Segretiemisfatti1

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Editor Angelo Ruggieri

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SEGRETI E MISFATTI gli ultimi vent’anni con Craxi Ricordi di Umberto Cicconi

© Copyright 2005 SAPERE 2000 edizioni multimediali srl Roma

2005 2


Le foto sono pubblicate su concessione dell’Archivio ALLORI

A mio figlio Edoardo, a mio padre e a Bettino Craxi

Ringrazio Nadia, mia adorata compagna, per avermi spronato a raccontare queste memorie e per avermi sostenuto alla loro elaborazione

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INDICE

Prefazione di Antonio Ghirelli Questo libro di memorie, scritte e fotografiche, ‌ Biografia di Benedetto Craxi, detto Bettino Indice nomi

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Avvertenza Le didascalie alle foto indicano i nomi dei personaggi sempre da sinistra a destra.

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PREFAZIONE di Antonio Ghirelli

Questo è un libro singolare, per non dire straordinario, essenzialmente per due ragioni: perché è scritto da un fotografo, che di solito usa la “camera” e non il computer; e perché non è un “gossip”, cioè un lungo pettegolezzo di uno dei soliti paparazzi romani, ma una lunga lettera d’amore. Umberto Cicconi rievoca gli ultimi anni di Craxi, il trauma del suo processo e del suo declino politico, la tragedia del suo esilio e della sua sempre più grave malattia, non come un curioso, un testimone o un cronista, meno ancora con il distacco di uno storico o di un politologo. Rievoca quegli ultimi, terribili anni del “leader” socialista, semplicemente come un amico. L’origine, la spiegazione di questo strano rapporto tra un grande uomo politico, un protagonista della storia del Novecento, ed un semplice ancorché valentissimo fotografo, sta nella natura e spontanea ed anarchica di Umberto Cicconi. Il quale si è accostato a Bettino dapprima con diffidenza, anche per l’approccio brusco e sbrigativo che Craxi riservava a tutti i suoi ospiti, ma poi – da quel giovanotto intelligente e sensibile che è – dietro quei modi ruvidi, ha intuito che si nascondeva un’indole timida e, facendo leva su quell’indole, ha conquistato la fiducia, anzi la confidenza del gigante milanese che, nonostante il suo strepitoso talento politico, era in realtà ingenuo e romantico come il suo eroe preferito, il generale Garibaldi. 5


Il lettore estraneo alle alchimie della prima e della seconda Repubblica, si stupirà forse di qualche giudizio poco rispettoso o addirittura severo che Umberto riserva a quest’avversario o quel collaboratore di Craxi. Non equivochi, per carità: Cicconi non esprime una valutazione sua o, tanto meno, del suo illustre Amico, ma soltanto il dolore per l’ingiustizia o addirittura il tradimento di cui, secondo lui, taluni personaggi si sono macchiati nei confronti del nostro insostituibile Segretario. D’altra parte, non è certo l’aspetto politico del dramma di Bettino che prevale nei ricordi del suo fotografo “personale” (e non “ufficiale!”), ma quello umano, che in effetti è stato infinitamente più struggente perché il fallimento del lungimirante progetto di modernizzazione che Craxi incarnava, è stato accompagnato da vicende devastanti sotto l’aspetto psicologico e perfino fisico, dal suicidio dei nove imputati socialisti o vicini al partito, alla decomposizione del partito stesso, dall’abbandono dell’Internazionale alla crudele necessità del rifugio ad Hammamet, fino alla tormentosa, straziante agonia degli ultimi mesi, prima della morte repentina che si consumò senza la presenza della sua dolce e fedelissima compagna, Anna, casualmente lontana da Tunisi anche se, fortunatamente, sostituita dalla figlia Stefania. Il ritratto che questo scrittore dilettante traccia del suo Amico è magistrale nella misura in cui Umberto sa delineare i tratti più affettuosi e imprevedibili di Craxi, le sue piccole manie, la sua impareggiabile capacità di cogliere l’essenziale di una situazione o di un problema e, al tempo stesso, la solitudine – che era insieme quella del Capo assorto nel suo piano e dell’uomo semplice incapace di mentire o di controllarsi. Chi ha avuto, come me, il privilegio di lavorare per sette anni a contatto con il “premier” del migliore governo della Repubblica dopo quello di Alcide De Gasperi, riconosce in molte delle pagine, delle osservazioni, delle memorie di Umberto Cicconi, l’im-magine di Bettino come è stampata nel mio cuore, anche se il fotografo “personale” del Presidente mi cita soltanto di sfuggita, e non già perché sottovaluti la mia funzione di portavoce di quel governo e di quel “premier” ma semplicemente

perché io, come Umberto, non facevo politica, servivo un’idea e un compagno a cui mi legava non un’ambizione ma un impegno fraterno di ammirazione e di devozione, ancora più forte ed intimo di quello che mi aveva legato a Sandro Pertini. E con me, proprio come con Cicconi, Craxi aveva stabilito un rapporto di amicizia schietto, privo di dubbi e di reticenze, spesso scherzoso, sempre attentissimo ai miei problemi e ai miei sentimenti anche familiari, un rapporto rimasto inalterato fino al suo ultimo respiro. Tanto che, poche settimane prima di lasciarci, in replica ad un mio caloroso e nostalgico saluto espresso via fax, mi rispose in modo toccante: “Tu sei uno dei mille – mi scrisse – che non hanno tradito”. Questo libro di Cicconi aiuterà il gentile lettore a penetrare più a fondo la crudelissima vicenda che ha colpito, attraverso la persona e la vita di Craxi, non solo decine di dirigenti del partito Socialista, ma centinaia di migliaia di militanti che nella storica sfida del nostro Segretario su un socialismo democratico e liberale avevano scommesso tutta la loro passione civile e talora le loro modeste ambizioni personali. Umberto coglie, in qualche modo, i tratti essenziali del tramonto amaro ed ingiusto di Bettino come ha fatto, naturalmente in una chiave del tutto diversa, da memorialista storico e politico, il compagno Lelio Lagorio, già ministro della Difesa nel “nostro” governo e vicino al Segretario anche nella fase calante della sua fortuna. Basta riflettere al pauroso declino politico, economico e culturale che ha segnato gli ultimi dieci anni della nostra storia, per rendersi conto che l’amara ingiustizia patita da Craxi si è risolta in una perdita secca ed irreparabile per tutto il Paese. Roma, aprile 2005

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Questo libro di memorie, scritte e fotografiche, non intende essere un j’accuse contro nessuno, né giudicare eventi e personaggi. Vuole solo ricordare e precisare, a chi ha vissuto inconsapevole quel periodo storico, e a chi, poi, ne ha solo sentito parlare, come sono andate realmente le cose. Ma, al di là delle situazioni e delle decisioni politiche, voglio parlare di Craxi dal punto di vista umano: finora nessuno ne ha mai tenuto conto e non sarebbe giusto che quell’eredità – che appartiene a tutti gli italiani – andasse perduta.

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un cittadino qualsiasi.

Provo sempre un grande dolore, quando talvolta, sento definire Bettino con superficialità e luoghi comuni da uomini, che hanno occupato posti di primo piano nelle istituzioni. È ingiusto, perché chi lo ha conosciuto non può non averne rilevato la generosità e la nobiltà d’animo, la coerenza e la fedeltà ai propri ideali, il rispetto per gli avversari politici. Un tempo lo temevano tutti e ne lodavano le gesta, forse anche esagerando. Adesso che è morto tutti lo giudicano e molti lo criticano. Ho seguito Bettino Craxi per più di vent’anni, non perdendolo mai di vista, osservandolo minuto per minuto attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica. Con lui ho girato il mondo in lungo e in largo, almeno una mezza dozzina di volte. Capi di Stato e gente comune si esaltavano sentendolo parlare. Nella gloria e nella disgrazia ho sempre visto lo stesso uomo. Lui, invece, credeva che, ormai in esilio, io non lo stimassi più come una volta. Non dubitava del mio affetto, ma temeva che non lo considerassi più come un condottiero. E se ne dispiaceva. Lo confidò a Anna che me lo riferì. Un giorno finalmente affrontai l’argomento e gli dissi che, essendo per me la dignità la dote fondamentale in un uomo, lo stimavo più nel travaglio di Hammamet che nella gloria di Palazzo Chigi. E poi, qualsiasi cosa succedesse, per me era sempre Bettino, come tutti lo chiamavano. Non ho mai sentito nessuno chiamarlo Craxi, presidente o onorevole. La gente lo considerava uno di loro, perché si comportava come

Fu l’unico leader a contestare il predominio economico-politico di Gianni Agnelli nella politica italiana. In democrazia non esistono imperatori. È arrivato il momento che l’Avvocato scenda dal trono. E per farlo, personalmente o attraverso la politica, si impegnò per far sì che arrivassero sulla scena economica nuovi soggetti. E fu anche il solo a mettere in riga un Presidente degli Stati Uniti, non perché fosse anti-americano – anzi, era un ammiratore di quel popolo e del loro sistema – ma perché non voleva che l’Italia prendesse ordini dagli USA, come da nessun’altra potenza. Un uomo simile diventa pericoloso perché, sul suo esempio, molti si renderebbero conto, poi, di poter capire e decidere con la propria testa e soprattutto di poter difendere davanti a chiunque dignità, convinzioni e autonomia di pensiero. Bettino era uno statista che agiva nell’interesse del paese e che, quindi, qualcuno avrebbe avuto prima o poi la convenienza ad eliminare. Poi, quando era ormai al tappeto, si sono accaniti in tanti contro di lui, per accodarsi ai nuovi potenti: piccoli uomini che la generosità di Bettino aveva aiutato a emergere e che solo qualche mese prima gli avevano giurato fedeltà ed eterna riconoscenza. Ma appena intuirono che il loro leader era caduto in disgrazia, non esitarono a colpirlo anche loro. Anzi, si accanirono per accampare meriti presso il nuovo principe, senza neppure sapere chi sarebbe stato. A ucciderlo furono incomprensione e ingiustizia, rimpianti e solitudine, che scatenarono tutti i mali divenuti, poi, mortali. Aggredito dal diabete e dai conseguenti problemi fisici ed esistenziali, si era ridotto a vivere fantasticamente le sue passioni umane, persino attraverso la mia vitalità, così diceva lui. Andato tutto alla rovescia: era come se la vita stessa si fosse messa contro di lui. Se avesse mantenuto la promessa di candidare Mario Chiesa alla Camera perché godesse dell’immunità parlamentare, oggi probabilmente ci sarebbe ancora la Prima Repubblica. Purtroppo non lo fece, e fu l’inizio della fine. Poi ebbe un’altra occasione per neutralizzare 8


Tangentopoli: bastava rispondere all’appello che Mario Chiesa gli rivolse dal carcere. Ma uno stupido orgoglio e la testardaggine furono gli alleati migliori dei suoi nemici. Lasciò solo Chiesa, dopo che questi per 17 giorni si era rifiutato di parlare col magistrato. Anzi, lo definì pubblicamente un mariuolo. Nel momento che Mario Chiesa lo seppe – anzi, lo lesse addirittura sui giornali – ormai solo e disperato, vuotò il sacco e mezza Milano finì a San Vittore. Per sei lunghi anni nelle notti insonni dell’esilio, Bettino e io, abbiamo rievocato circostanze e incontri, dialoghi e accordi con personaggi di cui si fidava ciecamente e che, poi, gli si sono rivoltati contro. Perché? Non si stancava di chiedersi. Nonostante la grande intelligenza e l’acume politico, era un naïf, sempre disponibile e gentile con tutti e, soprattutto, pronto a fidarsi degli altri. Diceva che la diffidenza era un lusso troppo caro, perché aveva un costo troppo elevato in quanto a dispersione di energie. Tutto considerato era meno faticosa l’ingenuità e, quindi, più conveniente rischiare di prendere qualche fregatura. Dietro la maschera in apparenza burbera dello statista – essendo sempre accigliato nell’espressione, ma non nell’animo – si nascondeva un uomo colto, sensibile e romantico, persino un po’ timido. Eppure, col suo metro e 90 d’altezza e la corpulenza incuteva soggezione a chiunque, specie quando si arrabbiava. Ma gli durava qualche minuto: si inteneriva subito e tornava a ragionare pacatamente. In realtà, era un uomo mite e affabile. I miei migliori amici oggi sono quelli che una volta furono miei avversari politici. Per me è molto triste che i pochi amici veri mi abbiano abbandonato, concludeva, rivangando i ricordi. Poi, aggiungeva: Ma tanto, anche se non mi avessero tradito, per me era finita ugualmente. Almeno si sono salvati loro e i loro figli. Trovava sempre una giustificazione per tutti, e ben presto perdonò anche chi gli aveva voltato le spalle. Del resto, poveretti, che cosa avrebbero potuto fare per me, ormai? In effetti, se si fossero ribellati sarebbero stati forse schiacciati anche loro. Si sono quindi accodati, scodinzolanti, al nuovo potere,

senza pensare, per non avere problemi, e soprattutto per non crearne. Era questa la sua grande pena: appena partito per l’esilio tutto era tornato apparentemente come prima, come se lui non ci fosse mai stato, come se il Craxismo non fosse mai esistito. E pensare che aveva sempre cercato di cancellare il concetto di Craxismo, perché era contrario al culto della personalità e convinto che dovesse esistere solo il Socialismo. Concentrando tutto su di me, mi spiegava, quando non ci sarò più io, non ci sarà più neppure il Socialismo, che, invece, deve sopravvivere a qualsiasi cambiamento. Ma così purtroppo fu: con lui morì anche il PSI. Fu sacrificio crudele. Così, in solitudine, tra rimpianti e delusioni, rabbia e sofferenza, il più grande animale politico italiano del ventesimo secolo ha trascorso gli ultimi anni di vita. Clinicamente morì per collasso cardiaco. In realtà di crepacuore. Non ce la faceva più a respirare e ogni volta che cercava di ricordare gli ultimi episodi, che avevano segnato la sua vita, respirava con maggiore difficoltà. Bettino sapeva tutto sulla sua salute ed era sereno, non per rassegnazione, ma perché cosciente che, lontano dall’Italia, la sua vita ormai non aveva più senso. La morte era l’inevitabile conclusione, la più dignitosa possibile, di un percorso politico manipolato e deviato, non dal destino, né dai propri errori, ma dagli uomini, proprio da coloro che pretendevano di succedergli alla guida del Paese e degli italiani. Talvolta, invece, era pieno di rabbia perché convinto che il male fosse insorto nell’essersi reso conto che gli avevano precluso per sempre la possibilità di fare politica. Fu in quel preciso momento che, in realtà, aveva finito di vivere. Per lui non contava né il prestigio del passato, né l’impietoso declino cui era costretto, e neppure la sua stessa vita, convinto com’era che un giorno a giudicarlo più imparzialmente sarebbe stata la Storia. La morte sopraggiunse il 19 dicembre del 2000, un mercoledì pomeriggio, tra le 16 e le 17. Ad accorgersene fu la figlia Stefania, che era arrivata proprio quella mattina ed era la sola persona di famiglia a trovarsi a Hammamet in quel momento. Anna era partita 9


per Parigi il giorno prima con una amica. Appresa la notizia della morte del marito non fece a tempo a rientrare a Tunisi la sera stessa. Arrivò l’indomani. Neppure da Roma c’erano più aerei per Tunisi, e grazie a Silvio Berlusconi, che ci mise a disposizione il proprio aereo, Bobo Craxi e io riuscimmo a partire subito. Con noi vennero anche mia sorella Scilla, moglie di Bobo, il marito di Stefania Craxi, Marco Bassetti, Massimo Pini, Tony Renis e Nicola Mansi. In aereo tutti ci guardavamo senza parlare. Rimuginavo tra me e me le ultime telefonate di Bettino; rimuginavo sulla telefonata della sera precedente alle 2 di notte. Con una voce da oltretomba mi pregava di raggiungerlo il più presto possibile. Dovendo sbrigare un servizio per lui, gli promisi che sarei arrivato l’indomani sera. La mattina alle 10,30 mi richiamò al cellulare ma la linea cadde. Subito lo richiamai, e mi rispose Hamida, aiutante di casa, Umberto, il Presidente non ce la fa più a parlare e mi dice di arrivare subito qua. Corro all’aeroporto di Fiumicino, ma il volo per Tunisi è già partito. Richiamo Hammamet e risponde Stefania, che mi riferisce che è affaticato e sta riposando. L’avverto: Digli che arriverò più tardi. Richiamo verso le 14,30, il telefono squilla ma non risponde nessuno. Dopo circa un’ora mi arriva una telefonata: Il Presidente è morto. La morte fu una liberazione perché viveva ormai senza un rene, asportato per cancro, col fegato mal ridotto e i polmoni che funzionavano appena al 30%, il diabete. Soffriva di tante menomazioni fisiche, ma era soprattutto deluso. Alla fine era un uomo solo e triste, consapevole dell’irrimediabile solitudine per un’esistenza incompiuta, attorniato dalle poche persone che lo amavano. Nonostante l’affetto e il solido legame che univa l’intera famiglia, non era facile per moglie e figli capire Bettino, che viveva in una dimensione

diversa. Il suo pensiero viaggiava a un’altra velocità, grazie anche alla rara e non comune sensibilità. Mi voleva sempre vicino perché con me poteva recriminare e sfogarsi senza vergognarsi, né apparire uno sconfitto. E poi, perché sapeva che lo conoscevo bene ed ero in grado di percepire qualsiasi sfumatura del suo pensiero, umano e politico. Lo consideravo una vittima sacrificale, quindi addirittura un vincitore, seppure in disgrazia. E poi, gli dicevo sempre ciò che pensavo. Gli piaceva che mi dividessi tra l’Italia e la Tunisia in modo da osservare per suo conto. Era un uomo curioso. Voleva sapere tutto: che cosa succedeva a Roma, com’era ridotta la sua Milano, quali erano i pettegolezzi a Montecitorio. Talvolta ero tentato di mentirgli per non deluderlo, per non farlo soffrire, ma non ci riuscivo. La misura di quell’uomo era talmente grande che mi sarei vergognato a sminuirla con la pietà. Mi apprezzava per questo, oltre ad essere l’unica persona, che non fosse suo familiare, a non averlo tradito. Mi considerava come il suo terzo figlio. Quanta gente, che sapevo beneficiata da Bettino, è venuta a propormi montagne d’oro perché lo abbandonassi, perché – senza neppure doverlo accusare – gli voltassi le spalle. Quanti, magistrati e politici, mi hanno interrogato e teso tranelli. Mi hanno incalzato in tanti, quasi tutti, con promesse o minacce. Ma perché? si chiedeva, raccontandogli di quegli incontri. Come potranno un giorno sostenere il mio sguardo? Come oseranno guardarmi in faccia? Aveva ricevuto una grande delusione dall’Amicizia. E pensare che era il sentimento nel quale Bettino credeva di più, il legame che riteneva più resistente al tempo e agli eventi. Infatti, nessuno di costoro – ex amici o presunti tali – venne mai a trovarlo a Hammamet. Anche sulla sedia a rotelle, ormai gravemente ammalato e quindi innocuo, incuteva ancora rispetto e soggezione. Chi lo aveva tradito venne a piangere solo sulla sua tomba, nel momento che non metteva più paura, quando il suo sguardo, ormai spento, non poteva più accusare le loro coscienze. Quasi tutti vennero a Tunisi, apparentemente a 10


rendere omaggio alla salma (foto 1), in realtà per spartirsi l’eredità politica, cioè per contendersi qualche voto – miseri loro – e qualche eventuale poltrona. Pur disperandosi per l’ingiustizia che gli veniva imposta, aveva finito con l’accettare la decisione dell’establishment di emarginarlo. La Politica e la Storia, come la vita, sono fatte di cicli. Il suo si era concluso. Chi lo avrebbe mai pensato appena qualche mese prima? Il Craxismo sembrava incrollabile ed eterno. Ma il ciclo del potere è inesorabile: prima o poi si conclude inevitabilmente per tutti. A un cerFOTO 1

to punto della storia repubblicana era arrivato il momento di emarginare Craxi, uomo molto volitivo, dal grande carisma e dalla personalità troppo esuberante. Per di più era stato irriverente verso l’establi-shment politico ed economico internazionale. Aveva detto di no a chi è abituato a dettare al mondo la propria volontà. Aveva sempre agito nell’interesse dell’Italia. Sognava di portare il Paese a un livello di prestigio più elevato, non per nazionalismo o sciovinismo, ma perché convinto che, grazie alla nostra storia e alla ricchezza artistica e umana, meritassimo maggiore considerazione nel mondo. Mentre le grandi potenze esportano armi, petrolio e materie prime, Bettino voleva che l’Italia le superasse esportando cultura e civiltà. Non c’è ragione al mondo, che possa far fallire un disegno politico criminale, se c’è l’accordo di tutti. La sentenza purtroppo è inappellabile e inderogabile. Se ne rendeva conto, ma non capiva, né accettava il tradimento. Lui era un uomo leale come pochi, non solo per virtù, ma perché convinto che la viltà rivelasse un complesso di inferiorità dal quale rifuggiva. Per di più si rendeva conto, che per colpire lui, si affondava la politica e l’economia del Paese. Ricordava con grande commozione le parole di Felipe Gonzales, nel momento in cui, anche lui, dovette lasciare la politica: Io me ne vado. Ma, per carità, non distruggete la Spagna come hanno fatto gli italiani con l’Italia. Il progetto di eliminare Bettino dalla politica era nato tanti anni prima, col caso Achille Lauro del 1985. Aspettavano il momento più propizio per mettere in pratica il disegno. Il litigio di Bettino con Giulio Andreotti fu l’occasione favorevole: presero due piccioni con una fava. Oltre a lui eliminarono anche Andreotti, cioè i due filo islamici della politica italiana. Nessuno dei due, però, era antisemita, né contro lo Stato di Israele. Tanto più che Bettino era grande amico di Simon Perez. La politica filo araba di Craxi e Andreotti – ma anche dei loro predecessori, sia democristiani che laici – era, in realtà, una scelta di convenienza, non personale ma 11


nell’interesse dell’Italia. Le simpatie italiane verso il mondo arabo erano suggerite dall’interesse di Stato. La saggezza e il buonsenso suggerivano allo statista di esse(FOTO 2)

re dalla parte del mondo arabo, senza tuttavia penalizzare lo Stato di Israele né mettere in dubbio il suo diritto ad esistere. Uno statista europeo deve essere filo islamico per la semplice ragione che Israele non esporta il terrorismo, diceva a Simon Perez. Grazie a questa scelta politica, infatti, l’Italia è stato l’unico paese occidentale a essere risparmiato dal terrorismo islamico. Il fine ultimo della politica estera e della politica in generale non è prendere le parti di chi ha ragione, ma assicurare il benessere e l’incolumità del proprio popolo. Per di più, essendo Andreotti e Bettino (foto 2) due uomini politici lungimiranti, si preoccupavano che il conflitto mediorientale potesse scatenare ancora una volta nella società occidentale un antisemitismo ormai sopito, perché sepolto dall’incubo dell’olocausto. Secondo Craxi, non erano i musulmani i nemici atavici degli ebrei, non essendo l’Islam antisemita. Anzi, gli arabi sono sempre stati amici degli ebrei sin dalle persecuzioni cattoliche del XV-XVI secolo. Nessuno lo capì e a eliminare Craxi furono proprio certe lobby internazionali. A eliminare Giulio Andreotti, invece, fu la stessa DC. Il primo fu accusato di intascare tangenti, l’altro di complicità con la mafia. E pensare che Andreotti fu a un passo dal diventare Capo dello Stato, ma l’establishment dispose che non dovesse diventarlo. La DC aveva deciso che Craxi andasse al Quirinale, Arnaldo Forlani a Palazzo Chigi e Ciriaco De Mita alla Farnesina (foto 3). Se Bettino avesse accettato, probabilmente non sarebbe successo il cataclisma; sarebbe sopravvissuta la Prima Repubblica e lui sarebbe ancora vivo e forse al potere. Il fatto è che lui voleva far politica: la funzione di Capo dello Stato, garante delle istituzioni, al di sopra delle parti, non lo eccitava. Non era fatto per quel ruolo. Lui era proprio un uomo di parte, nato per progettare strategie. Nei sei anni che ho trascorso accanto a lui nell’esilio di Hammamet ho imparato tante cose, molte di più di quelle che mi aveva trasmesso mentre era alla guida del partito e del governo, nel tempo 12


del suo potere. Fu in esilio che scoprii molte delle sue doti umane. Ha cercato di travasare in me parte della sua grande esperienza. E fu proFOTO 3

prio alla fine della sua vita che lo apprezzai maggiormente. È stato soprattutto nei momenti critici che ne ho rilevato il coraggio e la lealtà e quindi la grandezza dell’uomo. Nessuno sa, per esempio, che – forse senza neppure rendersene conto – era un po’ invidioso di Claudio Martelli. Gli invidiava la vasta cultura e la capacità di mediazione. Anche se non riscontrava ancora in lui la statura del leader, temeva che, essendo Claudio più giovane, prima o poi lo avrebbe superato. Ma non tentò mai, per questo, di ostacolarlo. Anzi, lo privilegiò e lo protesse sempre, in difesa di una meritocrazia nella quale credeva fermamente. Nei primi tempi si vergognava dell’esilio e della spietata condanna di doverci trascorrere il resto della vita. La moglie e i figli si illudevano che prima o poi l’Italia avrebbe avuto bisogno di Bettino, e amici e compagni che lo avevano tradito si sarebbero pentiti e ravveduti. Pur essendogli rimasta ancora la speranza o l’illusione di tornare, prima o poi, in auge, in cuor suo sapeva che il destino era ormai segnato. Interpretava ogni tanto in famiglia il ruolo dell’uomo forte, come se quella condizione di cattività fosse passeggera. Ma fingeva, solo per sollevare le pene di chi lo accudiva con tanto amore. Parlava allora dei grandi uomini che avevano deciso la Storia dell’umanità, poi emarginati. A me, invece confidava che i protagonisti sono quasi sempre vittime di congiure definitive: Cesare pugnalato dal figlio adottivo, Alessandro Magno avvelenato giovanissimo, Napoleone relegato a Sant’Elena. E così tanti altri, tutti: persino Gesù. Poi in Italia, quasi a volere ulteriormente infierire su un uomo ormai innocuo, non si parlò più di esilio, ma addirittura di latitanza. La gente purtroppo dimentica facilmente, forse per superficialità o per nascondere alla coscienza la propria impotenza. E ripete pedissequamente ciò che l’establishment ammannisce perché sia memorizzato, diventando così di fatto l’unica verità che si tramanderà nel tempo. Chi non ha peccati scagli la prima pietra! fu la frase memorabile che pronunciò nell’ultimo discorso tenuto alla Camera dei deputati per cercare di trovare un accordo tra i partiti e salvare la situa13


zione. Ma nessuno gli venne incontro, illudendosi, tutti, che ognuno avrebbe tratto vantaggio dall’eliminazione di Craxi e dalla demonizzazione del PSI. Nessuno si rende conto che l’ingiustizia è un boomerang che prima o poi colpisce chi l’ha provocata. Non se ne voleva andare. Era disposto ad affrontare la galera, pur essendo convinto che non ne sarebbe più uscito. Sono stati i familiari a impedirglielo, perché non volevano perderlo. Ma, in realtà, sono state poi le circostanze a decidere per tutti. Tra le spesse mura di un carcere succedono tante cose di cui non si sa mai la verità. Se le celle parlassero si dovrebbe riscrivere la storia dell’umanità, diceva, e accettò l’esilio per amore della moglie e dei figli. Un giorno Anna mi confidò: Nella grande disgrazia che si è abbattuta su mio marito e su tutti noi, provo il beneficio di potermi finalmente godere Bettino. Quando era un leader in auge non lo vedevo mai: adesso ce l’ho tutto per me. A Hammamet impazziva perché non sapeva trovare una risposta a certe domande che gli venivano naturalmente in mente. Non riusciva a capire la logica che aveva guidato i giudici nell’indagine. Né quali criteri avessero seguito nella scelta degli indagati. Disegnava continuamente la mappa dei partiti con i relativi segretari e leader. E ripeteva: Se sono accusato di avere intascato tangenti come segretario del PSI, allora anche i segretari degli altri partiti dovrebbero essere indagati. Le tangenti non le abbiamo mica inventate noi socialisti. Abbiamo soltanto seguito il costume dei grandi partiti, comportandoci come tutti gli altri. Apparentemente, tanti segretari sembravano essere stati favoriti, altri no. Ad esempio, per pura cronaca, Valerio Zanone non è stato indagato mentre Renato Altissimo sì. Achille Occhetto no e Arnaldo Forlani sì. L’indagato Giorgio La Malfa è potuto rimanere in politica, mentre l’indagato Calogero Mannino no. In quello strano gioco di incastri giudiziari a Bettino mancava più di una tessera. Si erano, infatti, create due categorie di segretari: da una parte gli indagati e dall’altra i graziati. E poi c’era lui, il super colpevole. Il disegno era crudele e, se consapevole, geniale. Per fortuna la Storia è dota-

ta di energie proprie e reagisce alle decisioni degli uomini, rigettandole come fa il corpo umano con un corpo estraneo. Con la DC ridotta a pezzi e Craxi demonizzato, i post-comunisti credevano che, entrati ormai nell’Internazionale socialista, sarebbe stato automatico ereditare il potere. E, invece, a rompere le uova nel paniere arrivò Berlusconi. Come si dice, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Anche perché contro l’“unto del Signore” il diavolo poco avrebbe potuto. Un giorno, finalmente, capì il meccanismo e il disegno politico. Una sera, a Hammamet, scrisse un diagramma dei graziati e dei condannati. È stato studiato a tavolino, esclamò. Hanno salvato i più deboli. Se avessero eliminato tutti, come avrebbe fatto l’Italia ad andare avanti? Qualcuno doveva pur rimanere integro. Da soli non ci sarebbero riusciti. Avevano bisogno di qualche sopravvissuto della Prima Repubblica. Ma per non avere avversari pericolosi, eliminarono i leader più forti. Ci fanno credere che siamo nella Seconda Repubblica. Ma come, con Oscar Luigi Scalfaro presidente? si chiedeva. È piuttosto una farsa recitata da uomini che si sono prestati a simulare una finta rivoluzione. Mi diceva che era contrario al finanziamento pubblico ai partiti. Infatti, il contributo dello Stato era un’ipocrisia perché non bastava a gestire neppure un partito minuscolo. Era inevitabile, quindi, ricorrere ugualmente alle sovvenzioni private. Il PSI allora percepiva appena 17 miliardi circa l’anno, che bastavano appena per l’ordinaria gestione del partito. Per di più non riteneva la legge una procedura corretta, perché in quel modo a pagare era il popolo, mentre a beneficiare dell’evoluzione economica e sociale del Paese attraverso la politica dei partiti erano soprattutto gli industriali. Sono loro, non i cittadini, a dover sostenere le spese dei partiti, sosteneva. È questo il meccanismo della vera democrazia. I paesi industrializzati sono democratici perché il denaro circola tra tutti i partiti. Secondo lui la politica è sempre stata in mano agli industriali. Sono loro a decidere se sostenere un solo partito o tutti quanti, a incrementare la democrazia o limitarla. Chi finanziò Beni14


to Mussolini? Con quale denaro il Duce fece la Marcia su Roma? si chiedeva. A suo parere c’era un solo vero Paese democratico al mondo: l’America, dove ci sono le lobby che si occupano proprio di facilitare l’iter di un progetto presso i ministeri o gli enti pubblici e rilasciano all’imprenditore regolare fattura. Tutto viene fatto, quindi, alla luce del sole. Lo stesso sistema voleva istituire in Italia. Era il solo modo per dare una regola e avere il controllo della situazione. Invece, nel PSI ognuno faceva come preferiva. Chiunque avesse potere lo sfruttava per arricchirsi. Era affascinato da Garibaldi, perché era un condottiero, trascinatore, agiva nella convinzione di aiutare i più deboli, di ristabilire l’equi-librio tra le esigenze e i diritti del popolo e il potere. Come era incuriosito da Mussolini, pur non approvando il comportamento fascista, e diceva: Mussolini si considerava fascista rivoluzionario perché ancora era rimasta in lui l’ideologia socialista, perlomeno fino all’incontro con Adolfo Hitler. Sapeva tutto di lui, come di Garibaldi. Diceva che, per un giudizio politico più obiettivo, come qualsiasi personaggio politico, entrambi dovevano essere inquadrati nel periodo storico in cui erano vissuti. Un giorno andammo a Dongo e cominciò a spiegarmi com’era avvenuta l’esecuzione di Mussolini: Vedi, il Duce uscì da lì, mentre Claretta Petacci... Sembrava un regista cinematografico, che studiava i movimenti degli attori sul set del film che doveva girare. Era come se lui fosse stato presente alla scena, nell’aprile del 1945. E ogni volta concludeva: Ah, se Mussolini non avesse fatto la guerra… Dopo l’inizio di Tangentopoli si recava raramente al partito. Tutti andavano a trovarlo in albergo, non solo compagni socialisti, ma anche parlamentari e imprenditori, ministri e segretari di partito. All’ho-tel Raphael, dove abitava, c’era un via vai continuo, a qualsiasi ora. E, nonostante i gravi problemi che lo assillavano, riceveva chiunque. Ricordo Antonio Gava, Berlusconi, Forlani e tanti altri chiedergli udienza per avere consigli. E poi, tanti elettori, simpatizzanti e socialisti semplici, che non avevano nulla da chie-

dergli: venivano solo per dimostrare solidarietà. Anche i pasti consumava in albergo, sempre attorniato da tanti ospiti. Le uniche sortite che si consentiva erano fare una passeggiata a piazza Navona. L’hotel Raphael, si affaccia su largo Febo, una piazzetta caratteristica, vicina a piazza Navona. L’alber-go era, quindi, più vicino al Senato che alla Camera. Apparteneva a Spartaco Vannoni, un imprenditore toscano amico di tanti vecchi comunisti, soprattutto di Enrico Berlinguer. Prima di acquistare il Raphael, Spartaco, che viveva a Roma da tanti anni e si considerava romano di adozione, aveva una florida attività di import-export con l’URSS. Pur essendo un albergo di lusso, negli anni ’60 e ’70 il Raphael era diventato la residenza romana di alcuni parlamentari socialisti, quali Giacomo Brodolini, Francesco De Martino, Giovanni Mosca e tanti altri che, essendo stati filo-comunisti, erano amici di Spartaco Vannoni. Aveva cominciato a frequentare il Raphael nel 1968, eletto deputato. Spartaco Vannoni, in un primo momento, non provando particolare simpatia, lo ospitò in una minuscola stanza. Poi, anche se il nuovo ospite era un convinto autonomista, quindi anticomunista, divennero molto amici. Il Raphael fu per 25 anni la casa romana di Bettino. La famiglia viveva a Milano e lui non aveva mai voluto un appartamento a Roma perché sua moglie Anna ci veniva raramente, anche se lo stesso Pietro Nenni gli consigliava sempre di trasferirsi definitivamente a Roma, perché è a Roma che si fa la politica. Quindi, dovendo stare da solo, trovava l’albergo più confortevole. E poi, perché considerava Milano la sua residenza elettorale. Ad aiutarlo all’inizio della carriera politica di giovane deputato e pupillo di Nenni, furono tre grandi industriali dell’epoca, Angelo Rizzoli (foto 4), Attilio Monti, Edilio Rusconi. Ogni grande uomo politico, anche se appena emergente, ha alle spalle uno sponsor che lo sostiene. Gli imprenditori sono insuperabili talent scout della politica. Sanno individuare immediatamente tra migliaia di politicanti chi emergerà dalla massa. L’esilio di Nenni a Parigi, per esempio, durante il Fascismo, quando Mussolini sembrava eterno e non c’era alcuna previsione di instaurazione democratica, fu sovvenzionato 15


dal cummenda Angelo Rizzoli. All’inizio di Tangentopoli Paolo Pillitteri e io fummo i primi a essere indagati, nel 1992. Mi precipitai a comunicarglielo. Dimmi la verità, che cosa hai combinato? mi chiese. Mi adirai, prima di tutto FOTO 4

perché nessuno meglio di lui sapeva della mia lealtà. Qualsiasi cosa avessi fatto, quindi, lui sarebbe stato il primo a saperlo. Ma mi arrabbiai, soprattutto, perché quell’uomo così intelligente si rifiutava di capire che gli avvisi di garanzia, in primo luogo il mio, erano stati emessi per colpire lui. Vai subito da Renato Squillante: ti tirerà lui fuori dai guai, mi disse. Ma al primo incontro capii che il magistrato, non avendomi dimostrato alcuna disponibilità, non avrebbe fatto nulla per me. Tornai, ma nel frattempo aveva acquisito un aspetto diverso: era sconvolto. Mi suggerì di scappare, di andare per qualche mese in America o altrove. Qui potresti creare dei problemi. Non seguii il mio impulso di reagire, perché avevo notato che non sapeva che cosa stesse dicendo e compresi il suo smarrimento. Con una calma che sorprese persino me, gli ricordai che nessuno meglio di lui sapeva che non ero il tipo da scappare. Avevo sempre affrontato qualsiasi situazione a viso aperto. Figuriamoci se sarei scappato in una circostanza in cui, per altro, avevo la coscienza assolutamente pulita. Uscii dal suo ufficio per andare nel mio. Per le scale incontrai Beppe Scanni, responsabile esteri del PSI, nonché principale artefice dell’incarico assunto da Bettino alle Nazioni Unite. Mi diede una notizia che mi adirò. L’indomani si doveva partire per Caracas, dove c’era un importante meeting dell’Internazionale socialista, con la presenza finanche di Fidel Castro. Era il 1992: Bettino era già l’inviato personale di Perez de Cuellar, segretario generale dell’ONU. Non parti con noi, perché non sei nella lista, mi spiegò Scanni. Secondo Bettino è meglio che tu rimanga a Roma. Che illuso: voleva prendere le distanze da me, rifiutandosi di capire che il bersaglio non ero io ma lui. Io avevo ricevuto l’avviso di garanzia in quanto la persona più vicina. Tornai subito nel suo ufficio. Stava parlando con Gava, che allora era Ministro dell’interno, ma mi intromisi senza alcuna delicatezza, tanto ero indignato. Gliene dissi di tutti i colori, davanti al ministro democristiano. Gli spiegai che non portarmi con sé, dopo dieci anni di lavoro a contatto di gomito, sarebbe stato un atto di debolezza e un’ammissione di colpevolez16


za, ma soprattutto di paura. Cercò di convincermi che i giornalisti al seguito mi avrebbero tempestato di FOTO 5

domande, che il TG3 mi avrebbe perseguitato. Non mi sembrava della solita lucidità, quindi mi sforzai di rimanere calmo. Replicai facendogli rilevare che per la prima volta in tanti anni mi stava abbandonando. E poi, non mi era piaciuto, che a comunicarmi la decisione di escludermi dal suo seguito in Venezuela, fosse stato Beppe Scanni, anziché lui stesso. Se non vengo, darai conferma alle illazioni. E poi, sappi, che abbandonandomi mi metti in difficoltà. Me ne andai senza aspettare la sua reazione. Rimasi sveglio fino a mezzanotte, poi mi misi a letto. Verso l’una squillò il telefono: era Scanni che mi chiedeva di farmi trovare al Raphael l’indomani alle 7.30: alle 9 si partiva per Caracas (foto 5). Per tre giorni Bettino e io non ci rivolgemmo la parola. Io facevo il mio lavoro come al solito: lo fotografai con José Ortega e Felipe Gonzales, con Willy Brandt e Lionel Jospin, con Mario Soares e tanti altri personaggi. C’era anche Fidel Castro, ma Craxi non gli si avvicinava mai, quindi non potevo riprenderli assieme. Fu allora, che per la prima volta durante il viaggio gli rivolsi la parola per chiedergli di avvicinarsi a Castro. Mi guardò e abbozzò un sorriso molto dolce per comunicarmi che non ce l’aveva con me. Ma mi disse di no. Allora insistetti: Mi vuoi fare un dispetto? E mi spiegò che non voleva farsi ritrarre col dittatore cubano. Non perché sia un dittatore, precisò, ma perché non è leale col suo popolo. In realtà, dietro questo giudizio, moralmente e politicamente duro, Bettino vedeva forse in Fidel l’unica personalità, l’unico animale politico in grado di tenergli testa quanto a fascino, carisma e strategie. Al magistrato ho ricostruito tutti i miei guadagni e, per fortuna, alla fine l’ho convinto che non ho mai avuto altri proventi al di fuori della mia attività professionale. Seppure le operazioni di avvicinamento fossero cominciate alcuni anni prima, Tangentopoli scoppiò con l’arresto di Mario Chiesa. Ma al partito già da qualche mese l’atmosfera era cambiata. C’era tensione tra quelle che io chiamavo le bande dei fedeli: Claudio Martelli, Gianni De Michelis, Giuliano Amato, Claudio 17


Signorile e tutti gli altri. Ognuno aveva la propria corrente. Ma Bettino non si sentiva più FOTO 6

protetto da loro come un tempo. Anzi, capì che lo stavano accerchiando per neutralizzarlo e consegnarlo ai loro nuovi alleati. Presidente del Consiglio era Amato e Bettino segretario del PSI. Era la primavera del 1992. Un giorno verso le 13.30 fui convocato d’urgenza al partito. Arrivai trafelato in via del Corso e bussai direttamente alla porta del suo studio senza farmi annunciare. Lui era seduto dietro la grande scrivania, nascosto come sempre da montagne di carte e libri. Giuliano Amato era in piedi, appoggiato alla spalliera di una sedia. Per alcuni minuti nessuno dei due parlò. Poi mi spiegarono il motivo della mia convocazione urgente. Qualcuno aveva informato il Presidente del Consiglio che Martelli, che all’epoca era il vice di Bettino, stava pranzando con tre persone di fiducia di Achille Occhetto al ristorante El Toulà. Finito Giuliano di raccontarmi ciò che era venuto a sapere, intervenne: Dovresti controllare se la notizia è vera, perché sembra che Claudio stia facendo qualcosa non in mio favore. Andai al Toulà e chiesi se la saletta riservata fosse libera. Mi risposero Purtroppo è già occupata da uno dei vostri e altre tre persone. In effetti, Claudio uscì verso le tre, da solo, per depistare eventuali controllori. Gli altri tre commensali uscirono dopo un quarto d’ora, uno per volta, a intervalli di due minuti uno dall’altro. Erano tutti uomini di Occhetto. Da quel giorno oltre al fotografo ebbi l’incarico di fare anche il detective: controllavo certe informazioni che arrivavano all’orecchio di Bettino. In realtà, dovevo controllare anche Bobo per proteggerlo da eventuali trappole che qualcuno poteva tendergli. Bobo era affascinato da Martelli, come del resto lo stesso padre, e, sapendolo un suo devoto, non gli passava lontanamente per la testa di dover diffidare di lui. Ma i sospetti sulla fedeltà del pupillo erano nati diversi anni prima. A metterlo in guardia, oltre a tutti i pettegolezzi che giravano al partito, era stato Willy Brandt nell’inverno del 1986 (foto 6). Erano le cinque del pomeriggio, quando il segretario della socialdemocrazia tedesca arrivò a Palazzo Chigi. Proprio la sera precedente avevamo parlato di Claudio e della sua traballante fede socialista. Mi aveva chiesto ripetutamen18


te: Pensi che si sia avvicinato nuovamente al PCI? È vero, come dicono, che è diventato molto amico di Occhetto? Io non potevo saperne più di coloro che gli riferivano quelle informazioni, perché non frequentavo Martelli. Sapevo ciò che in giro si diceva di lui. Brandt venne a Roma in visita privata, quindi all’incontro non assistette nessuno, né giornalisti né membri del governo. Scattai qualche foto e me ne andai, sapendo che non aveva più bisogno di me, dato che avrebbe concluso a cena la conversazione con l’ospite. Lo lasciai dietro la scrivania, come sempre, sotto l’enorme quadro di Garibaldi, che aveva scoperto negli scantinati della Zecca e fatto trasferire nel suo studio a Palazzo Chigi. Brandt gli era seduto di fronte.

ta e sudava continuamente. Mi fece cenno di raggiungerlo sul palco. Mi dicono che anche qui, a Rimini, sia iniziato un complotto contro di me. Qualcuno del partito, istruito e pagato da altre forze politiche,

In realtà, la visita privata consisteva nel mettere a punto i progetti politici, che i due grandi socialisti avrebbero condotto assieme. Il leader tedesco in quel periodo era contrario all’ingresso dei comunisti italiani nell’Internazionale socialista. Non era d’accordo sul loro inserimento repentino in un movimento davvero democratico come il socialista. Non era ancora crollato il muro di Berlino, ma in alto loco se ne profilava già l’eventualità. Il fatto è che quei grandi uomini le strategie le studiavano con dieci anni di anticipo. Mentre stavo lasciando Palazzo Chigi un commesso mi inseguì per dirmi che il Presidente chiedeva di me con grande urgenza. Tornai indietro. Davanti a Willy Brandt mi chiese a bruciapelo: Claudio è o non è legato a Occhetto? In quel momento ebbi la netta sensazione che, con la scusa della visita privata, Brandt fosse venuto a Roma proprio per metterlo in guardia dal suo pupillo. Qualche anno dopo scoprii che era proprio come pensavo. Willy Brandt l’aveva avvertito di una voce che gli era arrivata fino a Bonn: Attento che Martelli ti vuole rubare il posto. A tua insaputa sta allacciando una collaborazione col PCI. Il 17 febbraio 1992, alla vigilia dell’arresto di Mario Chiesa, i complotti si intensificarono. Già al Congresso di Rimini dell’anno precedente, seduto alla presidenza, aveva un’espressione tormenta19


trama per farmi fuori. I compagni che stanno qui non si comporteranno da socialisti. A conclusione della conferenza i delegati avrebbero votato e temeva che lo mettessero in minoranza. Era l’inizio della fine. Vai a fotografare le targhe dei pullman parcheggiati qui fuori, mi suggerì. Così sapremo da dove viene questa brava gente.

simpatico, nonostante avesse fatto molto per il partito, a Milano e in Lombardia. Stavamo quasi in campagna elettorale e cominciava a farsi vedere nel Foto 7

Bobo e Scilla, mia sorella, si erano conosciuti al partito nel 1988, avevano 22 anni. Allora il mio ufficio era in via del Corso, la sede centrale del PSI a Roma. Scilla mi dava una mano per classificare le foto e archiviarle. Sullo stesso piano c’era la federazione giovanile di cui Bobo era dirigente. In mia assenza – ero sempre in giro per il mondo – cominciarono a frequentarsi. Saputolo, diventai furibondo perché, essendo amico di Bobo ormai da diversi anni, lo conoscevo bene e sapevo che era alla continua ricerca di ragazze con cui divertirsi. Pensai, quindi, che con mia sorella volesse comportarsi come con tutte le altre. Scilla, invece, era una ragazza molto sensibile e sognava il grande amore. Quando lo affrontai, Bobo mi disse che con Scilla faceva sul serio: si era innamorato. Dell’idillio venne subito a conoscenza il padre, anche perché non capiva come mai il figlio, che voleva fare politica a Milano, stesse continuamente a Roma. Un giorno mi convocò con aria molto seria e preoccupata. Pensavo che quella relazione non gli piacesse. Invece, ne era contento, ma mi chiedeva di convincere Scilla a trasferirsi a Milano ed evitare che il figlio stesse così a lungo a Roma. Se Bobo ha intenzione di fare politica deve curare il proprio territorio. Non può fare politica in una zona e vivere in un’altra. I ragazzi ne furono felici. Così per un periodo di tempo Scilla fu ospite di Anna che l’accolse in casa, proprio come una figlia. Poi Bobo e Scilla presero in affitto un appartamentino in un piano sottostante dello stesso stabile di via Foppa. Avvenuto l’arresto di Mario Chiesa, non diede molto peso all’epi-sodio, perché non aveva mai avuto rapporti col presidente del Pio Albergo Trivulzio, che per altro non gli era nemmeno molto 20


proprio collegio. Un giorno, non ricordo in quale paesino della Lombardia, dopo il comizio si ritirò nella saletta appartata di un bar perché c’era una persona che chiedeva di parlargli con urgenza. C’erano con noi l’attore Massimo Boldi (foto 7), che era candidato nelle liste del PSI, Pillitteri, gli organizzatori del comizio e due giornalisti. Non avendo nulla da nascondere o, almeno, così credendo, e avendo il vezzo di parlare davanti a chiunque, davanti ai giornalisti quel signore disse: Dal momento che è stato arrestato, 17 giorni fa, Mario Chiesa cerca di mandarle dei messaggi, ma non ci riesce. Non ha parlato con i giudici, né ha intenzione di farlo. Il carcere non gli fa paura, ma chiede assistenza e protezione.

dire nulla FOTO 8

che

lo

compromettesse.

Ed

era

vero.

Ma,

Perché dovremmo proteggere un mariuolo? rispose incautamente di rimando, per continuare a prendere le distanze da Mario Chiesa e dissociarsi dalle sue responsabilità. A quelle parole rabbrividii, perché previdi le conseguenze catastrofiche di quella dichiarazione, che l’in-domani sarebbe apparsa sui giornali. Il rifiuto veniva proprio dall’uo-mo al quale il socialista indagato e arrestato si era rivolto fiducioso e sicuro di avere la sua solidarietà. Il giorno successivo, leggendo i giornali in cella, Chiesa avrebbe avuto ragione di reagire, anche in modo inconsulto. Sapendo che Pillitteri era molto amico di Chiesa, lo presi per un braccio e gli suggerii di far sapere subito a Mario che Bettino aveva espresso quel giudizio per una strategia politica e non perché avesse davvero intenzione di abbandonarlo. Io insistetti perché volevo evitare una catastrofe che nessuno aveva previsto, ma che a quel punto si profilava inevitabile. Si doveva assolutamente rimediare al grave errore di valutazione che Bettino aveva commesso. In carcere la trasformazione psicologica pende sul capo di chiunque. Se non motivati, la maggior parte dei detenuti non riescono a controllare il proprio equilibrio. Hanno bisogno di sapere che al di fuori della prigione c’è chi ha ancora fiducia in loro. Chiesi a Bettino di rientrare a Milano con la sua auto. Durante il viaggio gli parlai chiaramente. Eravamo soli, con Nicolino, l’autista milanese. Ma non capì. Continuò a ripetere che lui Chiesa non lo aveva mai incontrato, che Chiesa non avrebbe potuto 21


come avevo previsto, l’indomani, apprendendo dai giornali che Craxi lo aveva abbandonato, Mario Chiesa vuotò il sacco (foto 8), non contro Craxi, ma coinvolgendo tutti i notabili milanesi del PSI, cioè mezza Milano. Fu una catastrofe più grave di quanto avessi previsto. Cominciarono a piovere gli avvisi di garanzia e fu il crollo, prima del partito e poi del suo segretario. Nel 1990, Bobo fu eletto consigliere comunale di Milano e scoppiò la Duomo connection. Si insinuò che c’erano dei mafiosi nell’ Amministrazione comunale. Ma era sempre la stessa strategia: colpire Bettino Craxi attraverso chi gli stava vicino. Quando il cognato Paolo divenne sindaco di Milano, Bettino fu accusato di nepotismo. Lo stesso Pillitteri, per la verità, pur essendo lusingato della designazione, sosteneva che si trattava di un’iniziativa esagerata, che avrebbe inevitabilmente causato delle reazioni. Ma Bettino, che non voleva rischiare di perdere il controllo della propria città e il sindaco, e se avesse potuto lo avrebbe fatto lui stesso, stimandolo molto, aveva messo il cognato. Perché essere mio parente dovrebbe penalizzare Paolo? Sarà un ottimo sindaco di Milano, come lo sono stati Aldo Aniasi e Carlo Tognoli. Amava talmente la sua Milano che continuò a curare il proprio elettorato anche divenuto Presidente del Consiglio. Non appena aveva mezza giornata libera, prendeva l’aereo e volava a Milano a visitare piccole sezioni di periferia e paesini sperduti nella campagna. Ascoltava chiunque e si immedesimava nei problemi di tutti. Per lui le sezioni di un partito dovevano funzionare come una parrocchia. Erano il punto di riferimento della politica. E le visitava con la sacralità del devoto: considerava il segretario di una minuscola sezione di pochi iscritti anche lui importante. Forse perché da giovane voleva fare il chierichetto, considerava i segretari del PSI: sacerdoti del socialismo. E aveva tanta fiducia nei giovani, chierici e seminaristi laici. E poi, lui stesso, era un giovane per entusiasmo e voglia di creare. Ecco perché dava spazio a qualsiasi giovane intraprendente.

