciare mio nonno dalla sua casa e ci riuscirono alla fine, mandandoli in periferia, a Pietralata insieme a tanti altri antifa-
Un articolo di giornale sul “caso� della baracca.
scisti e lavoratori non inclini a chinare il capo. Quando si trasferirono mio padre aveva 9 anni. Mio zio Ernesto scappò da casa a 5 anni, zio Aldo, prima fattorino dell’Aereonautica Militare, è un eroe di guerra, morto nei cieli di Malta nel 1941 mentre stava fotografando dall'alto le postazioni nemiche. Forse è da lui che ho ereditato l'amore per la fotografia. Poi c'è mio zio Otello, altro scavezzacollo che partì come colono per Adis Abeba dove si sposò e ebbe due figlie, Jolanda e Sandra, che non ho mai conosciuto. Anche mio padre Edoardo non è da meno degli altri. Muratore fin da bambino, si specializza in cortine, si ammala gravemente con infiltrazioni polmonari ma continua a lavorare. Passa da un sanatorio all'altro, Rovereto, Trento poi L'Aquila. Viene riformato dal servizio militare. Conosce mia madre quando già abitavano a Pietralata, lei era poco più di una bambina e apparteneva ad una famiglia fiorentina abbastanza famosa, gli Allori. A 17 anni mia madre Marisa, che tutti chiamano Gianna, partorisce il primo figlio, mio fratello Giuliano che muore nelle braccia di mio padre per uno choc anafilattico conseguenza di una puntura antitetanica. All'inizio i miei genitori affittarono un piccolo appartamento, vicino a casa di mio nonno a Pietralata, ma pagare la pigione era sempre una scommessa. Così dopo la guerra, nel 1955, tentarono di farsi una propria casa, una baracca, per iniziare la loro vita. E da questo episodio della loro vita Vittorio De Sica e Cesare Zavattini ne trassero
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124 un film, nel 1956: Il Tetto.
Mio padre ci raccontava sempre quando eravamo piccoli, di come De Sica e Zavattini passarono molti giorni a Pietralata con loro per sapere tutti i particolari della avventurosa costruzione della baracca e la cosa che piĂš li colpiva era che i due grandi cineasti pagarono da mangiare a tutti, compresa la carne che a quei tempi era come l'oro. Fu una vera festa. La prima volta che si presentarono alla baracca dei miei furono scambiati per
Giuliano Cicconi, fratello di Umberto, morto a 4 anni.
due poliziotti. Fecero tante domande e tutto il quartiere partecipò al racconto. Mio padre non ci voleva credere che solo perché aveva raccontato la sua storia Zavattini gli diede 90.000 lire, una vera fortuna per quel tempo. Poi fecero il film, ma lo ambientarono in un'altra città, non so bene perché. Zavattini tra l'altro offrì a mia madre di interpretare se stessa nel film, ma mio padre non volle sentir ragioni e così presero la Pallotta. A Roma a quei tempi vigeva la regola che se ti costruivi una casa e riuscivi a metterci il tetto non si poteva più buttare giù. Mio padre tentò varie volte, con i suoi amici, ma arrivavano sempre i vigili prima che fosse posato il tetto e gli buttavano giù tutto. In una di queste incursioni un commissario di polizia diede anche una spinta a mia madre incinta di mia sorella Nadia mentre mio padre stava sul tetto della baracca per non farsi arrestare. Quando vide che il commissario se la stava prendendo con la moglie scese con un balzo ma purtroppo prese in pieno una pala che lo colpì con il manico in piena faccia. Una scena da comiche di Stanlio e Ollio. Riuscì comunque a non farsi arrestare ma fu un brutto momento per tutti. Tutto il quartiere lo venne a sapere e scattò il soccorso di massa. Qualche giorno dopo, tutti si armarono di calce e mattoni e in una notte costruirono la baracca con tanto di tetto. La mattina appresso, quando arrivarono i vi-
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126 gili trovarono mia madre con il pancione ad aspettarli nella nostra baracca, felice e soddisfatta. Era il 1955. Tre anni dopo in quella baracca nacqui io. Quel commissario tornò nel 1959, avevo appena un anno, e disse a mia madre: “dopo che te sei fatta sta villetta adesso vuoi pure la casa popolare?”. La risposta comunque fu adeguata alla provocazione: “Facce stà tu moje dentro a stà villetta”. LC: Forse da questo episodio hai cominciato a capire l'importanza della solidarietà, della forza del gruppo e hai cominciato a farti le tue bande di ragazzini. Ma fino a quando si è ragazzi è comprensibile, quando si cresce magari le cose cambiano. E soprattutto da che mondo è mondo anche nelle bande ci sono i traditori, gli opportunisti e gli invidiosi.
Hamamet. I funerali di Bettino Craxi nel gennaio del 2000.
