UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTÁ DI GIURISPRUDENZA Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
TESI DI LAUREA in Diritto costituzionale
COMUNITÁ MONTANE: ORIGINI, SVILUPPO E PROSPETTIVE FUTURE. IL CASO DELLA COMUNITÁ MONTANA “SPETTABILE REGGENZA DEI SETTE COMUNI”, DELL'ALTOPIANO DI ASIAGO.
Relatore: Prof. Mario Bertolissi
Laureanda: Silvia Rodeghiero N° matr. 534087
ANNO ACCADEMICO 2011-2012
A coloro che mi hanno supportato (e sopportato) durante questo lungo percorso. Alle persone pi첫 importanti della mia vita: ai miei genitori, a Mauro e ad Erika.
INDICE SOMMARIO
INTRODUZIONE ............................................................................ 9
PARTE PRIMA COMUNITÁ MONTANE: ORIGINI, SVILUPPO E PROSPETTIVE FUTURE
CAPITOLO I IL PERCHÉ DI UN'ISTITUZIONE
1.1 L'attuazione dell'art. 44 u.c. Cost. nella legge n. 1102 del 1971. Finalità e motivazioni alla base dell'istituzione di un ente a tutela delle zone montane. ................................................................................... 17 1.2 Il riconoscimento da parte del legislatore dell'importanza delle Comunità montane: le funzioni loro attribuite dalla legge n. 142 del 1990, il Fondo nazionale per la montagna e gli interventi speciali disposti dalla legge n. 97 del 1994. ................................................. 23 1.3 Testo Unico degli Enti Locali: confermato il ruolo delle Comunità montane nello sviluppo socio-economico dei territori montani. ...... 31
CAPITOLO II L'INVERSIONE DI TENDENZA: I TENTATIVI DI SOPPRESSIONE E IL RIORDINO DELLE COMUNITÁ MONTANE 2.1 La prospettiva delle Regioni: giustificazioni alla base della
domanda di soppressione. Comunità montane effettivamente inutili e inefficienti? ....................................................................................... 35 2.2 Il “riordino della disciplina delle Comunità montane” imposto dalla Finanziaria 2008: la tensione tra esigenza di contenimento della spesa pubblica e di tutela di aree disagiate. ...................................... 44 2.3 Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Veneto e Toscana all'indomani della legge 24 dicembre 2007, n. 244. Le censure prospettate e la risposta del Giudice delle leggi tra punti controversi e sostanziale “svuotamento” della competenza regionale in materia di Comunità montane. .......................................................... 53 2.4 Le conseguenze del responso della Corte e i successivi interventi normativi e giurisprudenziali: quale la sorte delle Comunità montane già soppresse e quali le prospettive future per gli enti montani. ...... 72
CAPITOLO III IL CAMMINO VERSO IL FEDERALISMO FISCALE E IL RIASSETTO DEI CONTI PUBBLICI: DISEGNATE LE COMUNITÁ MONTANE DEL FUTURO
3.1 La legge-delega sul federalismo fiscale n. 42 del 5 maggio 2009. Considerazioni e punti critici del percorso “federalista” nell'ottica montana. ........................................................................................... 73 3.2 Segue: l'attuazione della legge delega. Il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 in materia di “federalismo municipale”. .................................... 111 3.3 La crisi economico-finanziaria, i provvedimenti ad essa connessi e l'impatto sugli enti montani: l'art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011
n. 138. .............................................................................................. 116 3.4 Segue: le novità dell'art. 19 del decreto-legge 06 luglio 2012 n. 95. Dalle “Comunità montane” alle “Unioni di Comuni montani”. ...... 128
PARTE SECONDA UN CASO PARTICOLARE: LA COMUNITÁ MONTANA “SPETTABILE REGGENZA DEI SETTE COMUNI”
CAPITOLO I LA COMUNITÁ MONTANA “SPETTABILE REGGENZA DEI SETTE COMUNI”: BREVI CENNI STORICI E ORGANIZZAZIONE ISTITUZIONALE
1.1 La “Reggenza dei Sette Comuni”: origini e organizzazione istituzionale della piccola “Repubblica nella Repubblica veneta”. . 143 1.2. Gli “Ordini di Bragadin intorno al buon governo dei Sette Comuni” del 1642: atto costitutivo della “Reggenza” o semplice legge-quadro? .................................................................................. 148 1.3 La caduta di Venezia e il dominio napoleonico: la fine di cinque secoli di storia. ................................................................................. 152 1.4. L'istituzione della Comunità montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”: dallo Statuto del 1975 a quello attuale. ................. 156
CAPITOLO II IL NUOVO VOLTO DELLA MONTAGNA VENETA: LE “UNIONI MONTANE” E LE PROSPETTIVE PER IL
TERRITORIO ALTOPIANESE, NELLE PAROLE DEGLI AMMINISTRATORI.
2.1 L'approccio della Regione Veneto alla questione montagna e i sintomi di un malessere generalizzato: il referendum consultivo per il passaggio alla Regione Trentino Alto-Adige. ................................. 165 2.2 Gli effetti della Finanziaria 2008 e 2010 (e delle relative pronunce costituzionali) per la Comunità montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”. ................................................................................ 170 2.3 Segue: le proposte di riordino delle Comunita montane venete. Dai disegni di legge n. 196 e n. 238 del 2011 alla legge regionale 27 aprile 2012, n. 18. La posizione degli amministratori altopianesi. ........... 175 2.4 La nuova legge regionale in materia di “Unioni montane”: quali prospettive per la “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”? …..... 181
CONCLUSIONI ............................................................................ 195
APPENDICE ................................................................................. 201 a) LE COMUNITÁ MONTANE IN ITALIA ............................. 203 b) LE COMUNITÁ MONTANE IN VENETO .......................... 204
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ............................................ 205
RINGRAZIAMENTI ................................................................... 219
INTRODUZIONE
“Le Comunità montane sono solo un pezzetto della grande torta. Ma possono aiutare forse meglio di ogni altra cosa a capire come una certa politica, o meglio la sua caricatura obesa, ingorda e autoreferenziale, sia diventata una Casta e abbia invaso l'intera società italiana”1. Questo passo (tratto dal celeberrimo best-seller di G.A. Stella – S. Rizzo, “La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili”, Milano, 2007), forse meglio di qualunque altro, può introdurre l'analisi svolta nelle prossime pagine. Con il presente lavoro si è approfondita proprio la questione delle Comunità montane, che si inserisce nella più ampia tematica legata al riordino degli enti locali, in questi mesi all'ordine del giorno nel dibattito istituzionale. La grave crisi economico-finanziaria che ha colpito il nostro Paese ha, infatti, imposto un cambio di rotta nella gestione della spesa pubblica e tra i primi enti ad essere colpiti in tal senso vi sono state proprio le Comunità montane, unico ente rappresentativo della montagna, considerato, tuttavia, inutile. Le recenti normative e l'ampia discussione sorte sull'argomento sono il filo conduttore dell'intera trattazione: si è voluto comprendere se sia stato giustificato l'accanimento manifestato nei confronti degli enti montani all'indomani della pubblicazione del libro-inchiesta o se, 1 Cfr. G.A. STELLA – S. RIZZO, La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Milano, 2007, 7.
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forse, sarebbe stato più opportuno prestare maggiore attenzione alla prima parte del passo citato in apertura. Si è voluto chiarire, in particolare, se davvero le Comunità montane rappresentino l'origine di tutti gli sprechi o se, invece, le inefficienze vadano cercate, e colpite, anche altrove: i dati sono significativi e non danno adito a troppi dubbi. Se è innegabile che sussistono Comunità montane situate in riva al mare che, obiettivamente, non hanno ragione di esistere, ve ne sono altre che, invece, costituiscono veri e propri esempi di efficienza ed efficacia amministrativa, in territori di cui, peraltro, sono innegabili le specificità e che, per le loro caratteristiche morfologiche, si trovano tutti i giorni a superare difficoltà sconosciute ai borghi di pianura. L'elaborato è stato strutturato in due parti. Nella prima si è voluto dare una panoramica degli interventi normativi e giurisprudenziali che hanno interessato le Comunità montane italiane, partendo, come doveroso, dalle origini, dai nostri Padri costituenti, che non hanno mancato di volgere lo sguardo alla montagna e alle sue genti, in particolare con una disposizione, l'art. 44, in virtù del cui secondo comma “la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”. “Matrigna la natura, al nostro montanaro, e matrigna la patria”, asserisce l'On. Gortani in Assemblea costituente, e la situazione non pare essere cambiata di molto negli ultimi anni. Invero, le normative più recenti, hanno comportato serie difficoltà per gli amministratori montani, cui è risultato sempre più
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arduo gestire territori che, come documentato, producono un terzo della ricchezza nazionale. Ci si riferisce, in particolare, alla legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008), alla legge legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Finanziaria 2010) e alla, più recente, legge 14 settembre 2011, n. 148 (c.d. Manovra bis, modificata, almeno parzialmente, dalla legge 07 agosto 2012, n. 135), ampiamente analizzate nel corso della trattazione, sia nei contenuti che circa la loro dubbia compatibilità con la nostra Carta fondamentale. In
proposito,
la
Corte
costituzionale
si
è
espressa,
rispettivamente, con la sent. n. 237 del 2009 e la sent. n. 326 del 2010, accogliendo, seppure parzialmente, i ricorsi presentati dalle Regioni ricorrenti (si tratta di Veneto e Toscana, con riguardo alla legge n. 244 del 2007, e di Calabria, Toscana, Liguria e Campania con riferimento, invece, alla legge n. 191 del 2009). In particolare, la Consulta, da un lato, ha ribadito la competenza regionale in tema di Comunità montane e, d'altro lato, ha dichiarato l'irragionevolezza della cancellazione dei finanziamenti alle stesse. Quanto, invece, alla legge n. 148 del 2011, il relativo art. 16, obbligando i Comuni al di sotto dei 1.000 abitanti a svolgere in forma associata (attraverso le “Unioni di Comuni”) tutte le funzioni e i servizi loro spettanti, ha cancellato ogni loro autonomia di bilancio ed è stato impugnato con il ricorso della Regione Toscana n. 133 del 2011 e quello della Regione Lazio n. 134 dello stesso anno, malgrado il Giudice delle leggi non si sia ancora pronunciato sull'argomento.
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La seconda parte dell'elaborato è stata dedicata ad una particolare area geografica del Veneto, l'Altopiano di Asiago, avendo riscontrato l'esasperazione, in primo luogo della popolazione, abbandonata dalla Regione al punto di chiedere il passaggio al Trentino Alto-Adige e, in secondo luogo, degli amministratori, in evidente difficoltà a gestire un territorio in quasi totale assenza di risorse. Dopo un balzo all'indietro di circa settecento anni, sono state esaminate le normative non solo degli anni recenti, ma anche dei giorni che poco hanno preceduto la discussione di questa tesi. In particolare, se l'art. 15 della legge regionale 27 aprile 2012, n. 18, ha sancito la cessazione della consolidata esperienza delle Comunità montane venete al 31 dicembre prossimo, l'ultima, recentissima, normativa intervenuta sull'argomento (vale a dire, la legge regionale n. 40 del 2012, approvata dal Consiglio regionale il 19 settembre scorso, al termine di una lunga, quanto accesa, discussione) ha previsto la loro trasformazione in “Unioni montane”, con le conseguenze analizzate nell'ultima parte della trattazione. In merito a quest'ultimo intervento legislativo, numerosi sono stati i commenti favorevoli, anche se non altrettanto può dirsi con riferimento agli amministratori della Comunità veneta oggetto di approfondimento, per i quali le perplessità e i punti critici sono molteplici. A preoccupare è, soprattutto, l'ipotesi, astrattamente possibile, della costituzione di una pluralità di Unioni all'interno del territorio altopianese, così come critica è la posizione in merito alla prevista
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composizione del Consiglio dell'Unione, che non pare poter determinare un effettivo risparmio di spesa, come imposto dal decretolegge n. 95 del 2012 (c.d. Spending review). Il lavoro si è concluso con la prospettazione di alcune ipotesi su quello che potrà essere il futuro per la “Spettabile Reggenza”, dal momento che la situazione non è, ancora, del tutto definita: occorrerà, infatti, attendere la formulazione delle proposte aggregative da parte dei Comuni.
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PARTE PRIMA
COMUNITÁ MONTANE: ORIGINI, SVILUPPO E PROSPETTIVE FUTURE
CAPITOLO I IL PERCHÉ DI UN'ISTITUZIONE
1.1 L'attuazione dell'art. 44, u.c., Cost. nella legge n. 1102 del 1971. Finalità e motivazioni alla base dell'istituzione di un ente a tutela delle zone montane.
Il tema delle Comunità montane rappresenta un argomento sensibile nell'attuale momento storico. Alla luce delle accese discussioni, molto spesso collegate al tema degli sprechi, delle prospettive federalistiche e della crisi economicofinanziaria che attanaglia il nostro Paese, appare opportuna un'adeguata analisi del problema, per valutare se effettivamente tali istituzioni debbano essere considerate un “problema” e non, viceversa, una “risorsa”. Occorre partire dalle origini, che in questo caso hanno fondamento costituzionale prima ancora che legislativo, malgrado la Costituzione non parli espressamente di Comunità montane. Si deve guardare, in particolare, all'art. 44 della Costituzione, che al suo comma 2 recita: “La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”. Si tratta di un disposto originariamente non previsto dalla Assemblea costituente: è all'On. Gortani e ad un emendamento da lui proposto che se ne deve l'introduzione1. 1
F. BERTOGLIO, UNCEM – Mezzo secolo di storia, Roma, 2002, 3.
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“Ora è tempo che al montanaro si volga con amore questa Italia che si rinnova” asserisce l'Onorevole2, che mette in luce un dato oggettivo: le zone montane occupano un terzo del territorio nazionale, con una popolazione pari ad un quinto di quella complessiva e si tratta di un'area in cui “la vita di tutti i ceti e categorie si svolge in condizioni di particolare durezza e di particolare disagio in confronto col rimanente del Paese”3. Osserva, inoltre, Gortani come, nonostante la laboriosità delle genti, le avversità del suolo, del clima e le condizioni di vita disagiate, le popolazioni montane siano sempre state abbandonate a loro stesse, private di qualsiasi tipo di tutela e, al contrario, oberate di vincoli e tributi, con l'ovvia conseguenza del dissesto territoriale e dello spopolamento4. La conquista a livello costituzionale è notevole, anche perchè se “la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”, ciò significa che un'eventuale disciplina sfavorevole incorrerebbe in una censura di illegittimità costituzionale5. Col passare degli anni, nuove prese d'atto sulla questione ci sono state da parte del legislatore ordinario, che ha provveduto a dare attuazione al disposto, dapprima con la legge n. 991 del 1952 2
Cfr. Atti dell'Assemblea Costituente in www.camera.it, 3974. Come risulta dagli Atti dell'Assemblea Costituente cit. 4 “Matrigna la natura, al nostro montanaro, e matrigna la patria; e tuttavia è pronto, così per la patria, come per la nativa montagna, a sacrificare, ove occorra, anche se stesso. Perchè la montagna è la sua vita, e la sua patria è la sua ragione di vivere. E in lei non ha ancora perduto la fiducia. Facciamo che non la perda”. Così asseriva l'On. Gortani, in Assemblea plenaria, nella seduta del 13 maggio 1947, cit. 5 Cfr. S. BARTOLE, R. BIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 457. Questa è, in particolare, l'opinione riportata da C. ESPOSITO in La Costituzione italiana – Saggi, Padova, 1954, 181. 3
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(“Provvedimenti in favore delle zone montane”) e poi con l'istituzione degli enti al centro di questa trattazione, le Comunità montane, solo nel 1971 (parallelamente all'istituzione delle Regioni a statuto ordinario) con la legge n. 1102, recante “Nuove norme per lo sviluppo della montagna”. Esaminando la prima legge citata, si può notare come essa si occupi in prevalenza degli aspetti economico-finanziari della questione montagna, in particolare attraverso la previsione di mutui, sussidi, contributi, agevolazioni fiscali e l'istituzione di “enti per la difesa montana”, cui è dedicato il Titolo III della legge. Non si parla ancora di Comunità montane bensì di “aziende speciali” e “consorzi” finalizzati a consentire il superamento di quelle che allora erano le maggiori difficoltà per le zone montane, ovvero: gestione dei beni silvo-pastorali, degradamento e bonifica del territorio. In diretta attuazione dell'art. 44 Costituzione si pone la legge 03 dicembre 1971, n. 1102, che presenta come finalità fondamentale la promozione della “valorizzazione delle zone montane favorendo la partecipazione delle popolazioni, attraverso le Comunità montane, alla predisposizione e all'attuazione dei programmi di sviluppo e dei piani territoriali dei rispettivi comprensori montani ai fini di una politica generale di riequilibrio economico e sociale nel quadro delle indicazioni del programma economico nazionale e dei programmi regionali” (art. 1). Come si può notare, lo strumento istituzionale fondamentale
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ideato per il raggiungimento della finalità predetta è rappresentato dalle Comunità montane. Il loro precedente storico è dato dai Consigli di Valle, istituiti spontaneamente nei territori montani a partire dal 1946 per meglio far fronte alle problematiche comuni e che, tuttavia, erano dotati di una struttura organizzativa piuttosto rudimentale e che si basava soprattutto sullo spirito collaborativo delle popolazioni interessate. Le neo-istituite Comunità montane, invece, vengono dalla legge espressamente qualificate come “enti di diritto pubblico” e ne viene fissata la regolamentazione nel successivo art. 4, che vede in materia il ruolo primario della Regione. Con legge regionale, infatti, avviene la costituzione e alla Regione spetta tutta un'altra serie di competenze di carattere organizzatorio, espressamente elencate: determinazione e composizione degli organi, delimitazione delle zone, criteri per la ripartizione dei fondi, approvazione degli statuti, regolamentazione dei rapporti con gli altri enti operanti nel territorio. Allo stesso tempo, tuttavia, vi sono degli elementi strutturali propri delle Comunità montane su cui nemmeno il legislatore regionale potrebbe incidere: in primo luogo, esse si costituiscono tra i Comuni che rientrano in ciascuna “zona omogenea”, individuata, peraltro, con legge regionale. Ai fini della determinazione delle zone omogenee, la stessa legge del 1971 stabilisce che le medesime debbano comprendere i “territori montani” individuati secondo i criteri previsti dalla legge 25 luglio 1952, n. 991, dalla legge 30 luglio 1957, n. 657 e dall'art. 2 della legge regionale del Trentino Alto Adige
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8 febbraio 1956, n. 4 e ripartiti tra le stesse in base a criteri di unità territoriale, economica e sociale6. In secondo luogo, risulta necessaria la presenza di un organo deliberante, in cui siano rappresentate le minoranze di ciascun consiglio comunale, e di un organo esecutivo. In terzo e ultimo luogo, inderogabili sono anche i compiti affidati direttamente alle Comunità montane, in particolare per quanto riguarda l'emanazione e l'attuazione dei piani zonali di sviluppo, di cui agli artt. 5 e 6 della legge in esame. Attraverso gli stessi, le Comunità individueranno le concrete possibilità di sviluppo del relativo territorio, dal punto di vista economico, produttivo, sociale e dei servizi. I piani dovranno essere approvati dalla Regione ed è previsto un obbligo di adeguamento dei piani elaborati dagli altri enti operanti nel medesimo territorio, salva la possibilità di tenerne conto al fine di predisporre eventuali coordinamenti. La conseguenza di una tale disciplina è che le varie Comunità montane non avranno una struttura funzionale uniforme; essa varierà bensì da Regione a Regione e, all'interno della medesima Regione, tra le varie Comunità stesse, dati i profili di autonomia, soprattutto nell'ambito dell'attività di pianificazione. Di particolare importanza nell'ambito delle funzioni attribuite alle Comunità montane è il sistema delle deleghe delineato all'art. 6 della legge: ai commi 2 e 3 si specifica come, da un lato, le Comunità possano delegare ad altri enti le “realizzazioni attinenti alle loro 6
In particolare, in base a tali provvedimenti, sono considerati “montani”, i Comuni situati per almeno l'80% della loro superficie al di sopra dei 600 metri sopra livello del mare e quelli in cui il dislivello tra la quota altimetrica inferiore e la superiore del territorio comunale non è minore di 600 metri. Inoltre, il reddito imponibile medio per ettaro, censito, risultante dalla somma del reddito dominicale e del reddito agrario non deve superare le 2.400 lire.
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specifiche
funzioni
nell'ambito
della
rispettiva
competenza
territoriale” e, dall'altro, come esse possano assumere “funzioni proprie degli enti che la costituiscono”, a seguito sempre di delega. Tale disposto costituisce un'ulteriore riprova dell'importanza riconosciuta alle Comunità montane: da notare, infatti, come esse possano sì assumere funzioni a seguito di delega ma queste non possano, invece, essere loro sottratte per decisione regionale o di altro ente. Le attribuzioni delle Comunità sono e devono restare ferme: vi possono essere delle aggiunte ma non certo delle privazioni7. Occorre
chiedersi
quale
sia
stata
la
reazione
globale
all'istituzione di tali enti: è stato osservato come le Comunità montane vengano, almeno inizialmente, salutate con favore, in quanto vi si intravede uno strumento per il riassetto dei poteri locali e viene per la prima volta affidata alla legislazione regionale e alla potestà statutaria la determinazione del loro regime giuridico, in rottura con la tradizione che lo voleva uniforme per tutti gli enti locali8. L'UNCEM vede nelle Comunità montane lo strumento per la realizzazione del tanto agoniato “governo locale” e la “struttura primaria per lo sviluppo della montagna”9. 7
In tal senso E. DALFINO, Le Comunità montane nel sistema dei poteri locali, Bari, 1988, 21. L'autore prende le mosse dall'art. 2 del D.P.R n. 616 del 1977 (attuativo della legge delega n. 382 del 1975, con la quale si voleva provvedere alla definizione delle funzioni degli enti locali, all'indomani dell'istituzione dell'ordinamento regionale), in base al quale “Ai Comuni, alle Province, alle Comunità montane sono attribuite le funzioni amministrative indicate nel presente decreto, ferme restando quelle già loro spettanti secondo le vigenti disposizioni di legge”. 8 Così E. DALFINO in Le Comunità montane, cit., 2. L'autore mette in evidenza come l'istituzione delle Comunità montane comporti “l'apertura di un ponte verso il riassetto dei poteri locali, con l'individuazione di un nuovo livello di governo” e un'inversione di tendenza rispetto la “tradizione italiana dell'uniformità di regime giuridico degli enti locali, attraverso il rinvio alla legislazione regionale ed alla potestà statutaria dei nuovi enti”. 9 Come osservato da F. BERTOGLIO in UNCEM – Mezzo secolo di storia, cit., 9, proprio questo è il titolo della prima Assemblea nazionale UNCEM tenutasi a Riva del Garda nel 1973,
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Purtroppo, tale favor non è destinato a durare a lungo e ben presto per le Comunità montane si profilano da più parti dubbi, legati in particolare al loro “rendimento”. Si passa, quindi, da un tendenziale ottimismo a proposte di legge dirette alla loro eliminazione: ipotesi che viene scongiurata grazie all'instaurazione da parte dell'UNCEM di un produttivo dialogo tra gli allora maggiori partiti del Paese (DC, PSI, PCI), da un lato, e i rappresentanti dei Comuni e delle Comunità montane, dall'altro, che ha come esito il passaggio dalle proposte di soppressione a quelle di riforma dell'ordinamento delle autonomie locali, che troveranno una prima attuazione con la legge n. 142 del 1990.
1.2 Il riconoscimento da parte del legislatore dell'importanza delle Comunità montane: le funzioni loro attribuite dalla legge n. 142 del 1990, il Fondo nazionale per la montagna e gli interventi speciali disposti dalla legge n. 97 del 1994.
Occorre attendere il 1990 per assistere ad una prima riforma dell'ordinamento delle autonomie locali. La legge 8 giugno 1990, n. 142 ha come oggetto quello di dettare i “principi dell'ordinamento dei Comuni e delle Province” e di “determinarne le funzioni” (art. 1). A prima vista si tratta di una legge ad ambito piuttosto limitato: si parla solo di Comuni e Province e non vengono annoverati altri enti durante la quale viene manifestato un certo ottimismo nei confronti delle neo-istituite Comunità montane.
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locali. In realtà, è stato osservato che con ciò si è voluta evidenziare la preminente importanza di tali enti ma, comunque, se si guarda ai contenuti della legge, si può notare come essi riguardino anche altre autonomie locali, quali le Comunità montane, cui sono dedicati gli artt. 28 e 2910. Passando, poi, alla struttura della legge, essa è costruita come legge-quadro: spetta, pertanto, agli enti locali integrarne le disposizioni con proprie normative statutarie e regolamentari. Una tale scelta si giustifica per l'esigenza di fissare degli aspetti fondamentali, unitari e cogenti, lasciando per gli aspetti ulteriori ampia autonomia agli enti locali, evitando in tal modo spinte centraliste a livello regionale, fortemente osteggiate da Comuni e Province, e dando altresì attuazione all'art. 128 Cost. che qualifica come “enti autonomi” le Province e i Comuni, nell'ambito delle funzioni e dei principi fondamentali fissati con legge statale. Di conseguenza, essi perdono la loro posizione di meri “spettatori passivi” di determinazioni regionali e sono chiamati a operare attivamente nella determinazione del proprio ordinamento. Per quanto riguarda le Comunità montane, esse escono complessivamente rafforzate dalla nuova legge. All'art. 28 troviamo una vera e propria definizione: si afferma, infatti, che le Comunità montane sono “enti locali costituiti fra Comuni montani e parzialmente montani, anche appartenenti a Province diverse, per la valorizzazione delle zone montane per 10
Cfr. L. VANDELLI, Ordinamento delle autonomie locali: commento alla legge 8 giugno 1990, n. 142, Rimini, 1991, 38.
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l'esercizio di funzioni proprie, di funzioni delegate e per l'esercizio associato delle funzioni comunali, nonché la fusione di tutti o parte dei Comuni associati”. Spicca una prima novità fondamentale rispetto alla legge istitutiva del 1971: le Comunità non sono più qualificate semplicemente “enti di diritto pubblico” ma come veri e propri “enti locali”, intermedi tra Province e Comuni da un lato e enti strumentali della Regione dall'altro. Pertanto esse, malgrado non godano di diretta tutela costituzionale come i primi, non si trovano nemmeno in una posizione di netta subordinazione rispetto la Regione come i secondi, conservando ampi margini di autonomia e di autodeterminazione. Subito dopo tale definizione, al comma 1, vengono individuate le tre funzioni fondamentali delle Comunità montane, date dalla promozione della valorizzazione delle zone montane, dall'esercizio associato delle funzioni comunali e dalla fusione di tutti o parte dei Comuni associati. Non si può non notare la profonda evoluzione rispetto alle funzioni meramente programmatorie attribuite dalla legge del 1971: se già un ampliamento rispetto le stesse si era avuto con progressivi interventi regionali e statali e, in particolare, con il D.P.R. 616/77 (che aveva attribuito alle Comunità montane le funzioni socio-sanitarie nell'ipotesi in cui gli ambiti territoriali determinati dalla regione fossero coincisi con quelli delle Comunità stesse), qui vi è un ulteriore passo avanti e un'ulteriore conferma per tale tipologia di enti. Infatti, lungi dal voler essere soppressi, essi vedono aumentate le proprie
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competenze, che verranno poi specificate al successivo art. 29. Ultimo aspetto da esaminare con riguardo all'art. 28 è quello relativo all'ambito territoriale delle Comunità montane, che viene determinato facendo riferimento a criteri molto più precisi rispetto la precedente disciplina. Si tratta di una questione di particolare importanza e che sarà destinata a sollevare discussioni anche nei decenni successivi: la normativa del '71 aveva portato all'istituzione di Comunità montane anche in territori che di “montano” avevano ben poco. Da qui l'esigenza di fissare dei criteri più rigidi: pur conservando la possibilità di istituirle in Comuni “parzialmente montani”, vengono pertanto previsti limiti di popolazione (non inferiore, seppure di norma, ai 5.000 abitanti e non superiore ai 40.000 abitanti) e l'esclusione dei Comuni parzialmente montani la cui popolazione residente in territorio montano sia inferiore al 15% della complessiva. Occorrono su quest'ultimo punto alcune precisazioni: in primo luogo il legislatore specifica come tale esclusione non sia di preclusione quanto a benefici e interventi speciali per la montagna previsti a livello nazionale e europeo. Tuttavia, laddove tali interventi siano previsti in favore dei territori montani e non, in generale, della Comunità montana, si deve ritenere che ne siano esclusi quelli non montani11; in secondo luogo si prevede che, malgrado il rispetto di tali limiti, una legge regionale può portare all'esclusione dei Comuni la cui inclusione andrebbe in pregiudizio della “omogeneità geografica o socio-economica della Comunità montana”; in terzo e ultimo luogo si 11
Cfr. A. CIAFFI, Indagine conoscitiva, n.5, seduta del 17 luglio 1990, Atti Camera.
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prevede la possibilità di includere, sempre con legge regionale, Comuni confinanti (di popolazione non superiore ai 20.000 abitanti) che siano “parte integrante del sistema geografico e socio-economico della Comunità”. Si evidenzia dunque l'obiettivo primario dell'omogeneità, non solo geografica ma anche socio-economica, che giustifica una deroga ai limiti imposti. Le tre tipologie di funzioni attribuite alle Comunità montane trovano una più precisa specificazione, come detto, nel successivo art. 29. Esso, innanzitutto, mette in luce tutte le possibili fonti delle attribuzioni: legge statale o regionale, disposizioni della Comunità economica europea, delega da parte di Comuni, Regione e Provincia. Con riguardo al Comune, inoltre, come già anticipato dall'art. 28, l'esercizio associato delle funzioni loro proprie o delegate spetta proprio alle Comunità montane. Trova conferma la funzione di programmazione e pianificazione attribuita fin dal 1971, con una novità, riscontrabile nel compito attribuito alla Provincia di approvare il piano pluriennale di sviluppo socio-economico e relativi aggiornamenti e alla Regione di provvedere al loro finanziamento. Nuovi scenari di sviluppo si aprono per le Comunità montane con un successivo fondamentale intervento legislativo: la legge 31 gennaio 1994, n. 97 (“Nuove disposizioni per le zone montane”). Con un coerente richiamo all'art. 44 Cost., già il primo comma
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dell'art. 1 prospetta un nuovo modo di intendere la questionemontagna: infatti, si riconosce che la salvaguardia e valorizzazione delle zone montane ha “preminente interesse nazionale”. Le Comunità montane costituiscono il perno attorno cui ruota l'intero sistema delineato dalla legge, che come la precedente del 1990 è strutturata come legge-quadro. Esse, o meglio i territori in esse compresi, sono i diretti destinatari delle disposizioni, sul presupposto dell'avvenuta attuazione di quell'art. 28 sopra citato che imponeva il “riordino” delle Comunità montane medesime. In ogni caso viene previsto un meccanismo sussidiario ai fini della determinazione dell'ambito di applicazione della legge: si prevede, infatti, che, in mancanza del suddetto “riordino”, si debbano considerare come “Comuni montani” solo quelli interamente montani. Trovano, quindi, riconoscimento espresso le potenzialità delle zone montane, in un'ottica di valorizzazione e sviluppo che assume rilevanza non solo a livello locale ma anche a livello nazionale: si comincia a comprendere come la salvaguardia della montagna abbia riflessi positivi per tutto il territorio dello Stato, non solamente quello montano. Dirette conseguenze di tale “preminente interesse nazionale” sono gli “interventi speciali per la montagna” disposti al comma 4, che riguardano i profili territoriali (con particolare riguardo al sistema dei trasporti e della viabilità, volgendo l'attenzione sul disagio collegato alla vita di montagna), economici (in considerazione del carattere di
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“aree depresse” delle zone montane), sociali (al fine di predisporre adeguati servizi per la popolazione) e culturali (con il recupero delle tradizioni locali). Lo spazio operativo è molto ampio e, perciò, si punta sull'intervento coordinato dei vari livelli di governo, in particolare di Stato, Regioni, Comuni e Comunità montane. Raccordo che, peraltro, non deve trasformarsi in centralismo: già la legge n. 142 aveva inequivocabilmente qualificato come “enti locali” le Comunità montane e la legge del 1997 si pone in una prospettiva di continuità sotto questo aspetto, ampliandone i margini di autonomia (basti pensare all'art. 11, che prevede l'esercizio associato di numerose funzioni comunali da parte delle Comunità montane, o all'art. 24 che prevede la possibilità per tali enti di operare quali “sportelli dei cittadini”, al fine di favorire la comunicazione tra le varie strutture e servizi territoriali). A placare l'ottimismo di fronte a scelte, certamente apprezzabili, del legislatore ordinario, che ben facevano sperare in una notevole valorizzazione delle zone montane, è uno sguardo a quella che è stata l'applicazione concreta della legge stessa. Da un lato, si può riscontrare un “difetto di forma”: troppi margini di discrezionalità hanno impedito quella svolta nella tutela della montagna che ci si aspettava. D'altro lato, il maggiore impedimento ad una completa attuazione della legge è stato rappresentato dal quel tanto agoniato Fondo nazionale per la montagna, progressivamente prosciugato dalle leggi
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finanziarie, in una quanto meno discutibile politica di contenimento della spesa pubblica che, probabilmente, sarebbe potuta essere perseguita senza attingere dall'unico mezzo finanziario a disposizione dei territori montani. I dati degli ultimi anni sono i seguenti: nel 2008 le somme destinate al Fondo sono pari a € 50.000.00012; un drastico calo si ha nel 2009 (€ 39.000.00013), per giungere alla totale cancellazione del Fondo stesso nel 201014. Ci si chiede quale sia la congruità di tali interventi, soprattutto se si considera che la montagna italiana produce il 16,7 % del PIL nazionale, con una popolazione pari a 1/5 di quella complessiva15. Forse è proprio vero che “la montagna e i montanari, le loro asprezze, i loro silenzi, i loro boschi, i loro valori, sono fuori moda”16. C'è solo da sperare che, come accade per quasi tutte le “mode”, anche questa ritorni.
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Delibera CIPE, 2008, n. 119 Esito seduta CIPE 20 gennaio 2012. Si richiama in proposito l'attenzione sul fatto che la somma, stanziata già nel Bilancio di previsione per il 2009 sia stata concretamente svincolata solo nel 2012, lasciando i territori montani privi di risorse per più di un anno. 14 Con il Decreto del Ministero dell'Interno 29 dicembre 2010, infatti, si stabilisce espressamente che “lo Stato cessa di concorrere al finanziamento delle Comunità montane”. 15 G.A STELLA, La montagna celebrata e dimenticata da tutti, in Corriere della Sera, 22 luglio 2010, 1-3. Dati confermati dalle statistiche ISTAT, dalle quale si evince che, al 2008, i territori montani coprono il 54,3% del territorio nazionale, con una popolazione pari al 18,2% della complessiva e dai dati CENSIS, che rilevano come il 16% del PIL nazionale sia prodotto proprio dai territori montani. 16 G.A. STELLA, La montagna celebrata, cit. 13
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1.3 T.U. degli enti locali: confermato il ruolo delle Comunità montane nello sviluppo socio-economico dei territori montani.
Intervento fondamentale nel panorama legislativo degli enti locali è rappresentato dal d. lgs. 8 agosto 2000, n. 267, che costituisce il nuovo Testo Unico sull'ordinamento delle autonomie locali. Esso va ben oltre la funzione che normalmente si addice ad un Testo Unico: infatti, non si è attuata una semplice riconduzione ad unità di normative, a volte confliggenti, aventi il medesimo oggetto ma si sono introdotti non pochi elementi novativi, che contribuiscono a delineare in maniera originale, rispetto al passato, l'assetto delle autonomie locali. E' stato notato come l'orientamento del legislatore sia stato nel senso di favorire il più possibile l'esercizio associato delle funzioni da parte dei Comuni, nella prospettiva di una maggiore efficienza e altresì di una riduzione dei costi di gestione17. E' questa una premessa necessaria per l'esame delle disposizioni che direttamente interessano le Comunità montane, in relazione alle quali l'intervento è stato incisivo, a partire dalla nuova definizione contenuta nell'art. 27, che supera quella di “ente locale” di cui alla legge n. 142 del 199018 per approdare a quella di “Unione di Comuni”. La conseguenza sul piano pratico è evidente: le Comunità montane non si confondono con i Comuni ma li trascendono, costituendo un ente autonomo rispetto agli stessi che pur vi fanno 17
M. BERTOLISSI, L'Ordinamento degli enti locali, Bologna, 2002. In realtà, un superamento si era già avuto con la legge n. 265 del 1999, modificativa della legge n. 142/1990, che parlava di “unioni montane”. 18
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parte. Un dato rimasto fermo rispetto la precedente disciplina è l'intenso rapporto con la Regione, che conserva il compito di individuare gli ambiti o le zone omogenee per la loro costituzione e di disciplinare l'approvazione dello statuto, le procedure di concertazione, i piani zonali e programmi annuali, i criteri di ripartizione dei finanziamenti e i rapporti con gli altri enti operanti nel territorio. Si riscontra, tuttavia, una maggiore autonomia delle Comunità montane almeno quanto all'organizzazione, rispetto alla quale non sono previsti interventi regionali. Sotto tale profilo, è l'art. 27 a imporre la presenza di un “organo rappresentativo” (il Consiglio della Comunità montana), un “organo esecutivo” (la Giunta) e un “Presidente”, che può cumulare la funzione di Sindaco in uno dei Comuni della Comunità stessa. Una novità rispetto la precedente disciplina si ritrova nell'ultima parte del comma 2, laddove si garantisce la “rappresentanza delle minoranze” nell'elezione, con voto limitato, dei rappesentanti dei Comuni. Nel complesso, si può osservare come quest'ampia autonomia organizzativa costituisca espressione dell'orientamento complessivo del legislatore, volto a valorizzare tali enti ben oltre le funzioni meramente programmatorie loro affidate sin dal 1971, conferendo loro il compito di svolgere in via associata quelle funzioni cui i singoli Comuni non sarebbero in grado di far fronte19. In particolare, quanto alle funzioni, l'art. 28 del T.U. mantiene la 19
In tal senso, M. BERTOLISSI, L'ordinamento degli enti locali, cit.
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tripartizione contenuta nella legge n. 142 del 1990, essendo attribuite alle Comunità montane delle “funzioni proprie”, che sono quelle direttamente attribuite alle Comunità montane da leggi statali o regionali (tra le quali continuano ad annoverarsi quelle relative alla programmazione e ai piani di sviluppo nonché gli “interventi speciali”), delle “funzioni conferite” dai Comuni, dalle Province o dalle Regioni e delle funzioni comunali da svolgersi in forma associata. Queste ultime possono essere ricondotte a una pluralità di settori di notevole importanza per la collettività20, quali, il supporto alle attività istituzionali dei Comuni, la raccolta e smaltimento rifiuti, il trasporto locale, la polizia municipale, i servizi sociali e le opere di pubblico interesse. Sono proprio le funzioni sopra citate il punto di forza delle Comunità montane, la cui operatività è, peraltro, subordinata ad un intervento regionale che ne ripensi in toto la natura, abbandonando l'annosa prospettiva di enti cui sono demandate mere funzioni di programmazione e pianificazione. Ciò va ribadito anche alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione, attuata con la l. cost. n. 3 del 2001, che innalza a livello costituzionale l'esigenza di un decentramento delle funzioni istituzionali degli enti locali, in modo tale che esse vengano assunte ad un livello il più possibile vicino ai cittadini. 20
Come evidenziato in UNCEM, La storia della montagna italiana: dai Consigli di valle alla riforma del Titolo V della Costituzione, 2010. Si deve notare, peraltro, come risulti superfluo l'espresso riconoscimento di un tale tipo di funzioni, che è insito nella natura stessa delle Comunità montane: essendo esse “Unioni di Comuni”, è logica conseguenza che ad esse si applichi l'art. 32 del decreto e che, perciò, sia ad esse demandato di “esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni comunali” (in tal senso, AA.VV, T.U. degli enti locali, vol. 1, Milano, 2000, 344).
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Se la riforma non contempla le Comunità montane tra gli enti locali, accanto a Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, esse vengono, comunque, menzionate dalla legge di attuazione n. 131 del 2003, che estende alle stesse una disposizione dettata per gli enti locali costituzionalmente garantiti: all'art. 4, comma 5, si statuisce, infatti, che “il potere normativo è esercitato anche dalle Unioni di Comuni,
dalle
Comunità
montane
e
isolane”.
Viene
così
espressamente riconosciuto il potere per le Comunità montane di dotarsi di propri regolamenti e statuti. In conclusione, con la nuova disciplina, considerata anche nel suo innesto nella Riforma del Titolo V, le Comunità montane vanno ben oltre le funzioni programmatorie e pianificatorie, provvedendo attivamente alla gestione delle attività comunali, laddove i Comuni, da soli, non sarebbero in grado di arrivare e dotandosi di propri regolamenti e statuti21.
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Peraltro, la mancata menzione delle Comunità montane nel nuovo Titolo V non ha mancato di suscitare perplessità. Si veda, ad esempio, F. BOCCIA, Le Comunità montane nel nuovo ordinamento degli enti locali, in www.federalismi.it, 23 ottobre 2003, il quale osserva come appaia “quanto meno curioso” che la riforma abbia menzionato e tutelato “soggetti istituzionali comunque forti come le Città metropolitane (per ragioni squisitamente territoriali), quando a maggior ragione per motivi ancor più evidenti avrebbe potuto tutelare realtà istituzionali deboli come i piccoli Comuni e le loro unioni”.
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CAPITOLO II
L'INVERSIONE DI TENDENZA: I TENTATIVI DI SOPPRESSIONE E IL RIORDINO DELLE COMUNITÁ MONTANE
2.1 La prospettiva delle Regioni: giustificazioni alla base della domanda di soppressione. Comunità montane effettivamente inutili e inefficienti?
Il 2005 segna l'inizio di quel “periodo buio” per le Comunità montane di cui si è accennato. Tuttavia, non si deve pensare che i dubbi in merito a tali enti provengano dalle Regioni, almeno non direttamente: è lo Stato a proporre, dapprima, e, successivamente, imporre la loro soppressione. Proprio dal 2005, infatti, il Governo avvia una politica di contenimento della spesa pubblica e tra i primi passi in tal senso vi è quello della radicale eliminazione delle Comunità montane, quasi fossero queste a rappresentare il più grosso spreco del nostro Paese. L'allora Ministro per la Pubblica Amministrazione, Brunetta, è il primo ad avanzare tale richiesta1, proponendo la loro soppressione già nel DPEF relativo al 2006, scatenando, come prevedibile, aspre critiche da parte di chi per anni si è battuto per garantire un'adeguata 1
Secondo l'allora ministro per la Pubblica Amministrazione, le Comunità montane sono inutili, “fonti di clientele e basta” (così Brunetta in un'intervista riportata da Il Sole 24ore, 6 luglio 2005, 5).