Ma non pensava la stessa cosa a proposito del figlio, e perciò erano frequenti le discussioni in casa con la moglie. Io cercavo di non farmi coinvolgere in quelle polemiche tra marito e moglie. Ognuno agiva per il bene del figlio ma da due punti di vista diversi. Anna mi pregava di convincerlo a cambiare idea. Digli che grazie alla sua giovane età il figlio darà al PSI un contributo di modernità che non guasterà. Del resto, neppure il padre voleva che Bettino facesse politica. E si sbagliava di grosso. Mancavano pochi giorni alla chiusura delle liste elettorali per le amministrative e il direttivo milanese del PSI aspettava le decisioni di Bettino, che di mettere in lista il figlio non voleva saperne. E non aveva torto perché era presago che dalle accuse di nepotismo si sarebbe passati allo scandalo. Infatti, per lui quell’argomento era chiuso. Ma non per Anna che, come sempre, alla fine la ebbe vinta. Eravamo in partenza per l’Aja dove c’era una convention socialista. Saremmo tornati a Milano la sera stessa. In quel viaggio eravamo soli. Per compiacere Anna, che consideravo una grande donna, cominciai ad assillarlo sin dalla partenza da Ciampino. Concedi una chance a tuo figlio. Con un padre come te, talento della politica, Bobo sarà un buon politico. E poi, crede nel socialismo. Inventa qualcosa per lasciargli un’eredità politica. In realtà, erano molto somiglianti per carattere. Negli ultimi anni a Hammamet, con piacevole sorpresa di tutti, padre e figlio cominciarono a parlarsi sempre di più. Bobo veniva in Tunisia sempre più spesso. Scilla trascorreva lunghi periodi a Hammamet con i bambini, proprio perché aveva capito che a Bobo faceva piacere stare accanto al padre e parlare con lui. La loro primogenita, nata nel 1994, si chiama Vittoria, come il bisnonno paterno. Anche Stefania portava spesso e per lunghi periodi i figli a Hammamet. La casa, un tempo ordinatissima e piena di libri, fu subito sommersa dai giocattoli. Quei nipoti gli hanno prolungato la vita, perché sono riusciti a distrarlo dalla tristezza che spesso lo aggrediva. Faceva la lotta con Federico, primo nipote e figlio di Stefania, che alla fine lo buttava 22


in piscina. Fingeva di arrabbiarsi e di volersi vendicare. Lo rincorreva senza mai prenderlo. Il bambino era contento di essere più forte e svelto del nonno. Nel settembre 1989 il Venerdì di Repubblica, mentre era in corso la campagna elettorale per il Comune di Roma con candidato sindaco Franco Carraro, dedica la copertina con una mia foto, scattata alla Medina di Hammamet, a Craxi, nonno, con il nipotino Federico e la figlia Stefania. L’articolo lo fa Paolo Guzzanti. Sapendo dell’uscita della foto di copertina e dell’articolo, lo dico a Bettino. Mi risponde Che megalomane. Figurati se Eugenio Scalfari lo permette, ti ricordo che lui da sempre ce l’ha con me. Gli rammento Nel ’76, quando uscì la Repubblica, Scalfari fece a te la prima intervista. Oggi sei nonno e ti farà questo regalo. Il giorno che Stefania mise al mondo Federico eravamo a Palazzo Chigi. Telefonò Anna nel primo pomeriggio per dare la notizia. Annullò tutti gli appuntamenti e andammo subito a Ciampino, da dove un aereo militare ci portò a Milano. Durante il percorso, dall’usciere che ci aprì l’ascensore ai commessi che incontravamo nei corridoi, dai funzionari alle guardie del corpo, diceva a tutti: Sono diventato nonno. Era un nonno giovane, aveva appena 53 anni. Era davvero felice. Chiamava Federico il generale, perché a Berlino, dopo la caduta del muro, gli aveva comprato un cappello da ufficiale dell’Armata rossa. I nipoti se li è goduti di più nella tristezza dell’esilio che in Italia. Era un patriarca, felice di vedere la famiglia unita, perché gli piaceva essere attorniato da tutti coloro che amava. Raccoglieva meticolosamente i ricordi: appunti, lettere e diari. Sin dai tempi che era bambino conservava tutte le foto che testimoniavano un momento felice o una ricorrenza. Un giorno a Hammamet tirò fuori uno scatolone pieno di vecchie foto. La stessa scena, e mi impressionò, l’aveva fatta nel 1981 nella sua casa di Milano. C’erano quelle del suo fidanzamento con Anna e poi del matrimonio. Mi stupii nel capire dalle foto che quel giorno in municipio erano soli.

Non c’erano né familiari né amici. Cercai di capirne la ragione, ma non volle rispondermi. Un giorno te lo racconterò. Ma non capitò più di affrontare l’argomento e sono rimasto con quella lacuna. Avevo sempre la curiosità di chiederglielo, ma per riservatezza, mi frenavo ogni volta che ne avevo la tentazione. Ogni foto ricordava un episodio della sua vita e me lo raccontava nei minimi particolari, non trascurando neppure le sensazioni che aveva provato nei rispettivi momenti. Mi sorprese il legame che aveva col passato. Infatti, si ricordava tutto, dopo tanti anni. In una piccola foto era ritratto abbracciato con Anna, al mare. Guardando meglio mi accorsi che erano nudi tutti e due. Gli chiesi di darmela che ci avrei fatto un sacco di soldi. Ma sei matto? Chissà quale sporca maldicenza inventerebbero i pettegoli su questa innocente giornata in spiaggia. Non avendo un buon rapporto col denaro era lecito parlare solo di quello destinato ai bisogni della famiglia. Non solo della sua, ma della famiglia di ogni persona che gli stava vicino. Si preoccupava se io o i suoi collaboratori pagassimo regolarmente l’affitto di casa, se alla cameriera bastasse il salario che percepiva. A nessuno doveva mancare nulla in casa. Nel 1998 Ottaviano Del Turco ed Enrico Boselli si impegnarono con Bettino, ormai si può dire in fin di vita, di far eleggere il figlio parlamentare europeo, Bobo era d’accordo, anche se era convinto che quei due non avrebbero mantenuto gli accordi. Accettò la candidatura nelle Circoscrizioni Sud e isole solo per assecondare la volontà del padre, che temeva che dopo la sua morte il figlio si sarebbe trovato in difficoltà. Voleva trovargli una sistemazione. Ma Bobo sapeva che non era l’opportunità giusta. Infatti, fece un’ottima campagna elettorale e arrivò buon secondo, come tutti auspicavamo, dietro Boselli, che, però, non si dimise come si era impegnato. Si capì chiaramente, allora, che era stato candidato solo per sfruttarne il nome. Chiamandosi Craxi ottenne molti voti da vecchi socialisti e da ammiratori del padre. Anziché essere deluso, in un certo senso il padre non trovò quell’incidente negativo, perché proprio in quell’occasione Bobo aveva dimostrato di intuire più di lui gli 23


imprevisti della politica. Allo scoppio di Tangentopoli era deciso a rimanere in Italia e rispondere alle accuse dei magistrati. Intanto riceveva gli avvisi di garanzia, uno dopo l’altro, che poco dopo si sarebbero trasformati in mandati di cattura e poi in processi. Parlavamo sempre dello stesso problema, dalla mattina alla sera. Sapevo a memoria qualsiasi sfumatura. Come i bambini che ascoltano, attenti, continuamente il racconto di un adulto, ogni tanto lo correggevo se sbagliava qualcosa. Era dibattuto tra la libertà dell’esilio e la prigione, tra il partire e il rimanere in Italia, tra la pensione e la vita attiva, seppure piena di problemi. Anche in casa e tra gli amici c’era chi gli consigliava di andarsene e chi di rimanere. In molti mi suggeriscono di andar via. Ma non era convinto che fosse la decisione giusta. Tutt’al più mi faccio qualche giorno di carcere e poi tutti capiranno che non sono un delinquente, diceva. Certo, non sarà l’onorevole detenzione politica di Sandro Pertini e di tanti altri compagni. Io verrò arrestato come ladro. Ma poi la verità verrà a galla. Intanto vogliono umiliarmi, per distruggermi. Tutti sanno che ho sempre fatto politica. È l’unica cosa che mi appassiona. Che i soldi non mi interessino lo sanno tutti. Il fatto è, però, che intanto mi sporcheranno le dita, me le intingeranno nell’inchiostro per prendermi le impronte. Saranno gentili, anzi gentilissimi. Forse mi offriranno persino il caffè. Ma con la stricnina, come hanno fatto con Michele Sindona. Una sera del 1993, mentre passeggiavamo in piazza Navona, si avvicinarono con fare circospetto due persone, certamente dei servizi segreti. Lo capimmo subito, perché gli agenti di scorta, che a una certa distanza ci precedevano e ci seguivano, fermavano chiunque si avvicinasse. Quella volta, invece, non intervennero. Era nervosissimo perché era la seconda volta che veniva avvicinato. Se ne vada, Presidente, il momento è pericoloso, gli dissero. Dia retta a noi e non le succederà nulla. Non rientrammo subito in albergo. Continuammo a passeggiare per molto tempo ancora, ma senza che

dicesse più una parola. Passeggiammo nel silenzio assoluto. Fino ad allora era deciso a rimanere. Dopo quell’incontro, invece, capì che non c’era più nulla da fare. Era tutto già stabilito: se fosse rimasto lo avrebbero eliminato e non avrebbe più potuto dimostrare la propria innocenza. O, peggio ancora, se la sarebbero presa con qualcuno della famiglia. Io non ho paura di essere ucciso. Ma questi mi vogliono far morire da ladro. Ciò che vogliono è proprio distruggere la mia dignità e la mia immagine, non solo la mia vita. Qualcuno lo voleva morto. Ormai era un uomo che metteva paura. E gli avvertimenti prima o poi si concretizzano. Rimanere diventava sempre più pericoloso. Andarsene dava una garanzia maggiore di sopravvivenza. L’indomani lo accompagnai all’aeroporto di Ciampino, sempre seguito dalla scorta che gli spettava come ex Presidente del Consiglio. Craxi non lasciò l’Italia precipitosamente e di soppiatto per sfuggire alla giustizia, ma perché qualcuno aveva deciso che non dovesse più occuparsi di politica. Ecco perché non è vero che ci fu latitanza. Fu spedito in esilio dopo i minacciosi consigli dei servizi segreti e un accordo intercorso con l’establishment. Non ci doveva essere neppure un giudizio del Tribunale, dato che Craxi non sarebbe potuto tornare in Italia per difendersi. Il patto era che non mettesse più piede in patria. Non era scritto nella Costituzione, come per gli eredi maschi dei Savoia, ma gli accordi erano su per giù gli stessi. Infatti, non gli fu concesso di recarsi in nessun paese europeo nemmeno per curarsi, neppure quando era ormai in fin di vita. Oggi forse sarebbe ancora vivo se si fosse potuto operare in Italia o in Francia o in Svizzera. In Tunisia ci sono medici bravissimi, ma mancano le strutture sanitarie. Dovendosi curare lì, era praticamente condannato. Comunicare alla scorta l’itinerario della giornata e indicare direzione aeroporto di Ciampino, poteva sembrare la solita routine. Invece, fattomi salire in camera sua: Io parto, accompagnami all’aero-porto. Vedendo nel mio sguardo lo stupore e la delusione di non doverlo seguire, aggiunse: Per ora tu rimani a Roma, mi raggiungerai tra qualche giorno. Intanto, procurati degli scatoloni, 24


riponici tutti quei documenti e nascondili in un posto sicuro. Capii che aveva deciso di lasciare l’Italia definitivamente. Ancora oggi non riesco a cancellare dai miei ricordi quell’immagine triste. È come se l’avessi fotografata con l’obiettivo della mia mente. La foto non ha colori. Lui che girava lo sguardo a 360 gradi attorno a sé, come per memorizzare quella stanza disordinata nella quale aveva gioito per tanti anni. Non avrebbe più rivisto quella stanza che per anni era stata la sua casa e anche la vera stanza del potere. Mi sembrò improvvisamente minuscola rispetto ai programmi, idee, leggi, progetti che da lì erano usciti. Una stanza così piccola per un uomo tanto grande. Anche il partito ormai era una larva, mentre sotto la sua guida sembrava un gigante. Avrebbe potuto abitare palazzi lussuosi e avere decine di persone al suo servizio. Ma, in fondo, a lui non importava il benessere. Invece altri l’hanno ottenuto tramite lui. Non parlammo fino a Ciampino. Comunicavamo attraverso la profonda tristezza, che ognuno di noi esprimeva in silenzio. Nicola Mansi, che anche nell’ultimo viaggio verso l’aeroporto era alla guida dell’ auto blu, aveva capito che era stato condannato a non rivedere più la sua Italia. Sulla pista lo aspettava un aereo privato. Voglio venire a Hammamet con te, gli dissi ancora una volta. Credevo che andasse a Tunisi. Ma lui, che me lo aveva lasciato credere fino a quel momento: Non vado a Tunisi e non posso portarti con me perché in due sarebbe più complicato. Ti chiamerò appena posso. Non lo sentii per qualche giorno e vivevo malissimo. Era la prima volta che mi separavo per tanto tempo. Mi telefonò tre giorni dopo chiedendomi di chiamarlo da una cabina pubblica lontana dal centro, soprattutto distante da casa mia. Andai in Vespa al Quarticciolo, una borgata romana. Da lì lo chiamai. Senza dirmi dove si trovasse, mi confermò che stava bene e che qualche giorno dopo ci saremmo visti. Mi sollecitò a raggiungere Anna, Bobo e Scilla, che si trovavano a Cap Ferrat, nell’appartamento che avevamo preso in affitto qual-

che mese prima. Infatti, prima di Hammamet il suo esilio doveva essere Parigi, perché sembrava che la Francia lo avrebbe accolto. Del resto, non c’era motivo di dubitarne, dato che chiunque in passato vi aveva sempre trovato asilo per motivi politici, persino in relazione ad accuse di terrorismo. Dunque partii per Cap Ferrat. Lì capii che nessuno sapeva esattamente dove fosse andato, né dove si trovasse. Si diceva vagamente che era andato in giro per il mondo. Un giorno telefonò per dire che era sulla via del ritorno. L’indomani andammo a prenderlo all’aeroporto di Nizza. Scese dall’aereo in maniche di camicia. Per bagaglio aveva una minuscola ventiquattr’ore. Lì per lì non disse nulla del misterioso viaggio. Solo molto tempo dopo mi confidò la destinazione e lo scopo. Dall’aeroporto andammo direttamente a pranzo alla Chèvre d’or, un ristorante da gourmet sulla collina di Éze, tra Montecarlo e Nizza, dove ci parlò dei suoi progetti per l’esilio. Appariva un po’ affaticato, ma disinvolto e di buon umore. Finse di avere ormai accettato la logica che l’Italia gli fosse preclusa. Tanto, si sarebbe potuto spostare liberamente in tutto il resto del mondo. Era contento soprattutto di poter vivere a Parigi, dove avremmo preso in affitto un bell’apparta-mento. Da lì saremmo andati in giro ovunque. Rivolto ad Anna, che appariva invece molto preoccupata: Se non posso fare politica in Italia, continuerò ad agire altrove, per esempio in Sud America e nei paesi del Terzo mondo, ovunque ci sia bisogno di socialismo. E tu, Umberto, verrai con me. Poi rivolto al figlio e a mia sorella: In Italia la politica la farà Bobo, che adesso con la moglie andrà a fare uno stage politico negli Stati Uniti. Facendo politica potrà utilizzare i tanti amici che ho in tutto il mondo, un’eredità molto utile, che Bobo dovrà sfruttare sapientemente. A quel punto azzardai una battuta: Quindi, un giorno io starò con tuo figlio. Ma finse di non avere udito e rivolto a me continuò: Noi due realizzeremo documentari e grandi servizi fotografici. La nostra casa ormai sarà a Parigi. Anche se passeggiammo in silenzio lungo le banchine del porto di Beaulieu e le stradine di Villefranche, mantenne il buonumore 25


durante tutto il pomeriggio. Per due volte, infatti, volle fare… a chi pisciava più lontano: gioco che lo divertiva e lo riportava all’infanzia. Avevamo convenuto che io, più giovane, gli concedessi un metro di vantaggio. Nonostante i problemi che lo assillavano non si lasciava scappare nessuna occasione per vivere qualche minuto di sana spensieratezza. Rincasando, dopo la passeggiata al porto, al TG1 vedemmo Berlusconi che parlava in TV, ad una grande convention di Forza Italia. Fece apprezzamenti positivi sul debutto politico del suo amico, ma cominciava a sudare. Era in piedi e io seduto. Il cavaliere camminava con disinvoltura sul palco, con un fondale azzurro alle spalle, il microfono in mano. Era un messaggio di cambiamento. Seppure avesse apportato tante innovazioni nella politica italiana, Bettino, invece, aveva sempre parlato dal podio e da un microfono fisso. Anch’io commentai il messaggio del nuovo personaggio. Ma non mi rispondeva. Capii che era un po’ invidioso del leader emergente, seppure suo amico. Non parlammo per tutta la serata. Durante la cena era molto pensieroso. Volle rincasare presto perché si sentiva stanco. La villa era costituita da un complesso principale e da una dépendance. Anna si era sistemata nell’edificio centrale dove la stanza da letto era più ampia e comoda. Al marito, invece, quella sistemazione non piaceva. Volle trasferirsi nella dépendance, dove mi ero sistemato ed io dovetti cedere la mia stanza da letto e trasferirmi in una stanzetta accanto. Ma quella notte mi svegliò chiedendomi di raggiungerlo nel saloncino della dépendance. Era molto nervoso e ansioso. Non riusciva a concentrarsi. Voleva parlare, ma era come se le parole non gli uscissero dalla bocca. Non gli era ancora chiaro che era stato relegato a vivere in Tunisia e che la Francia non si era impegnata a difenderlo. Decise di andare a Hammamet per qualche giorno in attesa di trasferirsi a Parigi. Poco dopo, invece, arrivò la notizia che François Mitterrand non gli avrebbe accordato asilo politico. Fu una grande delusione. Quella sera stessa si sentì male: aveva capito di essere ormai un uomo politico finito. L’Italia è riuscita a convincere la Francia a

non accettarmi, fu l’amaro commento. È un atteggiamento assurdo da parte di chi per lunga tradizione accoglie qualsiasi esule. Da quel momento cominciò ad accusare tanti malesseri. Nelle analisi del sangue tutti i valori si alzarono e non si normalizzarono più. Mandò Beppe Scanni da Mitterrand per chiedere spiegazione di quell’atteggiamento nei confronti di un vecchio amico. Il presidente francese ricevette l’emissario di Bettino, dimostrandogli grande amicizia, e gli rivelò di essere gravemente ammalato. Se non lo voleva in Francia era perché temeva che, morto lui, il suo successore non lo avrebbe protetto abbastanza e qualcuno gli avrebbe potuto fare del male. Craxi è un uomo politico: capirà, disse per scusarsi il vecchio presidente. Bettino seppe, poi, che in un viaggio lampo non ufficiale, anzi quasi segreto, Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, si era recato a Parigi per chiedere a Mitterrand di non concedere a Craxi l’asilo politico. E pensare che Scalfaro doveva a Craxi la sua elezione a Capo dello Stato. Qualche mese prima, alle elezioni politiche, pur essendo uno dei padri costituenti, Scalfaro non era stato neppure eletto alla Camera dei deputati. Era risultato il primo dei non eletti nella circoscrizione di Torino. Per recuperarlo la DC dovette nominare alla presidenza di una banca uno dei candidati che lo precedevano nella graduatoria e che si dimise da deputato. Così Scalfaro riuscì a essere riconfermato a Montecitorio. A fargli fare il salto successivo fu Craxi. Visto che nel 1992 non era stato possibile eleggere Forlani Capo dello Stato, Bettino decise di ripiegare su Scalfaro, allora Presidente della Camera. Al suo posto suggerì di mettere Giorgio Napolitano, che il PSI aveva spesso aiutato finanziariamente, come molti altri comunisti riformisti, per convertirlo al socialismo. Comunicò la sua decisione in una riunione della direzione del PSI che, per la prima volta come ai tempi di Nenni e Francesco De Martino, si svolgeva in un’atmosfera di grande confusione. Fu Rino Formica a provocare il caos dichiarando: Io per quel prete di Scalfaro non voto. E poi, rivolto a Bettino: Se credi che ti aiuterà, ti sbagli. Formica aveva visto giusto: l’unico segno di gratitudine di Scalfaro 26


nei confronti di Bettino, una volta diventato Capo dello Stato, fu la designazione di un socialista, Giuliano Amato, alla guida del governo. Bettino pensava che portare Scalfaro al Quirinale fosse il solo modo per salvare il sistema. Invece, solo un anno dopo, Scalfaro gli voltò le spalle. Da principio la prospettiva di trascorrere l’esilio a Hammamet non sembrò del tutto malvagia. Lì una casa ce l’aveva già. In un certo senso la famiglia era già organizzata. Arrivati sul posto con tutti i bagagli per una sistemazione definitiva, invece, ci rendemmo conto che quella era una villa di vacanza, ampia e confortevole per l’estate e i week-end, ma non adatta a trascorrerci dodici mesi l’anno. Come era solito: Meno male che ho questa casa. Chissà, se no, che fine avrei fatto. Il paese gli piaceva molto, tanto da averlo scelto trent’anni prima come luogo di relax. In Tunisia era di casa. Era diventato prima amico di Habib Bourghiba, primo presidente della Tunisia, poi buon amico di Ben Alì, che, infatti, gli offrì subito ospitalità. E poi, aveva sempre la chimerica speranza di tornare un giorno o l’altro in Italia, che da Tunisi è a un tiro di schioppo. Non aveva capito che l’establishment internazionale aveva deciso che non si dovesse più spostare da nessuna parte. Era stato condannato a rimanere per tutta la vita a Hammamet, come al confino. Si vede che è questo, in ogni situazione, il destino dei socialisti, diceva incredulo, quasi pensando ad alta voce. Pertini al confino e Nenni in esilio durante la dittatura. Io, invece, in democrazia. Per di più, qualche mese dopo, Lamberto Dini, Presidente del Consiglio, fece pressione anche sul Presidente tunisino perché estradasse Craxi in Italia, essendo ricercato dalla giustizia italiana. Ma il Presidente Ben Alì non ebbe tentennamenti. Nonostante l’interesse vitale per la Tunisia di mantenere buoni rapporti con l’Italia il Presidente arabo rispose a Lamberto Dini, che motivi di gratitudine nei confronti di Craxi gli impedivano di assecondare la sua richiesta. Intanto era giunto un messaggio dall’ex responsabile del commando che aveva assalito l’Achille Lauro, il palestinese Abu Abbas

che, in caso di problemi, gli assicurava ospitalità nella striscia di Gaza Perché non potremo mai dimenticare, ciò che hai fatto per noi. Negli anni ’80 da segretario del PSI aveva dato una mano a Ben Alì perché diventasse presidente della Tunisia al posto di Burghiba. Anche la Francia, allora, vedeva di buon occhio l’ascesa del giovane politico tunisino. Dato l’ascendente che continuavano ad avere sul loro ex protettorato, i francesi avrebbero potuto scegliere da soli. Ma, siccome Bettino era molto rispettato per la leadership che deteneva in Italia e anche perché di casa a Tunisi, lo consultarono per chiederne il parere ed evitare che apprendesse dai giornali del pensionamento del suo amico Burghiba. Fu d’accordo nell’accelerare i tempi della successione, non perché avesse qualcosa contro Burghiba, al quale, anzi, era legato da grande stima e lunga amicizia. Ma ormai Bourghiba aveva quasi 90 anni ed era troppo anziano e gravemente malato per governare. Quello era il momento migliore per la successione, perché nessuno ancora ambiva a ereditarne la presidenza, quindi la successione sarebbe avvenuta senza alcuna polemica. E poi, Ben Alì era il delfino di Burghiba, quindi il suo successore naturale. Era stato il vecchio presidente a sceglierlo come erede politico. Avvenuto lo scambio di potere: Speriamo che questo giovane presidente sappia mantenere il delicato equilibrio politico che per mezzo secolo ha fatto di questo paese un raro esempio di dittatura democratica. Qui tutti godono di qualsiasi diritto, ma rispettando certe regole, che non sono discutibili né modificabili. La cacciata di Craxi in esilio ebbe gli effetti di un vero colpo di stato. Con le accuse, che avevano messo in giro, non avevano colpito ed eliminato solo lui, ma avevano demonizzato il Socialismo italiano. Subito dopo la partenza per l’esilio, noi di famiglia, ricevevamo insulti da chiunque, soprattutto a Milano, che fino a qualche mese prima era una città prettamente socialista. Una sera io, Bobo e mia sorella Scilla – da poco diventata sua moglie – andam27


mo a mangiare una pizza in un ristorante del quale eravamo da anni clienti. Un gruppo di giovani cominciò a provocarci. Ancora in giro questi craxiani? Non si vergognano di frequentare i locali delle persone per bene? Stavamo per fare a botte, il proprietario ci pregò di andarcene. Non potevamo più camminare per la strada, come se fossimo appestati. Roma, invece, era più tollerante. Subivamo qualche episodio di dileggio, ma non di teppismo come a Milano. Un giorno, mentre ero in fila in attesa del mio turno in un laboratorio fotografico, sento una voce che mi sembrava familiare: Ci sono ancora craxiani in circolazione? Era un fotografo al quale avevo fatto assegnare – grazie all’inter-cessione di Bettino – un appartamento di un ente a poche lire al mese. La mia reazione fu un destro secco e la sua caduta a terra. Questa era l’atmosfera che ci attorniava. In Italia non potevo più viverci, né tanto meno lavorare. Dovetti andarmene a Parigi. Ci rimasi cinque anni. Ma stavo male anche in Francia, appena potevo scappavo a Hammamet. Come richiestomi, pochi giorni dopo la partenza da Ciampino, avevo eseguito il trasloco delle sue carte. Dopo andai ad Hammamet, entrando in casa lo vidi che stava attraversando il salone per andare in giardino. Si fermò esitante. Non sapeva se venire ad abbracciarmi o salutarmi da lontano con un cenno del capo o della mano, come faceva di solito. Mi resi conto che, mostrarsi a me da sconfitto, lo metteva in grande disagio. In effetti non si sbagliava: mi aveva fatto proprio quell’impressione. Aveva addosso una timidezza infantile che pur gli conoscevo. Decise di abbracciarmi e mi tenne stretto a sé a lungo per non dovermi mostrare l’espressione commossa. Chissà se la gente mi accetterà in questa veste. Ma così è, e non posso farci nulla.

vero che c’era il diabete a limitarne le energie, ma riusciva a controllarlo. Finalmente, un giorno se ne uscì con una riflessione inoppugnabile: Inutile illudersi di poter continuare a fare politica. Non mi resta che svolgere un’altra attività. Era un uomo che qualsiasi iniziativa avesse intrapreso l’avrebbe portata al successo. Ma che cosa posso fare? Io ho sempre fatto politica in vita mia e nient’altro. Gli suggerii di intraprendere la carriera di scrittore. A lui che scriveva così bene, sarebbe stato facile scrivere le proprie memorie, la vera storia d’Italia. Bastava fare calmare le acque, poi avremmo guardato all’orizzonte. Ma non riusciva a stare un minuto fermo e, nonostante i proclami di saggezza, la sua mente era rivolta ancora alla politica. Era un’ostinazione. Mi sembrava come quel soldato giapponese – gli dicevo – che, rifugiatosi nella foresta di un’isola deserta, e non sapendo che la guerra fosse finita da un pezzo, continuava a combattere da solo. Dopo un anno mi stancai dei soliti discorsi. Anche la famiglia era stanca. Non volevo fare la dama di compagnia. Avevo 35 anni e, rimanendogli accanto a piangere sul latte versato, avrei bruciato la mia vita. Dovevo pensare, invece, a mio figlio Edoardo, oltre che a me stesso. Ma non me la sentivo di lasciarlo solo nell’eremo. Ogni volta DOCUMENTO 1 (LETTERA BERLUSCONI)

Qualche giorno prima a Cap Ferrat avevamo fatto tanti bei programmi che adesso erano superati. Mi misi a sua disposizione, come un tempo, per sapere quali fossero le nuove strategie. Per tre mesi non affrontò mai il problema del futuro. Anzi, non ne parlava proprio. Aveva appena 60 anni e non poteva mettersi in pensione. È 28


che gli comunicavo di dover partire si offendeva: si sentiva abbandonato. Vederlo soffrire era l’ultima cosa che volevo. Ma non mi sfuggiva la sofferenza che in quel modo imponevo a mio figlio. Un bel giorno presi il coraggio a quattro mani e decisi di partire. Ero a Hammamet da parecchi mesi: non ce la facevo più, avevo i nervi a fior di pelle. Un giorno me ne andai lasciando tutto il mio guardaroba, perché credesse che sarei tornato qualche giorno dopo. Invece cercai di riprendere a lavorare. Lì per lì avevo pensato, che l’ingresso in politica di Berlusconi e la sua vittoria elettorale avrebbe riequilibrato il trend negativo che si era accanito su Bettino. L’evento confermava il fatalismo di cui era convinto. Chi avrebbe mai lontanamente immaginato che dopo Tangentopoli la sinistra potesse perdere le elezioni? A rompere le uova nel paniere, stravolgendo le strategie di occupazione del potere, era intervenuta Forza Italia. Per di più diceva Non essendo un politico, Berlusconi avrà bisogno dei miei consigli e della mia lunga esperienza. Insomma si illudeva che Berlusconi, dovendogli molto, si sarebbe adoperato per riabilitarlo e farlo tornare in Italia (documento 1). Ma era solo una chimera che si trasformò poi in un’altra grande disillusione. Non voleva rendersene conto ed era diventato pressante col suo amico Silvio. Sembrava autorizzato dal nuovo governo a impartire istruzioni da Tunisi. Alfredo Biondi, che era Ministro della giustizia e molto amico, era stato incaricato di studiare una legge per farlo tornare in Italia senza più persecuzione giudiziaria: il cosiddetto colpo di spugna su Tangentopoli. Ma non c’era davvero interesse a riabilitarlo perché, se no, ne avrebbero affrettato l’iter parlamentare. Invece, la discussione del provvedimento andò talmente per le lunghe che poi ci fu il ribaltone. Per di più, a fare capire a Craxi che era meglio non contare più sul suo amico, ci fu un increscioso episodio che capitò proprio a me. Divenuto Silvio Berlusconi capo del governo, Epoca mi chiese un ampio servizio fotografico sul Presidente al lavoro a Palazzo Chigi. Conoscendo la mia esperienza e la dimestichezza che avevo

con le stanze dei bottoni, la rivista della Mondadori, che appartiene proprio a Berlusconi, si era rivolta a me per avere un servizio fotografico come si deve, come quelli che un tempo facevo a Craxi. Arrivai a Palazzo Chigi poco prima dell’inizio della seduta del primo Consiglio dei Ministri. Non ebbi bisogno di chiedere permessi perché tutti i lasciapassare necessari che avevo erano ancora validi. Avevo già fatto qualche foto allorché il capo degli uscieri mi si avvicinò mortificato: Mi dispiace tanto, ma non può rimanere: purtroppo te ne devi andare. Gli chiesi di farmelo dire da chi gli aveva dato la disposizione. Poco dopo, infatti, venne Antonio Tajani, che allora era il portavoce del presidente: È Berlusconi che non ti vuole. Non so perché, ma è stato lui stesso a dirmelo. Senza discutere, cercai di finire al più presto il lavoro e me ne andai. Durante la notte, dopo avere sviluppato i rullini, montai il servizio e lo mandai subito a Epoca. Le foto erano talmente belle che ero sicuro che Berlusconi, vedendole, si sarebbe ricreduto. Invece, qualche ora dopo il redattore capo del settimanale mi chiamò per dirmi che purtroppo non avrebbero utilizzato il mio servizio fotografico. Ero distrutto dalla delusione. In quel momento capii: ero vittima di un’in-giustizia anch’io, solo per il fatto di essergli amico. Telefonai a Ham-mamet e gli raccontai l’increscioso accaduto. Vieni subito. Regoleremo tutto da qui. Comunque, sappi che tu non c’entri: quello è un messaggio per me. L’indomani partii per Tunisi. Venne Nicola Man-si a prendermi in macchina all’aeroporto. All’arrivo a casa erano tutti già seduti a tavola. Mi misi a mangiare anch’io. Al caffè volle che gli raccontassi tutto per filo e per segno. Per colpire me ti hanno rovinato. Ma danneggiare un fotografo nella professionalità e nella credibilità non è giusto. Si profilano, quindi, momenti molto brutti per tutti. Aveva un’espressione atterrita. Attraverso l’incidente di cui ero rimasto vittima aveva avuto conferma della propria fine. Quel pomeriggio non volle riposarsi: era troppo nervoso e preoccupato. Il segnale che gli avevo portato, comunque venisse inter29


pretato, era molto negativo e voleva parlarne per sfogarsi, per farsi venire

un’idea con cui reagire e cautelarsi. In macchina andammo alla periferia di Hammamet, dove gli uomini, le donne e i bambini da secoli vivono con problemi più pressanti dei nostri e ogni giorno trovano la soluzione per sopravvivere. Egli amava attraversare quel quartiere povero, quando si sentiva portato al sentimentalismo. Che cosa credi che sia successo? mi chiese. Ma non voleva che io rispondessi. Cominciava sempre così se aveva trovato la spiegazione di un mistero o la soluzione di un problema complicato. Berlusconi ha temuto che tu volessi riprendere il posto di fotografo del presidente a Palazzo Chigi. Ha temuto che qualcuno potesse pensare che tu facessi da tramite tra me e lui. Ha temuto che si sospettasse che ero stato io a imporgli una mia persona di fiducia alle costole. Ma non ha calcolato il danno che ti procurava non facendo pubblicare il servizio che Epoca ti aveva ordinato. Bisogna rimediare, far capire a Silvio che non è giusto che tu subisca le conseguenze dei nostri delicati rapporti. Intanto l’eco del mio incidente a Palazzo Chigi si era propagato negli ambienti professionali e politici. Qualche giorno dopo, essendo apparso su Epoca il servizio di un altro fotografo anziché il mio, l’e-co si amplificò. Mi chiamarono subito dalla redazione dell’espresso per offrirmi l’assunzione. Ma io rifiutai: non sono fatto per timbrare il cartellino due volte al giorno. Mi proposero, allora, l’acquisto di tutto il materiale fotografico, che avevo in archivio su Berlusconi. Rifiutai anche quell’offerta perché, seppure avessi bisogno di lavorare, un giorno me ne sarei certamente vergognato. Tra le foto che ho, infatti, la pubblicazione di qualcuna potrebbe non essere gradita a Silvio Berlusconi (foto 9). C’erano foto private che avevo scattato nei momenti di grande afflato con l’entourage dell’ex Presidente del Consiglio. Non era giusto adesso approfittarne. E poi, non sarebbe stato d’accordo, lo sapevo già: dietro qualsiasi iniziativa si sarebbe sospettata la sua regia. Mi resi conto, comunque, che da quel momento avrei subìto solo conseguenze negative dalla mia amicizia con Craxi.

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Nei giorni successivi tutte le ipotesi e le eventuali ripercussioni fuFOTO 9

rono analizzate insieme nei minimi particolari, fino all’esagerazione. Quell’inconveniente, e gli altri che si sarebbero verificati in futuro, divennero novità voluttuose e prelibate di conversazione quotidiana. Erano i soli argomenti di attualità capaci di dissipare l’opprimente cappa di rimpianti e recriminazioni di cui l’esilio era caratterizzato. A Hammamet si parlò sempre delle stesse cose per sei anni e mezzo di seguito, cioè per tutta la durata dell’esilio. Ogni giorno era il clone del precedente. Solo la malattia si evolveva, il resto era immoto. Talvolta temevo di impazzire, tanto veniva ripetuta la stessa storia nel tempo. Non c’era nemmeno l’imprevisto di un’interpretazione diversa, perché tutte le sfaccettature dei vari problemi erano state analizzate e prese in considerazione più di una volta. Era come se il passato si fosse impadronito della vita sua e di tutti coloro che gli vivevano accanto. Non c’erano barlumi di presente, né spiragli di futuro. Un giorno finalmente credette di avere trovato la soluzione al problema del mio lavoro. Ce lo comunicò a tavola durante il pranzo, come faceva sempre. Bobo ti accompagnerà a Milano domani mattina, dispose. Chiama, poi, Fedele Confalonieri da parte mia e riferiscigli che è mio desiderio che vi riceva. Digli pure che la presenza di Bobo testimonia la mia volontà, che venga attuato tutto ciò che gli proporrai. Insomma, Bobo sarà la garanzia che io sono al corrente del-l’operazione e d’accordo che si realizzi. Ormai Silvio Berlusconi si occupava di politica: la guida dell’azienda era affidata a Confalonieri. Bobo e io, in realtà, andavamo a Milano soprattutto per mettere una pezza alla situazione che si era creata. D’altra parte, era mio diritto continuare a fare il fotografo. Noi andavamo a Milano per trovare una soluzione giusta ed equa nell’interesse di tutti. Dovevo rientrare nel mercato della fotonotizia. Non era giusto che io non lavorassi con Mediaset, perché amico di Bettino, né con altri per non danneggiare Berlusconi. Del resto, avevo, e ho ancora, un gigantesco archivio che sarebbe una miniera di idee e di iniziative per un editore o per gli enti 31


locali per l’organizzazione di mostre turistiche o didattiche. Quindi, non chiedevo favori. Ma, offrivo l’opportunità di nuove iniziative editoriali. Era stato lui stesso sin dal 1984 a suggerirmi di acquistare archivi da grandi fotografi che si avviavano alla pensione. Da allora ho comprato tutti i negativi che potevo. Ho investito nell’attività professionale tutti i miei risparmi. Anziché acquistare BOT o appartamenti preferii gli archivi fotografici, comprando l’Agenzia Roma Press Photos, l’archivio del fotografo di Mussolini, di Alberto Cartoni e poi l’ar-chivio di Spartaco Appetiti, fotografo per cinquant’anni del Vaticano. Sono riuscito, infatti, a creare un archivio con sette milioni e mezzo di negativi che è un vero patrimonio storico nazionale. Volevo scrivere la Storia d’Italia attraverso le immagini, e anche la Storia del Socialismo. Compra tutto, mi incitava. Faremo una collana editoriale che andrà a ruba e rientrerai in breve tempo delle spese. Quando acquistai l’archivio del fotografo di Mussolini, ne fu entusiasta. Telefonò a Renzo De Felice e lo mise in contatto con me. A De Felice l’idea piacque molto. Visto il materiale, si convinse ancora di più che l’opera avrebbe ricevuto una grande accoglienza da parte dei lettori e cominciò subito a scrivere e preparare il primo fascicolo della collana. Avvenuta nel 1993 la catastrofe, trascorrendo il più del mio tempo ad Hammamet, trascurai tutte le attività che avevo in corso. Ma De Felice mi riportò alla realtà sollecitandomi lui stesso a cominciare ugualmente la realizzazione della collana. Fui molto gratificato da quella telefonata, perché capii che lo storico credeva davvero nell’iniziativa, non l’aveva accettata solo per assecondare il desiderio di chi gli aveva telefonato. Quindi era stato sincero nell’esultare per le foto che avevo accumulato in archivio negli anni. Purtroppo, poco dopo Renzo De Felice morì e io interpretai quell’evento come un segno sfavorevole del destino. Il sogno di creare una collana editoriale di libri fotografici della storia d’Italia svaniva. Preso l’appuntamento con Fedele Confalonieri, che si dimostrò

affabile e disponibile, Bobo e io partimmo per Milano. Siate discreti e rispettosi, si era raccomandato. Andate a chiedere un favore, non a riscuotere un credito. Confalonieri ci ricevette assistito da due suoi collaboratori, cui avrebbe eventualmente affidato la gestione delle iniziative che andavamo a proporre. Confalonieri e gli altri espressero interesse per le mie proposte editoriali. Passò del tempo ma senza nessun risultato. Qualche anno dopo, infatti, cominciando già a sentirsi male, dopo tante operazioni e mutilazioni, tornò a ripropormi una mediazione con Fininvest o Mondadori, questa volta direttamente con Berlusconi. La fedeltà dimostrata per tanto tempo, nonostante il gran bisogno di lavorare, era l’attestato più attendibile della mia serietà professionale. In effetti, avevo rinunciato alla collaborazione con l’E-spresso, alla vendita dell’archivio alla Longanesi e a tante altre proposte vantaggiose e per di più strettamente attinenti al mio lavoro di fotografo. È vero che la mia era una scelta di vita: ma se questa scelta di vita aveva dato per tanti anni risultati negativi significava che era sbagliata. Male avevo fatto a strappare l’assegno in bianco che il consigliere delegato della Longanesi mi offriva. Come pure a rifiutare la collaborazione con l’Espresso. Non avrei dovuto indignarmi al consiglio di Ottaviano Del Turco, che fu il primo a suggerirmi di prendere le distanze da Bettino, non per tradirlo ma per evitare di affondare con lui. Con mia grande sorpresa e gioia un giorno, senza che lo avessi mai cercato, fui chiamato dall’assistente di Vittorio Merloni, il quale mi disse: «Debbo fare in tutta Europa delle convention per il lancio di una nuova lavatrice, ho bisogno di un fotografo. Chi meglio di te?». Ero fuori di me dalla felicità. Quel lavoro mi permetteva di inserirmi nuovamente nel mondo del lavoro e per di più in un settore diverso dalla politica. In ogni città, poi, avrei avuto modo di incontrare personaggi nuovi: imprenditori e pubblicitari con cui prendere contatti. Informai immediatamente Bettino, che, favorevole alla proposta ricevuta: È una persona stimabile, e come potrei dimenticare la collaborazione avuta ai tempi della scala mobile. 32


Per due mesi girai l’Europa con Vittorio Merloni sul suo jet privato. Tra un viaggio e l’altro, ovunque mi trovassi, chiamavo Hammamet, perché era un suo desiderio. Se potevo andavo, ed era sempre felice di vedermi e anche contento che un imprenditore del livello di Merloni si fosse esposto all’impopolarità, riportando nel mercato del lavoro il fotografo di un personaggio demonizzato dagli elettori e dall’establishment. Quello, purtroppo, si rivelò un lavoro sporadico e l’ostracismo contro di me continuò immutato. Ma noi non lo sapevamo. Anzi, eravamo certi che ormai ero tornato a essere un fotografo apprezzato e ricercato. A quel punto non mi sfuggì una malcelata stizza nell’e-spressione apparentemente gioiosa di Bettino. Seppure il gesto di Vittorio Merloni, in realtà, era stato un evidente omaggio a lui, era come se fosse geloso di un’occasione che mi era capitata senza la sua intromissione diretta. Capii allora che la sua era una gelosia affettiva. In sostanza, mi considerava suo e temeva che qualsiasi occasione di lavoro mi capitasse, non gestita da lui, potesse allontanarmi dal suo controllo e quindi da Hammamet. Ecco perché, pur dandosi continuamente da fare per trovarmi un’occupazione, non mandava messaggi efficaci e volitivi. Nessuno meglio di me sapeva con quale potente energia un tempo si rivolgeva a qualcuno per ottenere un favore. Mi affidava anche compiti delicati e di fiducia – come la vendita di GBR, l’emittente televisiva romana in crisi, che qualche anno prima aveva aiutato Anja Pieroni ad acquistare. L’ideale, per lui, sarebbe stato un lavoro da svolgere stando a Hammamet o che fosse in grado di sorvegliare. Gli feci notare che se spesso mi assentavo da Hammamet, era proprio perché lì, in Tunisia, vivevo nell’angoscia continua per la mancanza di lavoro. Avendo un lavoro stabile e continuo che mi desse tranquillità e serenità, invece, gli sarei stato più vicino. Mi suggerì di realizzare servizi fotografici a personaggi di grande levatura internazionale, per esempio Yasser Arafat, cui lui avrebbe potuto rivolgersi facilmente. Ma l’epoca in

cui i giornali erano interessati a quel tipo di foto era finito. Pur essendo un grande studioso di storia, non era considerato un intellettuale, ma un uomo d’azione e un politico. Non apparteneva a quella generazione in cui intellettuale si definiva per vezzo chiunque, se, di sinistra, avesse letto e studiato un po’ più degli altri. Era, però, un uomo di cultura. Lo studioso forse è più riflessivo: può essere un buon consigliere, ma non certamente un leader. Era un ricercatore, appassionato anche di scienze politiche, non solo italiane ma di tutto il mondo. E poi, fu un rivisitatore di Pierre Proudhon, teorico francese del socialismo del XIX secolo. Essendo un leader non aveva bisogno di dimostrare la propria dimensione culturale. Aveva il carisma a descriverne lo spessore e farlo apparire esattamente com’era, senza malintesi né millanterie. Se un leader è colto o no, poco importa. Chi non lo è, ha bisogno di dimostrare di possedere qualcosa in più degli altri. Ovunque andassimo sapeva tutto del paese, dalla storia all’economia, dalle tradizioni alla situazione sociale e ai costumi. Un giorno su una collina poco distante da Hammamet scoprì un carro armato inglese sepolto dalla sabbia. Gli volli fare una foto. Perdi tempo, in Italia ormai le mie foto non valgono più nulla (foto 10). Quelle foto gli piacquero molto perché ritenne che per la prima volta lo fotografassi da storico, non da politico. Da quel momento il suo passatempo preferito era spiegarci la storia della Tunisia e della Seconda guerra mondiale. Raccontava di episodi e personaggi con una tale enfasi da sembrare il più grande storico vivente – come un giorno lo definì la moglie – o l’unico storico del mondo, come lo chiamavo io. Ogni volta aggiungeva un nuovo particolare, ma ci raccontava sempre le stesse cose, tanto che un giorno gli dissi che sembrava mio nonno, che si dimenticava ciò che aveva detto qualche minuto prima e lo ripeteva senza rendersene conto. Io lo dicevo per prenderlo in giro e farlo divertire, ma in un certo senso era vero. Non era più lo stesso. La vita sedentaria e soprattutto la noia accelerarono il decadimento fisico. Infatti, dopo pochi mesi dalla par33


tenza dall’Italia, accusava la prima crisi esistenziale. Stando tutta la giornata a casa si rese conto di non sapere neppure fare un caffè né friggere un uovo. Aveva sempre bisogno di qualcuno che lo accudisse, come un invalido. Ho dedicato tutta la mia vita alla politica sacrificando moglie, figli. Avevo tanti hobby, come leggere e studiare, fotografare e filmare, ma ho dovuto rinunciarvi. Senza rendermene conto, occuparmi dei problemi della collettività è diventato il mio unico divertimento.