UC: E' vero, erano altri tempi e li rimpiango. C'era solidarietà, ci si aiutava l'uno con l'altro, si divideva il pane. Non so se oggi succederebbe altrettanto. A volte mi rendo conto di non conoscere neanche alcuni dei miei vicini e sono certo che molti non conoscono me. Ed hai ragione, addirittura all'interno della stessa famiglia oggi non ci si aiuta, ma cresce l'invidia e l'opportunismo e credo di averti già raccontato alcuni episodi. Ma ce n'è un altro che mi colpì molto. Era il capodanno del 1990, lo ricordo come se fosse ieri. Bettino era andato a passare qualche giorno di riposo a St Morritz ospite di Silvio Berlusconi. Tornando a Milano si sentì male e lo portarono d'urgenza al San Raffaele dove gli riscontrarono un infarto. Fu un colpo per noi tutti, ma con quei ritmi di lavoro c'era da aspettarselo. Qualche maligno ha detto che era la frequentazione di Berlusconi, ma a quei tempi erano veramente amici. Dopo avergli prestato le prime cure lo sistemarono in una suite con due stanze, una per lui e una piccola a fianco. Quando si riprese e ci permisero di vederlo gli feci solo una domanda: “Che devo fare?” e lui, sicuro come sempre mi rispose “allestiscimi una segreteria qui vicino”. Il suo primo pensiero era continuare a lavorare, e come sempre mi misi al lavoro anche se preferivo farlo riposare, ma sapevo che se non avessi obbedito sarebbe stato peggio. Così feci trasferire la sua segretaria in quella stanzetta e feci portare tutto l'occorrente. Per più di una settimana non lo lasciammo un attimo
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128 solo e Bobo fu veramente meraviglioso, c'era sempre, giorno e notte. Molti altri fecero solo le visite di cortesia, in orario visite, ma quando c'era da mettersi in mostra non mancavano mai, come Marco Bassetti. Addirittura dopo la morte di Bettino tentò di farsi bello mettendosi in mostra per organizzare il funerale, che per lui evidentemente poteva rappresentare una vetrina e per noi solo un gran dolore, ma gli impedimmo quell'ultima strumentalizzazione. Del resto Bettino conosceva bene le persone, e non amava frequentarle più del necessario, e soprattutto non gli permetteva confidenze, come quella volta che Marco Bassetti, in sua presenza, parlando di Massimo D'Alema utilizzo il nomignolo di “baffetto”. Bettino lo fulminò con un perentorio “Ma come ti permetti?” e la discussione finì lì. LC: Non ci vai tenero ma avrai le tue buone ragioni. Del resto non si può dire che tu sia un diplomatico, anzi da quando ti conosco, con l'età sei migliorato molto. Quando si è giovani si è istintivi e qualche volte si perdono anche le staffe. A te è successo più di una volta. UC: Vedi, ho taciuto per lunghi anni, so di non essere uno stinco di santo, ma ora ho deciso di raccontare me stesso con la stessa sincerità con la quale racconto gli altri. Non sono un diplomatico, è vero, sono schietto e a volte posso risultare cattivo e strafottente, ma non voglio fa-
re del male a nessuno. Però non posso neanche raccontare bugie o tacere di fronte a tante falsità e meschinità. Bisogna aver coraggio ad essere sinceri e anche sulla mia famiglia cerco di esserlo fino in fondo e qualcuno se ne avrà a male, ma l'ho messo nel conto. Mio padre non era tenero per niente con noi figli, anzi. I miei fratelli avevano grande timore di lui mentre io lo contestavo, ero un po' il ribelle della famiglia. Mi ricordo un episodio che fece scandalo in famiglia. Mio padre era già uscito dal Pci e era diventato segretario della sezione del Psiup di Pietralata. Ero un bambino e mi piaceva giocare a bigliardino con gli amici e così andavo alla Casa del Popolo che era anche la sezione del Pci. Il segretario della sezione comunista ci faceva giocare ma dovevamo dare una mano a pulire la sezione che aveva anche un bar dove tutto il quartiere andava a comperare il latte. Un giorno un compagno del Psiup entrò a comperare il latte e mi vide con lo spazzolone in mano. Dopo poco mio padre lo venne a sapere, si precipitò alla Casa del Popolo e senza entrare mi gridò da fuori: “ Esci, esci da lì, brutto fijo de 'na mignotta”. Me ne disse di tutti i colori ma non mi toccò. Non mi ha mai menato mio padre, ma da quel giorno cominciò a raccontarmi tante cose della politica, di come la vedeva lui naturalmente. E quello fu l'inizio del mio amore per la politica che mi ha salvato da altri possibili sviluppi. In un certo senso ero già il capetto di un grup-
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130 po di bambini della mia età che scorrazzava per
il quartiere in cerca di qualche divertimento. Eravamo abbastanza poveri e giravamo non proprio puliti e persino il prete non ci faceva entrare nell'oratorio dove tutti gli altri bambini giocavano a palla e a biliardino. La parrocchia era circondata da un muro alto diversi metri, che è ancora lì e ogni volta che ci passo mi torna in mente quell'episodio. Ero arrabbiato per l'ingiustizia di non poter stare con gli altri bambini solo perché eravamo sporchi e così un giorno decisi di entrare con i miei amici scavalcando il muro. Ad un lato pendeva un cavo elettrico abbastanza robusto da tenermi, così decisi di scalare il recinto tirandomi su con il filo, passare dall'altra parte e aprire il cancellato ai miei amici. A metà della scalata il prete mi vide e attaccò la corrente, per fortuna solo per un secondo. Io rimasi folgorato e cascai giù come un sasso. I miei amici mi gridavano che avevo tutti i capelli dritti e per farmi riprendere ebbero la bella idea di portarmi ad una fontanella e bagnarmi. Peggio non potevano fare. Svenni e mi ci volle del tempo per riprendermi. Dopo poco ci trasferimmo ad Ostia. Avevo dodici anni, ribelle e scavezzacollo, con coetanei e ragazzi poco più grandi di me che presto sarebbero stati protagonisti della “banda della Magliana”. Ma ce l'ho fatta, grazie alla politica e all'amore per la fotografia. LC: Ce l'hai fatta anche perché avevi un padre im-