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rappresentanza alle popolazioni montane, primo fra tutti il Presidente UNCEM, Enrico Borghi2. Malgrado tale iniziativa non venga, infine, portata a compimento, la situazione non risulta, comunque, essere rosea: a partire dalla Finanziaria 2006 i tagli per la montagna sono sempre più cospicui e, malgrado non si possa parlare di eliminazione vera e propria, si deve riscontrare come, con il calo progressivo delle risorse a disposizione, il funzionamento del sistema risulti essere se non impossibile, quanto meno difficoltoso: basti pensare alla maggiore di tali risorse, il Fondo nazionale per la montagna, che dal 2003 al 2006 ha subìto una diminuzione di oltre due terzi3, per poi essere definitivamente abolito a partire dal 2011. Sorge spontaneo chiedersi quale sia stato il motivo che ha scatenato un tale accanimento contro i maggiori enti montani: certo, non si possono negare dei malfunzionamenti e degli abusi, ma gli amministratori montani reclamano un riordino in alternativa alla soppressione, in modo da eliminare le disfunzioni, aumentare l'efficienza e premiare gli enti virtuosi, molto spesso autori di interventi di fondamentale importanza dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. L'argomento è stato ben introdotto dal celeberrimo scritto di G.A. Stella – S. Rizzo (“La Casta. Così i politici italiani sono diventati 2
In particolare, egli in Ansa, Roma, 6 luglio 2006, replica alle illazioni di Brunetta, osservando come il ministro parli senza cognizione di causa: “a meno che clientela non significhi erogare l'assistenza sociale ad anziani e bambini, salvaguardare i servizi sociali di base messi in ginocchio da anni di finanza creativa, garantire l'impiego attuale dei fondi europei per investimenti essenziali alla qualità della vita e all'economia di oltre il 54% del territorio nazionale che produce il 16% del PIL”. 3 Dagli oltre 61 milioni del 2003 ai 20 milioni del 2006.
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intoccabili”, 2007), che ha messo in luce il fulcro del problema e accesso la miccia di tutte le successive discussioni sulla questione. Per comprendere in che modo un semplice libro abbia potuto scatenare tale bagarre è sufficiente leggere le prime pagine del testo, da cui si evince un dato significativo: l'esistenza di una Comunità montana, quella Murgia Tarantina, formata da quattro Comuni “parzialmente montani”, cinque “non montani” e nemmeno uno montano, con un'altitudine media di 213 metri sopra il livello del mare. Non si può dar torto agli Autori quando dicono che “almeno un terzo delle Comunità montane andrebbe chiuso”4: purtroppo, il proliferare di tali enti è stato una conseguenza della mancata ridefinizione di “montanità” che risale ancora agli anni '50 e che non appare più adatta all'attuale contesto socio-economico5. 4
Cfr. G.A. STELLA – S. RIZZO, La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Milano, 2007, 10. 5 Come osservato da Enrico Borghi nel suo commento al libro-inchiesta di G.A. Stella e S. Rizzo (riportato da M.T. PELLICORI, UNCEM: Opportunità da cogliere senza timori, in UNCEM NOTIZIE, maggio 2007, 10). In particolare, egli ritiene che esso abbia “messo in luce quello che l'UNCEM da tempo sostiene: la necessità di riformare le Comunità montane ma prima ancora di rivedere la definizione di montanità, che risale agli anni '50 e che è la causa principale delle ʻdistorsioniʼ denunciate dagli autori del libro”. Occorre, secondo Borghi, gestire in maniera migliore le risorse offerte dai territori montani, come acqua, energia e turismo, che potrebbero portare ad un notevole sviluppo dell'economia di tali territori. Quanto alla richiamata definizione di “montanità”, di anziana memoria, va specificato che “la Commissione censuaria centrale classificò i territori essenzialmente sulla base di due parametri: uno altimetrico e l'altro collegato al reddito imponibile medio per ettaro”. Tale classificazione “fu legata all'economia agricola dell'immediato dopoguerra, per cui, ai fini dell'intervento pubblico, i territori svantaggiati di collina e di pianura vennero equiparati alle situazioni critiche esistenti in montagna. Addirittura alla Commissione censuaria fu attribuito il potere di classificare montani i territori danneggiati da eventi bellici a prescindere dall'altitudine” [come osservato in UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione, 14 (documento finale alla Conferenza programmatica “Montagna 2015: nuove Comunità montane, nuove alleanze, nuova UNCEM” tenutasi a L'Aquila il 22-23 novembre 2007)]. Nel medesimo documento si evidenzia anche come sarebbe opportuno eliminare la distinzione tra Comuni montani e parzialmente montani, che porta ad avvantaggiare aree che non avrebbero alcun bisogno delle risorse e dei benefici previsti per le zone montane. Peraltro, si tratta di una questione che non è venuta a proporsi solo di recente: già nel 1985 il
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Non si devono, però, nemmeno fraintendere le loro parole, con le quali essi non hanno inteso proporre un'eliminazione pura e semplice dell'ente: anzi, è lo stesso Stella a esortare: “non chiudetele tutte, non sono solo carrozzoni in riva al mare”6. I territori e le popolazioni montane necessitano di assistenza, il Prof. G. C. De Martin, intervistato sull'argomento, parlava, in merito, di “tema incandescente, suscettibile di censura”, poiché si basa su parametri “alquanto artificiali” (cfr. M. BUSATTA, La Comunità punto di forza dei Comuni, in Comunità montana, gennaio 1985). Il problema è stato, più recentemente, analizzato anche da E. GAZ, La fretta dell'antipolitica, in Comunità montana, novembre 2007, 3, ove si osserva come la montagna evidenzi sempre più una “sfasatura tra la sua estensione reale e l'ampiezza che ne deriva invece sul piano giuridicoamministrativo”, che comporta la riduttività di un criterio basato esclusivamente su profili altimetrici. Come osservato dall'Autore, ciò costituisce un netto passo indietro rispetto quanto statuito dall'art. 27, comma 7, del TUEL, che impone alle Regioni di non fermarsi al dato metrico “ai fini della graduazione e differenziazione degli interventi di competenza delle Regioni e delle Comunità montane”, in quanto esso impone anche di tenere conto “dell'andamento orografico, del clima, della vegetazione, delle difficoltà nell'utilizzazione agricola del suolo, della fragilità ecologica, dei rischi ambientali e della realtà socio-economica”. Il giornalista richiama, in proposito, anche una sentenza della Consulta, la n. 370 del 30 dicembre 1985, nella quale il Giudice delle Leggi “aveva richiamato la necessità che il territorio montano venisse individuato sulla base di attenta ricognizione della qualitas delle zone considerate e non in applicazione di criteri formali o numerici. In quella sede la Consulta affermò l’esigenza di una approfondita valutazione delle caratteristiche intrinseche dei singoli terreni, escludendo la decisività del solo indice altimetrico o di quello redittuale”. Di conseguenza, appare necessario all'Autore, che la “montanità” sia ricollegata ad una serie di criteri, come “la acclività, la presenza di servizi, la densità territoriale, il modello economico locale, la dotazione infrastrutturale”, che al momento, invece, non sono affatto presi in considerazione. Significativa appare la pronuncia richiamata da Gaz: infatti, in tale sede, la Corte osserva come un riferimento altimetrico (700 metri) era previsto dal d.lgs. 27 giugno 1946, n. 98, che esentava i Comuni situati al di sopra di una tale altitudine dall'imposta sui terreni e da quella sul reddito agrario, e dal d.lgs.C.p.S. 7 gennaio 1947, n. 12, che estendeva la suddetta esenzione ai Comuni che fossero situati, solo in parte, a tale altitudine. Poi, con la legge. 25 luglio 1952, n. 991, il criterio altimetrico è stato assunto come “criterio qualificante escusivo del carattere montano di un territorio ed al solo fine del riconoscimento di un'agevolazione di carattere fiscale”. Dunque, come affermato dalla Corte, con tale legge si è giunti “ad una più precisa e diversa determinazione dei territori montani”, rappresentati, ai sensi dell'art. 1, dai “Comuni censuari situati per almeno l'80% della loro superficie al di sopra dei 600 metri di altitudine sul livello del mare e quelli nei quali il dislivello tra la quota altimetrica inferiore e la superiore del territorio comunale non è minore di 600 metri, sempre che il reddito imponibile medio per ettaro censito, risultante dalla somma del reddito dominicale e del reddito agrario (…), non superi le lire 2.400”. Peraltro, la medesima legge aveva previsto anche la possibilità di prescindere del tutto dal criterio altimetrico, potendo la commissione censuaria includere tra i Comuni montani quelli che, rispetto ai precedenti, avessero “pari condizioni economico-agrarie” (cfr. n. 3 del Considerato in diritto). La successiva legge 3 dicembre 1971, n. 1102, poi, per la definizione dei “territori montani” aveva rimandato a tre riferimenti legislativi (legge 25 luglio 1952, n. 991, legge 30 luglio 1957, n. 657 e legge regionale del Trentino – Alto Adige 8 febbraio 1956, n. 4), nessuno dei quali annoverava il criterio
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fatto è che una forma di tutela non deve trasformarsi in un abuso, in uno spreco di risorse pubbliche e in un mezzo per alimentare quella “casta” politica di cui negli ultimi anni molto si parla. Gli sprechi, inutile negarlo, effettivamente ci sono: € 8.100 spesi dalla Comunità montana Forlivese per aggiornare la banca dati; € 13.400 per un incarico di progettazione di un canile in quella dell'Appennino reggiano; € 10.000 per un incarico esterno di “tutor della creatività” nella Comunità Valle Imagna7. altimetrico dei 700 metri sul livello del mare (cfr. n. 4 del Considerato in diritto). Tutto ciò induce la Corte a ritenere “intimamente contraddittorio, da un lato tener conto del “reddito imponibile... che non superi le lire 2.400, della ʻpovertà dei territoriʼ, del loro ʻdegradamento fisicoʼ e ʻgrave dissesto economicoʼ, delle ʻcondizioni di disagio derivanti dall'ambiente montanoʼ, del ʻgrado di dissesto idrogeologicoʼ, delle ʻcondizioni economico-socialiʼ, delle ʻaree depresseʼ ai fini del riconoscimento di tutte le numerose provvidenze ed agevolazioni previste dalla legislazione in materia di territori montani e, dall'altro, negare a quegli elementi ogni rilevanza, allorchè un territorio, pur montano, sia sito ad un'altitudine inferiore ai 700 metri” (cfr. n. 5 del Considerato in diritto). 6 Così G.A. STELLA, Comunità montane. Non chiudetele tutte, in Corriere della Sera, 17 giugno 2008, riferendosi alle misure approntate dalla Finanziaria 2008. Secondo Stella, occorre sì eliminare la “montagna clientelare” ma occorre, altresì, salvare la “montagna vera”, che poco a poco sta morendo. Invece, egli rileva come non vi sia stato un opportuno distinguo e, a causa della “deriva clientelare” di alcune Comunità montane, tutte siano state considerate “l'anello debole”, “il simbolo più facile da colpire per dare una lezione” e abbiano conseguentemente subìto dei tagli abnormi, del tutto sproporzionati a quelle che il giornalista definisce “sforbiciatine”, che vi sono state in altri ambiti, come quello parlamentare e regionale. Opinione analoga è stata manifestata in La Casta, cit., 8, ove si osserva che “proprio perchè la montagna vera ha bisogno di essere aiutata, spicca l'indecenza della montagna finta”. Peraltro, si deve osservare come parole sostanzialmente analoghe siano state espresse dall'UNCEM, tramite la rivista da essa gestita: ci si riferisce, in particolare all'articolo di E. RACCA, Rimettiamoci in viaggio, in Comunità Montagna, gennaio-marzo 2010, 13, nel quale si ribadisce che “le Comunità montane sono state additate dall’opinione pubblica come simbolo di tutti gli sprechi della pubblica amministrazione, come foglie di fico per coprire sacche ampie di persistenti privilegi, come capri espiatori di numerose malefatte” e che “sotto la spinta emotiva, soltanto per le Comunità montane è stato affrettato un processo di rivisitazione, che andava invece affrontato in modo organico e generalizzato sulla base di un programma strategico supportato da elementi conoscitivi approfonditi e di verifiche puntuali sul campo. In questo clima di caccia alle streghe, le soluzioni poste in essere con i provvedimenti nazionali e regionali hanno provocato in alcuni casi effetti devastanti dagli esiti imprevedibili”. Nel medesimo articolo si provvede anche a, in qualche modo, “difendere” il tanto discusso libro: si rileva, infatti, che gli autori “hanno sempre riconosciuto la validità del modello, ma mal digerito la presenza di Comunità montane in territori pianeggianti e costieri” (E. RACCA, Rimettiamoci in viaggio cit., 14). 7 Gli esempi potrebbero continuare e sono stati ben evidenziati dall'inchiesta di A. FRASCHILLA, Una montagna di sprechi, pubblicata su Repubblica il 17 maggio 2012, nella quale si osserva come si continui da anni a sostenere spese inutili “in nome della montagna” e poi
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Tuttavia, questi numeri non dimostrano l'inutilità delle Comunità montane ma solo la loro utilizzazione contorta e l'impellente necessità di una riforma8: esse, infatti, hanno saputo dimostrare le loro capacità non solo nel campo della programmazione e progettazione ma anche nella fase esecutiva, realizzando importanti interventi nel settore dell'assistenza sociale, della tutela dell'ambiente, dello sviluppo delle energie alternative, del turismo, oltre a garantire i servizi scolastici, i presidi sanitari, la tutela del patrimonio artistico e culturale, la raccolta differenziata, le opere di bonifica del territorio e la gestione ottimale dei servizi comunali9; interventi che, per la maggior parte, interessano non si riesca nemmeno a gestire il patrimonio boschivo dei vari territori, con un considerevole aumento del rischio di dissesto idro-geologico. 8 Come osservato in UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione, cit., 5, ove si afferma che “chi ha mire soppressive concentra i propri argomenti sui pochi cattivi esempi piuttosto che sulla generalità degli enti che operano bene”. Se è vero che vi sono profonde “differenze di performance non sempre legate alla tricotomia Nord-Centro-Sud”, registrandosi esse anche all'interno di una medesima Regione, ciò comporta l'esigenza di analizzarne le cause e approntare una serie di politiche a livello nazionale e regionale volte a riequilibrare la situazione, attraverso “azioni di recupero, di innesto di più adeguate professionalità e se del caso di agganciamento a realtà più evolute”. 9 Cfr. UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione cit., 5 ove si osserva come “nelle zone dove si sono affermate, le Comunità montane sono diventate enti esponenziali dei territori di riferimento, interpretando in maniera adattiva le funzioni ad esse attribuite dalle varie leggi succedutesi dal 1971 in poi. In molte parti del Paese si sono affermate come istituzioni naturali, sicuramente più sentite come proprie dalla popolazione rispetto alle distanti Province ed alle ancora più irraggiungibili Regioni. L’ampia teoria degli interventi realizzati, che connotano in concreto l’assetto funzionale delle Comunità montane tracciato in maniera generica e astratta dalla legislazione, legittima più di ogni altro argomento la loro presenza nello scenario istituzionale, rafforza la loro ragion d’essere, il loro diritto ad evolversi in rapporto ai mutamenti dinamici che percorrono la società montana, oggi molto più vitale di quanto si creda”. Sull'essenzialità delle Comunità montane nei territori di montagna si veda anche F. BOCCIA, Le Comunità montane nel nuovo ordinamento degli enti locali, in www.federalismi.it, 23 ottobre 2003, 4, ove si rileva come già la Riforma del Titolo V abbia confermato l'importanza di tali enti, contribuendo al rilancio delle aree montane “attraverso la statuizione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Si evidenzia, infatti che “se sussidarietà significa attribuire all'istituzione territoriale più vicina ai cittadini le funzioni che può svolgere in modo adeguato, le Comunità montane possono rispondere a questo principio. Se differenziazione significa superare uniformismi amministrativi, duplicazioni e sovrapposizioni burocratiche, le Comunità montane, storicamente differenziate, e specifiche Unioni di Comuni montani possono rispondere a questo principio. Infine, se adeguatezza significa individuare, a partire dai Comuni, il livello istituzionale capace di rispondere meglio ai bisogni delle popolazioni amministrative, allora le Comunità
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un contesto più ampio di quello comunale, assumendo valenza comprensoriale, a riprova del fatto che le Comunità montane si sono rivelate la “proiezione visibile di una cultura politico-amministrativa maturata sui problemi generali di comunità più grandi e non sulle questioni spicciole riguardanti le singole realtà comunali”10. Gli amministratori montani non ci stanno, dunque, ad essere additati quali unici “spreconi”: viene evidenziato dal Presidente UNCEM Borghi come dai dati ISTAT risulti che a fronte di una capacità di spesa delle Comunità montane pari al 57,8% per le spese d'investimento e al 42,2% per le spese correnti, le percentuali siano notevolmente maggiori (rispettivamente 59% e 54%) quando si esamina la situazione di Comuni e Province11. Significativo in tal senso è anche il rapporto Censis del 2007 dal quale emerge che il “sistema montagna, dal punto di vista economico, è in crescita”: dalle stime relative al quadriennio 1999-2003 risulta che il tasso di crescita della montagna è superiore di ben quattro punti montane, in quanto Unioni di Comuni montani, possono rispondere a questo principio”. Si veda, inoltre, G. SOLA, Le Comunità montane ed isolane tra TUEL e Riforma del Titolo V, in Quaderni regionali, 2006, 775, in cui si osserva come, nonostante i buoni risultati conseguiti da molte Comunità montane, non si sia fatto “un ulteriore passo in avanti e cioè il riconoscimento costituzionale dell'ente montano”, essendo state le stesse “estromesse dal novero degli enti indefettibili” e relegate al ruolo di “enti locali di secondo grado”. L'Autore prosegue evidenziando come esse siano di importanza essenziale “in porzioni di territorio caratterizzate da marginalità e criticità” e come sia “oltremodo auspicabile la loro rivalutazione puntando sull'incentivazione della gestione centralizzata di servizi comunali, attraverso contributi ad hoc, adeguate capacità organizzative e gestionali, promozione, da parte dei Sindaci dei Comuni montani della gestione associata” (in proposito, l'Autore rimanda a E. RACCA, Territorio in cerca di una nuova identità, in Guida agli enti locali, 2002, 9). 10 Si veda in proposito UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione cit., 6, dove si evidenzia come le iniziative delle Comunità montane traggano origine “da sguardi lanciati al di là dei singoli campanili, da propositi unificanti, da intenti aggregativi, da necessità associative. Scaturiscono da strategie e programmi ideati sulla scorta di letture attente delle esigenze globali di vallate e comprensori”. 11 Cfr. M.T PELLICORI, UNCEM: un'opportunità da cogliere senza timori, cit., 10
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percentuali rispetto alla media nazionale (10,5% contro il 6,5%). Inoltre, dal medesimo rapporto, si evince un altro dato di particolare importanza: “esiste anche una montagna industriale”. Dei 2.215 Comuni in cui sono dislocati i 156 distretti industriali italiani, infatti, ben 870 sono montani (il 20,7% del complesso dei Comuni montani stessi). Di certo non si può parlare di un “peso” per le finanze italiane, anzi. Sono in primo luogo Regioni e Province autonome a incentivare il rifinanziamento del Fondo per la montagna e a porsi in contrasto con la politica governativa di disincentivo per gli enti montani, in quanto, in mancanza di un cambio di rotta, l'onere di fornire risorse per l'operatività delle Comunità montane ricadrebbe proprio su Regioni e Province, dal momento che la legge n. 97 del 1994 prevede l'istituzione di fondi regionali e provinciali destinati al cofinanziamento
delle
medesime12.
Inoltre,
risulterebbe
altresì
impossibile la realizzazione di interventi di importanza essenziale per i territori montani13. L'economia
montana
pare,
oltretutto,
avere
notevoli
potenzialità14: già da alcuni anni si assiste ad un'inversione di tendenza rispetto allo spopolamento proprio del dopoguerra, ravvisandosi un
12
In particolare, l'art. 2, comma terzo, della legge prevede che “le risorse erogate dal Fondo hanno carattere aggiuntivo rispetto ad ogni altro trasferimento ordinario o speciale dello Stato a favore degli enti locali. Le risorse sono ripartite fra le Regioni e le Province autonome che provvedono ad istituire propri fondi regionali per la montagna, alimentati anche con stanziamenti a carico dei rispettivi bilanci, con i quali sostenere gli interventi speciali di cui all'articolo 1”. 13 Cfr. Documento della Conferenza delle Regioni, Roma, 15 dicembre 2005. 14 Come evidenziato da F. BERTOGLIO in UNCEM – Mezzo secolo di storia, Roma, 2002, 14.
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sempre più intenso “ritorno” alla montagna15, con un conseguente sviluppo del turismo (maggiore fonte di entrata per la montagna, che necessita di essere ulteriormente potenziata) e degli insediamenti produttivi. Tuttavia, nonostante le buone basi di partenza, le difficoltà sono ancora molte: i costi sono maggiori per tutti gli aspetti della vita quotidiana (dal riscaldamento, alla spalatura neve, ai trasporti e collegamenti) e la soluzione non può essere quella di eliminare gli unici enti che, operando direttamente sul territorio, possono comprendere meglio di qualunque altra istituzione le esigenze delle popolazioni e farvi fronte in modo ottimale.
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Cfr. S. BERTIN, Analisi degli aspetti critici delle frazioni dei Comuni interamente montani della Regione Veneto in riferimento alla normativa statale, in Il diritto della Regione, 2010, 69. L'Autore osserva come lo spopolamento delle aree montane sia stato in continuo e evidente aumento dal 1951, con una lieve inversione di tendenza a partire dal 2001. Il picco si è registrato nel decennio 1971-1981, con un conseguente forte abbandono delle attività agricole (basti pensare che dal 1970 al 2000 la Superficie Agricola Utilizzata ha subito una riduzione del 36% nei nuclei montani abitati) e la situazione più critica si registra nell'alto bellunese, dove le caratteristiche morfologiche del territorio rendono particolarmente difficile la vita quotidiana nelle aree periferiche. Sussiste, tuttavia, una certa disomogeneità: se è vero quanto sopra affermato, si deve osservare come nelle aree montane situate al confine con le zone di pianura, la popolazione sia aumentata e non diminuita, grazie all'estensione delle corone urbane, che occupano anche i primi rilievi urbani. Peraltro, questa situazione rispecchia fedelmente quella europea: tra il 1870 e il 1991, mentre il 43% dei Comuni alpini ha subìto uno spopolamento pari alla metà degli abitanti, per il 10% di essi la situazione è stazionaria e per il 47% la popolazione è aumentata più del doppio. Tutto questo dimostra come il fenomeno dello spopolamento non vada valutato solo prendendo come termine di paragone la pianura ma considerando anche quanto accade all'interno del medesimo territorio montano, rispettivamente nelle aree più periferiche e nei centri urbani. Ciò appare di particolare rilevanza quando si analizzano i piani di intervento, che dovrebbero basarsi su una profonda conoscenza delle varie realtà locali ed essere caratterizzati da una maggiore specificità, in modo da tener conto di tutte le differenze reali, con una maggiore partecipazione delle popolazioni interessate e un rafforzamento della loro identità.
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2.2 Il “riordino della disciplina delle Comunità montane” imposto dalla Finanziaria 2008: la tensione tra esigenza di contenimento della spesa pubblica e di tutela di aree disagiate.
Un duro colpo è assestato alle Comunità montane dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008). L'art. 2, comma 17, impone il tanto atteso “riordino della disciplina delle Comunità montane” ai fini di “contenimento della spesa pubblica” (preannunciato già dal Testo Unico del 2000) ma con modalità quantomeno discutibili. Incaricate di procedere sono le Regioni, in conformità ad alcuni principi fondamentali, individuati dal successivo comma 18, che consentono di concretizzare in cosa dovrebbe risolversi il riordino: innanzitutto, riduzione delle Comunità montane, sulla base di criteri dimensionali, reddituali, altimetrici e altri; in secondo luogo, riduzione dei componenti dei relativi organi rappresentativi e, in terzo luogo, riduzione delle indennità dei componenti degli organi stessi. La norma non è meramente programmatoria bensì imperativa, prevedendo specifiche conseguenze destinate a prodursi in caso di sua mancata attuazione. In particolare, in base al comma 20, in questo caso cesseranno automaticamente di far parte delle Comunità montane i capoluoghi di Provincia, i Comuni costieri e quelli con più di 20.000 abitanti. Inoltre, saranno soppresse le Comunità che non rispondano a determinati requisiti dimensionali e altimetrici (80% del territorio ad un'altitudine superiore ai 500 metri s.l.m. Percentuale che scende al
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50% quando il dislivello del territorio è superiore a 500 metri e il limite di altitudine e di dislivello sale a 600 metri per le Regioni alpine) e quelle composte da meno di cinque Comuni (salvo che non sia possibile costituirne di nuove con più di cinque, fermi restando gli obiettivi di risparmio). Infine, per le rimanenti Comunità montane, è previsto che gli organi consiliari siano composti in modo tale da garantire la presenza delle minoranze (tenendo conto del fatto che “ciascun Comune non può indicare più di un membro”)16. Le premesse sono chiare ma volgendo l'attenzione a quella che è stata la concreta applicazione della legge, quando applicazione v'è stata, si deve riscontrare come le Regioni abbiano reagito nel modo più disparato e la situazione, a più di tre anni dall'emanazione della legge, risulti nel complesso piuttosto eterogenea, se non caotica17: accanto ad alcune Regioni (come Basilicata, Molise, Liguria, Puglia) che hanno posto in liquidazione le Comunità montane, prevedendo varie soluzioni alternative, ve ne sono state altre (come Piemonte, Lazio e Campania) che hanno provveduto all'emanazione di una legge di riordino per la loro trasformazione in Unioni di Comuni18. 16
Sull'argomento si veda R. FILIPPINI – A. MAGLIERI, Le forme associative tra enti locali nella recente legislazione regionale: verso la creazione di differenti modelli ordinamentali, in Le Istituzioni del Federalismo, 4/2008, 353, ove si osserva che “l'esigenza di garantire la rappresentanza delle minoranze” pare derivare già “dai principi generali dell'ordinamento, se consideriamo che le Comunità montane, come le Unioni, possono svolgere in forma associata anche funzioni comunali ʻregolativeʼ, ordinariamente spettanti nei singoli Comuni ai Consigli comunali”. Si rileva, inoltre, come “per adottare atti di questo tipo anche l'ente associativo, in questo caso la Comunità montana, dovrebbe essere dotato di un organo rappresentativo in cui, come avviene nei consigli comunali, sia garantita la rappresentanza delle minoranze. È evidente che un organismo composto da soli Sindaci o da un solo rappresentante per singolo Comune sembra non fornire una simile garanzia” 17 Tanto che è stato rilevato come sia stato “smontato in tutta fretta un sistema di rapporti e sintonie faticosamente costruiti nel tempo senza andare troppo per il sottile” (E. RACCA, Rimettiamoci in viaggio cit., 20). 18 Ciò è stato evidenziato anche nella sopra citata inchiesta di A. FRASCHILLA, Una
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Posizione peculiare è stata assunta dalle Regioni Toscana e Veneto che, dopo aver subito gli effetti della legge citata, hanno ravvisato nella medesima una lesione delle competenze loro costituzionalmente garantite e non hanno mancato di adire a tal proposito la Consulta, con esito (come si vedrà nel proseguio della trattazione), almeno parzialmente, positivo19. Per quanto concerne le Comunità poste in liquidazione, il termine non significa certo che le stesse abbiano cessato tutt'un tratto di esistere, travolgendo con sé tutti i rapporti pendenti: esse sono state poste in liquidazione, appunto, e come in ogni procedura di liquidazione, ciò comporta che prima di proclamare la definitiva estinzione si debba procedere al pagamento dei creditori e questo, dopo un triennio, in molti casi non è ancora avvenuto20. Il motivo è semplice: com'è possibile procedere ai pagamenti senza alcuna risorsa da cui attingere? Si deve ricordare, infatti, che il Fondo Nazionale per la montagna è stato completamente azzerato dal 2011 e già prima era di ammontare alquanto esiguo. Inoltre, la legge 6 agosto 2008, n. 133 (c.d. “Manovra montagna di sprechi. In proposito si veda anche R. FILIPPINI – A. MAGLIERI, Le forme associative tra enti locali nella recente legislazione regionale, cit., 346, in cui si osserva come “le Regioni che entro il termine del 30 giugno hanno legisferato in adeguamento alle disposizioni della legge finanziaria sono 12 delle 15 che vi erano tenute” e “nessuna di queste leggi è stata impugnata dinanzi alla Corte costituzionale per le norme relative al riordino delle Comunità montane e delle forme associative”. 19 È stato osservato che, probabilmente, le altre Regioni non hanno proceduto ad impugnare le norme della legge n. 244 perchè “è stato generalmente ritenuto condivisibile l'obiettivo ad esse sotteso, e cioè quello di razionalizzare ed ammodernare l'ordinamento delle Comunità montane, per ridurne i costi ed incrementarne l'efficienza” (in tal senso, R. FILIPPINI – A. MAGLIERI, Le forme associative tra enti locali nella recente legislazione regionale, cit.). 20 Osserva sulla questione il Presidente UNCEM Enrico Borghi, nell'intervista edita su Repubblica cit., che “se gli enti hanno ancora dei debiti o dei crediti non possono chiudere. Le competenze passano ad altri ma non i soldi”. Egli osserva poi come, aggiungendo a questo dato di fatto le lungaggini della burocrazia italiana, si giunge alla situazione attuale.
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estiva”) ha ridotto i trasferimenti statali a favore delle Comunità montane di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2009 al 201121. Ne consegue un circolo vizioso: per risparmiare risorse pubbliche si tagliano i fondi ma senza fondi risulta impossibile la soppressione delle Comunità montane, dal momento che la fase di liquidazione non può essere portata a termine. Senza tener conto dell'ulteriore problema, affatto marginale, del personale impiegato: le Regioni devono farsi carico anche del mantenimento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato sussistenti all'entrata in vigore della legge22 ma non c'è alcun altro ente disposto all'assunzione (vige anche il blocco del turn-over), con la conseguenza che continuano ad essere pagati stipendi di impiegati di un ente che non dovrebbe nemmeno più esistere23! 21
Come evidenziato da S. MUTTONI, Punti fermi in tema di Comunità montane? Prime note a Corte cost., sent. 24 luglio 2009, n. 237, in Il diritto delle Regioni, maggio - agosto 2009, 247, la quale sottolinea come ciò sia accaduto mentre era pendente il giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto le disposizioni in materia di Comunità montane della Finanziaria 2008 (che sarà in seguito esaminato), e da P. MARBIOLI - R. TOMMASI, Il riordino territoriale e istituzionale delle Comunità montane, in Le Istituzioni del Federalismo, Supplemento 4/2008, 27. Con riferimento ai continui tagli per gli enti locali si veda G. GARDINI, Le autonomie ai tempi della crisi, in Le Istituzioni del Federalismo, 3/2011, 458, in cui si osserva come “ciò che colpisce, in questa serie di interventi a ondate, è l’approccio squisitamente economico utilizzato dal legislatore, cui fa da pendant la totale assenza di un disegno organico di riforma istituzionale, la disattenzione alle tematiche sociali coinvolte dal riassetto istituzionale, l’indifferenza ai vincoli costituzionali. Le istituzioni, soprattutto quelle decentrate, sono trattate come meri capitoli di spesa da tagliare, numeri da ridurre, mentre il legislatore dell’urgenza non sembra tenere in alcuna considerazione il fatto che, in assenza di risorse adeguate, gli enti territoriali non potranno fare altro che tagliare i servizi pubblici, ridurre le politiche a sostegno delle famiglie e delle imprese, e in definitiva ʻabbassareʼ lo Stato sociale. Ciò che salta all’occhio in questa riforma ʻa ondateʼ è la mancanza di una pars construens, di quella sistematicità indispensabile anche nell’urgenza: in questo modo, lo stratificarsi di tanti interventi frammentari rischia di seppellire defi nitivamente il modello autonomistico tratteggiato dalla nostra Carta costituzionale, senza però proporne uno alternativo”. 22 Ciò è espressamente sancito dal comma 22 dell'art. 2 della legge n. 244 del 2007. 23 “Nessuno li vuole. Nessuna legge ha spiegato come dislocarli”, come affermato da Borghi nell'intervista su Repubblica cit. Con la conseguenza che continua di fatto a esistere anche la tanto discussa Comunità montana Murgia Tarantina (quella resa famosa dal libro di Stella-Rizzo),
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L'incongruenza della legge è evidente. Gli interventi ivi disposti non consentono di certo il raggiungimento dello scopo perseguito: la spesa pubblica in questo modo non può subire una contrazione ma, al contrario, solo un nuovo aumento. Aumento che, oltretutto, non porta alcun beneficio alle zone montane, tanto che si crea il paradosso per cui non c'è modo di sostenere i territori montani per le loro esigenze quotidiane, ma occorre comunque procedere al pagamento di lavoratori che, di fatto, non svolgono e non possono svolgere alcuna mansione. Come detto, le Comunità montane, oltre ad essere messe in liquidazione, in alcuni casi sono state sostituite con altre formule organizzative: si possono citare in proposito le “Aree di programma”, istituite dalla Regione Basilicata con la legge regionale 30 dicembre 2010, n. 3324, la “Agenzia regionale per lo sviluppo dei territori montani”, istituita in Molise con la legge regionale 24 marzo 2011, n. 625 e gli “Sportelli per il territorio”, istituiti in Liguria con la legge regionale 12 aprile 2011, n. 726. La Regione Puglia ha previsto, invece, comprensiva del Comune di Palagiano, situato a 39 metri s.l.m. 24 In particolare, all'art. 23 della legge si stabilisce che “al fine di agevolare e favorire il concorso delle Amministrazioni locali nell’impostazione e nell’attuazione delle politiche pubbliche a scala locale nonché promuovere e rafforzare la coesione economico-sociale e territoriale, la Regione Basilicata attiva, di concerto con l’ANCI e l’UPI, il processo costitutivo di aree programma a scala locale”. Quanto alla struttura, esse sono state pensate come una “convenzione tra Comuni con l'individuazione di un Comune capofila, con schemi organizzativi e deleghe al Comune capofila e trasferimento da parte della Regione delle strutture e del personale delle disciolte Comunità Montane” (si veda in proposito www.uncem.it/copertine). 25 All'art. 14 essa è definita “ente strumentale, dotato di personalità giuridica e autonomia amministrativa” che “rappresenta la sede vocata a coordinare e rendere più incisive le politiche di sviluppo, in particolare nei settori strategici dell'agricoltura di montagna e delle risorse ambientali”. Anche in questo caso si prevede che la copertura organica avvenga “prioritariamente con personale trasferito dalle soppresse Comunità montane” (art. 14, comma 9). 26 In particolare, la Regione Liguria ha provveduto, dapprima, con la legge regionale 29 dicembre 2010, n. 23, alla eliminazione delle Comunità montane e poi, con la legge regionale 12 aprile 2011, n. 7, al trasferimento delle funzioni da esse un tempo esercitate alla Regione, la quale
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con legge regionale 25 febbraio 2010, n. 5, che le funzioni delle soppresse Comunità montane siano esercitate dai “Comuni in forma associata”27. Altre Regioni hanno proceduto all'emanazione di una “legge di riordino”, come, ad esempio Piemonte, Lazio, Campania ed Emilia Romagna28. Dall'esame delle nuove normative emerge come si sia “spezzato il dogma della unitarietà dell'ordinamento delle Comunità montane”, “si impegna a istituire ʻsportelli per il territorioʼ in grado di dare immediata ed adeguata consulenza all’utenza” (art. 2, comma 2). 27 Così l'art. 5, comma 2. Inoltre, al comma 3, si prevede che “in caso di mancata costituzione di forme associative tra i Comuni già facenti parte della Comunità montana soppressa o nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello ottimale di esercizio delle funzioni da trasferire, le stesse sono esercitate dalle Province territorialmente competenti”. 28 Quanto alla Regione Piemonte il riferimento è alla legge regionale 01 luglio 2008, n. 19, che, all'art. 2, ha stabilito in ventitré il numero massimo delle zone omogenee in cui possono essere costituite le Comunità montane (contro le quarantotto di un tempo) e che, all'art. 36, ha statuito che “i Comuni già inclusi in Comunità montana, in numero non inferiore a cinque, possono deliberare di proporre la costituzione in Unioni di Comuni, purché ciò non pregiudichi l’omogeneità del territorio”. Peraltro, con riferimento a questa Regione, va ricordato anche quanto statuito all'art., comma 2, dello Statuto regionale, in forza del quale “la Regione, ispirandosi al principio di sussidiarietà, pone a fondamento della propria attività legislativa, amministrativa e di programmazione la collaborazione con le Province, i Comuni e le Comunità montane, nonché con (…) per realizzare un coordinato sistema delle autonomie” e da cui si può dedurre la scelta di “equiparare le Comunità montane agli altri enti territoriali nella logica della distribuzione delle competenze, ovviamente privilegiando l'allocazione al livello territoriale migliore, nel rispetto dei principi della differenziazione e dell'adeguatezza” (così S. FOA', La sopravvivenza “finanziariamente condizionata” delle Comunità montane, in www.federalismi.it, 23 gennaio 2008, 8). Anche la Regione Lazio, con la legge regionale 02 dicembre 2008, n. 20, ha ottemperato a quanto imposto dalla Finanziaria 2008 con un “accorpamento delle Comunità montane attualmente esistenti, che non potranno comunque superare il numero complessivo di quattordici” (art. 8, comma 2). Inoltre, vengono imposti anche alcuni requisiti per le nuove Comunità montane: popolazione e superficie montana superiore al 50% e numero di Comuni non inferiore a cinque (art. 8, comma 3). Per quanto riguarda la Regione Campania, essa con la legge regionale 30 settembre 2008, n. 12, persegue la finalità del “riordino della disciplina delle Comunità montane e dell’esercizio associato di funzioni e servizi comunali, al fine di elevare il livello di qualità delle prestazioni e di ridurre complessivamente gli oneri organizzativi, procedimentali e finanziari, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (art. 1) e, all'art. 3, individua gli ambiti territoriali delle venti Comunità riconosciute esistenti nel territorio. Infine, la Regione Emilia-Romagna, con la legge regionale 30 giugno 2008, n. 10, provvede al riordino attraverso l'accorpamento, lo scioglimento, la fusione delle Comunità montane e la loro eventuale trasformazione in Unioni di Comuni (v. art. 4, comma 2).
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dal momento che notevole è il distacco dal modello previsto dall'art. 27 del TUEL, che risulta adattato alle esigenze di ogni singolo territorio29. Significativa appare anche la scelta del ruolo da assegnare ai Sindaci nell'ambito delle “nuove” Comunità montane: in Emilia Romagna e nelle Marche, gli organi fondamentali delle Comunità montana devono essere composti da Sindaci; la Toscana prevede la possibilità, in alternativa alla precedente, della Conferenza dei Sindaci; Umbria, Lombardia e Campania hanno optato nel senso di garantire che le giunte siano composte da Sindaci o Assessori mentre, altre Regioni, prevedono che i Sindaci facciano parte degli organi assembleari rappresentativi o di questi e degli organi esecutivi. È stato osservato come si tratti di un aspetto di fondamentale importanza, “non tanto in ragione del risparmio di spesa che comporta (il Sindaco, l'Assessore o il Presidente dell'ente associativo non cumula una nuova indennità a quella che gli spetta), ma come scelta politica legata all'idea che gli enti associativi non debbano mai configurarsi come enti terzi, autonomi e potenzialmente contrapposti ai Comuni che vi aderiscono, bensì come soggetti che portano a sintesi le istanze e i bisogni dei Comuni stessi, conseguendo quella “adeguatezza” dimensionale
che
spesso
manca
ai
Comuni
singolarmente
considerati”30. 29 In tal senso, R. FILIPPINI – A. MAGLIERI, Le forme associative tra enti locali, cit., 348. Le Autrici osservano come l'art. 27 cit. “configurava un assetto tripartito degli organi, con un Presidente, un organo rappresentativo con l'obbligo di garantire la rappresentanza delle minoranze ed un organo esecutivo che non doveva eccedere, per numero, un terzo dei consiglieri. La legge disponeva, inoltre, che i componenti degli organi dovessero tutti rivestire la carica di assessore, consigliere o sindaco di uno dei Comuni partecipanti”, mentre, “le leggi regionali si scostano in modo più o meno incisivo da tale modello”. 30 In tal senso, R. FILIPPINI – A. MAGLIERI, Le forme associative tra enti locali nella recente legislazione regionale, cit., 350.
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In ogni caso, il bilancio complessivo di tutte queste discipline non può dirsi soddisfacente. È stato osservato come la Finanziaria 2008 abbia comportato un “approccio sbrigativo, superficiale, spesso strabico sulla questione della semplificazione istituzionale e amministrativa e dell'efficienza nell'uso delle risorse pubbliche”, il cui esito è quello di “programmi lasciati a metà, progetti incompiuti, rapporti recisi, amministratori sfrattati senza troppo riguardo, dirigenti impiegati e maestranze allo sbando”31. Se l'esito complessivo degli interventi finora attuati è questo, occorre chiedersi quale sia, invece, la soluzione più opportuna, che consenta di coniugare le esigenze economiche con quelle di tutela dei territori montani32. Innanzitutto, il modello dell'ente “Comunità montana” è da abbandonare? Va rilevato come esso, sebbene tanto criticato, abbia finito con l'essere emulato, con l'istituzione delle Comunità isolane e di
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Si veda in proposito E. RACCA, Rimettiamoci in viaggio, cit., 20. L'Autore osserva come “sotto la spinta emotiva, soltanto per le Comunità montane è stato affrettato un processo di rivisitazione, che andava invece affrontato in modo organico e generalizzato sulla base di un programma strategico supportato da elementi conoscitivi approfonditi e di verifiche puntuali sul campo” e come “gli interventi legislativi e regionali, posti in essere sul finire del 2007 e durante tutto il 2008, hanno destrutturato per sottrazione le Comunità montane. Alcune di essere sono state soppresse, altre accorpate, altre ancora sfigurate. La montagna legale non si sa più che cosa sia. È stato insomma smontato in tutta fretta un sistema di rapporti e sintonie faticosamente costruiti nel tempo senza andare troppo per il sottile. Sul campo è rimasto il prodotto di una ʻriformaʼ improvvisata”, 32 Cfr. S. FOA', La sopravvivenza “finanziariamente condizionata” delle Comunità montane, cit., 9, ove si rileva come “la corretta riqualificazione della montanità, cui è chiamato il legislatore regionale, può essere ed anzi deve diventare un utile strumento per valorizzare il ruolo delle Comunità montane quali enti di governo del territoro, ancor più adeguati allo svolgimento delle correlate funzioni, proprio (o comunque anche) per effetto di tale processo di razionalizzazione”.