FOTO 10

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Prima di entrare in politica coltivava tante passioni ed era stato pure campione di basket. Mentre era all’università aveva creato una cooperativa cinematografica per la realizzazione di documentari, assieme al cognato Paolo, che scriveva le sceneggiature. Sin da giovane era stato un appassionato della macchina da presa. Nel 1968, quando era già deputato, accompagnò Nenni in Israele e lo riprese in tutte le fasi dei suoi incontri politici. Infatti, divenuto un leader politico, aiutò sempre gli artisti. Non bisogna dimenticare che fu l’inventore del Made in Italy. Nel 1982 indisse a Firenze un grande convegno che durò tre giorni. Lo scopo era di aiutare l’imprenditoria italiana a svilupparsi e l’industria e gli stilisti ad affermarsi all’estero. Accorsero tutti, da Berlusconi a Gianni Versace, da Missoni a Nicola Trussardi, da Michelangelo Antonioni a Enrico Deaglio (foto 11). Fu una delle grandi svolte dell’onda lunga auspicata da Craxi.

lui – gli ostacoli della coscienza. Quando era accusato di avere intascato delle tangenti FOTO 11

Inoltre, dava molto spazio alla donna, credeva molto nel contributo femminile in qualsiasi attività. Sollecitò Lella Golfo a creare l’asso-ciazione Buongiorno Primavera, un’iniziativa che nasceva per valorizzare i prodotti italiani nel mondo e che aveva come simbolo il garofano rosso. La Bassetti lo disegnò sulle lenzuola e la biancheria, imitato da scultori e designers. Nacquero così i piatti col garofano. Madrina dell’iniziativa fu una grande donna socialista, Marisa Belisario, che purtroppo morì giovane. Grazie alla fiducia che riponeva in lei, credo che sia stata la prima imprenditrice di Stato: fu presidente del-l’Italtel. Alla morte, per onorarne la memoria, nacque una fondazione intitolata a suo nome e di cui è presidente Lella Golfo. Altra associazione creata da Bettino per valorizzare le donne socialiste fu il garofano rosa. Ma, indipendentemente dalla cultura, era un uomo dalle tante doti. Chi gli stava vicino lo trovava eccezionale per la sua generosità e il suo grande senso di umanità. Lui, invece, diceva che erano proprio quelli i suoi punti deboli. Avendo gli uomini cinici e insensibili meno scrupoli, non incontravano – come, invece, capitava a 35


non si sentiva soltanto offeso, ma ne soffriva. In effetti, come ladro era forse un Robin Hood, ma certo non un borseggiatore. Un giorno lesse un articolo di un suo grande avversario, Eugenio Scalfari, che lo paragonava al bandito toscano Ghino di Tacco, qualificandolo un taglieggiatore. Non conoscendo il personaggio citato da Scalfari, incaricò Gennaro Acquaviva, che per vent’anni fu il capo della sua segreteria particolare, di effettuare ricerche più approfondite sul bandito. Venimmo così a sapere che Ghino di Tacco era un acerrimo nemico di Papa Bonifacio VIII. Le sue vittime erano per lo più prelati, che si recavano da Roma a Siena o viceversa. Come spesso accade agli uomini temerari, il bandito venne, poi, tradito e ucciso dal suo braccio destro, tale Cecco. Non si sa neppure dove siano stati dispersi i suoi resti mortali, perché il Papa non volle che fosse sepolto in terra consacrata. Sono grato a Scalfari per avermi accostato a una figura così nobile, commentò, e da quel momento adottò lo pseudonimo di Ghino di Tacco per firmare i suoi corsivi sull’Avanti!. Il potere che assunse nel 1976, divenuto Segretario del PSI, e ancora di più, poi, nel 1983 come Presidente del Consiglio, non era personale ma pluralista. Gestiva davvero il potere in nome di tutti. Nonostante il carattere apparentemente burbero e il comportamento autoritario, era un uomo alla mano, sempre disponibile con chiunque. Per anni anche nell’Italia repubblicana e democratica spesso chi governava agevolava ricchi e potenti a discapito dei ceti meno fortunati. Per la prima volta con Bettino Craxi l’Italia è stata davvero socialista e cristiana. Durante tutto il periodo in cui fu un uomo che contava, non ci sono stati privilegi soltanto per i potenti, ma si è privilegiato i giovani che volevano emergere. Ecco perché nessuno intervenne in sua difesa quando cadde in disgrazia. Anzi, proprio per questo è stato esiliato. Per di più ha ridato all’Italia il prestigio che le spettava nel mondo. Ha fatto dimenticare il paese dei mandolini e della pizza, degli spaghetti e della mafia. Tutti stavano bene, perché la fiducia che gli italiani riponevano nel governo e nelle istituzioni, contribuì a far crescere il paese. I cittadini si erano

avvicinati alla politica perché non diffidavano più di chi la gestiva. Poi, da un giorno all’altro, tutti si sono lasciati convincere che senza Bettino saremmo stati meglio. E hanno assistito alla sua vendita senza reagire né protestare. Da secoli, anzi da millenni, nelle segrete stanze si cospira e si tradisce l’amicizia e la fiducia per inseguire denaro e potere. C’è chi commissiona e finanzia il tradimento per sostituirsi a chi comanda. Una volta riuscita la macchinazione, costui si crede immortale perché la storia non insegna nulla a chi non vuole imparare, accecato dall’ambizione o dalla vanità. Nessuno di costoro si rende conto che prima o poi sarà a sua volta tradito dalle persone di cui si attornia. Il potere esalta, illude, trasforma, ma soprattutto annulla l’intelligenza grazie alla quale lo si è raggiunto. L’avvertimento arriva in tempo, ma non viene mai decifrato e i segnali sono sottovalutati. Seppure non fossi dotato dell’intelligenza e della lungimiranza di Bettino, non mi sfuggiva l’atmosfera che l’avvolgeva, c’era intrigo e macchinazioni. Era come se avessi degli occhiali speciali. Lui, invece, non se ne rendeva conto. Continuava a ripetere: Io non ho commesso nulla di illegale. Ed è proprio per questo che doveva capire e andarsene. Perché se fosse stato ricattabile, avrebbero potuto manipolarlo e lasciarlo al suo posto. Tanto più che gli avvertimenti arrivavano da chi era stato beneficiato da Bettino, quindi bisognava ascoltarlo. Gli ripetevo continuamente di lasciare il partito. Tanto l’occasione ce l’aveva, senza neppure la perdita di prestigio: l’incarico all’ONU. E poi, in politica tutto è in continua evoluzione: le realtà cambiano, le alleanze si deteriorano e se ne creano altre, le maggioranze si capovolgono. Lui mi ha insegnato questi principi. Ma quando si trattò di metterli in pratica, se ne dimenticò. Credo che sia stato l’unico uomo politico della Prima Repubblica a non manifestare compiacenza per l’avvocato. Anzi, era continuamente in aperto contrasto con lui perché pretendeva di intromettersi nella politica italiana e condizionare le decisioni del governo. 36


Non tollerava che Gianni Agnelli desse ordini agli uomini politici solo perché era il presidente della Fiat. Da vero socialista, che qualche mese dopo avrebbe addirittura giocato al braccio di ferro con Ronald Reagan, non poteva approvare i privilegi che per tanti anni erano stati concessi improduttivamente all’avvocato. Ecco perché cercò di dare maggiore spazio ad altri industriali italiani. Andava d’accordo con tutti gli Agnelli, tranne che con Gianni. Nel 1984 andò in visita ufficiale in Argentina, Susanna Agnelli, che allora era sottosegretario agli Esteri, si fece trovare a Buenos Aires e invitò la famiglia Craxi nell’enorme fazenda di famiglia. Nessuno di noi aveva mai visto una casa talmente grande. Susanna Agnelli ci accolse attorniata da tutta la famiglia (foto 12). Ho ancora una bella foto di Bettino che si diverte con la nipotina di Susanna su un triciclo elettrico. Siccome tutti facevano qualcosa, lui provò a cuocere la carne sul barbecue. Non essendo proprio un cuoco provetto, per evitare brutte figure optò per il servizio a tavola.

messaggi politici anche quelli. Qualcuno era molto bello e di grande inventiva. Aveva intitolato Extraterrestri una sua foto con Oscar Luigi Scalfaro e altri uomini politici. Spiegava così il significato di quell’oFOTO 12

Era allora la vigilia del referendum sull’abolizione della scala mobile. In quel tempo era particolarmente teso e continuamente preoccupato, quella sera in Argentina sembrava tutto svanito. Sulla consultazione popolare si giocava tutta la sua politica. Gianni Agnelli era contrario alla strategia del governo e dava consigli diversi. Se li avesse seguiti gli italiani avrebbero bocciato il referendum. Anche il Ministro delle finanze, il repubblicano Bruno Visentini, era contrario all’iniziativa di Craxi, convinto che il risultato sarebbe stato catastrofico. Determinante per il successo fu Vittorio Merloni, allora presidente di Confindustria (foto 13). Anche due dei tre sindacati confederali si fidarono del presidente socialista e chiesero ai lavoratori di sostenere l’iniziativa del governo, che l’avvocato avrebbe voluto conseguire con una strategia diversa. La politica è un arte, quindi l’unica attività che posso svolgere da grande è l’artista, mi disse un giorno a Hammamet. E cominciò a creare delle composizioni di oggetti personali o storici o artistici da cui poi traeva litografie che regalava agli amici. In realtà, erano 37


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pera: Prima eravamo tutti uguali, poi io vengo considerato improvvisamente un extraterrestre. Ma com’è possibile che io faccia politica da 50 anni e ora non esista più? Anzi è come se non fossi mai esistito. Altre litografie erano intitolate I bugiardi. Ecco come passava il tempo a Hammamet. Questa sua voglia artistica era iniziata nella primavera del 1995 e le sue opere volevano essere messaggi politici. Come un vero artista era meticoloso e le cornici voleva sceglierle lui, e quando il lavoro non gli piaceva si arrabbiava con il corniciaio. Una mattina l’ho visto discutere a Nabul, un paese vicino ad Hammamet, proprio con il corniciaio. Al ritorno verso casa gli dico che mi ricordava mio padre, pure lui amante dell’arte. Un attimo di silenzio e sento dirmi Tuo padre Edoardo, so tutto di lui, un grande uomo venuto dal niente, superando la fame ha cresciuto quattro figli. Quando gli dissi che mio padre voleva parlargli, neanche mi fece finire Lo aspetto. Non sapevo cosa mio padre volesse dirgli. Quando arrivò ad Hammamet la prima frase di mio padre fu Sappi una cosa, Bettino, Umberto è mio figlio, non tuo. Tu hai due figli, che ti amano. Hamida immortalò l’incontro di due padri con una foto (foto 14). Craxi non si sottrasse mai alle proprie responsabilità. Era disposto a ricevere a Tunisi i magistrati, magari in territorio italiano, cioè nella sede della nostra ambasciata, per rispondere alle loro domande. Aveva solo chiesto la garanzia di una commissione parlamentare che assistesse all’interrogatorio. I giudici accettarono quella condizione. Si fissò la data e la composizione della commissione: 16 parlamentari e 2 magistrati. Ma la stessa mattina in cui era stato fissato l’appunta-mento, il viaggio fu annullato e nessuno parlò più di andare a Tunisi. In realtà, non c’erano la volontà e l’interesse che l’uomo parlasse, e allora decisero di farlo passare per un latitante che voleva sottrarsi alla giustizia per non finire in prigione. Non era vero e, venuto a conoscenza di quella calunnia, avrebbe voluto spiegare ai magistrati che cosa era successo e perché erano accaduti certi episodi. Capimmo allora perché non lo avevano arrestato

quando era facile, mentre era in Italia. Gli avevano proposto, invece, la soluzione dell’esilio perché se ne andasse e non parlasse. Perché il vero intento era di screditarlo davanti all’opinione pubblica. Se l’avessero arrestato, come avrebbero potuto, poi avrebbero dovuto interrogarlo, nello stesso modo che è stato fatto con tutti gli altri. Temevano che la difesa di Craxi mandasse a monte il progetto politico che era stato architettato. In effetti, non era stato trattato come tutti gli altri indagati di Tangentopoli. Mentre con tutti Antonio Di Pietro era duro nell’interrogatorio, con Bettino era imbarazzato e quasi in soggezione. Gli avevano proposto un arresto di poche ore, poi gli avrebbero concesso gli arresti domiciliari. Ma, avendolo minacciato, sapevano che non avrebbe accettato. Che cosa posso difendere rimanendo in Italia? Io qui non ho più nulla, né amici né partito. Da tempo ormai la segreteria del PSI era passata ad altri. Nessuno avrebbe preso le sue difese. Era stato un grande idealista che voleva propagare la democrazia in tutto il mondo, convinto che la libertà, e quindi la giustizia sociale, siano gli elementi indispensabili perché un popolo viva nel benessere. Si era accordato con comunisti e democristiani perché potesse muoversi liberamente da un capo all’altro del mondo. Ma l’ottimismo e la fede nelle proprie idee lo hanno reso imprudente. Se si fosse eclissato per un po’ di tempo, se avesse dato almeno la sensazione di avere recepito il messaggio e dimenticato la politica italiana, forse un giorno sarebbe potuto tornare. D’altra parte, lui stesso sosteneva che in politica nulla è definitivo. Ma poi, invece, si lasciava coinvolgere dalla passione e dalla frenesia per il progetto politico. Del resto, si era sempre considerato un Don Chisciotte e, essendo io una sorta di suo scudiero, mi chiamava Sancio Panza. La libertà d’espressione in Italia esiste per tutti tranne che per me, constatava con rammarico. Era troppo socialista per accettare l’i-dea che in un paese democratico la politica potesse essere deviata con simili violente manipolazioni. La nostra era, quindi, una democrazia condizionata, che non rispettava la volontà del popolo. Il 39


CAF (sigla dei tre personaggi che guidarono per anni l’Italia: Craxi, Andreotti e Forlani) (foto 15) aveva concluso il suo ciclo. E per essere certi che non risorgessero dalle ceneri, bisognava smembrarli definitivamente, tutti e tre. Così, Forlani era finito indagato. Andreotti accusato di connivenza con la mafia e Craxi in esilio. A Bettino quella denominazione non piaceva affatto. Anzi, se ne vergognava perché, da socialista, aveva creato – senza rendersene conto – un pool di tale potere. Io, invece, ero convinto che fosse tutto un malinteso nato nell’immagi-nario collettivo. Mi sono sempre chiesto, infatti, come mai il CAF si fosse sfaldato con tanta rapidità e facilità. Che razza di lobby era? Qualunque malinteso ci fosse stato tra i tre uomini più potenti del dopoguerra, come mai i problemi comuni non avevano fatto dimenticare e superare i dissidi? Ero arrivato alla conclusione che il CAF non fosse mai esistito, se non nella fantasia degli italiani, che speravano nell’alleanza tra grandi uomini da loro stimati e sui quali poter contare. Ma tre leader di tale statura non possono allearsi per la pelle. La loro intesa può essere conveniente, ma temporanea, perché continuamente minata dal reciproco desiderio di emergere uno sull’altro. Un giorno a Tunisi aprii il discorso sul CAF, ma mi fece capire di non gradire l’argomento e non smentì né confermò l’esistenza dell’inte-sa con Forlani e Andreotti. Le accuse furono ordite per eliminare democraticamente il CAF. La magistratura era lo strumento. È colpevole di non essersi resa conto del complotto. Nessun giudice, infatti, si chiese mai, grazie a quale miracolo fossero finiti sulle scrivanie di alcuni PM certi dossier che non nascevano da indagini giudiziarie, ma erano stati preparati appositamente altrove. I rapporti su certi uomini politici erano così bene circostanziati da sembrare inverosimilmente veri. Secondo Bettino c’era stato “colpo di stato”. Forse qualcuno, avendo capito, ne ha approfittato per fare carriera o per entrare in politica. Ecco perché non ce l’aveva con i giudici. Anzi, avrebbe voluto incontrarli per spiegare loro che si erano resi complici inconsapevoli della più grossa ingiustizia della storia repubblicana e democratica

e che le loro sentenze sarebbero servite solo a dare il crisma della legalità a un vero e proprio “colpo di stato”. FOTO 15

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Scoprì i particolari di questo complotto solo negli ultimi giorni di vita, benché aveva sempre avuto il sospetto che i magistrati fossero stati imbeccati. Da suoi accenni mi sono fatto la convinzione che alcuni “Poteri forti” avessero manovrato per eliminarlo dalla vita politica, forse per la sua troppa indipendenza, per poi sostituirsi a lui. Dovrebbe e potrebbe essere così se poi, nella Seconda Repubblica, mai nata secondo Bettino, molti politici, importanti, sono espressione dei “Poteri forti” e se il “Piano di rinascita democratica” è divenuto base per il programma di riforme istituzionali.

post-comunisti Foto 16

con

i

Mi accusano di avere rubato. Ma io ho speso tanti soldi per aiutare socialisti e antifascisti nostri vicini di casa: i greci, gli spagnoli, i portoghesi e quelli dei paesi del Terzo mondo. Anche i radicali nostrani hanno sempre bisogno di soldi. Non sono affatto soldi buttati: così gli italiani vivono in un’Europa migliore. La Storia mi darà ragione, purtroppo, come spesso avviene, nel momento che io non ci sarò più per ricevere le scuse di chi mi ha ingiustamente calunniato. Dava contributi al Manifesto, che non era certo filo socialista, perché aveva un sacro rispetto per la libertà di stampa e aiutava qualsiasi giornale ne avesse bisogno, non solo quelli che simpatizzavano con le sue scelte politiche. Anche Reporter era spesso sostenuto. E anche quel settimanale non era certo filo socialista. Era gestito da un gruppo di ex attivisti di Lotta continua, amici di Claudio Martelli (foto 16). A finanziarlo, per fargli un favore, era proprio Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, quindi, conosce da vecchia data Claudio Martelli e sa che è sempre stato uno che sa trovare il modo di defilarsi, se vede che le cose vanno male. Questo modo di agire poteva sopportarlo Bettino, che per Claudio era come un padre, ma non Berlusconi. Per di più Silvio conosce bene anche le antiche posizioni politiche di Claudio Martelli, un po’ filo comuniste o vicine a tanti fuoriusciti del PCI. Da giovane Claudio era repubblicano, ma essendo un intellettuale frequentava l’intellighentia comunista. Oltre tutto Silvio sa pure che nel 1992, per aderire al progetto di integrazione dei 41


socialisti, Occhetto aveva posto come condizione a Bettino di lasciare la segreteria del partito a Claudio Martelli, che era appunto il socialista più vicino a Botteghe Oscure. Ecco perché, andato al governo, Silvio Berlusconi, che ha fatto dell’anticomunismo il cavallo di battaglia di Forza Italia, non poté nominare Martelli ministro. Per la lunga amicizia e il ricordo di Bettino gli offrì di fare il sottosegretario. Ma Claudio rifiutò perché, essendo già stato ministro e addirittura vice Presidente del Consiglio nella Prima Repubblica, non poteva accettare un ruolo istituzionale di grado inferiore, che lo facesse retrocedere talmente.

gicamente in qualsiasi attività. Come avrebbe fatto senza denaro a fare accettare la politica autonomista del suo partito a tutti i filo comunisti del PSI? La maggior parte dei notabili, come Gianni De Michelis o Martelli, tanto per fare due esempi a caso, erano molto vicini al PCI. Bettino li convinse col denaro, oltre che con la chimera del potere. Per carità, non li corrompeva con mazzette, ma metteva loro a disposizione del denaro perché fossero più operativi. È un po’ come i nostri ricercatori che emigrano negli Stati Uniti. Non vengono adescati e corrotti dai dollari americani: negli USA hanno maggiori possibilità di effettuare esperimenti.

I soldi da qualche parte bisogna pur procurarseli. A chi chiederli se non agli imprenditori? Costruendo grandi opere pubbliche si migliora la qualità di vita dei cittadini, si creano posti di lavoro e si incrementano le attività produttive. Tutto questo non avveniva per miracolo, ma grazie a un’organizzazione politica e di partito che ha un costo elevato. Le stecche in America sono legali e vanno ai partiti. Come farebbero, se no, le campagne elettorali? Sono sempre esistite ovunque. Certo, accanto ai politici onesti ci sono i profittatori, quindi magari qualcuno ci fa la cresta. Ma lo statista al denaro non ci pensa se non per aiutare il movimento e l’ideologia. Tutti sapevano che i grandi industriali come Raul Gardini, Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti e tanti altri davano soldi ai partiti. A tutti i partiti.

Anche Palmiro Togliatti, – ricordava – tornato in Italia per costituire un forte PCI, cominciò a adescare socialisti ed ex fascisti, comprandone le simpatie col denaro che aveva portato dalla Russia, dove aveva trascorso l’esilio. In quel periodo i comunisti avevano troppo denaro, diceva Bettino. Non poteva venire tutto dalla Russia. Sono convinto che l’oro di Dongo se lo siano presi i partigiani e sia andato a finire poi nelle casse del PCI. I comunisti credono nella causa: a differenza dei socialisti non si appropriano del denaro del partito. Era con quel tesoro che il PCI era diventato il secondo partito italiano. Neppure Nenni era rimasto insensibile al fascino dei rubli. Il vecchio leader, poi, si allontanò dal PCI perché, in realtà, era un autonomista convinto. Ma per anni fu in minoranza nel partito, essendo la maggioranza dei socialisti filo comunisti. Anche Craxi subì il destino di essere relegato tra la minoranza fino al 1976, quando al Midas divenne finalmente Segretario del partito. Da quel momento volle dare a tutti la propria dignità di socialisti e si mise a lavorare sul progetto riformista.

Certo, il grosso andava alla DC e al PCI – diceva –, ma anche ai repubblicani e ai socialdemocratici e, ovviamente, all’emergente PSI. Ma questo si fa in tutto il mondo. La politica deve vivere, creare e produrre. L’interessante è che il Paese cresca senza inflazionare i costi di produzione. Antonio Di Pietro faceva parte della commissione di controllo della Metropolitana Milanese e non rilevò mai un’irregolarità. Io non ho visto passare per le mani dei compagni che amministravano il PSI tutti questi soldi di cui si parla. Certo ce ne volevano per gestire il partito e fare politica, ma non c’era corruzione, tranne che in casi isolati, come esiste fisiolo-

Qualsiasi nomina facesse, era sempre dettata dalla sua coscienza e presa nella convinzione di avere fatto la scelta del personaggio migliore e più adeguato a quella funzione. Era inflessibile se si trattava di assegnare cariche istituzionali. Anzi, se c’era di mezzo l’interesse o il prestigio del Paese non guardava in faccia nessuno, nemmeno gli amici intimi o di lunga data. Con Marina Ripa di Me42


ana, per esempio, che lo assillava perché facesse nominare il marito presidente della Rai, fu irremovibile. Carlo non è l’uomo giusto per quel ruolo, le diceva. La Rai è un ente molto importante e delicato. E poi, non è mia, ma degli italiani. Decise per Enrico Manca, che, infatti, si rivelò un buon presidente della Rai.

Viveva praticamente al partito fino alla sera tardi. In albergo andava solo per dormire. Un giorno d’estate, aveva un appuntamento importante alle FOTO 17

Era amico di Carlo Ripa di Meana da quando erano ragazzi: cominciarono a fare politica assieme. Era molto legato a Carlo, che era un gran signore. Gli voleva bene e lo stimava, ma ne conosceva i limiti. Di ottima famiglia e anche benestante, per la verità Carlo non chiedeva mai nulla. Seguiva Bettino perché affascinato dalla sua esuberanza. Ecco perché se poteva lo favoriva. Per esempio, divenuto segretario del PSI lo fece eleggere parlamentare europeo. Fu proprio in quel periodo che Carlo si legò sentimentalmente a Marina Lante della Rovere. Divenuto nel 1983 Presidente del Consiglio, lei entrò subito a far parte della corte e lui del governo. Marina veniva molto spesso nei week-end a Hammamet col marito o da sola. I Ripa di Meana furono invitati anche nel famoso viaggio in Cina, di cui tanto si è parlato e polemizzato (foto 17). In tutte le tappe del viaggio Carlo e Marina abitavano nella stessa residenza presidenziale in cui era ospite la famiglia Craxi, mentre tutte le altre persone del seguito stavano in altri alberghi. L’ultimo giorno, appena sveglia, Marina cominciò a urlare che dallo scrigno erano scomparsi tutti i suoi gioielli. Appresa la notizia impallidì: È come accusare il Presidente della Repubblica popolare cinese di furto, dato che ci troviamo in una delle sue residenze, quindi praticamente in casa sua. Mi incaricò di pregare Marina perché guardasse meglio nelle valige, dove forse erano finiti per disattenzione i gioielli. Così feci e i gioielli saltarono fuori, stranamente erano finiti nella pattumiera del bagno. Così, in Cina, si fece una figuraccia. È sempre stato un uomo coerente con i propri principi e con la fede socialista, talvolta in maniera esagerata. Non aveva particolari esigenze: era un uomo semplice e sempre a disposizione di tutti. 43


otto di sera al Raphael. Erano le otto e un quarto ed era ancora intento a scrivere. Credevo che se ne fosse dimenticato. Quando gli ricordai l’appuntamento, alzò gli occhi per guardare fuori dalla finestra: Com’è possibile che siano già le otto se è ancora pieno giorno. Era estate, lui l’orologio non lo portava mai.

Camera dei Deputati. In quel periodo avevo la passione per le tute miFOTO 18

Da anni riteneva ormai obsolete in tutti i partiti le federazioni giovanili, che non erano più un vivaio di futuri dirigenti, ma una copia in miniatura degli adulti. Così era pure la Federazione giovanile socialista. Dal 1987 cominciò a cercare un’idea per creare un movimento di giovani che non copiasse la struttura del partito ma, al contrario, desse preziosi suggerimenti e fosse vivaio di idee e uomini. Così affidò al figlio e a me l’incarico di coordinare il reclutamento. Bobo aveva 18 anni, e io 24: ci mettemmo a cercare giovani che intendessero svolgere attività politica nell’area laica e socialista. Una sera organizzammo una cena alla Majella, un ristorante dalle parti di Piazza Navona, quindi poco distante dall’hotel Raphael. C’erano dei giovani di Milano, venuti appositamente a Roma per la riforma del movimento giovanile. Bobo spiegò il progetto politico, ma con imbarazzo rispose alla curiosità dei giovani milanesi, quando gli chiesero del padre. Infatti non era certo di potersi liberare dagli impegni di governo e partecipare alla nostra cena. Invece, mentre eravamo al secondo, lo vediamo entrare da solo, senza scorta né séguito. Era venuto a piedi dal Raphael. I ragazzi erano felici e quasi increduli di quella apparizione. Fece un discorso politico che li entusiasmò. Alla fine della cena chiesi il conto, ma me lo tolse di mano e volle pagare lui. Rimasi sorpreso perché non gli avevo mai visto denaro in tasca. Allora, facendo una battuta di spirito davanti ai giovani ospiti, proprio per far capire loro quanto fosse alla mano il Segretario, gli chiesi dove avesse trovato quei soldi. E lui sorridendo rispose: Me li sono fatti prestare dal portiere dell’albergo. Il 4 agosto 1983 fu designato da Sandro Pertini alla Presidenza del Consiglio e cominciò subito le consultazioni in una sala della 44


metiche. Anche perché, avendo tante tasche, mi consentivano di tenere tutto il materiale fotografico addosso e non andare in giro con borse e valigette ingombranti come tutti gli altri reporter. Bettino mi prendeva in giro per il mio abbigliamento sempre originale. Stravagante, diceva lui. Mi preferiva in giacca e cravatta perché mi trovava più elegante. Sembra che tu stia andando in guerra, mi diceva. Quella mattina del 2 agosto, indossavo una sahariana che gli piacque in modo particolare. Appena mi vide, anziché la solita battuta sulla mia partenza per il fronte: Voglio anch’io una Sahariana come quella. E io di rimando gli chiesi: E io voglio diventare il tuo fotografo personale, ricordati, non ufficiale, ma personale. Andai subito a comprargliela ma non ne avevano della sua misura, così mi rivolsi a Vittorio Coccurello, il mio sarto, col quale dovetti insistere perché non aveva mai cucito una sahariana. Queste iniziative gli piacevano tanto. A chi gli chiedeva perché come interlocutore preferisse me agli altri collaboratori, rispondeva: È un giovane che sa come superare qualsiasi difficoltà.

afoso sento squillare il telefono. Era Antonio Ghirelli (foto 18), portavoce di Bettino, che in napoletano mi dice: Umberto! Vieni subito FOTO 19

Il giorno dopo, formato il governo, si recò al Quirinale per sciogliere la riserva. Era il primo governo socialista dell’Italia repubblicana. Nonostante fossi in giacca e cravatta, non potei salire con Bettino: dovetti aspettarlo nel cortile. Era la prima volta che non mi era consentito seguirlo. Così mi distrassi e nel momento che scese il grande scalone del Quirinale, non ero lì a fotografarlo. A un certo punto lo vidi in auto, che stava facendo il giro del cortile per uscire. Gli corsi dietro e bussai al vetro dello sportello. Lui fece fermare la macchina. Bisogna rifare la scena perché quando uscivi io non c’ero. Era molto divertito perché finalmente avevo bucato un servizio, per di più così importante per lui. Chiese ugualmente a Nicola, che guidava l’auto, di tornare indietro, risalì le scale fino a metà rampa, poi scese e risalì in macchina. Gli altri fotografi, che se n’erano andati, assistettero alla scena da lontano, senza capire che cosa stesse succedendo. Verso le cinque del pomeriggio di quell’agosto particolarmente 45


qui! Il Presidente ti vuole! Gli risposi Arrivo subito al partito. E lui Ma che partito. Qui a Palazzo Chigi. Arrivato, trovai lui seduto alla sua nuova scrivania. Davanti c’erano i suoi più stretti collaboratori: Giuliano Amato, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gennaro Acquaviva, capo della sua segreteria, e Antonio Ghirelli. Mi fece sedere. Mi devi spiegare che cosa significa fotografo personale e non ufficiale. Gli risposi che, pur essendo io un uomo libero, per lui ero disposto anche a dare la vita. L’ammirazione e la fiducia che avevo in lui, quindi, erano in contrasto con i miei principi. Ecco perché non volevo diventare il fotografo del capo del governo, ma continuare a essere il suo reporter personale. Però, dovendo da quel momento seguirlo ovunque e continuamente, bisognava trovare il modo di farmi guadagnare per vivere, senza creare problemi né a me né a lui. Amato mi propose di entrare a far parte per decreto della segreteria. Ma così sarei diventato il fotografo ufficiale. Giuliano, allora, suggerì di retribuirmi con i fondi che aveva a disposizione come Presidente del Consiglio. Così fece. Io emettevo regolari fatture che fui in grado di mostrare quando, poi, fui indagato. Ero stato pagato per creare un archivio fotografico della Presidenza del Consiglio, che ancora oggi esiste e che va dal 1947, i tempi di Alcide De Gasperi, al 1987 quando lasciò Palazzo Chigi. Non mi risulta che in seguito l’abbiano aggiornato. Era importante che i socialisti italiani fossero informati della frenetica attività politica e di governo. Infatti, era sempre in giro per il mondo, invitato da tanti uomini politici e capi di Stato. Quindi, proprio nel momento di maggiore successo, pur essendo sempre Segretario del PSI, aveva meno visibilità. Creai allora dei quaderni fotografici di periodicità quindicinale intitolati Argomenti socialisti. Vi veniva documentata tutta l’attività del Presidente, sia come capo del governo sia come segretario del partito. Nella mattinata del 12 agosto il Primo governo Craxi (foto 19) ebbe la fiducia del Parlamento. Dopo pochi giorni volle recarsi a Hammamet. Andammo da soli, lui e io. All’aeroporto di Tunisi non

voleva trovare autorità ad accoglierlo, né rappresentanza diplomatica, ma li trovammo. Lì era di casa e voleva che tutti continuassero a considerarlo un amico, non il capo del governo italiano. Non ero mai stato a Tunisi ed ero curioso di visitare quei luoghi di cui avevo sentito tanto parlare da lui. Era impaziente di potermeli mostrare. Era innamorato di quel paese e della sua gente. Guarda che bella terra, mi diceva ogni tanto, quando da un promontorio appariva un altro scenario. Era anche meravigliato dalla mia curiosità, che non era tanto per la terra, quanto per l’enfasi che metteva nel suo racconto. Mi raccontò la storia dell’emigrazione italiana a Tunisi e di tutto ciò che aveva fatto in tanti anni per migliorare il progresso del paese. Molte strade, per esempio, le aveva fatte costruire attraverso la cooperazione italiana. Tutti gliene erano grati. Infatti, mi resi subito conto che tutti lo conoscevano. Era compiaciuto della gratitudine che le autorità e il popolo gli dimostravano. A Hammamet c’era ad attenderci la moglie, che di solito partiva per la Tunisia in luglio. La villa non era molto lussuosa, ma confortevole. C’erano tante palme, che procuravano ombra. A dare un maggiore senso di frescura c’era anche la piscina. Trovammo alcuni ospiti locali, che facevano il bagno. Fui attratto da una bellissima signora, che al mio sguardo si coprì pudicamente le tette con le mani. Bettino mi raccomandò una maggiore discrezione. E poi, è già impegnata. Ha un marito e due figli. Più tardi a cena arrivarono altri amici tunisini, tutti professionisti o artisti. Mi aspettavo che, come nell’ap-partamento di Milano, avesse destinato per me una stanza. Invece, mi accorsi che ogni volta che andavo nella villa di Hammamet venivo sistemato in una stanza sempre diversa. Era un uomo fiero. C’era un aneddoto che circolava nelle stanze del partito e al quale non avevo mai creduto. Non avendomene mai accennato, pensavo che l’episodio appartenesse alla nutrita letteratura sulla sua permalosità. Aveva avuto nel 1979 col Presidente Pertini un battibecco, che gli era costato quattro anni di attesa al premierato. Un giorno a Hammamet fu lui stesso a parlarmene. Mi 46


rivelò che, poco dopo essere diventato Capo dello Stato, Sandro Pertini aveva esaminato subito la possibilità di affidare a un socialista la Presidenza del Consiglio dei ministri. Per valutare se la situazione politica fosse già matura per privare la DC della storica prerogativa di guidare il governo, il Presidente lo convocò al Quirinale. Ci andai in giacca e cravatta, ma con i jeans, tanto per non essere troppo conformista, mi raccontò. Del resto andavo a trovare un presidente socialista. Chi avrebbe mai supposto che si formalizzasse in quel modo. Pertini, invece, ritenne l’abbigliamento assai irriguardevole per l’istituzione che rappresentava e, con la spontaneità e la chiarezza che lo caratterizzava, lo cacciò via come uno scolaretto che si era sporcato il grembiule. Vai a cambiarti e torna con un abito scuro, gli gridò dietro. Ma lui giudicò offensivo il modo in cui Pertini lo aveva trattato. E, pur rinunciando al sogno che avevo inseguito per tutta la vita, non tornai più al Quirinale, finché quattro anni dopo non fu Pertini a richiamarmi per affidarmi l’incarico. Non si trattava di mancanza di rispetto per il Capo dello Stato né di trasandatezza. Il fatto è che non ha mai tenuto all’abbigliamento. Non perché privo di gusto, ma perché alla ricerca di un’eleganza diversa, proprio come era diverso lui stesso, come diverso era il suo modo di fare politica. Era un anticonformista per eccellenza, quindi il suo modo di vestire appariva stravagante. In realtà, aveva una ricercatezza tutta propria, cercava di essere elegante a modo suo. Agli altri, quindi, appariva malvestito. Per di più il casual che emergeva dal suo modo di vestire non era adeguato a un uomo della sua imponenza. Un giorno, per esempio, si presentò a una colazione ufficiale con una giacca di lino marrone su una camicia gialla, anch’essa di lino, e pantaloni di gabardine blu. Aveva un modo tutto suo di combinare i colori. Questo cattivo gusto, accoppiato alle sue dimensioni, ne moltiplicava la visibilità. L’abbigliamento preferito erano jeans e camicia d’estate, con l’aggiunta di casacca d’inverno. Vestiva così anche se andava alla

Camera, dove non era di rigore l’abito scuro, anche se tutti lo indossavano. Non mi candiderò mai al Senato, diceva, alludendo alla regola che vigeva in quel ramo del Parlamento di indossare in aula sempre vestiti interi con camicia bianca e cravatta. Anche alle Direzioni del partito, mentre tutti gli altri erano in giacca e cravatta, si presentava vestito in jeans. Aveva la passione per i cappelli. Anche se per la dimensione della testa non gli stavano bene, ne aveva tanti. In qualsiasi paese andassimo, appena vedeva un negozio di cappelli faceva fermare la macchina e ci entrava. Si provava tutti i modelli e finiva sempre per comprarne un paio. Il suo guardaroba era pieno di scarpe. Ma, tranne un breve periodo che seguì la moda degli stivaletti, calzava sempre mocassini neri leggeri. Ne aveva tanti, tutti uguali. Gli piaceva quel modello perché poteva toglierseli se riparato da un tavolo o da una scrivania. Aveva cappotti di colori strani e vistosi, e giacche a quadri che non passavano inosservate. E pensare che della sua corte facevano parte stilisti come Armani, Trussardi, Versace e Missoni, che facevano a gara per rifargli il look. Ma era irremovibile, legato al suo orribile gusto casual e ai colori vistosi. Memore della ramanzina di Sandro Pertini che gli era costata la possibilità di guidare il governo sin dal 1979, divenuto Presidente del Consiglio nel 1983, prese in considerazione la possibilità di cambiare abbigliamento. Finalmente si convinse che, seppure non gliene importasse nulla, era meglio indossare un abito che lo facesse apparire più elegante. Senza neppure rivolgersi ai suoi amici stilisti, cominciò a vestire normalmente. Erano abiti confezionati, che non avevano linea e lo rendevano goffo. Trussardi riuscì a fargli cambiare l’orribile montatura degli occhiali che portava da anni: creò un modello appositamente per lui e lo battezzò appunto Bettino Craxi. Ma non indossò mai un abito delle cosiddette grandi firme. Quelli vogliono vestirmi solo per farsi pubblicità, diceva. Si convinse, però, a farsi cucire i vestiti su misura dall’ottimo sarto, conosciuto mio tramite, Coccurello, che trasformò Bettino in un altro uomo. Però, durante le vacanze e i week-end, non resisteva al 47


richiamo dei camicioni e delle casacche. Ma, alto e grosso com’era, non sempre se ne trovavano della sua misura. Un anno prima che diventasse Presidente del Consiglio, cominciai a frequentare Ferdinando Mach di Palmstein, che era un suo grande amico. Era un professionista che mi era simpatico per la serietà, ma soprattutto per la sua classe. Aveva uno studio a Roma in via Tacito, sobrio ma elegantissimo. Un giorno mi propose di collaborare con lui, ovviamente senza interferire col mio ruolo di fotografo personale del Capo del governo. Gli risposi che bisognava chiedere il suo parere, che, difatti, un giorno mi chiamò e a bruciapelo senza fare nomi, tanto sapeva che avrei capito: Tu hai studiato economia per voler fare l’agente di cambio? Sei capace di gestire uno studio professionale? Che cosa ti sei messo in testa? Continuò su quel tono per un quarto d’ora. E poi concluse: Tu sei libero di lavorare con chi ti pare, ma devi decidere: o con me o con gli altri. Gli risposi che avevo già scelto. Allora va a dirglielo. Fui molto lusingato di quella ramanzina, perché mi resi conto che mi apprezzava e che soprattutto mi considerava utilissimo accanto a sé.

favo. Bellissimo e infinito l’abbraccio col vecchio rettore, sia all’arrivo che al momento del commiato. Ogni tanto si avvicinava e mi chiedeva a bassa voce: Dimmi la verità. Anch’io sono invecchiato come i miei compagni? FOTO 20

Nonostante gli impegni istituzionali e di partito, i viaggi all’estero e la vita frenetica, che conduceva senza fermarsi un solo istante, diventato Presidente del Consiglio sentì il bisogno di far partecipi del proprio successo i vecchi compagni di scuola e i suoi insegnanti. Volle dedicare un’intera giornata al Collegio Edmondo De Amicis di Cantù, dove il padre lo aveva mandato a 12 anni. Si trattava di una scuola cattolica il cui rettore era un sacerdote, che 40 anni prima era stato suo insegnante (foto 20). Per la prima volta fotografai in quell’occasione un Bettino dall’espressione e dal sorriso diversi. Era un uomo felice e, da quando lo conoscevo io, spensierato. Si era dimenticato per alcune ore dei tanti problemi che lo assillavano. Pacche sulle spalle e abbracci continui, i vecchi compagni gli ricordarono qualche marachella memorabile. Qualcuno si commosse. Anche Bettino ogni tanto si asciugava di nascosto una lacrima. Io fingevo di non vedere e, comunque, non lo fotogra48


Non mi aveva mai parlato della sua infanzia. Io conoscevo la sua immagine che mi ero fatta dal tempo che avevo cominciato a frequentarlo, nel 1980. Sembrava un uomo che non avesse avuto infanzia. Sembrava nato adulto. Interamente dedito alla politica, a parte qualche dispetto che faceva a me e a chi voleva bene, non parlava che di politica o di storia. Quel pomeriggio tornando in macchina a Milano mi parlò della sua infanzia. Io ero seduto davanti, accanto all’au-tista milanese, Nicolino, e lui nel sedile posteriore. Parlava a bassa voce e mi dovetti avvicinare per sentilo, fino a sporgermi. all’in-dietro. Mi raccontò di quando era bambino e della sua mamma, poi morta in un incidente stradale, mentre attraversava la strada. Il padre, che era stato partigiano, dopo la liberazione divenne vice prefetto di Milano. Non avendo il tempo di occuparsi dei tre figli li affidò a una sorella.

to presidente della Metropolitana Milanese, ricevuto un avviso di garanzia, lo canDOCUMENTO 2

Ma lui era particolarmente vivace. Era il maggiore dei figli. Già da ragazzo vedevo troppe ingiustizie, cui nessuno si ribellava. Ecco perché volevo diventare un rivoluzionario. Un giorno trovò una pistola senza munizioni, residuato della guerra da poco terminata e la nascose in un cassetto della sua stanza. Quando la zia se ne accorse lo riferì al padre, e non volle più la responsabilità di educare il nipote. Così l’avvocato Vittorio Craxi rinchiuse Bettino in una scuola di preti, dove la disciplina era più severa. Il collegio gli avrebbe calmato i bollori. Mentre da civile si sentiva rivoluzionario, da convittore aveva deciso di fare il chierichetto. Eri un ottimo chierichetto ed ero pronto a scommettere che saresti diventato Papa, gli ricordò, infatti, il vecchio rettore. Da laico, infatti, sei diventato capo del governo. Il fascino della tonaca gli durò fino a 16 anni, allorché riaffiorò in lui l’educazione laica, ricevuta in famiglia. Quindi, non volle tornare in collegio e si iscrisse a un istituto tecnico. Decisivo per la sua carriera politica fu l’incontro con Antonio Natali, un vecchio socialista che gli insegnò tutti i segreti della politica. Nutrì per il suo mentore perenne gratitudine e nel 1985 avendo Natali, diventa49


didò subito e lo fece eleggere senatore in modo che non finisse in galera. Purtroppo Natali non riuscì a modificare in Bettino il carattere troppo generoso per un uomo politico, ma anche intollerante alle ingiustizie, molto irascibile e inflessibile al compromesso. Non sapeva essere accomodante davanti agli ostacoli: preferiva affrontarli e travolgerli. Non voleva mai scendere a patti. Tutti gli suggerivano di essere più paziente, di sapere temporeggiare in attesa che gli eventi si evolvessero. Ma lui non aveva bisogno di questo genere di consigli: si conosceva troppo bene ed era il primo a biasimare i propri difetti. Ma era cosciente del carisma di cui era dotato e forse ne approfittava. Doveva risolvere le situazioni nel momento in cui nascevano. Era colto da una strana frenesia e da un’eccitazione, che si placavano solo una volta raggiunto il risultato. Era come se prevedesse di dover vivere poco e volesse, quindi, realizzare tutti i suoi progetti nel breve tempo che gli era rimasto. Quello che viene impropriamente ricordato come l’incidente di Sigonella fu, invece, un episodio che conferì grande dignità e prestigio al nostro Paese. Quale governo italiano prima di allora aveva mai rifiutato una richiesta degli americani? Quale statista aveva osato dire di no al Presidente degli Stati Uniti? Infatti, in quell’occasione – era il 1985 – ci fu una grave crisi e cadde il primo Governo Craxi. Giovanni Spadolini, che era filo americano, ritirò la fiducia del Partito Repubblicano di cui era Segretario oltre che Ministro della difesa (documento 2). Un giorno Bettino incontrò Spadolini a Ciampino: Io non sono meno filo americano di te, ma debbo pensare prima al mio Paese. E lo stesso dovresti fare tu. Se hai paura, dimettiti da ministro, ma non mettere in crisi l’intero governo. Gli americani avevano già capito e apprezzato l’atteggiamento patriottico di Craxi. Neppure per Bettino fu facile rifiutarsi di consegnare Abu Abbas e il suo gruppo di terroristi agli americani. C’era chi gli suggeriva di non dare i terroristi agli USA, ma di non liberarli. Potevano rimanere in una prigione italiana e processarli come criminali comuni. Così la giustizia avrebbe fatto ugualmente il suo corso.

Ma sentenziò: Uno statista deve pensare all’incolumità e al benessere degli italiani non alla giustizia. Nei giorni dell’incidente annullò tutti i suoi impegni. Si occupò solo di quel problema, consultando consiglieri diplomatici e servizi segreti, mettendo al corrente gli alleati di governo del veto, che l’URSS aveva posto alla consegna dei palestinesi. Dopo questi sondaggi concluse che la giustizia è un concetto politico non oggettivo e assoluto. Oltre a inimicarci il Cremlino, ci attireremmo l’odio di tutto il mondo arabo dal quale l’Italia è attorniata. Gli USA ci proteggerebbero forse da una guerra, ma non dalle ritorsioni che inevitabilmente subiremmo, diceva, citando anche la possibilità non remota di atti terroristici che avevano già colpito altri paesi occidentali. Potrebbe addirittura scoppiare la Terza guerra mondiale. Dobbiamo evitarla a tutti i costi, perché ne va anche dell’incolumità dell’intero mondo occidentale. I sovietici avevano suggerito all’Italia – ma in realtà intimato – di rimpatriare i membri del commando arabo nei rispettivi paesi. Un aereo egiziano era atterrato a Fiumicino per prenderli e portarli al sicuro in un paese arabo. Ma gli americani avevano i loro caccia in agguato nelle basi Nato spagnole. Se un aereo con i terroristi a bordo si fosse alzato in volo da Fiumicino o Ciampino, sarebbe stato raggiunto in pochi minuti dagli aerei militari USA e costretto a seguirli in un aeroporto della Nato. Anche Reagan aveva capito il grande pericolo in cui l’Italia si trovava e la delicata partita diplomatica che Craxi stava giocando. Propose quindi a Bettino che ognuno avrebbe usato liberamente la propria strategia. Se l’Italia avesse consegnato il commando palestinese agli egiziani, gli USA avrebbero cercato di intercettare l’aereo e catturare ugualmente i terroristi. Ma se Abu Abbas e i suoi complici fossero caduti nelle mani degli americani la colpa sarebbe comunque ricaduta sugli italiani. Bisognava evitarlo. L’aereo egiziano doveva arrivare a sorvolare un territorio arabo prima che i caccia di Reagan sopraggiungessero dalla Spagna. L’unico modo era di trovare un aeroporto nella parte più meridionale della Sicilia in modo che, appena decollato, l’aereo arrivasse sul territorio arabo 50


prima di essere raggiunto dai caccia americani. Sigonella era appunto un aeroporto militare in disuso sin dal tempo della Seconda guerra mondiale, ma dalla pista ancora agibile. Ho sempre avuto il sospetto che ci fosse un accordo personale tra Bettino e Reagan perché il piano italiano non incontrò mai ostacoli. Tutto filò liscio come previsto, senza mai un minimo intoppo, nonostante le insidie che un evento così delicato nascondeva. E poi, mantenne sempre sull’episodio uno strano e insolito riserbo con chiunque, persino con i collaboratori più stretti. Eppure, non era un uomo riservato, ma notoriamente chiacchierone. Anche in politica, essendosi l’azione conclusa, continuò a tacere nonostante il successo strepitoso di un’operazione in cui era coinvolto il Presidente degli Stati Uniti e il suo prestigio. Secondo me i caccia USA partirono dalle basi spagnole con qualche minuto di voluto ritardo per consentire all’aereo egiziano di mettersi in salvo. Anche agli americani, infatti, conveniva la neutralità italiana, coinvolti, com’erano loro, con gli interessi israeliani. E poi, un’eventuale aggressione sovietica all’Italia poteva trasformarsi in una spirale di violenza inarrestabile. La notte stessa, verso l’una e mezza, arrivò all’hotel Raphael una telefonata di Reagan a Bettino. Sentii la sua voce squillante e gioiosa, la sua risata spontanea e fragorosa. Non seppi mai di che cosa avessero parlato. Eppure io ero la persona che gli era più vicina. Ma non riuscii a carpirgli la minima confidenza sull’argomento. Non ascoltai una sola parola della telefonata con Reagan, ma i toni non erano certamente da disputa tra avversari né da conversazione tra due persone in disaccordo. E poi, da quel momento gli incontri con Reagan, anche durante i successivi G7, abitualmente caratterizzati da enormi tensioni, furono improntati a una maggiore cordialità e anche a un grande rispetto. Sembravano amici di vecchia data. Quella fermezza di carattere che tanti guai gli avrebbe causato in Italia gli consentì, invece, di raggiungere per il nostro Paese importanti traguardi all’estero. Purtroppo il suo nome è più legato alle

fantomatiche tangenti che alle sue conquiste in politica estera. Per esempio, se si parla di G7 – adesso G8 con l’ingresso della Russia – pochi ricordano che prima del Governo Craxi l’Italia non sedeva al tavolo dei paesi industrializzati, che allora erano solo cinque. Difatti, si chiamava G5 ed era composto da USA, Inghilterra, Francia, Germania e Giappone. Gli italiani erano invitati come osservatori e aspiranti membri. Al G5 di Londra la signora Margaret Thatcher affermò chiaramente che secondo lei l’Italia non meritava ancora di appartenere al Club dei ricchi. Anche François Mitterrand, seppure socialista e amico suo, era d’accordo con gli inglesi. Mentre Reagan, Yasuhiro Nakasone e Helmut Kohl erano favorevoli. Craxi si irritò fortemente e ritirò immediatamente la delegazione italiana dalla riunione. Ma prima di andarsene fece un lungo e particolareggiato intervento per descrivere le nostre esportazioni e differenziarle in qualità e tradizione da quelle degli altri paesi. Le nostre contribuiscono all’evoluzione dei paesi che le ricevono, perché prodotti permeati di antica cultura, come il Made in Italy. Finché non saremo entrati a pieno titolo non parteciperemo più ad alcuna vostra riunione, concluse sempre più infuriato. Aspettiamo una risposta entro stasera. Mentre cenavamo in albergo, arrivò il portavoce del G5 per annunciare che l’indomani sarebbe proseguita la riunione del G7. Assieme all’Italia, era entrato anche il Canada. Anche al successivo G7 di New York si arrabbiò e abbandonò la riunione. Non era il suo brutto carattere a farlo infuriare nei vertici internazionali quanto la decisa intenzione di far cambiare opinione sull’Italia alle grandi potenze. Nonostante l’acume diplomatico di alcuni dei suoi predecessori, fino al Governo Craxi la posizione dell’I-talia non era presa in grande considerazione. Alla fine la delegazione italiana si accodava sempre alle decisioni degli USA. Craxi, invece, voleva che la richiesta del parere dell’Italia non fosse una semplice formalità. Voleva che la posizione dell’Italia fosse tenuta in considerazione come quella di ognuno degli altri paesi. E ci riuscì. Ma alla fine gliel’hanno fatta pagare.

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Nel 1957, a 22 anni, Bettino sedeva accanto a Pietro Nenni nel Comitato centrale del partito. Subito dopo fu eletto consigliere comunale di Milano e poi assessore. Ecco perché tutti gli imprenditori guardavano a quel giovane uomo politico come a un futuro leader sul quale puntare. Se assisteva a un’ingiustizia interveniva subito. Se qualcuno approfittava della debolezza di altri si arrabbiava. È facile essere forti con i deboli, diceva. A Salvatore Ligresti suggeriva: Prova ogni tanto a costruire qualche palazzo senza guadagnarci molto, recuperando poco più che le spese, e dai gli appartamenti a prezzo di costo a chi ne ha bisogno. Vedrai come ti sentirai meglio la notte, prima di prendere sonno. Era un laico convinto, ma talvolta parlava come un missionario. Era un uomo che non sapeva dire di no a nessuno. Magari, se si prendeva nel momento sbagliato, se era nervoso per un problema che non riusciva a risolvere, poteva apparire sgarbato e persino scostante. Subito dopo, però, se ne pentiva, perché si rendeva conto di non essersi comportato bene. Un giorno, mentre uscivamo di fretta da via del Corso, sede del partito, ci imbattemmo in Mara Venier. Non la conosceva, ma si fermò per rispondere al saluto, come faceva sempre con le signore. Lei non mi conosce, ma sono venuta lo stesso a trovarla perché ho bisogno di un favore, disse Mara. E Bettino: Mi mandi un fax per spiegarmi di che cosa si tratta. Le prometto di occuparmene. Lei rispose che non gli avrebbe fatto perdere tempo con spiegazioni: voleva semplicemente trovare un lavoro al cinema o in TV. Fu colpito dalla semplicità della richiesta. Da lì nacque il successo di Mara Venier. Spesso ci meravigliamo nel constatare che purtroppo attorno a uomini forti e potenti, intelligenti e geniali, c’è sempre gente mediocre e compiacente. Il fatto è che il leader non vuole trovarsi in competizione con nessun altro del proprio entourage. Infatti, se si analizza il comportamento di un leader, senza bisogno di farlo sdraiare sul lettino dell’analista, emergono subito insicurezza e megalomania. Purtroppo neppure Bettino derogava da questa regola.