pegnato in politica e uno zio, “Bolero” esponente rispettato della vecchia malavita romana che fu appunto soppiantata dai giovani della “banda della Magliana”. UC: In effetti non ero proprio uno stinco di santo da bambino. Di botte mia madre me ne ha date tante e sempre a ragione. Ad esempio avevo il vizio di mangiare con le mani, tutto, compresi gli spaghetti al sugo. E giù sberle. Poi non riuscivo a contenermi o non volevo e se mi saliva un rutto lo facevo, anche a tavola. Un giorno mi ricordo che mio padre mi gridò: “quando ti viene da ruttare mandalo indietro”. Io allora mi giro e dando le spalle alla tavola mi libero di quel fastidioso rigurgito di aria. Non faccio in tempo a rigirarmi che incontro la mano aperta di mia madre che mi stende come il destro di Tyson. In una occasione del genere mi tirò anche un piatto. Credo che non sapesse più come insegnarmi l'educazione. Chi l'avrebbe detto che un giorno avrei pranzato allo stesso tavolo con capi di Stato e potenti della terra? Sarei potuto diventare un teppistello di periferia o peggio. Ricordo un episodio che mi fece riflettere: avevo 14 o 15 anni e stavo passando un brutto momento, in bilico tra l'esempio di mio padre e il cattivo esempio di tanti altri. Non ho mai sopportato le prepotenze, ma ho imparato a controllarmi. A quei tempi ancora non avevo perfezionato
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132 questo autocontrollo. Chiesi un caffè al vetro e
il barista me lo diede nella classica tazzina. Gli ricordai la mia richiesta e lui, davanti ai miei occhi, versò il caffè dalla tazzina al bicchierino di vetro e mi disse: “Eccote er caffè ar vetro”. Diciamo che ho protestato vivacemente per questo gesto poco cortese nei confronti di un cliente e casualmente ho urtato contro la vetrina del bar che è andata in mille pezzi e ho avvisato il barista che se non mi avesse rifatto il caffè al vetro avrei potuto urtare altre vetrine. Qualche anno prima ne avevo combinata anche un'altra: eravamo da poco arrivati a Ostia e volevo provare a guidare. Con un mio amichetto ci mettemmo d'accordo e “prendemmo a prestito” le auto dei nostri genitori e facemmo a corsa sul lungomare, io con la Renault 4 e lui con la Fiat 500 Giannini del padre. E' lì che ci videro, o meglio videro le auto che sembravano senza autista perché noi eravamo troppo piccoli, e così diedero l'allarme. Mi divertii come un pazzo, facevamo pure i testa-coda. Purtroppo finì male perché ci fermammo dentro una casetta dove stavano pranzando in giardino e danneggiammo anche il cancello. Mio padre dovette pagare i danni sia della macchina che della villetta. Mio zio e mio padre in questo hanno sempre esercitato una vigilanza attenta. Zio “Bolero” appunto, mi diceva spesso che per il mio carattere ribelle non avrei mai potuto lavorare per un padrone. Se sei intelligente - mi diceva - troverai la
tua strada, magari ti inventerai il lavoro che fa per te. Se sei un quaquaraqua, allora cercati un impiego comunale e smettila di fare il ribelle. Bolero, zio Ernesto, è morto nel 1988, solo, dopo una vita difficile, con periodi di grandi disponibilità, mesi di carcere, amici che lo hanno tradito e una famiglia che lo evitava. Mio padre ha sempre lavorato, sempre impegnato in politica, ma con mio zio ha sempre mantenuto uno stretto legame. Per il resto della famiglia invece zio Ernesto era vissuto un po' come la vergogna di casa di cui non si doveva parlare e molto raramente incontrare, magari solo alle feste comandate o quando non se ne poteva fare a meno. Zio Otello, quello che si trasferì ad Addis Abe-
La famiglia Cicconi. A sinistra Eduardo e Gianna, genitori di Umberto. Al centro nonno Umberto. Zio “Bolero” era momentaneamente residente in carcere..
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134 ba, l'ho visto poche volte anche perché non si
prendeva con Ernesto che lo accusava di essere scappato nel momento del bisogno e di aver lasciato la famiglia nella fame e nella povertà. Mi ricordo soprattutto le mie zie, sposate una, Bice, con un architetto del Comune e l'altra, Jolanda, con un vigile urbano, entrambe ritenute “autorità” a quel tempo, che mi tappavano la bocca ogni volta che nominavo zio Ernesto. Io ero piccolo e ribelle e forse fu proprio quell'atteggiamento che mi fece incuriosire e avvicinare a zio. Ero uno dei pochi nipoti che lo andasse a trovare, che parlasse con lui, e lui si affezionò a me e mi trattò sempre come un figlio. Credo di essere l'unico della famiglia cui ha raccontato molte sue imprese. Ce ne è una di queste imprese che sembra ispirata ad un libro di Wilbur Smith: “La grande rapina al treno”. Avvenne in Spagna. Mio zio lavorava sempre con sette uomini. Dopo aver studiato per mesi abitudini, orari e percorsi di un treno che trasportava lingotti d'oro lo fecero deviare su un binario morto e prelevarono l'oro con un elicottero. Senza torcere un capello a nessuno del treno che ripartì, più leggero, ma ripartì. Pensa l'impressione che potevano fare questi racconti ad un bambino ancora minorenne. Era anche un giocatore incallito di “zecchinetta”, carta vince carta perde. Una volta perse 12 milioni e a quel tempo era una vera fortuna. Per questo vizio frequentava le bische clandestine romane, dove incontrava la Roma bene. Con Nicola Sci-
rè ad esempio ebbe varie volte a che ridire e una volta li arrestarono entrambe. Con il commissario Spatafora della mobile poi era un vero gioco a guardie e ladri. Quando scoppiò lo scandalo delle bische mio zio ci si trovò in mezzo e pagò un caro prezzo. Anche dal punto di vista affettivo “Bolero” non ha avuto una vita semplice. Tutto ebbe inizio con la sterilità della moglie. Lui amava i bambini, sognava di avere una famiglia numerosa e amava sua moglie che purtroppo non poteva accontentarlo. Stiamo parlando degli anni Cinquanta, la medicina, la cultura e l'educazione erano altra cosa da oggi e molte cose che oggi suonano scandalo, almeno nei ceti emarginati e popolari, erano frequenti e per niente disdicevoli. Un giorno mio zio mise incinta un'altra donna che portò a termine la gravidanza e zio Ernesto riconobbe subito il piccolo Aldo e gli diede il suo cognome. Ne parlò con la moglie, con la speranza che lo accettasse. Non fu così, anzi ne nacque un grande conflitto che durò anni. Zio Ernesto mantenne Aldo e sua madre per tutta la vita, lo seguì negli studi, lo mandò in collegio dalle monache, ma non gli fu possibile dargli quell'amore di padre che avrebbe voluto dargli. Aldo crebbe con questo conflitto e soffrì sempre molto per questa situazione. Scappò dal collegio, girovagò come un barbone, si mise con una principessa romana, fino a che non lo trovarono mor-