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arcipelago e delle Unioni di Comuni33. Quindi, l'idea dell'accorpamento dei piccoli Comuni appare ancora la migliore, ma va gestita in maniera diversa da quanto fatto fino ad ora: si ritiene che, nella fase di transizione, essi non debbano essere abbandonati e oberati di compiti difficili per loro da attuare ma, al contrario, vadano affiancati da enti di secondo livello, quali le Comunità montane, che dovranno progressivamente assumerne le funzioni per, un domani, prendere il loro posto nell'azione di governo, diventando i futuri Comuni medio-grandi, il c.d. “Comune dei Comuni”34. Inoltre, in questo processo le Comunità montane partono non poco avvantaggiate, non essendo nuove a questo tipo di forma di collaborazione35; pertanto, esse appaiono maggiormente idonee rispetto ad altri enti (in primis le Unioni di Comuni, di recente 33
Come osservato in UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione cit., 12, dove si evidenzia come “la struttura funzionale, i modelli organizzativi politici e burocratici, i profili associativi, i documenti programmatori utilizzati nelle isole minori ed in misura molto più ridotta dalle Unioni di Comuni sono mutuati dal mondo delle Comunità montane, modello precursore di enti di secondo livello, tanto osteggiato quanto copiato”. In particolare, per quanto riguarda le Unioni di Comuni, si ricorda che esse sono state disciplinate già con la l. n. 142 del 1990 e la relativa disciplina è, poi, confluita nel T.U degli Enti Locali del 2000, che le ha definite come “enti locali costituiti da due o più Comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza” (art. 32). Esse sono viste con favore anche dalla legge 5 maggio 2009, n. 42 (“Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione”) che, all'art. 12, lett. f), prevede “forme premiali per favorire unioni e fusioni tra Comuni, anche attraverso l'incremento dell'autonomia impositiva o maggiori aliquote di compartecipazione ai tributi erariali”. 34 In tal senso si esprime l'UNCEM in Le Comunità montane: continutà nella tradizione, discontinuità nell'azione, cit. 13. In merito al “Comune dei Comuni” si afferma che esso diventerà “il Comune grande che accorpa in una unica dimensione istituzionale i piccoli Comuni associati, che li sostituisce in tutto e per tutto, che ne rilancia l'azione di sviluppo in un'ottica di maggiore coesione, lasciando agli originari municipi le più abbordabili incombenze di vita quotidiana”. 35 Ciò è stato rilevato anche da A. MISIANI – F. R. FRIERI, Proposta per i piccoli Comuni: associarli ma non cancellarli, in L'Unita, 22 agosto 2011, 17, secondo i quali “le 337 Unioni di Comuni e le 264 Comunità montane attualmente esistenti” possono “costituire, se opportunamente ripensate, il perno di una radicale riorganizzazione del sistema dei servizi comunali”.
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istituzione) a trasformarsi nel citato “Comune dei Comuni” in quanto esse “hanno già sperimentato in aree omogenee esperienze di convivenza, hanno già superato attriti e contrapposizioni, hanno già interpretato politiche di sviluppo, hanno raggiunto le giuste sintonie”36. Corollario di ciò è che l'UNCEM reputa quanto previsto dalla Finanziaria 2008 “inopportuno e controproducente”, in quanto “in diverse realtà interrompe traumaticamente quel rapporto consolidato di convivenza tra i Comuni di un comprensorio, quell'abituarsi a stare insieme destinato a tramutarsi col tempo in aggregazione definitiva”37. La questione relativa alle sorti delle Comunità montane sarà ripresa, come anticipato, dalle Regioni Toscana e Veneto, che con i loro ricorsi hanno richiamato l'attenzione della Consulta sul punto.
2.3 Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni Veneto e Toscana all'indomani della legge 24 dicembre 2007, n. 244. Le censure prospettate e la risposta del Giudice delle leggi tra punti controversi e sostanziale “svuotamento” della competenza regionale in materia di Comunità montane.
Le Regioni Veneto e Toscana hanno ravvisato nelle disposizioni della legge 24 dicembre 2007, n. 244 un'illegittima lesione delle competenze loro costituzionalmente garantite in materia di Comunità 36
Cfr. UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione, cit., 13. È evidente, peraltro, che affinchè tale modello funzioni è necessario che il futuro “Comune dei Comuni” sia dotato degli opportuni strumenti, anche finanziari, per poter operare al meglio. 37 Cfr. UNCEM, Le Comunità montane: continuità nella tradizione, discontinuità nell'azione, cit.
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montane. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Regione Veneto con il ricorso n. 19 del 5 marzo 2008 (G.U. n. 16 del 9 aprile 2008) e dalla Regione Toscana con il ricorso n. 16 del 27 febbraio 2008 (G.U. n. 14 del 26 marzo 2008) ed è sfociata nella sent. 24 luglio 2009, n. 237. I due ricorsi possono essere esaminati congiuntamente (come, del resto, ha fatto la stessa Corte), in quanto le censure in essi contenute presentano numerosi profili di analogia. Come ricordato dalla Regione Veneto, “con le disposizioni impugnate il legislatore impone alle Regioni di effettuare, con proprie leggi, un riordino della disciplina delle Comunità montane, ad integrazione di quanto previsto dall'art. 27 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267/2000), sulla base di “principi fondamentali” contestualmente dettati. Ciò al fine di ridurre la spesa corrente per il funzionamento di un importo pari ad almeno un terzo della quota del fondo ordinario statale assegnato per l'anno 2007 all'insieme delle Comunità montane presenti nella Regione”. Peraltro, osserva la ricorrente, “lo Stato prevede una peculiare forma di intervento sostitutivo-sanzionatorio: ove, infatti, le Regioni non dovessero provvedere al suddetto riordino nel breve termine di sei mesi dall'entrata in vigore della legge finanziaria, sono previste la modificazione e, in alcuni casi, la soppressione ex lege delle Comunità montane secondo i criteri indicati allo stesso comma”38. Sono queste considerazioni di base che inducono le due Regioni 38
Cfr. Fatto e diritto del ricorso in esame.
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a ravvisare nell'intervento legislativo una lesione dell'autonomia regionale costituzionalmente garantita39 e, altresì, del principio di leale collaborazione. Punto cruciale di entrambi i ricorsi è rappresentato dai commi 17 e 18 della legge impugnata40, considerati in contrasto con l'art. 117 Cost. È opinione delle ricorrenti che la materia “Comunità montane” sia di competenza legislativa residuale delle Regioni, avendo, perciò, quale unico limite il rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali41. Due sono i precedenti che si possono richiamare (e che le Regioni hanno richiamato) sul punto: si tratta della sentenza
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giugno 2005, n. 244 e della sentenza 23 dicembre 2005, n. 456, che rappresentano, tra l'altro, le prime pronunce con cui la Corte ha trattato ampiamente la tematica delle Comunità montane dopo la Riforma del Titolo V42. 39
In particolare, in merito alle disposizioni costituzionali prese come parametro di riferimento, va notato che mentre per la Regione Toscana esse sono rappresentate solo dagli artt. 117, 118 e 127 Cost., per il Veneto, in aggiunta agli stessi (e con esclusione dell'art. 127), vengono il considerazione anche gli artt. 3, 97 e 119 Cost. 40 Si ricorda che in base al comma 17 “le Regioni, al fine di concorrere agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, provvedono con proprie leggi, sentiti i consigli delle autonomie locali, al riordino della disciplina delle Comunità montane, ad integrazione di quanto previsto dall'art. 27 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al d. lgs. 18 agosto 2002, n. 267, in modo da ridurre a regime la spesa corrente per il funzionamento delle Comunità montane stesse per un importo pari almeno ad un terzo della quota del fondo ordinario di cui al comma 16, assegnata per l'anno 2007 all'insieme delle Comunità montane presenti nella Regione” mentre, il comma 18 prevede una serie di “principi fondamentali” di cui le leggi regionali dovranno tener conto nell'attuare il suddetto riordino e che sono stati esaminati nel § 2.2. 41 Cfr. Diritto del ricorso della Regione Toscana, confermato dalla lettura dell'art. 117, comma 1, Cost. 42 Come osservato in P. VIPIANA, In margine a due recenti pronunce della Corte costituzionale sulle Comunità montane: commento congiunto delle sentenze nn. 244 e 456 del 2005, in Quaderni regionali, 2006, 701. L'Autrice precisa come, nelle decisioni precedenti, la Corte si sia “limitata a citare le Comunità montane, parlando di finanziamenti ad esse o annoverandole tra gli enti pubblici”.
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Nel primo caso si è davanti a un giudizio di legittimità costituzionale sollevato dal TAR del Molise avverso l'art. 17 della legge regionale 8 luglio 2002, n. 12 (“Riordino e ridefinizione delle Comunità montane), ritenuto in contrasto con numerose disposizioni costituzionali, tra le quali proprio il già citato art. 11743. Rilevante per l'argomento che qui interessa è la statuizione della Corte di cui al n. 4 del Considerato in diritto, ove viene valutata la collocazione delle Comunità montane nel sistema delle autonomie. La Consulta, infatti, evidenzia come “l'evoluzione della legislazione in materia si caratterizzi per il riconoscimento alla Comunità montana della natura di ente locale autonomo, quale proiezione dei Comuni che ad essa fanno capo” e come le normative che si sono susseguite nel corso degli anni abbiano precisato la natura giuridica di tali enti44, che 43
In particolare, “l'ordinanza di rimessione è stata emessa nella fase cautelare del giudizio avente ad oggetto azione popolare, ex art. 9 del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali)” promossa da alcuni cittadini del Comune molisano di Castellino del Biferno contro la Regione, per l'annullamento del decreto n. 17 del 27 gennaio 2003 che prevedeva lo scioglimento della Comunità montana “Molise centrale” e il suo commissariamento (cfr. Ritenuto in fatto della sentenza in esame). Il TAR ritiene la norma illegittima quanto all'assegnazione al Presidente della Giunta regionale del potere di decretare lo scioglimento, la sospensione e il commissariamento del Consiglio della Comunità montana, premettendo che “non vi è dubbio che, in materia di Comunità montane, le Regioni abbiano il potere di darsi una propria disciplina, senza neppure il limite rappresentato dal rispetto dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato, considerato che non si tratta di legislazione concorrente e che il primo comma dell'art. 117 della Costituzione pone quali unici vincoli al potere di normazione regionale quelli costituiti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” ma che, tuttavia, la Comunità montana “non è un ente sub-regionale, ma un ente a carattere associativo intercomunale, una forma di rappresentanza di Comunità, vale a dire di collettività qualificate dall'appartenenza alla zona di montagna”, con la conseguenza di essere assoggettata ai principi per l'ordinamento dei Comuni di cui al d. lgs. n. 267 del 2000. Pertanto, il giudice a quo ritiene che “la riserva di legge statale che copre la materia elettorale, nonché la disciplina degli organi di governo e delle funzioni fondamentali degli enti locali debbano essere estese, per ragioni di coerenza e sistematicità dell'ordinamento, anche all'elezione e al funzionamento degli organi della Comunità montana” e che “la previsione di un potere regionale di controllo sostitutivo sugli enti montani, contenuta in una legge regionale, collide con il riconoscimento della parità di rango costituzionale tra Regione e Comuni di cui all'art. 114 Cost., nonché con la riserva di legge statale di cui all'art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.” (cfr. Ritenuto in fatto della sentenza in esame). 44 Osserva la Corte come le Comunità montane siano state prima qualificate come “unioni
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vanno, alla luce di ciò, considerati come ʻun caso speciale di unioni di Comuniʼ45. Nel secondo riferimento giurisprudenziale, la Corte nel dichiarare “non fondate” le questioni sollevate dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito all'art. 16, comma 1, della legge della montane” (art. 28 della legge n. 142 del 1990) e poi come “unioni di Comuni, enti locali costituiti fra Comuni montani” (art. 27 del d. lgs. n. 267 del 2000). 45 È la Corte stessa a richiamare, in proposito, un ulteriore precedente, la sent. n. 229 del 2001, ove essa ha sostenuto che le Comunità montane sono state “create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei Comuni montani, ʻfunzioni proprieʼ, ʻfunzioni conferiteʼ e funzioni comunali” (cfr. n. 2.1 del Considerato in diritto). La pronuncia aveva ad oggetto la legittimità dell'art. 2 della delibera legislativa n. 86-ter (“Indennizzo forfetario spettante ai coordinatori dei servizi sociali, soppressione delle Comunità montane e modalità istruttorie delle domande di agevolazione per le iniziative finanziate dal Fondo regionale per lo sviluppo della montagna”) emanata dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, che il Governo considerava in contrasto con numerose disposizioni statutarie e costituzionali, in quanto la potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di “ordinamento degli enti locali e relative circoscrizioni”, riconosciuta dallo Statuto, non si estende alla disciplina delle Comunità montane, non comprese, secondo il ricorrente, nell'alveo degli “enti locali” citati. Nella sentenza, la Corte, dichiarando “non fondata” la questione sollevata, chiarisce la qualificazione delle Comunità montane, affermando che le stesse “entrano nel novero degli ʻenti localiʼ, precisamente quali ʻaltri enti localiʼ a norma degli artt. 118, primo e terzo comma, e 130, primo comma, della Cost.” (cfr. n. 2.1 del Considerato in diritto). La Consulta prosegue, poi, osservando come le stesse contribuiscano a “comporre il sistema delle autonomie sub-regionali, pur senza assurgere a enti costituzionalmente o statutariamente necessari” e costituiscano “strumenti organizzativi del sistema delle autonomie locali” (così la Corte ancora nel n. 2.1 del Considerato in diritto). Proprio sulla base di questa qualificazione, la Corte conclude nel senso del riconoscimento della potestà legislativa regionale in materia di Comunità montane, sulla base ed entro i limiti dell'art. 4 dello Statuto (che, al n. 1-bis annovera tra le materie di competenza esclusiva della Regione quella relativa all'ordinamento degli enti locali). È stato osservato come “le funzioni proprie sono quelle identificative del tipo di ente in quanto ente di governo di una determinata comunità” e l'averle attribuite alle Comunità montane, rende le stesse enti costituzionalmente necessari: infatti, “le funzioni proprie sono quelle identificative del governo territoriale montano. In base al principio affermato dalla Corte, queste funzioni non possono ormai non essere riconosciute in capo a detto ente, e non possono perciò essere trasferite altrove: la Comunità montana diviene ente locale necessario (perciò non sopprimibile dalla legge); le sue funzioni di base si manifestano come funzioni necessarie del governo territoriale” (cfr. V. CERULLI IRELLI, Le Comunità montane (sulla sentenza della Corte costituzionale n. 244 del 2005) – Relazione al Convegno UNCEM, Roma, 29 settembre 2005, in www.astrid-online.it, 15 marzo 2006, 4). Inoltre, la qualificazione data dalla Corte alle Comunità, fa sì che, tanto le Regioni a statuto speciale quanto quelle ordinarie, (in virtù del parallellismo sussistente tra le due), abbiano “il potere di istituire o sopprimere le Comunità montane, purchè sia assicurata ai Comuni interessati, l'effettiva partecipazione all'esercizio di tale potere” (cfr. G. SOLA, Le Comunità montane e isolane tra TUEL e Riforma del titolo V, cit., 775, che rimanda a E. RACCA, Le Comunità montane, in Guida normativa, 2002, 293).
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Regione Puglia 4 novembre 2004, n. 20 (“Nuove norme in materia di riordino delle Comunità montane”), considerata in contrasto con gli artt. 114 e 117 Cost., e agli artt. 1 e 4 della legge della Regione Toscana 29 novembre 2004, n. 68 (“Norme in materia di Comunità montane”), sospettata di illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 97, 114 e 117 Cost., osserva come i ricorsi importino la necessità di stabilire se e in che limiti lo Stato sia competente (a seguito della Riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione) a disciplinare le Comunità montane e di accertare se alle stesse possono essere applicati i parametri costituzionali (art. 114 e 117, comma 2, lett. p), Cost.) previsti per i Comuni, sulla base di una loro parificazione46 e conclude nel ribadire come la qualificazione delle Comunità montane evidenzi “l'autonomia di tali enti (non solo dalle Regioni ma anche) dai Comuni, come dimostra, tra l'altro, l'espressa
attribuzione
agli
stessi
della
potestà
statutaria
e
regolamentare”47. Dunque, queste sentenze ribadiscono la sostanziale autonomia degli enti montani, anche se da esse non traspare “una netta indicazione della natura delle Comunità montane”; tuttavia, emergono due configurazioni delle stesse, cioè, “come enti assimilabili alle 46
Cfr. n. 3 del Considerato in diritto. Cfr. n. 4 del Considerato in diritto, che richiama sul punto i precedenti giurisprudenziali già esaminati. In particolare, per quanto riguarda l'art. 117, comma 2, lett. p) Cost. (che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”), la Corte, in entrambe le sentenze esaminate (cfr. nn. 5.1 e 5 del Considerato in diritto delle sentt. n. 244 e n. 456), “disattende l'interpretazione soggettivamente estensiva della clausola, per cui essa potrebbe riferirsi anche ad altri enti locali, come le Comunità montane”, con la conseguenza che “la competenza a disciplinare gli enti montani, se non spetta più al legislatore dello Stato, è dunque transitata alla legge regionale” (in tal senso P. VIPIANA, In margine a due recenti pronunce, cit., 705 ss). 47
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Unioni di Comuni oppure distinti da esse” e la Corte sembra preferire la seconda, “posto che ritenere la legge regionale fonte competente a porre la disciplina delle Comunità montane presuppone di considerare queste ultime non equiparabili alle Unioni di Comuni”48. Inoltre, tali pronunce risultano particolarmente rilevanti in quanto “evidenziano la possibile notevole incidenza della legge regionale sull'ordinamento degli enti locali in genere: infatti, l'interpretazione restrittiva , accolta dalla Corte, della clausola contenuta nell'art. 117, comma 2, lett. p), Cost. comporta la residualità della competenza legislativa regionale non solo sui profili soggettivi eccedenti dalle indicazioni di tale clausola, cioè riguardo alla disciplina degli enti diversi da Comuni, Province e Città metropolitane (per cui le Regioni possono legiferare appunto in tema di Comunità montane) ma anche sui profili soggettivi ulteriori a quelli indicati nella medesima clausola, ossia riguardo alla disciplina degli aspetti di Comuni, Province e Città metropolitane diversi da legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali”49. Tornando alla sent. n. 237, oggetto di questo paragrafo, nei 48
In tal senso P. VIPIANA, In margine a due recenti pronunce, cit., 704. Sulla mancata precisa indicazione della natura delle Comunità montane nelle sentt. esaminate si veda anche T.F. GIUPPONI, Le Comunità montane tra legislazione statale, legislazione regionale e autonomia locale: il regime delle incompatibilità, in www.forumcostituzionale.it, 2006, 4, ove si osserva come nelle stesse “la Corte non chiarisce fino in fondo la loro natura: certo, forme associative degli enti locali, ma su base (in qualche modo) volontaria o sostanzialmente imposte a livello regionale? La risposta sembra essere evidente: la configurazione dei concreti assetti in materia spetta in toto alla competenza residuale regionale. Eppure, senza arrivare a ritenere di per sé illegittima la stessa configurazione delle Comunità montane come attualmente disciplinate dal TUEL del 2000, è quanto meno opportuno che l'eventuale legislazione regionale di disciplina della loro istituzione garantisca adeguate forme di consultazione delle autonomie locali coinvolte, i cui spazi di autonomia sono (anche se solo in via generale e indeterminata) fondati in Costituzione, all'art. 114 Cost”. 49 Cfr. P. VIPIANA, In margine a due recenti pronunce, cit., 714.
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relativi ricorsi introduttivi, le Regioni osservano anche come non possa essere addotta, a sostegno della potestà legislativa esclusiva statale in materia, la qualificazione delle disposizioni dell'impugnato comma 17 quali “principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica”, in quanto “esse, stabilendo singole voci di spesa da limitare, si risolverebbero in un'indebita invasione dell'area riservata dall'art. 119 Cost. all'autonomia regionale”50. La Corte, nell'esprimere la sua opinione sulle questioni prospettate, parte da alcune considerazioni preliminari: innanzi tutto, “per l'individuazione della materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censure, non assume rilievo la qualificazione che di esse dà il legislatore, ma occorre fare riferimento all'oggetto ed alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciandone gli aspetti marginali e riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l'interesse tutelato”51. In secondo luogo, nei casi in cui ci si trovi di fronte ad una normativa che interferisce con più materie, alcune di competenza esclusiva statale e altre di competenza concorrente o residuale delle Regioni, occorre “individuare l'ambito materiale che possa considerarsi nei singoli casi prevalente” e, laddove ciò non sia possibile, andrà applicato il “principio di leale collaborazione”52, con la conseguenza che “una disposizione statale di principio, adottata in materia di legislazione concorrente, quale quella del coordinamento della finanza 50
Cfr. n. 8.2 del Ritenuto in fatto. Così si esprime la Corte nel n. 12 del Considerato in diritto. Peraltro, non si tratta di un orientamento senza precedenti: la Consulta stessa richiama in proposito altri due precedenti nei quali si è espressa in maniera del tutto analoga: si tratta delle sentt. n. 430 e n. 165 del 2007. 52 Così si esprime la Corte sempre nel n. 12 del Considerato in diritto, 51
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pubblica, può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale, e determinare una, sia pur parziale, compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative e amministrative delle Regioni”. In quest'ultima ipotesi, andrà verificato “il rispetto del rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio, che deve essere inteso nel senso che l'una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre all'altra spetta l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi”53, tenendo anche conto del fatto che “la specificità delle prescrizioni, di per sé, neppure può escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione”54. Il Collegio procede, poi, a verificare se le norme impugnate possano trovare legittimazione in forza della competenza esclusiva statale in materia di “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (art. 117, comma 3, Cost.) e conclude nell'affermare come un intervento statale incidente sulle politiche di bilancio delle Regioni possa ritenersi legittimo se giustificato da “ragioni di coordinamento finanziario volte a salvaguardare, proprio attraverso il contenimento della spesa corrente, l'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari”55. 53
Cfr. n. 12 cit. La Corte richiama, in proposito, ancora una volta la sent. n. 430 del 2007. 55 Così la Corte nei nn. 16 e 17 del Considerato in diritto. 54
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Esso, inoltre, osserva che, in primo luogo, l'impugnato comma 17 ha “fissato un obiettivo di natura finanziaria per le Regioni, basato sulla riduzione della spesa ʻstoricaʼ erogata nell'anno 2007, indicando alle Regioni stesse, per raggiungere tale obiettivo, il percorso del riordino della disciplina normativa relativa alle Comunità montane”, senza che possa essere invocata a giustificazione di tale intervento l'art. 117, comma 2, lett. p), Cost., che annovera la materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” tra quelle di competenza esclusiva statale, in quanto “il riferimento a detti enti deve ritenersi tassativo, mentre nella suddetta elencazione manca ogni riferimento alle Comunità montane”56; in secondo luogo, poiché le Comunità montane “contribuiscono a comporre il sistema delle autonomie subregionali”57 ma non rappresentano “enti costituzionalmente o statutariamente necessari”, ne consegue che le Regioni potrebbero anche sancirne la soppressione58; in terzo luogo, le norme impugnate non possono essere ricondotte alla materia “governo del territorio”, di competenza legislativa regionale, poiché essa, pur caratterizzandosi per la sua ampiezza oggettiva, “non può arrivare a comprendere tutta la disciplina concernente la programmazione, la progettazione e la realizzazione delle opere o l'esercizio delle attività che, per loro natura, producono un inevitabile impatto sul territorio”59. 56
Cfr. n. 23 del Considerato in diritto. Ciò è stato affermato dalla Corte nella citata sent. n. 229 del 2001. 58 Cfr. n. 23 cit. 59 La Corte richiama in proposito alcuni suoi precedenti (sentt. n. 383 e n. 336 del 2005, n. 196 del 2004 e n. 307 del 2003) in cui ha avuto modo di affermare come la materia “governo del territorio” sia “comprensiva, in linea di principio di tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività”. 57
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Quanto, infine, al divisato dubbio circa la riconducibilità del comma 17 alla competenza esclusiva statale in materia di “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” e la sua qualificazione di “principio fondamentale”, la Corte, nel dichiarare infondata la questione sollevata dalle ricorrenti, conclude nel riconoscere alle disposizioni impugnate il suddetto carattere “proprio per la chiara finalità che, mediante il riordino delle Comunità montane, si propongono di raggiungere e per la loro proporzionalità rispetto al fine che intendono perseguire”, dal momento che “il loro scopo è quello di contribuire, su un piano generale, al contenimento della spesa pubblica corrente nella finanza pubblica allargata e nell'ambito di misure congiunturali dirette a questo scopo nel quadro della manovra finanziaria per l'anno 2008”60. Anche il comma 18 viene considerato pienamente legittimo, in quanto il legislatore statale “in funzione dell'obiettivo di riduzione della spesa corrente per il funzionamento delle Comunità montane, e senza incidere in modo particolare sull'autonomia delle Regioni nell'attuazione del previsto riordino, si limita a fornire al legislatore regionale alcuni “indicatori” che si presentano non vincolanti, né dettagliati, né autopplicativi e che tendono soltanto a dare un orientamento di massima alle modalità con le quali deve essere attuato tale riordino”61. 60
Così la Consulta nel n. 23.9 del Considerato in diritto. Si veda in proposito il n. 24.2 del Considerato in diritto. Sul punto è stato osservato come “esclusa, dunque, la vincolatività dei parametri di cui all'impugnato comma 18, la Regione riacquista la discrezionalità delle sue scelte, nell'assumere le quali, gli enti regionali sono chiamati a fare applicazione prima di tutti del principio di adeguatezza di queste rispetto agli obiettivi 61
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Non tutte le questioni vengono, tuttavia, rigettate: quella relativa al comma 2062 (impugnato dal solo Veneto) è accolta, poiché esso “contiene una disciplina di dettaglio ed autoapplicativa che non può essere ricondotta all'alveo dei principi fondamentali della materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto non lascia alle Regioni alcun spazio di autonoma scelta e dispone, in via principale, direttamente la conseguenza, anche molto incisiva, della soppressione delle Comunità che si trovino nelle specifiche e puntuali condizioni ivi previste”. Inoltre, “il comma stesso contiene anche una disposizione (quella relativa alla garanzia della presenza delle minoranze negli organi consiliari delle Comunità) che, all'evidenza, esula dalla materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto attiene esclusivamente all'ambito dell'ordinamento dei predetti organismi, che, come si è precisato, rientra nella competenza residuale delle Regioni; essa, dunque, è estranea rispetto alle esigenze del contenimento,
a
regime,
della
spesa
corrente
per
il
loro
funzionamento”63. “Fondata” ma solo in parte, è, invece, ravvisata la questione sollevata da entrambe le ricorrenti in merito al comma 2164: la Corte riconosce “palese l'illegittimità dell'ultima parte del comma 21”, che finanziari imposti, ʻin ragione delle caratteristiche di ciascun territorioʼ. Ed è questo certamente un primo risultato positivo raggiunto dalle ricorrenti” (cfr. S. MUTTONI, Punti fermi in materia di Comunità montane?, cit., 257.) 62 Si ricorda che il comma in questione è quello che prevede la produzione di automatici effetti soppressivi nell'ipotesi di “mancata attuazione delle disposizioni di cui al comma 17 entro il termine ivi previsto”. 63 Così si esprime la Corte nel n. 26.3 del Considerato in diritto. 64 Si tratta della disposizione in base alla quale l'accertamento delle riduzioni di spesa è effettuato attraverso un d.P.C.m., il quale potrà, altresì, determinare l'abrogazione delle leggi regionali emanate, qualora si rivelino inadeguate a conseguire i previsti obiettivi di spesa.
64
consente al succitato d.P.C.m. di determinare l'abrogazione delle leggi regionali che vengano riconosciute inidonee ad assicurare le previste riduzioni di spesa, dal momento che “la previsione della cessazione dell'esistenza di Comunità montane o dell'autoritario scorporo di Comuni dall'ambito delle Comunità stesse vanifica il contenuto precettivo della legge regionale eventualmente adottata, con palese violazione del criterio di riparto di competenze e del principio di legalità sostanziale, in forza dei quali ogni intervento sull'efficacia di leggi regionali deve trovare puntuale giustificazione in fonti costituzionali”. Non risulta viziata, invece, la prima parte del comma in esame, il quale “prevede un semplice accertamento, a fini meramente ricognitivi, dell'effettivo conseguimento delle riduzioni di spesa”, senza alcuna lesione dell'autonomia regionale, considerato anche che il decreto è adottato “sentite le Regioni interessate”, quindi, con un loro coinvolgimento diretto65. Accolte sono, pure, le censure sollevate dalla Regione Veneto relative al comma 2266: pure in questo caso, ad avviso della Corte, si è di fronte ad una disciplina “autoapplicativa e di dettaglio” e non di un “principio fondamentale della materia relativa al coordinamento della finanza pubblica”, che, dunque, “risulta invasiva di ambiti di autonomia delle Regioni, alle quali deve essere riconosciuto il potere 65
Questa la conclusione della Corte nel n. 28.4 del Considerato in diritto. È la disposizione in base alla quale “le Regioni provvedono a disciplinare gli effetti conseguenti all'applicazione delle disposizioni di cui ai commi 17, 18 e 20 ed in particolare alla soppressione delle Comunità montane, anche con riguardo alla ripartizione delle risorse umane, finanziarie e strumentali, facendo salvi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Sino all'adozione o comunque in mancanza delle predette discipine regionali, i Comuni succedono alla Comunità montana soppressa in tutti i rapporti giuridici e ad ogni altro effetto, anche processuale, ed in relazione alle obbligazioni si applicano i principi della solidarietà attiva e passiva”. 66
65
di disciplinare direttamente e, appunto, in autonomia gli aspetti relativi alla fase successiva alla soppressione delle Comunità montane, in particolare per quanto concerne la successione dei Comuni alla Comunità montana soppressa nei rapporti giuridici riferiti a quest'ultima, con specifico riguardo, tra l'altro, ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato dei dipendenti”67. Alcune considerazioni si rendono necessarie in relazione all'importanza di questa pronuncia. È stato osservato come il responso della Corte “tagli in due” la normativa impugnata: infatti, se legittimo può essere considerato, in sé, il “riordino”, illegittimo è, invece, il previsto potere sostitutivosanzionatorio, che invade le competenze e l'autonomia degli enti territoriali nella loro gestione68. Ed è proprio questo l'aspetto fondamentale: lo Stato può procedere al “riordino” per perseguire il fine del contenimento della spesa pubblica ma non può, per questo, addirittura sopprimere le Comunità montane, altrimenti finirebbe con l'essere compromessa 67
Cfr. n. 29 del Considerato in diritto. Si osservi in prosito quanto affermato in S. FOA', La sopravvivenza “finanziariamente condizionata” delle Comunità montane cit., 6, ove, richiamando il Documento UNCEM di valutazioni e proposte emendative al d.d.l. Finanziaria 2008 S. n. 1817, Roma, 8 ottobre 2007, si osserva come l'UNCEM abbia ricordato che “il personale complessivo in organico nelle Comunità montane, a tempo indeterminato, sia a tempo pieno che parziale, ammonta a circa 7.500 unità e non può cessare immediatamente dal servizio: le spese del personale dei 105 enti soppressi (per effetto dell'art. 13 del d.d.l.), graverebbero sui Comuni. In buona sostanza la riduzione delle Comunità montane non comporta risparmi almeno nel breve periodo in quanto non compatibile con i tempi predeterminati dal disegno di legge finanziaria 2008”. 68 Cfr. F. RINALDI, Quando è preferibile pareggiare la partita invece di vincerla. La sent. 237/2009 dellla Corte costituzionale in tema di Comunità montane, in www.forumcostituzionale.it, 2009, 4. In particolare, l'Autore definisce la pronuncia come “sentenza salomonica” o “sentenza ossimoro”, vale a dire quelle in cui entrambi i contendenti sono al tempo stesso vincitori e vinti, dal momento che “lo Stato vede riconosciuto il potere di agire per il fine economico” e “le Regioni vedono salvaguardata la propria autonomia di decisione”.
66
l'autonomia delle Regioni in tale materia69. Infatti, la Corte ha precisato come una norma statale di principio possa andare ad incidere su materie di competenza regionale e “determinare una, sia pur parziale, compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative e amministrative delle Regioni”70, perciò, questo induce a ritenere che tale compressione non possa tradursi in un “annullamento dello spazio di competenza regionale”71. In definitiva “la partita si è formalmente chiusa con un pareggio fra Stato e Regioni”72, anche se va notato come si tratti di un risultato piuttosto importante per le seconde, poiché, fermo restando che le Comunità montane andavano ridotte, dati i molteplici abusi cui hanno dato luogo, “il compito sgradevole, al fine di contenere la spesa pubblica, è rimasto onere dello Stato e le Regioni non solo non recitano la parte delle ʻcattiveʼ di fronte ai propri enti montani, ma vedono invero riconosciuta loro l'autonomia nel riordino stesso”73. Altro aspetto messo in luce dalla pronuncia esaminata è quello relativo al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, delineato dal nuovo art. 117 Cost. In particolare, qui si pone un contrasto tra competenza statale concorrente (“armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ex art. 117, comma 3, Cost.) e competenza regionale
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Si veda sul punto F. RINALDI, Quando è preferibile pareggiare la partita, cit. 4. Cfr. n. 12 del Considerato in diritto della sentenza in esame. 71 In tal senso F. RINALDI, Quando è preferibile pareggiare la partita, cit., 5. 72 Come osservato in F. RINALDI, Quando è preferibile pareggiare la partita, cit., 6. 73 Cfr. F. RINALDI, Quando è preferibile pareggiare la partita cit., 6. 70
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residuale (in materia di ordinamento delle Comunità montane)74 e la Corte, in base ad una “combinazione fra il criterio di prevalenza e l'interpretazione in senso spiccatamente finalistico del coordinamento finanziario” ha considerato prevalente la competenza concorrente, peraltro, senza spiegarne la ragione e limitandosi a “richiamare precedenti
sentenze
che
autorizzano
l'ingresso
dei
principi
fondamentali nelle materie residuali”75. La Corte ha, dunque, operato una “distinzione fra oggetto e settore di operatività” e ne risulta che “i principi di coordinamento della finanza pubblica tendono a un obiettivo, il quale va realizzato anche nelle materie residuali. In nome delle finalità dei principi di coordinamento della finanza pubblica la sentenza salva le disposizioni della legge finanziaria che impongono tale finalità nel contesto di una materia residuale”, con la conseguenza che una materia concorrente è configurata “come fosse una materia esclusiva trasversale che può sconfinare nel territorio delle materie residuali”76. 74
In tal senso G. DI COSIMO, C'erano una volta le materie residuali, in www.forumcostituzionale.it, 2010, 1. L'Autore osserva come “secondo la Corte i principi fondamentali dettati dalla legge finanziaria 2008 relativamente al coordinamento della finanza pubblica vincolano le Regioni al raggiungimento dell'obiettivo della riduzione della spesa corrente per il funzionamento delle Comunità montane, e ciò anche se la disciplina delle Comunità montane rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni”. 75 Cfr. G. DI COSIMO, C'erano una volta le materie residuali, cit., 1. In particolare, l'Autore evidenzia tale “interpretazione in senso finalistico del coordinamento finanziario”, riscontrabile dal fatto che “i principi fondamentali della legge finanziaria 2008 tendono ad un ʻobiettivo di natura finanziariaʼ, che nel caso di specie corrisponde alla riduzione di un terzo del fondo di finanziamento ordinario delle Comunità montane”. 76 In tal senso G. DI COSIMO, C'erano una volta le materie residuali, cit., 3. Sottolinea l'Autore come, poiché, secondo la Corte, la materia dell'ordinamento delle Comunità montane non è “l'oggetto principale della normativa statale in esame, ma rappresenta il settore in cui devono operare strumenti e modalità per pervenire alla prevista riduzione della spesa pubblica corrente” (cfr. n. 23.8 del Considerato in diritto), la conseguenza è che la “distinzione fra oggetto della disciplina statale e settore su cui tale disciplina incide” porta all'esito per cui “la materia concorrente viene ʻassimilataʼ alle materie esclusive trasversali” e, di conseguenza, da un lato, il coordinamento finanziario “impone l'interesse nazionale in ambito residuale, così come fanno le materie trasversali” e, d'altro lato, “le norme della legge finanziaria, frutto di potestà concorrente,
68
Ciò induce a chiedersi perchè la Corte abbia, prima, compreso la materia delle Comunità montane nell'ambito delle competenze residuali se, poi, viene sostanzialmente svuotata l'autonomia politica delle Regioni, che si vedono costrette a rispettare il vincolo di riduzione di spesa imposto dal legislatore statale, qualificato dalla Consulta come “principio fondamentale”77. Nel complesso, si ha il sentore di quella che Di Cosimo definisce una
“svolta
neo-centralistica”
nella
recente
giurisprudenza
costituzionale relativa al riparto delle materie, che “potrebbe svuotare la competenza residuale prevista dal quarto comma dell'art. 117 Cost., visto che nel medesimo ambito residuale potrebbero incidere tanto le vengono sottoposte al canone di giudizio solitamente applicato alle materie trasversali” (osserva l'Autore che “la Corte è solita svolgere una verifica di ragionevolezza sull'individuazione degli interessi nazionali effettuata dal legislatore statale. Il problema è che il test di proporzionalità risulta più penalizzante per le Regioni, poiché non consente di censurare le disposizioni statali che, pur rispettando la proporzionalità, invadono pesantemente le competenze regionali”). Tutto ciò induce l'Autore a chiedersi quale sia il “valore prescrittivo delle tipologie legislative contemplate dall'art. 117 Cost.”; infatti, “se diciamo che i principi di coordinamento della finanza pubblica vincolano al pari delle clausole trasversali, non si spiega perchè nella toponomastica della disposizione costituzionale i due titoli di competenza statale sono compresi in elenchi diversi”. Si tratta di un rilievo non secondario in quanto “dalla suddivisione della potestà legislativa in tre tipologie discendono importanti conseguenze in ordine alla titolarità delle funzioni amministrative e regolamentari, alla gestione di risorse finanziarie, alla previsione di strumenti di leale collaborazione ecc” (cfr. G. DI COSIMO, C'erano una volta le materie residuali, cit. 4). Con riferimento alla “prospettiva finalistica” adottata dalla Corte si veda anche F. BENELLI – R. BIN, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”: scacco matto alle Regioni, in Le Regioni, 6/2009, 1185 ss., ove si osserva come in questo modo “non solo la legge in questione, ma anche la ʻmateriaʼ a cui riferirla viene costruita attorno alla nozione di ʻinteresseʼ” e sia, perciò, inevitabile “che siano rilette in termini di ʻmateria-funzioneʼ o ʻmateria-obiettivoʼ tanto le materie elencate tra quelle esclusive come pure quelle concorrenti”. Tuttavia, gli Autori evidenziano che “se la materia viene individuata in base al fine, con riferimento alla ratio della disposizione contestata, la legittimità della disposizione stessa finisce col dipendere dal nesso di strumentalità che la lega al fine proprio della materia cui è ascrivibile, ossia da una valutazione formulata seguendo la traccia del giudizio di ragionevolezza, congruità e proporzionalità”. 77 Come osservato in G. DI COSIMO, C'erano una volta le materie residuali, cit., 5. Nota l'Autore come “sembra caduto nel vuoto l'ammonimento in merito alla necessità che il coordinamento finanziario rispetti i limiti delle sfere di autonomia costituzionalmente garantite” contenuto nella già citata sent. n. 376 del 2003 dove, al n. 3 del Considerato in diritto si afferma che il mancato rispetto di tali limiti porterebbe alla trasformazione del coordinamento finanziario “in attività di direzione o in indebito condizionamento dell'attività degli enti autonomi”.