Come il re, anche lui aveva bisogno della corte e dei giullari. Solo che il monarca sta sul trono per tutta la vita, mentre il successo di un leader – di qualsiasi uomo politico, senza eccezioni – ha un ciclo breve. Ed è inevitabile – giusto o ingiusto, ma così si evolve la società democratica – che prima o poi venga sopraffatto da altri che incalzano. Era soprattutto a Roma che sentiva il bisogno dei giullari. Lavorava quattordici ore al giorno e la sera aveva bisogno di distrarsi, purtroppo attorniandosi di persone che lo compiacevano e non lo contraddicevano mai. Le persone normali vanno al cinema o in discoteca: a lui non era concesso perché era un leader e dovunque andasse era subito assediato da ammiratori, postulanti e curiosi. Uscendo da Palazzo Chigi o dal Partito andavamo in albergo dove trovava tanta gente ad attenderlo, amici e non. I più assidui erano Paolo e Giovanna Portoghesi, Carlo e Marina Ripa di Meana, l’antiquario Giuseppe Marino, che aveva un bar a piazza Navona, Giampaolo Sodano, futuro direttore di Rai2, e sua moglie Fabrizia Cusani, sorella di Sergio. E tutti ridevano di loro stessi assieme a lui, per compiacerlo. È vero che era pieno di amici, ma tutti ben retribuiti con incarichi pubblici e istituzionali, con candidature e privilegi. Io non partecipavo mai a quelle cene perché mi sembrava di assistere a uno di quei film dell’era fascista. Preferivo raggiungerlo al Raphael verso mezzanotte, nel momento che i giullari stavano per andarsene. Parlavamo per una mez-z’ora sui programmi dell’indomani e me ne tornavo a casa. A Tunisi si era ricostituito attorno a Bettino un diverso gruppo di giullari. Non erano gli stessi della corte romana, che ormai, non potendolo più sfruttare, non lo andavano mai a trovare in esilio. Trovò altra gente, certamente più divertente e, non essendo più un uomo di potere, migliori di quelli che frequentava in Italia. Aveva bisogno di movimento e confusione attorno a sé. A Deanna Frosini, una pittrice, che stimava molto e che lo divertiva, Bettino affittò una casa a Hammamet e la convinse a trasferirsi in Tunisia. Fece 52


venire anche altri artisti, come Antonio Recalcati, milanese come lui e sinceramente amico, Antonio Picini, Emanuele Diliberto. Dall’Italia arrivò anche un simpatico gruppo di gay che lui aiutava. Erano artisti anche loro e dipingevano l’Africa. Regalava le loro opere a Ben Alì e ad altri capi di stato africani. Non stava un attimo fermo. La casa era sempre piena di gente ed era diventata meta turistica per molti. C’erano agenzie di viaggio che proponevano lunghi week-end a Hammamet a prezzi stracciati, prospettando anche un probabile incontro con Bettino Craxi. In effetti, la gente lo incontrava per la strada e lo salutava come un vecchio amico. Il Caffè Maure alla Medina e il bar dello Sheraton erano diventati i luoghi di incontro quotidiani con gli italiani. Era un pellegrinaggio di solidarietà e curiosità. Il salotto pomeridiano si infoltiva sempre di più. Talvolta non c’erano posti a sedere per tutti e allora molti si appoggiavano alle pareti o si sedevano sui braccioli delle poltrone. Tutti dicevano di risentire della crisi post craxiana. Tanta gente confessava di non avere più un punto di riferimento. È possibile che la crisi italiana e tanti drammi personali e sociali siano stati causati da lei? gli chiedevano quasi tutti. Rispondeva con orgoglio: Non da me, ma dalla mia assenza dalla vita politica. Quegli italiani cominciarono a piacere a Bettino più dei giullari che la sera si riunivano in casa sua. Erano elettori, quindi gente semplice e sana, che gli ricordava le campagne elettorali e lo riportavano indietro nel tempo. Ma ciò che di questi incontri lo affascinava e commuoveva era che i turisti italiani, che prima di arrivare a Tunisi non si conoscevano, grazie a Bettino diventavano grandi amici tra loro. Tra quella gente di ceto e cultura diversi, che a Milano, Grosseto o Palermo non si sarebbero frequentati, nasceva un dialogo, perché accendeva nei loro cuori la fiammella della fede e della solidarietà, dell’italianità. La verità è che il partito non poteva reggersi a lungo su un solo uomo, seppure della sua statura e del suo spessore. Avremmo dovuto formare dei quadri che dessero uniformità e continuità alla ge-

stione. Il PSI dava l’impressione di essere un partito padronale. Ma non era vero; ne guidava solo la politica, non aveva il controllo del partito. A gestirlo e amministrarlo erano tanti altri. Ecco perché eravamo continuamente aggrediti da biasimo e accuse. Ma lui non si preoccupava delle critiche. Le vignette che lo ritraevano come un condottiero o un capobanda lo divertivano. Stimava molto Giorgio Forattini e rispettava il lavoro di chiunque, persino di chi lo giudicava e lo criticava. Si infuriò allorché nel 1981 apparvero a Roma dei manifesti in cui la x di Craxi era una svastica e lui veniva definito fascista. Mi mandò a fotografare quei manifesti, perché deciso a querelare gli autori. Era la prima querela della sua vita politica. Tanto si era sentito offeso. Io sono un socialista diceva con orgoglio e convinzione. L’amministrazione non era nello stesso palazzo del partito in via del Corso, ma in via Tomacelli, a poche decine di metri. Non che alla sede centrale mancasse lo spazio, ma si era sempre preferito tenere separata la gestione finanziaria da quella politica, proprio perché i sostenitori del partito non si incontrassero con gli attivisti. Dal 1983 segretario amministrativo del PSI fu Vincenzo Balzamo, che negli anni ’81-82 era stato Ministro dei trasporti. Proprio perché lo stimava molto, a un certo punto gli aveva chiesto di lasciare il governo per occuparsi della gestione finanziaria del partito. Eravamo molto amici, e come molti altri compagni, spesso Balzamo si rivolgeva a me per mandare dei messaggi a Bettino, perché continuamente in contatto con lui. Un giorno venne in via del Corso e mi chiese di scendere per fare una passeggiata. Ricordo che rimasi stupito dell’invito, perché era mezzogiorno e mezzo e per la strada c’era un caldo soffocante. Era l’estate del 1992. Mentre i rari passanti cercavano l’ombra dei cornicioni, camminando radenti ai muri, noi rimanemmo sempre al centro della strada per evitare che qualcuno carpisse brandelli della nostra conversazione. Sudavamo, e Balzamo parlava: Sono stanco di fare l’amministratore. Stiamo attraversando un periodo 53


molto strano, voglio tornare al governo. Ne ho parlato a Bettino, ma è stato vago. Trova il momento giusto per parlargliene tu. L’istanza mi meravigliò perché in quel periodo il segretario amministrativo del PSI era molto più importante di un ministro, sia in seno al partito che nella vita politica del Paese. Ma, trattandosi di un amico, pur non avendo capito la sua aspirazione, tornato al partito, ne parlai subito a Craxi che, invece, deciso: Che stia al proprio posto. I problemi deve risolverli lui. Come coloro che non osavano rivolgersi al Segretario, perché intimiditi dalla sua personalità o dalla delicatezza dell’argomento, anche lui si serviva di me per mandare dei messaggi o addirittura delle strigliate, che, se fatte da lui personalmente, avrebbero potuto incrinare i rapporti personali, e quindi gli equilibri politici nella corrente di maggioranza del partito. Io, invece, potevo aver capito male. Ed era una giustificazione che soddisfaceva tutti.

venuto a creare un malcostume di cui lui sentiva il peso politico. Aveva dato autorità e potere a chi non sapeva usarlo o, peggio ancora, se ne serviva per fini volgarmente personali. Cercò di eliminare i corrotti e riprendere in mano la situazione, che stava diventando insostenibile. In realtà, il PSI non esisteva: c’erano solo Craxi e gli uomini che lui aveva messo ai vertici nelle varie regioni, province e comuni. Craxi gestiva la politica, gli altri erano i padroni del partito nelle varie sedi. Foto 21

Una domenica mattina del 1986, appena sbarcati con l’aereo militare a Linate, apre Repubblica e legge un’intervista di Paris Dell’Un-to (foto 21), rilasciata a Barbara Palombelli: Sono io il Re di Roma. Qui comando io, non Craxi. Era una sfida, ma non ne sembrò preoccupato. Purtroppo situazioni analoghe esistevano anche altrove. Fu comunque quell’articolo a fargli capire che il PSI si trovava in pericolo, perché i dirigenti si comportavano come se il partito fosse loro. Al centro e in periferia ognuno continuava a fare come meglio credeva. Bettino era come un genitore troppo buono, che per guadagnarsi l’amore e il rispetto dei figli, consentiva loro qualsiasi capriccio. Non era capace di alzare la voce e prendere decisioni drastiche. Era sempre in cerca di consensi. La soluzione fu di fare scendere a Roma alcuni suoi amici milanesi. Purtroppo la situazione era sfuggita di mano ed era ormai troppo tardi. Allo stesso modo si rese conto di non riuscire più a controllare il comportamento di alcuni dirigenti e simpatizzanti del partito. In effetti, soprattutto in periferia, qualcuno aveva esagerato nelle stecche, altri nel millantare la sua amicizia e, quindi, potere. Si era 54


Non poteva esercitare alcun controllo non essendoci un collegamento tra la Segreteria nazionale e la periferia. Io glielo ripetevo continuamente: Il partito sei tu, ma nulla è realmente tuo. Ogni volta che dai una carica a qualcuno, costui crede di essere diventato azionista del partito. Prima o poi scopriva che cosa succedeva alle sue spalle e a sua insaputa, ma veniva a sapere tutto a cose ormai fatte. E non sempre bastava eliminare chi si era comportato male per rimediare agli errori. Sia per non danneggiare ulteriormente l’immagine del partito, sia per recuperare parzialmente i danni, almeno dal punto di vista legale e amministrativo, cercava di convincere i responsabili delle marachelle a correggere gli errori e rimettere a posto la situazione. Purtroppo non si trattava propriamente di marachelle e Bettino avrebbe dovuto denunciarle, ma non poteva. Aveva capito che bisognava dare una svolta ai finanziamenti del partito, che bisognava non dipendere più in modo particolare dall’aiuto degli imprenditori e trovare sistemi di finanziamento autonomo. Una prima idea venne alla vigilia del Congresso di Rimini. Prevedendo che ci sarebbe stata un’eccezionale affluenza di simpatizzanti e attivisti, molte aziende pubblicitarie ci chiesero di potere usufruire della visibilità che il nostro raduno consentiva. Arrivarono, infatti, una dopo l’altra tante richieste di sfruttamento degli spazi attigui a quelli propriamente congressuali. Costruiamo degli stand e affittiamoli, fu la sua idea. Appena seppe che avevamo incassato 14 miliardi esclamò: D’ora in poi dovremmo fare almeno due congressi l’anno. Nel 1986, quando era ancora Presidente del Consiglio, Claudio Martelli aveva creato la componente craxiana. Ne facevano parte Bobo, Cornelio Brandini, che per anni era stato il segretario particolare di Bettino, e Bruno Pellegrino. Sentii subito che qualcosa non funzionava in quel progetto politico perché, a parte Bobo, gli altri non erano per niente craxiani. Anzi, Brandini addirittura lo detestava e lo faceva notare in maniera sfacciata. Una sera Bobo insistette per andare a un dopocena in casa di Ferdinando Mach di

Palmstein. In realtà, era una riunione politica alla quale era invitato Bobo, ma non io. Infatti, appena Martelli mi vide, fece una smorfia di disappunto. Come dire: Ma perché s’è portato dietro Cicconi? Percepii subito l’espres-sione ostile e capii che quella sera dovevano parlare di qualcosa, che io non avrei dovuto ascoltare e di cui, nonostante la presenza di Bobo, Bettino non doveva sapere. Me ne andai. Ferdinando insistette perché rimanessi, ma non gli diedi ascolto. Ormai ne sapevo abbastanza. Ovviamente Bobo non lo sospettava neppure lontanamente, essendo Claudio come un figlio per suo padre e quindi come un fratello maggiore per lui. Martelli affascinava i giovani. Era inutile cercare di aprire gli occhi a Bobo o dirgli che in quel modo, senza volerlo, stava facendo del male al padre. Nel 1989 Andreotti formò il suo settimo Gabinetto, Craxi chiese che vice presidente del Consiglio fosse Martelli. Così Andreotti lo farà svegliare presto, mi diceva. Ma, seppure il suo pupillo non fosse mattiniero, requisito indispensabile a un leader politico, né caratterizzato da grande puntualità, altra dote necessaria, vedeva sempre in lui tante altre qualità. Gli voleva bene. E questo era sufficiente per coprire tutte le lacune del giovane delfino. Era tale il suo carisma che riuscì persino a trasmettere in tutti noi l’amore e la stima che riponeva in Martelli. Nessuno si stupì, quindi, se nel settimo Governo Andreotti Claudio divenne anche Ministro della giustizia. Un giorno appresi che il neo ministro e vice premier aveva convocato tutti i capi elettori del PSI, cioè quelle figure politiche intermedie tra il parlamentare e la base del partito. Per dirla in modo pratico, erano coloro che ai congressi facevano il buono e il cattivo tempo, dato che disponevano del controllo sulla maggior parte dei tesserati. Erano loro che detenevano le deleghe di quegli iscritti che non partecipavano ai congressi. Martelli li aveva convinti a votare per lui come Segretario nazionale al successivo congresso del partito. Per dissuadere quei socialisti dal naturale sospetto che stesse tradendo Craxi, gli raccontò che agiva proprio per conto suo, che 55


ormai stanco, progettava un periodo di riposo e il controllo del PSI attraverso una persona di fiducia come lui. Non rivelai subito il complotto, perché sapevo di dargli il più grande dolore della sua vita. Benché la persona che mi aveva avvertito fosse di grande fiducia e quindi attendibilissimo, volli controllare di persona quella rivelazione. Era tutto vero. Ma me lo volli sentir dire dallo stesso Martelli. Lo presi da parte: Non ti vergogni di tradire il tuo padre spirituale e per di più metterti dalla parte di coloro che ordirono le calunnie sul tuo conto per la droga in Kenia? Ero deluso da Claudio perché, indipendentemente da ciò che Bettino pensava di lui, io lo stimavo davvero e prevedevo che, nonostante i suoi limiti, dopo Craxi sarebbe stato lui il leader del PSI. Lo scandalo della droga a Malindi era scoppiato l’estate precedente. Durante la vacanza in Africa, Claudio era stato fermato dalla polizia keniota e trovato in possesso di droga. I giornali italiani ricevettero subito la notizia e Bettino non esitò a difenderlo. Dopo avere ricordato a Claudio la grande e recente prova di amicizia da parte del suo padrino, ero curioso di ascoltare le sue giustificazioni. Martelli cominciò a balbettare, dicendo che il suo non era un tradimento, ma al contrario una decisione nel suo interesse, perché, ormai, essendo impegnato all’ONU non poteva occuparsi del partito. Prima che altri mettessero gli occhi sulla segreteria del partito voleva anticipare tutti. E allora perché non glielo dici? Tanto più, come sai, prima o poi viene a sapere tutto. Pur non essendo più capo del governo, nel 1988 era ancora l’uomo politico più potente d’Italia. Ma il suo viale del tramonto era già cominciato, anche se al di fuori del partito nessuno se n’era ancora accorto. Forse qualcosa era cambiato addirittura dentro di lui. E non ero il solo ad averlo intuito. Gli uomini politici hanno una particolare sensibilità e percepiscono qualsiasi variazione di personalità nel loro leader. Ecco perché in molti sono pronti, come si dice volgarmente, a fargli le scarpe. Ma forse non è del tutto esatto. Infatti, è vero che i topi sono i primi ad abbandonare la nave che af-

fonda, ma non perché abbiano la vocazione di tradire il leader. Sentendo l’approssimarsi del declino prima degli altri, ognuno di loro vuole sopravvivere al proprio leader. Bisogna ricordarsi che il PSI non era una lobby di solidarietà collettiva. Se dovessi definire me stesso, potrei dire di essere stato uno dei pochi a rimanere fedele a Bettino, senza se e senza ma. Ero socialista per lunga tradizione familiare, ma ero diventato suo ammiratore. Quell’uomo aveva dato a un ragazzo, senza storia, la gioia di una vita scintillante, oltre che il grande premio della fiducia. Scoprì subito la mia grinta, la mia lealtà e la voglia che avevo di arrivare. Mi ha dato l’occasione di girare il mondo. Ecco perché vedevo in lui l’uomo che aveva dato al PSI la dignità di un grande partito. Non solo gli ero grato, ma pensavo che, come per me, senza di lui, neppure il socialismo avrebbe avuto futuro. Forse mi sbagliavo, ma questo era il sentimento che nutrivo. Quindi, non appena percepivo un movimento che potesse essere di disturbo alla sua sopravvivenza politica, come leader e come socialista, reagivo. E tutti lo sapevano. C’era addirittura chi mi evitava. A partire dal 1988 costoro erano in numero sempre maggiore. E Bettino percepiva questo mio sentimento per lui. Diffidente com’era verso chiunque, diceva a tutti che l’unico di cui si fidava ciecamente ero io. Come tutti i politici e, comunque, la maggior parte di coloro che hanno una forte personalità, si sentiva al centro dell’universo. Non perché fosse presuntuoso, ma perché cosciente del proprio spessore. Erano pochissime le persone con cui provava piacere a dialogare. Io ero tra questi, ero forse il solo. Credo che in me Bettino apprezzasse soprattutto il mio non sapere essere uno yesman. Infatti, anche quando, commosso dal suo stato precario di salute cercavo di compiacerlo, mi sentivo ridicolo e riacquistavo subito il mio comportamento sincero e leale, seppure talvolta impietoso. Il fatto è, che avevo troppo rispetto per il suo ingegno, per dargli ragione anche se non ce l’aveva. Oltre tutto capiva, quando aveva torto e voleva forzare la verità. Quindi si accorgeva immediatamente di chi 56


gli dava ragione senza convinzione. I giullari, infatti, lo divertivano ma non teneva conto del loro parere. Un altro motivo per cui mi aveva scelto come interlocutore preferito era l’affinità delle reciproche sensazioni. Eravamo molto vicini per sensibilità e ricerca delle emozioni. Quindi, osservava le mie reazioni per confrontarle con le sue. Su di me faceva i suoi test di ragionamento e riflessione. Era come se mi considerasse il popolo. Parlare con me era come rivolgersi ai suoi elettori e avere contestualmente le loro reazioni e i suggerimenti, i loro applausi e anche le critiche. In un certo senso, attraverso il dialogo con me, si autopsicanalizzava. Mi provocava per capire meglio. Poi, per affinare e ottimizzare il risultato del test, andava a riferire ad altri il mio pensiero o addirittura le esperienze che gli avevo confidato. Un giorno andammo al mare a Hammamet. Era l’estate del 1998. Io feci il bagno, lui mi attese sulla spiaggia. Non poteva più bagnare la gamba destra, era già ammalata. A lui dava fastidio che lo lasciassi solo perché non poteva parlare e si annoiava. Quel giorno voleva parlare di donne, alle quali pensava spesso anche se ormai non ne frequentava più da tempo. Mi chiese come mai io stessi talvolta con ragazze palesemente negative. E tu, allora? risposi. E lui di rimando: La domanda l’ho fatta prima io. Glielo spiegai e lui ne fu soddisfatto, coincidendo la mia risposta col suo pensiero. Anche Bettino aveva avuto rapporti importanti con donne che gli creavano problemi, e per di più lo facevano soffrire. Ma, come me, era convinto che in una relazione sentimentale ciò che conta è l’intensità delle sensazioni che si provano. Seppure negative o dolorose le emozioni si rivelano positive se creano – o rompono – un equilibrio psicologico e, quindi, provocano l’ispirazione. Ecco perché ci ostiniamo a proseguire nella lettura di un libro, che non ci piace o nell’amicizia che ci procura solo guai. Ecco perché continuiamo a giocare anche senza speranza di vincere. È perché l’emozione che proviamo ci serve per raggiungere l’equilibrio necessario a stimolare la fantasia e aumentare la produttività. Sembra,

quindi, che le donne distraggano dagli impegni principali, soprattutto se il rapporto è conflittuale. In realtà, è la calibratura necessaria per la normalità. Nel 1989 l’ONU affidò a Bettino il compito di guidare la crociata contro la droga. Era la patata bollente per farlo scottare e toglierselo di mezzo. Così si alienò le simpatie dell’Italia che conta e che allora, come oggi, non disdegnava una tiratina. Glielo dissi. Mi rispose: Ma chi può disapprovare una campagna contro la droga? Avrò il sostegno di tutte le persone sane, che sono la maggior parte degli italiani. Non era così. Gli italiani, soprattutto quelli che contano, non sono poi così sani come vogliono far credere. Sono pochi quelli che, se i figli non guardano, non disdegnano lo spinello e, magari, qualcos’altro. Per certi aspetti era un grande ingenuo. Quella campagna fu una spinta alla sua decadenza. Nel 1990 andammo in Marocco, ospiti del re Hassan II. A Bettino fu assegnata una villa sul mare tutta per sé. Noi del seguito eravamo sistemati in una dependance della casa. Mi ero appena addormentato, e sento squillare il telefono della mia stanza. Era Scanni: Bettino vuole che tu vada a dormire con lui nella villa. Cominciai a vestirmi, stropicciandomi gli occhi. Mentre raccoglievo gli oggetti sparsi nella stanza per metterli in valigia, sento bussare alla porta. Era Nicola Mansi: Bettino, ti vuole. Come mai non sei ancora andato? Voleva parlare, proprio di droga. Voleva sapere chi nel partito si drogasse. Lo informai che non lo sapevo: stando sempre con lui non avevo modo di frequentare nessuno. Quindi, come tutti, ero a conoscenza dei pettegolezzi correnti, ma non avevo notizie sicure. Gli suggerii di chiedere con maggiore insistenza a chi gli aveva messo la pulce nell’orecchio. A me hanno fatto dei nomi e assicurato che tu sai tutto. Quindi non ti stai comportando da amico, come dici di essere. Gli ricordai che più di una volta mi ero prestato persino a fare l’in-filtrato pur di difendere la sua onorabilità e quella della sua famiglia. Ma in quell’occasione qualcuno voleva attribuire a me la responsabilità del tradimento. Chi lo aveva in57


formato era intimo amico di quei leader sospettati di tirare. Qualche giorno dopo, passeggiando per New York, durante una sessione dell’ONU, ripresi il discorso che avevamo spesso cominciato ma che non riuscivo a concludere, perché ogni volta cercava di evitarlo. Senza preamboli gli chiesi a bruciapelo: Perché non lasci il partito? Cogli l’occasione che ti ha dato Perez de Cuellar e te ne esci in bellezza. Lui non rispondeva. Pensava come controbattere. Ma io capivo che quel silenzio era un’ammissione di debolezza. Con me non poteva bleffare. Lo stesso consiglio gli davano continuamente Massimo Pini e Paolo Pillitteri. Solo lui non si accorgeva degli strani movimenti che c’erano al partito. Molti scalpitavano. Vedendo che le cose non andavano più come un tempo, ognuno proponeva una soluzione diversa. Prima o poi una strategia sarebbe venuta fuori. Insomma, arriva per tutti il momento in cui ci si deve ritirare, gli dissi chiaramente. Bisogna avere il tempismo di cogliere l’occasione più favorevole. Ma in quel momento l’elemento di maggiore disturbo per la leadership di Craxi era proprio Claudio Martelli. E Bettino non voleva ammetterlo. Ma Claudio era vicino ai comunisti che, con Craxi in disgrazia, stavano riprendendo il controllo della sinistra. Sin dai tempi di Gramsci, l’obiettivo del PCI era stato di recuperare tutti i socialisti che non li avevano seguiti. Col suo avvento fu lui a riprendersi tutti i socialisti che i comunisti avevano adescato. Non sanno neppure loro che cosa sono, diceva di quei socialisti che passavano da una parte all’altra della sinistra. Non certo comunisti. Con quelli, anche se non cambiano facilmente idea, si può dialogare. Cominciamo a ricostituire il partito, mi sollecitò un giorno, dopo qualche mese di esilio. Nella seconda, come nella Prima Repubblica, si sentirà sempre la necessità di un Partito socialista. Non può esserci dibattito democratico in parlamento senza i socialisti. È vero che litighiamo continuamente tra di noi, ma proprio per questo garantiamo a tutti la libertà di dissentire e di proporre. Voleva mettere il nuovo partito nelle mani di De Michelis. Di lui

un giorno aveva detto: Lo sai che Gianni sta scrivendo un libro sulle discoteche? Ricordando che tutti biasimavano De Michelis per la sua mania di far tardi nei locali notturni, nonostante i tanti impegni che ha un ministro, ebbi una reazione di disappunto a quella notizia. Invece, aggiunse: È un’idea geniale. Frequentando le discoteche si è accattivato la simpatia dei giovani e scrivendoci un libro adesso avrà pure i loro voti in tutta Italia. Mi stava insegnando a cogliere sempre il risvolto positivo in qualsiasi circostanza. È più facile criticare che agire, diceva. In realtà, più che tornare alla politica, che ormai gli era interdetta, voleva creare una struttura politica anche in memoria di tutte le vittime di Mani pulite: soprattutto di Gabriele Cagliari, Raul Gardini e Sergio Moroni, che erano suoi grandi amici e che i reati di cui erano stati accusati, secondo lui, non li avevano assolutamente commessi. Per Moroni e tanti altri amici era pronto a mettere la mano sul fuoco, sicuro di non bruciarsela. Gente che si era uccisa per la vergogna o era stata aiutata a suicidarsi, come diceva. Erano tutti socialisti, militanti o simpatizzanti o sostenitori, morti per il partito. Se è vero che prima qualcuno aveva forse rubato, adesso c’era chi, senza rendersene conto, costringeva al suicidio molti degli innocenti che si vergognavano della gogna morale cui erano additati. Prima o poi quei morti bisogna onorarli, ripeteva spesso. Sono i nostri martiri. Alla notizia della morte di Cagliari, che gli era molto vicino, pianse a lungo. Lo hanno certamente suicidato, diceva, stupito che tutti credessero alle versioni ufficiali senza contraddirle. Non riusciva a capire il motivo di quel suicidio. All’epoca pensò che fosse giunto il momento di indire una convention per arginare quella piaga. Convocò a Tunisi tutti i parlamentari socialisti, da Boselli a Del Turco e tutti gli altri. Ma l’iniziativa fu boicottata e non venne nessuno. Eppure era estate e il Parlamento chiuso: non c’erano impegni politici inderogabili. Non avvertirono neppure che non sarebbero venuti. Tangentopoli, secondo Bettino, era una falsa rivoluzione, non 58


essendoci alcuna traccia di romanticismo. Anche la Giustizia, come la politica, deve essere ispirata all’interesse del cittadino. Qui, invece, sento piuttosto la ripicca e il dispetto, per risentimento e vendetta, non per difendere la democrazia. Parlando di Mani pulite si alterava. E se la prendeva con se stesso per non avere cambiato il sistema nel momento che ne aveva la possibilità, quando era al potere. Purtroppo, anche in quel caso si dovette rendere conto che il più delle volte gli uomini politici si accorgono dei problemi solo se sono loro stessi a sperimentarli. Ammettendo pure che tutti gli indagati che si uccidono siano colpevoli, come fanno questi giudici a sopportare tante morti sulla coscienza? Come possono prendere sonno la notte? Ripeteva questo concetto continuamente come per essere sicuro che io lo memorizzassi, forse per ricordarlo ai suoi successori socialisti, se mai ci fosse stato ancora Socialismo in Italia. Spesso queste analisi ci coglievano sotto il sole cocente. Ma, infervorato com’era nella polemica, in parte anche con se stesso, non percepiva il caldo né il sudore. Infatti, finiva sempre con l’ammettere: Ma, se tutto questo accade, è anche colpa mia. Avrei dovuto pensarci prima, anziché recriminare adesso che sono in esilio. Ad Hammamet lo incitavo a scrivere la sua storia dell’Italia repubblicana, perché assieme alle accuse e alle condanne rimanesse anche la sua verità. Oggi certe cose non si possono dire, rispondeva. Ma prima o poi tutto verrà a galla. Un giorno mi accorsi che scriveva. Scrisse per parecchi mesi. Non cercava distrazioni né voleva essere disturbato. Capii, quindi, che finalmente aveva seguito il mio suggerimento. Ma non me lo espresse mai. Non amava fare nulla su con-siglio altrui. Era fatto così. Non amava neppure essere contraddetto. Mi fece capire, che tutti quegli appunti li avrebbe dati a Pillitteri. Una notte eravamo sulla terrazza, sdraiati sui tappeti, al buio, illuminati dalla luna, come spesso ci capitava a Hammamet dopo che tutti gli altri in casa se n’erano andati a letto. Lui guardava dalla parte dell’Italia. Aveva un barracano addosso. Lo usava per

parte dell’Italia. Aveva un barracano addosso. Lo usava per proteggersi dall’umidità notturna. Improvvisamente se lo strinse sul viso per non farmi vedere che stava piangendo. Si avvicinò a me, appoggiandosi con la sua grande testa sulla mia spalla e io l’abbracciai. E in quel momento scoppiò in singhiozzi. Non seppi trovare una parola di conforto che non fosse retorica o ridicola e me ne volli. Lo informai che l’indomani sarei partito per Milano a fotografare le strade, perché si ricordasse della sua città. Allora abbozzò un sorriso triste, ma non smise di piangere. Gli proposi di mangiarci un bel piatto di spaghetti in piena notte e berci una bottiglia di vino. Dovendo sottostare a una dieta rigida per via del diabete, certe pietanze non poteva mangiarle. Ma sapevo che trasgredire lo metteva di buon umore. Gli cucinai gli spaghetti con aglio, olio e peperoncino: per una volta non gli avrebbero fatto male, pensai. Era più importante in quel momento sollevargli lo spirito. Cercavo la padella, non la trovavo. Non glielo chiesi neppure, pensando che non ne sapesse nulla. Figurati che ne sa della padella, pensai. Invece, fu proprio lui a indicarmi il ripostiglio. Sapeva tutto. Si impicciava di tutto. Mangiando mi parlò della sua vita sentimentale. Le donne gli piacevano molto. Ma non per farci chissacché. Gli piacevano in quanto esseri umani affascinanti e così diverse dall’uomo. Stappammo un’altra bottiglia di buon vino tunisino. Andammo a letto all’alba. Mangiò con una voracità che avevo ormai dimenticato. Il cibo non lo masticava, lo divorava. Mangiava di tutto e velocemente, ma senza gustare. Per la verità, mangiava molto male e anche in modo scomposto. Gli capitava di asciugarsi la bocca col fazzoletto, mentre usava il tovagliolo per asciugarsi la fronte, perché mangiando sudava continuamente. Da qualche anno, per lo stato di salute e anche per i suoi impegni sociali, aveva imparato a mangiare un po’ più civilmente. E poi, non poteva mangiare di tutto. Un tempo gli piaceva anche bere. Poi i medici glielo proibirono categoricamente. Come pure il fumo. Lo conobbi che fumava tanto. Ma un giorno dovette smettere perché i polmoni funzionavano sempre meno. Co59


sì cominciò a ingrassare a vista d’occhio. Anche se nell’esilio di Hammamet le sue condizioni di salute peggioravano sempre più, ricominciò a fumare, seppure non con la medesima intensità di un tempo. Il giorno dopo fu più mattiniero. Era di ottimo umore, ma puzzava di vino e aveva il viso e gli occhi gonfi. Alla moglie, riferì che ero stato io a farlo ubriacare. Si divertiva se Anna mi sgridava, perché lo portavo sulla strada della perdizione. E allo stesso modo si comportò altre volte, come quando un giorno, andati a fare un’escursione, ad un certo punto ci mettemmo a giocare al pallone. Prima di smettere per tornare a casa gli chiesi di posare per una fotografia. Lui non voleva, ma io insistetti. Finalmente mi accontentò, ma nel simulare un dribbling prese una lieve storta. Come al solito ad Anna riferì che era stata colpa mia. Non aveva nulla, ma zoppicava per vezzo. Ogni tanto se ne dimenticava e camminava perfettamente. Questa gag durò per diverse settimane. Poi successe certamente qualcos’altro che gli fece dimenticare la storta. La sua visione della vita non l’aveva spinto a vivere in case di lusso, la sua casa di Milano era un appartamento in affitto di proprietà della BNL, e per di più neppure in zona residenziale. Via Foppa a Milano è vicino a San Vittore. Dalla finestra dell’appartamento si vedevano le finestre sbarrate del carcere. Ma a lui andava bene così. Se Anna, anche dopo la morte di Bettino, continua a vivere con la madre novantenne nell’eremo di Hammamet, è perché quella è l’unica residenza che le appartiene e dove, con la pensione di reversibilità del marito, può consentirsi il lusso di un paio di domestici. Quando Ligresti costruì un’intera zona residenziale a San Siro, voleva regalare il più bell’appartamento a Bettino. Non ti ci posso vedere in quella casa di fronte al carcere, gli diceva il costruttore. Mi pagherai, se ne avrai la possibilità. Anzi, non voglio essere pagato. Andai con Bobo a visitare quell’appartamento: era meraviglioso, 400 metri quadri, quattro bagni e un salone che era più grande dell’intero appartamento di

via Foppa. Dai balconi, anziché le grate del carcere, si vedeva un’intermi-nabile distesa di verde ben curato. Saputolo, si arrabbiò moltissimo con la moglie e con me. Chissà che cosa direbbe la gente. Io una casa di lusso non potrei comprarmela neppure se ne avessi il denaro, per non suscitare pettegolezzi e maldicenze. Già alla fine degli anni Settanta volle aprire il partito al mondo dell’arte e dello sport e ai personaggi televisivi. Candidò in Lombardia Gerry Scotti, l’uomo dei quiz, che era vicino al partito socialista e aveva manifestato l’intenzione di fare politica. Infatti, per una legislatura divenne deputato, ma non rimase intrigato dall’esperienza, né si lasciò catturare dalla passione per la politica. In cinque anni, infatti, si recò poche volte alla Camera. Per Craxi doveva essere un messaggio all’elettorato. Poi fu la volta di Pietro Mennea e di altri. Così anticipò la tendenza a reclutare personaggi popolari. Nel 1996 volle tentare nuovamente di ricostituire il partito. Ma questa volta senza notabili, che ormai sono riciclati in altri partiti, si raccomandò. Convochiamo i socialisti veri. In Italia credono di aver fatto la Seconda Repubblica, ma stanno prendendo in giro gli italiani perché i personaggi sono sempre gli stessi. E mandò me e Bobo a fare un sondaggio per convocare, poi, un convegno. Qualche settimana dopo fissammo il raduno socialista in un albergo di Tunisi. Questa volta fu un successo. Vennero tutti i socialisti senza casa, come li chiamava. Ed erano tanti, tutti desiderosi di ricostituire il partito. Bettino era emozionantissimo. Dopo tanti anni di delusioni e umiliazioni, finalmente un successo, come ai bei tempi. Per la prima volta dal momento che aveva lasciato l’Italia era tornato a essere un leader, attorniato da gente che aveva fiducia in lui e chiedeva di essere guidata, come un tempo a via del Corso. Notai che tremava dall’emozione mentre parlava. Il personale dell’albergo aveva dimenticato di mettere qualche bottiglia d’acqua al tavolo della presidenza. Così uscii dal salone per andare a prendergliene un bicchiere. Nell’atrio un funzionario 60


della nostra ambasciata chiedeva a due funzionari della polizia tunisina di far sospendere subito quella riunione. Il diplomatico esibiva la richiesta ufficiale del Ministro degli esteri italiano, Dini, al governo di Tunisi perché chi la presiedeva era colpito da mandato di cattura internazionale. La Tunisia non intendeva certo revocare l’asilo politico a Craxi, ma era meglio non fare clamore attorno al suo soggiorno. I due funzionari, infatti, mi chiesero molto imbarazzati se almeno la riunione si potesse abbreviare, per non fare un torto all’Italia né a Craxi. Risposi che eravamo costretti a sospenderla subito, dato che Bettino si sentiva male. Rientrando nel salone con l’acqua minerale, infatti, avevo trovato Bettino svenuto. Ed ero riuscito per chiedere l’intervento del suo medico personale, che aveva voluto seguirlo alla riunione, prevedendo l’emozione che, poi, infatti, lo colse. Non fu semplice metterlo in macchina col peso che aveva. In serata, riacquistate le energie e la piena forma, dopo avere commentato lo strepitoso successo del raduno socialista, gli parlai della lettera di Dini a Ben Alì. Era così sotto il Fascismo, fu l’amaro commento. Poi sapemmo che anche in Italia i socialisti facevano le riunioni segrete, proprio come durante la dittatura, quando i partiti liberi erano clandestini. Quanto ha sofferto la base socialista in questo secolo, ricordava amaramente. Ha subito il Fascismo e si trova adesso a vivere le stesse persecuzioni in democrazia, in un paese progredito e industrializzato.

al mondo la tristezza di Bettino? Ormai alla fine dei suoi giorni, riprenderlo non mi gratificava più. Anzi, boicottavo la mania di farsi fotografare in qualsiasi circostanza. Lui, invece, era convinto che l’immagine non mentisse, non poteva essere artefatta e soprattutto non ci si poteva apporre una didascalia differente da ciò che esprimeva. Così, volle essere fotografato dopo essere stato operato. Dalla foto si evinceva la precarietà delle strutture di cui i medici italiani potevano disporre. Crudele ma suggestiva fu la foto del medico mentre gli medicava la gamba, tutta insanguinata (foto 22). Quando la vide: Adesso fai in modo che tutti i giornali la pubblichino. Da questa foto la gente capirà a quale barbara punizione sono condannato. È il modo più umano per fare reagire gli italiani alla maniera incivile con cui vengo trattato. Tu mi dovrai sempre fotografare, perché solo l’immagine può confutare le accuse e le maldicenze diffuse sul mio conto. Ricordati che l’obiet-tivo è una grande arma. Tu dovrai fotografarmi anche se mi troverò in condizioni peggiori e quando sarò morto. Fotografami e fai in modo che le foto siano pubblicate. FOTO 22

In realtà, a Hammamet è sempre stato male, sin dal giorno in cui fu costretto a viverci stabilmente. Nel 1995, poi, cominciò a frequentare l’ospedale perché gli si incancrenì il piede. E non c’era verso di farlo guarire. Nonostante le cure la cancrena continuò a salire aggredendogli la gamba. I medici tunisini gliela volevano amputare, essendo per loro l’unico rimedio efficace, seppure radicale. Ma Stefania si oppose e riuscì a salvare l’arto al padre. Dato che non poteva essere operato in Italia, Stefania fece venire un’équipe di chirurghi dal San Raffaele di Milano. Io non volevo più fotografarlo. Cominciai a detestare la macchina fotografica che era stata il prolungamento del mio pensiero. Perché riprenderlo e comunicare 61


Le autorità italiane si rifiutarono di farlo ricoverare in un ospedale di Milano. Bettino, che era in gravi condizioni, allora si rivolse al Papa perché intercedesse presso il Governo D’Alema e invocasse un gesto di pietà cristiana. Io ho tanto lavorato per la Chiesa e per questo Papa, mi diceva. Oltre ad avere aggiornato il Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e il Vaticano (foto 23), ho istituito nella dichiarazione dei redditi la concessione dell’otto per mille. Ho lavorato per Giovanni Paolo II anche nella caduta del Muro di Berlino. Umberto, ricordi quel viaggio a Varsavia nell’Ottantacinque, dove mi prodigai per la Polonia, patria del Papa, per aprirla all’Occi-dente? (foto 24) Adesso che sono io ad avere bisogno, nessuno mi dà retta. Ed io A proposito di Papa e Polonia, Antonio Badini mi confidò che tu desti una lettera al generale Jaruzelski, non ricordo se mi accennò o no al contenuto, ma cosa c’era scritto? E lui, con un mezzo sorriso triste Chiedevo più sicurezza sociale e più disponibilita a Solidanosc per promuovere una vera pace nazionale. E io, Ma è stata una richiesta del Papa? Non rispose lì per lì, si alzò di scatto, mi diede una pacca affettuosa sulla testa La politica ha i suoi segreti, Umberto, e un vero politico non li dirà mai fino alla morte.

la TV. Su quella araba proiettavano spesso film egiziani con i sottotitoli (FOTO 23)

Nel 1998 nacque Benedetto, figlio di Bobo e Scilla, il nonno ne fu felice perché portava il suo stesso nome (foto 25). Volle che il bambino fosse battezzato nella cattedrale di Tunisi, del cui vescovo, arabo cattolico, era molto amico. Nell’omelia il prelato ricordò quanto il nonno del catecumeno avesse fatto per la Tunisia. In quella circostanza mi resi conto della stima che legava il vecchio socialista al religioso, che, dopo la cerimonia, ci invitò tutti a pranzo a casa sua. Nei momenti che era ricoverato in ospedale il vescovo veniva ogni tanto a fargli visita. Parlavano di politica, dei delicati equilibri del Medio Oriente, dell’avvenire del Mediterraneo o della crisi della società occidentale. Mentre in casa si chiacchierava in tanti attorno alla tavola o in giardino, in ospedale la sera non potevamo fare altro che guardare 62


(FOTO 24)

(FOTO 25)

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in francese. Erano bellissimi. Mi confidò di non essere mai riuscito a farli programmare in Italia, neanche durante la sua Presidenza al governo. La giustificazione dei distributori era che il doppiaggio costava troppo. Secondo lui, invece, attraverso i film gli arabi si sarebbero fatti conoscere meglio in Europa e magari apprezzare. Si vede che l’establishment preferiva che continuassero a essere considerati i nomadi, mendicanti o terroristi, con qualche rara eccezione dello stupido nababbo. Gli piaceva molto la TV francese perché più impegnata culturalmente. Ogni giorno c’era un programma di storia, grazie al quale i giovani si innamoravano del proprio paese. Ecco perché francesi sono nazionalisti, concludeva. Conoscono la storia del loro paese e ne sono orgogliosi. Può sembrare assurdo, ma l’unico momento di riposo che si concesse mentre faceva politica attiva fu nel 1990, quando ebbe un infarto. Rimase un’intera settimana in ospedale, al San Raffaele di Milano. In quei giorni l’Italia si fermò assieme al cuore di Bettino. Qualche mese prima il Segretario generale dell’ONU gli aveva conferito l’incarico speciale di sanare il debito dei paesi del Terzo mondo e di quelli in via di sviluppo. Certo, per avere tanta considerazione in Craxi e affidargli un compito così prestigioso, vuol dire che Perez de Cuellar non lo considerava un uomo poco affidabile, né tanto meno un ladro. Raccoglieva soldi dappertutto: andando a bussare alla porta di miliardari come Rockefeller, alle banche svizzere, alle multinazionali americane e giapponesi, all’American Express. Era l’uomo adatto a quell’incarico, dato che per 40 anni aveva intrattenuto rapporti con i paesi dell’Est europeo e quelli del Terzo mondo. Ma quella nomina era anche un messaggio molto chiaro che trasmettevano: un consiglio a lasciare l’Italia per occuparsi di politica umanitaria altrove. Io percepii subito quell’ammonimento. Gli suggerii di non occuparsi del partito per un po’ di tempo. Del resto, aveva avuto un percorso politico di grande successo e soprattutto dai risultati eccezionali. In meno di cinque anni aveva trasformato l’Italia e tutti ne stavano beneficiando. Era l’uomo politico italiano più conosciuto al mondo. Poteva

accontentarsi ed essere orgoglioso. Non si convinse. Non c’era verso di convincerlo che nel suo Paese qualcuno non ce lo voleva più. Era più prudente, quindi, rimanerne lontano per un po’ di tempo. Quella dell’ONU era un’occasione da cogliere al volo. Non la rifiutò, ma senza staccarsi da Roma e dal suo PSI. Tanto più che aveva capito che quella nomina era arrivata, chissà come e da chi, proprio per allontanarlo da Roma. Era la tecnica che l’establishment usava per emarginare chi diventava troppo potente. Bettino si ricordava di Amintore Fanfani, che divenuto l’uomo più importante della DC, fu nominato poco dopo Presidente dell’Assemblea dell’ONU. La verità era che volevano sbarazzarsene. Con la rassegnazione e l’acume dell’uomo politico consumato Fanfani accettò. Bettino si era chiesto chi glielo avesse fatto fare a Fanfani. E perché non fosse rimasto in Italia dove il suo potere era di gran lunga maggiore, anche se il prestigio dell’incarico era adeguato al suo valore politico. Scanni ricordava quanto accadde nel 1990, uscendo dal palazzo di vetro, a passeggio sulla First Avenue a New York, cercavo di convincere Bettino, dietro di noi c’era l’ambasciatore d’Italia, Rinaldo Petrignani, il consigliere diplomatico Antonio Badini e lo stesso Scanni, che era l’esperto ai rapporti internazionali, a prendere un appartamento a New York, che sarebbe stata la nostra base. Da lì saremmo andati ovunque nel mondo e nessuno ci avrebbe intralciato i programmi. Certo, essendo italiani, saremmo tornati anche in Italia, ma non per fare politica. Purtroppo non volle darmi retta. Mi rendevo conto che non era facile per un uomo come lui accettare passivamente l’emarginazione. Per di più non era mai stato un numero due, tranne ai tempi di Nenni, di cui fu fiero allievo. Ma allora era molto giovane e appena all’inizio della carriera politica. Adesso sarebbe diventato il rappresentante di Perez de Cuellar, quindi uno dei tanti numeri due dell’ONU. Nel periodo in cui era ricoverato al San Raffaele di Milano per i 64


postumi dell’infarto, in attesa che l’illustre paziente si rimettesse o ci lasciasse la pelle, a Roma non si faceva più politica. Molti speravano che morisse. La successione sarebbe stata più naturale e soprattutto meno problematica. L’unico a non volersene rendere conto era Bettino, il più intelligente e acuto fra tutti. Intanto, in ospedale era un viavai continuo di uomini politici di tutti i partiti. Vennero a fargli visita ministri e sottosegretari, deputati e senatori, presidenti di banche e grandi industriali. Ricordo la visita di Berlusconi e quella di Ligresti, Trussardi e tanti altri. Andreotti, che allora era Presidente del Consiglio, venne a trovarlo a casa, dopo che era uscito dall’ospedale. I telefoni squillavano continuamente. Arrivavano chiamate da tutto il mondo. Bobo, Enza Tomaselli, la segretaria storica milanese, e io ci alternavamo al centralino. Anna riceveva la gente nella sala d’aspetto. Appena fu in condizione di parlare volle sapere tutto quello che era accaduto durante la crisi cardiaca. La verità è che aveva capito benissimo che doveva andarsene, ma voleva sfidare l’establishment. Avendo raggiunto tutti i traguardi che un uomo politico potesse sognare, ora voleva sbaragliare il complotto. La sua era una lotta contro il destino che, purtroppo, non avrebbe mai potuto vincere. Ma era la battaglia più importante della sua vita. Tutti gli altri traguardi non erano niente in confronto alla grande soddisfazione di rimanere in sella a dispetto del potere delle lobby. Non voleva finire i suoi giorni da pensionato ma da combattente, come era sempre vissuto. E fece finta di non capire fino all’ultimo giorno di vita. Ricordo il discorso che pronunciò in francese davanti all’As-semblea dell’ONU. Finito di parlare, si alzarono tutti in piedi per applaudire. Pensando a quel successo totale e commovente mi vengono subito alla mente le scene tristi di Hammamet e mi chiedo come un uomo così grande possa passare da un giorno all’altro dagli altari alla polvere. Ma poi penso a tanti altri grandi della Storia che hanno fatto la stessa fine. Se fosse stato un ladro tutti questi grandi del mondo erano forse suoi complici? Attraverso i rispettivi servizi segreti all’ONU non sapevano chi fosse davvero Bettino Craxi? Con quegli applausi fragorosi ammi-

ravano il grande statista o approvavano il suo comportamento criminale? Ma nessuno dei suoi amici influenti e potenti di tutto il mondo è corso in suo aiuto né ha speso una parola per difenderlo e sostenerlo. FOTO 26

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Era un uomo coerente con le proprie idee e mai compiacente con nessuno. E pensare che quando lo conobbi, nel 1979, non mi era rimasto molto simpatico. Eppure ero socialista, come tutta la mia famiglia. Avevo cominciato da poco a fare il fotoreporter. La prima foto importante me la comprò Franco Lefebvre di Panorama: Nenni che nel 1979 presiedeva la sua ultima Direzione del PSI in via del Corso. Nenni poi, morì il primo gennaio del 1980. Qualche mese dopo, al Comitato centrale, che si svolse al Palazzo dei Congressi dell’Eur, troneggiava una gigantografia di Nenni che pensieroso si reggeva la testa. Craxi era seduto alla presidenza. A un certo punto mi accorsi che aveva assunto la stessa posizione di Nenni nella gigantografia. Feci un balzo per raggiungere la posizione giusta, prima che cambiasse posizione, e riuscire a fotografarlo con la foto di Nenni alle spalle (foto 26). Al secondo scatto mi notò e mi guardò. La foto era molto suggestiva: me la comprò Oggi che la pubblicò su due pagine. Lui la vide: gli piacque molto e ne volle cento copie.

piacque molto, e me ne ordinò 150 copie. In fondo, quell’ uomo autoritario e corpulento cominciava a piacermi. Infatti, mentre Foto 27

Portai le foto al partito, Daniela Scarso, sua assistente e responsabile del Dipartimento radiotv (foto 27), mi suggerì di consegnarle personalmente a Bettino. Mi fece entrare nello studio: lui stava scrivendo. Continuò senza neppure alzare lo sguardo verso di me. Poi arrivò una telefonata che durò qualche minuto. E io sempre lì, davanti a lui, che parlava come se io non ci fossi. Avevo sentito parlare di Craxi come di un uomo arrogante e dispotico. Quell’atteggiamento, che per me non aveva nulla di socialista, dimostrava che i giudizi che circolavano su di lui non erano sbagliati. A un certo punto mi spazientii, mi alzai e, senza neppure salutarlo, me ne andai. Daniela mi fece presente che non avevo agito bene perché, farmi stare nel suo studio mentre parlava al telefono, era stata una dimostrazione di grande fiducia. Significava che mi aveva già classificato un ragazzo riservato e discreto di cui poteva fidarsi. Qualche giorno dopo lo fotografai a Roma all’uscita del cinema Adriano in una serata ventosa, mentre si metteva il cappotto che svolazzava. La foto fu pubblicata dall’Espresso. Anche quella 66


io non lo avevo in simpatia, lui apprezzava tanto le mie foto. Guardando la gente filtrata dalla lente dell’obiettivo si scoprono pregi e difetti che a occhio nudo non si notano. A poco a poco capii che era un uomo fuori dal comune e mi sentii attratto dalla sua personalità. Mi vergognai di averlo giudicato troppo frettolosamente. E per espiare quella colpa decisi di dargli tutto me stesso. Ma prima volevo che mi desse lui una prova, che mi dimostrasse di meritare la mia fiducia.

mia madre mi aveva dato. Rimasi così senza un soldo. All’uscita ci aspettavano due auto sgangherate del partito socialista portoghese. Non c’era poFoto 28

Qualche mese dopo, al solito Comitato centrale, Bettino, che durante quel periodo mi aveva intanto osservato e studiato, mi fece cenno con una mano di avvicinarmi. Io ero piuttosto lontano dal palco in cui si trovava Bettino. Ero seduto tra due grandi colleghi, Antonio Sansone e Vezio Sabbatini. Avevo notato che il Segretario faceva dei vistosi gesti per attirare l’attenzione di qualcuno. Ma non pensavo che si riferisse a me, non essendoci più stato alcun rapporto tra noi dopo quell’incontro fugace nel suo studio. Finalmente capii che ce l’aveva con me e mi avvicinai. Vai a parlare con la Bica perché domani si parte. Non avevo capito nulla: chi partisse, dove si andasse, per quanto tempo…. E poi, non avevo un soldo in tasca né a casa. Cercai Bica Kunz (foto 28), che curava, come segretaria, i rapporti dell’Internazionale socialista e che mi informò: Si va in Portogallo. Fatti trovare domani pomeriggio a Fiumicino: si parte alle cinque. Davanti a me la Bica chiamò Giorgio Gangi, amministratore del partito, e gli comunicò: Umberto viene con noi. Mi feci prestare centomila lire da mia madre. Quando arrivai all’aeroporto lui c’era già, assieme alla moglie e la signora Bica, Beppe Scanni, Valdo Spini con la moglie, Giorgio Gangi. Era dell’Internazionale socialista e qualche mese dopo morì giovanissima di tumore. Arrivati a Lisbona si diresse all’ufficio cambio. Dopo essersi frugato le tasche mi chiese: Hai per caso dei soldi? Esitai un po’, ma poi misi la mano in tasca e, senza neppure tenermi una banconota, gli porsi l’intero rotolo con i 10 biglietti da diecimila lire che 67


sto per me perché, avendo Bettino deciso all’ultimo momento di aggregarmi alla delegazione, la mia presenza non era stata segnalata. Lui si accorse che ero rimasto a terra e mi fece salire davanti con la moglie. Ero praticamente appiccicato ad Anna e cercavo di non andarle addosso nelle curve. Stai composto, giovanotto, mi diceva ogni tanto scherzosamente. Non ci provare con mia moglie. La destinazione era Albufeira, una cittadina a Sud del paese, a quattro ore di auto da Lisbona su una strada piena di buche. L’albergo era molto bello, tutte le stanze avevano la vista sull’oceano. Ma neppure lì qualcuno aveva pensato di prenotare una sistemazione anche per me. Arrangiati, fece Cornelio Brandini, il segretario di Bettino, cui senza rendermene conto stavo praticamente facendo le scarpe. Non che poi io sia diventato il segretario di Bettino, ma da quel giorno non mi staccai più da lui. Mentre prima del mio avvento era Cornelio a viaggiare sempre con Bettino. Litigare con quell’uomo non servì a nulla. Era l’una di notte. Non sapevo come fare. Alla fine decisi di chiamare Craxi in camera. Mi rispose la moglie, poi venne lui al telefono. Mi chiese di passargli un impiegato dell’albergo al quale: Cecconi, così mi chiamò per tutta la vita, è mio ospite, dategli una bella stanza. Poi si fece passare Cornelio e gli fece una ramanzina molto dura.