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136 to per overdose al Gianicolo. Fu uno dei primi mor-
ti per overdose a Roma. Erano i primi anni 80 e aveva appena 20 anni. Mio zio sognava una famiglia, dei figli, una vita normale, ma fu proprio la vita a impedirgli di realizzare il suo sogno. Zio Ernesto era un romano verace, alla Aldo Fabrizi. Certa gente non gli è andata mai a genio. Una sola volta mi capitò, molti anni dopo, di conoscere un potente che aveva avuto rapporti con mio zio, ma non certo di affari. Era il 1984, febbraio '84, lavoravo già con Bettino allora Presidente del Consiglio e lo accompagnai alla firma del Concordato. Monsignor Agostino Casaroli, quando ci presentarono rimase un attimo assorto a sentire il mio cognome e poco dopo mi chiese: “Ma lei è per caso parente di Ernesto Cicconi, detto “il Bolero”?”. Potevo dirgli di no e sarebbe finita lì, ma mi sarei comportato da vile, da codardo. Così dissi: “Certo, è mio zio”. Casaroli con fare molto ecumenico mi guardò fisso e aggiunse: “Lei non sa quante me ne ha fatte passare suo zio quando ero cappellano al carcere minorile di Roma. Una vera peste”. Quando raccontai l'episodio a mio zio si fece una gran risata al ricordo di quei tempi e anche se lo invitai più volte a scrivere a Monsignor Casaroli, o magari incontrarlo, si schernì sempre dicendo: “E che je devo da dì io a Casaroli?. Ecco questo era mio zio Ernesto. LC: E qui torniamo all'archivio e ai rapporti di Bettino Craxi con la Chiesa e il Vaticano. Nel 1984
ci vedevamo spesso e da buon agnostico notai in te una attrazione verso le gerarchie vaticane che avevi cominciato a conoscere e fotografare. La Chiesa è forse la più grande “famiglia” cui un uomo può appartenere. UC: Entrare in Vaticano non come turista ma come fotografo del capo del governo italiano, poter girare per quelle stanze piene di ori e opere d'arte nel silenzio più assordante mi fece grande impressione e forse te ne parlai in quei giorni con toni ammirati, ma era meraviglia, curiosità, rispetto per un mondo diverso e sconosciuto. Non ho mai sentito la “chiamata” o la vocazione. Pur essendo cattolico vivo il mio credo in maniera molto privata e laica. Ma quel primo incontro mi colpì molto. Era il giorno prima della firma del nuovo Concordato, il 17 febbraio del 1984. Gennaro Acquaviva mi chiamò a casa e mi disse di farmi trovare la mattina dopo molto presto vicino a Piazza San Pietro, senza spiegarmi di che si trattava. Alle otto del mattino di quel 18 febbraio arrivo, per fortuna un po' in anticipo, vestito come al mio solito in jeans, maglietta, giacca e cappotto. Appena mi vede Gennaro mi spiega che così vestito non sarei andato da nessuna parte. Corro a Borgo Pio al primo negozio aperto a quell'ora e mi compero una camicia e una cravatta, rossa, non per una mia scelta ma frutto dello scarso assortimento. Appena passato il portone laterale con le guardie svizzere mi resi conto di
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138 essere entrato in una città nella città.
Quelle mura alte e massicce dividono la città dei mortali dalla città eterna e non solo metaforicamente. Un altro mondo davvero. Ci fecero salire un grande scalone e poi per corridoi e sale magnifiche, l'una dentro l'altra arrivammo all'anticamera degli uffici dove si sarebbe svolta la cerimonia della firma del nuovo Concordato. Incontrammo prima Mons. Monduzi del cerimoniale, poi arrivò Mons. Casaroli. In quell'occasione mi chiese di mio zio Ernesto. Dopo qualche minuto di attesa Mons. Casaroli aprì una porta e introdusse Bettino Craxi nell'ufficio del Santo Padre. Lo seguii e cominciai a scattare. Papa Woityla rideva, mi apparve un uomo semplice e vero, for-
La firma del nuovo concordato tra Bettino Craxi e Monsignor Agostino Casaroli, il 18 febbraio del 1984.
se perché in quegli ambienti ti aspetti sempre una specie di re o monarca imbalsamato e quando ti trovi invece a faccia a faccia con una persona normale ti fa un certo effetto. Quel Papa mi restò subito simpatico, e credo che fu reciproco, come mi dimostrò appena un anno dopo. Bettino aveva stabilito un grande rapporto con Woityla, anche perché avevano un obiettivo comune che si realizzò nel 1989 con il crollo del muro di Berlino e dei regimi comunisti. Il Papa era in visita a Milano e dopo poco avrebbe celebrato una santa messa nel Duomo. Bettino fu invitato ad un incontro privato presso l'Arcivescovado dal Cardinal Martini, che inaspettatamente rimase fuori e non partecipò all'incontro. Io entrai con Bettino e feci alcuni scatti, poi attesi fuori con gli altri. Quando la porta si aprì di nuovo ebbi l'impressione che Bettino non sapesse bene cosa fare, era forse un cerimoniale nuovo anche per lui, e Gennaro Acquaviva lo prese per un braccio e lo tolse dall'impaccio. Dietro di lui veniva il Papa, vestito di bianco Cominciai a scattare arretrando mentre il Santo Padre avanzava. Non mi resi conto di dove stavamo andando e a un certo punto mi ritrovai in un corridoio stretto e lungo. Il Papa avanzava sorridendo, strusciando un po' i piedi avvolti da pantofole dorate, e mentre continuavo a scattare, l'occhio attaccato al mirino, vedevo che diversi canonici svestivano e rivestivano il Papa con i paramenti della messa. Rivedendo quella sequenza sembra una sfilata
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140 di moda che Woityla ha concesso solo a me. Sem-
brava divertito di quel fuori programma. A un certo punto, sempre indietreggiando urtai contro qualcosa, uno dei canonici aprĂŹ un portoncino e mi ritrovai al lato della Basilica, sul sagrato antistante il Duomo, dove era stato allestito un palco per la Santa Messa del Papa e dove lo stavano attendendo autoritĂ e centinaia di fedeli. La prima cosa che notai furono gli occhi divertiti e preoccupati di Bettino, Gennaro Acquaviva e Carlo Tognoli che avevano perduto le mie tracce e si aspettavano di vedere il Santo Padre uscire per primo da quel portoncino e non certo me. Anche con Monsignor Casaroli ebbi modo di incontrarmi altre volte e due in particolare mi
L'incontro di Bettino Craxi e Gennaro Acquaviva, con Papa Woityla all’Arcivescovado di Milano.