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clausole trasversali, quanto i principi fondamentali delle ʻmaterie concorrenti assimilateʼ, ossia quelle che consentono di indicare obiettivi validi anche in campi materiali riservati alle Regioni”78. Tutto ciò evidenzia il “fallimento dell’impianto che ha ispirato la riforma costituzionale del 2001”, in quanto, mentre la specifica indicazione delle materie di competenza esclusiva statale e l'applicazione del criterio del residuo a favore delle Regioni avrebbe dovuto avere come risultato quello di un notevole aumento delle competenze del legislatore regionale, in realtà è avvenuto esattamente il contrario e “le materie enumerate fungono da magnete per il ʻnucleo essenzialeʼ delle discipline legislative contese” e la residualità “è affermata nei soli casi in cui la competenza non possa essere attratta dalle materie
ʻenumerateʼ,
ed
è
comunque
sempre
circondata da forme di intensa interferenza”79. Dunque, “la rigidità e il desiderato rigore” dell'impianto del nuovo art. 117 Cost. finiscono “per essere sopraffatti, nella concreta individuazione delle potestà statali e regionali, dall'applicazione di criteri di gran lunga più flessibili e elastici”, quali le “materie trasversali”80, l'istituto della “chiamata in sussidiarietà”81 e il “rilievo 78
Cfr. G. DI COSIMO, C'erano una volta le materie residuali, cit., 6. Così R. BIN, Prevalenza senza criterio, in www.forumcostituzionale.it, 2009, 2. Analoga opinione è espressa in S. MUTTONI, Punti fermi in tema di Comunità montane?, cit., 258, ove si evidenzia “l'assoluta crisi nella quale versa il riparto tra Stato e Regioni della competenza legislativa per materia, già presente nella Costituzione del 1948 e riaffermata dal legislatore costituzionale del 2001”. 80 Si ricorda che esse sono rappresentate da “settori della legislazione in cui l'individuazione della fonte competente non dipende dalla ricerca di una materia in senso tecnico all'interno degli elenchi dell‟art. 117 Cost., ma dal perseguimento di un interesse di rilevanza nazionale che viene a sovrapporsi agli interessi che la Costituzione affida al legislatore regionale” (in tal senso F. BENELLI – R. BIN, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”, cit., 1185 ss). 81 È stato osservato come “la ricaduta immediata dell'applicazione della sussidiarietà alla funzione legislativa è stata il superamento della distribuzione formale di competenze tipica del 79
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dato dalla Corte alla dimensione degli interessi in gioco in una specifica disciplina legislativa o alla finalità di quest'ultima”, come nel caso in questione. Ciò porta, da un lato, alla “crescita esponenziale del conflitto Stato-Regioni (reso evidente dai dati relativi ai ricorsi in via principale proposti dal 2001)” e, d'altro lato, alla “assunzione, da parte della Corte, del ruolo di arbitro, il cui giudizio, però, dovendo ponderare la magmatica compresenza di interessi e finalità diversi in gioco, tende a sfuggire alla logica sillogistica, divenendo sempre più difficile da ricostruire e, dunque, da controllare”82. regionalismo duale a vantaggio di un modello elastico e dinamico. In questo contesto, la cura dell'interesse nazionale e, più genericamente, dei diversi livelli di interesse non sarebbe scomparso a seguito della sua espunzione dall'art. 117 Cost., ma si sarebbe tipizzato nei nuovi meccanismi distributivi” (cfr. F. BENELLI – R. BIN, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”, cit., 1185 ss. Gli Autori richiamano, in proposito F. BENELLI, Interesse nazionale, istanze unitarie e potestà legislativa regionale: dalla supremazia alla leale collaborazione, in Le Regioni, 2006, 933 ss). 82 Così S. MUTTONI, Punti fermi in tema di Comunità montane?, cit., 258. L'Autrice rileva, altresì, la “pericolosità” di un tale atteggiamento giurisprudenziale che “potrebbe portare a considerare legittime molte altre, anche più incisive, lesioni delle prerogative costituzionalmente garantite alla Regione, se fondate sulla necessità di ottenere risparmi di spesa”. Questo in quanto “la Corte, pur tornando a citare i caratteri che debbono sussistere per poter qualificare una disciplina legislativa ʻprincipio fondamentaleʼ in materia di ʻcoordinamento della finanza pubblicaʼ, ha contestualmente affermato che la portata di ʻprincipio fondamentaleʼ va riscontrata ʻcon riguardo alla peculiarità della materiaʼ e che, qualora si tratti del ʻcoordinamento della finanza pubblicaʼ, ʻciò che viene in particolare evidenza è la finalità di contenimento complessivo della spesa regionale correnteʼ”. Sul fallimento dell'auspicata “rigidità” nel riparto di competenze delineato dal nuovo art. 117 Cost. si veda anche C. MAINARDIS, Regioni e Comunità montane, tra perimetrazione delle materie e “controllo sostitutivo” nei confronti degli organi, in www.forumcostituzionale.it, 2006, 2, ove si osserva come la prospettata rigidità abbia ceduto il passo a “criteri di flessibilità nella ricostruzione degli ambiti normativi statali e regionali, come si evince dalla oramai copiosa giurisprudenza costituzionale intervenuta a seguito della riforma del 2001. A questo proposito, al di là della ricostruzione di determinati titoli d'intervento statali come ʻmaterie trasversaliʼ a tutte le competenze regionali; e al di là della teorizzazione ad opera della Corte della ʻchiamata in sussidiarietàʼ per superare il rigido riparto dettato dall'art. 117 Cost., va rimarcato in particolare il rilievo assunto dalla ʻdimensione degli interessiʼ in gioco nelle singole materie come discrimine decisivo nell'individuazione degli ambiti di competenza legislativa”. Per un'opinione analoga si veda anche F. BENELLI – R. BIN, Prevalenza e “rimaterializzazione delle materie”, cit., 1185 ss., ove si osserva come “le materie trasversali e il principio di sussidiarietà legislativa, attraverso una reciproca integrazione, rispondono al comune disegno costituzionale diretto a stemperare la rigidità degli elenchi dell'art. 117 Cost., innescando dinamiche attributive caratterizzate da un alto tasso di elasticità. Tali meccanismi attributivi, tuttavia, non rendono incontrollabile la distribuzione della funzione legislativa, che, anche nella
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Va riscontrato, alla luce di queste considerazioni complessive, come la sentenza non abbia detto nulla di nuovo circa la natura e la collocazione delle Comunità montane nell'ordinamento ma vada a confermare il sempre più frequente “scontro tra il rispetto delle autonomie regionali e le esigenze di coordinamento della finanza pubblica, all'esito del quale, almeno fino alla completa attuazione del c.d. federalismo fiscale, le prime sembrano destinate a perire”83.
2.4 Le conseguenze del responso della Corte e i successivi interventi normativi e giurisprudenziali: quale la sorte delle Comunità montane già soppresse e quali le prospettive future per gli enti montani.
In attuazione di quanto disposto dalla Finanziaria 2008 è stato emanato il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 19 novembre 2008. Il provvedimento in questione, dopo aver accertato la realizzazione delle imposte riduzioni di spesa da parte delle Regioni che hanno emanato le relative leggi di riordino84, sancisce altresì la produzione degli effetti di cui al comma 20 dell'art. 2 della legge 24 logica collaborativa e sussidiaria, risponde a regole precise (leale collaborazione, adeguatezza, sussidiarietà, etc.) e come tali rispondono al principio di rigidità costituzionale”. 83 Cfr. S. MUTTONI, Punti fermi in tema di Comunità montane?, cit., 260. L'Autrice non manca, tuttavia, di rilevare, nella pronuncia in questione, un “messaggio diverso, e di gran lunga più positivo” per le Regioni: infatti, la Corte dà un valutazione negativa degli interventi statali che comportano tagli indifferenziati e operanti automaticamente in ambiti di competenza regionale, dal momento che essi si pongono nettamente in contrasto con i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all'art. 118 Cost. 84 Vale a dire: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Toscana e Umbria.
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dicembre 2007, n. 244 per quelle che, invece, risultano inadempienti85. Anche con riferimento a questo provvedimento la Regione Veneto non ha mancato di manifestare le proprie perplessità al Giudice delle leggi, sollevando un ricorso per conflitto di attribuzioni nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, relativamente all'art. 2 del decreto stesso, per effetto del quale si sono prodotti, anche per il Veneto, gli effetti soppressivi di cui all'art. 2 citato. La sentenza che ne è scaturita è la n. 91 del 2011. La Regione vede nell'intervento statale “un'invasione da parte del governo centrale in un ambito di potestà legislativa esclusiva, che non può essere giustificato neppure invocando la chiamata in sussidiarietà di alcune funzioni” e una violazione del “principio di leale collaborazione”86, richiedendo, quindi, che “la Corte dichiari che non spetta allo Stato incidere sulla disciplina delle Comunità montane della Regione Veneto, modificando la loro struttura, riducendo il numero dei Comuni che ne fanno parte e imponendo una diversa composizione dei loro organi consiliari ed esecutivi, spettando all'ente 85
Si tratta delle Regioni Lazio, Puglia e Veneto. Si ricorda che tali effetti consistono in: soppressione delle Comunità montane che non rispondono a determinati requisiti altimetrici e che sono formate da meno di cinque Comuni; cessazione dell'appartenenza a tali enti dei Comuni aventi determinate caratteristiche (cioè siano capoluogo di Provincia, costieri o con popolazione superiore a 20.000 abitanti) e, quanto alle rimanenti Comunità montane, composizione degli organi consiliari tale da garantire la presenza delle minoranze. 86 Cfr. n. 5 del Ritenuto in fatto. La Regione rileva come “l'intervento legislativo in questione non potrebbe essere ricondotto ad esigenze di coordinamento della finanza pubblica, trattandosi di un ambito materiale in cui la potestà legislativa è regionale, anche se concorrente” e come “gli effetti prodotti dal suddetto d.P.C.m. darebbero luogo ad una menomazione del potere amministrativo regionale in violazione dell'art. 118 Cost., in quanto spetta alla Regione la riorganizzazione degli apparati che sono deputati a svolgere le funzioni demandate alle Comunità montane e il riordino dell'erogazione delle funzioni stesse”. Inoltre, essa ravvisa nel decreto una lesione dell'art. 119 Cost., poiché “inciderebbe sulle scelte regionali in ordine all'erogazione della spesa”, apparendo lo stesso, altresì, “inopportuno e irrazionale”, essendosi prodotta “una traumatica interruzione di quel rapporto di consolidata convivenza ed aggregazione tra Comuni con esigenze simili, che nel tempo si è venuto a costituire”.
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regionale tale potere, con l'effetto di annullare il d.P.C.m. 19 novembre 2008”87. Va rilevato come il ricorso sia stato presentato nelle more del giudizio avente ad oggetto la legittimità costituzionale dei commi 1722 della Finanziaria 2008, esaminato nel precedente paragrafo; ed è anche alla luce della sentenza che ne è scaturita,
dichiarativa
dell'illegittimità dei commi 20 e 22 della suddetta legge, che la Corte accooglie il ricorso, dichiarando che “non spettava allo Stato disporre che per la Regione Veneto si producano gli effetti di cui al comma 20 dell'art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244” e annullando l'art. 2 del decreto impugnato “nella parte in cui si riferisce la ricorrente”88. A ben vedere, il responso della Consulta non poteva essere diverso: l'art. 2 del provvedimento, infatti, “nel prevedere che si determinino, tra l'altro per la Regione Veneto, gli effetti di cui all'art. 2, comma 20, della l. n. 244 del 2007” viene a trovarsi “sprovvisto di base normativa”, in quanto l'illegittimità costituzionale di quest'ultima disposizione “non può non travolgere anche il decreto in questione, per la parte in cui fonda i suoi effetti su una disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima” e “l'adozione del d.P.C.m., pertanto, resta legittima solo per quanto concerne i profili concernenti l'accertamento del conseguimento dei risultati previsti dalla normativa
87
Cfr. n. 6 del Ritenuto in fatto. Cfr. Per questi motivi della sent. n. 91 del 2011. Infatti, “l’art. 2 del d.P.C.m. 19 novembre 2008 appare evidentemente in contrasto con gli effetti prodotti dalla precedente sent. n. 237/2009 che, determinando la caducazione per illegittimità costituzionale della normativa legislativa di base, ha fatto venire meno anche la legittimità dell’art. 2 del d.P.C.m. in esame, nella parte in cui si riferisce alla Regione Veneto” (così Corte costituzionale, 21 marzo 2011, n. 91 – Ancora in tema di Comunità montane, in Amministrazione in cammino, 2011). 88
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statale di riordino”89. Quindi, ciò non fa altro che ribadire che “la disciplina di riordino dettata dal legislatore statale, in nome delle esigenze di coordinamento finanziario, non può spingersi sino all'indicazione di aspetti dettagliati, nonché di automatismi che privino le Regioni dei propri margini di autonomia nel disciplinare lo stesso, tenuto conto appunto della propria competenza residuale in materia”, malgrado si prospetti sempre più, per il futuro delle Comunità montane, “una loro drastica riduzione, in virtù della riduzione delle fonti di finanziamento statale”90. A conferma di ciò va ricordato, oltre alla sopra citata “Manovra estiva” del 2008 e ai tagli da essa disposti, il d.d.l. n. 3118 “Disposizioni in materia di organi e funzioni degli enti locali, semplificazione e razionalizzazione dell'ordinamento e carta delle autonomie locali” (c.d. “Riforma Calderoli”), che prevede, ancora una volta, la soppressione delle Comunità montane91. La disposizione in questione è quella dell'art. 17 (“Norme concernenti la soppressione delle Comunità montane, isolane e di arcipelago e dei relativi finanziamenti”) del d.d.l n. 3118, presentato alla Camera dei Deputati il 13 gennaio 201092: in base ad esso, dal 89
In tal senso N. VICECONTE, La Corte chiarisce sulle Comunità montane: nota a Corte cost. 21 marzo 2011, n. 91 (e a margine della sentenza n. 326 del 2010), in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2/2011, 4. 90 Cfr. N. VICECONTE, La Corte chiarisce sulle Comunità montane, cit., 5. 91 Si veda in proposito S. MUTTONI, Punti fermi in tema di Comunità montane?, cit., 261. 92 Esso è stato approvato dalla Camera il 30 giugno 2010 ed è stato trasmesso il 2 luglio 2010 al Senato, dove è ancora in corso di discussione. È stato osservato come con tale d.d.l. sia ripreso il “processo riformatore indispensabile per attuare la riforma del Titolo V, nella prospettiva di una valorizzazione di autonomie territoriali responsabili e anche di effettiva semplificazione, per quanto possibile, del sistema istituzionale, che riduca i costi e renda pure possibile l'attuazione del c.d. federalismo fiscale” (cfr. G.C. DE MARTIN, Osservazioni sul d.d.l. 3118 – Carta delle
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momento della sua entrata in vigore, “le leggi regionali possono prevedere la soppressione delle Comunità montane esistenti e possono attribuire le funzioni già spettanti a tali Comunità, nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”93. Inoltre, al comma 2, è stabilito che “lo Stato cessa di concorrere al finanziamento delle Comunità montane previsto dall’articolo 34 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e dalle altre disposizioni di legge relative alle Comunità montane” e si precisa che “nelle more dell’attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42, il 30% delle risorse finanziarie di cui ai citati art. 34 e disposizioni di legge è assegnato ai Comuni montani e ripartito tra gli stessi con decreto del Ministro dell’Interno, adottato previo parere della Conferenza unificata. Per i fini di cui al secondo periodo sono considerati Comuni montani i Comuni in cui almeno il 75% del territorio si trova al di sopra dei 600 metri sopra il livello del mare”. Ed è così che “con un semplice tratto di penna, vengono cancellati i residui finanziamenti a loro favore, dimenticando tutti gli impegni formalmente assunti e lasciando sulle spalle delle Comunità montane gli oneri di rapporti instaurati, ivi compresi quelli scaturenti da programmi, progetti, accordi di programmi e quant’altro finanziati anche dai vari ministeri e con fondi europei”, oltre al fatto che questa nuova definizione di “montanità” va a scapito pure dell'arco alpino, che si voleva, invece, avvantaggiare94. autonomie, in Amministrazione in cammino, 2010, 1). 93 Va notato che il d.d.l. non specifica a chi le leggi regionali possano attribuire dette funzioni. 94 Così E. RACCA in Rimettiamoci in viaggio cit., 25. Peraltro, delusione nei confronti del d.d.l. è stata manifestata anche da altre parti, come ANCI, che esprime un giudizio nettamente critico per quanto riguarda la disposizione in questione, osservando come essa si limiti ad
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Si deve notare che il d.d.l. in esame si inserisce nella più ampia tematica del riordino delle autonomie locali ed è stato oggetto di critiche da parte delle Regioni, che vedono ulteriormente compresse le loro competenze in materia95; in particolare, su un piano generale, è stato osservato come esso non abbia quale fondamento un “progetto definito di riforma” e, di conseguenza, si teme che “alla fine a pagare un conto salato saranno i territori più deboli, vittime predestinate di un pericoloso scaricabarile”96. eliminare la competenza legislativa statale in materia di Comunità montane, ma non l’ente in sé, senza che, pertanto, vi sia alcuna semplificazione nell'assetto istituzionale (cfr. Documento sul Codice delle autonomie in www.anci.it) e LEGAUTONOMIE, secondo la quale le Comunità montane sono “una delle forme più consolidate di esercizio associato di funzioni e servizi in favore dei piccoli Comuni montani e, nel contempo, svolgono importanti funzioni di programmazione e promuovono consistenti investimenti sul territorio. In proposito, prevedendo la loro abrogazione, occorre intanto chiedersi che fine fa la specificità della montagna garantita costituzionalmente?” (cfr. Nota di osservazioni al d.d.l. Carta delle autonomie in www.legautonomie.it). Sull'argomento si è espresso anche M. BERTOLISSI, A proposito della c.f. Riforma Calderoli, in Federalismo fiscale, 2/2009, 16, ove si osserva che “sarà bene non dimenticare, ad esempio, che le ʻRegioni che hanno drenato e drenano risorse pubbliche tenendo il Paese sottoscopa non hanno subito sanzioni, anzi!ʼ” (l'Autore riporta l'espressione utilizzata da M. GABANELLI, in Report, 26 aprile 2009, ove si trattava la tematica della sanità della Regione Calabria). Inoltre, “lo Stato, dopo aver tuonato a proposito delle Comunità montane, ha consentito a un giornalista di avvertire i lettori che ʻla proposta di riparto del ministro degli Interni, approvata dalla Conferenza delle Regioni, per i trasferimenti erariali relativi al 2009 a favore delle Comunità montane... prevede erogazioni di fondi per le isole Eolie, per la Gallura, per la riviera spezzina, per l'arcipelago toscano...ʼ” (l'Autore cita un articolo comparso su Corriere della Sera, 21 febbraio 2009). 95 La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha elaborato, in proposito, un Documento di sintesi delle principali criticità del testo del Codice delle autonomie locali (che si può ritrovare in www.regioni.it), in quanto si riscontra come le misure in esso disposte finiscano per “incidere assai negativamente sulla posizione della Regione quale ente di riferimento e vero e proprio centro propulsore dell'intero sistema delle autonomie locali nel proprio ambito territoriale”. I “punti critici” evidenziati nel documento (che si sono tradotti in altrettanti emendamenti) riguardano numerosi profili del d.d.l.: dall'allungamento delle funzioni fondamentali dei Comuni (con conseguente compressione del ruolo regionale), alla “limitazione del ruolo regolativo regionale” anche riguardo alle “funzioni non fondamentali”, alla “prevista soppressione degli enti ed agenzie strumentali” (che sono per la maggior parte regionali), all'attribuzione allo Stato e non alla Regione della competenza in tema di “forme associative degli enti locali” e di “Unioni di Comuni, anche montane”, alla “disciplina degli organi delle Città metropolitane (che potrebbe agevolarne l'istituzione). 96 Il richiamo è alla più volte citata analisi di E. RACCA, Rimettiamoci in viaggio, cit. 26. L'Autore osserva come manchi “uno studio propedeutico che fotografi l’attuale assetto locale così com’è e non come viene raccontato; che dica di quanti e quali enti è composto, cosa fanno in concreto e quanto costano; che spieghi in maniera puntuale le ragioni che spingono alla rivisitazione del sistema; che indichi chi nello specifico è legittimato a intervenire distinguendo tra
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Limitando, invece, l'analisi alla realtà veneta, la Regione ha provveduto (con d.G.R. n. 1397 del 19 maggio 2009) alla costituzione di un “Gruppo di lavoro intersettoriale” per analizzare le “problematiche di immediato impatto sull'ordinamento regionale” delle norme contenute nel d.d.l in esame97: tra le “questioni problematiche” rilevate dal Gruppo vi è anche quella relativa agli enti intermedi, di cui il d.d.l. prevede espressamente la soppressione o il riordino98. Si osserva come la soppressione delle Comunità montane si ponga in contrasto con la sentenza della Corte costituzionale n. 237 del 200999 e si chiede alla Regione di adottare una serie di misure, volte al riordino degli enti locali presenti nel territorio e delle funzioni ad essi attribuite, eliminando le sovrapposizioni di competenze, approvando un “programma di riordino territoriale” e potenziando le “misure di raccordo tra i diversi enti territoriali del Veneto”100. In realtà, un'anticipazione di quanto disposto dal citato art. 17, comma 2, si era già avuta nella legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Finanziaria 2010, modificata dal decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2), con il sostanzialmente identico art. 2, comma 187, ai sensi del quale “a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, prerogative statali, regionali e locali; che fissi i tempi delle varie fasi del processo riformatore; che determini i costi e i benefici attesi in termini quantitativi e non sulla base di mere sensazioni” 97 Cfr. Informativa per la Giunta Regionale in www.regione.veneto.it. 98 Si vedano le disposizioni del Capo V sopra citato. 99 Si tratta della sentenza esaminata nel § 2.3. 100 Così si esprime detto Gruppo di lavoro nell'Informativa cit. Nel dettaglio, il “programma di riordino territoriale” dovrebbe individuare la “Dimensione Territoriale Ottimale per lo svolgimento delle funzioni comunali”, da un lato elevando l'Unione di Comuni a “forma a associativa privilegiata” e, d'altro lato, riordinando le Comunità montane “assimilandone l'ordinamento a quelle delle Unioni di Comuni”. Quanto, invece, alle “misure di raccordo tra i diversi enti territoriali del Veneto”, è previsto che il loro potenziamento avvenga mediante “la valorizzazione della concertazione istituzionale, la costituzione di un Osservatorio regionale delle autonomie locali, lo sviluppo dell'informatizzazione degli enti locali”.
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lo Stato cessa di concorrere al finanziamento delle Comunità montane previsto dall'articolo 34 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e dalle altre disposizioni di legge relative alle Comunità montane. Nelle more dell'attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42, il 30% delle risorse finanziarie di cui al citato art. 34 del d. lgs. n. 504 del 1992 e alle citate disposizioni di legge relative alle Comunità montane è assegnato ai Comuni appartenenti alle Comunità montane e ripartito tra gli stessi con decreto del Ministero dell'Interno, previa intesa sancita in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 3 del d. lgs. 28 agosto 1997, n. 281”101. 101
Va rilevato come “correggendo l’originaria impostazione del decreto-legge, si è opportunamente sostituito il riferimento normativo ai ʻComuni montaniʼ, individuati dall’originario comma 187 sulla base di un criterio altimetrico, con quello ai ʻComuni appartenenti alle Comunità montaneʼ, in modo da evitare future e probabili censure di costituzionalità alla luce della recente giurisprudenza costituzionale (sentt. n. 237/2009 e n. 27/2010) che, ribadendo la riconduzione della disciplina delle Comunità montane alla competenza legislativa residuale delle Regioni e, allo stesso tempo, la possibilità per lo Stato di dettare principi di coordinamento della finanza pubblica volti al contenimento della spesa pubblica, ha dichiarato l’illegittimità dell’adozione di criteri rigidi e vincolanti” (cfr. D. MINIUSSI, Il decreto-legge 2/2010 e la legge finanziaria per il 2010 in materia di enti locali: quando lo Stato non può ottenere ciò che vuole, eppure ci prova, in www.forumcostituzionale.it, 2010, 3). Alcune osservazioni merita la sent. n. 27 del 2010, richiamata dall'Autore: si tratta della pronuncia con cui la Corte si è espressa in merito all'art. 76, comma 6-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133), che disponeva la riduzione dei trasferimenti a favore delle Comunità montane (“Sono ridotti dell'importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 i trasferimenti erariali a favore delle Comunità montane. Alla riduzione si procede intervenendo prioritariamente sulle Comunità che si trovano ad una altitudine media inferiore a 750 metri s.l.m. All'attuazione del presente comma si provvede con decreto del Ministro dell'interno, da adottare di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze”). È stato rilevato come “anche in questo caso la Corte ha ribadito che la decurtazione di trasferimenti erariali a favore delle Comunità montane da parte del legislatore statale trova legittimazione nella competenza relativa all'armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica”, a condizione che le Regioni collaborino “nella individuazione dei criteri da adottare per la realizzazione della riduzione del fondo da destinare alle Comunità montane”, essendovi “una connessione indissolubile tra i problemi del finanziamento e i problemi della stessa esistenza ed articolazione delle Comunità montane” (così F. CALZAVARA, Prime osservazioni sulla sent. n. 326 del 2010: una sentenza quasi additiva? (ovvero “il legislatore non dimentichi ragionevolezza e proporzionalità”), in www.federalismi.it, 2010, 3, che richiama quanto affermato dalla Corte nel n. 4 del Considerato in diritto della sentenza in esame).
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Immediata è la reazione della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome che, il 27 gennaio 2010, provvede all'emanazione di una Nota di lettura concernente le problematiche poste dalla legge in questione, dalla quale emerge l'effettiva entità dei tagli disposti dal legislatore. Come notato dalla stessa Conferenza, al comma 187 si possono dare diverse interpretazioni: secondo una prima lettura, che valorizza il riferimento all'art. 34 del d. lgs. n. 504 del 1992, i tagli non riguarderebbero tutte le componenti dei contributi statali per le Comunità montane ma solo il contributo “ordinario” e quello “consolidato”102. Questa interpretazione è suffragata dal fatto che, per il 2010, il contributo iscritto sul Fondo ordinario per il finanziamento dei bilanci degli enti locali ammonta a € 50.000.000 e, quindi, non è del tutto azzerato. Tuttavia, si osserva come il Ministero dell'Interno abbia preferito l'opposta lettura della norma, in base alla quale i tagli avrebbero riguardato tutte le risorse a disposizione delle Comunità montane, nessuna esclusa103. Quanto all'ultimo periodo del comma 187, la Conferenza osserva come non sia possibile “quantificare l’entità dei contributi che 102
Ricorda la Conferenza come i contributi in questione possano essere raggruppati in tre categorie: un “contributo ordinario”, formato da diverse “voci” e passato da € 99.638.782,63 nel 2008 a € 36.238,782,63 nel 2009; un “contributo consolidato”, pari a circa € 37.000.000 nel 2009, in progressivo calo ogni anno e di cui € 27.000.000 sono riservati a Campania, Puglia, Basilicata e Calabria; un “contributo per sviluppo investimenti”, pari a € 14.424.453,26 nel 2009, con rigidi vincoli di destinazione, anch'esso in continuo calo (cfr. Nota di lettura cit., 1) 103 In Nota di lettura cit, 4, si osserva anche che “la soluzione interpretativa ʻrestrittivaʼ che limita il taglio può comunque essere sostenuta se l’inciso ʻe dalle altre disposizioni di legge relative alle Comunità montaneʼ viene riferito alle altre norme di legge che hanno disposto riduzioni del contributo ordinario ai sensi, in particolare, della l. 244/2007 (art. 2 commi 31 e 16). In caso contrario, il taglio non potrebbe che coincidere con l’ammontare complessivo del fondo statale ordinario erogato alle Comunità Montane della Regione nel 2009”.
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astrattamente potrebbero ricevere i Comuni”, non essendo chiaro a quanto ammontino i tagli su cui calcolare il 30%, e non conoscendo i criteri in base ai quali lo Stato effettuerà il riparto tra i Comuni aventi quelle determinate caratteristiche, situati soprattutto nell'arco alpino ma, in ogni caso, i riferimenti altimetrici non possono essere intesi come una nuova definizione di montanità, poiché essi, per espressa previsione normativa, valgono solo ai fini della “assegnazione del 30% del contributo tagliato”104. Come già prospettato nella parte finale del documento in esame, non è tardata l'impugnativa della disposizione in questione dinanzi la Corte costituzionale, cristallizzata nella sent. n. 326 del 2010. I ricorsi, stavolta, sono stati presentati dalle Regioni Calabria, Toscana, Liguria e Campania e hanno ad oggetto varie disposizioni dell'art. 2 della legge citata105. 104
Cfr. Nota di lettura cit., 5. In particolare, va tralasciato in questa sede il ricorso della Regione Toscana, avente ad oggetto profili estranei alla materia delle Comunità montane. Rilevante, invece, la censura della Regione Calabria, avente ad oggetto il comma 187: essa profila dubbi di incostituzionalità con riferimento alla lesione della potestà legislativa residuale delle Regioni prevista dall'art. 117, comma 4. Nota la ricorrente come la cessazione del finanziamento statale per le Comunità montane determina la “indiretta soppressione dei suddetti enti, o comunque la riduzione del numero e delle competenze degli stessi, incidendo sulla relativa potestà legislativa” determinando “una situazione non sostenibile per le Regioni che, per la condizione economico-finanziaria in cui si trovano, non sono in grado di fare fronte alla sottrazione di risorse”. Quindi, si rileva come dalla disposizione in questione risulti la scelta netta dello Stato di preferire i Comuni alle Comunità montane, invadendo le competenze regionali senza che ciò possa essere giustificato riconducendo la disposizione a un “principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica”, poiché si prevede direttamente la cancellazione del finanziamento statale quale modalità di riduzione della spesa (v. n. 3.1 del Ritenuto in fatto). La disposizione di cui al comma 2 è ritenuta, altresì, da un lato, in contrasto con l'art. 117, comma 3, Cost. e con l'art. 119 Cost., giacché “lo Stato non può ex abrupto cancellare le risorse e prevedere un’erogazione alternativa in favore dei Comuni montani, in tal modo violando lo spazio di autonomia riservato alle Regioni”, d'altro lato irragionevole e contraddittoria (in quanto il legislatore statale è “intervenuto sulle Comunità montane dettando una serie di disposizioni per il riordino delle stesse. Tale intervento normativo costituisce indice del rilievo attribuito ai suddetti enti” e “la scelta di finanziare i Comuni e non le Comunità montane è poi pregiudizievole per la spesa pubblica e l’efficacia dell’azione amministrativa, e dunque irragionevole ai sensi dell’art. 97 Cost., in quanto disperde le già ridotte risorse”. Infine, viene profilata anche la lesione del 105
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Anche questa volta la Corte, dopo aver riunito i ricorsi, accoglie, ma solo parzialmente, le censure proposte106. Nel dettaglio, con riferimento alla prima parte del comma 187, il Giudice delle leggi ritiene “parzialmente fondata” la questione. Si riconosce che le disposizioni impugnate riguardano la materia della “armonizzazione dei bilanci pubblici” e del “coordinamento della finanza pubblica”, di competenza concorrente, ma si ritiene anche che la normativa sia palesemente dettata allo scopo del contenimento della spesa pubblica e, come tale, conforme al potere dello Stato di dettare i principi fondamentali nelle materie sopra indicate. Pertanto, nessuna lesione del dettato costituzionale, in particolare dell'art. 117, quarto “principio di leale collaborazione” (in quanto non è previsto alcun tipo di coinvolgimento delle Regioni) e di quanto statuito dalla Corte nella sent. n. 237 del 2009. Anche il ricorso della Regione Liguria ha ad oggetto il comma 187 della legge in esame, con riferimento alla lesione degli artt. 3, 117 e 119 Cost.: ancora una volta viene richiamata la sent. n. 237 del 2009 per sostenere la lesione della competenza legislativa regionale in tema di Comunità montane; inoltre, si afferma la lesione dell'art. 119 e dell'art. 3 Cost.: “la soppressione dei trasferimenti statali in esame rompe il meccanismo imposto dall’art. 119 Cost., laddove presuppone l’equilibrio tra funzioni ed entrate, ed obbliga lo Stato a dotare le Regioni dei mezzi per far fronte ai propri compiti, sia mediante trasferimenti di tributi erariali, sia mediante entrate proprie. Pertanto, sarebbe costituzionalmente illegittima una riduzione dei trasferimenti statali in termini tali da compromettere l’esercizio delle funzioni e senza prevedere strumenti con i quali le Regioni possano supplire alle riduzioni stesse”. Infine, la Regione vede leso anche il “principio di leale collaborazione”, non essendo previsto lo strumento della Conferenza Stato-Regioni o Conferenza unificata e non essendo previsto alcun coinvolgimento della Regione nella determinazione dei criteri per la riduzione dei fondi. Quanto alla Regione Campania, il suo ricorso riguarda sia il comma 186 che il comma 187: limitando l'analisi al secondo, riguardante le Comunità montane, i profili di incostituzionalità riguardano l'art. 187 e i principi di “leale cooperazione” e di “ragionevolezza, sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza” (v. n. 8.1 del Ritenuto in fatto). La ricorrente parla di “evidente invasione della competenza regionale” poiché, da un lato, la “legge statale vanificherebbe la scelta politica che una legge regionale ha compiuto” e, d'altro lato, essa “non utilizzerebbe le risorse tolte alla Regione per il contenimento della spesa, ma opererebbe uno spostamento delle stesse da un fondo ad un altro” (parte del quale sarebbe devoluto direttamente ai Comuni montani, con ulteriore lesione dell'autonomia regionale). 106 Si deve notare come, con questa pronuncia, la Corte si ponga in linea di continuità con i suoi precedenti (sentt. n. 237 del 2009 e n. 27 del 2010) individuando “i principi in base ai quali può ammettersi la legittimità dell'intervento statale in nome del coordinamento finanziario, sia pure in compressione di competenze regionai, peraltro residuali” (in proposito, F. CALZAVARA, Prime osservazioni sulla sent. n. 326 del 2010, cit., 3).
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comma, può essere ravvisata107. Significativo in tal senso è il fatto che la normativa preveda un “regime transitorio”, proprio al fine di “consentire la graduale riallocazione a livello locale della spesa per le Comunità montane”, oltre al fatto che la Corte ha già avuto modo di affermare che spetta alle Regioni, provvedere al finanziamento delle Comunità montane, dal momento che la loro disciplina rientra nella competenza residuale delle Regioni stesse. Infatti, da quest'ultima affermazione consegue che la riduzione del finanziamento statale per le Comunità montane non vìola i precedenti giurisprudenziali in materia di autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali108. La Corte prosegue affermando come non si possa dire “che si sia in presenza di una totale soppressione del finanziamento statale” (in quanto il comma 187 ha previsto il “trasferimento ai Comuni facenti parte delle Comunità montane, nelle more dell’attuazione del federalismo fiscale, del 30% delle risorse finanziarie oggetto dell’intervento apparentemente di totale soppressione”) e come non possa condividersi l'opinione secondo cui la normativa abbia disposto la “totale cancellazione del finanziamento statale precedentemente disposto a favore delle Comunità montane, nel palese intento di procedere surrettiziamente alla soppressione di detti organismi”, dal momento che “da un lato, in una parte consistente il predetto finanziamento non risulta eliminato”109 e, dall’altro, non è senza 107
Si veda n. 8.6 del Considerato in diritto. Cfr. 8.6 del Considerato in diritto. La Corte richiama, in proposito, la sent. cost. n. 27 del 2010, la quale a sua volta si rifà alle precedenti sent. cost.n. 237 del 2009 e sentt. n. 456 e 244 del 2005 esaminate nel § 1.3. 109 Come osservato da G. DI COSIMO, Le entrate siano certe, salvo che per la spesa corrente, in www.forumcostituzionale.it, 2011, 3, il fatto che la Corte faccia questa affermazione costituisce un'implicita negazione del fatto che le risorse siano inadeguate per l'esercizio delle funzioni delle 108
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significato che talune disposizioni legislative, pure richiamate dalle ricorrenti, hanno confermato la permanenza delle Comunità montane nell’ordinamento, visto che ad esse la normativa statale continua a fare riferimento. Del resto, la giurisprudenza costituzionale ha già chiarito che le Comunità montane non sono previste dall’art. 114 Cost. come enti costituzionalmente necessari110. Comunque, la Corte accoglie, in parte, le censure: il comma 187 è considerato, infatti, “irragionevole” nella parte in cui cancella il finanziamento statale delle Comunità montane, poiché in tal modo non viene assicurata la necessaria copertura finanziaria a quello che viene definito un “settore di rilievo”, vale a dire quello degli “investimenti strutturali a medio e lungo termine effettuati mediante la stipulazione di mutui originariamente ʻgarantitiʼ dal finanziamento statale”111. La disposizione è ritenuta illegittima anche con riferimento al primo periodo, che contiene “il generico ed indeterminato Comunità montane. Secondo l'Autore, tale affermazione è basata su tre punti fondamentali, vale a dire che “la disposizione assegna il 30% del finanziamento ai Comuni compresi nelle Comunità montane”, “un altro articolo della legge finanziaria rimodula le misure a favore degli enti locali” e “lo stesso intervento ablativo della Corte relativamnete alle spese in conto capitale (fondi per le opere pubbliche) contribuisce a ridurre l'entità del taglio”. Tuttavia, continua Di Cosimo, “il secondo e il terzo punto non convincono del tutto” in quanto, da un lato, la disposizione che “rimodula” prevede che si debba garantire “una riduzione complessiva degli stanziamenti pari a 10 milioni di euro per ciascun anno del triennio” e, quindi, “gli stanziamenti nel complesso non aumentano ma subiscono una contrazione” e, in secondo luogo, “la sentenza giudica una previsione relativa alla spesa corrente alla luce degli effetti del suo intervento ablativo su un'altra previsione relativa alla spesa in conto capitale contenuta nella stessa disposizione; il che è quanto dire che il finanziamento per la spesa corrente può essere drasticamente ridotto perchè resta il finanziamento per la spesa in conto capitale, nonostante che i fondi destinati a una categoria di spesa non possano essere utilizzati per l'altra”. 110 Cfr. n. 8.8 del Considerato in diritto. Il rimando alla giurisprudenza costituzionale è riferito alla sent. n. 229 del 2001. Sul punto si veda anche E.C. RAFFIOTTA, A proposito dei poteri sostitutivi esercitati nei confronti delle Comunità montane: davvero non c’è spazio per la leale collaborazione?, in www.forumcostituzionale.it, 2007, 3 ove si osserva come “la natura della Comunità montana ha subito un'evoluzione nella stratificazione normativa e molto si è discusso su essa; nonostante ciò, parrebbe forzare troppo il Testo costituzionale una lettura volta ad attribuire rilievo costituzionale a tali enti, perché espressione dei Comuni o comunque strumentali ad essi”. 111 Così si esprime la Corte nel n. 8.11 del Considerato in diritto.
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riferimento” all'eliminazione dei finanziamenti statali previsti dalle “altre disposizioni di legge relative alle Comunità montane”: risultano, infatti, lesi i principi di “certezza delle entrate, di affidamento e di corrispondenza tra risorse e funzioni pubbliche all'esercizio delle quali esse sono preordinate”, non essendo possibile “verificare la fonte e la destinazione delle risorse statali soppresse”, con violazione, quindi, dell'art. 119 Cost. e dell'autonomia finanziaria delle Regioni (che non sono messe nella condizione di poter “riorganizzare l'allocazione delle risorse disponibili e pianificare la spesa in sede locale”)112. Logica
conseguenza
è
la
dichiarazione
di
illegittimità
costituzionale del comma 187 nella parte in cui prevede la “devoluzione, in via transitoria, ai Comuni già facenti parte delle Comunità montane, del 30% delle risorse sia derivanti dal fondo ordinario nazionale per gli investimenti, sia spettanti agli stessi organismi in applicazione delle altre ʻdisposizioni di leggeʼ come sopra specificato”, trattandosi di “disposizioni strettamente connesse al primo periodo del comma 187, di cui è dichiarata la parziale illegittimità costituzionale”113. Dunque, con questa pronuncia la Consulta censura “un legislatore che sopprime, a posteriori, risorse destinate alla copertura degli oneri derivanti da mutui posti in essere per spese di investimento, senza che siano indicati i mezzi alternativi per farvi fronte. Nel sottrarre la copertura finanziaria al settore degli investimenti strutturali a medio e lungo termine effettuati nutrendo 112 113
Si veda n. 8.12 del Considerato in diritto. Cfr. n. 8.15 del Considerato in diritto.
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legittimo affidamento su risorse fornite originariamente dallo Stato si palesa infatti una irragionevolezza che si riverbera sulla autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali come ridisegnata dall'art. 119 Cost.”114. È stato, peraltro, rilevato come, in primo luogo, la Consulta non abbia assunto una posizione decisa (non avendo dato una indicazione risolutiva circa la competenza in tema di forme associative di enti locali, in un momento storico in cui il legislatore, per un verso, tenta di dare attuazione alla Riforma del Titolo V e, per altro verso, deve tener conto delle primarie esigenze di contenimento della spesa pubblica) e, in secondo luogo, come ciononostante, emerga una “lieve insofferenza verso iniziative che sconfinano a passo pesante nelle materie residuali, o quantomeno verso le modalità ʻirragionevoliʼ con le quali il legislatore nazionale talvolta procede, tant’è che si cerca di ovviarvi con ʻi temperamenti derivanti dalla presente pronunciaʼ (vale a dire con il comma 187 come risultante in virtù delle parti chirurgicamente dichiarate illegittime)”. Pertanto, anche se non si può propriamente parlare di “sentenza additiva”, comunque “il richiamo alla ragionevolezza e proporzionalità pare scandito con sufficiente vigore nell’auspicio che il legislatore ne tenga conto per il futuro”115. Nel complesso, la sentenza conferma il percorso interpretativo seguito a partire dal 2004, caratterizzato, dapprima, da un “approccio teleologico o finalistico alle materie” e, accompagnato, poi, dal “criterio di prevalenza quale strumento per la soluzione degli intrecci di competenze”116. Tuttavia, essa è solo parzialmente confermativa 114
In tal senso F. CALZAVARA, Prime osservazioni sulla sent. n. 326 del 2010, cit., 5. Cfr., F. CALZAVARA, Prime osservazioni sulla sent. n. 326 del 2010, cit., 6. 116 Come osservato da F. CALZAVARA, Prime osservazioni sulla sent. n. 326 del 2010, cit., 5. 115
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della precedente giurisprudenza in materia: infatti, non si riscontrano le classiche “autocitazioni” nella parte centrale della motivazione, a riprova di come “in questo caso la giurisprudenza costituzionale non si limiti a confermare sé stessa, a mò di specchio riflesso, ma subisca un'innovazione, oltre ad una conferma, almeno sui punti nodali”117. Anche l'UNCEM, nella persona del suo Presidente, Enrico Borghi, prende posizione in merito alla sentenza, riscontrandone un segnale
positivo.
Si
intravede
in
essa
un
“riconoscimento
importantissimo” da parte del Giudice delle leggi e una duplice conferma: accanto alla “assoluta illegittimità di una norma che incide sui mutui che le Comunità montane hanno stipulato facendo affidamento su fondi garantiti dallo Stato” si ribadisce la necessità che “siano le Regioni a subentrare in ragione della progressiva riduzione dei trasferimenti statali alle Comunità montane, smentendo quindi la logica dell'azzeramento brutale”118.
117
Cfr. F. RINALDI, L'incoerenza del legislatore si ferma sul muro della Corte. La sent. 326/2010 in tema di Comunità montane, in www.forumcostituzionale.it, 2011, 2. L'Autore precisa come si tratti di un'innovazione “che non si traduce in un revirement, ma in una continuazione della strada già percorsa antecedentemente e che vede il giudice costituzionale, legato dal nesso chiesto-pronunciato, impegnato a chiarire il rapporto Stato-Regioni un pezzo alla volta, casisticamente, ma, nello stesso tempo, grazie alle autocitazioni, anche sistematicamente nel quadro d'insieme”. 118 Così si esprime E. BORGHI nella Notizia Agipress n. 22225 del 18 novembre 2010, riportata in www.uncemtoscana.it. Analoga soddisfazione viene anche manifestata, nella medesima Notizia, da parte dei Presidenti delle sezioni UNCEM di Toscana e Piemonte i quali affermano, rispettivamente, come “la governance montana non può essere messa in discussione così come ha fatto il Governo, giustamente richiamato ai propri doveri dalla Corte Costituzionale” e che si tratta di una “svolta importante che ci consente di confrontarci con rinnovato spirito di collaborazione con le Regioni”.