sentava Arafat: nessuno lo aveva mai fotografato. Alle due di notte, al termine dell’inFOTO 29

L’indomani in spiaggia incontro l’amministratore del partito Giorgio Gangi. Mentre mi lamentavo perché aveva dimenticato di prenotare una stanza per me, vedo arrivare Willy Brandt in costume da bagno con la giovane amante. Fingendo di fotografare Gangi riprendo il cancelliere e la ragazza. Mi ero messo un bellissimo maglione che mi aveva regalato per il compleanno la mia ragazza. Quando mi vide: Perché indossi un falso Missoni? Per la verità, essendo un regalo, non mi ero chiesto di chi fosse il pullover. Capii, però, che era un uomo dispettoso al quale piaceva prendere in giro le persone che gli stavano accanto. Quindi, mi considerava già uno dei suoi. Poco dopo avrei scoperto che gli ospiti più attesi di quel congresso erano i delegati palestinesi dell’OLP. Vengo a sapere che il personaggio più importante è un tale Issam Sartawi, che rappre68


contro, vidi Bettino mettersi a parlare col delegato palestinese. Mi avvicinai e cominciai a scattare delle foto (foto 29). Andato via lui, chiesi a Sartawi se l’indomani poteva dedicarmi mezz’ora per un servizio fotografico più accurato. Il palestinese fu gentilissimo e mi diede appuntamento per la mattina alle nove meno un quarto nella hall.

collo del piede sinistro. Era un giovedì pomeriggio e l’indomani a Roma c’era un importante convegno socialista al quale, purtroppo, non avrei (documento 3) LETTERA A CICCONI

Alle otto e mezzo ero già sul posto e vedo Sartawi venirmi incontro. A un certo punto sento il rumore di una raffica di mitra e Sartawi sobbalzare come colto dalla corrente elettrica. Qualcuno, col volto mascherato, gli aveva scaricato, davanti a me e a tanti altri avventori dell’albergo, 37 pallottole di mitra lasciandolo a terra stecchito in un lago di sangue. Si raccontò che era stato un commando israeliano. Il congresso che volgeva al termine si sciolse subito. La polizia ci suggerì di lasciare il paese al più presto, perché non poteva più garantire l’incolumità degli ospiti stranieri. Con le solite macchine che ci avevano atteso all’arrivo e nella stessa scomoda posizione raggiungemmo l’aeroporto di Lisbona. Bettino passeggiava come un leone in gabbia nella minuscola saletta Vip. Finalmente chiamano il volo per Roma e ci avviamo tutti all’aereo. Ma mentre saliamo la scaletta cambia idea. Io rimango per le esequie del povero compagno palestinese, dice, e in quel momento mi restituisce le banconote che mi aveva chiesto arrivando: non aveva speso neppure un soldo. Anzi, non aveva neppure cambiato le lire in escudos portoghesi. La cosa mi colpì: col senno di poi quella richiesta di prestito mi è sembrato una prova di iniziazione alla Massoneria. Inoltre avrei scoperto, in seguito, che aveva un pessimo rapporto col denaro e che non aveva mai un soldo in tasca. Quel gesto mi fece capire che meritava la mia fiducia. Mi sono vergognato per tanto tempo del giudizio affrettato che avevo dato su di lui. Finché un giorno trovai il coraggio di confessarglielo. Si mise a ridere: Almeno, tu ti sei ricreduto. E poi, sei ancora un ragazzo. La prima prova di grande considerazione me la diede nel 1981. Avevo avuto un incidente con la Vespa e, cadendo, mi fratturai il 69


potuto partecipare. Mi portarono al pronto soccorso del Policlinico dove vi furono problemi con l’ingessatura. Quella notte non chiusi occhio per il dolore. Mi rivolsi a un amico medico che mi indirizzò alla clinica Nuova Itor dove c’era un bravo ortopedico. Mi dovettero ricoverare per qualche giorno con la gamba in trazione. Non mi potevo muovere. Avevo pensato di avvertire qualcuno al partito, che non ero sparito senza motivo: stavo proprio male. Ma pensai che fosse una premura eccessiva. C’erano tanti fotografi a quei convegni che non avrebbero sentito la mia mancanza. Anzi, non se ne sarebbero neppure accorti. Molti collaboratori si assentavano per motivi personali o di salute senza mai avvertire nessuno. Bettino, invece, notò, e come, la mia assenza. Anzi, si stupì di non vedermi al convegno. Aveva capito che non ero uno che batteva la fiacca. Ero sempre presente alle manifestazioni ufficiali, anche se non ero convocato. Immaginò che mi fosse successo qualcosa. Chiese a Daniela di informarsi. Io vivevo già da tempo solo: avevo preso un appartamentino in affitto, ma non avevo ancora il telefono. Così Daniela si rivolse ai miei genitori dai quali seppe dell’incidente e l’indirizzo della clinica. L’indomani, nel pomeriggio, ricevetti la visita di Daniela che mi portava una lettera molto affettuosa di Bettino con un libro di Nenni su Garibaldi con prefazione sua. Di proprio pugno mi scriveva: Non preoccuparti, le gambe si aggiustano. Spero di vederti al più presto in circolazione (documento 3). Fui molto lusingato di quel pensiero. Finalmente cominciai a muovermi con l’aiuto di una stampella, ma non uscivo di casa. Un giorno seppi che c’era un convegno su cinema e televisione e ci andai. Con una mano mi tenevo aggrappato alla stampella, con l’altra avrei manovrato la Leica. Appena mi vide, per non farmi affaticare, anziché aspettare che andassi a salutarlo, si alzò dal tavolo della presidenza per venirmi incontro e abbracciarmi. Non lo conoscevo ancora molto bene quando nel 1981 arrivò a Roma Mitterrand, che era stato appena eletto Presidente della Re-

pubblica francese. Si incontrarono un sabato mattina a Palazzo Farnese, dove portò anche me. All’uscita dall’ambasciata era molto emozionato. Devi andare a casa mia a fotografare tutti i cimeli di Garibaldi. Doveva dare le foto al mensile Historia. Per lui era tutto scontato, ma io non sapevo neppure che cosa fossero i cimeli, né dove abitasse. Chiamai allora Daniela per farmi dare l’indirizzo. Così appresi che abitava a Milano. Non avevo un soldo in tasca. Daniela mi fece il biglietto e mi anticipò ventimila lire. L’indomani sera presi il vagone letto e lunedì alle 7 del mattino ero già davanti allo studio privato di Craxi, in piazza Duomo 19, che era del padre, l’avvocato Vittorio Craxi, originario di San Fratello, in Sicilia. Finché il padre esercitò la professione Bettino ne occupava alcune stanze. Poi divenne tutto suo. Aspettai che aprissero. Verso le nove e mezzo arrivò Enza, la segretaria, che mi chiese sorpresa: Bettino ti aspettava ieri. Come mai non sei arrivato subito? Mi giustificai dicendo che non volevo disturbare di domenica. E, invece, proprio nel giorno di festa era più libero e avrebbe potuto assistermi nella ripresa dei cimeli. Enza telefonò a casa Craxi per chiedere se potevo andare. Rispose Anna dicendo che non c’era bisogno di andare in taxi: Nicolino sarebbe venuto a prendermi in macchina. Nicolino, in realtà, non era l’autista personale di Bettino, ma il portiere dello stabile di via Foppa. Siccome il garage era angusto e Bettino sbatteva continuamente nel fare manovra, un giorno Nicolino si era offerto di fargli trovare ogni mattina l’auto davanti al portone. E Bettino, che era un grande sfruttatore delle persone che gli erano simpatiche e gli ispiravano fiducia, gli chiese se poteva accompagnarlo in ufficio e andarlo a riprendere la sera. Così tanti anni prima Nicolino era diventato l’autista part time milanese. E mantenne quel ruolo anche, poi, divenuto Presidente del Consiglio. Nicolino non era grande esperto come autista, ma era prudente e serio. Infatti, guidava pianissimo anche se andavamo di fretta, ma Bettino era sicuro di poter parlare con chiunque e di qualsiasi argomento riservato davanti a Nicolino, che era muto come un pesce.

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Scesi e riconobbi l’auto blindata, feci subito amicizia con Nicolino. Mi portò in via Foppa. Bussai e ad aprirmi venne lo stesso Bettino. Anche lui mi fece notare che avevo un giorno di ritardo. La casa era ampia ma non lussuosa. Mi aspettavo una casa sfarzosa e piena di quadri e mobili antichi. Chissà come vivono questi Craxi, mi ero sempre chiesto. Scoprii, invece, una casa arredata in modo molto semplice. A dare calore all’atmosfera c’erano tanti libri, i cimeli di Garibaldi e un pianoforte. Era la casa di un professionista come tanti altri, non di un leader. Mi mostrò le stanze in cui si trovavano i cimeli da fotografare, raccomandandomi di non creare molto disordine. Fui imbarazzato di imbattermi nella moglie che usciva dal bagno in vestaglia. Me la presentò con disinvoltura. Ma lei ricordò che ci eravamo già conosciuti in Portogallo. Scoprii subito che erano una coppia di persone normali, come mio padre e mia madre, seppure con maggiori possibilità. Mi accorsi che prima di uscire di casa Bettino aveva la mania di mettere a posto i quadri che Carmen, la domestica a ore, spostava nello spolverare. Infatti, mi spiegò: Sarebbe inutile metterli a posto, tanto poi arriva Carmen e li sposta nuovamente. Ma io sono un uomo ordinato e mi piace uscire di casa sapendo che tutto è al proprio posto. Carmen era molto apprezzata come cuoca. Quando finii di fotografare i cimeli chiesi ad Anna quale autobus portasse alla Stazione Centrale. Ma appresi che dovevo fermarmi ancora qualche ora perché voleva che pranzassi con loro per farmi conoscere i figli. Poco dopo arrivò Stefania, una bella ragazza bionda, spigliata e disinvolta, vestita in modo casual come la maggior parte delle sue coetanee, a quell’e-poca. Ci mettemmo a parlare. Poco dopo arrivò Bettino. Vistomi seduto accanto alla figlia, estrasse dalla tasca una pistola – era una 38 special – e, come un attore che recitava la parte del guappo, con un gesto teatrale la fece scivolare sul tavolo dalla mia parte, come se fosse un avvertimento. Ma nel notare la mia perplessità, per farmi capire che scherzava, mi rivolse un grande sorriso che mi tranquillizzò. In effetti, lo conoscevo ancora poco ed ero sempre più sorpreso che un uomo come lui scherzasse con chiun-

que, persino con un ragazzo come me. Ci mettemmo subito a tavola. Mi fece sedere alla sua sinistra, posizione che avrei mantenuto per i successivi vent’anni. Stefania era FOTO 30

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alla sua destra. Mentre chiedevo di Bobo, eccolo arrivare. Era un ragazzo alto e magro, con gli occhiali da intellettuale. Percepii che non gli stavo simpatico. Dopo avrei scoperto che era solo un timido. Come, del resto, il padre. Dopo mangiato feci intendere che avrei avuto piacere di tornarmene a Roma con qualche soldo in tasca. In che senso? mi chiese. Gli spiegai che, se mi avesse dato la possibilità di fotografarlo in famiglia, avrei potuto vendere bene le sue foto. Notai che quella richiesta fu apprezzata. Chi guadagna è un uomo capace, chi non cerca di guadagnare è un mediocre. Bobo non voleva posare. Bettino mi suggerì di avere pazienza: Vuole farsi pregare. Infatti, svegliatosi dalla pennichella pomeridiana, Bobo si unì al resto della famiglia per le foto (foto 30). Feci delle foto belle per la semplicità del comportamento della famiglia. Eppure erano personaggi che gli italiani immaginavano certamente diversi. Ormai è tardi per partire. E poi, voglio che tu venga con noi alla festa milanese dell’Avanti!. Allora espressi che bisognava prenotarmi un albergo e Bettino mi rispose che non c’era fretta. Trascorremmo tutto il pomeriggio alla festa e all’ora di cena ci fermammo allo stand-ristorante. Era come una mensa: lunghi tavoli con le panche, ognuno si sedeva dove trovava posto. C’erano anche la sorella di Bettino, Rosilde, col marito Pillitteri. Con loro c’era pure Pietro Longo, allora segretario del PSDI, e grande amico, con la moglie. Feci la fila come tutti gli altri e, guardandomi attorno col vassoio in mano, mi resi conto che non c’erano più posti, tutti i tavoli erano occupati. Bettino mi vide e mi chiamò. Fece stringere i suoi familiari e amici per ricavare un posto per me. Rincasando mi chiese: Allora, l’hai trovato l’albergo? E scoppiò in una risata. Capii che mi stava prendendo in giro, perché avevo detto tutta la giornata di volere cercare un albergo e mi ero ridotto a notte tarda senza avere fatto neppure una telefonata. Vediamo se in casa c’è un letto per te. E Anna aggiunse: Credo che gli ci voglia anche un pigiama e una camicia per domattina, perché non

ha portato nulla con sé da Roma. Dormii nella stanzetta di cui Carmen si serviva per riposare nel pomeriggio. Indossai un pigiama larghissimo di Bettino, perché quelli di Bobo mi stavano stretti. Non vedevo veramente l’ora di tornare a Roma per vendere le foto di Craxi in famiglia. Conoscendo le date di chiusura settimanale dei giornali, sarebbe stato troppo tardi tornare a Roma a metà settimana. Ma non mi lasciarono andare. Era come se mi avessero adottato. L’indomani mattina Anna mi portò il caffè in camera. Ne fui molto imbarazzato. Poi Anna telefonò a un loro amico che aveva un negozio di maglieria non molto lontano da casa per annunciargli la mia visita. Andai a comprare una camicia, una canottiera e un paio di mutande. Quando il proprietario si accorse che sceglievo gli oggetti meno cari e controllavo continuamente il denaro che avevo in tasca per essere sicuro che mi bastasse, mi fece capire di non preoccuparmi perché era tutto pagato. Allora, sollevato, prendo anche dei calzini. Tornai a casa che dormiva ancora. Ma Anna e Stefania stavano uscendo per fare la spesa e mi offrii di accompagnarle. Ai giornali sarebbero piaciute le foto della moglie e della figlia di Craxi con le borse di plastica del supermercato in mano: non si erano mai viste. Nell’ immaginario collettivo gente così importante aveva tante persone di servizio a loro disposizione. Tornati a casa, Nicolino, mi riferì che mi avrebbe accompagnato in macchina in ufficio dove mi aspettava. Trovai una fila di persone nella sala d’attesa, come in uno studio medico. Erano tutti lì, imprenditori e industriali, disoccupati e questuanti, per parlare con Craxi. Mi misi a sedere anch’io in un angolo, ma Enza venne a dirmi che voleva vedermi subito. Era dietro la scrivania con due persone sedute davanti a lui, seppi poi che uno era Silvano Larini, l’altro Natali. A Bettino non dava fastidio che io ascoltassi la conversazione. Mi ricordai della prima volta che ero andato a portargli le foto nel suo ufficio al partito a Roma. Rimasti soli, nel muro dietro la scrivania, ad occhio nudo compatto, aprì una porta segreta. Mi fece cenno di avvicinarmi e intravidi nella piccola stanza apparsa un letto e una poltrona. Mi 72


disse che la stanza era insonorizzata e a prova di intercettazioni, e attrezzata per registrare le conversazione. Era il luogo più sicuro da orecchie indiscrete. Si alzò per andar via e notai in lui un’eleganza sportiva fuori dal comune. Su un paio di jeans indossava un giubbotto nero di pelle e una lunghissima sciarpa gialla, avvolta al collo con due giri e che gli arrivava ai piedi. Mi chiesi quanto dovesse essere lunga quella sciarpa per arrivare ai piedi di un uomo di un metro e novanta. Gli chiesi di fotografarlo, ma doveva andare a pranzo con gente importante. Più tardi. Le faremo dopo pranzo, tanto tu rimani qui anche questa sera. Lo so che devi tornare a Roma per vendere le tue foto. Le venderai domani. Insistetti, finché per farmi tacere si mise in posa. Era un uomo di bell’aspetto. Allora non sapeva di essere diabetico. Purtroppo, lo avrebbe scoperto proprio in quei giorni. Infatti, beveva troppo spesso. Andai a pranzo con Enza che mi parlò delle sue abitudini. Mi avvertì che nel pomeriggio saremmo tornati alla festa dell’Avanti! dove doveva intervenire a un dibattito. La sera avremmo cenato all’An-golo, un ristorante dove andavano tutti coloro che a Milano avevano piacere di incontrarlo. Voleva che conoscessi i suoi amici, dato che ormai facevo parte della famiglia, nel senso che mi considerava già il suo più stretto collaboratore. La sera a cena parlò continuamente lui, sempre di politica. Tutti pendevano dalle sue labbra. Io ascoltavo ed ero affascinato. Mi resi conto quella sera che mi comportavo già come un discepolo. Tornati a casa, prima di andare a letto chiesi a Bobo perché gli stessi antipatico. Ma non mi rispose. Lasciai Milano il mercoledì pomeriggio. Fu Bobo, uscito da scuola, ad accompagnarmi alla stazione. Aveva con sé l’inseparabile chitarra che suonava molto bene. Siccome eravamo in grande anticipo rispetto all’orario del treno che avevo prenotato, gli suggerii di suonare qualcosa, lì, alla stazione perché io lo fotografassi (foto 31). Così, tolse la chitarra dalla custodia e cominciò a suonare. La gente ci prese per due musicisti di strada e ci gettavano monetine dentro l’astuccio. Scoppiammo a ri-

dere e così si ruppe il ghiaccio tra noi: diventammo amici. Non ricevevo alcuno stipendio dal partito. Ero il fotografo del Segretario, ma la vendita delle sue foto non mi bastavano per vivere. Se Craxi non aveva bisogno di me, cercavo altri soggetti da poter fotoFOTO 31

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grafare. Erano i primi tempi che stavo con lui e non conoscevo certe regole. Non sapevo che fosse così possessivo e geloso dei suoi collaboratori: li voleva tutti continuamente accanto a sé e sempre a sua disposizione. Io, invece, non mi lasciavo scappare occasioni di lavoro. Sfruttavo tutte le amicizie che grazie a lui mi ero creato. Poi scoprii che erano loro a sfruttare me. Erano, cioè, lusingati di servirsi della professionalità di chi stava così vicino al Segretario del partito. Tutti ci tenevano a far sapere che il fotografo di Bettino Craxi era presente alla loro manifestazione. Al congresso nazionale della UIL, per esempio, Giorgio Benvenuto voleva che fossi io a fotografare l’evento. Mentre fotografavo i delegati della UIL, arrivò Bettino, appena dopo Enrico Berlinguer. Si sedettero vicini. Dietro a loro c’era Flaminio Piccoli, allora Segretario della DC. Quando mi vide, trovò strano che io l’avessi preceduto al congresso, dato che di solito andavamo assieme ai suoi appuntamenti esterni. Capì subito. Tu lavori già con me, che bisogno hai di altri? Mi disse deluso. Berlinguer assisteva incuriosito a quella insolita scena di gelosia. Andò via, dopo essere intervenuto, e volle che lo seguissi. Non vedeva l’ora che io gli spiegassi. I socialisti non mi chiamano perché sono bravo, gli risposi. Ma perché ci tengono a far sapere che il fotografo personale di Craxi è presente alla loro manifestazione.

della Confcoltivatori. In ottobre a Trevi ci sarà una grande convention sull’agricoltura con FOTO 32

Gli feci l’esempio di Gabriele Cagliari, presidente dell’ENI, che mi aveva chiamato per chiedermi se avessi tempo di fargli un servizio fotografico. Il presidente del più importante ente di stato si sentiva lusingato, come chiunque altro, di essere fotografato da me. Concordato l’appuntamento e andato all’ENI, trovai decine di funzionari attorno a Cagliari. Sembrava una cerimonia in grande stile e mi rammaricai di non avere portato con me un assistente. Chiesi quante persone dovessi fotografare, ma Cagliari rispose: Soltanto me, tutti gli altri sono venuti per vedere da vicino il fotografo personale di Craxi. Non fare caso se qualcuno ti toccherà: si dice, infatti, che tu porti fortuna. Raccontai anche la conversazione che qualche giorno prima avevo avuto con Giuseppe Avolio, Presidente 74


la partecipazione di tanti esperti italiani e stranieri. Prima di fissare la data vorrei sapere in quali giorni del mese sarai sicuramente libero. Perché ci tengo che tu ci sia. Finito di spiegare quello che ormai avremmo sempre chiamato il fenomeno, non rispose, ma dalla sua espressione capii che era soddisfatto. L’indomani partendo per Parigi, proprio mentre l’aereo decollava: Praticamente, se non ci sono io ci sei tu. Quindi, è come se io ci fossi sempre, ovunque. Nel 1981 Arafat venne a Roma. Ci fu un grande incontro del leader palestinese con Berlinguer e Craxi. Nella hall dell’albergo Excelsior c’erano tutte le TV del mondo, ma nessuno poté riprendere la riunione. Non furono ammessi giornalisti né fotografi e neppure operatori televisivi. Ci teneva che io lo riprendessi accanto ad Arafat. Ma davanti all’albergo il servizio di sicurezza era diretto dai palestinesi che non facevano passare nessuno, nemmeno me che ero il fotografo personale di Craxi. Non riuscivo a mettermi in contatto con Bettino. Chiamai il partito. Per fortuna trovai la Bica, la signora svizzera che avevo conosciuto durante il viaggio in Portogallo. La Bica mi affidò a un uomo di Arafat che mi condusse nella sala della riunione. Non so come, la notizia si diffuse subito. Gli altri cominciarono a protestare. Le scale e i saloni dell’Excelsior brulicavano di palestinesi armati fino ai denti. Invece di farmi uscire dalla porta di servizio, da dove ero prudentemente entrato, il palestinese preferì l’ascensore che si apriva sulla hall. Quando gli altri fotografi e gli operatori mi videro ci fu una vera e propria sommossa: volevano linciarmi. Riuscii con prontezza a richiudere le porte dell’ascensore e a uscire dall’ingresso posteriore (foto 32). Chiamai Pippo Marra, proprietario dell’agenzia giornalistica ADN Kronos e grande amico di Bettino. Gli offrii l’intero servizio: Marra lo comprò senza discutere il prezzo. Qualche ora dopo aveva già venduto le foto in tutto il mondo. Gli incontri con l’OLP erano sempre rischiosi, ma gli piacevano perché creavano popolarità. Dopo l’episodio di Sigonella i rapporti con l’OLP e col mondo arabo divennero ancora più amichevoli. Fu allora che si rese conto

di non essere ancora stato in visita ufficiale in Tunisia dall’ascesa alla Presidenza del Consiglio. Eppure in quel paese era di casa: da quindici anni trascorreva a Hammamet le vacanze e i momenti di relax. Nel 1985 partimmo per Tunisi, con noi venne anche Giulio Andreotti, che era Ministro degli esteri. Alla fine del primo giorno del viaggio di Stato cenammo nella residenza del presidente Bourghiba a Sidi bou Said. Eravamo in un bellissimo albergo. Io aspettavo che tutti salissero nelle loro camere prima di andare a dormire. Volevo essere sempre l’ultimo a ritirarmi per essere certo che non mi sfuggisse nulla. Sapevo che mi avrebbe comunque avvertito, ma proprio da lui non volevo essere colto di sorpresa. Quella sera salutai Bettino, poi Andreotti e infine Antonio Badini, che era il consigliere diplomatico del Presidente. Avevo colto, però, un’insolita aria di mistero nei saluti. Come i genitori, che salutano impacciati, se non vogliono far sapere, che debbono uscire, ai figli che stanno per andare a letto. Ci sono novità? Chiesi a Badini. E il diplomatico mi rispose in un modo strano. Capii che mentiva. Quindi, salito in camera non mi misi subito in pigiama, come di solito. Mi affacciai al balcone a guardare il mare e notai tre auto col motore acceso nel piazzale dell’albergo. Dopo qualche minuto vidi uscire il Presidente e Andreotti da soli, senza scorta, accompagnati solo da Badini. Salirono tutti e tre sulla prima macchina. L’altra li seguì, mentre la terza rimase nel piazzale. Presi, allora, la Leica e, senza perdere tempo ad aspettare l’ascensore, scesi le scale saltando i gradini a quattro a quattro. Salii sull’auto rimasta ferma ma col motore accesso e parlai all’autista con decisione: Segui le macchine, corri che sono rimasto indietro. Se faccio tardi mi rimproverano. Feci un’ottima recita perché l’autista, che era un agente dell’OLP, partì a razzo. Ma strada facendo mi pose alcune domande alle quali debbo avere risposto male. Capì, infatti, che mentivo. In realtà, Bettino e Andreotti andavano a un incontro segreto con Arafat. L’autista, temendo che lo avessi ingannato per scoprire ove fosse il segreto rifugio del capo 75


dell’OLP, ricercatissimo dai servizi segreti israeliani, cominciò a fare dei giri inutili per scoprire se qualcuno, d’accordo con me, ci seguisse. Dopo più di un’ora, per fare un percorso di pochi minuti, mi fece scendere davanti al cancello di una villa e se ne andò. Era tutto buio. Non c’era nessuno. Cominciava a piacermi quell’avventura. Avevo paura. A un certo punto sento la canna di un mitra puntata alla schiena. Cercai di far capire che ero il fotografo di Craxi. Ma non mi rispondevano. Non so neppure se capissero ciò che dicevo. Mi portarono in una dependance della residenza e alla luce di una pila mi fecero spogliare dalla testa ai piedi. Mi presero i vestiti, la Leica e il passaporto e mi lasciarono in mutande nella stanza al buio. Non so quanto tempo trascorse, forse un’ora, forse un po’ meno. Ma a me era sembrata un’eternità. Disperavo di uscire incolume da quella situazione. Quella gente era in guerra e io giocavo a fare le foto. Ognuno di loro aveva perso familiari e amici. Non ascoltavano spiegazioni. Mi avevano trattato con una brutalità inimmaginabile. E mi stava bene, il torto era mio. Finalmente sento dei passi. Si apre la porta: quello che mi aveva fatto togliere i vestiti me li restituisce. C’è un altro con lui che parla un ottimo italiano: Non ti ricordi di me? Gli dissi sinceramente di no. Ero così impaurito che non riuscivo a concentrarmi. Meno male che mi ricordo io di te, ricordò lo sconosciuto. Se no, avresti passato un brutto quarto d’ora. Si chiamava Mohammed. Finalmente mi ricordai e lo abbracciai commosso per il suo intervento. Nel 1976 studiava a Roma e ci eravamo frequentati per cinque anni. Poi l’avevo perso di vista. Non lo avevo riconosciuto, perché nel frattempo si era molto ingrassato. Adesso era uno dei consiglieri di Arafat. Non mi scuso nemmeno per ciò che ti hanno fatto perché ti sei comportato da incosciente. Hai dimenticato che abbiamo dei nemici che ci cercano disperatamente. Mi portò alla villa, dove Craxi e Andreotti stavano discutendo con Arafat. Davanti a una porta scorrevole c’erano tre luci: rosso, arancione e verde. Era accesa la luce rossa. Gli chiesi di poter fare una foto a Bettino con Arafat. Mohammed disse che era possibile ma anche pericoloso. Le

sue guardie del corpo sono molto suscettibili. Basta che lui abbia una reazione strana perché tu sia spacciato. Non vale la pena correre tanto pericolo per una foto. Io insistetti. Gli feci capire che quella foto per me era importante. Ma lo era soprattutto per Bettino. Finalmente lo convinsi. Se si accende la luce arancione vuol dire che Arafat sta per uscire, mi spiegò il mio salvatore. Se si accende quella verde vuol dire che sta per aprirsi la porta scorrevole, e lui esce. Devi scattare la foto subito, ma non prima che Arafat abbia notato che stai con me. Se no, intervengono subito le guardie del corpo, che poi si scuseranno con la tua famiglia e col Presidente Craxi. Non si aspettava certo di vedermi lì. Quindi, aperta la porta, rimase di stucco. Mentre io mi protendevo per fare la foto da una distanza migliore, si mise a urlare come un forsennato: Vai via, incosciente. Tanto che Mohammed dovette intervenire subito perché le guardie del corpo di Arafat stavano reagendo istintivamente a quel grido, non sapendo che cosa significasse né che cosa stesse succedendo. Mohammed mi portò via: ebbi il tempo di fare solo due scatti. Tutta la scena durò tre o quattro secondi. Ce ne andammo che urlava ancora. Per maggiore sicurezza Mohammed mi fece prendere posto sull’auto di Craxi e Andreotti, anziché in quella di scorta dove, invece, salì Antonio Badini. Una volta in macchina me ne disse di tutti i colori. Ero seduto accanto all’autista. Lui dietro di me si sfogava dando pugni al mio sedile. Mi ricordai di mio padre che si arrabbiava perché ne avevo combinata una delle mie. Quella era la più grave della mia vita. Non so cosa mio padre mi avrebbe fatto, ma ora temevo che non me la facesse passare liscia. Infatti, mi abbassavo perché ero certo che alle urla seguisse anche qualche scappellotto, proprio come faceva mio padre. Si sfogava urlando, perché aveva capito il pericolo che avevo corso. Ti rendi conto che ti potevano ammazzare? Ti rendi conto in quale situazione imbarazzante avresti messo me e lo stesso Arafat in caso di incidente? Ci deve essere certamente qualcuno che ti protegge per essere u76


scito indenne da un comportamento così assurdo. Intervenne Andreotti: Adesso basta. Se l’avessero ammazzato avresti ragione di rimproverarlo. Ma per fortuna non l’hanno ammazzato. Tornato a Roma non vedevo l’ora di sviluppare il rullino per vedere che cosa avevo ripreso. Mentre scattavo le foto non ricordavo di aver visto nulla nell’obiettivo. Le foto erano bellissime: Craxi e Andreotti erano tra Arafat e un altro palestinese. Una settimana dopo, mentre andavo nel mio ufficio, incontrai Antonio Badini nei corridoi di Palazzo Chigi. Hai saputo dell’omicidio? mi chiese e, avendo capito che non sapevo, spiegò. Il braccio destro di Arafat, che stava all’incontro segreto quella sera a Tunisi. Tornato in ufficio la segretaria mi avvertì che il Presidente mi voleva vedere subito. Quando lo vidi Hai saputo? Ed io No! Di cosa? Mentivo, per rifarmi della cazziata che mi aveva fatto in macchina, presente Andreotti, la notte del fattaccio. Già avevo con me sotto la giacca due foto. Come, non lo sai che hanno ucciso il braccio destro di Arafat? Tiro fuori le foto Ti riferisci a lui (foto 33 e 34)? Quelle foto le vendetti in tutto il mondo. Era sempre compiaciuto della mia efficienza. In realtà, si compiaceva con se stesso per avermi scelto. Mi sorrise per la prima volta dopo il ritorno da Tunisi. Ne approfittai allora: Mi fanno ancora male le orecchie per le tue urla. E se mi fosse successo qualcosa la colpa sarebbe stata tua non mia. Perché io faccio il mio lavoro e tu devi aiutarmi a farlo. Bisogna documentare tutto. Se tu mi avessi parlato dell’incontro con Arafat ci saremmo organizzati meglio. Per niente pratici dei luoghi di potere, entrati a Palazzo Chigi, nel-l’agosto del 1983, ci comportavamo tutti piuttosto goffamente. Sembravamo dei marziani. Neppure Bettino, che tra tutti noi era il più esperto, riusciva a muoversi con disinvoltura. Ci eravamo trovati improvvisamente nel palazzo più importante del Paese, quello da cui si può impartire qualsiasi ordine ed essere ciecamente ubbiditi da tutti. Occupava la stanza da cui un uomo può cambiare il destino degli italiani. E il solo pensiero ci lasciava annichiliti. Erava-

mo dei pesci fuor d’acqua. E per di più tutti se ne rendevano conto, ma nessuno ci diceva nulla per timore di offenderci e, comunque, temendo la nostra reazione. Non sapendo che cosa fare cercammo di imitare ciò che gli altri avevano fatto prima di noi. Ma gli altri erano democristiani, quindi per noi era difficile imitarli. Dovevamo navigare a vista, come si dice in gergo nautico. L’unico laico che aveva preceduto Bettino a Palazzo (FOTO 33)

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(FOTO 34)

Chigi era stato Giovanni Spadolini che, però, non aveva apportato innovazioni. Noi eravamo socialisti, completamente diversi per modo di pensare e comportarsi, per cultura e mentalità. Ogni tanto incontravo Gennaro Acquaviva nei corridoi: Dove vai? gli chiedevo. E lui: Vado in giro per imparare. Ci muovevamo come ragazzini nei primi giorni di scuola. Solo che lì non ci rimproverava nessuno e potevamo muoverci come volevamo. Ma provavamo un imbarazzo che durò parecchio. Avevamo sognato per tanti anni quel palazzo e ora che c’eravamo non riuscivamo ad ambientarci. Ricordo l’espressione dei vecchi funzionari, compassati e riservati, freddi e ossequiosi, antipatici ma rispettosissimi. Anche loro erano stupiti e imbarazzati dal nostro strano comportamento. Quel presidente socialista si faceva dare del tu da tutti. Nessuno pensava di dargli la destra camminando. Tutti si esibivano in risate sgangherate e rumorose in ascensore e nei corridoi. Pacche sulle spalle come si fa sul campo di bocce. All’inizio la nostra estroversione e il rapporto amichevole che ci legava aveva scandalizzato tutti. Poi, a poco a poco, cominciarono anche loro a comportarsi come noi. Sorridevano continuamente, erano allegri, avevano sostituito l’inchino col capo con un più socievole saluto a gran voce. Un giorno apprese che era regola di buon vicinato per il nuovo Presidente del Consiglio italiano recarsi in Vaticano per rendere omaggio al Pontefice. Così il cerimoniale cominciò a organizzare la visita di Stato. Cercammo di informarci discretamente sull’abbiglia-mento più adeguato, ma facendo finta di essere al corrente del rito. Il risultato fu che il giorno fissato io dovetti andare a comprare di corsa una cravatta. Mentre il Presidente, che solitamente usava i mocassini, decise di calzare degli stivaletti con i quali si sentiva più elegante e, chissà perché, più a proprio agio. L’attesa nell’anticamera dello studio di Giovanni Paolo II durò pochi minuti. A intrattenere Bettino c’era il cardinale Agostino Casaroli, allora Segretario di Stato di Karol Wojtila. Poco dopo il Papa, allora vigoroso e giovanile, apparve sulla soglia sfoggiando un cor78


dialissimo sorriso. La maggior parte dei membri del nostro seguito si genuflesse e baciò la mano al Pontefice. Da buon socialista, invece, Craxi si limitò a stringergli la mano e rivolgere al Pontefice un impercettibile inchino. Giovanni Paolo II ci invitò, allora, ad accomodarci e Bettino, senza aspettare che il Papa si sedesse, prese subito posto nella poltrona di fronte alla scrivania. Scattai una storica fotografia che ritrae Bettino seduto, con le gambe accavallate, mentre il Papa è ancora in piedi Con una gamba sul ginocchio Bettino mise in mostra gli stivaletti (foto 35). che rappresentavano il tocco di eleganza al suo abbigliamento. Alla vista di quelle strane calzature il segretario del Papa non riuscì a trattenere il proprio stupore. Sono convinto che in quello studio non fosse mai stato ricevuto un ospite così spontaneo e istintivo da sedersi prima che lo facesse il Pontefice, per di più accavallando le gambe e mostrando degli stivaletti. Non avevamo ancora preso dimestichezza col potere nelle sue varie forme e espressioni. Quella in Vaticano fu una delle tappe più faticose del nostro tirocinio.

giro della villa nel tentativo di trovare un ingresso secondario incustodito. A un certo punto sentii odore di cucina e pensai di non trovarmi (FOTO 35)

I funzionari della Presidenza, i diplomatici e i consiglieri giuridici ed economici non si erano mai divertiti tanto quanto durante la gestione Craxi a Palazzo Chigi. Si produceva a pieno ritmo, c’era la soddisfazione di partecipare alla trasformazione del sistema e allo sviluppo economico del Paese e per di più si viveva in un’atmosfera di allegria continua. Nel 1987, finita la legislatura, Craxi se ne andò, avevano tutti le lacrime agli occhi. Il prefetto di Palazzo Chigi, Antonio Bottiglieri, austero e impassibile come sempre, ci salutò ringraziando ognuno di noi per avere umanizzato lui e i suoi collaboratori. A Tokio, andati in occasione di un G7, ci fu una cena molto ristretta nella residenza di Nakasone. Nessuno era ammesso nella sala in cui cenavano primi ministri e capi di governo. Per i funzionari del seguito c’era un salone attiguo alla sala da pranzo perché fossero a disposizione dei loro capi missione con i documenti eventualmente necessari a portata di mano. Io non mi diedi per vinto. Feci il 79


molto distante dai magnifici sette. Così scavalcai un muretto e mi trovai subito nel vialetto che immetteva alle cucine. Appena i cuochi mi videro ci fu un po’ di trambusto: la presenza di un estraneo aveva creato uno stato di agitazione. Ma per fortuna non c’erano guardie, quindi proseguii e, aperta una porta a battenti, mi trovai faccia a faccia con Bettino che stava parlando proprio con Nakasone. Il Primo ministro giapponese non si accorse di me perché mi dava le spalle. Ma si accorse della mia presenza vedendo che Craxi si dava una manata sulla fronte per capire se fosse sveglio o stesse sognando. Ma, ti rendi conto della figura che mi fai fare ogni volta che non ti fanno entrare da qualche parte? Mi sgridò, ma con un’espressione sorridente e soddisfatta. In realtà, era orgoglioso di me e delle iniziative spericolate che talvolta prendevo, mentre i fotografi delle altre delegazioni seguivano rassegnati le ingiuste regole decise dai vari protocolli. Intanto, due guardie che si trovavano all’interno del salone si avvicinarono. Non potevano intervenire perché mi ero messo a parlare con Bettino. Allora intervenne Nakasone che mi spiegò: Qui, purtroppo, i fotografi non possono stare. C’è una bellissima sala da pranzo tutta riservata alla stampa. Io risposi che non ero un fotografo come gli altri: ero anche il portavoce di Craxi e soprattutto la sua guardia del corpo e responsabile della sua sicurezza. Bene, continuò Nakasone. Adesso che ha constatato che il suo Premier gode di ottima salute e che ci sono le mie guardie a proteggerlo, si sarà certamente tranquillizzato. Ringraziai e, dopo avere scattato qualche foto a Bettino con i suoi colleghi, me ne andai. Uscendo dalla stanza dei 7 grandi mi trovai nel salone dove c’erano Antonio Badini, Gennaro Acquaviva, Antonio Ghirelli e i loro omologhi delle altre delegazioni. A Gennaro si drizzarono i capelli in testa, anche se ne aveva pochi, mentre gli altri rimasero a bocca aperta. Una volta a Londra ero già nel mirino di un tiratore scelto quando Sandro Paternostro, che allora era il corrispondente della Rai, mi

salvò la vita alzando il fucile della guardia che stava per spararmi. Era successo che all’ingresso di Downing Street, a pochi metri dal n. 10, tradizionale residenza del Primo ministro inglese, c’era un posto di blocco. Potevano entrare solo gli invitati all’incontro con la signora Thatcher. Nonostante avessi il badge non mi fecero passare. Sandro Paternostro, che era rimasto come me dietro le transenne, mi spiegò che oltre a Craxi solo l’ambasciatore d’Italia poteva entrare quel pomeriggio a Downing Street. Ma io avevo notato che nell’ampio cortile del Ministero degli esteri, dove potevo accedere col mio badge, c’era una porticina che si affacciava, appunto, proprio su Downing Street. La strada era completamente sgombra e, mentre i posti di blocco erano vigilati attentamente dalle guardie in servizio, il resto della strada era deserto. Ma non sapevo che quel tratto era controllato da lontano dai tiratori scelti pronti a far fuoco su chiunque si trovasse in una zona sospetta. Così, inconsapevole del pericolo che correvo, uscii proprio davanti al portoncino contrassegnato col numero 10, dove per fortuna si trovava un funzionario del protocollo che mi conosceva. Sapendo del pericolo che stavo correndo, mi venne subito incontro con le braccia spalancate perché i tiratori capissero che ero un amico, evitando così che rimanessi vittima di un incidente. Quella volta si arrabbiò sul serio anche perché, nonostante il pericolo corso, non ero riuscito a fotografarlo a tavola con la signora Thatcher. A Mosca, nel 1985, scesi dall’aereo prima di Bettino per fotografarlo mentre salutava dal portello. Proprio sotto la scaletta, senza che potessi prevederlo sentii un pugno allo stomaco. Ad avercela con me erano due guardie in borghese del KGB: una mi aveva tenuto per le spalle, l’altra mi aveva colpito, proprio sotto gli occhi di Andrei Gromiko e signora, che accoglievano gli ospiti italiani. C’erano anche Anna, la moglie di Bettino, e Giulio Andreotti, che si accorsero dell’aggressione. Lo dissero a Bettino che mi afferrò per un braccio e mi fece entrare in un’auto della nostra ambasciata. Arrivati al Cremlino quei due del pugno allo stomaco mi aprirono la portiera dell’auto. Io pensai che mi volevano dare altre botte. In80


vece, mi sequestrarono la Leica, cui avevo già tolto il rullino. Gliela consegnai subito perché ne avevo un’altra sotto la giacca. Essendo Bettino impegnato nella cerimonia di benvenuto e nelle strette di mano con Mikhail Gorbaciov, mi misi sotto la protezione di Andreotti. Non mi allontanai da lui nemmeno quando passò in rivista il plotone d’onore. Dolorante fotografai tutta la cerimonia e quei due, che non mi avevano perso di vista, se ne accorsero. Ma mi lasciarono fare, intenzionati a intervenire prima che lasciassi il Cremino.

re. Non rifiutava mai nulla ai propri familiari. Tanto meno ad Antonio che aveva scelto di vivere in India, dopo aver portato da Sai Baba uno dei suoi figli, che stava molto male e che, purtroppo, morì. Antonio gestiva a Milano una società di servizi del Comune. Divenuto asses(FOTO 36)

A un certo punto si avvicinò l’ambasciatore d’Italia e a bassa voce: Stia attento, quei due non scherzano: la vogliono fare fuori. Non vorrei che ci scappasse l’incidente diplomatico. Andreotti, che aveva ascoltato il consiglio, suggerì all’ambasciatore di intervenire con i sovietici perché li avvertisse che un eventuale incidente non sarebbe certo scoppiato per causa mia ma per colpa loro. Andreotti non mi perdette di vista durante tutta la permanenza al Cremlino. Anche se eravamo distanti mi guidava con lo sguardo e mi mandava dei messaggi chiarissimi. In uno di quei segnali mi fece capire che le guardie che mi pedinavano mi avrebbero atteso alla macchina da cui ero sceso e che avrei dovuto riprendere all’uscita del Cremlino. Li avremmo spiazzati se io fossi salito imprevedibilmente sulla sua: non sarebbero potuti intervenire perché le nostre auto erano considerate territorio italiano. Poi seppi che era intervenuto in mia difesa chiedendo a Andrei Gromiko di fermare le guardie. Ma il Ministro degli esteri sovietico si limitò a dirgli: Strano che il suo fotografo si comporti in quel modo. Eppure siamo stati chiari nel comunicarvi che non era possibile scattare foto all’aeroporto e al Cremlino. Speriamo che non gli succeda nulla, perché gli agenti hanno disposizione di non consentire a nessuno di fotografare. Per anni raccontava quell’episodio. Diceva che avevo rischiato più di una volta la vita per fotografarlo accanto a Gorbaciov (foto 36). Nel 1986 ci fu l’incontro tra Bettino e il Sai Baba. Fu Antonio Craxi, il fratello che viveva in India, a chiedere di andarlo a trova81


sore, temendo che quella concessione, anche se preesistente alla sua elezione ad amministratore cittadino, potesse creargli dei problemi chiese a Antonio di disfarsene. Antonio, di due anni più giovane, gli diede ascolto.

vo FOTO 37

e

adesso

vivo

felice.