sono rimaste impresse. La prima fu nei suoi appartamenti, proprio sotto a quelli del Papa. Gli avevo chiesto se potevo fargli delle foto nel suo appartamento e quando lo vidi mi colpì la semplicità, direi la normalità di quelle poche stanze. Gli proposi allora di fotografarlo davanti ai fornelli della cucina mentre si cuoceva due uova. Casaroli non voleva credere che parlassi sul serio e con un “ma tu sei matto” liquidò la mia idea in effetti un po' azzardata. Si piazzò in un angoletto e non riuscii a fare di meglio. La seconda volta invece eravamo ad un ricevimento all'ambasciata italiana presso la Santa Sede, e ospiti dell'Ambasciatore Cheli erano presenti i maggiori esponenti dei partiti e delle istituzioni. Come al solito mi aggiravo per le sale in esplorazione quando incontrai Mons. Casaroli che stava arrivando in quel momento. Mi salutò cordialmente e quasi a bassa voce mi chiese chi fosse già arrivato al ricevimento. Gli elencai quelli che mi ricordavo tra cui i comunisti Giancarlo Pajetta e Nilde Jotti, poi senza avvertirlo aprii la porta del salone e davanti a tutti gli invitati, come un maestro cerimoniere annunciai a gran voce: Monsignor Agostino Casaroli. Mi fulminò con uno sguardo, ma so che si è divertito e mi ha perdonato. In quell'occasione tra l'altro mi disse pure di riferire a Bettino di far tagliare i capelli al suo addetto diplomatico, che a suo avviso risultava “leggermente disordinato”. Riferii con gran piacere a Bettino.
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Purtroppo, e nonostante i buoni rapporti intercorsi, anche da Woityla Bettino non ebbe quella misericordia che si sarebbe aspettato. Dal suo esilio ad Hammamet, Bettino scrisse anche al Papa, pregandolo di intercedere per fargli rivedere la sua Patria prima di morire. Non abbiamo mai saputo che fine ha fatto quella lettera, perché fino alla sua morte non arrivò nessuna risposta, e di questo Bettino soffrì molto. LC: Capisco il tuo rammarico e ancor più come Craxi dovesse sentirsi in quei mesi e anni di declino, lontano da tutto a da tutti. Saper accettare la sconfitta è molto più difficile che saper gestire una vittoria. Pochi hanno saputo fare la seconda cosa, quasi nessuno la prima. Ma già un'altra volta ti
Francesco Cossiga ad Hammamet a colloquio con Craxi.
invitai a non biasimare chi si tirava indietro. Fu nel 1995 se non sbaglio, e mi chiedesti se sarei venuto con te ad Hammamet a incontrare Bettino. Ti risposi, senza pensarci, che si, ci sarei venuto, per te e per quella curiosità che mi divora, ma che non avrei risparmiato a Craxi le mie domande e le mie obiezioni al suo comportamento. Poi non se ne fece più niente, non ricordo per quale motivo ,ma ci ripensai molte volte e mi feci molti scrupoli. Avevo incontrato Craxi non più di qualche volta e sempre con tanta gente, non avevo alcuna familiarità con lui e non ero certo una delle visite che si aspettava. Ma in quegli anni e ancora oggi per molti parlare di Craxi è un po' come fare i conti con la propria coscienza. E molte volte i conti non tornano.
Il fax di Hammamet.
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144 UC: Mi ricordo bene di quell'episodio, fu come
una prova di amicizia cui sottoposi molti. Posso dirti oggi che passasti l'esame, almeno dal mio punto di vista. Certo, Bettino si aspettava altre visite che non ci furono, ma aveva bisogno comunque di tutti, aveva sete di notizie dall'Italia, di parlare con persone che non fossimo sempre noi, pochi fedelissimi. Una delle persone che gli furono piÚ vicine da questo punto di vista fu Francesco Cossiga. Parlavano per ore, di tutto, del passato che avevano condiviso e del futuro che purtroppo non potevano condividere. Cossiga pianse lacrime vere per la morte di Bettino e gli sarò di questo eternamente riconoscente. Per anni il suo unico collegamento, quasi una protesi, furono il fax in casa e il telefonino che portava sempre con se e rigirava continuamente tra le mani come uno scacciapensieri. Lo prendevo in giro per questa sua mania di girare sempre con il telefono in una mano, come se dovesse aspettare una telefonata importantissima, che gli avrebbe cambiato la vita. Purtroppo quella telefonata non arrivò mai. Il tempo ad Hammamet non passava mai, e ogni proposito presto veniva sepolto da un velo di apatia e tristezza. Ognuno di noi credo che pensi spesso a quando avrà tempo per fare le cose che non si ha mai tempo di fare, leggere libri, studiare, vedere film che ci siamo perduti, e tante altre cose. Ma quando si ha tempo, come Bettino aveva,
non hai piÚ voglia di fare niente di tutto quello che ti eri ripromesso. Bettino ad esempio ha sempre amato l'arte, e ad Hammamet cercò di coltivare questa sua passione. Fece una serie di vasi che dipinse personalmente, e che intendeva vendere. Erano anche belli, ma esprimevano tutta la sua tristezza e ama-
Bettino Craxi mentre firma una delle sue opere.