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CAPITOLO III
IL CAMMINO VERSO IL FEDERALISMO FISCALE E IL RIASSETTO DEI CONTI PUBBLICI: DISEGNATE LE COMUNITÁ MONTANE DEL FUTURO
3.1 La legge-delega sul federalismo fiscale n. 42 del 5 maggio 2009. Considerazioni e punti critici del percorso “federalista” nell'ottica montana.
Per gli argomenti che qui interessano, uno sguardo va dato alla legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 5 maggio 2009, in base alla quale il Governo è chiamato ad emanare, entro ventiquattro mesi, “uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto l'attuazione dell'art. 119 Cost., al fine di assicurare, attraverso la definizione dei princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e la definizione della perequazione, l'autonomia finanziaria di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni” (art. 2, comma 1)1. 1
Va specificato che la formulazione dell'art. 2 cit. non comporta che “la legge delega non contenga dei ʻprincipi fondamentali del coordinamentoʼ molto dettagliati e compiuti. Tali principi, per quanto in sé e per sé compiuti, diverranno tuttavia efficaci e cogenti solo all'indomani dell'entrata in vigore delle norme delegate, in quanto in esse incorporati”. Quindi, il legislatore rispetta quanto previsto dall'art. 117 Cost., in base al quale “il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” rappresenta una materia di legislazione concorrente, spettando, dunque, allo Stato la fissazione dei “principi fondamentali” (in tal senso si veda E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, Milano, 2010, 177). Una notazione di carattere linguistico circa il testo legislativo: esso “è stato scritto seguendo una tecnica di redazione alluvionale. Periodi lunghi, quando non lunghissimi, in cui risultano collocati, l'uno accanto all'altro, disposti fra loro non omogenei, perchè caratterizzati da una ratio diversa e talvolta antitetica” (cfr. M. BERTOLISSI, Il bilanciamento tra solidarietà e responsabilità, in AA.VV., Federalismo fiscale: una sfida comparata, a cura di F. Palermo, E.
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Si tratta di una riforma storica, destinata “ad attivare il circuito della responsabilità, favorendo la trasparenza delle decisioni di spesa e la loro imputabilità, impedendo di continuare a contrabbandare come solidarietà quello che invece è rendita, clientela politica, o, peggio ancora, circuito d’illegalità”2. Innanzitutto, occorrono delle considerazioni preliminari per comprendere il concetto di “federalismo fiscale”, che non è citato nella nostra Carta fondamentale e nemmeno dalla Corte costituzionale (che, al più, si limita a richiamare opinioni altrui o norme in cui lo stesso è utilizzato)3, ricordando che risulta opportuno adottare una concezione “dinamica” e non “statica” del termine, “i cui ritmi sono scanditi da un pendolo ideale, che si muove tra due estremi: da un massimo a un minimo di espansione dell'autonomia, i cui poli opposti sono rappresentati dalla confederazione di Stati e dallo Stato unitario e Alber, S. Parolari, Milano, 2011, 53]. 2 Cfr. L. ANTONINI, La rivincita della responsabilità. A proposito della nuova Legge sul federalismo fiscale, in AREA ASSISTENZA COMMISSIONI – CONSIGLIO REGIONALE DELLA CALABRIA, Il federalismo fiscale. Rassegna di dottrina, Reggio Calabria, 25 giugno 2012, 11. L'Autore, in proposito, richiama M. BERTOLISSI, Commissioni riunite affari costituzionali, bilancio e finanze e tesoro del Senato - Indagine conoscitiva sul disegno di legge n. 1117, riguardante il federalismo fiscale, Novembre 2008, ove si osserva che “a memoria, questa è la prima volta che un testo normativo, di attuazione in via diretta della legge fondamentale, pone al centro del suo articolato in modo così netto il principio di responsabilità, il quale è tutt’altro che vago nelle sue premesse e nelle sue implicazioni di sistema”. 3 Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 3. L'Autore richiama in proposito S. GAMBINO, Federalismo fiscale e uguaglianza dei cittadini, in www.federalismi.it, 07 aprile 2009, 3, ove si osserva come il concetto di “federalismo fiscale” sia una “formula vuota di contenuti, senza concrete corrispondenze istituzionali alle forme federali di Stato”, “un ʻimbroglioʼ terminologico o, se vogliamo, una formula retorica”. Sull'argomento si veda anche M. BERTOLISSI, Una riflessione sul federalismo fiscale, in AA.VV., Verso un nuovo federalismo fiscale, a cura di L. Antonini, Milano, 2005, 137, ove si osserva che “il “federalismo, comunque lo si riguardi, è parola che ha generato quasi soltanto equivoci: ne parlano tutti, molto spesso senza cognizione di causa”. Sull'argomento si è espresso, ancora una volta, il Prof. Mario Bertolissi in occasione della manifestazione organizzata da ANCI Veneto, il 06 ottobre 2006, “Dire e fare nel Nord – Est”, ove egli ha affermato che “noi oggi usiamo per comodità la parola ʻfederalismoʼ che, però, corrisponde al termine ʻautonomiaʼ”.
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accentrato di stampo napoleonico”4. Il “federalismo fiscale” è, innanzitutto, un “criterio di distribuzione, tra diversi livelli di governo (…) del potere di reperire le risorse necessarie ad una collettività che è ordinamento”; inoltre, esso è un “sistema che costituisce, tra fisco e contribuente, rapporti tendenzialmente collaborativi, ovviamente segnati dai differenti valori costituzionali espressi e rappresentati dall'uno e dall'altro”5. Inoltre, esso, più che l'oggetto della legge, rappresenta lo scopo di quest'ultima, che mira ad individuare quelle “linee direttrici” che consentiranno di passare ad un sistema nuovo e diverso rispetto quello attuale, che è basato su una finanza regionale e locale, in larga parte, “derivata”, e su una disciplina unitaria dei tributi, la quale comporta l'impossibilità per Regioni ed enti locali di provvedere mediante scelte autonome6. In particolare, secondo Antonini, la riforma “permetterà di 4
Cfr. M. BERTOLISSI, Il bilanciamento tra solidarietà e responsabilità nell'ambito del federalismo fiscale, cit., 27. Quanto alla connessione tra il federalismo e la forma di Stato, va osservato che “il cosiddetto federalismo fiscale non va disgiunto dal federalismo tout court, dal momento che rappresenta il risvolto finanziario del federalismo stesso” (cfr. M. BERTOLISSI, Rivolta fiscale. Federalismo. Riforme istituzionali. Promemoria per un'Italia che cambia, Padova, 1997, 30). 5 Cfr. M. BERTOLISSI, Federalismo fiscale: una nozione giuridica, in Federalismo fiscale, 1/2007, 34. Secondo Bertolissi, il “principio-base” del federalismo fiscale è che “agli enti territoriali substatali (Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane) deve essere attribuita una leva fiscale vera e di consistenza tale da consentire a ciascun ente di realizzare, annualmente, uno sforzo fiscale autonomo, a fronte di decisioni di spesa discrezionali. Non obbligatorie, perché allora non è davvero il caso di parlare di autonomia” (cfr. M. BERTOLISSI, Federalismo fiscale al fallimento, in Il mattino di Padova, 26 luglio 2012). Quanto al concetto di “autonomia”, infatti, va ricordato che “il tratto che caratterizza un ordinamento autonomo, rispetto ad uno non autonomo, dipende dalla circostanza che al livello substatale di governo sia attribuito o no, in una qualche misura, un potere di ʻvotare l'impostaʼ, esercitando il quale l'ente può determinare, per ogni annualità, uno sforzo fiscale autonomo” (cfr. M BERTOLISSI, Rivolta fiscale, cit., 28-29). 6 In tal senso si veda E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit. 3. Opinione diversa è espressa in M. BERTOLISSI, Federalismo fiscale: una nozione giuridica, cit., 34, ove l'Autore afferma che il federalismo fiscale “è, per definizione, strumento e non fine, funzione e non potere”. Quanto al passaggio da un sistema di finanza derivata a uno di finanza autonoma, si veda anche, M. BERTOLISSI, Una riflessione sul federalismo fiscale, cit., 138, ove l'Autore rileva come “non ha un gran senso parlare di ʻfederalismoʼ (e predicare l'autonomia) se la fiscalità continua a rimanere accentrata: meglio ancora, se alle Regioni è precluso di determinare, anno per
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imputare la responsabilità con chiarezza”, gli italiani potranno ottenere la “tracciabilità dei tributi”, essendo messi a conoscenza di come viene utilizzato il denaro derivante dalle imposte, e, di conseguenza, saranno nella condizione di poter meglio giudicare l'operato della classe politica7. In sostanza, essa “costituisce un passaggio indispensabile per combattere l’inefficienza e modernizzare alcuni elementi del ʻpatto fiscaleʼ rendendolo più conforme al principio no taxation without representation”8. Dunque, il “destinatario vero” della legge è il “cittadino”, o meglio, il “contribuente onesto”, malgrado di lui nulla si dica, dal momento che “i protagonisti rimangono i soggetti istituzionali, i rappresentanti eletti, perchè si fa sempre e soltanto questione di competenze e di distribuzione di risorse tra enti”9. anno, uno sforzo fiscale autonomo. Il che non va inteso né in senso estremistico né in senso demagogico, ma con equilibrio e alla luce del principio (pure esso non retorico) della ʻresponsabilità finanziariaʼ”. Inoltre, si veda EIM, La montagna e il federalismo fiscale, in Sopra il Livello del Mare, 34/2009, 5, ove si osserva che il federalismo è attuabile attraverso il decentramento delle spese e delle entrate. Il primo può avvenire “in ambito legislativo attraverso un trasferimento omogeneo di competenze ai diversi livelli istituzionali”, mentre il secondo “è condizionato dal trasferimento della capacità impositiva ai singoli livelli istituzionali”. Dunque, appare necessario “definire modelli di approccio e criteri di perequazione in grado di bilanciare istanze territoriali e risorse finanziarie necessarie per ridurre ed eliminare le differenze tra i territori, promuovere la coesione e l'integrazione economica e sociale, nonché ridefinire e ampliare le competenze e le deleghe connesse al funzionamento e al finanziamento delle amministrazioni pubbliche, sia in chiave programmatica che di erogazione dei servizi ai cittadini e alle imprese”. Inoltre, per quanto riguarda i territori montani, colpiti da fenomeni di senilizzazione e spopolamento che incidono negativamente sulla capacità contributiva, risulta “opportuno introdurre un doppio criterio di perequazione: uno in merito alla compensazione delle capacità fiscali” e “l'altro di finanziamento dei bisogni locali”. 7 Cfr. L. ANTONINI, Le linee essenziali del nuovo federalismo fiscale, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, Torino, 2010, 51. 8 Così L. ANTONINI, Il federalismo fiscale ad una svolta: il nuovo disegno di legge, in www.federalismi.it, 06 agosto 2008, 4. L'Autore osserva, poi, come senza federalismo fiscale “non si potranno attivare meccanismi di responsabilizzazione verso gli elettori locali, e non si potrà favorire la trasparenza delle decisioni di spesa e la loro imputabilità”, con la conseguenza che sarà, altresì, impossibile una reale diminuzione della spesa pubblica. 9 In tal senso, M. BERTOLISSI, Il bilanciamento tra solidarietà e responsabilità nell'ambito del federalismo fiscale, cit., 53. Prosegue l'Autore osservando che “ove il termine di riferimento primo fosse stato il contribuente e davvero si fosse voluto partire dalla solidarietà che genera ed
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È stato anche affermato che il “federalismo fiscale” può essere inteso in quattro, diverse accezioni10. In base alla prima, che può essere definita “territoriale”, si pone l'accento sul fatto che “i singoli tributi ricadano verticalmente sul territorio cui sono riferibili (ossia, che il gettito dei tributi resti di pertinenza dei territori in modo strettamente proporzionale al contributo che essi hano dato per generarlo, indipendentemente dalla fonte istitutiva di essi)”. Con la seconda, si dà preminente rilievo alla “possibilità per gli enti territoriali sub-statali di disporre di risorse finanziarie stabili, adeguate e prevedibili, da destinare alle priorità di volta in volta individuate a livello politico locale”, con la conseguenza che, una volta che sia assicurata “certezza di entrata e libertà di spesa”, si può qualificare “federale” anche un sistema che “prescinda dalla territorialità del gettito dei tributi, quale può essere, per esempio, un regime basato su forme di compartecipazione al gettito dei tributi statali non ripartitite su basi strettamente territoriali e che parimenti si strutturi con modalità tali da non lasciare apparire l'ente sub-statale
implica responsabilità, si sarebbe dovuto affermare, nell'ordine: che tutti debbono concorrere alle spese pubbliche; che la contabilità deve essere certa o almeno credibile; che si devono fare i conti dell'evasione fiscale; che vanno salvaguardati i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi su tutto il territorio nazionale; che ci deve essere un tavolo comune per categorie di enti (quindi, le Regioni a statuto speciale non vanno tenute a parte); che ogni livello di governo deve disporre di una leva fiscale (tributi propri) tale da consentirgli di stabilire annualmente uno sforzo fiscale autonomo sindacabile (…); che si deve procedere avendo fissato un piano generale di adempimenti realistico e non improntato al metodo della normazione apparente, perchè fatta di rinvii a catene di atti normativi ulteriori e via dicendo”. Invece, ciò non è stato fatto, in quanto “gli enunciati utilizzati non esprimono una forza normativa adeguata”. In particolare, secondo l'Autore “si sarebbe dovuto dedicare una qualche attenzione al tema della crisi della finanza pubblica, la quale è gravata da pesi insopportabili e dal rischio, sempre incombente, del debito sovrano”. 10 Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit. 3.
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come soggetto attivo della potestà impositiva”11. La terza accezione di “federalismo fiscale” è quella in base alla quale risulta necessaria la “riunificazione del potere di imposizione tributario con quello di rappresentanza e di spesa, permettendo, così, l'assunzione di decisioni politiche responsabili, dal momento che l'elettore può controllare come vengano impiegati i tributi riscossi. Infine, stando alla quarta ed ultima accezione, “fortemente connotata da esigenze di armonizzazione del sistema fiscale”, il federalismo deve rappresentare
un “processo utile per aggregare
entità territoriali già esistenti (…). Deve servire a ridurre le distanze, ad attenuare le differenze, ad unire. Nel caso, invece, che lo si voglia utilizzare per trasformare uno Stato unitario in uno federale, il c.d. federalismo fiscale diviene uno strumento per permettere ai micronazionalismi locali di aumentare le distanze, accentuare le differenze, separare, disaggregare”, contrariamente a ciò che, tradizionalmente, il federalismo impone. In ogni caso, esso deve prevedere “la permanenza centralizzata di ampie competenze in 11
Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit. 4. L'Autore osserva (richiamando in proposito, A. PETRETTO, La legge delega sul federalismo fiscale: problematiche ed opportunità per gli enti locali, in www.federalismi.it, 2009, oltre a T. VENTRE, L'IRAP e la tassa automobilistica regionale non sono tributi propri delle Regioni: spetta alla esclusiva competenza dello Stato la modifica delle relative discipline, in www.federalismi.it, 9 ottobre 2003) come questa accezione sia “probabilmente quella preferita dagli enti sub-statali. Essi, infatti, più che all'applicazione dei tributi sono interessati alla gestione attiva del proprio bilancio, vale a dire a disporre di risorse finanziarie adeguate da destinare alle priorità di volta in volta individuate a livello politico”. L'Autore evidenzia anche una variante di tale accezione di “federalismo fiscale”, cioè, quella che “mantenendo ferma l'essenzialità per gli enti territoriali sub-statali di disporre di risorse finanziarie stabili, adeguate e prevedibili, da destinare alle priorità politiche di volta in volta individuate, ritiene tuttavia compiuta una visione federale in materia fiscale solo là dove venga comunque garantita a tali enti anche un certo grado di autonomia di imposizione”, potendo, perciò, “qualificarsi come federale anche un regime fiscale basato, eminentemente, su forme di compartecipazione al gettito di tributi statali, rispetto ai quali Regioni ed enti locali dispongano di manovrabilità in termini di aliquote e di basi imponibili”.
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materia tributaria”, così da garantire una “più efficace ed equa ripartizione delle risorse pubbliche, lasciando alla responsabilità di imposizione locale un ruolo residuale12. Guardando quelle che sono state le scelte del legislatore, si può dedurre che egli non abbia accolto nessuna delle quattro accezioni. Non ha accolto la prima, quella “territoriale”, e non senza ragioni: infatti, concepire in questo modo il federalismo fiscale, avrebbe significato violare l'art. 5 Cost. e il principio fondamentale di “unità della Repubblica” in esso affermato, che comporta, peraltro, la “impossibilità di enucleare, dalla Costituzione, dei presupposti di imposizione
che
possano ʻoggettivamenteʼ
considerarsi
come
regionali, piuttosto che comunali o provinciali”13. 12
Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 7. In tal senso, E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 258. Cfr. anche G. MARONGIU, Note a margine del “Federalismo fiscale”, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 9, ove si osserva come la nostra Costituzione riconosca autonomia ma non sovranità alle Regioni e agli enti locali, con la conseguenza che “proprio perchè le Regioni non sono entità sovrane, esse non hanno il diritto a trattenersi quanto prodotto e/o incassato nel rispettivo territorio”. Con riferimento all'esigenza di coniugare il principio di “unità della Repubblica” con quello di “autonomia territoriale” si veda R. MORRA, Unità nazionale e autonomia della Regione, in Il diritto della Regione, febbraio 2012, il quale riprende l'intervento di Giorgio Napolitano a Montecitorio del 17 marzo 2011, che in tale occasione aveva osservato come “l'Unità si è sempre declinata con altre parole: autonomia, pluralità, diversità, sussidiarietà”. Quanto al concetto di “unità”, si veda anche M. BERTOLISSI, Stato sociale e federalismo fiscale, in Atti preparatori al Convegno “Regionalismo fiscale tra autonomie locali e diritto dell'Unione Europea”, organizzato dalla Fondazione Antonio Uckmar e tenutosi a Taormina il 2728 aprile 2012, ove si osserva che “l'unità non è uniformità, non è uguaglianza sul piano formale e, dunque, egualitarismo, ma unità sostanziale. Non è giustapposizione o somma di entità diverse, ma sintesi del plurale”. Peraltro, è stato osservato come vi sia nella legge delega un riferimento al “principio di territorialità”, in particolare nell'art. 2, comma 2, lettera e), “in cui è scritto che tra i criteri da applicare in sede di decreti delegati debba esservi quello della “attribuzione di risorse autonome ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni in relazione alle rispettive competenze, secondo il principio di territorialità”. Allorché il principio in oggetto è applicato ai tributi propri in senso stretto, quelli, cioè, che non finanziano ciò che rientra nel costo standard del livello normale dei servizi resi dagli enti in relazione alle funzioni pubbliche loro attribuite, il principio in oggetto è del tutto corretto. Il punto è quello che in tanto un ente territoriale ha titolo a decidere della dimensione della spesa, in quanto esso si faccia carico degli oneri che da questa scelta derivino (principio di responsabilità). Un tributo non rispettoso del principio di territorialità 13
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Nemmeno può dirsi accolta la seconda, che si fonda prevalentemente sulla “certezza di entrata e libertà di spesa”, in quanto la legge delega “prevede un'aliquota di risorse, relativamente stabile e prevedibile, non proveniente dall'esercizio dell'imposizione locale e tuttavia assicurata agli enti territoriali senza vincolo di destinazione”14. Perseguita, ma non ancora realizzata, è la terza accezione di federalismo, basata sulla “riunificazione del potere di imposizione con quello di rappresentanza e di spesa”. Infatti, se è vero che la legge prevede il passaggio dal criterio della “spesa storica” a quello fondato sulla “perequazione dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali degli enti locali sulla base di costi e di fabbisogni standard”, da un lato, e, d'altro lato, la “perequazione delle diverse capacità fiscali per il sostentamento di tutte le altre funzioni regionali e locali”15, è innegabile che “anche nel nuovo quadro costituzionale e, conseguentemente, anche nei contenuti della legge delega, permane una stretta interdipendenza fra i sistemi tributari locali e quello tributario statale”, che si traduce “nell'alimentazione dei (di responsabilità) comporta che gli oneri delle scelte di cui si tratta siano trasferiti su altre collettività, il che non è soltanto ingiusto, ma è altresì contrario a qualsivoglia criterio di efficienza” (cfr. F. PICA (a cura di), Il federalismo fiscale: “schede tecniche” e “parole chiave”, Roma, 2009, 29). In proposito si veda anche M. BERTOLISSI, A proposito della c.d. Riforma Calderoli, in Federalismo fiscale, 2/2009, 20, ove l'Autore ravvisa proprio nel “principio di territorialità”, di cui al comma secondo dell'art. 2, “il significato più vero e profondo del tessuto normativo in esame”, dal momento che allo stesso “sono riferiti i ʻprincipi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui all'art. 118 Cost.ʼ (…)” e quello “di autonomia e di responsabilità (…)”. 14 Sul punto E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 260. L'Autore, in proposito, porta l'esempio delle “compartecipazioni ai tributi erariali” e della “perequazione” (per i territori con minore capacità fiscale per abitante). 15 Per i concetti di “spesa storica”, “fabbisogno standard” e “perequazione” si rimanda al proseguio della trattazione.
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fondi perequativi regionali e locali posta a carico della fiscalità generale e nell'imprescindibile fonte di provvista finanziaria (senza vincolo di destinazione) per Regioni e enti locali, ancora oggi rappresentata dalle compartecipazioni al gettito di tributi di pertinenza erariale”16. Infine, nemmeno traspare nella legge delega la “volontà di un progressivo spostamento di competenza in materia tributaria e finanziaria dalla periferia al centro, in funzione di una più efficace ed equa ripartizione delle risorse pubbliche, lasciando alla responsabilità di imposizione locale un ruolo residuale”, di cui alla quarta accezione. Sembra che il legislatore abbia preso atto delle “differenze economico-sociali fra le varie aree geografiche del Paese” ma che il superamento di tali differenze passi attraverso la “valorizzazione delle autonome responsabilità di imposizione a livello locale e il graduale superamento dell'attuale sistema”, caratterizzato, come detto, da una finanza locale per la maggior parte “derivata” e da una “disciplina statale unitaria di tutti i tributi”17. Quindi, si deve concludere nel senso che il legislatore abbia adottato una “versione di compromesso” di “federalismo fiscale”, caratterizzata dalla compresenza di un “reale decentramento della responsabilità di entrata e di spesa” e di una permanenza di “risorse di 16 Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 261. Corali osserva come queste constatazioni portino a “ritenere difficilmente realizzata quella completa riunificazione del potere di imposizione con quello di rappresentanza e di spesa, che permette l'assunzione di decisioni politiche responsabili”. 17 In tal senso, E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 262. L'Autore prosegue evidenziando come, nella legge delega, “continui a permanere un ruolo di preminenza dello Stato nelle vesti di coordinatore del sistema fiscale nel suo complesso”, cui spetta “rimuovere gli squilibri economici e sociali” e “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale”.
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pertinenza statale (alimentate dalla fiscalità generale)”, volte a garantire il “riequilibrio di eventuali, troppo forti diversità fra le varie aree territoriali, nel rispetto dei valori di unità e solidarietà che stanno alla base dell'assetto costituzionale vigente”18. Risulta opportuno, altresì, precisare quello che è il quadro normativo di riferimento: in primo luogo, viene in rilievo l'art. 119 Cost., che i decreti delegati devono provvedere ad attuare. Esso riconosce “autonomia finanziaria di entrata e di spesa” a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni (primo comma), dotando gli stessi di “risorse autonome” (secondo comma), che devono consentire di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite (quarto comma)19. La disposizione prevede, poi, la possibilità, per lo Stato di destinare “risorse aggiuntive” e di effettuare “interventi speciali” a favore di determinati enti locali (sesto comma) e sancisce che Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni sono dotate di “proprio patrimonio” (settimo comma) e “possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento” (ottavo 18
Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 262. Per un'altra definizione di “federalismo fiscale” si veda anche G. MARONGIU, Note a margine del “federalismo fiscale”, cit., 8, che sottolinea come esso “deve concepirsi come una struttura astratta di organizzazione dell'intervento pubblico i cui contenuti concreti possono essere i più diversi a seconda di come sia definito il ruolo dello Stato centrale rispetto a quello degli enti decentrati”. 19 In tal senso si veda E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 8 ss. L'Autore, nel sintetizzare il contenuto della disposizione in esame, richiama quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 423 del 2004. Quanto al concetto di “autonomia finanziaria”, egli osserva come, per consolidata opinione, esso deve essere inteso quale “potere di autodeterminazione sia delle spese che delle entrate (anche di natura coattiva), in quanto conseguenza necessaria dell'autonomia politica dell'ente Regione” che, tuttavia, risulta “sempre subordinato nel suo esercizio ad un preventivo, e ampiamente discrezionale, intervento del legislatore statale”, il quale dovrà decidere se e in che limiti consentirne l'esercizio. Viene richiamata, a conferma di ciò, la sent. cost. n. 214 del 1987, ove la Consulta afferma che “in mancanza di una legge statale che attribuisca alla Regione un determinato tipo di tributo e delimiti il potere impositivo riguardo ad esso, l'autonomia tributaria regionale non può legittimamente esplicarsi”.
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comma), con la precisazione che “è esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti” (ultimo comma)20. In secondo luogo, occorre sempre tenere a mente l'art. 117 Cost. e il riparto di competenze in esso statuito, che incide “sia sui possibili contenuti, sia sulla veste giuridica, delle stesse norme di attuazione dell'art. 119 Cost.”21. In terzo luogo, vanno considerati anche gli artt. 81 (il terzo comma prevede l'obbligo di copertura finanziaria delle spese)22, 53 (esso, al secondo comma, sancisce il criterio della progressività per il sistema tributario) e 23 (ai sensi del quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”) Cost. Quanto al primo, si deve ricordare che la Corte ha ribadito la sua vincolatività per tutte le Regioni, comprese quelle a statuto speciale, precisando, altresì, che il principio di copertura deve essere osservato con riferimento alle spese che incidono sull'esercizio in corso e che 20
Va precisato che, ai sensi del quinto comma, lo Stato destina “risorse aggiuntive” ed effettua “interventi speciali” a favore degli enti locali al fine di “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale”, “rimuovere gli squilibri economici e sociali”, “favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona” o “provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”. 21 Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 8. L'Autore osserva come “il quadro di sintesi del riparto delle potestà legislative fra Stato e Regioni in tema di federalismo, finanza pubblica e fiscalità (ossia in tema di federalismo fiscale, qualsiasi sia l'accezione in cui esso venga declinato) è stato tracciato ancora una volta dalla Corte”, la quale, nella sent. n. 102 del 2008, attribuisce allo Stato la competenza esclusiva per quanto riguarda il sistema tributario statale e la “perequazione delle risorse finanziarie”, alle Regioni la competenza esclusiva “nella materia tributaria non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (purchè “l'esercizio di tale facoltà non si traduca in un dazio o in un ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni”) e alla competenza concorrente di Stato e Regioni la “materia del ʻcoordinamento della finanza pubblica e del sistema tributarioʼ, nella quale è riservata alla competenza legislativa dello Stato la determinazione dei principi fondamentali”. 22 Va ricordato che la disposizione in questione è stata modificata dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1. Prima di tale riforma, l'obbligo di copertura della spesa era sancito dal comma quarto.
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devono essere verificati, anche, da un lato, l'equilibrio nel lungo periodo tra entrate e uscite e, d'altro lato, gli oneri che gravano sugli esercizi futuri23. Quanto al secondo, la sua rilevanza si coglie nel fatto che, se la progressività è un “principio che deve informare l'intero sistema tributario”, di conseguenza, anche Regioni ed enti locali, risultano obbligati a dare applicazione al medesimo principio nell'esercizio del loro potere impositivo24. Quanto, infine, all'art. 23 Cost., esso esplicita significato e limiti della “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, garantita agli enti locali dall'art. 119 Cost.25. Analizzando il contenuto della legge delega, si può osservare come essa si basi su due pilastri fondamentali: “solidarietà sostanziale e omogeneità nelle erogazioni delle prestazioni pubbliche” e “responsabilità
politico-amministrativa
e
contenimento
degli
sprechi”26. È stato anche osservato che esso è fondato sul “trinomio 23
Cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 9. L'Autore richiama, in proposito la sent. cost. n. 213 del 2008, conforme alla precedente sent. n. 359 del 2007. In particolare si veda il 6.1 del Considerato in diritto, ove la Corte afferma che il principio dell'obbligo di copertura finanziaria delle spese “è vincolante anche per le Regioni a statuto speciale”, precisando che “la copertura deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri”. Inoltre, nel proseguio del medesimo punto, la Corte sostiene che detto obbligo “deve essere osservato con puntualità rigorosa nei confronti delle spese che incidono su un esercizio in corso e deve valutarsi il tendenziale equilibrio tra entrate ed uscite nel lungo periodo, valutando gli oneri già gravanti sugli esercizi futuri”. 24 In tal senso, E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 10. 25 Sul punto si veda, ancora una volta, E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 10. 26 Cfr. V. UCKMAR, Federalismo fiscale tra autonomia e solidarietà, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, cit. 4. A giudizio dell'Autore molte sono le ragioni che portano a “dubitare sulla bontà del risultato”, quali il mancato “assetto sostanziale e definitivo del regionalismo (soprattutto il Senato delle Regioni)”, la “scarsa attendibilità della contabilità degli enti locali”, denunciata dalla Corte dei Conti, la mancata definizione dei “tributi derivati” e dei “tributi propri” (il legislatore si limita a dare solo alcune indicazioni di massima, come il “divieto della doppia imposizione” e la “territorialità”), la “possibilità di applicare aliquote addizionali sull'IRPEF, tributo assai gravoso”, la “complessità dei tipi di prelievo e di finanziamento”, la
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autonomia – solidarietà – responsabilità”, attraverso il quale si possono realizzare due obiettivi fondamentali, vale a dire, da un lato, consentire ai cittadini di conoscere la “ragione del perchè pagano” e, d'altro lato, rendere l'imposta “sopportabile”, in modo da non “scoraggiare la produzione del reddito” e da non “diventare causa tecnica dell'evasione”27. Innanzitutto, di primaria importanza è il sopra accennato passaggio dal criterio della “spesa storica” a quello del “fabbisogno standard”. Il primo è quello che “indica quanto storicamente si è speso per
mancata definizione dei “diritti fondamentali che debbono essere garantiti con il finanziamento”, la complessità dell'iter procedimentale, le mancate disposizioni circa la “necessaria organizzazione degli Uffici e del personale (8.000 Comuni) e la mancata disposizione circa le Regioni a statuto speciale, “per le quali l'attuazione del regionalismo fiscale dovrà comportare una riduzione delle erogazioni e delle attribuzioni, con necessità di intervenire con legge costituzionale per la modifica degli Statuti”. In senso contrario si veda, invece, L. ANTONINI, Il federalismo fiscale ad una svolta, cit., 5, ove l'Autore si eprime in maniera positiva circa i “pilastri fondamentali” su cui poggia la delega. Secondo Antonini, “autonomia e responsabilità” sono “virtuosamente coniugate, valorizzando la possibilità di razionalizzazione della spesa e il controllo democratico degli elettori locali. C'è molto bisogno di questo: altrimenti un federalismo come quello voluto dalla riforma costituzionale del 2001, che ha decentrato forti competenze legislative, se permane uno schema di finanza derivata, rischia di lasciare il Paese a metà del guado, nella peggiore delle situazioni possibili, dove lo Stato non si ridimensiona e Regioni ed enti locali non si responsabilizzano. Il federalismo fiscale è l'antidoto a questa, altrimenti devastante, situazione di stallo”. 27 In tal senso M. BERTOLISSI, Federalismo fiscale: una nozione giuridica, cit., 35, ove l'Autore riporta le riflessioni di Luigi Einaudi (nella presentazione di L.V. BERLIERI, La giusta imposta, Roma, 1945, cit. da G. FALSITTA, Per un fisco “civile”, Milano, 1996, IX) e di Ezio Vanoni (ripreso da E. DE MITA, La legalità tributaria, Milano, 1993, 8-9). A proposito del primo obiettivo (render conto ai cittadini della “ragione del perchè pagano”), va, infatti, ricordato che “la prospettiva del contribuente attuale non è quella di chi paga a fronte di un servizio ottenuto (tassa), non è quella di chi paga adempiendo al dovere di solidarietà (imposta), ma è quella di chi paga per ragioni di solidarietà chiedendo al tempo stesso lumi sulla destinazione delle risorse date e sui risultati conseguiti (tributo di scopo)” e “sarà inteso il gravame finanziario come ʻragionevoleʼ se la risorsa è stata ben spesa: secondo il precetto, così limpido, dell'art. 97 Cost., che pone il ʻbuon andamentoʼ al centro dell'intero edificio dello Stato, qualunque funzione esso eserciti. Lo sperpero deve generare responsabilità in concreto, non fattispecie astratte di responsabilità, e il principio organizzativo che meglio può esprimere questa fondamentale esigenza dello Stato democratico è quello che accoglie l'idea federalista, in specie per quel che attiene al federalismo fiscale, poiché è in un simile contesto che si afferma il principio dell'autogoverno responsabile”. (cfr. M. BERTOLISSI, Fiscalità e forma di stato: un appunto, in Federalismo fiscale, 2/2007, 114-115).
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un determinato servizio”28 e che, quindi, finanzia il fabbisogno “quale livello di spesa determinatosi negli anni precedenti a prescindere dall'efficienza gestionale”, arrivando ad un paradosso, dal momento che tanto più inefficiente è la spesa regionale, tanto maggiori sono i finanziamenti29, con una dinamica del tipo “più spendi più prendi”30. Si tratta di un criterio che ha portato a “risultati catastrofici”, in quanto la deresponsabilizzazione che ne è derivata ha comportato una stanziamento di € 12,1 mld “a favore delle Regioni tradizionalmente in rosso (Abruzzo, Campania, Lazio, Molise, Sicilia)”, con un costo pro-capite pari € 250,0031. Invece, il concetto di “fabbisogno standard” rimanda al “costo di un determinato servizio, che avvenga nelle migliori condizioni di efficienza e appropriatezza, garantendo i livelli essenziali di prestazione”, ed esso, nella legge n. 42 del 2009, è determinato prendendo come punto di riferimento la Regione più “virtuosa”, vale a dire quella che presta i servizi ai costi “più efficienti”. Dunque, mentre 28
Cfr. Guida alla riforma, in federalismo.sspa.it. Così B. BALDI, I “numeri” del federalismo fiscale: un confronto fra le Regioni, in Le Istituzioni del Federalismo, 5-6/2010, 512. 30 In tal senso, L. ANTONINI, La possibile dinamica del federalismo fiscale: dalla democrazia della spesa alla democrazia delle virtù, in Il diritto della Regione, 4-5 giugno 2012, ove si definisce tale dinamica come “un epitaffio tombale su ogni cultura della responsabilità”, confermata dal fatto che “abbiamo avuto sindaci e presidenti di Regione rieletti con maggioranze bulgare nonostante gestioni disatrose ma con il ʻmeritoʼ di averle fatte ripianare allo Stato”. 31 Cfr. V. UCKMAR, Federalismo fiscale tra autonomia e solidarietà, cit., 3. In proposito si veda anche L. ANTONINI, Il federalismo fiscale ad una svolta, cit., 3, ove si osserva come un sistema di finanza derivata e basato sul criterio della spesa storica “finisce per premiare chi ha più creato disavanzi, favorisce una politica dell’inefficienza. Un sistema di finanza derivata finisce cioè per consacrare il principio per cui chi più ha più speso in passato può continuare a farlo, mentre chi ha speso meno, perché è stato più efficiente, deve continuare a spendere di meno. Senza rovesciare questa dinamica e senza reali incentivi all’efficienza non si potranno creare sufficienti motivazioni per una razionalizzazione della spesa pubblica”. L'Autore porta, poi, il significativo esempio della sanità, i cui costi a carico dell'erario “sono quasi raddoppiati in 10 anni passando dai 55,1 miliardi del 1998 ai 101,4 miliardi del 2008; e questo nonostante le misure di contenimento previste nelle leggi finanziarie di quegli anni”. 29
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la “spesa storica riflette sia i fabbisogni reali (quelli standard) sia vere e proprie inefficienze”, “il costo standard finanzia solo i servizi”32 e comporta che, “per il finanziamento degli enti territoriali, la determinazione dei costi dovrà essere adeguata ad una gestione efficiente ed efficace di Pubblica Amministrazione, tenendo anche conto del rapporto tra il numero dei dipendenti dell’ente territoriale ed il numero dei residenti” e “il fabbisogno standard” sarà il criterio da applicare nel finanziamento delle funzioni fondamentali e dei livelli essenziali delle prestazioni degli enti locali, così come previsto dall'art. 11, comma primo, lett. b), della legge delega. Esso, dunque, “viene inteso come un obiettivo indicatore di bisogno finanziario, da valorizzarsi tenendo conto delle numerose variabili socio-economiche che caratterizzano le singole Regioni, strumentale a rendere esigibili i livelli essenziali delle prestazioni ad un livello qualitativo e quantitativo altrettanto “standard”, e non minimo, cioè garante di un livello di erogazione apprezzabile ed efficiente”33. Volgendo, poi, l'attenzione ai territori montani, si può osservare come la legge delega sia stata nettamente contraddetta sia dal d.d.l. n. 3118 che dalla Finanziaria 2010, esaminati nel precedente capitolo, dal momento che il legislatore ha del tutto ignorato quel principio che impone, per quanto riguarda il finanziamento delle funzioni di Comuni,
Province
e
Città
metropolitane,
la
“valutazione
dell’adeguatezza delle dimensioni demografiche e territoriali degli 32
Cfr. L. ANTONINI, La rivincita della responsabilità, cit., 13. Cfr. Guida alla riforma, cit. In senso analogo si veda L. ANTONINI, La possibile dinamica del federalismo fiscale, cit., che osserva come il criterio del “fabbisogno standard” dia attuazione ai “principi di eguaglianza e di efficienza perchè garantisce a tutti le risorse per i servizi, mentre combatte quegli sprechi che la spesa storica invece irrazionalmente finanzia”. 33
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enti locali per l’ottimale svolgimento delle rispettive funzioni e salvaguardia delle peculiarità territoriali, con particolare riferimento alla specificità dei piccoli Comuni, ove, associandosi, raggiungano una popolazione complessiva non inferiore a una soglia determinata dai decreti legislativi di cui all'art. 2, dei territori montani e delle isole minori” (art. 11, lettera g) della legge delega) e, per quanto concerne l'entità e il riparto dei fondi perequativi per gli enti locali, la definizione delle modalità di computo della spesa corrente standardizzata, ai fini della ripartizione del fondo perequativo tra i singoli enti, “sulla base di una quota uniforme per abitante, corretta per tenere conto della diversità della spesa in relazione all'ampiezza demografica, alle caratteristiche territoriali, con particolare riferimento alla presenza di zone montane, alle caratteristiche demografiche, sociali e produttive dei diversi enti” (art. 13, lettera d), legge cit.)34. Inoltre, evidente è la lesione, pure, degli artt. 16 (“Interventi di cui al quinto comma dell'articolo 119 della Costituzione”35) e 22 (“Perequazione infrastrutturale”) che impongono, rispettivamente, di tener conto delle “specifiche realtà territoriali, con particolare riguardo alla realtà socio-economica, al deficit infrastrutturale, ai diritti della persona, alla collocazione geografica degli enti, alla loro prossimità al confine con altri Stati o con Regioni a statuto speciale, ai territori montani e alle isole minori, all'esigenza di tutela del patrimonio 34
In tal senso E. RACCA, Rimettiamoci in viaggio, in Comunità Montagna, gennaio-marzo 2010, 26. 35 Si ricorda che l'art. 119, comma 5, Cost., prevede che le risorse attribuite a Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane (derivanti da tributi e entrate proprie, compartecipazioni al gettito di tributi statali, fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante) consentono agli stessi di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.