In India ci andammo dalla Cina a conclusione di quel viaggio disastroso con i giullari al seguito. Eravamo in pochi: Bettino e Anna, Bobo e io, e come sempre Nicola Mansi e Antonio Badini. Mentre il Jumbo rientrava a Roma da Pechino col seguito, il piccolo jet della Presidenza del Consiglio da 14 posti ci venne a prendere per portarci a Nuova Dheli, dove fummo ospiti di Rajiv Ghandi e della moglie italiana, Sonia Maino (foto 37). Poi andammo in elicottero a Puttaparthi. Appena arrivati facemmo una passeggiata nel mercatino della città santa. A un certo punto mi sentii chiamare per nome. Bettino tese l’orecchio curioso. Anche qui sei conosciuto? mi chiese con sarcasmo. Ci venne incontro un giovane alto e biondo con gli occhi azzurri: sembrava Gesù Cristo. Non mi sembrava di conoscerlo, ma lui me ne spiegò il motivo. Sono il fotografo dell’Associated Press che hai conosciuto a Londra, mi spiegò. Allora ero molto più grasso: pesavo cento chili, adesso ne peso 70. Mi raccontò una strana storia di un miracolo accaduto un anno prima a Puttaparthi. Il fotografo inglese era venuto per fare un servizio al Sai Baba, che, invece, gli chiese il favore di non fotografarlo. L’inglese non lo aveva preso sul serio. Ma, tornato a Londra, aveva fatto un’amara scoperta: nessuno dei rullini era stato impressionato, non aveva neppure una foto del Sai Baba. Un mese dopo tornò a Puttaparthi per ripetere le foto, ma anche il secondo esperimento diede lo stesso risultato. Non capivo: ero molto turbato, raccontava, mentre io e Bettino ascoltavamo increduli. Un giorno mi telefonò a Londra il Sai Baba e mi chiese di fargli delle foto. Partii subito per l’India, incuriosito dell’esito della nuova missione. Quella volta feci delle foto bellissime: i rullini si erano impressionati. Così decisi di lasciare l’Inghilterra e la civiltà per trasferirmi definitivamente qui. Sono subito guarito da tutti i disturbi che ave82


È inutile che tu faccia delle foto al Sai Baba. Tanto, se lui non vuole, non vengono.

mando: FOTO 38

Bettino, che era ateo, non credeva a ciò che il fotografo ci aveva raccontato, ma non riusciva a nascondere una certa curiosità sul servizio che avrei fatto l’indomani. Appena svegli ci avviammo al pellegrinaggio sul prato davanti alla villa del Sai Baba. Antonio mi suggerì di non scattare foto perché il sant’uomo si sarebbe irritato. Ma suo fratello: Non dargli retta. C’era tanta povera gente, come a Lourdes, ma anche miliardari, provenienti da tutto il mondo. C’erano molti giovani e pochi anziani. Intravidi Alida Chelli tra la folla. Antonio aveva procurato al fratello un’udienza con Sai Baba. Non era un incontro personale, ma assieme ad altri invitati. Una sorta di udienza generale come quelle del Papa il mercoledì a Roma. Al cancello della villa ci fecero togliere le scarpe. Nella sala del trono Sai Baba si accorge della Leica e mi guarda, ma non dice nulla. Antonio, che era di casa, ci presentò tutti al santone, che ad Anna e Bobo regalò una collana d’oro e un anello, a me una bustina contenente una polvere che sapeva di bicarbonato. Mentre a Bettino non diede nulla, ma gli preannunciò: Stia attento, Presidente, che alla fine del secolo potrebbe succederle qualcosa di terribile. Scattai, come mi ero proposto, delle foto. Se fossero riuscite o no per Bettino era un gioco. Però, arrivati a Roma alle undici di notte, corsi al laboratorio, cui avevo telefonato dall’aereo perché stesse aperto fino al mio arrivo. Le prime sei foto sono venute a metà, come se il flash non fosse sincronizzato. Ma se così fosse stato tutte le altre foto avrebbero presentato la stessa caratteristica. Io pensai che Sai Baba ci avesse graziato per simpatia. Però per farci capire che sarebbe stato in grado di bloccare le foto, ci ha dato il segnale nei primi sei scatti. Bettino, invece, per prendermi in giro sosteneva che ero riuscito a farla in barba persino al santone indiano (foto 38). Aveva governato quattro anni, come si era proposto. Qui, in Italia, dicono tutti che il governo più lungo dura un anno, gli rivelai un giorno dopo una conversazione con un funzionario. E lui, di ri83


Dicono così perché non hanno ancora capito che noi siamo diversi dai nostri predecessori. In effetti, tutti cominciarono a considerarci diversi. E certamente lo eravamo, rispetto a tutti coloro che ci avevano preceduto. Il fotografo entrava in ascensore prima del Presidente. Non era mai successo in passato. E, comunque, nessuno aveva mai osato dargli torto. Il fotografo era un elemento di disturbo, non un collaboratore senza la cui documentazione un evento è come se non sia accaduto. Era difficile farlo capire a tutti. Talvolta ci veniva il sospetto di essere noi gli anormali. E forse lo eravamo davvero. Un giorno a Londra in occasione di un incontro bilaterale, il funzionario della nostra ambasciata addetto alla delegazione del Presidente del Consiglio fornì di lasciapassare tutti i membri del seguito tranne me. Si chiamava Leonardo Visconti di Modrone. Gli feci capire che il Presidente si sarebbe molto adirato non vedendomi accanto a lui. Sa, il protocollo… Qui siamo in Inghilterra… Nel palazzo dove si svolgeva l’incontro Craxi vide un ritratto di Garibaldi e voleva essere fotografato accanto al quadro. Non vedendomi accanto a sé, come era abituato, si adirò. Visconti di Modrone, allora, corse verso l’uscita, dove mi aveva lasciato, si tolse il badge dal bavero della sua giacca e me lo diede. Vada subito: il Presidente ha bisogno di lei. Gli dissi che volevo il mio badge personale, non il suo. E gli ricordai che lo avevo pure avvertito. Lo avrà, lo avrà. Ma adesso non c’è tempo. Il Presidente è molto nervoso. Spiegato perché non ero a tiro di voce come al solito, anziché recarsi al salone della riunione tornò all’uscita per redarguire il diplomatico ricordandogli che il modo di fare a Palazzo Chigi era cambiato e anche il comportamento di chi rappresentava il Paese all’estero doveva cambiare. D’ora in poi, anziché solo alla forma si sarebbe dovuto badare più alla sostanza. Inutile dire che con Visconti di Modrone e tutti gli altri diventammo, poi, amici. Ciò che affascinava tutti è che i marziani andavano in escandescenze se qualcosa non funzionava, ma due minuti dopo avevano dimenticato l’incidente. A Palazzo Chigi scomparvero le maldicenze e i rancori,

i pettegolezzi e le gelosie che avevano caratterizzato per anni quell’am-biente. Nessuno comandava: si davano disposizioni. Quindi, tutti si sentivano coinvolti nei successi che il Presidente conseguiva. Persino gli uscieri avevano la sensazione che una parte di merito nell’efficien-za di quel governo era anche loro. Non era mai esistito a Palazzo Chigi il fotografo personale del Presidente. Tutti gli altri premier avevano un servizio stampa. A poco a poco cominciai a impormi anche in cose su cui avevo sorvolato in precedenza. Per esempio, ottenni un’auto tutta per me che precedeva quella del Presidente o che la seguiva. Il fotografo di Palazzo Chigi occupava un posto nella sesta o settima auto del corteo e quindi nel protocollo. Prima di questa innovazione, quando Bettino scendeva dalla macchina, io, che ero su un’altra, dovevo percorrere a piedi trenta o quaranta metri prima di raggiungerlo. Per di più Bettino, con quelle gambe lunghe che aveva, non era un uomo che camminava ma una molla che, uscendo dalla macchina, schizzava. E si doveva spesso fermare per aspettarmi. Se si preparava un viaggio di stato o una visita ufficiale, il Protocollo della Repubblica aveva ormai disposizioni di doversi occupare della mia auto e della mia posizione di precedenza su chiunque, dopo la scorta, accanto al Presidente o addirittura davanti a lui. Tutti si accorsero della funzionalità delle nuove regole, della grande ammirazione di cui godevamo all’estero. Quando, poi, nel 1987 la guida del governo passò a Giovanni Goria, democristiano che Bettino stimava molto e purtroppo morto giovanissimo, fui convocato a Palazzo Chigi. Il nuovo Presidente mi chiese di rimanere con lui. Io lo ringraziai ma rifiutai e gli segnalai Enrico Oliveiro, che era il fotografo del Popolo, allora quotidiano della DC. Non ho mai saputo se l’iniziativa sia partita davvero da Goria o se dietro quella proposta non ci sia stato piuttosto lo zampino di Bettino. È un dubbio che ho sempre avuto e di cui non ho mai voluto chiedere spiegazione. Anche perché, conoscendolo bene, avrebbe certamente negato. Anche se mi stimava, per 84


aver avuto eco di tutte le innovazioni che avevo apportato nel servizio stampa della Presidenza, Goria era una persona troppo intelligente per pensare che un laico come me, abituato a muoversi senza briglie in un’équipe socialista, appunto di marziani, potesse adeguarsi a un tipo di comportamento, che non gli era affatto congeniale, senza procurare danni all’equili-brio dell’ufficio. Ecco perché ho sempre avuto il sospetto che fosse stato Bettino a chiedere all’amico Goria di farmi la proposta di collaborazione. Secondo i miei sospetti aveva voluto controllare se, dopo quattro anni di soggiorno a Palazzo Chigi, mi fossi affezionato più al potere che a lui. Aveva piena fiducia in me. Lasciava che prendessi iniziative nell’ambito del mio lavoro e non mi riprese mai, o quasi, davanti ad altri. Se sbagliavo me lo diceva a quattr’occhi. E talvolta era molto severo. Un giorno alla conferenza programmatica del PSI a Rimini, nel 1987, intervennero tutti i Segretari dei partiti e importanti imprenditori. C’erano Berlusconi, Ligresti, Gianni Varasi, Silvano Larini e tanti altri. Al pranzo, ovviamente, i fotografi non erano ammessi. Io lo trovavo ingiusto. Venivano chiamati se ne avevano bisogno e poi li tenevano fuori dalla porta. Così presi l’iniziativa di invitarli tutti a pranzo, a condizione che nella sala del ristorante non usassero le macchine fotografiche e si comportassero da ospiti e non da fotografi. Mi diedero la loro parola, impegnandosi a non scattare alcuna foto durante il pranzo: avrebbero ripreso le macchine fotografiche una volta tornati nella sala del congresso. Ma ci fu subito chi andò a denunciare la mia iniziativa sovversiva a Bettino, che replicò: Ha fatto bene Umberto: è un costume che da socialisti avremmo dovuto istituire già da tanto tempo. Mi ha voluto bene come a un figlio. Lo diceva a tutti, anche in famiglia, da Anna a Ferdinando Mach, da Trussardi a Filippo Panseca. E aggiungeva: Ma non fateglielo sapere, se no si monta la testa. Apprezzava la tenacia con cui cercavo di farmi avanti nella vita. Ho cominciato a lavorare sin da ragazzino. A 11 anni, in quel periodo abitavamo a Ostia, vendevo bibite sulla spiaggia. Non per-

ché ne avessi bisogno, ma avevo dentro di me tanta energia e dovevo bruciarla in qualche modo. A 15 anni ho cominciato a fare politica nella federazione giovanile socialista. Talvolta tornavo a casa all’una di notte. Quando mia madre lavorava, pur essendo un ragazzino, mi occupavo io di mia sorella Scilla. Più che dalla scuola e dai libri ho imparato molto dalla strada e poi dall’amicizia con Bettino. Non mi diceva mai nulla, non saliva mai in cattedra, convinto, che l’esempio da parte sua e il desiderio da parte di chi gli stava vicino, fossero la strategia di assimilazione migliore. Un giorno, mentre era Presidente del Consiglio, concesse un’intervista a Gente. Venne a Palazzo Chigi un giornalista che conoscevamo. Chiese di essere ripreso con Bettino, che non trovò nulla in contrario. Feci qualche scatto e li lasciai soli. Andai al laboratorio fotografico per sviluppare il rullino. Tornato in ufficio trovai una chiamata urgente del Presidente. Corsi nel suo studio, dove Bettino non mi accolse col solito sorriso. Mi guardò con quella calma che caratterizzava il suo stato d’animo se era molto deluso o arrabbiato. Tu per chi lavori, per me o per la Rusconi? Non capivo e se ne accorse, quindi continuò: Ho notato che scattavi le foto mentre il giornalista sollevava un lembo della rivista in modo che si vedesse la testata. Si rese conto che non mi ero proprio accorto di quel piccolo sotterfugio e mi spiegò: Tu mi devi difendere. Non devi consentire che io venga utilizzato. Se il giornalista mi avesse chiesto di essere fotografato con la sua rivista in mano, avrei accettato. Ma la furbizia, no. Sembrava arrabbiato con me, ma in realtà mi stava educando. La sera stessa spedii la foto a Milano, ma non la posa incriminata. Quando, qualche giorno dopo, uscì Gente, si affrettò a controllare se quella foto ci fosse. Poi a Gennaro Acquaviva: Umberto è un ragazzo intelligente. Una sera del 1988 arrivammo a New York e come sempre ci sistemammo al Waldorf Astoria. Bettino era stanco e non volle uscire. Ma erano venute a trovarci delle persone cui lui teneva molto e bisognava portarle a cena. Portali da Bice. Ma l’autista che aveva85


mo a New York da alcuni anni, un simpaticissimo italo-americano, insistette perché andassimo in un ristorante di Little Italy che, secondo lui, era molto più caratteristico. Lascia fare a me, disse. Gli ospiti di Bettino saranno molto soddisfatti. In realtà, in quel ristorante ero atteso da qualcuno che voleva conoscermi. Ci eravamo seduti a tavola da poco quando venne il cameriere con una bottiglia di champagne. Da parte di quei signori, rispose indicandomi un tavolo situato in un angolo del ristorante, in penombra. Mi alzai per ringraziare e chiesi il perché di quell’omaggio, dato che non li conoscevo. Ma ti conosciamo noi, rispondono, perché sappiamo chi sei tu, chi è Craxi e vi stimiamo.

ristorante, Sinatra era già lì. Il tavolo principale era lungo e ovale. Seduti c’erano Sinatra, Micky Rudin, suo manager, l’amico prete di Sinatra, Roger Moore e signora, Bettino e la moglie Anna. Accanto c’era un tavolo con altri invitati. C’era una delle sorelle Fendi col marito, Nicola Trussardi. FOTO 39

Torno al nostro tavolo e dico al cameriere di portare a quei signori una bottiglia dello champagne migliore da parte mia. Passando accanto al loro tavolo, nell’andarcene, mi fecero cenno di avvicinarmi. Mi chiesero perché avessi mandato lo champagne. Risposi che volevo restituire la cortesia. Tu ci piaci, dovresti rimanere a New York. Qui lavoreresti bene e noi potremmo darti una mano. Ringraziai, ma declinai l’offerta dicendo che io un lavoro già ce l’avevo e per di più accanto a un grande uomo che non potevo tradire. Mi strinsero tutti la mano. Saliti in macchina, l’autista raccontò: Non sai che cosa hai rischiato. Quello lì era John Gotti. Quando lo raccontai a Bettino si sbellicò dalle risa. Seppure fossi il suo fotografo personale e spericolato, non sempre riuscivo a fotografarlo perché talvolta era impossibile accedere in certi luoghi. Bettino stesso faceva in modo che io potessi entrare, tenendomi sempre accanto a sé. Molte foto erano difficili da riprendere e talune addirittura rischiose per l’intolleranza dei servizi di sicurezza di certi personaggi famosi che Craxi incontrava. Frank Sinatra, per esempio, aveva guardie del corpo che non trasgredivano per nessun motivo agli ordini ricevuti e non conoscevano eccezioni. Una sera a Milano andammo a un concerto di Sinatra al Palatrussardi, organizzato da Tony Renis. Dopo lo spettacolo l’artista italo-americano fu invitato da Bettino a cena al Savini. Arrivato al 86


Come facevo di solito, mi avvicinai al tavolo per sedermi. Ma il capo delle guardie del corpo dell’artista, tale Alex Simbolini, mi impedì di sedermi, dicendo che quel tavolo era solo per gli ospiti di Sinatra. Io precisai che, essendo il fotografo personale di Bettino, mi sedevo sempre al suo tavolo. Simbolini mi impose, invece, che quella sera non avrei dovuto fare alcuna foto perché non era possibile fotografare Sinatra. Bettino osservò la scena e non intervenne. Ma tra una portata e l’altra, mi chiamò. Come mai non ci fai una foto questa sera? mi chiese ad alta voce perché Sinatra sentisse. Risposi che non era possibile perché il gorilla me lo impediva. Peccato, replicò Bettino. Non avrò il piacere di avere una foto col grande Frank. A quel punto sentiamo un urlo disumano: era Sinatra che, un po’ sbronzo, dato che pasteggiava a tavola col whisky, ricopriva di parolacce la propria guardia del corpo. Scene come quella lo mandavano in visibilio. Sinatra si rivolse a me, sempre con un bicchiere di whisky in mano, dicendomi di fotografare (foto 39). E lui posò per me fino a tarda sera. Scattai otto rullini di foto. Dopo qualche giorno raccolsi le più belle in un album e le mandai in America. Qualche giorno dopo ebbi il ringraziamento per le belle foto.

un fuoco di paglia e che non c’era motivo di allarme. Ma bisognava fare qualcosa per tranFoto 40

Giunta la notizia che Muammar Gheddafi aveva lanciato un missile su Lampedusa, la psicosi del terrorismo si impadronì del paese. La gente cominciò ad avere paura. Ma Bettino, che conosceva bene il mondo arabo, sapeva che la notizia non poteva essere vera. Comunque, chiamò subito Andreotti e gli chiese come mai Gheddafi, che era un amico dell’Italia, avesse fatto quel gesto. Andreotti, che con Gheddafi aveva già parlato, assicurò che il missile non era partito dalla Libia. Ma per non creare ulteriori misteri e non suscitare altre polemiche, si lasciò credere che l’autore fosse stato Gheddafi e le notizie pubblicate dai giornali non furono mai smentite. Credo che ancora oggi questa sia la versione ufficiale archiviata. Craxi convocò il Consiglio di Gabinetto, organo da lui creato e formato dai ministri più importanti e dai rappresentanti dei partiti della maggioranza. Assicurò gli alleati di governo che si trattava di 87


quillizzare la popolazione, soprattutto in Sicilia e in particolare a Lam-pedusa. Chiama Bobo e partite subito per Lampedusa. Mi raccomando, non nascondetevi in albergo: passeggiate per le strade, andate in discoteca, insomma, fatevi vedere da tutti. Era il modo migliore per far capire alla gente che non c’era alcun pericolo.

parlo? Gli spiegai che non ne avevo bisogno perché memorizzavo tutto. FOTO 41

Saputo della nostra presenza, ci raggiunse a Lampedusa anche il Presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi. Bettino arrivò il giorno dopo (foto 40). Volle essere accompagnato subito in piazza per salutare la gente. Ci mettemmo a passeggiare e in pochi minuti si formò un corteo interminabile. A Lampedusa aveva la casa di vacanza il musicista Augusto Martelli, che negli anni ’60 era stato fidanzato con Mina. Era grande amico di Bettino che, infatti, dormì a casa sua. Martelli era socialista e faceva parte dell’Assemblea Nazionale del PSI. L’indomani il musicista organizzò un pranzo in casa con tanti ospiti in onore di Craxi. Dopo mangiato mi chiese di accompagnarlo a prendere il sole. Gli altri non si mossero da tavola, avendo capito che voleva appartarsi. Nonostante l’ora non sentivamo caldo perché ci sdraiammo su uno scoglio lambito dall’acqua. Col piede si tirava l’acqua addosso con un movimento meccanico. A un certo punto si bloccò ed ebbe un’espressione di paura. C’è qualcuno in acqua. Ho toccato qualcosa col piede. Eppure non avevamo notato nessuno tuffarsi o nuotare. Io mi misi a ridere dicendo che si trattava certamente di una sirena o di un altro missile di Gheddafi. Mentre lui continuava chiedersi che cosa avesse urtato e io a ridere, vediamo affiorare una ragazza. Era bionda, bellissima e con gli occhi azzurri. Scusate, ci dice, ho sbagliato scoglio. E di rimando a me: Avevi ragione, era una sirena. Si chiamava Donatella, aveva 19 anni ed era una studentessa veneziana in vacanza a Lampedusa con i genitori. Ecco una ragazza da corteggiare e sposare, disse quando Donatella se ne andò. Se non ti ci fidanzi, non farti più vedere da me. Mentre seguivo con lo sguardo l’apparizione che si allontanava, mi chiese per la prima volta: Ma tu prendi appunti quando io ti 88


E proseguì: Fai male perché a una certa età dimenticherai tutto. Gli diedi a intendere che, poi, prendevo appunti rincasando. Anzi gli confidai che stavo scrivendo un libro sul mio passato e sull’esperienza che da qualche anno stavo facendo con lui. Aggiunsi pure che i miei progetti si stavano realizzando prima di quanto avessi previsto. Sei un bel megalomane. E capii che l’iniziativa gli era piaciuta perché megalomane per lui era una qualifica positiva. Gli dissi che pensavo alla grande, ma che non avrei mai approfittato del suo potere. Proprio in quel momento e su quello scoglio, a Lampedusa, con gli ospiti di Martelli che ci guardavano dall’alto e noi che ammiravamo Donatella dal basso, ebbi la conferma che era un uomo solo. Era un politico che credeva molto nella comunicazione e quindi nella trasmissione della propria immagine. Ma per diffonderla era necessario legarla a una notizia. Se l’evento non c’era, ci pensava lui a crearlo. Un giorno, arrivando al partito, convocò la Direzione per annunciare che avrebbe l’intenzione di celebrare il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi. Arrivò finalmente il giorno della celebrazione e partimmo per Caprera. All’aeroporto di Olbia trovammo un elicottero che avrebbe dovuto portarci sull’isola, ma era già stato occupato dal comitato di accoglienza, tanti amministratori locali e dirigenti socialisti sardi. Io, invece, rimasi a terra. Nessuno si mosse, nessuno volle rinunciare al privilegio di volare in elicottero accanto a Bettino Craxi. Dovetti trovarmi una soluzione da solo per seguirlo. Prima che la cerimonia ufficiale cominciasse, facemmo il giro del-l’isola. Girando mi mostrò un albero che era stato piantato da Peppino. Così amava chiamare Garibaldi, come se fosse un amico o piuttosto un suo antenato. E si mise in posa accanto all’albero (foto 41). Siccome non c’era altra scenografia volle essere fotografato pure mentre sbarcava da un motoscafo, interpretando il personaggio di Giuseppe Garibaldi. I socialisti sardi ci guardavano meravigliati. Si chiedevano come mai Bettino Craxi, di cui ovunque si

narravano le gesta, giocasse come un bambino a mettersi in posa davanti a un obiettivo. A tavola, durante il pranzo ufficiale, continuò a recitare, rac-contando avventure sentimentali e conquiste di Garibaldi. Diceva che Peppino era pieno di figli: ne aveva seminati tanti un po’ dappertutto nel mondo. Rivolto ai notabili dell’isola raccontò che i loro predecessori avevano denunciato Garibaldi perché insidiava le loro mogli, che invece ne erano innamorate. Le donne correvano dietro anche a Bettino, ma non si illudeva. Non sono innamorate di me, ma affascinate dal potere che rappresento. Riceveva tante lettere di donne che gli chiedevano di poterlo conoscere e incontrare, che gli confessavano di essere innamorate della sua intelligenza. La sera, tornati in albergo, c’era sempre qualche bella donna che, più audace delle altre, lo aspettava nella hall. Erano donne di tutte le condizioni economiche, culturali e sociali. Qualcuna, se carina e presentabile, veniva invitata a cena. Ma prima che la serata finisse scopriva che era venuta per chiedere un favore per se stessa o per il proprio uomo o per la famiglia. Nessuna era disinteressata. E tutte erano disposte a pagare i favori in natura. Talvolta si invaghiva di qualche bella signora, ma si bloccava subito. Non prendeva l’iniziativa per timore di rovinare una famiglia. Era rispettoso delle regole che altri avevano codificato in passato. Magari cercava di modificarle, ma finché esistevano, bisognava rispettarle, lui per primo. Ecco perché se c’era il pericolo che lo arrestassero, non era tanto il carcere, cioè la detenzione, a spaventarlo. Si vergognava soprattutto della procedura: le manette ai polsi, il giudizio del carabiniere, lo sguardo dell’agente di custodia. Non era colpevole, ma la macchinazione che era stata ordita contro di lui era il risvolto del privilegio di cui aveva goduto. Era il rischio che corre chi gioca col potere e lo contende agli altri. Non importa essere nel giusto o il migliore: questo lo giudicherà la Storia. Da che mondo è mondo la corsa al potere è l’unica gara che consente ai concorrenti qualsiasi mossa riprovevole con l’approvazione dei tifosi. Le regole ci sono, ma gli arbitri sono di 89


parte. Non si può neppure definirli corrotti, perché anche loro spinti da una fede che giustifica il tradimento e lo spergiuro. Gli elettori, che sono le vere vittime di tali lotte senza quartiere, sono impotenti e inermi perché interdetti dal-l’informazione deformata. Anziché scegliere chi meglio di altri possa immedesimarsi nei loro bisogni, diventano giudici e tifosi loro stessi. Partecipano, così, anche loro inconsciamente alla dissacrazione di miti popolari e alla consacrazione di false ideologie, applaudono sentenze ingiuste e crudeli, approvano l’ascesa di uomini senza scrupoli e soprattutto senza valore. Perché gli uomini che fanno la Storia, non hanno bisogno di mentire e alterare la verità, diceva, sintetizzando in poche parole un lungo ragionamento elaborato nella sua mente e che nessuno poteva seguire. I grandi usano la verità come arma di difesa perché non temono di essere smascherati. Ma erano pochi a capirlo. Familiari e amici cercavano di farlo ragionare con una logica comune, cioè col buonsenso delle persone semplici. Mentre lui era su un’altra lunghezza d’onda. Purtroppo la sua genialità lo aveva condannato alla solitudine. Senza temere di esagerare, posso ben dire di essere stato per anni, senza altre eccezioni, il suo unico legame con l’umanità. Un tempo, con chiunque parlasse, i suoi erano lunghi monologhi. Non perché non accettasse il dialogo, che, invece, cercava continuamente. Il fatto è che non poteva dialogare né confrontarsi con nessuno perché il suo ragionamento arrivava alle conclusioni quando gli altri erano ancora alle premesse. Persino io, che lo conoscevo meglio di altri, mi stupivo che fosse sempre pronto a perdonare chiunque e dimenticare qualsiasi sgarbo. Ma era già arrivato al giudizio finale e quindi alla commiserazione, mentre io e gli altri eravamo ancora perplessi per il comportamento che ci sembrava indegno. Ecco perché mentre io disprezzavo chi lo aveva tradito, lui era più clemente. È il caso di tanti suoi beneficiati, che, sapendolo in disgrazia, anziché cercare di aiutarlo a ristabilire la verità e quindi gli equilibri utili a tutti, si erano messi alla ricerca di un altro Principe di cui diventare vassalli e quindi da sfruttare.

A Hammamet purtroppo c’era anche il tormento e l’angoscia, non essendo mai l’emozione rappresentata dalla gioia, ma da una continua delusione. Berlusconi è un uomo che sogna, mi diceva. Ma le sue emozioni sono positive perché le realizza sempre e in qualsiasi attività: un tempo negli affari, oggi in politica. Se gli ricordavo che nessuno più di lui aveva avuto risultati positivi nella vita, mi rispondeva: Ancora oggi mi vedo a 18 anni su una collina con una distesa infinita di sabbia attorno, senza strade né sentieri. Chi mi viene a trovare deve usare l’elicottero. Gli chiesi come mai un uomo come lui si fosse ridotto in quello stato; si corrucciò. Era un periodo di tempo in cui non mi aveva in grande simpatia perché spesso lo riportavo alla cruda realtà. Anche Anna mi rimproverava di andarmene appena arrivato. Era vero, ma non volevo considerare Bettino come un ammalato. Mi piaceva discutere con lui e provocarlo per vederlo combattivo e volitivo come quando era a Palazzo Chigi o nel suo studio di via del Corso. Credo che, in realtà, lo affascinasse l’emozione di sfidare il male per poterlo sconfiggere o meglio ancora convertirlo al bene. Gli piaceva, infatti, cercare di recuperare chi, pur dotato di intelligenza, era votato più all’inganno che alla creatività. Gli chiedevo perché perdesse tempo con chi aveva già catalogato come persona deviata, mi rispondeva candidamente: Prova a immaginare il successo e quindi le emozioni che si possono raggiungere nel recuperare al bene un uomo di grande intelligenza che, però, si volge al male. Il crollo del partito tormentava Craxi non solo per il fallimento politico, ma per il destino che si prospettava ai dipendenti. Avevano tutti continuato a lavorare seppure non fossero retribuiti da diversi mesi. Per di più nessuno di loro avrebbe percepito il trattamento di fine rapporto, essendo il partito in liquidazione. Non era riuscito a risolvere il problema e sapeva che i dipendenti, pur sapendolo in disgrazia, facevano affidamento su di lui. Intanto, si prospettava l’esilio o, comunque, una lunga battaglia giudiziaria. A febbraio del 1993 lasciò la segreteria del partito e, al congresso dell’Ergife, a Roma, al suo posto fu eletto Giorgio Benvenuto, Bet90


tino gli diede il numero di un conto corrente svizzero. Con quel denaro il nuovo Segretario del PSI avrebbe potuto pagare gli stipendi arretrati e le liquidazioni dei dipendenti del PSI. Ma Benvenuto non accettò. Molto imbarazzato di dovere rifiutare, Giorgio si giustificò: Scusami, ma non sarei capace di amministrare denaro di cui non conosco la provenienza. In effetti, era una persona troppo per bene per guidare la barca del PSI, ormai alla deriva. La regia di Giorgio Benvenuto durò appena cento giorni. Successivamente fu eletto Ottaviano Del Turco. Il partito era allo sbando e Bettino aveva perso il necessario ascendente per poterlo rimettere in sesto. Si capiva dall’atmosfera che aleggiava nelle riunioni. Se avessi scattato una foto in bianco e nero all’Ergife, sarebbe sembrato un congresso socialista degli anni ’60. Fino a qualche mese prima tutto era perfetto e pulito, silenzioso e ordinato. Adesso il rumore dei congressisti e il loro sguaiato parlare sovrastavano la voce degli oratori al microfono. Seppure ampia, la sala era maleodorante e impregnata di fumo. I 17 anni di leadership di Craxi, che avevano dato un’impronta al partito, erano stati cancellati senza lasciare traccia. Ottaviano Del Turco era uno degli uomini su cui Bettino puntava per restituire al partito prestigio e onorabilità. I leader erano tutti inquisiti o sospetti, mentre i sindacalisti non erano coinvolti nelle vicende giudiziarie. Appena insediato, Del Turco mi convocò. Eravamo molto amici, tanto che nei 10 anni precedenti ogni volta che doveva chiedere qualcosa a Bettino si rivolgeva a me. Mi stupii che si fosse installato in una stanzetta di via Tomacelli, dove c’era la redazione dell’Avanti!, anziché nel prestigioso studio di Craxi in via del Corso. Mi assicurò che si trattava di sistemazione temporanea mentre stava facendo ristrutturare l’ufficio tradizionale del Segretario nella sede centrale del PSI. Giudicai molto strana l’idea di trasformare lo studio, soprattutto in un momento di crisi come quello. Ma fui ancora più sconcertato dal motivo della convocazione. Ottaviano mi chiese quali fossero i miei nuovi rapporti con Bettino, che era ormai un uomo politicamente finito. Se avevo intenzione, come lui, di continuare a fare politica avrei dovuto fare altre scelte.

Era inutile rimanere fedeli a fantasmi del passato. La proposta era di dissociarmi, magari con una dichiarazione sui giornali. Lui stesso mi avrebbe procurato i contatti necessari. Mi assicurò pure che per quel gesto sarei stato ben retribuito, perché il partito avrebbe venduto l’archivio fotografico e io avrei avuto la giusta percentuale. Dopo avergli detto che non mi interessava fare politica se non con Craxi, gli precisai che l’archivio non era del PSI ma mio personale. Certo tra le migliaia di foto che avevo ce n’erano tante che facevano gola ai nemici di Bettino. Infatti, tanta gente mi aveva offerto cifre da capogiro per acquistare l’archivio. Ovviamente raccontai subito tutto a Bettino, che ormai non si allontanava più dall’hotel Raphael se non per fare quattro passi nell’attigua piazza Navona. Alla fine, dopo le varie minacce ricevute, si era ridotto a passeggiare nella piazzetta antistante l’albergo. Mentre io gli raccontavo del colloquio con Del Turco, Bettino sembrava meditare su un altro problema. Io parlavo di opportunismo, lui invece definiva la proposta di Ottaviano un modo per sopravvivere all’epu-razione e per continuare a fare politica, che, per chi ce l’ha nel sangue, è un’attività vitale. Digli di venirmi a trovare: ho qualcosa da proporgli, fu la reazione di Bettino. Conoscendolo bene, capii che non aveva alcuna intenzione di redarguirlo ma di affidargli una missione. Ovviamente non fui io a convocare Del Turco, avendolo lasciato sbattendo la porta. Lo riferii alla segretaria. Lo stesso pomeriggio il nuovo Segretario del PSI si faceva annunciare a Craxi dal concierge del Raphael. Quando nel 1993 non era più Segretario del PSI, aprì a Roma in via Boezio un ufficio dove creò la sede della Giovine Italia. L’idea era di raggruppare tanti giovani per ricominciare a far politica con gente nuova e non più con i trombati. A reggere l’ufficio erano Luca Iosi che, secondo Craxi, essendo pratico e combattivo, aveva le doti per fare politica, pur essendo un intellettuale. Non ci sono più politici veri, concludeva. Ci sono manager e funzionari, magari bravissimi ed efficientissimi, ma sanno solo concludere affari. O91


gnuno pensa ai propri interessi anziché al Paese. E pensare che noi eravamo accusati di riscuotere tangenti. Adesso, invece, ci sono le lobby che operano alla luce del sole: emettono tanto di fattura e curano l’affare dalla nascita alla conclusione, ma non creano nulla. Io avevo sempre auspicato che si adottasse questo sistema in Italia, come in qualsiasi parte del mondo civile. Ma che servisse a far evolvere la politica, non gli interessi privati.

realizza, ma Occhetto entrato nell’Internazionale socialista (foto 43),, non gradisce la leadership di Craxi, che oscurerebbe inevitabilmente la sua. Il socialdemocratico Antonio Cariglia tradisce Bettino preferendogli il PDS. I socialisti ai vertici del partito erano tradizionalmente dei voltagabbana. Un giorno si facevano comprare dai filo (foto 42)

Commise un errore politico imperdonabile: non andare a elezioni anticipate, allorché Mario Segni propose il referendum sul sistema elettorale maggioritario. Consigliò gli italiani di andare al mare anziché a votare. Fu la DC a convincerlo che, dopo il referendum, era meglio non indire elezioni anticipate. In quel momento i comunisti erano finiti. Invece, continuò a traghettarli nell’Internazionale socialista perché convinto di diventare il leader di un polo laico chiamato Unità socialista. In effetti, quello era l’unico modo per creare un’alternativa alla DC. E ci sarebbe riuscito se avesse fatto ricorso a elezioni anticipate. Invece, riteneva che, una volta caduto il Muro di Berlino, staccatisi dal Cremlino, i comunisti non avrebbero avuto altra alternativa che aderire all’Unità socialista. Così cominciò a lavorare a questo progetto finalmente ci fiero: riuscì.il concordato con la Chiesa, la possiDi tre eeventi andava bilità dei contribuenti di destinare l’8‰ nella denuncia dei redditi e la caduta del Muro di Berlino. Ma fu proprio quella circostanza a far precipitare gli eventi e trasformare la politica italiana. Ricordo una conversazione in aereo, nel 1987, di ritorno da un Paese dell’Est, tra Bettino, Presidente del Consiglio, e Andreotti, Ministro degli esteri. Erano seduti uno di fronte all’altro (foto 42). Andreotti diceva a Bettino che la caduta del muro non sarebbe stato un evento positivo né per i socialisti né per l’Italia. Vedo i numerosi svantaggi, ma nessun beneficio, disse Andreotti. La politica italiana cambierà radicalmente. Anche Willy Brandt aveva messo Craxi in guardia dal pericolo dei comunisti redenti. Finalmente nel 1992 il progetto di unificazione della sinistra si 92


(FOTO 43 )

comunisti e l’indomani dagli autonomisti. Ecco perché, nonostante il suo carisma di leader storico, Pietro Nenni era sempre in minoranza nel partito. Come Pietro Nenni, anche Bettino diventa anticomunista nel 1956 quando i carri armati sovietici entrano in Ungheria e soffocano nel sangue l’insurrezione di Budapest. Fino ad allora era Mosca a sovvenzionare il PSI. Da quel momento Nenni rifiuta i rubli sovietici e nel partito si afferma la componente riformista e autonomista. Bettino, poco più che ventenne, comincia a combattere il comunismo, ma non considera i leader italiani come quelli sovietici. Nel 1987 in occasione della visita del generale Wojzech Jaruzelski a Roma, dopo la cena di gala a Villa Madama vuole incontrare Alessandro Natta, allora segretario del PCI. Erano presenti Gerardo Chiaromonte, Nerio Nesi, Rino Formica e Giampiero Cantoni, allora presidente della Banca Nazionale del Lavoro, adesso senatore di Forza Italia. Voglio staccarmi dalla DC per creare il polo laico formato da socialisti e comunisti. Con repubblicani, liberali e socialdemocratici avremo la maggioranza in parlamento. Siamo finalmente in grado di realizzare l’Unità socialista e abolire i 20 partiti che ci sono in Italia. Qualche giorno dopo chiesi se i comunisti gli avessero dato una risposta. Commentò: Natta non è un grande segretario. Dobbiamo aspettare il prossimo, forse. Comunque, io vado avanti. All’interno del PCI esiste una componente riformista con cui ho un buon dialogo. Questi compagni stanno discutendo all’interno del partito per convincere gli altri. Al congresso socialista di Verona, avendo i delegati fischiato Enrico Berlinguer, dal palco Bettino biasimò quell’atteggiamento. Come vi permettete di insultare un uomo politico solo perché non la pensa come voi? Questa è rissa, non politica. Berlinguer è un avversario, non un nemico. Rimase molto male quando Boris Eltsin diede uno schiaffo a Gorbaciov durante il congresso del Partito. Se i sovietici sono così ingrati che il politburo si schiera con Eltsin, vuol dire che gli USA 93


hanno invaso la Russia, fu il commento, convinto che il nuovo segretario fosse d’accordo con gli americani. Infatti, Eltsin riprese il dialogo con i post-comunisti italiani per ritardare il loro processo di integrazione democratica nel socialismo occidentale. Gli USA avevano capito che Craxi finanziava i leader laici di molti paesi europei per creare un’Internazionale socialista più forte, alla quale avrebbero aderito i democratici di sinistra e di cui lui sarebbe stato il leader indiscusso. Gli USA, inoltre, erano contrari a Maastricht perché temevano l’Europa più unita e la creazione di una nuova moneta, per la prima volta nella storia, concorrente del dollaro. Ma temevano soprattutto la politica italiana con l’Est e la leadership di Craxi. Se si trattava di un malinteso, ed ero estraneo all’errore, non accettavo il suo rimprovero. E se lui gridava io alzavo la voce più di lui. Capitò nell’estate del 1988. Bettino stava ormai al partito. Era da qualche giorno Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita (foto 44), uno dei suoi rivali storici. Mi chiama Serenella Carloni per comunicarmi che vuole vedermi urgentemente. E aggiunge Stai attento, perché oggi il Presidente è una belva. Era venuto uno sconosciuto a consegnargli un plico. Serenella Carloni non sapeva da parte di chi, né che cosa contenesse. Poteva solo dire che da quel momento era diventato intrattabile e non si capiva neppure con chi ce l’avesse. Dietro la porta c’erano De Michelis, Acquaviva, Vincenzo Balzamo, Amato e altri che aspettavano di entrare. Serenella diede a me la precedenza facendo aspettare tutti. Bettino, rosso in viso, era dietro la grande scrivania, sempre piena di scartoffie tra le quali solo lui sapeva raccapezzarsi. Vedendomi, inforca gli occhiali e, urlando come un forsennato, mi dice: Sei coinvolto in un affare di armi e mafia. Ecco la persona in cui ho riposto la mia fiducia. Allora mi misi a urlare anch’io. Ero così sconcertato che non ebbi paura di affrontare quell’uomo fisicamente tanto imponente e per il quale avevo il massimo rispetto. Urlavamo tutti e due, richiamando l’attenzione e la preoccupazione dell’intero partito. Funzionari e segretarie uscivano dalle loro stanze e si affacciavano sulla tromba

delle scale o alle finestre che davano sul cortile per cercare di capire che cosa stesse succedendo. Lui, intanto, mi sventolava sotto il naso un rapporto che aveva appena ricevuto dai servizi segreti. Ma come puoi credere a una simile calunnia? gli Foto 44

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chiedevo. Non ti vergogni di pensare di me certe cose? Dietro c’è certamente lo zampino di un tuo nemico. Questo è un attacco contro di te. Accusano me, ma solo per colpire te. Secondo me, la spiegazione di quel falso rapporto si deve cercare altrove. Quando si calmò, mi diede ragione. Ma, nei mesi successivi, pur non essendo cambiato il nostro rapporto e continuando a vivere a contatto di gomito, si percepiva tra noi una certa freddezza. Ci ignoravamo a vicenda. Anche gli auguri di Natale, quell’anno ce li scambiammo con freddi convenevoli. Subito dopo Capodanno andammo in Cile e ci parlavamo ancora per interposta persona. Io facevo il mio lavoro senza rivolgergli la parola. E così faceva lui. Se mi doveva dire qualcosa parlava con Gennaro Acquaviva o con chi gli stava accanto. Lo stesso facevo io. Ma continuava a posare davanti al mio obiettivo, com’era abituato a fare. Quindi, voleva dire che l’intesa tra noi c’era sempre. Un giorno mi accorgo che tra un gruppo di giovani socialisti che ci avevano raggiunto da Milano c’era un giovanotto di cui mi avevano raccontato episodi spiacevoli. Sapevo pure che si drogava assieme ad altri giovani, che frequentavano saltuariamente il partito a Milano. Quindi poteva essere lui ad avere un collegamento con i servizi segreti. Era figlio di un famoso industriale e amico di Bobo. Così, in una piazzetta di Santiago, per la prima volta dopo tanti mesi di freddezza, chiamai Bettino in disparte e gli indicai il giovane. Lo tranquillizzai sul figlio, confermandogli che Bobo era un bravo ragazzo, soprattutto sano. Andammo a prendere un caffè in un bar vicino e ci abbracciammo. Alla vigilia della partenza per New York, nel 1990, ebbi un diverbio con mia moglie. Durante il litigio scivolai e mi ferii alla testa. Dovetti andare al pronto soccorso per farmi medicare: il taglio era profondo, ci vollero quattro punti di sutura e una fasciatura vistosa. L’in-domani in aereo Bettino, che già sapeva tutto, mi sollecitò: Raccontami! Era risaputo che non sapeva tenere per sé una notizia che non riguardasse la politica, settore in cui, invece, era

molto riservato. Anzi godeva nel raccontare ciò di cui veniva a conoscenza. Tanto che io in famiglia raccontavo Se vuoi diffondere una notizia, confidala a Bettino: si propagherà alla velocità della luce. Parlava ogni giorno con tanta gente ma non aveva dialogo con nessuno, un po’ perché era sintonizzato su un’altra lunghezza. Ma dei suoi collaboratori voleva sapere tutto, anche dei sentimenti: flirt, gelosie, fidanzamenti, tresche, separazioni, rapporti con i figli. Un giorno uscivo dal ristorante l’A-rancio con un amico, che Bettino non conosceva. In quel momento passò in macchina e mi vide. Telefonò subito alla segretaria per sapere con chi fossi e come mai frequentassi persone che lui non conosceva. Quelle informazioni gli servivano anche a conoscere meglio i suoi collaboratori. E poi, come tutti i capi voleva essere al corrente di tutto ciò che accadeva attorno a lui. Talvolta si serviva delle confidenze per metterci l’uno contro l’altro. Voleva che fossimo tutti amici tra noi, ma non che si creassero clan o gruppi d’intesa. Non conosco più il significato della felicità, mi disse un giorno con tristezza. Ho sempre lavorato per il partito e non ho mai avuto modo di esprimere i miei sentimenti. La mia vita è stata una continua corsa. Provava le emozioni di riflesso, vivendo le storie di chi gli stava vicino. Poi c’era il diabete che ormai lo aveva menomato notevolmente. Anziché curarsi e condurre una vita riguardata, viveva come se fosse una persona sana. Gli era rimasta la voglia di vivere. Anzi, gli era aumentata. Avevo l’impressione che stesse provando a vivere un’esistenza diversa immedesimandosi nelle mie esperienze. Mi chie-deva continuamente di raccontargli le avventure sentimentali, che vivevo o sognavo. Spesso era lui a segnalarmi che una ragazza mi guardava con insistenza e mi incitava a ricambiare quell’attenzione. E seguiva con discrezione l’esito della love story. Un giorno Filippo Panseca, un nostro amico, conosciuto come l’architetto del PSI, mi ha commosso rivelandomi una confidenza fattagli da Bettino: Ormai vivo la mia sessualità grazie all’esuberanza e alla giovinezza di Umberto. Filippo era un siciliano sempre vissuto a Milano. Conobbe Bettino nel ’68. Era l’autore 95


delle strane scenografie dei congressi del nuovo corso. Al congresso di Milano, nell’ex fabbrica Ansaldo, aveva ideato la piramide, a Verona gli specchi, a Rimini il Muro di Berlino. L’architetto aveva aiutato Bettino a dare un impulso alla propria immagine. Facevamo a gara, io e Filippo, a chi Bettino diceva più cose. Spesso gli affari che ci confidava, tutti sempre molto innocenti e addirittura puerili, erano gli stessi.

davanti a pietanze proibite. Si mise a urlare. Lasciami mangiare, faccio quello che voglio. La vita è mia e posso avvelenarmi come mi pare. Aveva dimenticato di portare con sé la siringa con la dose quotidiana di insulina, (foto 45)

Quella rivelazione mi rattristò, perché mi resi conto che il diabete progrediva inesorabilmente. L’unica cura che praticava erano le due iniezioni di insulina al giorno. Era come prendere un’aspirina, anziché andare dal dentista, se si ha mal di denti. Se le faceva davanti a tutti: al ristorante, in ufficio, in aereo. Qualche volta, preso com’era da mille problemi, se ne dimenticava. E si sentiva subito male. Una sera, durante la campagna elettorale del 1987, mentre tornavamo a Roma in aereo, ci fece prendere una bella paura. Anna si raccomandava sempre con me di non farlo mangiare. Ma non era facile controllarlo, né, meno ancora, convincerlo che certi cibi per lui erano velenosi. A tavola eravamo costretti a mangiare ciò che non gli faceva male, per non dargli voglia di pietanze a lui proibite, come il formaggio e gli insaccati. Dopo i comizi e la conseguente cena con i candidati e i compagni che avevano organizzato la manifestazione, voleva sempre tornare a Roma o a Milano, a qualsiasi ora, anche molto tardi, con l’aereo della Presidenza del Consiglio. Quella sera il pilota ci fece sapere che qualcuno aveva portato in aereo come omaggio al Presidente dei prodotti tipici della zona: formaggi e salumi. Antonio Badini, Gennaro Acquaviva, Antonio Ghirelli e io aspettammo che Bettino si addormentasse, come faceva di solito, per integrare la cena con quei cibi genuini trovati a bordo. Chissà come, si svegliò e, sentito l’odore del cibo, chiese: Che cosa state mangiando? Risposi: Niente di particolare, un pezzetto di pane. Capì subito: si alzò di scatto e venne a sedersi con noi. Cercammo di dissuaderlo, ma sembrava una belva. Non potendo mangiare certi cibi, ogni tanto veniva colto da raptus di appetito 96


che avrebbe dovuto fare pur mangiando normalmente. Per di più, in quel periodo aveva i valori glicemici più alti del solito. Qualche minuto dopo si sentì male: divenne rosso in viso e cominciò a sudare. Tutta colpa tua, mi incolpò, atteggiandosi a vittima. Mi avrai sulla coscienza. Reagiva sempre così se faceva di testa sua. Ebbi la presenza di spirito di telefonare al Raphael dall’aereo. Il portiere sapeva dove Bettino teneva l’insulina. Per guadagnare tempo, chiesi che qualcuno ce la portasse a Ciampino. Infatti, sotto la scaletta trovammo la scorta con la dose di insulina, che si iniettò subito, prima di scendere dall’aereo. Divenuto Presidente del Consiglio, i visitatori italiani a Hammamet aumentarono notevolmente. Tutti sapevano che a partire dal mese di luglio Anna Craxi stava in Tunisia in pianta stabile e Bettino vi trascorreva tutti i week-end e parte del mese di agosto. Molti ospiti risiedevano proprio a villa Craxi, mentre altri andavano in albergo. A Bettino piaceva attorniarsi di amici di vecchia data e in genere di persone simpatiche. Ospiti frequenti erano Ornella Vanoni, Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri, Margherita Boniver col suo uomo, Nedda Liguori, Paolo Guzzanti e Laura Laurenzi, Caterina Caselli, Angelo Rizzoli junior e la moglie Melania De Nichilo, il pittore Recalcati, l’architetto Claudio Dini e tanti altri, tra cui Marina Ripa di Meana e più raramente il marito Carlo. L’architetto Claudio Dini e la moglie erano amici di Anna. Lui a Bettino stava antipatico, ma lo rispettava grazie ad Anna, pur sapendo che veniva a trovarli solo perché voleva diventare presidente della Metropolitana Milanese. Negli anni dell’esilio era poca la gente che veniva a Hammamet. All’inizio, quando ancora c’era chi credeva che Bettino fosse un uomo ricco, molti chiedevano soldi per ricostituire il partito socialista. Altri pensavano che ci fosse un legame tra Bettino e Berlusconi e che quindi stesse per tornare in auge. Alla fine, tutti capirono che ormai era politicamente finito, e non andò più nessuno a trovarlo, tranne i pochi amici veri. Nel 1998 venne a Tunisi per un concerto

Lucio Dalla (foto 45), che dopo lo spettacolo chiamò Bettino a casa manifestan-dogli il suo desiderio di salutarlo. La sera giunse a cena ad Hammamet, dove era ospite Tony Renis con la moglie Elettra Morini. Durante la serata Lucio Dalla e Renis con Bobo alla chitarra improvvisarono un concerto per Bettino che si commosse. In tanti anni di vita pubblica Dalla era la prima persona che era andata a trovarlo per portargli qualcosa e non per chiedere. E per di più a uno ormai in disgrazia. D’estate Hammamet era divertente. C’era tanta gente per le strade fino a notte inoltrata e i caffè erano pieni di turisti, per la maggior parte italiani. D’inverno, invece, anche se il clima era sempre gradevole, i caffè erano deserti e appena calava la sera per la strada non c’era anima viva. Ma Bettino non perdeva l’abitudine di fare una passeggiata in centro dopo cena. Anche se in casa c’erano ospiti, appena finito di mangiare mi lanciava un occhiata e col capo mi faceva cenno di seguirlo. Aveva preso quell’abitudine perché capitava spesso di voler evitare la compagnia di gente che gli era antipatica e che doveva sopportare in casa, perché amici della moglie. Così, tutte le sere, anche se a casa c’era gente simpatica, per non interrompere la tradizione, voleva uscire di casa dopo cena. Parcheggiavamo la macchina nella piazza principale di Hammamet, deserta, facevamo due o tre volte il giro dei caffè che la attorniavano e ce ne tornavamo a casa. Era il suo modo di concludere la giornata. Il più delle volte non aveva voglia di parlare. Amava la sua casa di Hammamet, anche perché era l’unico bene reale ad appartenergli. Voleva farne un museo. Almeno, in una parte. Il resto della villa doveva diventare un albergo. Quando non ci sarò più farete denaro a palate con tutti i turisti che faranno la fila pur di trascorrere una vacanza nella casa che è stata abitata da Bettino Craxi, diceva alla moglie e ai figli. In realtà, si stava preparando alla fine. Pensava a Caprera, al mausoleo di Garibaldi che tante volte avevamo visitato. Un mausoleo me lo merito anch’io. Non è una mia debolezza, ma una giusta ambizione. Per ora, però, 97


non diciamolo a nessuno. Ai tempi in cui era libero di muoversi, a Caprera ci andavamo tutti gli anni, per devozione e ammirazione, come un pellegrinaggio. Vedi questa casa? mi diceva ogni volta. L’ha costruita Peppino con le proprie mani. Sai perché Garibaldi non dormiva nella stanza da letto ma nel salone? Lì, il letto era rivolto verso l’Italia. Il proprio mausoleo aveva cominciato a costruirlo nel 1988. L’edificio era nato per diventare una dépendance della villa, adibita principalmente a studio. Lo usava se in casa c’era troppa gente e aveva bisogno di concentrazione. Il terreno di proprietà dei Craxi a Hammamet era scosceso e la villa era costruita nella parte bassa che aveva una maggiore superficie pianeggiante. Il mausoleo, invece, sorgeva su un’altura, cinquanta metri più lontano della casa, in posizione dominante. Il mausoleo, quindi, era diventato un’elegante foresteria destinata agli ospiti di riguardo. Spesso ci dormivo io, perché chi veniva a trovare Bettino preferiva essere ospitato nella villa per essere vicino a lui. Alla mia morte, sarai tu a godere di questa bella dépendance, mi diceva. Tanto, qui sarai sempre il benvenuto e potrai venirci tutte le volte che vuoi.

cabina telefonica il più lontano possibile da casa mia. Una notte, mentre parFOTO 46

Tranne i familiari e io, nessuno sapeva che quell’edificio era stato costruito per diventare il mausoleo di Bettino Craxi. Più che un progetto, infatti, era un suo sogno. E, purtroppo, neppure quello si sarebbe realizzato. Voleva morire come Garibaldi, in un eremo che, però, tutti avrebbero visitato. Voleva essere ricordato come un eroe. In effetti, nonostante gli errori commessi, tutti i guai gli erano capitati proprio per l’amore che aveva per il popolo e la povera gente, per l’Italia e il socialismo, per la giustizia sociale e il benessere del paese. Purtroppo aveva anche previsto che lì non ce lo avrebbero sepolto. Infatti, un giorno mi chiese di accompagnarlo al cimitero: voleva scegliere una tomba di riserva. Quella in cui, poi, venne sepolto, con la fossa rivolta a nord-est e la lapide che guarda l’Italia, come Garibaldi, ma assieme a tanti altri defunti anonimi (foto 46). Era abituato a chiamarmi tutte le notti dalla Tunisia. L’accordo era che lui mi faceva uno squillo, io allora uscivo e andavo in una 98


lavamo: Chiudi, siamo controllati. Non so come lo avesse capito, ma aveva ragione. Lui credeva che il suo telefono fosse incontaminato perché Ben Alì non avrebbe mai dato il permesso di intercettare le telefonate da casa Craxi e che la colpa fosse mia perché ero andato probabilmente in una cabina telefonica per caso controllata. Invece i Servizi erano riusciti, chissà come, a creare un ponte satellitare tra Italia e Tunisia e registrare le sue conversazioni. Dopo tre giorni, infatti, proprio quel colloquio venne pubblicato integralmente dal quotidiano milanese Il Giorno (documento 4). Non che ci scambiassimo messaggi segreti o rivelazioni sconvolgenti. Anzi, io sembravo dalla parte loro, cioè di coloro che lo spiavano, perché non facevo che ripetergli di lasciar perdere la politica, tanto ormai la sua carriera di statista era bell’e finita. Dedicati a un’altra attività: scrivi una tua Storia d’Ita-lia, gli dicevo. In realtà, facevamo quattro chiacchiere, come si fa al bar. Ci dava fastidio, però, essere spiati per una questione di privacy e di rispetto, non di segretezza.

farmi una domanda. Eppure non ce la faceva a parlare. Ansimava e si (documento 4) INTERCETTAZIONI