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146 rezza. Su di uno sfondo bianco colavano, come
sangue, macchie di verde e di rosso. I colori della bandiera del suo PaeseChiamo questa opera “L'Italia che piange”. Non credo che ne abbia venduti molti. Si cimentò in molti altri lavori, grafici e artistici, come una serie di cartelle che ritraevano foto e caricature di uomini politici classificati secondo il suo punto di vista: extraterrestri. Io sono un autodidatta, cerco di leggere molto, mi piace ogni forma di arte, ma ammetto che a volte non riesco a capirla. E pensare che mio padre era un grande amante della pittura. Con il riconoscimento dell'invalidità aveva più tempo da dedicare alle sue passioni e l'arte era una di queste. Aveva rapporti diretti e cordiali con tanti della scuola romana, da Attardi a Schifano, Gentilini, Purificato, Turcato, Fantuzzi. A quei tempi molti di loro erano giovani esordienti, non ancora famosi, e mio padre li frequentava, ne comperava le opere. Molte volte, ero ancora un ragazzo, mi spediva da questi pittori per fargli riconoscere ed autenticare le opere. Credo che politica e arte abbiano salvato mio padre dalla depressione, ma per Bettino non è stato così. LC: Quelle giornate ad Hammamet debbono essere state molto lunghe sia per lui che per te. Conoscendo poi i ritmi che sosteneva Craxi prima e la tua impossibilità a stare fermo e concentrato per
più di un'ora, posso immaginarmi quello che poteva succedere. UC: Le ore non passavano mai e ogni piccola novità era una festa, una telefonata, un fax, sempre più rari, una visita. Persino mia madre, quando venne per alcuni giorni a trovarci portò una ventata di allegria. Mia madre avrà visto Bettino non più di tre o quattro volte, al matrimonio di Scilla e alla nascita dei bambini. Quella fu l'unica volta che si fermò per qualche giorno ad Hammamet. Non è donna da stare in soggezione con nessuno, ma si teneva alla larga per non disturbarlo e anche per rispetto di quell'alone di autorità che emanava anche in esilio. A Bettino piaceva molto mangiare, disponeva i posti in tavola secondo un suo misterioso criterio, gli piacevano le zuppe, le minestre e l'arrosto. La prima sera che arrivò mia madre mangiammo riso, ma Bettino lo trovò sciapo e fece sentire tutto il suo disappunto. A quel punto mia madre azzardò la proposta di cucinare lei il giorno dopo, così solo per cambiare la mano. Bettino accettò di buon grado, e all'alba vidi mia madre già al lavoro a tirare la pasta all'uovo per le “frescacce”. Fu un trionfo per tutti i giorni che stette con noi, cambiando menù ogni giorno, con quel tocco romano di mia madre, compreso il cacio cotto e il burro squagliato, per finire con una pasta e ceci da favola. Bettino ne prese due scodelle e sembrava felice.
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Per così poco. Era il periodo in cui stava già sulla sedia a rotelle, a volte lo trovavo silenzioso, con lo sguardo perduto nel vuoto mentre si teneva la testa con la mano, nella sua tipica posizione. Anche mia madre, andando via, capì il suo stato d'animo e mi disse: “E' un grande uomo, stagli vicino. Mette soggezione ma se ci parli ti fa sciogliere e ti mette a tuo agio. Ogni tanti anni deve cadere una testa. Purtroppo questa volta è toccato a lui”. E non lo rivide più. Ma quel giudizio mi è rimasto impresso, con la sua rassegnazione popolare, di chi ne ha viste tante, quella filosofia tutta romana del “ se more un Papa se ne fa un altro”, ma anche con quella generosità d'animo che ancora i vecchi romani hanno. LC: Qualcuno con invidia, qualcuno con affetto ti ha definito il “figlioccio di Craxi”. In effetti sei stato qualcosa di più che un collaboratore fedele, il fotografo personale. Direi un amico. Ma in tutto questo mi sembra che tu abbia trascurato la tua di famiglia, e ancora non mi hai parlato di Laura, tua moglie e di Edoardo, tuo figlio. UC: Laura abitava a Ostia, di fronte a noi, ed era molto amica di mia sorella Scilla. Aveva 17 anni, era una bellissima ragazza, vivace ed intelligente e ne fui attratto subito. A metà degli anni 70, credo nel 1975, mi decido e mi dichiaro, a modo mio ovviamente. Eravamo insieme soli in ascensore e come se fosse la cosa più normale del-
la terra gli dico: “ da oggi sei la mia ragazza”. Lei senza nessuna traccia di emozione mi ribatte decisa: “ E chi sei? Il mio padrone?”. Da li nacque il nostro amore. Ci vedevamo praticamente ogni giorno e qualche volta stavamo insieme anche a casa di amici come Giuseppe Ferrara, il regista, poi in un sottoscala ad Ostiense dove sviluppavo pure le foto e dormivamo su una rete tutta scassata. Nel 1979, con la Renault 4 di mia madre, che nel frattempo era diventata mia, la rete e quattro coperte come materasso ce ne andiamo a Pavona e cominciamo a vivere insieme. Lei dopo il liceo andò a lavorare all'Arci come correttrice di bozze poi entrò nella segreteria del Presidente che allora era Beppe Attene. La nostra è stata una grande storia d'amore, travagliata, difficile, ma piena anche di grandi momenti di felicità. Purtroppo qualche anno dopo le nostre vite presero strade diverse e cominciarono i problemi. Più io andavo avanti con la mia passione per la fotografia che mi assorbiva intere giornate e più la distanza tra noi aumentava. Cominciarono le discussioni, i litigi, e nel 1983 ci lasciammo. Erano i giorni in cui entravo nello staff di Bettino, diventavo il suo fotografo personale. Ero tutto concentrato su quella che già sapevo essere una svolta della mia vita. Lei invece stava facendo un percorso completamente diverso, scopriva il femminismo, contestava le mie scelte che le apparivano come “borghesi” e come cedimenti al consumismo e al potere. Discussioni infinite, tra la politica e il personale, forse in ritar-
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150 do di qualche anno su quello che passarono mol-