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storico e artistico ai fini della promozione dello sviluppo economico e sociale” e dei “particolari requisiti delle zone di montagna”36. Quanto alle valutazioni espresse dall'UNCEM in merito alla legge delega, il Presidente, Enrico Borghi, si dichiara pronto alla sfida del federalismo e pienamente favorevole al fatto che gli enti montani possano godere dei vantaggi fiscali derivanti dal loro territorio (che, ricorda, produrre un quinto della ricchezza nazionale): in particolare, necessaria viene ritenuta la previsione di una compartecipazione al gettito IVA e IRPEF, non potendo, certamente, il livello comunale ritenersi autosufficiente, essendo costituito da Comuni talvolta di dimensioni particolarmente esigue. Ciò impone, perciò, di superare il criterio della capacità fiscale per abitante, dando piena attuazione ai concetti di “livello essenziale delle prestazioni” e di “perequazione”37. 36
Così si esprime il legislatore alla lett. e) della disposizione citata. Così E. BORGHI nel comunicato stampa UNCEM: enti montani pronti alla sfida del federalismo fiscale. IRPEF, IVA, LEP e perequazione le stelle polari, in www.uncemcalabria.it. Quanto al concetto di “perequazione” si veda E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 136. Ivi si osserva come esso sia contemplato in due disposizioni costituzionali: all'art. 117, comma primo, lett. e), Cost., che attribuisce alla competenza esclusiva statale la “perequazione delle risorse finanziarie” e all'art. 119, comma terzo, Cost., ai sensi del quale “la legge statale istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Va notato come “le entrate acquisite dalle Regioni e dagli enti locali tramite risorse autonome (proprie) e tramite il gettito rinveniente dalle compartecipazioni ai tributi statali, calcolato con aliquota uniforme e su base territoriale, determinino situazioni di squilibrio fiscale fra i vari territori (…), determinate dalle diverse condizioni economiche e sociali di partenza”. Tali diversità comportano che le “istituzioni locali delle comunità più ricche o fortunate vengono a disporre di risorse maggiori di quelle degli altri enti del medesimo livello e delle stesse dimensioni, facendo registrare una situazione di disuguaglianza nel grado di autonomia dei vari enti, che ne mette a repentaglio lo status paritario di istituzioni costitutive della Repubblica acquisito in virtù del nuovo art. 114 Cost.” (l'Autore richiama in proposito A. PIRAINO, Linee per l'attuazione dell'art. 119 Cost., in www. federalismi.it, 08 febbraio 2005). Si osserva, inoltre, come desti perplessità il generico riferimento ai “territori”, contenuto nell'art. 119 Cost., soprattutto se si considera che ci si trova in un “contesto normativo in cui si specifica sempre che i soggetti dei quali si traggono le condizioni finanziarie sono i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni”. Evidenzia Corali come ciò abbia portato parte della dottrina ad “escludere che il fondo possa avere come destinatari diretti gli enti locali, dovendo lo Stato riconoscere le quote perequative soltanto alle Regioni a minore redditività, che, a loro volta, dovranno provvedere ad assegnare le quote alle istituzioni locali in esse ricomprese”. Ciò in 37
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Altre valutazioni in merito alla questione “federalismo” vengono espresse in sede di Conferenza Unificata, il 18 settembre 2008, quando la legge era ancora in corso di approvazione. In tale occasione, l'UNCEM non si limita a criticare infruttuosamente l'impianto dell'intervento legislativo ma lancia alcune proposte e presenta alcuni emendamenti, che, tuttavia, non compariranno nel testo approvato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Le osservazioni partono dalla constatazione per cui un sistema federalista, per essere definito tale, deve essere fondato sui principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, con riferimento a tutti i territori del Paese. È necessario, quindi, considerare le specificità dei quanto, da un lato, è “difficile per lo Stato prendere contemporaneamente in considerazione la specifica situazione di ciascuno degli olre 8000 enti locali” e, d'altro lato, “le Regioni intervengono già nella disciplina dei tributi propri e delle compartecipazioni delle istituzioni locali. E come concorrono, quindi, a formare la sperequazione fiscale, così possono contribuire ad attenuarne gli effetti attraverso una migliore (rispetto a quella operata dallo Stato) redistribuzione delle quote perequative” (Corali cita, sul punto, A. BRANCASI, L'autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni, I, 2003, 68). Va, tuttavia, osservato, che la lettura degli artt. 117, comma primo, lett. e) e 119 Cost. porta ad “escludere l'intervento delle Regioni nella ripartizione delle quote perequative a favore delle istituzioni locali”, in quanto, il primo, assegna alla competenza esclusiva statale la materia della “perequazione delle risorse finanziarie” e il secondo prevede che “la legge dello Stato istituisce il fondo perequativo”). Inoltre, si deve ricordare che Comuni, Province e Città metropolitane godono di autonomia impositiva e non di compartecipazioni a tributi regionali (dal momento che la compartecipazione è prevista solo con riferimento a tributi statali). Pertanto, dato che non sono le Regioni a determinare sperequazioni, ne consegue che esse non sono nemmeno tenute a correggerle, essendovi tenuto esclusivamente lo Stato. Corali ricorda, pure, come la giurisprudenza della Consulta abbia avuto modo di affrontare la tematica della legittimità costituzionale delle norme inserite nelle annuali leggi finanziarie, dirette alla istituzione di fondi speciali di natura perequativa in materie riservate alla competenza esclusiva o concorrente delle Regioni e come, in tutti i casi, la Corte abbia ribadito come non sia consentita, in tali materie, l'istituzione di fondi speciali o la destinazione, in modo vincolato, di risorse finanziarie, senza lasciare alle Regioni e agli enti locali spazio di manovra, poiché, diversamente, attraverso l'imposizione di precisi vincoli di destinazione nell'utilizzo delle risorse da assegnare alle Regioni, si violerebbero i criteri e i limiti che presiedono all'attuale sistema di autonomia finanziaria regionale, delineato nel nuovo art. 119 Cost., che non consentono finanziamenti perequativi di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale (l'Autore richiama le sentt. n. 105 del 2007, n. 370 del 2003, n. 16 del 2004, n. 424 del 2004, n. 31 del 2005, n. 51 del 2005, n. 77 del 2005, n. 160 del 2005, n. 231 del 2005, n. 118 del 2006, n. 137 del 2007 e n. 45 del 2008).
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piccoli, talvolta piccolissimi, Comuni che caratterizzano la nostra Repubblica: ingiustificata appare, pertanto, la disposizione di cui all'art. 12, primo comma, che si preoccupa di garantire il finanziamento alle Città metropolitane e che non è accompagnato da una disposizione che garantisca un qualche tipo di entrata a tutti gli altri Comuni di minori dimensioni, in primis quelli montani (che rappresentano il 55,14% del totale dei piccoli Comuni italiani)38. Urgono dei rimedi ma, secondo l'UNCEM, essi non si possono risolvere nel semplice rafforzamento dei piccoli Comuni attraverso le “Unioni facoltative” che, al contrario, hanno dimostrato la loro inefficienza, soprattutto se paragonate alle Comunità montane e ai risultati da queste conseguiti39. 38
È quanto emerge dalla Memoria UNCEM sul d.d.l. concernente la delega per il federalismo fiscale approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri l'11-09-2008, 2 ottobre 2008, in www,federalismi.it. Ivi si osserva che, su un totale di 5.756 “piccoli Comuni”, ben 3.174 sono “Comuni montani”. Inoltre, stando ai dati del rapporto sull'Italia del “disagio insediativo” elaborato da Confcommercio e Legambiente, i territori con maggiori profili di criticità (con riferimento a condizioni di vita, insediamento, relazioni sociali, necessità di servizi alla persona e all'impresa, guadagno economico) sono situati proprio in montagna: al 2006, ben 2.064 Comuni montani si trovano in condizione di “disagio”, contro gli appena 494 in condizione di “benessere”. Quanto alle “città metropolitane”, va notato che l'art. 15 della legge n. 42 del 2009 prevede l'emanazione di un decreto di attuazione specifico per assicurarne il finanziamento delle funzioni, che dovrà avvenire “mediante l'attribuzione ad esse dell'autonomia impositiva corrispondente alle funzioni esercitate dagli altri enti territoriali e il contestuale definanziamento nei confronti degli enti locali le cui funzioni sono trasferite, anche attraverso l'attribuzione di specifici tributi, in modo da garantire loro una più ampia autonomia di entrata e di spesa in misura corrispondente alla complessità delle medesime funzioni”. Quindi, “in buona sostanza, alle Città metropolitane dovrà essere assegnata la stessa autonomia impositiva garantita agli altri enti territoriali per il finanziamento delle funzioni da questi ad esse trasferite, cui andrà ovviamente aggiunta l'eventuale quota di perequazione assicurata ai medesimi enti territoriali per il finanziamento delle funzioni trasferite” (cfr. E. CORALI, Federalismo fiscale e Costituzione, cit., 251). Nulla di tutto ciò è, invece, previsto per le Comunità montane, che non sono nemmeno contemplate. 39 Infatti, mentre queste ultime possono vantare una percentuale di spesa corrente pari al 42,2% del totale, che realizza € 838.000.000 di investimenti, le Unioni di Comuni fanno registrare con riferimento al medesimo anno, il 2006, una spesa di investimento pari a € 56.500.000, con una percentuale di spesa corrente pari all'80,3% del totale. Sull'attenzione dimostrata dal legislatore circa le Città metropolitane, non accompagnata da un'analoga considerazione sulle Comunità montae si veda anche F. BOCCIA, Le Comunità montane nel nuovo ordinamento degli enti locali, cit, 9, da cui si evince come tale situazione si sia creata sin dalla Riforma del Titolo V: rileva l'Autore come “appare quanto meno curioso che il nuovo Titolo V, parte integrante di una Carta
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Nemmeno è accettabile l'attegiamento adottato da molti Comuni, che “disinvoltamente partecipano a più forme associative a seconda delle funzioni e dei servizi, con effetti dirompenti in termini di spesa e di responsabilità politica e amministrativa”40. La
soluzione
ottimale
viene
ravvisata
nella
creazione,
obbligatoria, del già citato “Comune dei Comuni”, una sorta di “evoluzione” della Comunità montana, che si occupi delle funzioni comunali e attui l'art. 44 Cost41. I conseguenti emendamenti proposti vanno ad incidere sugli artt. 3, 4 e 10 del d.d.l. e, nel complesso, sono volti ad assicurare un ruolo maggiore alle Comunità montane nel sistema delineato dal legislatore42. fondamentale figlia di riflessioni forse un po' più profonde, tuteli oggi soggetti istituzionali comunque forti come le Città metropolitane (per ragioni squisitamente territoriali), quando a maggior ragione per motivi ancor più evidenti, avrebbe potuto tutelare realtà istituzionali deboli come i piccoli Comuni e le loro unioni”. 40 Così si esprime l'UNCEM nella Memoria cit. In particolare, si osserva che con il comportamento da ultimo descritto, il cittadino non sa a chi rivolgersi per eventuali problematiche che lo interessino, trovandosi di fronte molteplici enti, ciascuno dei quali nega la propria competenza in materia a seconda della propria convenienza. 41 Per la definizione di “Comune dei Comuni” si rimanda alla nota n. 34 del Capitolo II. 42 In particolare, gli emendamenti agli artt. 3 e 4 del d.d.l. prevedevano la presenza di rappresentanti delle Comunità montane nella Conferenza paritetica per l'attuazione del federalismo fiscale e nella Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica. Invece, per quanto concerne l'art. 10, l'UNCEM propone l'aggiunta di un ulteriore “principio e criterio direttivo” circa il “coordinamento e autonomia tributaria degli enti locali”: si auspica la graduale trasformazione delle Comunità montane in Comuni unitari e l'attribuzione alle stesse delle funzioni fondamentali, dei relativi tributi, compartecipazioni ai tributi erariali e regionali e al fondo perequativo e delle strutture organizzative. Soddisfazione, invece, viene manifestata da Enrico Borghi, per l'esito della Conferenza Unificata sul d.d.l. “Attuazione dell'art. 119 della Costituzione: delega al Governo in materia di federalismo fiscale”, tenutasi il 2 ottobre 2008. Nella sua Lettera indirizzata ai Presidenti delle delegazioni regionali UNCEM, ai componenti di Giunta, ai Consiglieri nazionali e alle Comunità montane (che si può trovare in www.uncemcalbria.it) egli dà atto dei risultati ottenuti, che consistono in un sostanziale accoglimento di alcuni emendamenti proposti. In tal modo è stato introdotto il concetto di “specificità montana” tra i principi e i criteri direttivi che dovranno essere rispettati nell'emanazione dei decreti attuativi (si veda l'art. 14, comma 1, lett. c)), oltre a essere stati richiamati i principi di sussidarietà, differenziazione, adeguatezza e territorialità ai fini della determinazione delle risorse autonome di Regioni e enti locali (art. 2, comma 2, lett. b)) e riconosciuto al Comune un tributo proprio (oltre alla compartecipazione ad un grande tributo nazionale, alla possibilità di stabilire addizionali e alla
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Com’è già stato detto, tuttavia, essi sono caduti nell'oblio e la legge delega sul federalismo fiscale appare epurata da qualsiasi riferimento a tali enti. Altro punto critico, evidenziato dall'UNCEM, è rappresentato dal fatto che si è proceduto all'approvazione della legge sul federalismo fiscale senza che, parallellamente, venisse approvata la “Carta delle Autonomie”, prevista dal d.d.l. n. 311843. Infatti, “non approvare al più presto la Carta delle autonomie, mentre il federalismo fiscale è già legge, rischia di creare una situazione ingestibile”, in quanto “se restano in campo più competenze amministrative in capo a più soggetti e allo stesso tempo lo Stato taglia i trasferimenti, è chiaro che ognuno aumenterà le imposte. La discussione sulla Carta delle autonomie renderebbe chiaro quali siano le funzioni fondamentali dei Comuni e quali di queste funzioni devono obbligatoriamente essere gestite su base associativa, perchè chi le gestisce ha ovviamente il potere tributario. Si doveva lavorare in parallelo al federalismo fiscale e al federalismo istituzionale, ma non è stato fatto”44. In ogni caso, la montagna non è stata del tutto ignorata dal legislatore statale: infatti, quattro sono le disposizioni della delega che garanzia della perequazione su scala regionale). Inoltre, il Presidente UNCEM osserva come il riferimento dell'art. 10, lett. e), allo “incremento dell'autonomia impositiva” nell'ambito delle “forme premiali per favorire unioni e fusioni tra Comuni” faccia prospettare la possibilità che la Comunità montana possa effettivamente trasformarsi nel “Comune dei Comuni”. 43 Nel dettaglio, l'art. 13 del d.d.l. n. 3118 (approvato alla Camera e, attualmente, all'esame del Senato), contiene la “delega al Governo per l'adozione della Carta delle autonomie locali”, allo scopo “di riunire e di coordinare sistematicamente in un codice le disposizioni statali relative alla disciplina degli enti locali”, nel rispetto di una serie di “principi e criteri direttivi” (comma 1). 44 In particolare, la suddetta Carta, secondo il Presidente UNCEM Borghi, rappresenta “la precondizione per consentire alla montagna di iniziare il percorso di modernizzazione” (così egli si esprime in occasione della Prima Conferenza programmatica ANCI della Montagna, tenutasi a Roma il 29 marzo 2012).
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prendono in considerazione la “montanità” dei territori: si tratta dei già citati artt. 11 (“Principi e criteri direttivi concernenti il finanziamento
delle
funzioni
di
Comuni,
Province
e
Città
metropolitane”) che, tra i “principi e criteri direttivi” annovera quello che impone di tenere in particolare considerazione i “territori montani” (lett. g), 13 (“Principi e criteri direttivi concernenti l'entità e il riparto dei fondi perequativi per gli enti locali”), che impone di far riferimento anche alla “presenza di zone montane” nel definire le “modalità per cui la spesa corrente standardizzata è computata”45, 16 (“Interventi di cui al quinto comma dell'art. 119 Cost.”), che prevede di considerare le “specifiche realtà territoriali” e, in particolare, i “territori montani”46 e dell'art. 22 (“Perequazione infrastrutturale”), che impone di considerare anche “i particolari requisiti delle zone di 45
In particolare, la “ripartizione della perequazione (…) avviene in base a due tipi di indicatori di fabbisogno, uno di carattere finanziario (spesa corrente) e altri relativi alle infrastrutture (spesa in conto capitale)” e, il computo della “spesa corrente standardizzata”, devve avvenire in base a “una quota uniforme pro capite, ʻcorrettaʼ con una serie di parametri atti a valutare la diversità della spesa da ente a ente, (…)”. Di conseguenza, sarà necessario “individuare i criteri di correzione che tengano conto dei costi aggiuntivi che la montagna deve sopportare”, dal momento che essa “soffre di uno svantaggio geografico strutturale permanente, che determina un differenziale di costi a carico delle funzioni insediate”, determinato da “fattori fisici”, come la “morfologia e pedologia dei luoghi, le condizioni climatiche, il rischio idrogeologico e ambientante” e da “fattori antropici a carattere semipermanente”, come “le limitate dimensioni delle comunità locali, la loro dispersione territoriale e il loro maggior grado di isolamento, ovvero la minore accessibilità ai principali assi territoriali dello sviluppo economico” (Cfr., EIM, La montagna e il federalismo fiscale, cit., 10) 46 Come osservato in EIM, La montagna e il federalismo fiscale, cit., 28, in base all'art. 119, comma quinto, Cost., “lo Stato destina ʻrisorse aggiuntiveʼ ed effettua ʻinterventi specialiʼ in favore di determinati enti locali con lo scopo di promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo dei diritti della persona o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni”. Dunque, in base all'art. 16 in esame, “il legislatore delegato, nell'individuare i criteri d'attribuzione dei contributi speciali dello Stato, che si aggiungono a quelli comunitari, dovrà tener conto della specifica realtà dei territori montani”. Inoltre, si deve notare che l'art. 16 prevede che “tra gli elementi nei confronti dei quali avere particolare considerazione nella quantificazione e allocazione degli interventi”, annovera “l'esigenza di tutela del patrimonio storico e artistico ai fini della promozione dello sviluppo economico e sociale” e “sarebbe importante, in sede di applicazione del provvedimento, tenere in considerazione anche il ʻpatrimonio naturaleʼ”.
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montagna” nella ricognizione degli interventi infrastrutturali47.
3.2 Segue: l'attuazione della legge delega. Il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 in materia di “federalismo municipale”.
La legge delega sul federalismo fiscale ha trovato parziale attuazione con l'emanazione di otto decreti delegati48: nell'ottica montana, assume particolare importanza il d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (“Disposizioni in materia di federalismo municipale”)49, che prevede 47
Tutto ciò è evidenziato in EIM, La montagna e il federalismo fiscale, cit., 7. Quanto alla “perequazione infrastrutturale” da ultimo citata, ivi si osserva che il primo comma dell'art. 22 “prevede una ricognizione degli interventi infrastrutturali previsti dalle norme vigenti e riguardanti: la rete stradale, autostradale e ferroviaria; la rete fognaria; la rete idrica, elettrica e di trasporto e distribuzione del gas; le strutture portuali e aeroportuali”, cui “poi sono tate aggiunte anche le strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche”. 48 Peraltro, va rilevato che “il federalismo fiscale è di là da venire, con la conseguenza che il vero deterrente dell'inefficienza manca, perchè mancano premi e sanzioni nei confronti della buona e della cattiva amministrazione” (cfr. M. BERTOLISSI, A proposito della c.d. Riforma Calderoli, cit., 21). Che di federalismo fiscale non si possa, ancora, parlare, è confermato anche dalla Corte dei Conti (come osservato da M. BERTOLISSI, Stato sociale e federalismo fiscale, cit.), la quale “già nel corso del 2011, in sede di riscontro delle risultanze del 2010, notava che ʻle valutazioni avanzate nella prima parte del Rapporto evidenziano le difficoltà del percorso di equilibrio dei conti pubblici nella prospettiva di medio-lungo periodo. E ciò in relazione sia ai severi impegni che discendono dalle nuove regole di governance europea che alla necessità di procedere lungo un sentiero obbligato, quello della riduzione e della riqualificazione della spesa pubblica, che offre margini d'azione sempre più stretti in un contesto di bassa crescita economicaʼ”. Quanto all'attuazione della legge delega n. 42 del 2009, è stato osservato che l'aver “ipotizzato l'adozione di una serie di decreti legislativi in tempi diversi, trascurando il fatto che si tratta di ripartire le risorse pubbliche nel loro insieme”, comporta la probabilità “che la vicenda si complichi assai, se non che addirittura il processo riformatore si arresti” (cfr. M. BERTOLISSI, Contribuenti e parassiti in una società civile, Napoli, 2012, 89). In proposito si veda anche l'editoriale di M. BERTOLISSI, “Adelante Pedro si puedes”, in Federalismo fiscale, 2/2009, 4, ove l'Autore osserva che “la sequenza dei decreti legislativi da adottare risulteranno ampiamente condizionati, da un lato, dal fatto che, almeno quelli che sono destinati a ripartire le risorse, in ragione del fabbisogno-standard e del costo-standard, dovrebbero essere contestuali: perchè tutte le risorse vanno suddivise tra quanti concorrono al riparto e non, invece, a più riprese, quando un bilanciamento tra esigenze contrastanti non è più possibile o risulta, comunque, arduo. D'altro lato, dalla tempistica in sé, che deve essere in grado di consentire operazioni basate su dati certi, si dice condivisi, oggi preclusi dal cosiddetto federalismo contabile: vale a dire dall'unico modo di differenziare privo di giustificazione, ed anzi in rotta di collisione con il principio di responsabilità”. 49 Occorre una notazione di carattere linguistico: appare, infatti, improprio parlare di “federalismo municipale”. Tale espressione viene, addirittura, definita una “bestemmia” e un
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un
nuovo
sistema
di
finanziamento
dei
Comuni,
basato
sull'attribuzione di “tributi propri”, di una “compartecipazione al gettito dei tributi, nell'ipotesi di trasferimenti immobiliari” e sulla “devoluzione derivante da alcuni tributi erariali”50, quindi, con un “processo di graduale passaggio dalla finanza derivata a quella “abuso linguistico” dal Presidente della Corte costituzionale, De Siervo, secondo il quale la formula “federalismo municipale” è solo “un neologismo vuoto di contenuti”, “non c'entra niente con il federalismo e presuppone uno Stato diverso”. Ciò che sta accadendo in Italia non ha nulla a che fare con il “federalismo”, essendo lo “Stato federale” una “cosa più seria, più grande e più complicata dell'autonomismo. Con il termine federalismo si spaccia ciò che è autonomismo degli enti locali”. Oltre a questo decreto, come detto, ne sono stati adottati altri sette: d. lgs. 28 maggio 2010, n. 85 (“federalismo demaniale”); d. lgs. 17 settembre 2010, n. 156 (in materia di “ordinamento transitorio di Roma Capitale); d. lgs. 26 novembre 2010, n. 216 (in materia di “determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province”); d. lgs. 6 maggio 2011, n. 68 (in materia di “autonomia di entrata delle Regioni a statuto ordinario e delle Province nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard del settore sanitario”); d. lgs. 31 maggio 2011, n. 88 (in materia di “risorse aggiuntive e di interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali”); d. lgs. 23 giugno 2011, n. 118 (in materia di “armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi”); d. lgs. 6 settembre 2011, n. 149 (in materia di “meccanismi sanzionatori e premiali relativi a Regioni, Province e Comuni”). È stato osservato come, nel complesso, si tratti di un “intervento strutturale che modifica nel lungo periodo il sistema istituzionale, con un impatto sui grandi temi: i comportamenti, la responsabilità, la trasparenza, la democraticità, il controllo elettorale. Lo scopo è avviare una dinamica che conduca dalla spesa irresponsabile della finanza derivata a quella responsabile del federalismo fiscale” e come l'attuazione della delega sia “destinata a scrivere una nuova pagina nella storia della nostra Repubblica, favorendo la convergenza verso i modelli e le realtà territoriali efficienti, offrendo anche ad esse ulteriori possibilità di sviluppo, riportando in pieno vigore il controllo democratico degli elettori e il principio cardine della democrazia no taxation without representation” (cfr. L. ANTONINI, La possibile dinamica del federalismo fiscale, cit.). Inoltre, con riferimento al processo di attuazione della delega, è stato osservato che “tanto gravoso e impegnativo lavoro non sarà neppure sufficiente perchè, per renderlo efficace, non ci si potrà neppure fermare all'attuazione dei principi e criteri direttivi” ma “occorre andare ben oltre, perchè si renderà urgente la riforma costituzionale volta, in primis, a creare un Senato delle Regioni”, che diventi “un luogo istituzionale ove il confronto e la perequazione tra le Regioni si svolga in modo trasparente e controllabile da parte dei cittadini”. Infatti solo così “si otterranno i benefici del ʻfederalismo fiscaleʼ, che deve essere volto non solo a responsabilitzzare gli amministratori, ma anche i cittadini (lo si ripete quotidianamente come uno slogan) nella valutazione di chi li governa e li governerà” (cfr. A.E. LA SCALA, Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, cit., 17). 50 Cfr. G. IELO, Il federalismo fiscale municipale, Milano, 2011, 109. Nel dettaglio, i “tributi propri” sono rappresentati dalla “imposta municipale propria” e la “imposta municipale secondaria”, la “compartecipazione al gettito dei tributi nell'ipotesi di trasferimenti immobiliari” è fissata in una percentuale pari al 30%, mentre, la “devoluzione derivante da alcuni tributi erariali” riguarda l'imposta di registro e di bollo, relativa a determinati atti, le imposte ipotecaria e catastale, l'IRPEF (in relazione ai redditi fondiari e escluso il reddito agrario), i tributi speciali catastali, le
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autonoma”51. Innanzitutto, è stato osservato, già prima dell'emanazione del decreto, come “l'approvazione del federalismo municipale e la relativa individuazione dei fabbisogni standard” non possa realizzarsi “senza tenere nella giusta considerazione la specificità dei territori montani” e come, pertanto, vada allontanata la prospettiva di una finanza comunale basata esclusivamente sui cespiti immobiliari (di numero molto inferiore in montagna rispetto alle città), a favore di una che si fondi su “più fonti di entrata”, così da “mantenere, in ogni caso, un maggiore equilibrio nel gettito”. Inoltre, necessaria appare la previsione di un “fondo perequativo”, che garantisca la “copertura dei maggiori costi necessari ad assicurare la piena esigibilità dei diritti fondamentali (salute, istruzione, mobilità) anche ai cittadini che vivono nei territori montani” e di “meccanismi di compartecipazione dei Comuni montani al valore aggiunto che può derivare dall'utilizzo generalizzato delle risorse naturali specifiche della montagna, come l'acqua”: solo così, infatti, sarà possibile parlare “non solo di federalismo fiscale, ma anche di federalismo ambientale” e si potrà “immaginare, concretamente, di alimentare il fondo perequativo per il riequilibrio delle finanze comunali sia con la compartecipazione al gettito IRPEF, che con il ritorno di una quota parte dell'IVA”52. tasse ipotecarie e la cedolare secca sugli affitti. 51 Cfr. Guida alla riforma, cit. 52 In tal senso, E. SCHENATO - D. TRABUCCO, Federalismo fiscale e territori montani, in www.diritto.it, 2011, 3. In termini analoghi si esprime E. BORGHI in un Comunicato stampa del 25 gennaio 2011 (rinvenibile in www.uncem.it), il quale osserva come “il d.lgs. che deve varare il federalismo municipale è tenuto al rispetto della legge delega, e cioè a tener conto, nella individuazione dei fabbisogni standard, della presenza delle zone montane” e come, pertanto, sia “incongruo immaginare una finanza comunale federalista basata esclusivamente sui cespiti immobiliari: in montagna essi sono sono molto disomogenei da Comune a Comune, e in generale
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Queste considerazioni sembrano essere state accolte, almeno in parte, dal legislatore nell'emanazione del succitato decreto, dal momento che, come già anticipato, esso interviene attribuendo ai Comuni, a partire dal 2011, una serie di tributi53 e prevedendo che tali risorse affluiscano in un “Fondo sperimentale di riequilibrio”, triennale, che verrà ripartito tra i Comuni in base ad un accordo raggiunto in sede di Conferenza Stato - Città e, comunque, nel rispetto di due criteri fondamentali: il 30% del Fondo va ripartito in base al numero di residenti e, al netto di questa quota, un ulteriore 20% va destinato ai piccoli Comuni (art. 2). Viene istituito, infine, un “Fondo perequativo”, “per il finanziamento delle spese dei Comuni e delle Province, successivo alla determinazione dei fabbisogni standard collegati alle spese per le funzioni fondamentali”, “a titolo di concorso per il finanziamento delle funzioni da loro svolte” (art. 13), che risulta “alimentato da quote delle compartecipazioni comunali all’imposta unica
sui
trasferimenti,
alla
cedolare
secca
e
all’IRPEF”,
configurando, dunque “un meccanismo di natura orizzontale, nel quale più bassi delle realtà cittadine, se si escludono le località turistiche che però rappresentano solo una percentuale molto limitata delle municipalità montane”. Pertanto, secondo Borghi, occorre pensare, per i territori montani, ad un “mix di cespiti di entrata, in modo da garantire un gettito più equilibrato, e un fondo perequativo in grado di coprire i sovracosti strutturali permanenti delle aree montane” e alla possibilità di “far leva su meccanismi di compartecipazione legati al valore aggiunto derivante dall'impiego delle risorse naturali montane”. Quest'ultimo punto è ulteriormente approfondito dall'analisi di UNCEM Piemonte, Federalismo municipale: l'incubo dei Comuni montani, in www.uncem,piemonte.it, 16 gennaio 2011, 3, ove si sostiene il riconoscimento del “diritto allo sviluppo, attraverso la compartecipazione dei Comuni e delle Comunità montane agli utili di quanto il territorio offre e produce. A partire dall'acqua”, in quanto, “se si permette ai Comuni di gestire con efficacia le risorse del territorio montano, non sarà necessario nessun fondo statale perequativo per colmare i buchi enormi del federalismo municipale”. 53 Vale a dire: gettito IRPEF sui redditi fondiari (con esclusione del reddito agrario) e gettito relativo alle imposte di registro e di bollo sui contratti di locazione immobiliari; 30% del gettito dell'imposta di registro, delle imposta ipotecarie e catastali sugli atti di trasferimento immobiliare e quota del gettito della cedolare secca sugli affitti, pari al 21,7% nel 2011 e al 21,6% nel 2012.
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i Comuni eccedentari rispetto ai propri fabbisogni standard conferiscono al fondo i mezzi da trasferire ai Comuni deficitari”. Tuttavia, l'aver “limitato le fonti dei contributi al fondo alle tre forme di compartecipazione non dà nessuna garanzia che le disponibilità totali presso i Comuni eccedentari coprano la somma dei deficit. Nulla assicura, in altri termini, che il gettito delle tre compartecipazioni nei Comuni che registrano un’eccedenza delle proprie entrate tributarie standardizzate rispetto al proprio fabbisogno sia sufficiente per finanziare la somma dei saldi di segno opposto presso i Comuni deficitari”. Inoltre, “il finanziamento del fondo con le sole compartecipazioni immobiliari può produrre effetti distributivi molto discutibili: due Comuni, a parità di eccedenza delle entrate tributarie complessive sul fabbisogno, potranno essere chiamati a contribuire al fondo in misura diversa a seconda della quota di gettito che traggono dalle compartecipazioni immobiliari”54. Va osservato come questo decreto sia stato fortemente voluto dall'ANCI, che lo considera “l’avvio iniziale di un percorso volto al recupero di autonomia impositiva e di una auspicabile certezza nella disponibilità di risorse”. Tuttavia, la versione finale non è considerata pienamente soddisfacente, in quanto non è del tutto determinato come avverrà il passaggio al nuovo sistema: infatti, le quote e i criteri di ripartizione del “Fondo di riequilibrio” e del “Fondo perequativo” avverrà annualmente, a seconda dell'ammontare dei fabbisogni standard, ma quest'ultimo fattore non varrà a eliminare l'esigenza 54
In tal senso, E. LONGOBARDI, La perequazione delle risorse dei Comuni nella riforma delle relazioni finanziarie intergovernative: i problemi aperti, in Il diritto delle Regioni, 4-5 giugno 2012.
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perequativa che deriva dalle notevoli differenze territoriali delle basi imponibili55. Interessante appare la posizione dell'UNCEM in merito alla questione-federalismo: nel suo Manifesto per lo sviluppo della montagna56 viene lanciata una proposta: “trasformare le istituzioni oggi esistenti, da enti locali di distribuzione (centro di costo dello Stato nazionale) a istituzioni di progetto (centri di profitto), agenzie di sviluppo, capaci di elaborare programmi di investimento autonomi”, al fine “di cambiare non solo modello economico e sociale, ma anche il centro della politica italiana: dai soggetti della fabbrica e della città ai nuovi soggetti emergenti nei territori green”.
3.3 La crisi economico-finanziaria, i provvedimenti ad essa connessi e l'impatto sugli enti montani: l'art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138.
Come noto, la crisi economico-finanziaria che, ormai da alcuni anni, ha colpito il nostro Paese, ha comportato la necessità di intervenire con provvedimenti d'urgenza, allo scopo di razionalizzare quanto più possibile la spesa pubblica. Un settore in cui si è intervenuto in maniera piuttosto pesante, è proprio quello degli enti locali, con notevoli conseguenze anche per i Comuni facenti parte di Comunità montane, per i quali, da alcuni mesi, si prospettano delle 55
Cfr. C. BUZZACCHI, Lo stato di attuazione della legge n. 42 del 2009, in dirittiregionali.org. 56 Reperibile in www.uncemcalabria.it.
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novità57. L'ultimo intervento in ordine di tempo è rappresentato dalla c.d. Spending review, vale a dire il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”), convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 135, che va a parziale modificazione di un precedente decreto, il n. 138 del 13 agosto 2011 (“Ulteriori disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo”), convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148 (c.d. “Manovra bis”)58. 57
Come osservato da M. BERTOLISSI, A proposito della c.d. Riforma Calderoli, cit., 9, “la dilapidazione sistematica di immense risorse pubbliche”, ha “imposto al legislatore nazionale di mettere mano a un generale riordino dell'amministrazione substatale”, anche se occorre tener conto che “vi sono differenti realtà territoriali, caratterizzate da inefficienza, ma anche da efficienza”. Sugli effetti della crisi economica e delle manovre fiscali sulle autonomie territoriali si veda G. GARDINI, Le autonomie ai tempi della crisi, in Le Istituzioni del Federalismo, 3/2011, 464 ss, ove si osserva come essi non siano valutabili solo in termini negativi. Infatti “a volte occorre guardare oltre le conseguenze immediate di un fenomeno per cogliere gli sviluppi virtuosi che da esso possono scaturire” e, in questo caso, “colpisce, e ridà speranza, la compattezza dimostrata dagli enti territoriali rispetto alle misure assunte dal Governo nell'ultimo anno e mezzo. Per una volta almeno Regioni, Province e Comuni hanno fatto fronte comune e si sono mobilitati unitariamente per opporsi agli effetti della manovra economica sui bilanci delle autonomie territoriali. Per una volta le posizioni degli enti territoriali non si sono frammentate in una pletora di istanze particolari e le richieste politiche di questi soggetti non hanno imboccato mille rivoli separati, ma si è formata una linea comune, coerente ed unitaria, volta a riportare al centro del dibattito politico i temi dello sviluppo economico, a chiedere con forza un nuovo patto di stabilità, a pretendere la garanzia dei servizi essenziali per i cittadini”. Dunque, “l'urgenza e la gravità del momento hanno costretto le amministrazioni locali a rinunciare alle diffidenze che, storicamente, portavano gli enti minori a schierarsi dalla parte dello Stato per prevenire un ben più temibile neocentralismo regionale; e, all'inverso, hanno indotto le Regioni a farsi finalmente portavoce del sistema locale, rappresentandone unitariamente le esigenze e gli interessi. L'auspicio è che questa crisi possa generare gli anticorpi necessari a sconfiggere quella malattia che per anni ha bloccato il nostro Paese in una triangolazione di livelli di governo, il cui punto di equilibrio risiede nella reciproca contrapposizione”. 58 Sul punto occorre un'osservazione di carattere metodologico: “è considerazione già di comune esperienza come il ricorso alla decretazione d’urgenza limiti fortemente, in ragione del rispetto dei tempi di conversione, il contributo parlamentare alla concreta formulazione della disciplina normativa contenuta nel provvedimento finale; il che appare, però, vieppiù criticabile proprio in materia di federalismo fiscale, attesa la (primaria) esigenza di non disperdere il vincolo fra tassazione ed (effettiva) rappresentanza democratica” (cfr. R. DI MARIA, L'incidenza delle c.d. “misure urgenti” sulla attuazione del federalismo fiscale: un confronto fra i d.l. 98 e 138 del 2011, in dirittiregionali.org, 2011). In particolare, quanto al decreto-legge n. 138, è stato osservato come la legge di conversione abbia introdotto delle modifiche di rilievo al decreto, “in larga parte privandolo degli effetti
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In particolare, l'art. 19 del decreto n. 95 incide sull'art. 16 della legge di conversione n. 148, disposizione, quest'ultima, molto criticata da parte degli amministratori comunali e delle associazioni rappresentative dei piccoli Comuni montani, dal momento che prevede che i Comuni aventi una popolazione fino ai 1.000 abitanti esercitino, “obbligatoriamente in forma associata”, “tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un'Unione di Comuni” (art. 16, primo comma)59. “Unione di Comuni” cui, ai sensi del quarto comma, sono affidate “la programmazione economico-finanziaria e la gestione ʻcreativiʼ che questo aveva (la figura del Sindaco come unico organo amministrativo nei Comuni fino a 1.000 abitanti, una nuova figura di Unione di Comuni diversa da quella prevista dall'art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 Testo Unico Enti Locali, solo per citarne alcuni); il passaggio parlamentare anche questa volta ha confermato la prassi largamente diffusa negli ultimi anni, che spesso ha modificato, anche radicalmente, i testi orginali dei decreti-legge, andando a stravolgerne l'intento originario”. Infatti, “l'intento del legislatore era quello di introdurre norme che stabilissero l'accorpamento dei piccoli Comuni fino a 1.000 abitanti in nuove forme aggregative diverse dalle Unioni di cui all'art. 32 TUEL. Il testo approvato dal Parlamento, invece, prevede un assetto molto diverso” (cfr. C. D'ANDREA, I Comuni polvere: tra dissoluzione pilotata e salvataggio delle funzioni. Alcune note a commento dell'art. 16 della “Manovra – bis”, in www. federalismi.it, 19 ottobre 2011, 2). In senso analogo si veda M. CARLICH, Manovre tra luci e ombre, in Diritto e pratica amministrativa, 9/2011, 3, ove si osserva come “l'urgenza del provvedere ha portato a confezionare un decreto-legge di pessima fattura e poco meditato su molti punti. L'andazzo ormai è quello di considerare i decreti-legge poco più che ʻprove d'autoreʼ, tanto poi ci pensano il Parlamento e le lobby più svariate a correggere gli errori più madornali. Inoltre, com'è accaduto anche in questo caso, molte novità che andavano a intaccare posizioni di rendita e di privilegio sono state soppresse o annacquate cedendo alle pressioni di parte”. 59 Si tratta delle Unioni previste dell'art. 32 del TUEL che, al primo comma, le definisce “enti locali costituiti da due o più Comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza”. Si tratta, quindi di un “ente diffuso sul territorio coinvolto nel progetto associativo, volto a gestire permanentemente il rapporto collaborativo (in tal senso, P. RENZI, Le problematiche fiscali nelle Unioni di Comuni: competenze e gestione dei servizi, in www.anci.piemonte.it). In particolare, in merito alla disposizione in commento, nota l'ANCI come “si registra un approccio di tipo esclusivamente contabile che ha l'obiettivo di sistemare i conti di bilancio (almeno nella previsione), senza però prevedere gli effetti che queste misure avranno sull’economia reale del Paese. Certamente si può ritenere che con il provvedimento in commento su talune di queste problematiche, di grande rilevanza per il futuro istituzionale dei Comuni, il quadro normativo che emerge risulta inaccettabile, pericoloso, e peraltro del tutto inefficace e inappropriato rispetto alla stessa gravità delle questioni economico- finanziarie che affliggono il Paese” (cfr. ANCI, Documento del Comitato Direttivo, Roma, 25 agosto 2011).
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contabile” delle funzioni ad esse affidate. Questo significa che, di fatto, i Comuni fino a 1.000 abitanti e quelli che fanno parte di Unioni con gli stessi “non potranno più presentare un bilancio proprio ma solo concorrere alla predisposizione dell’unico bilancio dell’Unione di Comuni, cui saranno obbligatoriamente associati”60. Quanto ai limiti demografici, essi sono stabiliti in 5.000 abitanti, ovvero 3.000 per i Comuni che “appartengano o siano appartenuti a Comunità montane” (art. 16, sesto comma), con facoltà per le Regioni, entro due mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione, di fissare limiti di 60
Infatti, la disposizione prevede che i Comuni facenti parte dell'Unione “concorrono alla predisposizione del bilancio di previsione dell'Unione per l'anno successivo mediante la deliberazione, da parte del consiglio comunale, da adottarsi annualmente, entro il 30 novembre, di un documento programmatico, nell'ambito del piano generale di indirizzo deliberato dall'Unione entro il precedente 15 ottobre” [cfr. ANCI, Nota di lettura art. 16 del decreto-legge n. 138/2011, convertito nella legge n. 148/2011 (Manovra bis 2011), 4 ottobre 2011]. Dunque, come osservato da M. MASSA, L'esercizio associato delle funzioni e dei servizi dei piccoli Comuni. Profili costituzionali, in www.forumcostituzionale.it, 9 marzo 2012, 26 ss., la disposizione “sottrae ai Comuni fino a 1.000 abitanti la totalità delle loro funzioni, per assegnarle a un'Unione, rispetto alla quale gli enti associati, in quanto tali, dispongono solo di un indefinito, certamente non vincolante, potere di indirizzo, e solo sul piano della programmazione finanziaria”. L'Autore rileva, altresì, come “la giurisprudenza lascia nel vago l'identità delle funzioni ricomprese nel nucleo minimo e i criteri per la loro individuazione, dando prevalentemente indicazioni negative, su come tale concetto non va usato”. Vengono richiamate, in proposito, alcune sentenze: la n. 83 del 1997, ove la Corte afferma che “il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all'assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni (…) siano libere di compiere. Si tratta, invece, di un potere che ha il suo diretto fondamento nell'art. 128 Cost., che garantisce, con previsione di principio, l'autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni”; la n. 286 del 1997, ove la Corte muta, parzialmente, orientamento, affermando che “gli artt. 5 e 128 Cost. garantiscono in linea di principio l'autonomia dei Comuni, ma non riservano a questi ultimi una quota intangibile di funzioni”; la n. 238 del 2007, ove la Corte “ribadisce gli spazi di scelta consegnati dalla legge costituzionale n. 2 del 1993 ai legislatori territoriali; conferma la soggezione di tale discrezionalità a principi quale l'autonomia comunale e la leale collaborazione (da rispettare anche nel momento in cui alle esigenze di coordianamento del governo locale si fa fronte istituendo nuovi enti, non costituzionalmente necessari); torna a menzionare, in un passo già citato, il ʻnucleo di funzioni inimamente connesso al riconoscimento del principio di autonomia degi enti locali, di cui all'art. 5 Cost.ʼ”. Inoltre, osserva l'Autore, in questa sentenza, la Corte si schiera contro il c.d. criterio storico di identificazione delle funzioni costituzionalmente necessarie di Comuni e Province, affermando che “l'innegabile discrezionalità riconosciuta al legislatore statale nell'ambito della propria potestà legislativa e la stessa relativa mutevolezza nel tempo delle scelte da esso operate con riguardo alla individuazione delle aree di competenza dei diversi enti locali impediscono che possa parlarsi in generale di competenze storicamente consolidate dei vari enti locali”.