Verso il mese di novembre del 1999, cioè un paio di mesi prima di morire, si raccomandava con me, come se fosse il suo testamento spirituale: Stai vicino a tuo figlio. I figli sono tutto nella vita. Parlava come un patriarca. Dava a tutti questo stesso consiglio: I figli bisogna amarli e seguirli, senza pretendere nulla in cambio. Occupati di Edoardo. Non trascurarlo per nessuna ragione al mondo. Ma avevo la sensazione che, più che con me, stesse parlando con se stesso, che pensasse al rapporto che aveva con i suoi figli, ai quali avrebbe voluto dedicare maggiori attenzioni e premure. Invece, si era dovuto accontentare di amarli da lontano, vittima e preda com’era di un’amante gelosa come la politica, che non gli aveva mai consentito una scappatella sentimentale con la famiglia. Chissà come l’avevano vissuto questo tradimento Stefania e Bobo. Chissà se lo avevano capito e giustificato. Bettino sperava che, nonostante tutto, avessero intuito e apprezzato il suo grande amore, seppure saltuario e quasi clandestino. Era una domenica notte. Parlò per un’ora al telefono, senza mai 99


fermava spesso per prendere fiato. Mi era sembrato molto giù. Non lo avevo mai sentito così depresso. L’indomani lo riferii ad Anna. Non gli va di parlare: è molto triste, mi spiegò la moglie. Mi preoccupai e saltai in macchina per andare all’aeroporto. Poche ore dopo raggiunsi Tunisi. Arrivai a Hammamet all’una e mezzo. Li trovai a tavola: lui, Anna e il fedele Mansi. Mi impressionò l’atmosfera funerea che aleggiava nella villa e che confermava la mia intuizione. Lo baciai e mi sedetti a tavola accanto a lui. Non mi toglieva gli occhi di dosso, così mi accorsi che aveva l’iride gialla. Pensai che ormai anche il suo fegato fosse distrutto. Andato in camera per riposare, chiesi ad Anna. È triste perché deve operarsi di nuovo, mi rispose la moglie. Chiesi anche alle donne di servizio e ad Hamida. È triste, mi ripeterono anche loro. A me, invece, sembrava che si stesse lasciando morire, che non fosse più stimolato a vivere. Era la prima volta che, vedendomi arrivare, non mi dicesse: Prendi la macchina e facciamo una bella passeggiata. Non era più in condizione di comporre i numeri sul telefono cordless, che aveva sempre a portata di mano. Era Hamida, a fare il numero per lui. Ma faceva una gran fatica a parlare e dall’altro capo del filo non si capiva quasi nulla. Si percepiva solo un rantolio. E per non dargli altro dolore si cercava di fargli credere che la conversazione fosse comprensibile. Quel pomeriggio fece una pennichella più lunga del solito. Svegliatosi mi sembrò più stanco di prima che andasse a riposare. Non riuscivo neppure a farlo sorridere. Completiamo le didascalie a quel tuo libro fotografico, mi disse. E io per coinvolgerlo maggiormente andai a prendere nel suo studio tutto il pacco delle foto. Mi resi conto che certe cose che lui conosceva benissimo non se le ricordava neppure. Ed era affaticato come la notte precedente al telefono. Intanto notavo che a turno Anna o le cameriere, fingendo di essere affaccendate, in realtà, non lo perdevano mai di vista, come se lo controllassero, come se temessero che da un momento all’altro gli succedesse qualcosa. La cena fu un po’ più allegra del pranzo. Ricordammo i viaggi, i successi, le gaffes, le ansie e le si-

tuazioni imbarazzanti dei lunghi anni trascorsi assieme. Nicola constatò poi che non vedeva Bettino con un tale buon umore da più di un mese. Dovresti rimanere più a lungo. Rimasi a Hammamet molto tempo, perché tutti erano concordi nel dire che con me vicino riacquistava il piacere di vivere. Sempre in quegli ultimi giorni del 1999, a tavola: Io debbo darti una mano nel lavoro, non è stato bello da parte mia. Infatti, la coscienza mi rimorde. Ma adesso è ora che io ti aiuti. Rivolgendosi ad Anna: Chiama Berlusconi e digli che mi fa molto piacere che Umberto possa realizzare il suo sogno editoriale fotografico. La sera a cena riprese l’argomento. Quando si metteva una cosa in testa, non se la toglieva se non dopo averla risolta. Fammi un progetto scritto. Poi io lo elaboro e lo mandiamo a Silvio. Io ero preoccupato per la sua salute. Gli feci intendere che non era urgente: ci avrebbe pensato lui stesso se fosse guarito. Intervenne allora la moglie: Se Bettino ti dice di scrivere un progetto, segui il suo consiglio. La stessa notte mi misi a scrivere e gli consegnai il progetto al suo svegliarsi in tarda mattinata. Quando vide il fascicolo sul tavolo, gli si illuminò lo sguardo. Lo lesse con attenzione, poi commentò: Che bel progetto! Sei un uomo ambizioso. Sarà una collana editoriale straordinaria. Oltre alle tue foto ci potrai inserire tutto ciò che ti ho lasciato: documenti e idee. Credo che in questo modo ne farai l’uso migliore. Non abbandonare mai, però, l’attività fotogiornalistica per cui sei tanto portato e nella quale sei insuperabile. Ci lavorò due giorni. Ne venne fuori un bel progetto. Leggere quel progetto editoriale gli restituì energie e entusiasmo. Non era la prima volta che a Hammamet Bettino dimostrava preoccupazione per il mio avvenire. Anche nell’estate 1998, quindi un anno e mezzo prima, mentre eravamo in un ristorante sulla spiaggia. C’erano dei milanesi, amici suoi, che avevano preso in affitto una casa per le vacanze. Mi guardava con insistenza. Sto pensando che hai 39 anni e l’esperienza di un uomo di 80, disse a un certo punto. Non ti senti pesante? Non ti preoccupi per il tuo avve100


nire? Gli risposi che, certo, era triste vivere in quel modo, senza fare nulla. Per fargli capire che era anche colpa sua se non avevo fatto carriera, nonostante il talento che lui stesso mi riconosceva, gli mostrai una intervista che era uscita proprio quel giorno sul Venerdì di Repubblica. Era una lunga intervista al fotografo personale di John Kennedy. Bettino capì che gli rimproveravo di non avermi valorizzato come avrebbe potuto, come aveva fatto Kennedy col proprio fotografo, che, 35 anni dopo la morte del suo Presidente, era ancora in auge. Diceva il fotografo nell’intervista: Lo seguivo ovunque e lo fotografavo anche se faceva la pipì.

vi. Non voglio che tu abbia dei guai. Ricordati che quello è il Presidente degli Stati Uniti. Seguendo il suggerimento, prima che qualcuno me le chiedesse, FOTO 47

Gli ricordai che nel 1983, divenuto Presidente del Consiglio, gli mostrai un libro su Kennedy, fatto da quello stesso fotografo. Gli proposi che avrei voluto fare la stessa cosa per lui, dato che ormai era entrato nella Storia. Ma io non sono ancora morto, mi rispose, e si mise a leggere l’articolo. Lettolo, non sapendo che cosa rispondermi, dato che avevo ragione, tanto per cambiare discorso: A proposito, come mai al G7 di Londra non hai fatto quella bella fotografia nei gabinetti, mentre Reagan, Nakasone, Kohl e io eravamo in fila contro la parete a fare la pipì? Ci mettemmo a ridere rivedendo la scena con la memoria. Durante una pausa della riunione ero andato in bagno. Vidi quei quattro grandi allineati, uno accanto all’altro, davanti al proprio pisciatoio. Io, che portavo sempre la Leica al collo, stavo per scattare la foto. Non se ne sarebbe accorto nessuno dato che non usavo mai il flash. Bettino fu l’unico a notarmi e mi lanciò un’occhiataccia, proprio per diffidarmi dal fare la foto che avrebbe potuto mettermi nei guai. Gli incontri con Reagan sono sempre stati molto interessanti, ma anche complicati dal punto di vista fotografico. Nel 1986 a Bonn al G7, ospiti di Kohl, oltre a Craxi c’erano anche la signora Thatcher e Ronald Reagan. A un certo punto il presidente USA, raccontando una barzelletta, fa col braccio il gestaccio dell’ombrello e io prontamente lo fotografo, come pure il fotografo della Casa Bianca. Bettino con la sua solita prontezza di riflessi Dagli subito i negati101


chiesi udienza all’ambasciatore Maxwell Rab per portargli la sequenza delle foto con i negativi. Qualche giorno dopo mi arrivò una lettera di ringraziamento, di pugno dal presidente Reagan. Il primo incontro con Reagan fu per me il più simpatico. Da poche settimane Presidente del Consiglio, Bettino Craxi fu invitato alla Casa Bianca. Arrivammo alla Casa bianca con un certo anticipo. Ci accolse un addetto al cerimoniale che ci introdusse in un salotto attiguo allo studio ovale. A un certo punto chiesi dove fosse il bagno. Mi indicarono una porta, ma aprendola vidi una segretaria che scriveva a macchina. Credo che l’emozione della circostanza aveva annebbiato il mio inglese. Chiesi anche a lei, ma sbagliai di nuovo. E a forza di aprire porte, non so ancora come accadde, mi trovai al cospetto di Reagan, che, da solo nel suo studio, con i piedi allungati sulla scrivania, stava telefonando. Poi capii che stava avvertendo la segreteria di fare entrare la delegazione italiana. Il presidente si ricompose e mi esaminò da capo a piedi divertito, essendo probabilmente la prima volta che qualcuno entrava nel suo studio, eludendo la vigilanza della sicurezza. Per tranquillizzarlo lo informai subito di essere il fotografo personale di Craxi. Posò subito il ricevitore e mi rivolse un sorriso, perché aveva notato che al collo avevo una Leica. Disse: Io sono stato attore e so che i grandi fotografi usano solo la Leica. Dapprima mortificato per l’errore, poi compiaciuto dall’accoglien-za, osai chiedergli se, per dimostrarglielo, potessi scattargli qualche foto prima che entrasse la delegazione italiana (foto 47). Senza neppure attendere risposta, ma autorizzato dal sorriso smagliante del Presidente, cominciai a ritrarlo. Mentre ero intento a fare le foto entrò Bettino, che non si aspettava affatto di trovarmi già nello studio ovale. Sentii la manata che si era data sulla fronte, come faceva ogni volta che non credeva ai suoi occhi e si trovava di fronte a un evento inimmaginabile. Il Presidente Reagan spiegò allora a Craxi che mi aveva fatto entrare perché aveva notato che avevo la Leica al collo e per di più senza flash. Aveva dedot-

to quindi che ero un professionista serio. Dopo qualche minuto tutta la Casa bianca era al corrente del mio in-contro speciale col presidente. Il fotografo personale di Reagan entrò che già i due presidenti erano seduti in poltrona ai lati del caminetto. Mentre Craxi partecipava al pranzo ufficiale, io mangiai con lo staff di Reagan. Faceva caldo e mi tolsi la giacca. Avevo una camicia bianca sotto la quale si notava una T-shirt con l’effigie di Garibaldi. Il portavoce di Reagan, che era una signora di origine italiana, mi chiese che cosa fosse quella grossa macchia sotto la camicia. Quando me la tolsi scoppiarono tutti a ridere, anche perché avevo detto che, essendo il mio Presidente uno studioso di Garibaldi, avevo fatto imprimere su tutte le mie canottiere una immagine di Garibaldi. Meno male che il tuo Presidente non sia uno studioso di sessuologia, mi disse la portavoce di Reagan. Se no, che cosa avresti impresso sulla tua Tshirt? Secondo Bettino il suo amico Berlusconi sarebbe stato felice di potermi essere utile perché in un certo senso aveva dei debiti con me. Ultimo quello di avermi impedito di utilizzare le foto fattegli a Palazzo Chigi su Epoca. Quello della proposta di collaborare ad avere un’ unica agenzia che procurasse le foto per tutti i giornali del suo gruppo, risparmiando in tal modo tanti soldi e che dopo seppi che Silvio aveva realizzato, ma senza coinvolgermi. Ma che cosa credevi, che avrebbe regalato soldi a te? Era stato il commento di Bettino. Ma anche quello di alcuni anni prima, nel 1985. Proprio per fare un piacere a Berlusconi, mi aveva impedito di concludere un affare, che forse avrebbe risolto i miei problemi economici per il resto della vita. Assieme a Nicola Trussardi, che voleva investire del denaro nel cinema, stavo per acquistare a ottime condizioni la Scalera Film. Era un grosso affare. A parte gli enormi studi di produzione cinematografica, che si potevano trasformare in studi televisivi, avremmo acquisito anche tutto il terreno e gli stabili della società, che si potevano convertire in aree fabbricabili. Non ne parlai a Bet102


tino perché Trussardi mi aveva rassicurato che era compito suo. Una sera a Milano cenammo in un ristorante cinese. Bobo e io finimmo prima e ce ne andammo per raggiungere dei compagni in una vicina sezione del partito. Bettino rimase con la moglie e Nicola Trussardi. Qualche minuto dopo, non ricordo neppure come, dato che allora non c’erano ancora i cellulari, ci rintracciò e ci ordinò di tornare subito al ristorante. Trovammo a tavola anche Silvio Berlusconi con la moglie Veronica e Fedele Confalonieri. Che cosa vuoi fare, tu? mi chiese, mentre ero ancora in piedi. Capii che Trussardi gli aveva parlato dell’affare che speravamo di concludere. Glielo spiegai e aggiunsi che era un’occasione da non lasciarsi sfuggire. In Italia si occupano di TV la Rai, Berlusconi e mia figlia. Fu la sua decisione. Quindi non devi fare nulla, dimentica la Scalera. Nicola Trussardi era grande amico di Bettino. Ma siccome per lui il PSI era tutto, qualsiasi persona, o evento, venivano rapportati alla vita del partito. Rendendosi conto che, nonostante l’amicizia, Trussardi non dava un soldo al PSI, si lamentava spesso della sua parsimonia. Se mi regala ogni tanto un paio d’occhiali non è per amicizia o generosità. Ma per ottenere in cambio pubblicità. In tutte le foto, infatti, appaio con i suoi occhiali. Un giorno decidemmo di tendergli una trappola. Bettino aveva progettato il rilancio dell’Avanti! e per questo chiedeva un contributo a chiunque, scrivendo addirittura delle lettere ufficiali. Ma Nicola non rispose nemmeno. Una sera a Hammamet mi chiese di reggergli il gioco. A cena c’erano Nicola Trussardi e la moglie, Giorgio Ferrara e Adriana Asti, Angelo Rizzoli con la moglie Melania. C’erano anche altri personaggi locali, amici tunisini di vecchia data. Come d’accordo, davanti a tutti, rimproverandomi Mancano appena 300 milioni alla somma necessaria per rilanciare l’Avanti! e tu non sei ancora riuscito a trovarli. Mi finsi mortificato e chiesi soccorso ai presenti: chi di loro poteva elargire quella somma al partito? Poi aggiunsi che Rizzoli aveva già dato contributi notevoli. Rimaneva Trussardi

che, a tavola, davanti agli altri ospiti non poté tirarsi indietro. Mi promise i 300 milioni. Vedrai che non te li darà, mi disse poi, allorché Nicola Trussardi e gli altri ospiti si ritirarono nelle proprie stanze. E, in effetti, non vidi mai quel denaro. Ogni volta che gli ricordavo l’impegno assunto davanti a tutti, Nicola trovava una scusa. Ormai era tanta la curiosità di Bettino e anche la sua ammirazione per la varietà infinita di scuse che Nicola era capace di trovare, che non ci stancavamo di chiedergli il denaro pur sapendo che non ce lo avrebbe dato. Ormai il gioco tra me e Bettino consisteva nel prevedere quale sarebbe stata la scusa successiva. Negli anni dell’esilio si rammaricò soprattutto del silenzio di Giuliano Amato e Gennaro Acquaviva, due suoi insostituibili collaboratori. Io come al solito gli ricordavo che Giuliano aveva fatto tutto quello che poteva fare, come Gennaro. Nel 1998, quando Amato era Ministro del tesoro nel Governo Prodi, volle scrivere a Bettino una lettera di amicizia e solidarietà. Giuliano mi chiese di recapitarla nelle mani di Bettino. Dopo averla letta e buttata con disprezzo sulla scrivania, commentò: Solo adesso si ricorda di me? Meglio tardi che mai, commentai io. Ma sapevo che avrebbe fatto lo stesso commento se la lettera fosse arrivata tre anni prima. Bettino avrebbe voluto che Giuliano lo seguisse in esilio, che rimanesse incollato a lui come aveva fatto per vent’anni e che per amore continuasse a farsi schiacciare e oscurare anche se era tutto irrimediabilmente finito. Sia Giuliano che Gennaro avevano una devozione esemplare. Per Giuliano non c’era-no week-end che riuscisse a passare in famiglia. Ovunque si trovasse, Bettino lo chiamava per affidargli un incarico. Si trattava talvolta di problemi banali, come se volesse provare a se stesso la dedizione del suo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Questo accadeva tutti i sabati e le domeniche. E Amato non si sottrasse mai, annullando qualsiasi impegno familiare o personale avesse già preso in precedenza. Un giorno della primavera del 1992, prevedendo che stava per crollare tutto, Gennaro Acquaviva espresse il desiderio di candidar103


si alle elezioni per cercare di diventare senatore. Perché quest’ambizio-ne? gli chiese stupito Bettino. Se stai accanto a me a che cosa ti serve fare il parlamentare? Gennaro ci rimase malissimo e, da fedele collaboratore, stava per desistere dal proposito. Ma alla fine gli rispose: Magari un giorno potrò godere di una pensione che mi servirà per sopravvivere. E divenne senatore, per soli due anni, in una delle più brevi legislature della storia repubblicana: giusto in tempo, come aveva previsto. Subito dopo, infatti, il PSI si disgregò.

me entrare dappertutto senza lasciare tracce. Se non fosse stato per i miei vicini non avrei mai saputo che erano entrati in casa mia, senza essere autorizzati dal magistrato. Mi hanno preso dei dischetti in cui ovviamente non hanno trovato nulla di particolarmente interessante e che, certamente, non mi hanno mai restituito. Mentre era a Hammamet e io cercavo di riprendere a lavorare, il consigliere delegato della Longanesi mi contattò perché la casa editriFOTO 48

In aereo voleva sempre parlare. In realtà non era un dialogo, ma un test che faceva sulle proprie teorie, per osservare la reazione degli altri. Poi, se replicavo, dopo meno di un minuto mi accorgevo che non mi ascoltava più: si era già addormentato. Mi sembrava di fargli da sonnifero. Quella notte trascorsa a parlare in terrazzo ad Hammamet, sdraiati sui tappeti con lo sguardo rivolto idealmente all’Italia, cercavo di indirizzare la conversazione sui pochi uomini che aveva scelto come amici e collaboratori e che non lo avevano mai tradito. E, guarda caso, erano le persone che meno di altri avevano beneficiato del suo successo e dell’apoteosi del suo socialismo. Era tutta gente che aveva lavorato 18 ore al giorno per tanti anni senza chiedere nulla in cambio, convinti da lui che anche loro lavorassero per gli italiani e per la Storia. Persino Andreotti, che non era affatto socialista, si era prodigato a esaltare la sua politica, mentre era Ministro degli esteri. Pur di tenermi accanto a sé mi aveva isolato dal resto del mondo. Non mi consentì nemmeno di aderire alla Massoneria. Non c’è alcun bisogno che tu diventi massone, per ora, mi rimbrottò seccamente quando gliene parlai. Ci sono io a proteggerti. Mi sembra sufficiente. Ma dopo il suo crollo non poté proteggermi e la mia fedeltà a Bettino mi ha creato problemi. Nel 1997 ricevetti la visita dei servizi segreti. Prima entrarono, pistole in pugno, in casa dei miei vicini, che erano anziani e si impaurirono. Gli agenti, capito l’errore, si scusarono ed entrarono da me. I servizi, si sa, sanno co104


ce voleva realizzare una storia del Fascismo in fascicoli. Mi ero trasferito a Parigi e per tre volte feci la spola con Milano. Stavamo perfezionando l’accordo, ma scoprii che era la storia dell’amicizia tra Craxi e Berlusconi a interessarlo davvero. Ero nell’ufficio dell’edito-re in corso Italia. Quell’uomo era gentilissimo e assecondava tutte le mie richieste. Poi prese dal cassetto il libretto d’assegni e ne firmò uno. Ci metta lei la cifra. Compriamo tutto il suo archivio. Senza pensarci due volte, presi l’assegno e lo strappai.

Proprio una bella figura (foto 48). Venne a Hammamet nel 1990. Bettino e io eravamo seduti sotto l’androne. A un certo punto arrivò Anna, Foto 49

Umberto Bossi a Bettino piaceva molto, non per il suo modo di fare politica, né per gli ideali che predicava. Anzi, lo riteneva un uomo pericoloso, proprio perché incisivo e immediato. Gli piacevano le sue idee innovative, la facilità con cui concludeva accordi e alleanze, e soprattutto perché d’estate usava la canottiera come lui. Mentre gli altri lo giudicavano primitivo o cafone, Bettino intuiva l’ironia che Bossi voleva trasmettere con un abbigliamento piuttosto insolito per un leader politico. Una sera a Hammamet, mentre stavamo uscendo di casa, passando davanti al televisore ci fermammo, attratti dal telegiornale che in quel momento era in onda. C’era Bossi che parlava. E commentò: Questo prenderà tutti i voti socialisti perché è sanguigno e passionale. E poi, in macchina riprese a parlare di Bossi come se lo avesse notato quella sera per la prima volta. Invece lo aveva incontrato e conosciuto in tante altre occasioni, a Roma e a Milano. Sarebbe un ottimo politico, perché ha delle grandi intuizioni. Sta anticipando alcune situazioni. Peccato che voglia smembrare l’Italia. Abbiamo fatto tanto per unificarla! Speriamo che si ricordi che ci sono più meridionali al nord che al sud. Ma speriamo che si ricordi soprattutto che sono i figli del Sud ad avere fatto ricco il Nord. Seppure pericoloso, è un uomo proprio simpatico perché si muove come una marionetta. Dice cose giuste in maniera ridicola e talvolta volgare e la gente le capisce. Ecco perché piace agli elettori. L’avvocato Vittorio Craxi era un’uomo dal portamento fiero. 105


tutta trafelata, per annunciare È arrivato papà. Non avevo mai visto Anna emozionata. E anche Bettino mi apparve diverso dal solito. Sempre sufficiente con tutti, non per atteggiamento ma proprio per modo di essere, col padre mi sembrò un ragazzo imbarazzato. Infatti, nel momento che vide il padre, Bettino si alzò in piedi e gli diede la mano. Poi l’avvocato lo attirò a sé e si baciarono. Vidi per la prima volta Bettino commosso e pervaso da un entusiasmo filiale, proteso ad apparire agli occhi del padre come un bravo figliolo che era riuscito nella vita. Mostrò al padre la casa, gli presentò gli amici. E l’avvocato si complimentava come se stesse visitando una reggia. C’era un po’ di vento e Bettino temeva che al padre facesse male. Ma Vittorio Craxi rispose: Questo venticello mi ricorda la Sicilia. E Bettino mi lanciò uno sguardo d’intesa.

Com’è possibile che un uomo come lui non capisca queste cose? E scaglia il telefono (FOTO 50)

Lo stesso atteggiamento notai qualche anno dopo con la visita di Francesco Cossiga. Rimasero a lungo a parlare sotto il pergolato. Nessuno osò avvicinarsi, neppure i domestici tunisini che, tanto, non capivano. Il giorno dopo gli chiesi perché Cossiga fosse andato a trovarlo. Siamo amici, mi rispose. Siamo amici da una vita. È un uomo che stimo molto. Mi ha anche dato una mano nella carriera politica. Avevo conosciuto Cossiga alcuni anni prima, quando, ancora Presidente della Repubblica, una sera venne a cena a casa Craxi, in via Foppa a Milano. Bettino gli dimostrava molto rispetto. Credo che gli abbia chiesto aiuto. Quella volta in Tunisia, invece, l’incontro era stato più tenero e affettuoso. Bettino stava già molto male. Arrivata l’ora del commiato, Cossiga gli disse: Credo che questa sia l’ultima volta che ci vediamo. A Bettino una lacrima solcò la guancia: Lo so, ricambiando con emozione l’abbraccio (foto 49). Nel giugno del 1994, si era installato da poco a Hammamet, Berlusconi aveva vinto le elezioni e stava formando il governo. Arriva una telefonata e sento Bettino urlare come un forsennato. Silvio ha proposto a Di Pietro di fare il ministro nel suo governo. Ma che cosa gli prende? Non sa i guai che quello gli combinerà. 106


contro il muro. Poi comincia ad andare su e giù per la stanza come un animale in gabbia. Fare Di Pietro ministro, dopo tutto quello che ha combinato all’Italia, ripeteva come sperando di essersi sbagliato e che qualcuno lo correggesse. Anna arrivò richiamata da quel trambusto. Era rosso in viso e sudato come non l’avevo mai visto prima. Gli chiesi di sedersi per trovare una soluzione, magari inviare un messaggio a Berlusconi. Si sedette su una poltrona, ma rimanendo sul bordo, come per tenersi pronto a schizzare. Gli feci capire che doveva rassegnarsi ad assistere alle decisioni degli altri. Ormai lui era in esilio, tutto era cambiato e la politica adesso la faceva Berlusconi e tutti gli altri. Gli ricordai che lui stesso un giorno mi aveva detto: Tutto ciò che Berlusconi tocca si trasforma in oro. Può darsi che faccia diventare oro anche la sua politica. Ma non si dava per vinto. Io vorrei sapere a che cosa gli serve Di Pietro nel governo. Per fortuna Di Pietro rifiutò l’incarico e, nell’apprendere la notizia, concluse: Allora è proprio vero che Silvio è un uomo fortunato. Allo scoppio del caso Ochalan biasimò la decisione di Massimo D’Alema di consegnare il leader curdo alla Turchia. Perché, in effetti, negandogli l’asilo politico, era come consegnarlo ai turchi. Ma riconosceva che quella non era una trattativa semplice. Per gratificarlo un po’, triste e sconsolato com’era, gli ricordavo come lui aveva brillantemente affrontato il problema di Sigonella e dei terroristi palestinesi. E onestamente ammetteva: Sigonella era una questione molto meno pericolosa. E poi, io con Reagan ero in confidenza. Per risolvere i problemi di Stato bisogna conoscere bene e personalmente gli interlocutori. D’Alema è uno statista di primo pelo. È ancora troppo giovane per questo tipo di problemi. Ma tra cinque anni li risolverebbe meglio. Lasciamogli il tempo di ambientarsi e farsi conoscere. Non è facile portare avanti un Paese con gli ostacoli frapposti continuamente dall’opposizione (foto 50). Di D’Alema pensava bene: lo riteneva molto intelligente e capace. Ogni tanto riemergeva qualcuno di quelli della Prima Repubbli-

ca, altri venivano riabilitati o assolti. E Bettino si rendeva sempre più conto che stava pagando per tutti. Solo Andreotti era finito proprio male, quasi come Bettino. Erano stati eliminati i due leader di maggiore spicco, senza i quali tutte le altre figure di secondo piano sarebbero finalmente potute emergere. Sembravano ormai remoti i tempi in cui Craxi era il bersaglio preferito di vignettisti e umoristi. Un tempo gli spettacoli satirici del Bagaglino erano interamente dedicati a Bettino. Come faranno quando non ci sarò più? si chiedeva, non prevedendo che quell’eventualità apparentemente impossibile fosse invece tanto vicina. Si divertiva se gli riferivano le battute su di lui, ma non si recò mai al teatro. Prima di tutto perché non ne aveva il tempo. E poi, temeva che con la propria presenza potesse mettere a disagio autori e interpreti. Una volta in esilio era molto raro che un amico annunciasse il proprio arrivo e quei pochi, che venivano, portavano i pettegolezzi che circolavano per il Transatlantico a Montecitorio. La novità era Berlusconi, non solo al momento che vinse le elezioni nel 1994, ma soprattutto ai tempi del ribaltone. E anche allorché nel 1996 le perdette. Nel 1998 vennero in Tunisia tre ex socialisti, che avevano ricoperto cariche importanti negli anni ’80 e che si erano riciclati nel nuovo corso politico. Sollecitavano Bettino ad avere una reazione al comportamento poco solidale di Berlusconi verso di lui. Bettino non parlava. Era già molto ammalato e per la prima volta, da quando assistevo ai suoi incontri politici, intervenni redarguendo quei tre individui. Mi permisi anche di far notare che nessuno di loro e di tutti gli altri come loro era mai venuto a portare un’idea propositiva. E ribadii che nessuno ormai era in condizione di fare a Craxi più male di quanto gliene avesse già fatto chi lo aveva costretto all’esilio. Credevo di avere notato in Bettino un segno di approvazione al mio intervento. Erano venuti a proporre un’alleanza tra quello che era rimasto del partito socialista e Forza Italia. La moglie Anna arrivò con i pasticcini e il tè proprio mentre io suggerivo agli ospiti di guadagnare la porta. Andati via, gli ricordai che nessuno meglio di lui conosceva il sistema delle alleanze. Quindi, per quanta stima potesse avere per 107


Berlusconi e ammirazione per le sue capacità, Bettino non si sarebbe mai potuto schierare con Forza Italia. Perché lui, seppure riformista e anticomunista, era sempre un uomo di sinistra. Hai fatto bene a mandarli a quel paese. Giovanissimo, ad appena nove anni, aveva vissuto una breve ma intensa esperienza nella Resistenza, facendo da staffetta a un partigiano che era amico del padre. Gli portavo delle lettere. Non so che cosa contenessero. Io immaginavo grandi segreti militari. Grazie a me avremmo sconfitto il nazismo e il fascismo. Ad Hammamet ricordava spesso della sua infanzia. Ricordava i bombardamenti a Milano e soprattutto la paura delle bombe. Il padre era amico di Nenni. E pensare che non voleva che io facessi politica. E, visto com’è finita, non aveva torto. Ma io non pensavo ad altro, sin da bambino. Non vedevo l’ora di crescere per fare politica. Durante la campagna elettorale del 1987 si recò più di una volta a Palermo; perché in quella circoscrizione era candidato Claudio Martelli, suo pupillo. Una sera a Piazza Politeama, durante un affollatissimo comizio, notai un vecchio compagno che cercava a fatica di raggiungere il palco per consegnare una lettera a Bettino. Ma venne redarguito e cacciato da uno dei responsabili dell’organizzazione perché rischiava di disturbare il comizio del Presidente del Consiglio. Io me ne accorsi e pensai quale danno arrecavano. Non esitai a raggiungere il vecchio. Era deluso e con gli occhi arrossati. Piangeva per la rabbia. Erano anni che sperava di stringere la mano al compagno di partito diventato Capo del governo. Non credeva ai suoi occhi quando lo feci salire sul palco e chiesi a chi poco prima lo aveva respinto di procurargli una sedia perché potesse seguire il comizio seduto. Prima di presentargli Bettino, gli raccomandai di dargli del tu e soprattutto di non chiamarlo presidente, ma compagno. Al vecchio siciliano non sembrava vero. Bettino, che amava conoscere gli uomini che avevano fatto con la loro costanza la storia del partito, si fermò a parlare con lui per dieci buoni minuti. Nella busta che il vecchio voleva consegnargli

c’erano le sue tessere di iscrizione al PSI degli ultimi 60 anni. Bettino abbracciò il vecchio che si mise di nuovo a piangere, questa volta di commozione. A Hammamet rievocammo spesso quell’episo-dio e ogni volta a Bettino venivano le lacrime agli occhi. Pensava alla delusione di quel vecchio e a quella di tanti altri compagni, in un certo senso anche loro condannati assieme a lui a un ingiusto esilio. Un mese e mezzo prima di morire, verso la fine di ottobre del 2000, mi diede l’ultimo incarico. Poi mi occuperò di te e del tuo lavoro. Vai a Milano a dirigere un’operazione molto delicata. Voleva che il giorno di Natale la sua città si svegliasse con le scritte sui muri: Viva Craxi. Bettino torna. Mi propose di mettermi d’accordo con alcuni compagni milanesi fidati per compiere in un’intera notte l’operazione. Non sapevo dove trovare le persone fidate, con tutti i tradimenti che avevamo subito. Temevo che qualcuno facesse la spia e quindi di essere scoperto. Sarebbe stato chiaro che il mandante era Bettino. Si sarebbe ridicolizzato. Così, decisi di fare tutto da solo. Passando da via Macedonio Melloni lo chiamai col cellulare. A Bettino piaceva tanto avere notizie di quella strada. Lì c’è l’ospedale dove sono nato, mi rispose entusiasta. E da via Foppa ci sei passato? Che cosa è cambiato? In un paese che vede una modesta partecipazione femminile alla vita politica, Bettino diede molto spazio alle donne e le favorì soprattutto nel loro ambito professionale. Fu lui il primo a creare le commissioni per la parità tra uomo e donna, affidando l’incarico a tre donne che stimava moltissimo: Elena Marinucci, Alma Cappiello e Lella Golfo. Ma ciò di cui andava fiero era l’eliminazione dei franchi tiratori. Riuscì ad annientare la commercializzazione del voto di deputati e senatori, istituendo in Parlamento un sistema di chiarezza che consentiva all’elettore di controllare il mandato del proprio delegato. Fino a Craxi nessuno aveva osato affrontare il problema dei voti venduti e protetti dalla segretezza dell’urna. Il più delle volte chi votava in modo contrario all’orientamento del 108


partito aveva motivi personali che preferiva nascondere. Craxi pretese il voto palese, in modo da costringere i dissidenti a spiegare le proprie ragioni. Così smascherò gli abusi e soprattutto il mercanteggiamento dei voti. Il rapporto con la moglie, Anna Moncini, figlia di un ferroviere toscano e di una socialista ligure, era di grande rispetto reciproco, che andava oltre l’amore. Anna capiva e giustificava tanti piccoli sotterfugi di Bettino, che, di conseguenza, cercava di essere un buon marito. Insomma, lui ce la metteva tutta, perché considerava il matrimonio un punto di riferimento importante. Sapeva che tradirla con la politica era già un comportamento assai ingiusto nei confronti di una moglie. Ai suoi collaboratori sconsigliava il matrimonio. Ma era un suggerimento interessato. Non voleva che si sposassero, perché potessero dedicarsi con maggiore libertà al partito. Cornelio Brandini era uno di quelli che rimproverava sempre a Bettino di avergli rovinato la vita chiedendogli una dedizione totale, che escludeva la possibilità di una vita di coppia.

glia della polizia, né di imbatterci in controlli dei servizi segreti. Ma, mentre eravamo diretti a Sfax, da poco usciti da Hammamet, sentimmo le sirene della polizia: erano due motociclisti che ci seguivano e che poco dopo ci fermarono. Dovemmo rientrare a casa senza discutere. L’aveva capito, l’unico posto della Tunisia nel quale era libero di Foto 51

Divenuto Presidente, pur mantenendo rapporti di grande cordialità con Craxi, Ben Alì non dimenticava mai, però, di essere un capo di stato, prima ancora che un amico riconoscente (foto 51). Aveva dato ospitalità a Bettino non cedendo alle pressioni italiane, ma gli si raccomandava continuamente perché non turbasse le sue buone relazioni con l’Italia. Un giorno venne una troupe della Rai a Hammamet. Perché il materiale da ripresa potesse entrare nel paese, Bettino dovette impegnarsi con i doganieri che le interviste sarebbero state effettuate esclusivamente all’interno della sua villa. Ma agli operatori e al giornalista non si poté rivelare quella clausola, perché avrebbero capito che persino in Tunisia Bettino subiva limitazioni di libertà. Mentre tutto il mondo credeva che era Bettino ad aver scelto l’esilio di Hammamet, perché la Tunisia era il paese che più amava e l’unico in cui si sentiva come in Italia. Quando gli inviati della Rai ci chiesero di poter fare un giro per il paese non sollevammo obiezioni. Speravamo di non incrociare alcuna pattu109


muoversi era la sua villa. Grazie all’ospitalità di Ben Alì poteva continuare a vivere: nient’altro gli era concesso. In realtà, anziché in prigione in Italia, era recluso in Tunisia con l’illusione di essere libero. Chiunque poteva venirlo a prendere in qualsiasi momento. Tutti sapevano esattamente dove si trovasse. E la resistenza di Ben Alì avrebbe ceduto facilmente e in breve tempo. Bastava una piccola pressione economica. Ma nessuno aveva interesse di arrestare Craxi: era un gioco, per farlo apparire come un latitante fuggiasco. E, invece, non lo era. Ben presto cominciò a chiedersi come mai non avesse previsto quella trappola. E lui che aveva creduto che dalla Tunisia sarebbe ricominciata la sua riscossa. L’arma segreta doveva essere il fax, con cui si era illuso di mettere paura a tutti. La macchina del fax era messa in bella mostra nello studio, ma non avrebbe mai funzionato perché non sarebbe stato capace di minacciare né di ricattare nessuno. Quella, in effetti, sarebbe stata l’unica reazione efficace. Anna lo accudiva dalla mattina alla sera, avevo capito che era ormai alla fine. Si era dimagrito di 20 chili ed era trasformato dalla malattia. Tutti capimmo che stava arrivando la fine. Anche lui, ma non ne soffriva. Si doleva, invece, dell’aggressione alla propria dignità. Nello stato in cui si trovava non poteva difendersi. Si stava spegnendo da grande come era sempre vissuto. Mi sembrava tutto ingiusto. Mi chiedevo perché la società non lo avesse protetto e difeso, come mai nessuno fosse intervenuto, anche se tutti lo avrebbero rimpianto. Capii allora che la Storia è come una mantide: si nutre dei personaggi che prima fa grandi e poi uccide. Della mia onestà si parlerà dopo la mia scomparsa. Come gli artisti che diventano famosi dopo morti, anche la mia politica sarà valorizzata dalla Storia. Quello che noi chiamiamo ospedale di Tunisi era, in realtà, una clinica militare. Era la struttura sanitaria meglio attrezzata di tutto il paese. Ma i macchinari erano obsoleti, il materiale di qualità scadente. Solo dei medici ci fidavamo, perché bravi e coscienziosi, ma

senza mezzi per intervenire in casi gravi. E Bettino era un caso gravissimo. Però, i medici erano amici e facevano miracoli quando arrivava con i suoi problemi di salute in ospedale. Da una delle tante operazioni che subì tardava a svegliarsi. Anche se i medici ci rassicuravano sulle sue condizioni, Nicola Mansi e io eravamo molto preoccupati. Finalmente si svegliò e accese la luce. Gli bastò girare la testa per rendersi conto che eravamo proprio dietro il vetro della stanza di rianimazione e lo stavamo guardando. Era incerottato in tutto il corpo e pieno di tubi. Sembrava un Ecce Homo. Mi dedicò un bel sorriso e col dito mi fece cenno di scattargli una foto. Ma io non avevo la Leica con me. Dal suo arrivo in esilio avevo perso la passione per la fotografia e non portavo nemmeno più la macchina con me. All’ospedale, poi, non riuscivo proprio a riprenderlo. Allora, indicò Nicola per dirmi che lui la macchina fotografica ce l’aveva. In mia assenza, infatti, erano Nicola o Hamida a riprenderlo. Gli feci qualche scatto e andai a chiedere al medico se potevamo entrare. Entrammo, si stupì che io non fossi ancora partito per Roma. Non vai a vendere le foto? mi chiese. Così guadagnerai finalmente un po’ di soldi, dopo tanto tempo, e consentirai soprattutto agli italiani di vedere come mi hanno ridotto. Dall’aeroporto di Tunisi chiamai la redazione di Gente: erano molto interessati alle foto, mi offrivano 70 milioni di lire. Ma arrivato a Roma pensai che, se apparse su un telegiornale, le foto sarebbero state viste da molti più italiani, che si sarebbero resi conto che non stava trascorrendo un esilio dorato. Anzi, era quasi alla fine dei suoi giorni. Così chiamai Enrico Mentana, che, però, non poteva pagarmi tanto, perché non era costume dei telegiornali. Mi accontentai di un rimborso spese. E pensare che qualcuno mi dava dello sciacallo: sosteneva che io speculassi sulla fiducia di Bettino e facessi un sacco di soldi con la vendita di quelle foto. Invece, era proprio Bettino che mi faceva accorrere a Hammamet ogni volta che veniva ricoverato in ospedale. Voleva che lo fotografassi in qualsiasi circostanza. Era convinto che una sua foto, più impressionante e raccapricciante fosse, più 110


rappresentava un documento di accusa contro chi lo aveva incastrato. La sua sofferenza, che trapelava evidente da quelle immagini, era procurata dalle ingiustizie, che aveva subìto e continuava a subire. Un giorno che io non c’ero e doveva ricoverarsi in ospedale, si fece accompagnare da Nicola. Ripresosi dall’anestesia, chiese di me. Nicola lo informò che ero già in volo e stavo arrivando. Allora lo mandò, a comprare una macchina fotografica usa e getta. Voleva essere fotografato subito. Dovete riprendermi anche da morto, disse a Nicola. Fallo capire a quel testone di Umberto, che non vuole più fotografarmi.

no le disposizioni dettate da Anna da Parigi. Io pensavo che la camera ardente sarebbe stata allestita in casa, dove la gente sarebbe venuta a vedere Bettino, come aveva sempre fatto, questa volta per l’ultimo saluto. Era in casa che amava ricevere amici e compagni, simpatizzanti e ammiratori. Perché l’ospedale militare? Io e Bobo andammo all’obi(FOTO 52)

La smorfia che si stagliò sul viso di Bettino nel momento in cui il corpo si separava dalla vita rivelò la rabbia che lo aveva corroso fino alla fine dei suoi giorni. Nemmeno nell’imminenza della morte Bettino si rassegnò. Il ghigno che non riuscimmo a cancellare dalla sua espressione sembrava dirci che prima di morire avrebbe voluto fare qualcosa senza riuscirci. Non ho mai capito perché una moglie affettuosa e premurosa, e innamorata del marito come Anna si sia recata a Parigi proprio mentre il marito era in fin di vita. Io stesso mi rimprovero ancora oggi di avere sottovalutato l’urgenza dell’appello di Bettino e rimandato di 24 ore la mia partenza per la Tunisia. Gli avevo promesso di raggiungerlo proprio la mattina del giorno in cui, poi, morì. E, invece, non ce la feci a partire. Sarei stato accanto a lui mentre moriva e, raccogliendo le sue ultime raccomandazioni, avrei forse capito tanti altri misteri. Comunque, non sarei tormentato dal rimorso di non essere accorso al suo appello. Mi giustifico nei confronti della mia coscienza ricordando che fingeva spesso di essere in fin di vita, per essere certo che io lo raggiungessi. Quella volta era vero. Quando arrivai a Hammamet con Bobo, qualche ora dopo la sua morte, seppi che Bettino era stato portato all’ospedale militare di Tunisi. Lì sarebbe stata allestita la camera ardente con gli onori militari, subito disposti da Ben Alì. Intanto il corpo era stato custodito in una cella frigorifera perché non si decomponesse. Seppi che era111


torio. Ci troviamo di fronte un grande scaffale, viene aperto un cassettone, e in esso giace il corpo congelato di Bettino. Io e Bobo ci guardiamo ed esclamo Neanche l’immagine del bandito Giuliano fu così tragica. Non mi sembrava neppure lui, tanto era cambiato. Si era ritirato di parecchi centimetri. Era nudo, coperto solo da un lenzuolo. La testa appariva più grande in rapporto al corpo rattrappito. E c’era quella smorfia che gli deformava il viso. La morte lo aveva colto mentre digrignava i denti.

tito. (FOTO 53)

Hamida mi dice Umberto! dobbiamo richiudere, fai presto le foto, come voleva il Presidente. Me l’aveva sempre chiesto, dovetti fotografarlo a malincuore nella cella frigorifera prima che nella bara. Furono le ultime foto che scattavo in vita mia. Da quel giorno non ho mai più usato una macchina fotografica. Alla vigilia del funerale lo togliemmo dalla cella frigorifera e dopo qualche ora il corpo di Bettino riacquistò le dimensioni normali. Solo l’espressione rimase tragicamente immutata. Con l’aiuto di Melania Di Nichilo Rizzoli, che è medico, cercammo di ricomporgli il viso, ma ci fu poco da fare. Sotterrammo Bettino col ghigno sulle labbra. Ho documentato la morte per sua volontà, di cui io per vent’anni sono stato in molte circostanze l’esecutore. Nessuno quando era in vita si è mai intromesso nel rapporto tra me e lui perché lui non lo consentiva. Morto lui, tutti volevano scalzarmi per gestire le esequie, e qualcuno fra gli ex dirigenti socialisti inscenò contro di me un’accusa di sciacallagio per le fotografie, accusa respinta con sdegno da Margherita Boniver (foto 52). La vedova Anna con convinzione difese il mio ruolo accanto a Bettino anche dopo morto. Lei sa che sono depositario delle ultime volontà del marito. Dovendo fotografare il funerale feci venire un mio collega da Roma, Umberto Battaglia, che oggi è il fotografo di Pierferdinando Casini, presidente della Camera dei Deputati (foto 53). Non una sola foto doveva essere pubblicata. Io portavo la bara con mio fratello Giuliano, il maggiordomo tunisino Hamida, Nicola Mansi, Ferdinando Mach di Palmstein e un vecchio usciere del par112


Furono funerali di Stato, secondo le disposizioni del Presidente tunisino, con gli onori militari alla salma. Vegliai Bettino tutta la notte alternandomi ogni tanto con mio fratello. Con Bettino se ne andava il mentore e l’amico. Il giorno dopo arrivarono tutti gli italiani. Berlusconi aveva gli occhi lucidi, Cossiga sembrava il fratello maggiore distrutto dal dolore. D’Alema mandò due rappresentanti del governo. Era arrivato anche Martelli, il pupillo, dopo sei anni. Si inginocchiò vicino alla bara, accarezzò il viso e lo baciò piangendo (foto 54).

(FOTO 54)

Non consentii a nessun fotografo di riprendere Bettino nella bara ancora aperta. Non volevo che il mondo lo ricordasse cadavere, soprattutto con quel ghigno. Al cimitero di Hammamet fu sepolto nel luogo da lui stesso scelto. Mentre ci apprestavamo a calare la bara sotto terra, Umberto Battaglia, intento a fotografare, perdette l’equili-brio e finì nella fossa. Nessuno osò ridere, ma tutti si trattennero a stento, persino la vedova. Terminata la cerimonia e tornati a casa, infatti, davanti a tutti Anna mi disse: Ti ringrazio di avere allietato di un sorriso persino questa tragica circostanza. Dentro di me ho riso di cuore. E mi sembrava di sentire Bettino ridere per l’ultima volta. Tu sei l’unica persona che faceva stare bene Bettino anche nei momenti tragici. Ma io sapevo che quella volta Bettino non aveva riso affatto. Come me, si stava certamente chiedendo come mai venisse sepolto nel cimitero di Hammamet e non nel mausoleo, che lui stesso aveva fatto costruire vicino alla villa. Nessuno ha saputo spiegarmi perché non sia stata rispettata la sua volontà. Non capii allora, continuo a non capire oggi.

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Biografia di Benedetto CRAXI, detto “Bettino” A cura dell’Editor

Nasce a Milano alle ore 5 del 24 febbraio 1934, nella Clinica di via Macedonio Melloni, da Maria Ferrari di S. Angelo Lodigiano, che, arrivata a Milano per lavoro, aveva incontrato e quasi subito sposato Vittorio Craxi, originario di Messina, giovane avvocato. Vittorio Craxi è figlio di un professore di lettere, Benedetto, morto in seguito alle ferite riportate nel terremoto di Messina, e di una professoressa toscana, Ildegonda Testerini, che dirige a Messina un asilo laico. Al primo figlio, Vittorio dà il nome del padre, che è anche il nome del patrono di San Fratello di Messina. Dopo Bettino, nel ’36 nasce Antonio e nel ’40 Rosilde, Rosa come la madre di Maria e Ilde dal nome della nonna Ildegonda. Nel ’40 Bettino, seconda elementare, finisce al collegio “De Amicis” di Cantù. Si sente sempre dire che è “discolo” e che ha addosso “l’argento vivo”. Bettino ritorna dal Collegio nel ’43, ma dopo i bombardamenti dell’agosto a Milano, persa la casa in viale Regina Margherita, inizia un periodo di sfollamento in Val d’Intelvi a Casasco. Prima della Seconda guerra mondiale Vittorio Craxi apre a Milano uno studio in via Chiossetto, poi distrutto da un bombardamento. Quindi si trasferisce in via Podgora in un ufficio che diverrà centro di incontro di antifascisti socialisti. Vittorio Craxi è un antifascista militante, in famiglia Bettino, che ha nove anni, respira il clima della opposizione alla guerra e al regime.

Quando cade il regime, nel luglio del ’43, Bettino e il fratellino si sentono in dovere di compiere una “bravata” antifascista. Scendono dai boschi alle spalle della casa del fascio di Casasco e prendono a sassate le vetrate. Quando ritorna l’ordine, individuati come autori della “bravata”, vengono chiamati dal Podestà, “Ginanin”, il macellaio del paese. Si redige un verbale, si ammonisce la famiglia. Il sindaco della Liberazione, ritrovando il verbale, ignaro delle ragioni del gesto, chiederà a Vittorio Craxi, diventato prefetto politico di Como, il pagamento dei danni, mandandolo su tutte le furie. La casa dei Craxi a Casasco diviene dopo l’8 settembre il punto di assistenza e di passaggio di famiglie ebree, di amici militari che si rifugiano in Svizzera per sfuggire ai bandi e alle persecuzioni. La fuga avviene con l’aiuto di contrabbandieri di Casasco e con la complicità della guardia di Finanza. In casa si ascolta Radio Londra. Una mattina all’alba, Bettino e un suo amico, Adalgiso, che conoscono a menadito i passaggi nei boschi, accompagnano un ufficiale, Macchi, sino al confine svizzero attraverso un canalone che costeggia il Sasso Gordano, pattugliato dalla milizia e dai soldati tedeschi. Vittorio Craxi è membro dell’esecutivo lombardo clandestino del Partito Socialista, che opera a Milano. Vede sempre più raramente la famiglia. Poi, per nulla sino alla Liberazione. Bettino rivede il padre dopo il 25 aprile a Casasco. Scende da una macchina con la fascia tricolore sul braccio, la guerra è finita, il fascismo pure, si ritorna a Milano. A Milano Vittorio Craxi è il vice-prefetto della Liberazione, Riccardo Lombardi il prefetto, Antonio Greppi il sindaco della città. L’ufficio di via Podgora è stato un centro attivo. È a via Podgora che viene recapitato il messaggio con cui Mussolini, tramite Carlo Silvestri, dichiara di voler cedere i poteri al Partito Socialista. Passano da via Podgora Lelio Basso, con il quale Vittorio Craxi aprirà un nuovo studio professionale in via Fontana, Corrado Bonfantini e Sandro Pertini. 114


Vittorio Craxi viene nominato prefetto a Como e in Prefettura si trasferisce tutta la famiglia. Sono fresche le tracce e i ricordi delle giornate dell’aprile del ’45. La famiglia Craxi occupa l’appartamen-to della prefettura, dove si ricostruiscono le ore trascorse da Mussolini e dai suoi, dove nel giardino, polizia e vigili del fuoco, scavando cercano “l’oro di Dongo”, dove la polizia è ancora al comando dei partigiani. Ma dopo poco, Bettino finisce nuovamente in Collegio. Prima al Gallia di Como e poi nuovamente al De Amicis di Cantù. Bettino, da piccolo, aveva rivolto in versi un saluto del Collegio al Cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, ricevendo in cambio un cuoricino di Cristo in stoffa viola; più grandicello, nei periodi in cui era a Milano, era stato un chierichetto diligente. In Collegio a 13 anni, pensa di entrare in Seminario. Da un lato una passione mistica dall’altro una piccola Colt, che ha trovato in prefettura a Como e portata in collegio; gli viene scoperta e sequestrata. Nel 1948 Vittorio Craxi è candidato per il collegio ComoVarese nelle liste del fronte popolare. Bettino è coinvolto, come può esserlo un ragazzo di 14 anni, nella “bagarre”. Si unisce agli attivisti, attacca manifesti, distribuisce volantini. Comincia la passione politica, nella quale si riversa e si trasforma la passione mistica. Frequenta il ginnasio e il liceo “Carducci”. Non è un alunno diligente. Se la cava sino alla V ginnasio, poi ogni anno è promosso, ma con gli esami di riparazione ad ottobre. Vittorio Craxi è tornato alla professione di avvocato. È sempre nel Partito ma non ne condivide la politica frontista. Bettino si iscrive al Partito a 17 anni alla sezione di Lambrate, che ha sede presso la “Casa del Popolo”, la vecchia casa del fascio, che è stata il covo della famigerata “Volante Rossa” del dopoguerra. Finito il liceo, Bettino si iscrive a giurisprudenza alla Statale di Milano. Si occupa ormai prevalentemente di cose politiche. Nella sezione fa l’attivista, è una sezione di vecchi socialisti, antifascisti da sempre. Craxi insieme a pochi altri giovani sono considerati i

“bo-cia”. Inizia l’attività politica: nel Movimento giovanile a livello provinciale e nel movimento universitario. Il PSI aveva allora la Federazione provinciale in via Valpetrosa, angolo piazza S. Sepolcro, un palazzo di stile littorio, ex-casa del fascio. Segretario della Federazione era Guido Mazzali. Comincia a via Valpetrosa la collaborazione tra Craxi, meno che ventenne, e Mazzali. All’università fonda il Nucleo Universitario Socialista ed entra nel gruppo di sinistra Università Nuova, aderente al Centro universitario democratico italiano (CUDI), la centrale di sinistra, che partecipa alla vita dell’Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana (UNURI). I socialisti contano su di un piccolo nucleo che si amalgama attorno a Craxi ed a qualche professore socialista. Tra gli studenti si possono ricordare Nicola Colucci, Miro Allione, Silvano Tintori, Silvano Larini. Il nucleo universitario socialista sorregge la segreteria del Movimento giovanile. All’università il gruppo socialista collabora con gli universitari comunisti, Michelangelo Notarianni, Achille Occhetto e il giovane Gianni Cervetti. Nasce il giornale “Il Risorgimento”. Vi collaborano i gruppi socialisti, comunisti, indipendenti. Si allargano le relazioni con i gruppi di “unità popolare”, a Milano animati dal vecchio Piero Caleffi e dal giovane Sergio Spazzali e con il gruppo radicale di Sandro Ancona. Bettino comincia a parlare in pubblico, nelle Feste dell’Avanti!; alla Casa della Cultura in una manifestazione presenta Piero Calamandrei. Craxi viene eletto consigliere alla Facoltà di legge. Tra i professori i più attivi fra i socialisti sono Mario Dal Prà e Maurizio Vitale. Il 1956 è l’anno del grande trauma nella sinistra. Craxi era stato in agosto a Praga, delegato del CUDI, ad un Congresso dell’Unione Internazionale degli studenti (UIE). Vi aveva conosciuto Jiri Pelikan, presidente dell’UIE e Carlo Ripa di Meana, funzionario comunista presso l’organizzazione. 115


Da Praga Craxi era tornato carico di dubbi e di interrogativi sulla “nuova società” del socialismo comunista. Con l’ottobre polacco ed il novembre ungherese scoppia la rivolta dei giovani socialisti milanesi. Dopo l’ottobre polacco, Craxi ed altri giovani presentano al Direttivo provinciale del PSI una mozione di solidarietà con i giornalisti del giornale polacco “Po Prostu”, attaccato dalla censura e poi soppresso. Con l’invasione ungherese dei carri sovietici si consuma il distacco dalla esperienza frontista. Craxi ed il gruppo milanese chiedono l’uscita del Movimento giovanile socialista dalla organizzazione internazionale Federazione mondiale della gioventù democratica (FMGD), ma finiscono in minoranza. Da Milano comincia la lotta di un piccolo gruppo di giovani, che si definiscono “autonomisti”. Al gruppo si uniscono Carlo Tognoli, Giorgio Gangi, Guido Vertemati, i fratelli Baccalini. Sostengono Mazzali, ma attaccano i dirigenti filocomunisti. Al Congresso del 1956 gli “autonomisti” conquistano la maggioranza della Federazione di Milano. Mazzali è sempre segretario. Dalla FIOM viene chiamato Giovanni Mosca a ricoprire la carica di vice-segretario. Alle elezioni amministrative del novembre Craxi si presenta nella lista del PSI nel Comune di S. Angelo Lodigiano, paese natale della madre, e viene eletto, a 22 anni, consigliere comunale.