te coppie negli anni Settanta. Ci lasciammo e cominciammo a vivere la nostra vita separatamente, ma ci sentivamo spesso. Come spesso avviene dopo la rottura di un rapporto nato da adolescenti e vissuto in modo esclusivo, entrambi ci gettammo nella vita alla ricerca di altre esperienze. Magari anche per dimostrare a noi stessi e all'altro che la vita ci poteva offrire molte altre emozioni. La verità è che queste esperienze il più delle volte non lasciano grandi ricordi, come sbornie notturne, con un grande mal di testa al risveglio. Non tutte naturalmente. La storia più seria fu quella con una persona che chiamerò “la ragazza di Venezia” ma solo per rispetto a lei, che essendosi rifatta una vita non so se gradisce essere citata. La conobbi appunto a Venezia ad un ricevimento. Era amica di molti intellettuali, bella distinta e intelligente. Troppo forse per me, e troppo acerbo forse io per lei. Eravamo e siamo completamenti diversi, lei della buona società, io delle borgate, lei colta e raffinata, io pragmatico dai modi spicci. E fu proprio questa differenza, questa lontananza siderale che ci avvicinò inesorabilmente come due poli magnetici contrari si attraggono. Ero affascinato dal suo cervello, oltre che dal suo corpo. La vissi come una sfida, una scoperta di un nuovo mondo. Lei invece fu attratta dalla mia follia, dal mio modo anticonvenzionale di rapportarmi con gli altri, potenti e po-
vera gente, intellettuali e ignoranti. A quei tempi era fidanzata con un ragazzo molto simile a lei, un rapporto molto cerebrale. La nostra fu invece una attrazione fisica, materiale, spontanea, animale prima ancora che mentale. Cominciammo a vederci di nascosto, poi lei ne parlò al suo ragazzo, e decidemmo che si sarebbe trasferita a Roma e saremmo andati a vivere insieme. La notte di capodanno del 1983 la passammo a Roma da soli, camminando ore e ore scalzi e passando da una festa all'altra. Era pazza di gioia e io con lei. Si sentiva libera, faceva cose folli che non aveva mai fatto in vita sua, ed io ero il suo anfitrione. Ma poi avvenne una tragedia che cambiò tutto. Una mattina telefonò a Venezia, le rispose la cameriera e sconvolta la informò che il suo ex ragazzo si era impiccato lasciando una lettera per lei. Tentai in mille modi di difendere il nostro amore, ma il suo dolore e il senso di colpa furono più forti della ragione. Mi accusò di averla portata sulla cattiva strada, di essere in qualche modo colpevole di quel suicidio. Tornò a Venezia, poi cercò di fuggire, pensò addirittura di andare ad insegnare in Somalia. Come sempre anche dopo le peggiori tragedie la vita prende il sopravvento e la ruota ritorna a girare. Si è sposata, ha una figlia, ma la nostra storia finì e forse non poteva essere altrimenti. Dopo tanti anni ci siamo rivisti, ho conosciuto sua figlia e ci sentiamo spesso.
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Laura nel frattempo viveva con una sua amica ed io mi ero trovato un appartamento a Casalbertone. A quel tempo vidi varie volte il Cardinale Joseph Ratzinger, il futuro Papa, allora Vescovo di quella diocesi. Lo ricordo perché aveva un GT nero ed io bianco, e ne andavo molto orgoglioso. In verità debbo confessare che lo venni a sapere perché un giorno lo aveva parcheggiato vicino all'entrata del garage dove mettevo io la macchina e non potendo entrare chiesi spiegazioni. Ma torniamo al racconto. Riprendemmo a vederci con Laura e nel 1985 rimase incinta di Edoardo che nascerà l'11 dicembre dello stesso anno. Le proposi di rimetterci insieme ma lei non volle accettare, non si sentiva ancora pronta. Decisi allora di lasciarle il mio appartamento a Casalbertone e mi spostai a Piazza Sallustio, vicino a Piazza Fiume. Per tutta la gravidanza e il primo anno di vita di Edoardo vivemmo separati ma praticamente insieme. Finalmente nel 1987 ci riunimmo e lei e mio figlio si trasferirono a casa mia. Per la prima volta nella mia vita ebbi la sensazione di avere una famiglia “normale”, mi feci avvolgere dalle nuove sensazioni di padre, ogni mattina prima di scappare da Craxi accompagnavo Edoardo a scuola a Via Tevere, Laura trovò un impiego alla Confcoltivatori in via Fortuny, vicino allo stabilimento della Birra Peroni dove aveva lavorato per anni mio nonno. Pensa che c'era un vecchietto che vendeva grattachecche che si ricordava ancora di mio nonno e mi raccontava sempre un
episodio divertente. Mio nonno ogni giorno usciva con un carrettino pieno di ghiaccio e a forza di braccia girava per Roma a consegnarlo ai clienti. A quel tempo le lastre di ghiaccio erano l'unico “frigorifero” per conservare le vivande. Molto spesso mio nonno si faceva accompagnare da mio padre, ancora bambino, lo metteva sopra al carrettino e se lo portava in giro con lui. Di soldi non ce n'erano e mio padre stava senza scarpe seduto al freddo vicino al ghiaccio. Una signora bene un giorno li vide in Via Alessandria e rivolta al marito disse “O poverino, senza scarpe”. “ Ma fateve li cazzi vostri” fu la risposta di mio nonno e il vecchietto ogni volta che lo raccontava ne rideva di cuore mostrando le gengive ormai senza più denti. LC: Nel 1991 Bobo e Scilla si sposano, ma da li a poco finisce definitivamente il tuo rapporto con Laura. Una specie di anteprima personale di quella bufera che si abbatterà un anno dopo sulla tua vita pubblica e lavorativa. UC: Più che un'anteprima è stata una concatenazione di eventi, distinti ma collegati tra loro. Il mio rapporto con Laura risentiva ovviamente della nostra vita assai diversa, dei miei continui spostamenti, delle mie frequenti assenze per motivi di lavoro. Ma questo forse sarebbe stato superabile con un po' di buona volontà e tanta pazienza da parte di tutti e due. Purtroppo l'inizio di Tangentopoli, nel febbra-
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154 io del '92, coincide anche con una grave malat-
tia del padre di Laura. In quei giorni mi arriva anche l'avviso di garanzia e il giorno in cui mi debbo presentare dal Gip e non posso stare con Laura in ospedale, il papà muore. Laura è sconvolta, arrabbiata per la mia assenza e la sera stessa se ne va da casa. Cerco di starle vicino ma non me lo permette, per qualche giorno non so neanche dove rintracciarla. Dopo circa un mese torno a casa e ho come l'impressione che sia stata svaligiata dai ladri. Laura era tornata e si era portata via mio figlio, i vestiti e anche qualche mobile. Furono momenti terribili, il mio mondo si sgretolava come un castello di carte. Laura, mio figlio, Bettino, il mio lavoro. Nulla sarebbe stato piÚ come prima. Mi metto a caccia di mio figlio e dopo qualche tempo riesco a sapere che vivono a Nuovo Salario. Mi presento e cerco di farla ragionare. Laura non vuole sentire ragioni, infierisce su di me e sul mio lavoro, arriva persino a sottrarmi alcune agende per consegnarle ai magistrati che stavano indagando su di me. Lei sapeva tutto del mio lavoro e aveva condiviso molte delle mie scelte professionali. Era ancora l'amministratrice della mia società fotografica, la Cekap. E' decisa a separarsi e alla fine, con l'assistenza di un suo avvocato arriviamo ad una separazione consensuale. Ti dico solo che l'avvocato aveva chiesto per Laura 280mila lire al mese di assegno di mantenimento ma io decisi di darle un milione e mezzo. Stabiliamo anche quei maledetti turni nei quali mi viene consentito di