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popolazione diversi61. Quanto alle tempistiche, invece, il momento di riferimento è quello fissato dal comma 9, ai sensi del quale “a decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del Comune che, successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo, nei Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti che siano parte della stessa Unione, nonché in quelli con popolazione superiore che esercitino mediante tale Unione tutte le proprie funzioni, gli organi di governo sono il Sindaco ed il Consiglio comunale, e le Giunte in carica decadono di diritto”62. Inoltre, è fissato il termine perentorio del 31 dicembre 2012 per l'istituzione delle Unioni da parte delle Regioni, sulla base delle domande presentate, e “qualora i Comuni restino inerti, oppure non riescano a definire autonomamente la circoscrizione territoriale all'interno della quale costituire l'Unione, la Regione in via autoritativa e nei Comuni 61
Desta perplessità l'attribuzione alle Regioni di questo potere. Attribuzione che pare essere stata introdotta in modo “casuale e frettoloso, quasi a voler evitare eventuali contenziosi in termini di conflitto di competenze con le Regioni stesse” (cfr. C. D'ANDREA, I Comuni polvere: tra dissoluzione pilotata e salvataggio delle funzioni, cit., 7). 62 Si veda in proposito M. MASSA, Funzioni fondamentali dei Comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi: altre novità del decreto-legge sulla cd. Spending review, in dirittiregionali.org, 6 luglio 2012. L'Autore osserva come pare di poter concludere nel senso che “nei Comuni fino a 1.000 abitanti che aderiscano all’Unione speciale prima delle elezioni, l’entrata in funzione degli organi associativi comporterà la decadenza degli esecutivi municipali in carica (e la loro sostituzione con la giunta dell’Unione); negli altri, secondo la logica dell’interpretazione ministeriale, la giunta continuerà a esistere, ma non oltre la prima consultazione popolare (poi le sue funzioni collegiali passeranno al sindaco, salva la possibilità di delega ai consiglieri). Sempre con riferimento al problema dei termini, si veda anche C. D'ANDREA, I Comuni polvere: tra dissoluzione pilotata e salvataggio delle funzioni, cit., 4, ove si osserva come “il testo originario prevedeva il ʻ(...) primo rinnovo dalla data di entrata in vigore del presente decretoʼ (13 agosto 2011), con la concreta evenienza che alcuni Comuni dovessero rinnovare le proprie cariche prima di altri; sfasamento temporale che avrebbe determinato l'impossibilità di costituire le Unioni: se un solo Comune, fra vari potenzialmente interessati dalla norma, avesse rinnovato entro pochi mesi i propri organi, sarebbe stato governato dal solo Sindaco con la necessità di svolgere le funzioni amministrative in forma associata, ma avrebbe dovuto attendere il rinnovo delle cariche degli altri Comuni contermini, eventualità che avrebbe potuto ricorrere anche a distanza di uno o più anni”. Con la legge di conversione, invece, il termine è quello del “primo rinnovo delle cariche elettive dalla data del 13 agosto 2012” e “si supera il possibile stallo dall'eventuale sfasamento temporale nei rinnovi con la previsione del Comune che per primo rinnoverà le cariche”.
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inadempienti, provvede tenendo conto anche dell'elenco dei Comuni obbligati a costituire le Unioni, pubblicato dal Ministero e previsto al comma 16”63. La disposizione in esame prevede anche un'alternativa alla “Unione di Comuni”, vale a dire la “convenzione”64: infatti, ai sensi del comma 16, i Comuni che al 30 settembre 2012 esercitano le funzioni e i servizi di cui al primo comma mediante “convenzione”, possono continuare a farlo ed è previsto che essi trasmettano, entro il 15 ottobre 2012, al Ministero dell'Interno, una “attestazione comprovante il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione”. Si tratta di novità di non poco conto e che non vengono salutate con favore, soprattutto dagli amministratori montani, che sono quelli maggiormente interessati dalla norma: infatti, se si guarda la collocazione territoriale dei Comuni fino a 5.000 abitanti, si può osservare come essi siano quasi totalmente situati in montagna o
63
Cfr. C. D'ANDREA, Alcune note a commento dell’art. 16 della “manovra-bis”. 2. Esercizio in forma associata delle funzioni amministrative e Organi collegiali elettivi e rapporti tra Unioni e Comuni aderenti, 2011, in dirittiregionali.org. Si ricorda che ai sensi del comma 8 dell'art. 16, “nel termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, i Comuni di cui al comma 1, con deliberazione del consiglio comunale, da adottarsi, a maggioranza dei componenti, conformemente alle disposizioni di cui al comma 6, avanzano alla Regione una proposta di aggregazione, di identico contenuto, per l'istituzione della rispettiva Unione. Nel termine perentorio del 31 dicembre 2012, la Regione provvede, secondo il proprio ordinamento, a sancire l'istituzione di tutte le Unioni del proprio territorio come determinate nelle proposte di cui al primo periodo e sulla base dell'elenco di cui al comma 16. La Regione provvede anche qualora la proposta di aggregazione manchi o non sia conforme alle disposizioni di cui al presente articolo”. 64 Si tratta di quella forma associativa prevista dall'art. 30 TUEL, ai sensi del quale “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati, gli enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni” (primo comma). Quindi, le “convenzioni” si caratterizzano, rispetto all'Unione, per il loro carattere “monofunzionale” (come osservato in P. RENZI, Le problematiche fiscali nelle Unioni di Comuni, cit.).
121
collina65. Critiche
particolarmente
pesanti
vengono
mosse
dalle
associazioni rappresentative degli enti locali piemontesi: viene presa in esame la Regione Piemonte in quanto essa rappresenta “un caso di studio significativo”, dal momento che dei 1.964 Comuni italiani con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti, ben 609 sono situati proprio in Piemonte, vale a dire circa il 30% del totale, e dei 1.206 Comuni piemontesi, 1.137 (il 94%), ricadono nell'ambito applicativo dell'art. 1666. In particolare, il Presidente di UNCEM Piemonte, Lido Riba, osserva come, sull'art. 16 stesso, “nessuna Regione intende legiferare”, trattandosi di un provvedimento assurdo, oltre che “contorto” e non foriero di effettivi risparmi di spesa. La frammentazione del Piemonte in “mini-unioni” porterebbe solo ad una “generale fragilità di questi enti intermedi”, che andrebbero costruiti non solo basandosi su criteri demografici, ma tenendo anche in considerazione “le reali aree geografiche e la conformità territoriale”. Egli prosegue osservando come, in base all'art. 16, “si andrebbero comunque ad aggregare in cinquanta Unioni solo duecento Comuni con meno di 3.000 abitanti, escludendo le città più grandi, fulcro dei servizi per i territori montani”, che, peraltro, “non sarebbero in grado di svolgere i compiti riferiti allo sviluppo, per i quali servono aggregazioni di almeno 8 – 10 mila abitanti”. Inoltre, “le competenze dal basso, le funzioni svolte in forma associata, finiranno per non 65
Cfr. C. D'ANDREA, I Comuni polvere: tra dissoluzione pilotata e salvataggio delle funzioni cit., 15. 66 Come osservato in C. D'ANDREA, I Comuni polvere: tra dissoluzione pilotata e salvataggio delle funzioni, cit., 16.
122
garantire risorse esterne ai Comuni” e “anche l'ipotesi della “convenzione” prevista dall'art. 16, porterà i Comuni all'annullamento, alla cancellazione di ogni autonomia di bilancio”67. Allo stesso modo le delegazioni piemontesi di ANCI, UNCEM, ANPCI e Legautonomie si schierano compatte contro il provvedimento, che porta ad “un deficit di democrazia che ha per contraltare un risparmio misero rispetto ad altre voci ben più significative del bilancio dello Stato su cui la manovra potrebbe intervenire”68. A conferma di questa insoddisfazione sono i ricorsi presentati da alcune Regioni dinanzi la Corte costituzionale, avverso la disposizione in commento. In particolare, analizzando quelli di Toscana e Lazio69, si può notare come essi si muovano su “tre fronti” fondamentali70: innanzitutto,
la
prevista
costituzione
delle
“Unioni”
sembra
mascherare un accorpamento di Comuni. Infatti, dal momento che esse sono destinatarie di tutte le funzioni facenti capo agli stessi, l'Unione diventa, di fatto, il “più ampio ente di amministrazione delle 67
Così si esprime L. RIBA, Presidente di UNCEM Piemonte, in www.uncem.piemonte.it. Queste le parole di A. NEIROTTI (Presidente di ANCI Piemonte) in un Comunicato stampa (rinvenibile in www.anci.piemonte.it) del 16 agosto 2011, che continua affermando come “i Comuni piemontesi sono da sempre disponibili a fare la loro parte, specie in situazioni difficili come quella che stiamo vivendo, ma non meritano di veder snaturati e svuotati i presupposti di rappresentanza che li radicano nei loro territori”. Peraltro, nel medesimo Comunicato stampa, F. BROGLIO (Presidente di ANPCI) fornisce dei dati, che confermano il mancato effettivo risparmio: grazie alla norma “soccombono 20.900 consiglieri e assessori dei 1.963 Comuni italiani che verranno soppressi. Queste persone che spariranno rappresentano 41.800 braccia in meno a operare, a costo zero, 24 ore su 24, 365 giorni all'anno, a beneficio della nostra gente del territorio, soprattutto montano, da sempre esposto a forte rischio idrogeologico” e, mentre “il famoso e ipotetico risparmio, ammonterebbe a € 2.298.000 in Italia”, occorre considerare che la maggior parte degli amministratori dei piccoli Comuni italiani non percepisce alcunchè, con la conseguenza che “il risparmio effettivo è di € 1.150.000, pari al costo di due parlamentari e mezzo l'anno. Questi 1.963 Comuni italiani costano € 1,04 l'anno a ciascun cittadino amministrato”. 69 Si tratta del ricorso della Regione Toscana n. 133 del 10 novembre 2011 e di quello della Regione Lazio n. 134 dell'11 novembre 2011. 70 In tal senso M. MASSA, Impugnazioni regionali contro l'accorpamento dei piccoli Comuni, in dirittiregionali.org, 23 dicembre 2011. 68
123
comunità locali”, eludendo, così, il procedimento di cui all'art. 133, comma secondo, Cost.71; inoltre, appare violato l'art. 114 Cost., in quanto l'art. 16 opera una “differenziazione generale e onnipervasiva” tra i Comuni che, sostanzialmente, equivale alla “istituzione di una nuova categoria di enti territoriali obbligatori, sostitutiva dei (piccoli) Comuni”72. Per quanto riguarda il secondo “fronte”, torna a proporsi l'annosa questione delle competenze residuali delle Regioni, così come configurate nel nuovo assetto delineato dalla Riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, che la Corte era già stata 71
Cfr. M. MASSA, Impugnazioni regionali contro l'accorpamento dei piccoli Comuni, cit. Nel dettaglio, La Regione Toscana osserva come la disciplina contenuta nell'art. 16, sostanzialmente, comporti la “fusione dei piccoli Comuni” e la modifica delle circoscrizioni comunali, con una procedura che, però, non è quella prevista dall'art. 133, secondo comma, Cost.; di conseguenza, la “Unione” viene a configurarsi “come un ente la cui istituzione determina il venir meno per i Comuni che ne sono membri di alcuni elementi essenziali propri di un ente, e in particolare di un ente territoriale”, determinandone, perciò, di fatto, la soppressione (cfr. Diritto, n. 5, lett. a) del ricorso n. 133 del 2011). Analogamente si esprime il ricorso della Regione Lazio, ove si afferma che “una lettura sistematica e non meramente finalistica” dell'art. 133 porta ad “individuarne la ratio nell'attribuzione alla competenza regionale della disciplina del numero dei Comuni non perchè essi vengano intesi come ʻenti privi di funzioniʼ, ma proprio in ragione delle funzioni dai medesimi svolti. Nessun senso avrebbe, infatti, l'istituzione di nuovi Comuni, se ad essa non corrispondesse l'istituzione di un ente dotato di funzioni”. Pertanto, un intervento statale, quale quello censurato, che svuota di funzioni gli enti comunali non può non comportare una surrettizia elusione, e dunque una violazione, anche della riserva di competenza stabilita in favore della Regione dall'art. 133, comma 2, Cost.” (cfr. Diritto del ricorso laziale). La violazione dell'art. 133 Cost. è ravvisata anche dal Presidente UNCEM, Borghi, il quale osserva come esso “non solo affida alla Regione la competenza legislativa in materia” ma “prevede l'obbligatoria consultazione delle popolazioni interessate” mentre, “con la creazione di questa strana ‘Unione dei Comuni ghetto’ si finisce per istituire un ulteriore ente locale, che viene a sovrapporsi e a sfasciare senza alcun coordinamento all'attuale assetto delle forme associative intercomunali (in particolare, le Unioni di Comuni e le Comunità Montane) e della relativa legislazione regionale” (così si esprime E. BORGHI nell'articolo Manovra bis: Borghi, art.16 norma palesemente incostituzionale, promuoveremo ricorso, in www.anci.it). Considerazioni analoghe si possono ravvisare in V. TONDI DELLA MURA, La riforma delle Unioni di Comuni fra “ingegneria” e “approssimazione” istituzionale, in www.federalismi.it, 25 gennaio 2012, 9, ove si osserva come i piccoli Comuni siano “svuotati pressochè integralmente di funzioni, strutture e risorse” e “conservano spazi di autonomia assai residui, se non proprio simbolici, per il resto configurandosi come vuoti involucri e mere circoscrizioni elettorali da aggregare al nuovo ente”. 72 Cfr. M. MASSA, Impugnazioni regionali contro l'accorpamento dei piccoli Comuni, cit. A conferma di ciò si veda anche Diritto, n. 5, lett. c) del ricorso della Regione Toscana.
124
chiamata a risolvere, con riferimento alla questione delle Comunità montane, con le sentenze esaminate nel precedente capitolo e che, opportunamente, vengono richiamate dalle ricorrenti73. In terzo luogo, l'art. 16 è contestato con riferimento all'art. 117 Cost., in quanto viene reclamato dalla Regioni il potere decisionale nell'ambito delle funzioni che rientrano nelle materie che la Costituzione annovera tra quelle di competenza concorrente o residuale delle stesse74. Le censure non finiscono qui: viene, altresì, ravvisata la violazione del “principio di leale collaborazione”, nel fatto che la “disciplina è imposta unilateralmente dallo Stato”75, mentre, quanto al comma 16 della disposizione in esame, che prevede l'alternatività 73 Si tratta delle sentt. n. 27/2010, n. 237/2009, n. 244/2005 e n. 456/2005, che vengono citate a sostegno dell'asserita illegittimità dell'art. 16 per contrasto con gli artt. 114 e 117 Cost. In particolare, secondo la Regione Toscana, la disposizione “interviene con una normativa puntuale in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali, materia che secondo il pacifico orientamento della Corte costituzionale rientra nella competenza esclusiva delle Regioni” (cfr. Diritto, n. 5, lett. c) del ricorso toscano). Le ultime tre sentenze sono richiamate anche dalla Regione Lazio per ricordare l'orientamento costante della Corte in base al quale “gli enti locali rispetto ai quali viene individuata la competenza statale”, vale a dire Comuni, Province e Città metropolitane, deve ritenersi una “indicazione tassativa” (cfr. Diritto del ricorso in esame). 74 Come osservato da M. MASSA, Impugnazioni regionali contro l'accorpamento dei piccoli Comuni, cit. e confermato da Diritto, n. 5, lett. b) del ricorso toscano. La ricorrente ricorda che “la legge statale è competente in via esclusiva per quanto riguarda le sole funzioni fondamentali; deve invece escludersi che possa imporre forme associate di esercizio anche delle funzioni proprie dei Comuni (che cioè rientrano nell'autonomia organizzativa degli stessi) e comunque di quelle ad essi assegnate da leggi regionali. Con riguardo a quest'ultime spetta al legislatore regionale, sulla base di quanto previsto dall'art. 118 Cost. in termini di differenziazione e adeguatezza, prevedere forme di associazione come condizione per l'attribuzione delle funzioni stesse”. In senso analogo il ricorso della Regione Lazio, ove si afferma che “la disciplina che si contesta, riallocando le funzioni amministrative comunali ad un livello territoriale superiore, quale quello delle Unioni di Comuni, risulta altresì lesiva dell'art. 118 Cost.” ai sensi del quale “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. La norma consente, dunque, che le funzioni amministrative vengano sottratte ai Comuni e riallocate legislativamente ad un livello territorialmente più esteso, soltanto qualora sussista un'esigenza di esercizio unitario” (cfr. Diritto del ricorso). 75 Cfr. Diritto, n. 5, lett. c) del ricorso.
125
tra “Unione” e “convenzione”, esso è considerato, oltre che illogico e irragionevole, anche lesivo del “principio di buon andamento”, poichè la “discrepanza fra i due modelli” porta a dubitare che “due forme associative così diverse possano svolgere con efficacia ed effetti analoghi il medesimo compito di assicurare la gestione di tutte le funzioni e di tutti i servizi dei Comuni che ne fanno parte, secondo le modalità e i vincoli previsti dall'articolo in questione”76. Altro aspetto evidenziato dalla regione Toscana è quello relativo al comma 17, lett. a), che “non prevede più la Giunta municipale per i Comuni fino a 1.000 abitanti, anche ove detti Comuni esercitino le loro funzioni in convenzione” e, dunque, si pone “in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. e con il principio di buon andamento ai sensi dell'art. 97 Cost., anche in relazione alle competenze regionali ex art. 117, commi 3 e 4, Cost., in quanto incide sulla funzionalità di dette forme associative e quindi sullo svolgimento delle funzioni amministrative che la Regione ha attribuito ai Comuni”77 e ai commi 19, 20 e 21, i quali “pongono vincoli in ordine alle modalità temporali e alle sedute degli organi collegiali di governo degli enti territoriali”: la ricorrente ravvisa, in ciò, una lesione della “autonomia organizzativa dei Comuni”, in contrasto con l'art. 117, sesto comma, ultima parte, Cost.78. Infine, va ricordata anche la supposta incostituzionalità del 76
Cfr. Diritto, n. 5, lett. d) del ricorso. Cfr. Diritto, n. 5, lett. e) del ricorso. La ricorrente osserva come sia palese che la “convenzione” rappresenti “una forma flessibile di gestione associata, che non ha un organo esecutivo per cui è illogico eliminare gli esecutivi dei singoli Comuni”. 78 Cfr. Diritto, n. 5, lett. e) del ricorso. La ricorrente ricorda come l'art. 117, sesto comma, Cost. statuisce che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina della loro organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. 77
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comma 16, con riferimento agli artt. 114 e 117, comma 4, Cost. Infatti, la previsione di un “controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle Unioni” risulta in contrasto “innanzitutto con lo spirito della modifica del Titolo V della Cost., con il quale sono state soppresse le funzioni statali di controllo sugli enti locali in ragione della rafforzata autonomia prevista oggi dall'art. 114 Cost., e in ogni caso la norma prevede, in via unilaterale e senza delineare alcun ruolo delle Regioni, un inammissibile controllo sulle forme associative di enti locali, la cui disciplina, come visto, è riservata alla competenza esclusiva delle Regioni”79. Non resta che attendere il responso della Consulta, che è auspicabile arrivi in tempi brevi, dal momento che i termini posti dalla normativa sono stringenti: sei mesi dalla conversione per la deliberazione delle “proposte di Unione” e primo rinnovo elettorale degli organi di uno dei Comuni partecipanti all'Unione, successivo al 13 agosto 2012, per l'operatività delle novità istituzionali80.
79
Cfr. Diritto, n. 6 del ricorso in esame. La ricorrente rammenta che “a seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione, la materia dei controlli è estranea alla sfera di competenza statale essendo riservata alla potestà legislativa regionale e/o a quella regolamentare degli enti locali” e sostiene, altresì, che tale intervento “non si giustifica neppure alla luce della nella competenza statale a definire dei principi fondamentali in tema di coordinamento della finanza pubblica. La disciplina è infatti una disciplina di dettaglio e sotto questo profilo si profila l'ulteriore violazione dell'art. 117, comma 3 e 119 Cost. (cfr. in tal senso la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 237 del 2009)”. 80 Come osservato da M. MASSA, Impugnazioni regionali contro l'accorpamento dei piccoli Comuni, cit. L'Autore precisa come “sarebbe utile che l'attività di Regioni e Comuni potesse ricevere rapidamente qualche indicazione costituzionale affidabile in merito al se e al come procedere all'attuazione del contestato art. 16”.
127
3.4 Segue: le novità dell'art. 19 del decreto-legge 06 luglio 2012 n. 95. Dalle “Comunità montane” alle “Unioni di Comuni montani”.
Come anticipato, l'art. 16 sopra esaminato è stato superato dall'entrata in vigore dell'art. 19 del decreto-legge n. 95 del 2012, c.d. “Spending review”, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 13581. La situazione appare migliorata per i Comuni montani: osserva Daniele Formiconi (Responsabile Area Piccoli Comuni – ANCI) che “le conseguenze dell'art. 16 sarebbero state molto negative se non nefaste per i piccoli Comuni italiani, che in gran parte sono collocati in aree montane”, anche se, nonostante la nuova disciplina, non si può ancora affermare che “il nostro ordinamento si sia dotato di una normativa complessivamente organica e razionale”. Certo, si sono “evitate le criticità che di fatto stavano spingendo i Comuni a dividersi, tra sotto e sopra i 1.000 abitanti, oppure ad unirsi sulla carta”, tuttavia, prosegue Formiconi, “quello che manca è l'approccio corretto verso uno sviluppo ed una crescita della governance locale attraverso le gestioni associate, siano Unioni di Comuni o convenzioni (anche se le differenze tra i due modelli sono del tutto sostanziali)”, in quanto “il legislatore, in generale, appare orientato a considerare solo l'eccessivo numero dei piccoli Comuni come se fosse di per sè un problema che genera malfunzionamento ed aumento dei costi e, conseguentemente,
guarda
alle
81
gestioni
associate
come
Va osservato come le modifiche contenute nella legge di conversione siano, comunque, minime, e verranno rese note nel proseguio della trattazione. Ciò è stato rilevato anche da M. MASSA, Convertito il decreto-legge sulla c.d. Spending review. Aggiornamenti su funzioni fondamentali dei Comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi, in dirittiregionali.org, 30 agosto 2012.
128
ʻaccorpamentoʼ che riduce le supposte diseconomie. Di fatto, l'accorpamento imposto dall'ormai superato art. 16 ma che resta tuttavia nel disegno normativo, non è mai stato ʻquotatoʼ in termini di effettivo risparmio. Si consideri che in Europa (si veda il recente studio
ANCI-IFEL
ʻL'Atlante
dei
Piccoli
Comuni
2012ʼ
sull'Intercomunalità in Europa), vi sono Paesi con un numero di Comuni (per kmq) superiori o pari all'Italia, ma non per questo sono meno efficienti82”. In base al nuovo art. 19, le “gestioni associate” prenderanno avvio a partire dal gennaio 2013, anche se, ovviamente, “le conseguenze per i territori montani, come per tutte le aree amministrate dai piccoli Comuni (ovvero fino a 5.000 abitanti), potranno essere valutate solo nel tempo. Certamente si può ipotizzare una profonda riorganizzazione della governance locale, per molti aspetti anche auspicabile, ma solo se avverrà con gradualità e senza peggioramento dei servizi ai cittadini delle aree periferiche del nostro Paese”. Elemento di particolare importanza è ravvisato nella possibilità per i Comuni di poter “scegliere la propria forma 82
In tal senso si esprimono anche il Presidente UNCEM, Borghi, e il Vicepresidente ANCI, Guerra, secondo i quali rappresenta solamente un luogo comune il fatto che il numero di Comuni italiani sia causa di sprechi e spese inutili. Infatti, “in Italia i Comuni sono 8.092, in Germania i Comuni sono 12.104, in Francia 36.682 di cui il 90% con meno di 2000 abitanti, in Spagna 8.116, in Austria 2.357 con 8 milioni di abitanti, in Svizzera, che ha meno abitanti della Lombardia che ha 1.500 Comuni, i Comuni sono 2.516. Vogliamo dire quindi che Germania, Austria, Svizzera, Francia, sono Paesi con sprechi e inefficienze nella Pubblica Amministrazione solo perchè hanno molti Comuni?”. Di conseguenza, “è evidente che il tema non sta nel numero in sè, ma in come è organizzato e funziona l'intero sistema istituzionale, centrale e locale di un Paese” (cfr. Borghi e Guerra sulle gestioni associate in www.uncemcalbria.it). In termini analoghi si esprimono A. MISIANI – F. R. FRIERI, Proposta per i piccoli Comuni: associarli ma non cancellarli, in L'Unità, 22 agosto 2011, 17, che ribadiscono come l'Italia non abbia un numero di Comuni superiore rispetto al resto d'Europa e che il problema vero è rappresentato dalle “diseconomie di scala legate alla gestione spesso polverizzata dei servizi locali, ammesso che essi vengano erogati in tutto il territorio nazionale”.
129
associativa e le modalità per loro più efficaci in tale direzione”: se “il modello Comunità montane oggi risponde con qualche difficoltà ai nuovi obblighi associativi per i Comuni, pur se in alcune Comunità montane si sono ben gestiti sino ad oggi alcuni servizi e funzioni per i Comuni aderenti”, attualmente, però, “i piccoli enti sono tenuti a gestire praticamente tutto insieme” e “occorre un modello associativo più adatto e più forte per rispondere a tale esigenza; in molti casi si stanno, infatti, trasformando le Comunità montane in Unioni di Comuni montani” e “con l'art. 19 ora, questa od altre scelte, sono maggiormente garantite rispetto a quanto prevedeva l'art. 16”83. Soddisfazione in merito alla nuova disposizione viene espressa anche da UNCEM: come affermato dal Presidente, E. Borghi, “la situazione è stata ben reimpostata” e “Governo e Parlamento hanno finalmente compreso la nostra logica realmente riformista accantonando (si spera definitivamente) furori razionalizzatori dietro i quali si celano evidenti interessi di colonizzazione dei territori montani”84. Quali, dunque, le novità? L'art. 19 del decreto, sostanzialmente, riprende quanto previsto nel d.d.l. sulla “Carta delle autonomie locali”, attualmente all'esame del Senato: al primo comma, esso individua nove “funzioni fondamentali”85 che dovranno necessariamente essere svolte in forma 83
Così si esprime D. FORMICONI in un'intervista rilasciata sull'argomento a chi scrive. Cfr. www.uncem.piemonte.it/news, 13 agosto 2012. 85 Si tratta delle funzioni elencate dalla lett. a) alla lett. i) dell'art. 19, primo comma, del decreto, vale a dire: organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale; catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; 84
130
associata dai Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, che diventano 3.000 qualora si tratti di Comuni “appartenenti o appartenuti a Comunità montane”. Le “forme associative” cui i Comuni potranno ricorrere sono le “Unioni di Comuni”86 o le “convenzioni”87 e la Regione è competente per l'individuazione della loro “dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica”. Rispetto a quanto previsto dall'art. 16, l'art. 19, inoltre, al comma secondo, come detto, rende facoltativa e non obbligatoria la organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’art. 118, quarto comma, Cost.; edilizia scolastica, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; polizia municipale e polizia amministrativa locale; 86 Le “Unioni di Comuni” dovranno rispettare il limite demografico dei 10.000 abitanti, fissato dall'art. 19, comma 1, lett. d), Cost. In particolare, sembra che “lo sforzo principale” sia “quello di fare dell’Unione un ente ‘a costo zero’”. I suoi organi devono essere formati “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, da amministratori in carica dei Comuni associati e a essi non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni e indennità o emolumenti”. I mezzi e il personale delle Unioni devono provenire dai Comuni associati: nè è obbligatorio il conferimento, in relazione alle funzioni assegnate; “in sede di prima applicazione”, è vietato alle Unioni “il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti”; in futuro, dovranno essere perseguite ulteriori razionalizzazioni. Come in passato, alle Unioni competono tasse, tariffe e contributi relativi ai servizi a esse affidati”. (cfr. M. MASSA, Funzioni fondamentali dei Comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi, cit.) 87 È prevista, all'art. 19, primo comma, lett. e), la durata triennale delle “convenzioni” e se alla scadenza non risultano conseguiti “significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo modalità stabilite con decreto del Ministro dell'Interno, da adottare entro sei mesi, sentita la Conferenza Stato-città e autonomie locali”, i Comuni “sono obbligati ad esercitare le funzioni fondamentali esclusivamente mediante Unioni di Comuni”. Alla luce di ciò, è stato osservato come le “convenzioni” siano viste “con sospetto”, mentre siano le “Unioni” considerate la “strada maestra per la collaborazione intercomunale”. Da notare, infatti, quanto alle prime, “l’accentramento della potestà di controllo qui prevista, la debolezza del modulo collaborativo contemplato (parere) e l’estraneità delle Regioni a tale istanza di confronto” (cfr. M. MASSA, Funzioni fondamentali dei Comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi, cit.). Inoltre, con riferimento alle “convenzioni” e alla loro durata triennale, nelle Schede di lettura al decreto-legge n. 95 del 2012, emanate dalla Camera dei Deputati in data 31 luglio 2012, si osserva come “dal riferimento alla scadenza del periodo non risulta con chiarezza se il riscontro dei livelli di efficacia ed efficienza nella gestione debba intervenire comunque decorso un triennio anche in caso di durata superiore della convenzione. Se così fosse sarebbe opportuno prevedere specifiche disposizioni per la cessazione della convenzione e la costituzione dell’Unione che non sembra possano essere demandate alla fonte costituita dal decreto ministeriale”.
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“costituzione di Unioni di Comuni ʻspecialiʼ per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, distinte da quelle costituite ai sensi dell'art. 32 TUEL, con contestuale svolgimento associato di tutte le loro funzioni amministrative e dei servizi pubblici”88; inoltre, “tale esercizio può essere assicurato anche mediante convenzioni ai sensi dell'art. 30 TUEL”89. In sostanza, i Comuni possono continuare a dare applicazione all'art. 14 del decreto-legge n. 78 del 2010, ai sensi del quale “i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a Comunità montane, esclusi i Comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il Comune di Campione d’Italia, 88
È stato osservato come questa opzione “verosimilmente, verrà scelta in pochissimi casi”, dal momento che “comporta per i municipi il sostanziale svuotamento della propria autonomia, oltre che l'assoggettamento al Patto di stabilità interno” (cfr. M. BARBERO, Piccoli Comuni, Unioni in libertà, in Italiaoggi, 7 luglio 2012, 34). 89 Cfr. ANCI, Nota di lettura artt. 19 e 20 del decreto-legge n. 95/2012, 11 luglio 2012. In particolare “si può supporre che un ruolo centrale spetterà alle Regioni”, che saranno in grado di stabilire quando sia opportuno che i Comuni ricorrano alla “Unione speciale”, con, dunque, una “integrazione più stretta” o che si associno alle “Unioni” di cui all'art. 32 TUEL o alle “convenzioni”. Inoltre, “spetta alle Regioni pure vagliare le proposte di ʻUnioni specialiʼ che provengano dai Comuni, allo scopo di garantire che abbia piena applicazione l’art. 14 e che, comunque, l’istituzione delle Unioni speciali renda più efficiente ed efficace l’amministrazione locale” (cfr. M. MASSA, Funzioni fondamentali dei Comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi, cit.). Peraltro, può sorgere il dubbio in merito ad una questione: “i Comuni fino a 1.000 abitanti possono demandare all’Unione speciale solo una parte delle proprie funzioni, per esercitare le altre mediante moduli collaborativi differenti? Oppure l’opzione va fatta in blocco: o tutte le funzioni all’Unione speciale, o niente Unione speciale? L’idea che sia possibile demandare all’Unione solo una parte delle funzioni è suggerita dai riferimenti dell’art. 16 novellato ai tributi, rapporti, cespiti patrimoniali etc. inerenti o relativi alle funzioni trasferite (es. comma 2, primo periodo; comma 3, primo e secondo periodo). Sembra sottinteso che possano essere trasferite solo alcune funzioni e che, perciò, si debbano distinguere, ai fini del trasferimento, gli accessori tributari, patrimoniali etc. di tali funzioni dal resto. Tuttavia non è detto che sia facile stabilire, ad esempio, quali tributi locali si riferiscono a una determinata funzione, in ipotesi, esercitata dal Comune mediante l’Unione speciale” (in tal senso M. MASSA, Funzioni fondamentali dei Comuni ed esercizio associato di funzioni e servizi, cit.). Si ricorda che ai sensi del primo comma dell'art. 32 TUEL “le Unioni di Comuni sono enti locali costituiti da due o più Comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza” mentre, ai sensi dell'art. 30 TUEL, primo comma, “al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati, gli enti locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni”.
132
esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante Unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei Comuni di cui al comma 27, ad esclusione della lettera l)” (Unioni e convenzioni che sono quelle di cui agli artt. 32 e 30 del TUEL). Oppure, possono optare per la costituzione delle Unioni “speciali” di cui all'art. 16 del decreto-legge n. 138 del 2012. Cambiano, inoltre, rispetto a quanto statuito in quest'ultima disposizione, le tempistiche: infatti, i Comuni che intendono optare per le gestioni associate “ordinarie”, devono provvedere alla costituzione delle Unioni o convenzioni entro il 01 gennaio 2013 (e non più il 01 gennaio 2012), con riferimento ad almeno tre delle funzioni fondamentali, ed entro il 01 gennaio 2014, con riferimento alle altre90, mentre quelli che intendono optare per le Unioni “speciali” di cui all'art. 16, devono avanzare alla Regione una “proposta di aggregazione”, entro e non oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 95 del 2012 e, entro il 31 dicembre 2013, la Regione deve sancire l'istituzione delle Unioni (art.
90
Qui si riscontra una delle novità introdotte dalla legge di conversione: infatti, ora si prevede che “in caso di decorso dei termini di cui al comma 31-ter, il prefetto assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, trova applicazione l’articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131”, vale a dire la disposizione in tema di “poteri sostitutivi dello Stato”. Si veda, in proposito, M. MASSA, Convertito il decretolegge sulla c.d. Spending review, cit., ove si osserva che “altre modifiche sembrano di minore rilievo, prevalentemente formali o di coordinamento”. Inoltre, rileva l'Autore come appaia in modo chiaro che “la nuova definizione delle funzioni fondamentali è destinata a incidere sull’edificio in costruzione del cd. federalismo fiscale municipale”. Infatti, egli osserva come l'Ordine del Giorno 9/5389/103 presentato alla Camera impegni il Governo a “valutare l’opportunità, nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, di garantire, se necessario con appositi atti, che sia portato a compimento il primo ciclo di calcolo dei fabbisogni standard degli enti locali, attualmente in avanzata fase di elaborazione sulla base di quanto stabilito dal decreto legislativo n. 216 del 2010, a partire dalla classificazione provvisoria delle funzioni fondamentali recata dalla legge n. 42 del 2009, così evitando che la diversa classificazione introdotta dal decreto-legge n. 95 del 2012, la quale dovrà essere utilizzata a partire dal secondo ciclo, possa avere l’effetto indesiderato di interrompere l’esercizio statistico e conoscitivo in corso”.
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19, comma secondo)91. In conformità con quanto statuito dalla “Carta delle autonomie”, è prevista, altresì, la creazione di “Unioni di Comuni montani”, laddove l'Unione sia costituita in prevalenza da Comuni, appunto, montani, destinate ad esercitare le “specifiche competenze di tutela e di promozione della montagna attribuite in attuazione dell'art. 44, secondo comma, Cost. e delle leggi in favore dei territori montani” (comma 3). È proprio questo terzo comma quello di maggiore rilevanza per le Comunità montane e un elemento di particolare importanza, previsto solo per le “Unioni di Comuni montani”, è quello per cui “all'Unione sono conferite dai Comuni partecipanti le risorse umane e strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro attribuite”: ciò sta a significare che le nuove “Unioni” potranno sfruttare il patrimonio e il personale impiegato delle attuali Comunità montane, sempre in ottemperanza al principio per cui l'Unione deve essere costituita “senza nuovi oneri per la finanza pubblica”92. Le Unioni di Comuni montani andranno ad assorbire le competenze delle Comunità montane, “creando un unico livello sovracomunale obbligatorio, ed eliminando tutti quegli enti, quegli organismi, quelle agenzie” che “negli anni hanno prodotto quel sedimento di funzioni fondamentali dei Comuni che hanno portato alla 91
Entrambi i termini sono qualificati “perentori” dalla disposizione in esame. Cfr. Scheda di lettura cit. Ivi si osserva che, in ossequio a tale principio è anche stabilito che “la spesa sostenuta per il personale dell'Unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti” e “a regime devono essere assicurati progressivi risparmi di spesa in materia di personale”. 92
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dispersione della spesa ed alla irresponsabilità dei centri di spesa”93. In questo modo si “rafforza l’autogoverno della montagna nella scia delle preesistenti Comunità montane, le quali cambiano nome ma ritrovano slancio”94. Esse, infatti, “cambiano pelle, ma si salvano di fatto dall'abrogazione”, sopravvivendo come “Unioni di Comuni” e avendo “pure più poteri perché, sotto questa nuova veste, svolgeranno le funzioni che i mini-enti dovranno obbligatoriamente gestire in forma associata a partire dal 2013”95. In conclusione, l'obiettivo è che le Unioni di Comuni montani divengano “veri e propri motori dello sviluppo, capaci di elaborare programmi d’investimento autonomi, indirizzati ad una dimensione 93
Cosi si esprime Borghi in una sua intervista televisiva del 14 luglio 2012. In tal senso M. BUSATTA, Unioni montane per i Comuni in quota, in L'amico del popolo, 13 luglio 2012, 3. Sull'importanza di dare nuovo vigore alle Comunità montane si è espresso anche Celeste Martina (Coordinatore Piccoli Comuni ANCI Piemonte), in un articolo del 26 giugno 2012, pubblicato in www.unioni.anci.it, la quale osserva che “se le Comunità montane, non saranno viste in chiave evolutiva, anche attraverso la loro trasformazione in Unioni di Comuni montane, si rischia di distruggere esperienze fondamentali che fino ad oggi hanno garantito la tenuta di un sistema fatto di fragilità ma anche ricco di risorse”. Come osservato, ancora una volta, da Borghi, “la maggior parte dei piccoli Comuni opera già in regime di funzioni associate” e, con l'approvazione della Carta delle Autonomie, “il meccanismo oggi sostanzialmente volontario diverrà obbligatorio, con la previsione dell’intervento statale solo in via perequativa. Ma anche in questo caso, non penso che basterà a risolvere le problematiche peculiari dei piccoli Comuni di montagna. Dobbiamo cambiare il punto di vista se vogliamo salvare i piccoli Comuni montani dal default. Trasformare la debolezza determinata da condizioni orografiche marginali, che rendono difficili e molto più cari spostamenti, infrastrutture ed erogazione di servizi, in punti di forza legati al settore delle rinnovabili. Innovare il sistema istituzionale privilegiando forme aggregative ʻdal bassoʼ dei piccoli Comuni, per cogliere le opportunità di un nuovo sistema produttivo che ha come pilastri la custodia, la gestione e la valorizzazione del patrimonio forestale, delle risorse idriche e del paesaggio” (così Enrico Borghi, intervistato da ANCI Rivista, 28 giugno 2012). 95 In tal senso F. CERISANO, Comunità montane salve come Unioni, in www.italiaoggi.it, 14 agosto 2012, 28. Ivi si riporta anche un intervento del Presidente UNCEM, Borghi, il quale evidenzia come la sopravvivenza delle Comunità montane potrebbe derivare dalla prevista soppressione delle Province: infatti “se con il taglio degli enti intermedi si stabilisce per esempio che le competenze in materia di risorse idrogeologiche passano ai Comuni, si dovranno costituire Unioni di dimensioni tali da ricomprendere un intero bacino” e “in questa nuova prospettiva l'esperienza di governo del territorio delle Comunità montane sarà fondamentale. Ecco perché la nascita delle Unioni montane rappresenta un momento storico per far mantenere nelle mani delle popolazioni locali le redini di un destino che sembra sempre più deciso da soggetti esterni”. 94
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produttiva sostenibile e sede di processi innovativi in grado di valorizzare il territorio e le filiere produttive”96. Si può essere indotti a chiedersi se le nuove “Unioni” non si risolvano in un semplice “doppione” delle vecchie Comunità montane, con il timore che vengano a riproporsi i medesimi problemi di inefficienza e inefficacia dell'azione amministrativa. A questo proposito si riporta l'opinione fornita dal funzionario di UNCEM Piemonte, Marco Bussone: con riferimento alla Regione, egli osserva che, mentre le Comunità montane “dovevano essere allo stesso tempo Agenzie per lo Sviluppo del territorio montano e Unioni di Comuni per la gestione associata dei servizi, nonchè enti di bonifica territoriale per la difesa dell'assetto idrogeologico” e “in molti casi non ci sono riuscite, per una lunga serie di fattori (in primis alcune dimensioni territoriali, troppo grandi, per il mancato aggiornamento verso questi compiti del personale, per la mancanza di spinta ʻpoliticaʼ ed economica dei dirigenti e degli amministratori)”, le nuove Unioni montane, “intanto avranno la possibilità di dividersi, dove le situazioni di aggregazione del 2008 sono state eccessive (ad es., la Comunità montana Val di Susa con 43 Comuni e 130 mila abitanti o la Comunità montana Cebano Tanaro Monregalese con 41 Comuni)” e, 96
Cfr. ANCI, Fascicolo di raccolta dei documenti tematici – Prima Conferenza programmatica ANCI della montagna, Roma, 29 marzo 2012. Tra i settori in cui il sistema montano potrebbe dare un contributo molto importante sono annoverati quelli dell'energia e delle fonti rinnovabili, dei servizi sociali e dell'istruzione, dell'ambiente (con particolare attenzione al patrimonio idrico e forestale), dell'agricoltura e forestazione e dell'innovazione. Tuttavia, si osserva come “le numerose normative che si sono succedute negli ultimi anni, da una parte non hanno previsto strumenti adeguati all'autogoverno del territorio e alla compartecipazione delle comunità locali allo sfruttamento delle risorse, dall'altra hanno mortificato gli enti locali con il progressivo ridursi delle risorse finanziarie disponibili e la compressione degli spazi di autonomia ad essi riconosciuti”.