Giunta nazionale dell’UNURI come vice-presidente.

Nel 1957 al Congresso di Venezia, tenutosi dal 6 al 10 febbraio, entra nel Comitato centrale del Partito, eletto nel gruppo degli autonomisti di Nenni. Gli autonomisti sono solo 28 su 80. Craxi è in minoranza anche nel movimento giovanile.

Poco prima della sua elezione a consigliere comunale di Milano ha il primo figlio, è una bambina, Stefania. Quattro anni dopo nasce Vittorio, chiamato Bobo.

Non trovando spazio nel Partito, accentua il suo impegno nel movimento universitario. Entra nell’Unione goliardica italiana (UGI), l’associazione laica di ispirazione liberal democratica. È il filone associativo animato all’origine da Marco Pannella, Sergio Stanzani, Franco Roccella, Lino Iannuzzi e tanti altri. Craxi viene eletto consigliere nazionale dell’UNURI e al congresso di Perugia entra nel consiglio nazionale dell’UGI. Entra poi a far parte della

È la prima collaborazione di centro-sinistra tra studenti cattolici dell’Intesa e laici dell’UGI. Craxi svolge una intensa attività interna ed internazionale. Partecipa in Cina, in Perù, nel Nord Africa, a Londra, a Parigi, a meeting e congressi internazionali studenteschi ed inizia quel lavoro di relazioni internazionali, che svilupperà più tardi anche nel Partito. Una coalizione di radicali, comunisti e sinistra socialista lo mette in minoranza, prima nell’UNURI e poi nell’UGI. Siamo nel 1958 e Craxi ritorna al Partito. Nello stesso anno sposa Anna Moncini, figlia di un ferroviere socialista, conosciuta negli anni dell’università. A Milano, continua le pubblicazioni di un bollettino, “Energie nuove”, portavoce della battaglia di minoranza del PSI. Al Congresso di Napoli nel 1959 viene rieletto membro del Comitato centrale del Partito. Mazzali lo invia responsabile del partito a Sesto San Giovanni e per i paesi vicini. È una esperienza preziosa nel cuore della classe operaia e nelle lotte politiche e sindacali di quel periodo. Da Sesto S. Giovanni Craxi ritorna a Milano e nel novembre del 1960 è eletto consigliere comunale. Ha 26 anni e poco dopo entra a far parte come assessore nella Giunta della città.

Come assessore si occupa dell’Economato, delle pubbliche relazioni, del decentramento amministrativo. Continua, mentre è assessore di Milano, l’attività internazionale. Partecipa ai gemellaggi con S. Paolo del Brasile e con Chicago. È cittadino onorario di Chicago e di New Orleans. Nel 1963 sostituisce alla segreteria provinciale Giovanni Mosca, eletto al parlamento. Alle nuove elezioni comunali di Milano, il 22 novembre 1964 è rieletto consigliere e incaricato del-l’Assessorato alla beneficenza e assistenza. 116


Nel 1965, entra nella Direzione nazionale del PSI, lascia l’assessorato. L’anno seguente con l’unificazione è eletto Segretario provinciale e regionale insieme a Renzo Peruzzotti, proveniente dal PSDI. Al nucleo storico dei giovani autonomisti e dei “mazzaliani” guidati da Antonio Natali, si aggiungono altri giovani come Pillitteri e Giovanni Manzi. Nel 1967 è eletto presidente dell’Istituto di scienza per la pubblica amministrazione, carica che mantiene fino al 1972. Il 19 maggio 1968 entra per la prima volta alla Camera dei Deputati, eletto nel collegio di Milano-Pavia. Siederà fra i banchi di Montecitorio fino al 1993. Agli inizi del 1970 viene eletto per la minoranza “nenniana”, dopo la nuova scissione del PSDI, vicesegretario del Partito. Segretario è Giacomo Mancini, vice-segretari sono anche Giovanni Mosca e Tristano Codignola. A novembre 1972 si tiene il Congresso del PSI a Genova, La convergenza della corrente demartiniana e autonomista di Nenni e Craxi determina lo spostamento della maggioranza. Francesco De Martino è il nuovo Segretario, Mosca e Craxi sono i vice-segretari, Nenni è Presidente. Bettino riceve l’incarico di curare i rapporti internazionali, rappresenta il partito nell’Internazionale socialista, stringe legami con i principali protagonisti socialisti della politica internazionaale. Nel 1976, dopo la sconfitta elettorale, nel corso del Comitato centrale del 12-16 luglio all’hotel Midas, De Martino viene sfiduciato e costretto alle dimissioni. Bettino Craxi, a 42 anni, viene eletto Segretario del Partito. L’elezione è possibile dalla convergenza della corrente autonomista, degli ex-demartiniani, dei manciniani e della sinistra lombardiana. Nell’aprile del 1978 Craxi consolida il suo potere al Congresso di Torino, dove l’alleanza degli autonomisti e dei lombardiani raggiunge il 63 per cento dei consensi. Viene riconfermato segretario e vicesegretario è nominato Claudio Signorile. Il congresso si svolge mentre è in corso il rapimento di Aldo Moro. Al “fronte della fer-

mezza” della Democrazia cristiana e del Partito comunista, Craxi, intuendo l’emarginazione del suo partito, contrappone quello della trattativa e parla di “azione umanitaria, nel rispetto delle leggi repubblicane”. Sempre nel 1978, essendo stato il Presidente della repubblica Giovanni Leone, costretto alle dimissioni, riesce a far eleggere alla suprema carica dello Stato, dopo una estenuante battaglia parlamentare, Sandro Pertini. Il 27 agosto sul settimanale l’“Espresso” appare un suo articolo dal titolo Il vangelo socialista; è un attacco durissimo al PCI e alla sua egemonia culturale. Il simbolo del partito falce e martello su libro e sole nascente viene cambiato con un garofano rosso: è l’abiura di Carlo Marx e Lenin. Il 31 gennaio 1979 entra in crisi il Governo Andreotti di solidarietà nazionale. A giugno è eletto parlamentare europeo, sarà riconfermato nel 1984 e 1989. Pertini, dopo il tentativo di Andreotti, convoca al Quirinale Craxi e gli affida un mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo, senza risultati positivi. Il 27 settembre sull’Avanti! scrive per la prima volta della necessità di una “grande riforma dello stato”. Nel Partito c’è aria di fronda, si rompe l’alleanza con Claudio Signorile, ma Gianni De Michelis, uscito dalla corrente lombardiana, arriva in soccorso di Craxi. Nel gennaio del 1980 al congresso della Democrazia cristiana vince la linea del “preambolo”, che abbandona la collaborazione con il PCI. Il 4 aprile nasce il secondo Governo Cossiga, dopo sei anni i socialisti tornano al governo con nove ministri. Dal 22 al 26 aprile 1981 si svolge a Palermo il 42° Congresso del PSI, dove viene cambiata la regola di elezione del segretario. Bettino è riconfermato direttamente dall’Assemblea segretario con il 72% dei voti. Claudio Martelli e Valdo Spini sono i nuovi vicesegretari, Gennaro Acquaviva è il capo della segreteria politica, Ugo Intini il direttore politico dell’Avanti!. A Rimini dal 31 marzo al 4 aprile del 1982 si svolge la Confe117


renza programmatica, dove Craxi lancia la parola d’ordine: cambiamento. Nello stesso anno ricorre il centenario della morte di Giuseppe Garibaldi e Bettino, suo fervente ammiratore, lo utilizza per lanciarlo come simbolo della sua politica. Il 26-27 giugno 1983 gli Italiani alle urne premiano il Partito socialista, che passa dal 9,8 all’11,4%. I socialisti sono ormai l’ago della bilancia della politica italiana. Il 21 luglio del 1983 Craxi riceve da Pertini l’incarico di formare il governo, che vedrà la luce il 4 agosto. Il Governo Craxi è un governo pentapartito (Dc-Psi-PsdiPli-Pri), vice-presidente è Arnaldo Forlani. La Camera vota la fiducia al nuovo governo il 12 agosto, che rimane in carica per quasi quatto anni fino al 17 aprile 1987: è il primo governo longevo della storia della Repubblica. La parola d’ordine di Craxi è modernizzare: la macchina dello Stato, le strutture produttive, il sistema sociale, la cultura, le università, la ricerca scientifica. La sua filosofia sta nella convinzione che se non si produce ricchezza ci sarà sempre meno da distribuire, bisogna perciò ridurre le cause inflazionistiche, restituire competitività alle imprese, riequilibrare lo stato sociale, promuovere la ricerca e la cultura. Atto rilevante del Governo Craxi è la revisione degli accordi fra Stato e Chiesa, avvenuta il 18 febbraio 1984, per sanare le numerose contraddizioni esistenti fra la Costituzione italiana e i Patti Lateranensi stretti nel ’29 tra il Vaticano ed il governo fascista di Mussolini. Come è noto, i Patti Lateranensi erano stati inseriti senza alcuna modifica nella Costituzione (articolo 7). Nel 1984 Craxi affronterà con coraggio la scala mobile, un automatismo irresponsabile che difende sul momento il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi ma, essendo indipendente da ogni fattore economico interno e internazionale, non fa che avvitare su se stessa le situazioni di crisi, riducendo ancora la competitività delle aziende e la produzione, generando quindi ulteriore inflazione e peggioramento generale dei costi. Sulla scala mobile Craxi ebbe

due soli alleati: la CISL ed il popolo italiano: non la DC che non ne voleva sapere di uno scontro duro con i sindacati e il PCI; non gli altri partiti della coalizione di governo, convinti che la battaglia sarebbe stata perduta; nemmeno la Confindustria, che proclamò la propria neutralità. Ma tutti sbagliarono: la gente comprese e votò, e Craxi a settembre del 1985, tracciando un bilancio dei suoi primi anni di governo, poteva dire che l’inflazione era stata domata, la ripresa industriale assicurata, il PIL in crescita alla media del 3 per cento, i conti pubblici sotto controllo, il debito pubblico ancorato al PIL, gli investimenti in crescita senza aver accentuato la pressione fiscale (e si era allora ad una pressione fiscale del 36 per cento!), la disoccupazione in calo. Quando Craxi lascia il governo l’inflazione è intorno al 4 per cento. La produzione italiana ha in Craxi uno straordinario ambasciatore all’estero. Conosce a fondo i problemi d’ogni paese (la politica estera è un suo hobby giovanile), parla con cognizione di causa, dovunque si trovi, con i ministri e capi di governo; e dovunque si trovi vanta l’Italia, quello che fa e quello che farà. Fa una politica di prestigio ma parlando di fatti, non a parole. Assunta la Nato nel 1983 la decisione di istallare i Pershing ed i Cruise in Italia e Germania, Craxi cerca di indurre l’URSS a ritirare gli SS20 prima che ciò avvenga. Ma l’URSS non cambia atteggiamento ed è allora Craxi a mutare strategia. A differenza di Bonn che basa la sua Ost-Politik, iniziata da Willy Brandt, sul miglioramento dei rapporti con Mosca, il governo italiano intensifica nel periodo 1983-1986 il dialogo con i Paesi dell’Est-europeo, fornendo un suo specifico contributo alla distensione Est-Ovest. Craxi guarda soprattutto alla Polonia e alla prospettiva di favorire spazi di azione al dissenso espresso da Solidarnosc. Ma per arrivare a svolgere un ruolo influente con il governo del generale Wojzech Jaruzelski, Craxi sa di doversi guadagnare fiducia e rispetto a Mosca e all’Ungheria di Kadar, che era in quel periodo il paese del Blocco comunista più tollerante ed aperto alla collaborazione con 118


l’Occi-dente. Craxi nei suoi colloqui con Janos Kadar e col Primo Ministro Gyorgy Lazar, assecondò la ricerca di più ampie convergenze fra i paesi degli opposti schieramenti, aprendo la via ad un rinnovato dialogo di cooperazione dell’Italia. A Kadar parlò anche delle favorevoli ripercussioni che avrebbero avuto in Occidente gesti conciliativi con una futura riabilitazione di Imiri Nagy, martire dell’insurrezione ungherese del 1956. Il successo della visita a Budapest ed il favorevole rapporto che Kadar fece dei colloqui con Craxi alla sessione del Patto di Varsavia svoltasi proprio a Budapest un mese dopo, fecero guadagnare a Craxi l’invito di recarsi a Berlino da parte di Erik Honecher. L’incontro svoltosi il 7 e 8 luglio 1984 valse a confermare l’auto-revolezza dell’Italia nel dialogo Est-Ovest. Craxi si rese conto, parlando con Honecher, dell’influenza di cui l’Italia godeva presso i Paesi del Patto di Varsavia. La RDT era ben lieta del costruttivo dialogo politico instaurato con l’Italia e Honecher accettò con grande soddisfazione di restituire la visita in Italia agli inizi del 1985. Nel maggio dello stesso anno, forte del prestigio acquisito, Craxi e Andreotti, ministro degli esteri, vanno a Mosca, la prima visita di un Capo di governo occidentale dall’insediamento di Mikhail Gorbaciov alla guida dell’URSS. Sulla via per Mosca, Craxi fa tuttavia scalo a Varsavia per una colazione di lavoro con il generale Jaruzelski, preparata in gran segreto. Craxi, già intervenuto a difesa dei diritti umani in Polonia, svolse con il leader polacco un forte interessamento a favore di alcuni esponenti di Solidarnosc, tra cui Adam Michnik, che doveva essere sottoposto a processo per attentato alla sicurezza dello Stato. Il generale Jaruzelski accettò l’interessamento di Craxi per gli esponenti di Solidarnosc, che furono rimessi di lì a poco in libertà, e considerò con attenzione la richiesta di Craxi di rapporti meno conflittuali con il dissenso politico che gli avrebbe guadagnato rapporti di collaborazione con l’Occidente. Il generale Jaruzelski fu accolto

un anno dopo a Roma in un clima di amicizia e reciproca considerazione. L’intuizione di Craxi su un modus vivendi tra il Governo polacco e il dissenso trovò conferma subito dopo il crollo del muro di Berlino con la costituzione a Varsavia di un governo di coalizione fra post-comunisti e Solidarnosc. Quando Craxi andò successivamente a Varsavia, fu invitato a colazione da Jaruzelski, incontrò il cardinale Jozef Glemp ed ebbe colloqui con i suoi antichi protetti di Solidarnosc, diventati Primo ministro e ministri del nuovo governo di coalizione. Lavorare per la pace vuol dire per Craxi anche lavorare al riequilibrio sociale fra le regioni e fra gli stati; e su questo tema si batterà in ogni conferenza internazionale, in seno all’ONU e all’Internazionale Socialista, dando esempio, con la riduzione o la cancellazione del debito che hanno verso l’Italia alcuni paesi in via di sviluppo, con aiuti generosi ai paesi dell’altra sponda del Mediterraneo: un mare in cui vede primeggiare gli interessi italiani e che perciò vuole interamente restituito alla pace, alla cooperazione tra i popoli, sottratto al rischio di essere un focolaio permanente di tensioni e di conflitti. Nel 1990 a Tunisi, traccia un programma d’azione che interessa tutta l’Africa mediterranea, dall’Egitto al Marocco. Parlando a Roma alla FAO propone una strategia complessiva, un nuovo tipo di alleanza fra gli Stati e le nazioni, che risponda con consapevolezza al diritto degli uomini e dei popoli alla sicurezza alimentare. A New York, all’Assemblea dei Paesi non allineati dell’ONU, propone nuove forme di aiuto, di prestiti controllati dai “Sette”, i Grandi dell’economia mondiale (proposte poi approvate). Quando sarà nominato osservatore dell’ONU per i Paesi in via di sviluppo denuncia l’assurdità di un debito cresciuto a dismisura, con tassi superiori a quelli ordinari, che strangola quei Paesi che pagano più di quanto hanno ricevuto. Per il suo saggio “Uscire dalla crisi del debito, riprendere le idee dello sviluppo” riceve la desi119


gnazione a “uo-mo dell’anno”. Contro i regimi militari Craxi ha meriti antichi. Ha aiutato i socialisti greci, gli spagnoli del PSDE, i socialisti cileni di Salvador Allende; e quando parla al Congresso degli Stati Uniti non esita a denunciare le responsabilità occidentali per il colpo di stato in Cile e quella dittatura che ha ucciso migliaia di oppositori e governa con la forza delle armi. Aiuta concretamente anche Arafat, in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione e all’indipendenza. Con pazienza certosina aiuta l’OLP ad uscire dal terrorismo, fa di Arafat un uomo di stato, il portavoce del popolo palestinese su tutte le scene mondiali. La pioggia di bombe caduta sul quartier generale di Arafat il 23 settembre 1985 ad opera degli israeliani è il prologo del più singolare e clamoroso episodio di politica internazionale che ha portato il nome di Craxi sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Arafat si salva miracolosamente dalla distruzione del suo quartier generale dove muoiono 73 uomini di cui 16 sono tunisini, cittadini di uno stato pacifico, colpito in violazione di tutte le regole del diritto internazionale. Craxi definisce il bombardamento “azione terroristica” ed il Consiglio di sicurezza dell’ONU gli dà ragione: l’incursione israeliana è un’aggressione armata in violazione dello Statuto delle Nazioni Unite. Ma queste dichiarazioni non accontentano le frange estremiste dell’OLP che non condividono la politica di pace di Arafat e vogliono riprendere l’azione terroristica; e per colpire Arafat indirizzano l’azione contro il Paese che più l’ha aiutato: l’Italia. Segue il sequestro della nave da crociera “Achille Lauro” con 740 passeggeri e 344 uomini d’equipaggio, l’uccisione di un cittadino americano, quarantotto ore di angoscia con la tensione alle stelle tra gli Stati Uniti, che vogliono liberare militarmente la nave, e Craxi che vuole agire per via diplomatica, contando sui buoni rapporti dell’Italia con il mondo arabo per isolare i terroristi. Ha ragione Craxi. Arafat riprende il controllo dell’OLP e obbliga Abu

Abbas, che ha organizzato l’attacco, a ordinare il rientro della nave a Porto Said, in Egitto. I quattro terroristi si arrendono agli egiziani, saranno consegnati all’OLP che li giudicherà. Gli americani, che vogliono punire gli assassini del loro concittadino, intercettano l’aereo che con Abu Abbas li sta trasportando in Tunisia e lo obbligano ad atterrare all’aeroporto NATO di Sigonella, presidiato da soldati italiani (foto 55). Gli americani vogliono i terroristi, l’Italia si oppone: la competenza è dell’Italia, il reato è stato commesso su nave italiana, Sigonella è territorio italiano, deve essere la magistratura italiana a giudicare. La notte tra il 10 e l’11 ottobre le telefonate tra Roma e Washington si intrecciano. Lo stesso presidente Reagan telefona due volte a Craxi, che consente l’atterraggio ma non la consegna dei terroristi. A Sigonella tra le “foche” statunitensi e i soldati italiani si sfiora lo scontro militare. Poi Washington cede: i terroristi sono presi e consegnati alla giustizia italiana che li condannerà a pene severe. Chi non perdona a Craxi la ferma resistenza agli americani sono gli alleati di governo, democristiani e repubblicani, fin dal primo giorno dalla parte degli Stati Uniti. Ora vogliono la FOTO 55

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testa di Craxi, la crisi di governo, cercano, addirittura, di impedirgli di esporre al Parlamento le proprie ragioni. Contro Craxi la stampa americana è furibonda. Il 17 ottobre Craxi entra in Parlamento potendo contare solo sui voti del suo partito; ne esce dopo aver ricevuto dalla Camera il più lungo applauso mai tributato ad un Presidente in carica. Il 19 ottobre riceve una lettera da Reagan: “Dear Bettino, sono ansioso di vederla la settimana prossima a New York…”. Europeista convinto, mira ad una Europa che non sia solo un grande mercato ma anche una comunità con una politica estera capace di favorire gli equilibri internazionali, fattore di pace, di giustizia, di eguaglianza. È il protagonista della svolta che, con l’Atto Unico a Lussemburgo, ha aperto le porte alla costruzione dell’attuale Unione Europea. Non è qui il caso di ricordare la lotta delle donne socialiste, Anna Kuliscioff in testa, per l’uguaglianza dei diritti civili. La Costituzione repubblicana getta le basi per un cammino di parità ma le leggi non seguono l’enunciazione dei principi, rimangono le vecchie discriminazioni a cominciare da quelle salariali. Una vera politica per le donne comincia solo con il Governo Craxi che il 2 dicembre 1983 istituisce il Comitato nazionale per la parità con il compito di attuare, con proposte legislative, ricerche e pareri normativi: “la rimozione delle discriminazioni e di ogni ostacolo di fatto limitativo dell’effettiva uguaglianza fra i sessi, in materia di lavoro”. Craxi istituisce nel giugno del 1984 l’altro braccio della battaglia per l’uguaglianza, la Commissione generale per la parità presso la Presidenza del Consiglio, presieduta dalla senatrice Elena Marinucci, che agisce in un ambito molto più vasto per modificare stereotipi e meccanismi socio-culturali radicati nella società. Il 26 giugno 1986 il Governo Craxi, avendo posto la fiducia su un decreto, è battuto nella votazione. Reincaricato dal presidente Cossiga il 21 luglio, il nuovo governo vede la luce il 1° agosto. Rimarrà in carica fino al 17 aprile 1987. Nelle elezioni del 14 giu-

gno 1987 il PSI raggiungerà fra gli elettori il consenso del 14,3%. L’8 dicembre 1989 il Segretario generale dell’ONU, Perez de Cuellar, lo nomina Rappresentante personale per i problemi dell’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo. Nello stesso anno crolla il Muro di Berlino. È la fine del comunismo internazionale. Craxi vola a Berlino per vedere con i suoi occhi lo sgretolarsi di quel muro, che ha diviso in due l’Europa per tanto tempo. L’autorità e il decisionismo di Craxi hanno nascosto l’arretratezza dello Stato, l’assurda stratificazione burocratica, le lentezze parlamentari. Caduto Craxi, tutto viene alla luce. Il leader socialista capisce che il problema non è più nella forze politiche ma nella struttura dello Stato; e lancia la Grande riforma riprendendo un progetto che nel 1979 gli era costato da parte del PCI l’accusa di “golpista”. Il 2 marzo del 1990 Craxi va a Pontida e lancia il nuovo decalogo per l’autonomia delle regioni: maggiori competenze, riscrivendo l’art. 117 della Costituzione; regioni centro di nuovi valori culturali, morali, economico-sociali, consistente autonomia finanziaria; distinzione del-le competenze finanziarie e amministrative dello Stato e della regione; competenza alle regioni per la prevenzione e l’intervento a tutela del-l’ambiente; drastica riduzione dei controlli amministrativi; modifica della forma di governo delle regioni; strutture amministrative regionali tagliate sui bisogni dei cittadini e non dei burocrati; un ruolo per le regioni nella nuova Europa Unita. Ma prima della Conferenza programmatica c’è da ricordare un’altra storia perché è franata l’URSS, dopo la caduta del muro di Berlino, i governi comunisti sono stati cacciati a Varsavia, a Praga, a Budapest e a Bucarest. Il Partito comunista italiano, il maggiore dell’ Occidente, il secondo partito italiano, quello che da quarant’anni monopolizza in Italia la cultura e la forza sindacale, è in mezzo al guado. Una rivolta di palazzo destituisce il segretario Natta, uomo della vecchia guardia, ed elegge Occhetto. Il nuovo Segretario, riunisce a Bologna il Partito e proclama l’uscita del PCI dal 121


comunismo. Il nome del nuovo partito è PDS, Partito dei democratici di sinistra. Craxi all’indomani della caduta di Berlino ha lanciato l’unità socialista fra socialisti e ex-comunisti: pensa e spera che nell’ex PCI si apra un dibattito, che i “miglioristi”, i più vicini alle posizioni socialiste, occupino posizioni importanti, che qualche intellettuale insorga. Per la verità l’unificazione, a parte il mare delle chiacchere e della retorica, non è molto popolare nemmeno nel PSI. Qualcuno dei maggiorenti vi vede l’occasione per scrollarsi di dosso Craxi; la maggior parte dei dirigenti nazionali e periferici teme per la fine dei propri privilegi; c’è solo un gruppo di politici e di intellettuali disinteressati che pensa sinceramente all’occasione storica che si è aperta.

l’ONU Consigliere speciale per i problemi dello sviluppo, della pace e della sicurezza. Nella società italiana si ha un’avvisaglia di quello che ribolle: è la sconfitta del proporzionalismo, sostenuto da Craxi e dai partiti di governo, nel referendum indetto dai radicali di Pannella. DOCUMENTO 5

Craxi vede crescere le difficoltà dell’unificazione in cui però crede come a un processo ineluttabile. Sa pure che difficilmente potrà essere lui l’uomo dell’unità a sinistra, che significherebbe per i comunisti resa senza condizioni. Eppure Craxi dialoga con i rappresentanti del PDS, in particolare con il responsabile del Dipartimento internazionale, Piero Fassino (documento 5) e insiste nelle pubbliche adunanze: nella direzione, nell’Assemblea, nei congressi, nei discorsi pubblici, nelle riunioni dell’Internazionale torna sempre a parlare dell’unità a sinistra, comincia a preparare la strada per l’ingresso del PDS nell’Internazionale socialista. Al Congresso di Rimini il 31 gennaio 1991 affronta il tema della Grande Riforma, “un tema esorcizzato, demonizzato, respinto che inesorabilmente riemerge e si ripropone all’attenzione di tutti”. Una Repubblica Presidenziale che dia più peso alla volontà degli elettori e riduca la massa delle mediazioni che hanno creato una vera barriera tra gli istituti e i cittadini; una riforma che investa la forma dell’ese-cutivo, il Parlamento, la delegificazione, la modernizzazione della pubblica amministrazione, il decentramento regionale e le autonomie locali (foto 56). Il 28 febbraio 1991 viene nominato dal Segretario generale del122


DOCUMENTO 5

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Dal 27 al 30 giugno a Bari si tiene il Congresso straordinario del PSI, dove si decide per il proseguimento della collaborazione governativa con la DC, dando vita al CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Ma nel nuovo Governo Andreotti si perde la Grande riforma e il nuovo impulso modernizzatore del craxismo. Quando poi, nelle elezioni per il nuovo Capo dello Stato, a Forlani vengono a mancare 35 voti democristiani e il Parlamento esplode in una serie di voti incrociati, ripicche personali, vendette, si capisce che siamo ormai sull’orlo del baratro. Alla fine viene eletto Scalfaro, Ministro dell’interno nei quattro anni di Governo Craxi. Il leader socialista riesce ancora ad imporre un socialista alla guida del governo. Nei cinque anni trascorsi tra la fine del Governo Craxi e il mandato ad Amato, i governi democristiani hanno aperto una vera voragine nei conti dello Stato. Amato avvia il risanamento con la famosa manovra da 90 mila miliardi. Poi… poi scoppia “tangentopoli”. I prelievi, nel pubblico e nel privato, per il finanziamento dei partiti e del personale politico erano effettivamente arrivati a livelli insostenibili, con una larga scia di corrutela e di arricchimenti individuali. Ma come e perché sia scoppiata proprio in quel momento, cioè in una fase di risanamento economico e morale, è ancora un interrogativo. È una storia semplicissima che può essere riepilogata in poche righe. Il Partito Comunista, il più costoso fra tutti i partiti italiani con il suo esercito di funzionari e le enormi spese pubblicistiche (tre quotidiani, sei o sette fra settimanali e periodici, una casa editrice, per citare solo i livelli alti) è sempre stato finanziato dall’URSS, dalle Cooperative rosse e dalle mediazioni riscosse sull’import-export fra l’Italia e l’Est europeo. La DC ha avuto i suoi finanziamenti dagli Stati Uniti e dalla Confindustria e poi, dal 1954 in poi, con la Segreteria Fanfani, che ha creato apposta il ministero delle Partecipazioni Statali, dalle aziende pubbliche, IRI ed ENI in testa. Il PSI ha avuto finanziamenti dal PCI e dalle Cooperative fino al 1956. Con la politica autonomista di Nenni quel rubi-

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chiuso

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dall’ENI, che distribuiva generosamente a tutti, compreso il MSI. Con l’entrata al governo il PSI ha avuto soldi anche dall’IRI che già finanziava, oltre la DC, anche i partiti minori: PLI, PSDI, PRI. Craxi, che per reggere il confronto con la DC e il PCI aveva un grande bisogno di soldi, aggiunse ai finanziamenti tradizionali quelli dei privati, che del resto foraggiavano già abbondantemente tutti i partiti. L’arresto di Mario Chiesa, il Presidente socialista del “Trivulzio” ad opera di Antonio Di Pietro, è l’inizio di Tangentopoli. Poco dopo il lungo “avviso di garanzia” recapitato a Craxi nel 1992 era chiaramente il fuoco attaccato alla miccia che doveva di lì a poco esplodere con tanto fragore. Ma non tutti capirono o non vollero capire. Lo intuì invece Craxi che nel suo intervento il 3 luglio 1992 alla Camera, denunciando con coraggio la verità, cioè la responsabilità di tutti nessuno escluso, nel sistema del finanziamento della politica, indicava anche, con un’ammenda generale, una dignitosa via di uscita per tutti. Fingendo indignazione, parlarono di indegna “chiamata di correo” i comunisti. Non capirono assolutamente niente i democristiani, in preda al terrore. L’11 febbraio 1993 si tiene a Roma l’Assemblea nazionale del PSI, dopo 16 anni Bettino lascia la carica di segretario. il suo posto viene occupato da Giorgio Benvenuto prima e poi da Ottaviano Del Turco. Il 29 aprile la Camera è chiamata a votare l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, richiesta dalla procura di Milano. La Camera nega l’autorizzazione e i giornali gridano allo scandalo. Nel pomeriggio dello stesso giorno una folla inferocita lo aspetta davanti all’hotel Raphael e l’accoglie con un fitto lancio di monetine e un coro di insulti (foto 57). Il 4 agosto 1993 a Montecitorio pronuncia il suo ultimo discorso da parlamentare e fra l’altro afferma: “…per quanto riguarda il mio ruolo di segretario politico io mi sono già assunto tutte le responsabilità politiche e morali che avevo il dovere di assumere, invitando senza successo altri responsabili politici a fare altrettanto con il

medesimo linguaggio della verità”. Nel maggio 1994 Bettino Craxi lascia l’Italia per l’esilio. Il Partito Socialista non seppe difendere il leader, che gli aveva fatto conoscere anni di successi e di orgoglio; ma non è riuscito a difendere nemmeno se stesso dalla lacerazione, in un’avvilente moltitudine di fazioni, senza alcun peso sulla scena politica. Ad Hammamet, in Tunisia, dove alla fine degli anni Sessanta aveva comprato del terreno e costruito una villa, protetto dal Presidente tunisino Ben Alì, trascorre il suo esilio, lungo 5 anni e otto mesi. Dopo la richiesta di arresto della procura di Roma viene considerato un latitante e alla richiesta di estradizione si oppone il Governo tunisino. Lui si considera, comunque, sempre un esule e con i suoi fax da Hammamet tenta di intervenire nella politica italiana, senza alcun risultato. Per alleviare la sua tristezza e la sua rabbia e dolore si dedica agli amati studi garibaldini, alla composizione di litografie, alla pittura di anfore con pittura tricolore che cola dall’alto verso il basso (“L’Italia che piange” spiegherà). Nel febbraio 1996 subirà un intervento d’urgenza al piede, nei due anni successivi vi saranno altri quattro interventi. Il cuore e il diabete lo affliggono. Nel 1999 le sue condizioni di salute si aggravano. Medici dell’Ospedale San Raffaele di Milano giungono a Tunisi per operarlo di aiuto ai medici tunisini. Gli viene espiantato un rene, ma i problemi di cuore e il diabete cronico non dànno tregua. Il giorno 19 gennaio 2000, alle ore 16,30 in Hammamet, all’età di 66 anni muore. Viene sepolto nel piccolo cimitero cristiano della cittadina tunisina, tra le mura della Medina e il mare, rivolto verso l’Italia.

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Indice nomi A Abbas, Abu; Acquaviva, Gennaro; Adalgiso, amico di Craxi; Aflat, Al; Agnelli, Gianni; Agnelli, Susanna; Alì, Ben; Allende, Salvador; Allione, Miro; Altissimo, Renato; Amato, Giuliano; Ancona, Sandro; Andreotti, Giulio; Aniasi, Aldo; Antonioni, Michelangelo; Appetiti, Spartaco; Arafat, Yasser; Armani, Giorgio; Asti, Adriana; Avolio, Giuseppe;

51; 95; 96; 235 67; 87; 152; 155; 166; 183; 185; 187; 202; 230. Foto 15, 17 224 foto 55 15; 68; 69; 79. Foto 13 69. Foto 12 50; 51; 52; 101; 116; 193; 213; 215; 217; 246. Foto 51 234 226 26 33; 35; 50; 87; 183; 202; 243. Foto 15 226 21; 23; 74; 75; 106; 125; 146; 147; 148; 149; 156; 157; 169; 179; 203; 210; 230; 233; 243. Foto 2, 15, 33, 42 41 65. Foto 11 60 62; 131; 145; 146; 147; 148; 149; 234; 235. Foto 32, 33, 34 90 201 143

B Baccalini, fratelli; Badini, Antonio; Balzamo, Vincenzo; Bassetti, Federico; Bassetti, Marco; Basso, Lelio; Battaglia, Umberto; Belisario, Marisa; Benvenuto, Giorgio; Berlinguer, Enrico; Berlusconi, Silvio;

227 119; 124; 146; 148; 149; 155; 159; 187. Foto 17, 33, 34, 55 102; 183 42 18 224 219; 221 65 143; 176; 177; 245 29; 143; 145; 182. Foto 32 17; 27; 28; 48; 55; 56; 57; 59; 61; 65; 77; 79; 125; 165; 175; 189; 196; 200; 201; 205; 207; 209; 210; 221. Foto 1, 9, 53 Biagi, Enzo; foto 4 Biondi, Alfredo; 55 Boldi, Massimo; 39. Foto 7 Bonfantini, Corrado; 224 Boniver, Margherita; 189; 219. Foto 52 Boselli, Enrico; 44; 112 Bossi, Umberto; 205 Bottiglieri, Antonio; 153 Bourghiba, Habib; 50; 51; 146 Brandini, Cornelio; 105; 131; 213

Brandt, Willy; Brodolini, Giacomo;

33; 35; 36; 131; 179; 232. Foto 6 29

C Cagliari, Gabriele; 112; 143 Calamandrei, Piero; 226 Caleffi, Piero; 226 Cantoni, Giampiero; 182 Cappiello, Alma; 212 Carloni, Serenella; 183 Carmen, domestica appartamento in via Foppa; 137; 139 Carraro, Franco; 43 Cartoni, Alberto; 60 Casaroli, Agostino; 152. Foto 23 Caselli, Caterina; 189 Casini, Pierferdinando; 219. Foto 56 Castro, Fidel; 31; 33 Cervetti, Gianni; 226 Cesare; 25 Chelli, Alida; 161 Chiaromonte, Gerardo; 182. Foto 24 Chiesa, Mario; 15; 16; 33; 36; 37; 39; 41; 245. Foto 8 Cicconi, Edoardo; 53; 73; 193. Foto 14 Cicconi, Giuliano; 219. Foto 1 Cicconi, Scilla; 18; 37; 42; 47; 52; 119; 166. Foto 45 Coccurello, Vittorio; 85; 90 Codignola, Tristano; 229 Colucci, Nicola; 226 Confalonieri, Fedele; 59; 60; 61; 189; 201 Cossiga, Francesco; 207; 221; 230; 237. Foto 49, 53 Craxi, Anna; vedi Moncini, Anna Craxi, Antonio; 157; 159; 161; 223 Craxi, Benedetto; 223. Foto 25 Craxi, Rosilde; 139; 223 Craxi, Stefania; 10; 17; 18; 42; 43; 117; 137; 140; 193; 228. Foto 30 Craxi, Vittoria; 42 Craxi, Vittorio; 93; 136; 205; 207; 223; 224; 225. Foto 48 Craxi, Vittorio detto Bobo; 18; 35; 37; 41; 42; 44; 47; 48; 52; 59; 60; 83; 105; 106; 115; 116; 119; 125; 139; 140; 141; 159; 161; 171; 185; 190; 193; 200; 217; 219; 228. Foto 25, 30, 31, 45 Cusani, Fabrizia; 100 Cusani, Sergio; 100

D D’Alema, Massimo; Dal Prà, Mario; Dalla, Lucio;

119; 209; 221. Foto 50 226 189; 190. Foto 45

126


De Benedetti, Carlo; De Felice, Renzo; De Gasperi, Alcide; De Martino, Francesco; De Michelis, Gianni; De Mita, Ciriaco; De Nichilo, Melania; Deaglio, Enrico; Del Turco, Ottaviano; Dell’Unto, Paris; Di Pietro, Antonio; di Tacco, Ghino; Diliberto, Emanuele; Dini, Claudio; Dini, Lamberto; Donatella;

79 60 10; 87 29; 50; 229 33; 80; 111; 183; 230 23; 183. Foto 3, 44 189; 201; 219 65 44; 61; 112; 177; 178; 245 103. Foto 21 74; 79; 207; 209; 245. Foto 8 67 100 189 51; 116 171; 173

E Eltsin, Boris;

182

F Fanfani, Amintore; Fassino, Piero; Ferrara, Giorgio; Ferrari, Maria; Ferrari, Rosa; Forattini, Giorgio; Forlani, Arnaldo; Formica, Rino; Frosini, Deanna;

124; 243 239 201 223 223 102 23; 26; 28; 50; 75; 230; 243. Foto 3, 15, 23, 56 50; 182 100

G Gangi, Giorgio; Gardini, Raul; Garibaldi, Giuseppe; Gava, Antonio; Ghandi, Rajiv; Ghandi Maino, Sonia; Gheddafi, Muammar; Ghirelli, Antonio; Ghitti, Italo; Glemp, cardinale Jozef; Golfo, Lella; Gonzales, Felipe; Gorbaciov, Mikhail; Goria, Giovanni; Gotti, John; Greppi, Antonio; Gromiko, Andrei;

129; 131; 227 79; 112 9; 28; 36; 135; 136; 137; 163; 173; 174; 190; 191; 200; 230 28; 31 159. Foto 37 159. Foto 37 169; 171 85; 87; 155; 187. Foto 18 foto 8 233 65; 212 21; 33 156; 157; 182; 233. Foto 36 164; 165 167 224 156; 157

Guzzanti, Paolo;

43; 189

H Hamida, segretario di casa Craxi a Hammamet; Hassan II, re; Hitler, Adolfo; Honecher, Erik;

18; 73; 195; 216; 219 110 28 232; 233

I Iannuzzi, Lino; Intini, Ugo; Iosi, Luca;

227 230 178

J Jaruzelski, Wojzech; Jospin, Lionel;

182; 232; 233. Foto 24 33

K Kadar, Janos; Kennedy, John; Kohl, Helmut; Kuliscioff, Anna; Kunz, Bica;

232 197 98; 197 237 129; 145. Foto 28

L La Malfa, Giorgio; Lagorio, Lelio; 11 Lante della Rovere, Marina; Larini, Silvano; Lario, Veronica; Laurenzi, Laura; Lazar, Gyorgy; Lefebvre, Franco; Lenin, Vladimir Ilich; Leone, Giovanni; Letta, Gianni; Ligresti, Salvatore; Liguori, Nedda; Lo Giudice, Salvatore; Lombardi, Riccardo; Longo, Pietro;

26 81 140; 165; 226 201. Foto 9 189 232 127 230 229 foto 9 99; 115; 125; 165 189 foto 1 224 139

M Macchi, ufficiale; Mach di Palmstein, Ferdinando; Magno, Alessandro; Maino, Sonia; Manca, Enrico; Mancini, Giacomo; Mannino, Calogero; Mansi, Nicola;

224 91; 105; 106; 165; 219 25 vedi Ghandi Maino, Sonia 81 229 26 18; 39; 47; 56; 85; 93; 110; 136; 140; 159; 195; 216;

127


217; 219. Foto 56 228 100 212; 237 145 171; 173 25; 33; 35; 36; 77; 79; 80; 105; 106; 107; 111; 211; 221; 230. Foto 16, 54 Marx, Carlo; 230 Mazzali, Guido; 226; 227; 228 Mennea, Pietro; 115 Mentana, Enrico; 216 Merloni, Vittorio; 61; 62; 69. Foto 13 Michnik, Adam; 233 Mina; 171 Missoni; 65; 90; 131 Mitterrand, François; 49; 98; 135 Mohammed, consigliere di Arafat; 147; 148 Moncini, Anna; 10; 14; 17; 26; 29; 37; 42; 43; 44; 47; 48; 49; 114; 115; 125; 131; 136; 137; 139; 140; 156; 159; 161; 165; 167; 176; 187; 189; 195; 196; 205; 207; 209; 210; 212; 213; 215; 217; 219; 221; 228. Foto 9, 30, 37, 38, 39, 48, 53 Monti, Attilio; 29 Moore, Roger; 167 Morini, Elettra; 190 Moro, Aldo; 229 Moroni, Sergio; 112 Mosca, Giovanni; 29; 227; 228; 229 Mussolini, Benito; 27; 28; 29; 60; 224; 225; 231 Manzi, Giovanni; Marino, Giuseppe; Marinucci, Elena; Marra, Pippo; Martelli, Augusto; Martelli, Claudio;

N Nagy, Imiri; Nakasone, Yasuhiro; Napoleone; Napolitano, Giorgio; Natali, Antonio; Natta, Alessandro; Nenni, Pietro; Nesi, Nerio; Nicolosi, Rino; Notarianni, Michelangelo;

232 98; 153; 155; 197 25 50 93; 95; 140; 228 182; 238. Foto 24 29; 50; 51; 65; 80; 98; 124; 127; 135; 182; 211; 227; 229; 243. Foto 4, 26 182 171. Foto 40 226

O Occhetto, Achille; Oliveiro, Enrico; Ortega, JosĂŠ;

26; 35; 36; 79; 179; 226; 238. Foto 43 164 33

P Palombelli, Barbara;

103

Pannella, Marco; Panseca, Filippo; Papa Bonifacio VIII; Papa Giovanni Paolo II; Paternostro, Sandro; Pelikan, Jiri; Pellegrino, Bruno; Perez de Cuellar, Javier; Perez, Simon; Pertini, Sandro; Peruzzotti, Renzo; Petacci, Claretta; Petrignani, Rinaldo; Piccoli, Flaminio; Picini, Antonio; Pieroni, Anja; Pillitteri, Maria Vittoria; Pillitteri, Paolo; Pini, Massimo; Portoghesi, Paolo e Giovanna; Prodi, Romano; Proudhon, Pierre;

227; 239 165; 186; 187 67 119; 152; 153. Foto 35 155; 156 226 105 31; 110; 123; 124; 238 21; 23 11; 45; 51; 83; 88; 89; 90; 224; 229; 230 228 28 124 143 100 62 foto 1, 45 29; 39; 41; 65; 111; 113; 139; 228 18; 111 100 202 63

R Rab, Maxwell; Reagan, Ronald; Recalcati, Antonio; Renis, Tony; Ripa di Meana, Carlo; Ripa di Meana, Marina; Rizzoli, Angelo; Rizzoli, Angelo junior; Roccella, Franco; Rockefeller, Nelson; Romiti, Cesare; Rudin, Micky;

199 69; 96; 97; 98; 197; 199; 200; 209; 235; 237. Foto 47 100; 189 18; 167; 190. Foto 45 81; 100; 189; 226 80; 81; 100; 189 29. Foto 4 189; 201 227 123 foto 13 167

S Sabbatini, Vezio; Sai Baba; Sangiorgi, Giuseppe; Sansone, Antonio; Sartawi, Issam; Scalfari, Eugenio; Scalfaro, Oscar Luigi; Scanni, Beppe; Scarso, Daniela; Schuster, cardinale Ildefonso; Scotti, Gerry;

129 157; 159; 161. Foto 38 foto 44 129 131; 133. Foto 29 43; 67 27; 49; 50; 69; 243 31; 33; 49; 110; 124; 129. Foto 5 127; 135; 136. Foto 27 225 115

128


Segni, Mario; Signorile, Claudio; Silvestri, Carlo; Simbolini, Alex; Sinatra, Barbara; Sinatra, Frank; Sindona, Michele; Soares, Mario; Sodano, Giampaolo; Sofri, Adriano; Spadolini, Giovanni; Spazzali, Sergio; Spini, Valdo; Squillante, Renato; Stanzani, Sergio;

179 33; 229; 230 224 169 foto 39 167; 169. Foto 39 45 33 100 foto 16 95; 152 226 129; 230 31 227

T Tajani, Antonio; Testerini, Ildegonda; Thatcher, Margaret; Tintori, Silvano; Togliatti, Palmiro; Tognoli, Carlo; Tomaselli, Enza; Trussardi, Nicola;

56 223 98; 156; 197 226 80 41; 227 125; 136; 140; 141 65; 90; 125; 165; 167; 200; 201; 202

V Vannoni, Spartaco; Vanoni, Ornella; Varasi, Gianni; Veltroni, Valter; Venier, Mara; Versace, Gianni; Vertemati, Guido; Visconti di Modrone, Leonardo; Visentini, Bruno; Vitale, Maurizio; Vizzini, Carlo;

29 189 165 foto 50 99 65; 90 227 163 69 226 foto 43

W Wojtila, Karol;

152

Z Zanone, Valerio;

26

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Nella stessa collana Antonio Antonuzzo – Solitudine orgoglio libertà Romano Canosa, Isabella Colonnello – Gli ultimi roghi la fine della caccia alle streghe in italia Carmine Di Sante (a cura) – I papi breve storia monografica Antonio Moscato, Jakob Taut – Michel Warshawski – Sionismo e questione ebraica storia e attualità Romano Canosa – Manuale di diritto del lavoro Antonio Moscato – Sinistra e potere l’esperienza italiana (1944-81) AA.VV. – Il delitto politico dalla fine dell’800 ai giorni nostri Antonio Bevere – Tribunale della libertà il procedimento di riesame dei provvedimenti restrittivi dalla teoria alla pratica Romano Canosa, Isabella Colonnello – Storia del carcere in italia dalla fine del ’500 all’unità Antonio Moscato (a cura) – Israele senza confini politica estera e territori occupati AA.VV. – Lavoro impresa diritto negli anni ’80 Enzo Lo Giudice – Il diritto dell’ingiustizia Romano Canosa – Tempo di peste magistrati e untori nel 1630 a milano AA.VV. – Teologia della liberazione Gianfranco Caserta, Carla Di Carlo – L’educazione motoria M. A. Teodori – Lucciole in lotta la prostituzione come lavoro Angelo Arioli (a cura) – La lezione negata palestina e palestinesi nei libri di testo Laura Guazzone (a cura) – Fabbricanti di terrore discriminazioni antiarabe stampa italiana UNCCEA – Recupero edilizio e cooperazione Romano Canosa – Storia dell’inquisizione in italia vol. I dalla metà del ’500 alla fine del ’700 – modena Antonio Moscato (a cura) – Hungaricus 1956 Romano Canosa – Storia dell’inquisizione in italia vol. II dalla metà del ’500 alla fine del ’700 – venezia Salvatore Antonuzzo – Alfa romeo da torino venne l’autunno... sarà ancora primavera? A. Castagnola, P. Farinella (a cura) – Guerre stellari armi e strategie per un’apocalisse Giuseppe Tognon (a cura) – La pace indagine nei libri di testo

Sara Tognetti Burigana – La penna del duemila informatica, didattica scuola dell’obbligo Antonio Bevere, Augusto Cerri – Diritto di cronaca e critica libertà di pensiero e dignità umana Romano Canosa – Storia dell’inquisizione in italia vol. III dalla metà del ’500 alla fine del ’700 – torino e genova Francesco Guadalupi (a cura) – Programmi didattici per la scuola primaria Romano Canosa – Storia dell’inquisizione in italia vol. IV dalla metà del ’500 alla fine del ’700 – milano e firenze Antonio Bevere – La chiamata di correo regole dell’esperienza giurisprudenziale Romano Canosa, Isabella Colonnello – Storia della prostituzione in italia dal ’400 alla fine del ’700 AA.VV. – Nuove povertà e controllo sociale Romano Canosa – Storia dell’inquisizione in italia vol. V dalla metà del ’500 alla fine del ’700 – napoli e bologna – la procedura inquisitoriale Romano Canosa – Il velo e il cappuccio monacazioni forzate e sessualità nei conventi femminili in italia fra ’400 e ’700 Collettivo Studentesco Romano (a cura) – La pantera e i mass media Antonio Moscato – Israele, palestina e guerra del golfo Romano Canosa – Storia dell’inquisizione spagnola in italia Francesco Plotino – La legge martelli antimafia testo e commento articolo per articolo Antonio Moscato – Libano e dintorni integralismo islamico e altri integralismi Enzo Lo Giudice – La democrazia impossibile o dell’utopia Cooperative di Produzione e Lavoro – La partecipazione tra democrazia economica e industriale Romano Canosa – Sessualità e inquisizione in italia tra cinquecento e seicento Ignazio Lippolis – Ecologia futuro del pianeta Romano Canosa – Storia di milano nell’età di filippo II Romano Canosa – Banchieri genovesi e sovrani spagnoli tra cinquecento e seicento Romano Canosa – Storia del mediterraneo nel ’600 Maurizio Fiasco (a cura) – Sedici marzo ragioni delle vittime e diritto alla verità sul delitto moro Romano Canosa – Lepanto storia della “Lega Santa” contro i turchi Romano Canosa – I segreti dei Farnese AA. VV. – Guerre stellari. Lo scudo spaziale americano

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Antonio Moscato, Cinzia Nachira (a cura) – Israele sull’orlo dell’abisso Nestore Di Meola – Berlino quel muro c’è ancora Gennaro Francione – Il tocco e la penna, ovvero dei giudici scrittori Petr Arsinov – La rivoluzione anarchica in Ucraina

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