vedere mio figlio. Finisce così il sogno di una famiglia unita e comincia la triste storia di una coppia separata che si contende il figlio. In realtà Edoardo viveva con lei, ma cominciava a crescere e anche per lui la separazione fu un grande trauma di cui ancora oggi stiamo tutti pagando le conseguenze. LC: Caro Umberto, , questa nostra lunga chiacchierata sta per concludersi, Ho l'impressione che entrambe siamo un po cambiati, ci conosciamo meglio e mi auguro che anche chi leggerà questo libro possa ricavarne qualche utile riflessione. Ma purtroppo in questi giorni la vita di Bettino Craxi è tornata all'attenzione generale, ma non per la sua opera di politico e statista, ma per le confessioni di due signore che raccontano a Bruno Vespa i loro rapporti privati con Craxi. UC: Cosa vuoi sapere, le amanti di Bettino? Lo so, tu mi fai questa domanda perché in questo momento è un argomento di moda per un "giornalismo" chiamato "vespismo". E cito Maurizio Dianese che nel suo libro "Mala Tempora" Ed. Aliberti; dice:" La politica in Italia è ferma ancora al Minculpop"..e cita P.J.Goebbels dicendo che la propaganda è come l'Arte, non ha bisogno della verità, in riferimento ad un tipo di giornalismo bieco. Ne io ne te viviamo di gossip, non mi è mai interessato, soprattutto quando da leggero passatempo, diventa invasione meschina e poco rispet-
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156 tosa, nella storia di qualcuno che ormai è passato
a "miglior vita". Meno male, che i tanti giornalisti che conosco, compreso te non considerano giornalismo colto il "vespismo". Nemmeno i giornali di vero gossip si abbassano a lucrare su intime storie di personaggi, sicuramente non sono vespe che si posano sui morti! Le amanti di Bettino? Affari suoi!
LC: Troppo semplice amico mio. Quella di Vespa sarà anche una speculazione, ma uno statista, un uomo politico, sa che la sua vita privata un giorno o l'altro diventerà pubblica, nel bene e nel male. Così è stato per Re e Regine, per Capi di Stato e Primi Ministri, per Generali e Condottieri. Quindi non te la puoi cavare con le battute, anche se le capisco e ne capisco l'irritazione. Non ho conosciuto Craxi affondo come te, ma sinceramente le confessioni delle sue amanti non tolgono nulla alla sua figura di statista. Tolgono invece molto alle sue amanti, tolgono la dignità del silenzio, il rispetto per un amore perduto. E in questo caso permettimi di difendere una categoria a cui non appartengo, quella dei giornalisti. Chiedere, indagare e informare è il primo compito di un giornalista, a cui troppo spesso invece qualcuno viene meno per interesse o per opportunismo. Ti confesso che se le due signore avessero parlato con me avrei reso pubbliche le loro parole come ha fatto Bruno Vespa. Prova a riflettere su questo, fuori dal tuo amore per Bettino e prova anche a pen-
sare a come avrebbe reagito lui. Vedrai che ti verranno altre parole. UC: Le tue parole sono molto belle, in parte condivido. Quando uscirà il nostro libro, ho già una nuova e bella idea da sviluppare con te ed è un libro sul Craxi privato. Posso però aggiungere che capisco che il figlio Bobo se la prenda con Vespa. E accetto anche che Bruno Vespa risponda a Bobo attraverso i giornali dicendogli che il consenso lo aveva avuto da Stefania. Io aggiungo questo: ma come, per anni la figlia Stefania ha ricattato e minacciato il padre per le sue amanti in cambio di contratti con la RAI e Mediaset e oggi a distanza di sette anni dalla sua morte dà il consenso alla pubblicazione delle interviste delle amanti Ania e Patrizia. Quali interessi ha oggi Stefania per dare il consenso a sputtanare il padre ai danni di sua madre? LC: Va bene, lasciamo questi aspetti privati al prossimo libro. Non ci resta che presentare nelle pagine che seguono alcuni stralci di quel prezioso archivio che hai protetto per tanto tempo, che ti è costato fatica e dolore, e che ora, con la tua Fondazione intendi rendere disponibile a tutti coloro che vorranno saperne di più su quegli anni e sulla figura di statista e di uomo di Bettino Craxi. Buona fortuna.
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l’archivio Craxi
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Una lettera di Vittorio Craxi, padre di Bettino.
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Lettera di Giuseppe D’Alema, padre di Massimo.
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Lettera di Giulio Andreotti.
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Lettera di Giuliano Amato.
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Lettera di Silvio Berlusconi.
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Lettera di Sandro Pertini.
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Lettera di Francesco Cossiga.
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Lettera di Franco Bassanini.
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Lettera di Jimmy Carter.
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Lettera di Edoardo Agnelli.
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Lettera di Piero Fassino.
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Lettera di Edgardo Sogno.
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Lettera di Marco Pannella.
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Lettera di Enver Hoxha.
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Lettera di Falcone Lucifero.
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Lettera di Giorgio Napolitano.
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Lettera di Giorgio Napolitano.
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Lettera di Giovanni Spadolini.
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Lettera di Valentino Parlato.
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Lettera dell’allora rappresentante dell’Unione Sovietica.
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186
Lettera di Craxi a Domenico Sica.
187
Lettera di bettino Craxi a Umberto Cicconi.
188
Lettera di Marco Boato.
189
190
Lettera di Gerardo Chiaromonte.
191
192
Umberto Cicconi nel ‘74 a Ostia.
193
indice
ai lettori di Cinzia Leone
senza mezze misure di Luciano Consoli
5 9
il cappotto
15
il mio partito
43
la mia veritĂ
69
ma non è cambiato niente
109
il mondo che verrĂ
129
194