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mantenendo “la competenza dello sviluppo socio-economico del territorio, ai sensi dell'art. 44 Cost.”, “dovranno necessariamente diventare soggetti vocati allo sviluppo del territorio”. Dunque, “o ora ci sarà veramente questa presa di coscienza o a perdere sarà la montagna. La gestione dei servizi associata sarà sempre meno incentivata da fonti di finanziamento esterne e saranno i Comuni a fare la loro parte”, con la possibilità, per le Unioni montane, di usufruire di “fonti di finanziamento specifiche per quello che è il lavoro legato allo sviluppo economico del territorio97”. Occorre, inoltre, tener presente che, con la soppressione delle Province, prevista dalla Spending review, “le competenze di queste, passeranno ai Comuni, che dovranno per forza gestirne molte in forma associata, con un ambito vasto: ecco perchè noi sosteniamo che le attuali Comunità montane non debbano frammentarsi in Unioni troppo piccole, sia per la gestione dei servizi (si pensi al socio assistenziale, dove le economie di scala su un territorio vasto sono indispensabili), sia per la gestione del fondo perequativo, che arriverà dal prossimo anno per far fronte ai costi standard”. Anche l'ANCI e l'UNCEM nazionale accolgono positivamente il percorso tracciato dall'art. 19 e l'istituzione delle Unioni di Comuni montani, la cui normativa dovrà essere completata dall'adozione della Carta delle Autonomie: peraltro si tratta di una soluzione auspicata già da tempo dalle due associazioni, che ancora nel 2011 esprimevano la necessità di “favorire lo sviluppo dei piccoli Comuni e dei territori 97
Ad esempio, le politiche legate alla green economy e alla forestazione, all'idroelettrico, al turismo, ai progetti relativi alla mobilità, ecc.
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montani e non, che costituiscono a pieno titolo i pilastri identitari essenziali su cui si fonda la nostra Repubblica”. Piccoli Comuni che non necessitano di assistenza ma, piuttosto, di valorizzazione, attraverso politiche che portino ad attuazione i “valori di democrazia e di pari dignità sanciti nella Carta costituzionale” e che valorizzino “le potenzialità economiche, sociali e di presidio territoriale”, sulla base dei “principi della specificità territoriale, della coesione economica e sociale, dello sviluppo sostenibile e della sussidiarietà”, con la “diffusione di modelli uniformi, stabili ed evoluti di governance del territorio”. Secondo ANCI e UNCEM risulta “strumentale e fuorviante” la distinzione tra Comunità montane e Unioni di Comuni: occorre,
invece,
avviare
un
processo
di
omogeneizzazione,
razionalizzando le modalità di esercizio delle funzioni tipicamente montane, tenendo sempre a mente quelle che sono le esigenze del territorio e della popolazione. Attraverso le “Unioni di Comuni” e le “Unioni di Comuni montani”, che dovranno essere “diretta espressione e derivazione del Comuni”, sarà possibile stabilire una connessione stretta tra le scelte relative all'assetto ordinamentale e quelle relative al “federalismo fiscale” e, dunque, giungere ad un “livello di ʻadeguatezzaʼ delle funzioni comunali”. Fondamentale in questa prospettiva appare il profilo relativo all'autonomia finanziaria: risulta opportuno prevedere misure premiali, anche attraverso l'incremento
dell'autonomia
impositiva
o
delle
aliquote
di
compartecipazione ai tributi statali, che favoriscano le Unioni, “in un percorso di integrazione sempre più efficiente”98. 98
Così si esprimono ANCI e UNCEM nel Documento conclusivo ad un seminario tenuto
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Sembra, pertanto, questo il futuro delle Comunità montane, in un percorso che dovrà avere sempre come faro illuminante l'art. 44 Cost.99
sull'argomento, datato 24 febbraio 2011. Peraltro, si segnala, altresì, un'opinione divergente in merito alle “Unioni di Comuni montani”. Infatti, analogo ottimismo in proposito non viene espresso dal Dott. G. Bortoli, appassionato storico nonché ex Presidente della Comunità montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, dell'Altopiano di Asiago, interrogato sull'argomento in data 23 agosto 2012. Secondo Bortoli, il problema fondamentale è rappresentato dal fatto che, mentre l'Unione di Comuni è una semplice “organizzazione di servizi intercomunali”, la Comunità montana è un “organo politico”, con una potenza addirittura superiore a quella del Comune, dal momento che essa ne accorpa una pluralità. Pertanto, la cancellazione delle Comunità montane rappresenta un grosso problema per la montagna, in quanto non ci sarà più un organo a tutela degli interessi di un'area omogenea. Prima, gli interessi comprensoriali erano tutelati dalla Comunità montana, ora, questo non potrà essere realizzato dalle Unioni di Comuni, che costituiscono delle organizzazioni meramente “tecniche” e non politiche. 99 Rilevante in tal senso è l'intervento di Enrico Borghi che, in occasione della Prima Conferenza Programmatica ANCI sulla Montagna, evidenzia come, se il futuro è rappresentato dalle “Unioni di Comuni montani”, risulta ancora di più grande importanza “dare attualità all'art. 44 Cost.”; egli osserva che “oggi la sfida sta nella capacità di sfruttare le risorse della montagna, che di fatto è serbatoio della green economy e della nuova economia del Paese, stabilendo qual è la nuova governance dei beni della collettività. Aria, acqua, suolo non possono però essere gestiti con logiche finanziarie vecchie, le stesse che hanno prodotto la crisi di oggi. I beni comuni della montagna sono oggi i pilastri della nuova vita associata e la loro gestione intelligente può impedire il collasso sociale. Dobbiamo passare dall'assistenzialismo allo sviluppo sostenibile e porre i beni Comuni montani come pilastro del nostro futuro. In montagna ci sono le risorse dell’ambiente, l’energia; la montagna può diventare il motore della nuova economia del Paese. Ma bisogna porre fine all’appropriazione individualista delle risorse che ci ha portato alla crisi economica”. Tra le prime Regioni che hanno mosso i primi passi per la costituzione delle “Unioni di Comuni montani” c'è il Veneto (come si vedrà, più approfonditamente, nella seconda parte di questo lavoro): la Commissione Affari Istituzionali ha approvato in data 7 agosto il progetto di legge n. 289 (“Norme in materia di Unioni montane”) che prevede, appunto, la trasformazione delle Comunità montane in Unioni montane. In particolare, all'art. 2 l'Unione montana è definita come “l'Unione di Comuni costituita in territorio montano” e all'art. 6 si prevede l'abrogazione delle disposizioni relative alle Comunità montane. Peraltro, si segnala un'interessante, quanto stravagante, idea, alternativa alla creazione della “Unione di Comuni”: si veda M. BUSATTA, Il “piano B”: una Provincia montana?, in www.mauriziobusatta.it, 08 agosto 2012, ove si propone, in particolare per il Veneto, la creazione di una “Provincia montana veneta”, considerando che vi sono tutti i requisiti demografici e territoriali. Osserva lo scrittore e giornalista come “per i territori montani veneti è possibile avviare soluzioni organizzative e amministrative nuove e differenziate. L’attuale provincia di Belluno, il Cansiglio, il Grappa, l’Altopiano dei Sette Comuni, le Piccole Dolomiti vicentine, la veronese Lessinia con il Baldo formano un territorio molto più omogeneo di qualsiasi proposta di ʻaccorpamentoʼ di tipo burocratico che si possa delineare in Regione: c’è una popolazione di più di 400 mila abitanti e una superficie di oltre 5.000 kmq”. Peraltro, a favore di una “Provincia montana” si è espresso anche il Presidente della Provincia
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di Belluno, Reolon, secondo il quale “i fondi e le leggi speciali per la montagna sono strumenti superati, da buttare. Bisogna invece dare alla montagna autonomia finanziaria, politica e amministrativa, istituendo Province montane che abbiano autonomia di governo e di spesa ed esonerando la montagna dal contribuire alla spesa di Stato e Regione”. Dunque, “la montagna non ha bisogno di elemosina. Serve invece che i centri decisionali siano trasferiti completamente in montagna e non rimangano più a livello regionale: le competenze per governare i territori di montagna, dunque, devono essere trasferite a enti di montagna, che abbiano una visione vasta e siano riconosciuti dalla Costituzione italiana”. Inoltre, secondo Reolon, non è sufficiente l'istituzione delle “Province montane” per tutelare tali territori: occorre un “federalismo fiscale differenziato, che riconosca che in montagna c'è meno densità abitativa e quindi ci sono meno risorse”, pertanto, la montagna deve essere “esonerata dal partecipare alle spese generali di Stato e Regioni, altrimenti non ha più risorse per gestire il territorio e incentivarne lo sviluppo” (cfr. Montagna veneta - Reolon: “Istituiamo le Province montane con autonomia di governo e di spesa”, in www.partitodemocratico.it, 28 agosto 2008).
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PARTE SECONDA
UN CASO PARTICOLARE: LA COMUNITÁ MONTANA “SPETTABILE REGGENZA DEI SETTE COMUNI”
CAPITOLO I
LA COMUNITÁ MONTANA “SPETTABILE REGGENZA DEI SETTE
COMUNI”:
BREVI
CENNI
STORICI
E
ORGANIZZAZIONE ISTITUZIONALE*.
1.1 La “Reggenza dei Sette Comuni”: origini e organizzazione istituzionale della piccola “Repubblica nella Repubblica veneta”.
Nel presente Capitolo si vuole, brevemente, ripercorrere la storia e le origini della Comunità montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, che interessa il territorio dell'Altopiano di Asiago, nella Provincia di Vicenza1. Ciò che la caratterizza rispetto ad altre realtà è il fatto che essa, almeno idealmente, costituisce la rievocazione di un'istituzione di ben più antica memoria: la “Reggenza dei Sette Comuni”, istituita, presumibilmente, nel 1310 e venuta meno nel periodo napoleonico, precisamente, nel 18072. Si trattava di una “piccola Nazione (…) *
Si ringrazia per il prezioso contributo, l'appassionato storico e già Presidente della Comunità Montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, Giancarlo Bortoli. 1
Come osservato da G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni: il caso del Colonnello di Pedescala, Campodarsego, 2005, 13, si tratta di “un vastissimo Altopiano, costiuito da circa 460 chilometri quadrati (quasi un quarto della Provincia di Vicenza; sette volte più esteso dello Stato di San Marino) di alte cime e colline pedemontane, boschi, pascoli, prati, frutteti, vigne e coltivazioni”. 2 L'incertezza intorno a questa data è dovuta al fatto che non è mai stato rinvenuto l'atto costitutivo della Reggenza. Una serie di circostanze fanno propendere per il 1310, ma in merito non vi è alcuna sicurezza. In tal senso si veda G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, in AA.VV., Rievocazione storica su Foza: Atti del convegno, a cura di Parrocchia, Comune e Pro Loco di Foza, Asiago, 2000, 212, ove si osserva che “sta di fatto, comunque, che i ʻSette Comuniʼ vengono così chiamati già in epoca scaligera”; il documento più antico che è stato ritrovato “ove si trovano definiti con
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amministrata in piena democrazia, dotata di una propria politica estera, di rappresentanti diplomatici e di un proprio esercito”, peraltro con confini molto più estesi di quelli che attualmente comprendono il territorio altopianese, dal momento che ne facevano parte, oltre che gli attuali Comuni (Rotzo, Roana, Asiago, Gallio, Foza, Enego, Conco e Lusiana), anche le c.d. “contrade annesse”, vale a dire “territori immediatamente confinanti e alle pendici dell'Altopiano”3. questo nome è del 6 maggio 1340” e “si tratta di un lodo arbitrale relativo a questioni confinarie”, il quale “rinvia ad altro inerente la stessa materia confinaria, del 1262 (purtroppo sinora introvabile)”. L'Autore precisa, poi, che “il termine ʻReggenzaʼ non è molto antico. Le carte meno recenti riferiscono semmai delle ʻriduzioniʼ, le riunioni dei rappresentanti dei Sette Comuni, onde il governo comune dell'Altopiano potrebbe anche definirsi ʻRiduzione dei Sette Comuniʼ”. In proposito si veda anche A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, Roana, 2000, 98, ove si osserva che “non è certo se fosse esistita una sorta di Magna Carta sulla Reggenza. Lo Schmeller nelle sue ricerche (del 1833) trovò nel palazzo della Reggenza un armadio con la seguente iscrizione: ʻHia saint de Brife von Siben Kameunʼ (qui sono le carte dei Sette Comuni). Ma non trovò nulla di importante se non carte processuali, resoconti”. Va ricordato, inoltre, che già nel 1260 (subito dopo la dominazione degli Ezzelini, che durò dal 1236 al 1259) era sorta la “Lega dei Sette Comuni” o “Lega delle Sette Terre Sorelle”. Le contrade si erano unite in Comuni e questi ultimi in Federazione, venendosi a creare un nuovo “modus gubernandi” tra gli altopianesi e il signore pro tempore di Vicenza: i primi, consci che la loro piccola patria forse era economicamente non appetibile ma certo strategicamente importante e sicuri di non poter da soli competere con il potente vicino, offrivano la loro fedeltà e la guardia delle naturali porte della pianura vicentina in cambio di autonomia amministrativa, la più ampia possibile, e di facilitazioni in campo economico e commerciale”. È proprio dalla consolidazione di questo rapporto federativo che nasce la Reggenza (cfr. AA.VV., L'altopiano di Asiago: i Sette Comuni, a cura di Lions Club Asiago 7 Comuni, Asiago, 1977, 20,). 3 Cfr. G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 69 ss. Occorrono delle precisazioni: innanzitutto, quanto al Comune di Conco, esso all'epoca non costituiva Comune autonomo ma una “contrada annessa”; in secondo luogo, per quanto riguarda il sussistente regime di “democrazia diretta”, si deve rammentare che quella delegata era utilizzata solo per gli atti di ordinaria aministrazione; in terzo luogo e con riferimento all'esercito, va ricordata la legge “per la Disciplina e la buona Direzione delle Milizie dei Sette Comuni, di Tonezza e Laste Basse”, del 3 aprile 1623: si tratta di una legge-quadro, formata da undici Capitoli e redatta da Francesco Malipiero, su incarico della Serenissima, il cui testo è rinvenibile in A. DAL POZZO, Memorie istoriche dei Sette Comuni Vicentini, a cura di G. Bortoli, Asiago, 1993, Libro II e III, 533 ss. Così si esprime Malipiero, come si può evincere dalle prime righe del testo: “avendo per Commissione già ricevuta dall'Eccellentissimo Senato in Lettere Ducali de dì 16 dicembre prossimo passato a stabilire nuovi ordini, e dar regole necessarie per la conservazione e la disciplina della Nova Milizia influita nelle Montagne de' Sette Comuni, e di Toneza, e Laste Basse per la difesa delle ragioni Pubbliche, et delle Persone, e sostanze di quei Fedelissimi Sudditi, affinchè sia levata ogni confusione e disordine sappiano così li Sargenti, et altri Officiali qual sia il loro Carico, come li Soldati ciò che abbino da operare per riuscire di attitudine, et intelligenza conveniente al Publico servizio, et al proprio loro benefizio; perciò con l'Autorità delle suddette Lettere inferitaci abbiamo formato li
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Se non sussiste documentazione circa la sua istituzione, risulta, invece, ben documentata qual era la sua organizzazione istituzionale: fondamentale in tal senso è il contributo dell'Abate M. Bonato che, nella sua opera “Storia dei Sette Comuni e contrade annesse: dalla loro origine sino alla caduta della veneta Repubblica” (Padova, 1863), paragona la Reggenza alla Svizzera, notandone le evidenti analogie: se nella prima vi erano i Comuni, nella seconda vi erano i Cantoni; se nella prima vi erano i Cancellieri, nella seconda vi erano i Borgomastri, che svolgevano, essenzialmente, le medesime funzioni4. seguenti Ordini, commettendone l'intiera osservazione, & esecuzione”. In quarto luogo, quanto alle c.d. “contrade annesse”, si riportano gli esempi di Crosara, Laverda e S. Luca, che oggi sono compresi nel Comune di Marostica, o di Pedescala, che oggi fa parte del Comune di Valdastico; per quanto riguarda , invece, la politica estera, si osserva, nel testo citato, come “l'obiettivo costante” fosse quello del “raggiungimento di patti federativi con la potestà dominante, che consentissero di salvaguardare l'economia del territorio, garanzia di sopravvivenza, e le relative forme di autogoverno. Ciò in cambio di una permanenza politico-militare dei Sette Comuni in ambito Veneto”. Infatti, le montagne altopianesi costituivano “una frontiera naturale che fungeva da barriera contro le invasioni provenienti dal Nord. Chi conquistava l'Altopiano, conquistava facilmente tutto il Veneto”. Infine, in quinto e ultimo luogo, quanto alla definizione di “Reggenza”, è stato osservato come “la più significativa e semplice” è quella data dallo studioso Giulio Rizzoli, il quale afferma che “in succinto, i Sette Comuni erano una specie di Repubblica nella Repubblica Veneta” (cfr. G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni, cit., 14. L'Autore cita, in proposito, G. RIZZOLI, Popolazioni e Costituzioni di Valsugana, Primiero, Fiemme, Fassa, Cadore – Ampezzo e i Sette Comuni Vicentini, Feltre, 1906, 80). Per comprendere quale fosse lo “spirito” alla base della sua istituzione, significativo è il suo stemma, “costituito da Sette teste: sette individualità tra loro alleate per il bene comune, cioè la difesa dei loro diritti dalle soperchierie dei forti. Nessuna di esse poteva sovrastare le altre”, come pure il suo “motto”, (che continua ad essere anche quello della Comunità montana dei Sette Comuni: “Sleghe un Lusaan, Genebe un Vuesche, Ghel, Rotz, Robaan, Dise saint siben Alte Komeun, Prudere liben”, vale a dire, “Asiago e Lusiana, Enego e Foza, Gallio, Rotzo, Roana, questi sono i sette antichi Comuni, fratelli cari” (cfr. G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni, cit., 13 e 217). 4 Cfr. AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse: dalla loro origine sino alla caduta della veneta Repubblica, Padova, 1863, Tomo IV, 66, ove si dice “essi Cantoni e noi Comuni, essi Dieta e noi Reggenza, essi a direttore un Borgomastro, e noi un Cancelliere. Del resto l'organamento è il medesimo, medesimo il fine, a cui si mira, cioè una distinta provvidenza per ciascuna delle Parti, ed un'autorità collettiva e superiore, che preservi od adempia la prosperità dell'insieme”. Peraltro, non si tratta di un'opinione isolata: come osservato in G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni, cit., 14, “l'illustre letterato che lo precedette, l'Abate Giovanni Costa (1737 – 1816), sostenne anzi la tesi dell'origine tigurina (svizzera) del nostro popolo” (in proposito, l'Autore rimanda a Disquisito Johannis Costae, Accademiae Patavinae socii, de Cimbrica origine populorum Vicentinas, Veronenses, Tridentinas ac Saurias
145
Organo fondamentale di autogoverno era rappresentato dalla “Vicinìa”, vale a dire l'assemblea dei capifamiglia5, che si riuniva nel “colonnello”,
la
“unità
territoriale
di
base”,
formata
dal
“raggruppamento delle case vicine”6. La “Vicinìa” si radunava ogni anno per l'elezione delle Cariche del Comune, rappresentate dal Governo (Governatori e Sindaci), i Deputati alle Grascie, tre Computisti o Ragionieri, l'Esattore, il Decano e due Agenti alla Banca dei Sette Comuni7. Ne risultava un'organizzazione di quattordici alpes incolentium, in Atti dell'Accademia Patavina, Tomo III, 5 febbraio 1789) e, analogamente, Domenico Sartori intitolò “Storia della Federazione dei Sette Comuni Vicentini” il suo studio sulla storia dell'Altopiano. 5 In particolare, formavano le “Vicinìe” solo i Capifamiglia “abilitati dall'età di almeno 20 anni, e dal pagare le Fazioni reali e personali” (cfr. AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse, cit., 57). Una chiara definizione delle stesse si ritrova in G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni, cit., 99, che riporta, in proposito le parole dello storico Sella (che si possono ritrovare in P. SELLA, La vicinia come elemento costitutivo del Comune, Milano, 1908), che le descrive come “associazioni o consorzi di famiglie originarie del luogo, che, in tempo antichissimo, si riunirono per godere dei beni comuni, per provvedere alla mutua difesa, per continuare in qualche modo i primitivi ordinamenti della società derivati da cause materiali senza importanza politica, come quelli del mantenimento di strade, acque, ponti, del regolamento di fondi, pascoli e boschi comuni e molto spesso del mantenimento della chiesa vicinale”. Osserva, inoltre, Bortoli come “per secoli la Vicinìa non è intesa come una persona giuridica ed appare perciò non come un ente astratto ma come la somma dei vicini stessi”. 6 Cfr. G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 73. I “colonnelli” costituivano, in sostanza, le odierne “frazioni”. Etimologicamente, il termine deriva da “columna, colonna”, intesa come “linea, discendenza, ramo di una casata e dunque vicinanza dovuta a parentela” e come “gruppo di famiglie” o “borgata”. Dunque, si può concludere nel senso che “il Colonnello è un gruppo di famiglie tra loro vicine, rappresentate dai capifamiglia o capi di casa, che si governano con la Vicinìa, cioè l'assemblea dei capi di casa” (cfr. G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni, cit., 101 ss). 7 In AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse, cit., 58 ss, si provvede a illustrare le funzioni fondamentali di questi organi. In particolare, il Governo, presiduto da un “Notajo”, “deve amministrare le rendite del Comune, vegliare sull'osservanza delle leggi, sulla pubblica e privata sicurezza”, i Deputati alle Grascie devono provvedere alla “ispezione sui pesi, le misure e le vittuarie del Comune”, i Computisti, assieme al Notajo, “fanno i conti a tutte le Cariche del Comune, sindacando il maneggio dei denari e fornendo all'Esattore la tabella delle Colte”, l'Esattore “riscuote indistintamente le entrate del Comune”, i Decani “sono i Bidelli o, se piace, le Guardie del Governo e di tutte le altre Cariche”, infine, gli Agenti alla Banca “rappresentano invece il loro Comune e formano parte del Governo generale di tutto il circondario, che risiede in Asiago”. In particolare, quanto alle adunanze di questi ultimi, esse prendono il nome di “Riduzioni” o “Congressi”, in modo da differenziarle dalle Vicinìe, ed è proprio la “Riduzione” che costituisce “il Governo Generale, detto la Spettabile Reggenza de' Sette Comuni”. Per una descrizione più recente dell'organizzazione istituzionale della Reggenza, si veda R. STOPPATO BADOER, Autonomia e Privilegi della Spettabile Reggenza dei Sette Comuni nella
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Rappresentanti, le cui “Riduzioni”, vale a dire assemblee, si tenevano esclusivamente ad Asiago, “capoluogo della montagna”, dove costantemente dimorava “un Ministro di lei col titolo di Cancelliere”, per le cui mani passava “tutto il carteggio della Reggenza”8. La Reggenza presiedeva alla “difesa dei Diritti della Nazione e delle consuetudini inerenti a tutto il Circondario” e ciò la poneva “al di fuori in politiche relazioni con le Venete Magistrature, e, se occorre, co' Principi esterni”. Inoltre, sempre quanto alle competenze, essa si occupava anche della “sanità, la custodia dei passi, le perlustrazioni, la sorveglianza sui boschi”9. Ecco, dunque, per usare le parole del Bonato, “il sistema di governo che guida i nostri popoli senza gravitare sull'Erario, e senza mancare ai doveri d'inviolabile sudditanza verso la veneta Repubblica”, il quale aggiunge che “il Paese se ne compiace: ed a ragione, perchè la volontà del Governo è quella del popolo, e l'interesse del popolo è quello del Governo”10. Veneta Serenissima Repubblica, Padova, 2004, 73 ss. 8 Cfr. AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse, cit., 60. 9 Cfr. AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse, cit., 63. 10 AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e delle contrade annesse, cit., 64. Va ricordato che i Sette Comuni avevano chiesto di far parte della Repubblica Veneta sin dal 1405, al fine di garantirsi autonomia e libertà. Ne derivò un “patto di dedizione”, datato 20 febbraio 1405 (secondo il calendario attuale; in base al calendario allora in vigore lo si dovrebbe datare 20 febbraio 1404), in virtù del quale i Sette Comuni promisero il pagamento di un tributo annuo e la difesa dei confini e Venezia confermò gli antichi privilegi (quelli ottenuti prima dagli Scaligeri e poi dai Visconti, che dominarono i Sette Comuni, rispettivamente, dal 1311 al 1386 e dal 1387 al 1402) e promise la sua protezione (cfr. G. BORTOLI, Spirito cooperativo e fratellanza regoliera nei Sette Comuni, cit., 132). Per comprendere il significato di tale patto, significativo è il parallelo odierno tracciato da A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 59, che lo accosta ad un “ʻrapporto di protettorato internazionaleʼ, in quanto uno Stato, prima indipendente, per difendersi si pone sotto la protezione di un altro Stato mediante un trattato, limita la propria libertà internazionale a favore dello Stato protettore in cambio di una garanzia di sicurezza”. Dunque, come osservato dall'Autore, a seguito del patto, “politicamente Vicenza e la Reggenza erano sullo stesso piano, ma soprattutto la sicurezza che infondeva l'alto dominio della Serenissima favorì un forte sviluppo economico con un considerevole incremento demografico” (in senso analogo si veda A.D.
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1.2. Gli “Ordini di Bragadin intorno al buon governo dei Sette Comuni” del 1642: atto costitutivo della “Reggenza” o semplice legge-quadro?
Come si può facilmente comprendere, la sussistenza di Sette Comuni comportava la presenza di, ovviamente, sette Statuti, che, attorno al 1500, si presentavano molto eterogenei e fonti di abusi. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, Vicenza, 1956, 104, ove si osserva che i vantaggi derivanti dalla dedizione a Venezia furono, oltre che politici, anche e soprattutto economici: vi fu un rapido sviluppo demografico, incrementarono gli scambi commerciali, sorsero piccole industrie e si sviluppò notevolmente il settore dell'allevamento delle pecore, favorito dall'estensione a tutto il Veneto del “pensionatico”, il diritto al pascolo invernale). Quanto alla possibilità di accostare la Reggenza ad un istituto del diritto moderno, un orientamento parzialmente diverso è stato espresso da R. STOPPATO BADOER, Autonomia e Privilegi della Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, cit., 41 ss., secondo il quale “se si volesse catalogare, seguendo le concezioni moderne dei rapporti tra Stati, il rapporto creatosi con il Patto di dedizione (…) ci si troverebbe in grande imbarazzo”, in quanto “sarebbe necessaria una premessa storico-giuridica di carattere generale sullo stesso concetto di indipendenza e sovranità, che nel mondo medievale erano concepite in maniera completamente diversa da come sono intese ora”. Quindi, appare all'Autore “del tutto improprio, o perlomeno molto approssimativo, applicare distinzioni e concetti moderni a fenomeni politici di un così lontano passato”. Tuttavia, anche questo Autore è d'accordo nel ritenere che la figura che maggiormente si accosta a quella della Reggenza è il rapporto di “Protettorato”, dal momento che non vi erano tutti gli elementi necessari per parlare di una vera e propria “Federazione”. Certo è che, in ogni caso, i patti di dedizione “non fecero affatto venir meno l'autonomia delle comunità locali né scalfirono il suo tradizionale contenuto”. “Non si trattò di un atto di sottomissione” e “la sostituzione della Repubblica di Venezia alle vecchie signorie della terraferma non comportò affatto l'imposizione di un governo accentrato e di una legislazione uniformizzante”, almeno per quanto riguarda i territori di montagna. Inoltre, “carattere tipico, o, se si vuole, peculiare, della Repubblica fu altresì la conservazione degli antichi privilegi: come puntualmente avvenne per l'Altopiano dei Sette Comuni” (cfr. M. RINALDI, Le proprietà collettive nella montagna del Veneto, in Il Diritto della Regione, luglio 2011). Per quanto riguarda i privilegi, essi rappresentano quei “diplomi che riconoscevano l'autonomia e l'indipendenza politica dei Sette Comuni” (cfr. A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 43) ed erano sia di natura economica che militare e politica. Ad esempio, col privilegio del 30 novembre 1417, viene concessa l'esenzione dal dazio del sale, molto consumato in Altopiano, data l'importanza della pastorizia nell'economia altopianese; con quello del 29 dicembre 1501, i Sette Comuni vengono esentati dal “campanatico, vale a dire la tassa pari a cinque soldi per ogni campo coltivato; con quello del 21 marzo 1571 viene sancita l'esenzione dal “dazio macina”, che pendeva sulla “trasformazione delle granaglie in farina”; col privilegio del 26 luglio 1522, invece, viene prevista l'esenzione dalla “Generale Contribuzione di Uomini”, dal momento che i Sette Comuni erano già tenuti alla difesa dei confini; infine, può essere ricordato il privilegio del 6 aprile 1487 che “annullava la Sentenza del Capitano di Marostica che aveva assoggettato i Sette Comuni ʻalle spese dell'escavazione di quella Fortezzaʼ” (cfr. A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 63 ss).
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Tanto che, da parte della Repubblica di Venezia, venne manifestata l'esigenza di mettere ordine, provvedendo all'emanazione di una sorta di legge-quadro. L'incarico venne conferito ad Alvise Bragadin, il quale, nel 1642, provvede con i suoi “Ordini”, tenendo in considerazione anche gli usi e consuetudini della popolazione altopianese11. La c.d. “Legge bragadina” constava di 25 capitoli ed era intitolata “Ordini di Bragadin intorno al buon governo dei Sette Comuni”, ma ciò non dove trarre in inganno: infatti, essa non riguardava il “ʻbuon governo dei Sette Comuniʼ intesi come corpo unico (la Reggenza), bensì presi singolarmente”. Essa, dettava “norme generali” entro le quali dovevano restare i singoli Comuni, “improntando i rispettivi Statuti e comportamenti comunali al rispetto di tal quadro di regole”12. Si tratta di una precisazione di non poco conto, in quanto porta ad escludere che la medesima rappresentasse l'atto costitutivo della “Reggenza”, come si può essere portati a credere dal titolo della
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Si deve ricordare che la scrittura, all'epoca, era piuttosto desueta. Il popolo, per le più varie questioni, si affidava più alla parola che allo scritto. Solo a partire dal 1500 si cominciano a trovare dei documenti scritti, come, ad esempio, i verbali delle assemblee dei capifamiglia. Va precisato, inoltre, che la disorganicità delle norme statutarie interessava non solo l'Altopiano ma anche le altre zone della Repubblica di Venezia, ove si provvide con i c.d. Ordini Malipieri e Loredani (cfr. in proposito G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 182). Con riferimento a quest'ultimo punto si veda anche AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse, cit., 52, ove l'Autore osserva come, in tutti i “Comuni del Territorio Vicentino”, le “invalse corruttele ne' loro reggimenti per malizia dei furbi o per braveria degli audaci avevano necessitato nel 1622 il Capitano di Vicenza Francesco Malipiero a salvare gli interessi del popolo con una mano di ordini e discipline severissime dette in onore di lui Ordini Malipieri. Se non che più tardi, sentitosi il bisogno di cassarne alcuni d'inamissibile applicazione, è di altri mitigarne o piegarne alle insorte occorrenze, il Capitano Girolamo Loredan ne imprese la riforma; per la quale nel 1640 ricomparvero sotto il nome di Ordini Loredani”. 12 Cfr. G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 200.
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stessa13. A riprova di ciò, si può osservare che anche l'art. 22, l'unico riguardante la Reggenza14, aveva per destinatari i singoli Comuni e, d'altro canto, non poteva essere altrimenti, in quanto Bragadin “non ne avrebbe avuto l'autorità, intaccandosi la convenzione tra il corpo dei Sette Comuni, preso nel suo insieme e non per singolo Comune, e l'autorità diretta del Doge (non già di un Suo emissario, il Capitanio)”. Inoltre, ciò è confermato, altresì, dalle parole dello stesso Ab. M. Bonato, secondo il quale “sbaglierebbe chi si pensasse doversi dire il Bragadin l'unico iniziatore ed autore di un Governo, delle cui originali spezialità i Sette Comuni menano sì gran vanto: quasiché ogni merito e pregio esclusivamente si acchiudesse nelle serie di que' Capitoli”, in quanto “né il Senato proponeasi, né si arrogava il Bragadin di creare tra noi mediante quegli Ordini un nuovo Governo; ma invece di avviare a buon termine quello, che c'era, di data antichissima, togliendone però (…) i deplorabili abusi, che a quel tempo ne inceppavano l'azione, o ne sciupavano le rendite”. Egli prosegue sostenendo che “i Capitoli Bragadin ora non sono che le stesse 13
E com'è affermato anche nella “Sentenza Terracina” del 1967, ove il Commissario Terracina afferma che “la Reggenza dei Sette Comuni venne istituita nel 1642 …”. In proposito si veda G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 193 ss. 14 Esso così recitava: “Occorrendo farsi la Redutione dei Sette Communi in Asiago, debba da Nodaro deputato, o da chi s'aspetta, otto giorni avanti la Redutione esser avisato con Lettere cadaun Commune, con espressione di quello che doverà trattar e deliberar, e gl'elletti ad essa Redutione non possano portarsi al congresso di quella, se prima non haveranno il tutto conferito e discorso con li Governatori del Commune loro, per haver il sentimento dei medesimi e secondo quello poner il suo volere” (il testo dell'intera Legge bragadina è rinvenibile in A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 99 ss). In sostanza, come precisato in G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 99, “esso fissava le modalità per la creazione del Governo della Reggenza, prevedendo che “dovendosi fare le adunanze dei Sette Comuni (Reggenza) in Asiago, il Notaio incaricato (Cancelliere) dovrà avvisare ciascun Comune otto giorni prima, con lettera contenente l'ordine del giorno. I rappresentanti di ciascun Comune, all'uopo eletti non potranno ʻportarsi al congressoʼ se prima non avranno discusso gli argomenti da deliberare coi Governatori del proprio Comune”.
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ordinazioni de' nostri Statuti citate in parte od in tutto, secondo si addiceva all'uopo della materia, ed ora sono schiarimenti o discipline introdotte da lui sotto forma imperatoria a fine di spurgarne od avvalorarne la pratica mediante la sanzione di pene pecuniarie od afflittive contro i trasgressori”15. Gli “Ordini”, dunque, possono essere assimilati, come detto, ad una legge-quadro, quale la legge n. 142 del 1990, che fissa i principi fondamentali cui devono attenersi i Comuni nell'emanazione dei loro Statuti16, e il loro scopo, secondo il senato Veneto, era di “risolvere dal di fuori i problemi che non trovavano soluzione per vie interne istituzionali”17, sancendo disposizioni che dovevano essere osservate nelle Vicinìe, nelle riduzioni, nell'uso dei boschi e dei pascoli, ecc. Inoltre, la medesima doveva anche regolare la questione della proprietà collettiva per gli antichi abitatori e per i semplici residenti: infatti questi ultimi, pur facendo parte della comunità, non erano contitolari di proprietà collettiva18.
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Cfr. AB. M. BONATO, Storia dei Sette Comuni e contrade annesse, cit., 49 ss. Cfr. G. BORTOLI, Proprietà della gente del posto, cit., 183. 17 Cfr. A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 98. 18 In particolare, ai sensi dell'art. 24, “dopo 15 anni di abitazione ʻcontinuaʼ e conservando la pienezza dei diritti civili e penali, il ʻforestoʼ acquisiva lo status di ʻincolatoʼ o ʻterrieroʼ”: si tratta di una disposizione che comportò non poche difficoltà, tanto che intervenne una “terminazione” dei “Sindici Inquisitori di Terra Ferma”, con la quale si fissò in 50 anni di permanenza il limite per l'acquisto del “beneficio dell'originalità” da parte dei “foresti”. Tale statuizione non venne, tuttavia, accettata di buon grado dalla Reggenza, che fece intervenire, in proposito, il Maggior Consiglio, più importante organo della Serenissima: ne scaturì un nuovo intervento normativo, del 29 settembre 1754, ai sensi del quale “il foresto dopo il corso di 15 anni di abitazione continua nel Comune doveva essere trattato come ʻterrieroʼ, ma non acquistava più la comproprietà dei beni comuni se non col voto del colonnello con il quale doveva accordarsi”, pagando un'apposita tassa. Di conseguenza “si trattava non di un acquisto tout court di una quota divisibile del territorio, ma dell'acquisto della partecipazione dei frutti di un patrimonio di cui gode la comunità stabile di un certo territorio” (in proposito, A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 106). 16
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1.3 La caduta di Venezia e il dominio napoleonico: la fine di cinque secoli di storia. Il declino della Reggenza ha inizio con la caduta di Venezia del 1797 e l'invasione napoleonica. I rappresentanti dei Sette Comuni vennero convocati a Vicenza l'8 luglio 1797, al fine di essere interrogati circa l'intenzione di riconoscere ufficialmente o meno il nuovo governo. L'unica soluzione possibile apparve quella di “accettare il fatto compiuto, per non condannarsi al suicidio” e, conseguentemente, vennero eletti due plenipotenziari che avrebbero avuto la facoltà di sottoscrivere una “dichiarazione di sudditanza, salvi gli aviti privilegi e purchè fossero rispettate le chiese e autorizzata la Milizia”19. Poco dopo, il Governo centrale invitò gli abitanti dei Sette Comuni a nominare i magistrati o governatori che avrebbero formato il nuovo governo federale, che non si sarebbe più chiamato Reggenza ma “Municipalità” e, il 22 luglio, venne redatta una “Convenzione”, che riconobbe l'indipendenza politica dei Sette Comuni da Vicenza, “indice dell'alto concetto in cui erano tenuti i Sette Comuni da Napoleone stesso, il quale volle fosse fondamentalmente rispettata la loro autonomia e particolare struttura politica”20. 19
Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 253. Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 254. In quest'ultima opera si riporta anche il testo completo della Convenzione: particolarmente significativo per la comprensione della portata dell'intervento è il quarto capitolo della stessa, ai sensi del quale “l'odierna innovazione non produrrà mai l'effetto di qualsiasi benchè minimo cambiamento all'antico e inveterato sistema di Governo proprio dei Sette Comuni e Contrade, il quale resterà quale fu sempre”. Sull'argomento si veda anche A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 79. 20
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La Convenzione non venne salutata con favore dai conservatori, che non gradirono “l'asserita dipendenza dei Sette Comuni dal governo di Vicenza in materia criminale e l'obbligo di corrispondere alla stessa l'annuo tributo che prima si pagava a Venezia”. Tuttavia, ciò che, invece, venne apprezzato da tutti fu la “facoltà di eleggere nell'ambito della Federazione i cosiddetti giudici di pace per le cause civili, mentre prima si doveva ricorrere o a Marostica o a Vicenza”21. Quanto alla struttura del nuovo “Governo della Municipalità”, esso era composto da sette membri, che restavano in carica tre mesi, senza possibilità di rielezione, se non trascorso un biennio, ed era suddiviso in quattro Sezioni (Amministrazione pubblica, Sicurezza, Annonaria e Sanità), ciascuna con un proprio Presidente e Vicepresidente22. La tirannide francese, tuttavia, non tardò a palesarsi, dando inizio ad un periodo molto difficile per la popolazione altopianese, sottoposta a gravose requisizioni di bestiame e ad un nuovo contributo, denominato “Prestito secco”, che andava ad aggravare una situazione economica non certo florida, dal momento che un'anomala 21
Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 257. I capitoli che prevedono queste novità sono il decimo (“Quanto poi alle materie tutte criminali, i popoli dei Sette Comuni e Contrade saranno immediatamente soggetti ai Tribunali di questa Città; salvo sempre ed espressamente riservato che nel Circondario dei Sette Comuni e Contrade non si possano mai introdurre, né far introdurre o mandare né soldati, né polizia”), il ventesimo (“Attesochè i Sette Comuni e Contrade contribuivano annualmente una data somma di denaro al fu veneto Governo per limitazioni di dazii, per sussidii ed altro (…) d'ora innanzi quella somma sarà sborsata nelle mani del Governo di Vicenza; il quale però non potrà mai chieder conto o pagamento dei residui, se ve ne fossero, anteriori a tutto l'anno 1796”) e il nono (“La Reggenza dei Sette Comuni e Contrade, in quanto mai lo reputasse utile al bene generale della popolazione, potrà devenire alla elezione di uno o più Giudici civili di prima istanza nel suo Circondario”). 22 In proposito si veda A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 258. Osserva l'Autore come “questa organizzazione interna dimostra chiaramente a quale alto grado era pervenuta questa nazione singolare, così piccola e povera di risorse materiali, ma che poteva contare su individui di non comune capacità e maturità politica”.
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siccità aveva distrutto pascoli e raccolti e che la peste aveva decimato i capi ovini e bovini. Nonostante tutto, comunque, “il Governo federale continuò a funzionare abbastanza regolarmente” e “anche la giustizia continuò a essere amministrata in modo soddisfacente”23. Il “Trattato di Campoformido” (17 ottobre 1797) segnò l'avvento del dominio austriaco, “salutato dagli abitanti dei Sette Comuni con viva soddisfazione”, “come se fosse avvenuta una liberazione”. Infatti, esso prometteva importanti garanzie, come la tutela della pace, la promozione del benessere economico e il rispetto dell'antica Costituzione federale dei Sette Comuni, tanto che essi continuarono a governarsi “come s'erano governati fino alla venuta dei Francesi, con la loro bianca bandiera fregiata dello scudo con sette teste, simbolo della loro autonomia, e con la loro particolare Milizia”24. In questo periodo, i rapporti politici con l'Austria vennero trattati da due plenipotenziari, mentre per l'amministrazione della giustizia occorreva recarsi presso il tribunale di Bassano. Tuttavia, nel corso del 1805 la situazione internazionale si infervorò: Inghilterra, Austria, Russia e Prussia si allearono contro il nemico francese e l'Austria meditò (ma non concretizzò) di sfruttare la Milizia dei Sette Comuni, che venne implementata fino a 2150 uomini25. I francesi riuscirono a salire in Altopiano e, il 01 gennaio 1806, i 23
Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 260 ss. Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 265. Osserva l'Autore come ciò fosse espressione della “tattica di annettere le nazioni senza irritarle”, e dell'intento di “dimostrarsi magnanima verso una regione piccola ma strategicamente importante e a lei già nota per l'indomita fierezza dei suoi abitanti”. 25 Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 266. 24
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Sette Comuni vennero annessi al Regno d'Italia, con il progressivo sgretolamento delle loro autonomie26, fino al 29 giugno 1807, quando, con un proclama del regio prefetto Pio Magenta, venne messa la parola fine a quasi cinque secoli di storia, dichiarando abolita la Reggenza27. Con la soppressione del Governo federale, i “Beni della Reggenza” vennero sottratti dall'amministrazione dei Comuni e avocati allo Stato. Successivamente, con il nuovo dominio austriaco del 1815, essi vennero loro restituiti ma amministrati da un “commissario distrettuale” del Regno Lombardo Veneto, che provvide in modo piuttosto disinteressato, e vennero denominati “Beni del Consorzio dei Sette Comuni”28. Tale “Consorzio” era composto da sette deputati e un segretario, con poteri di rappresentanza e, sostanzialmente, si sostituiva alla, ormai sciolta, Reggenza. Esso permanne fino al 28 dicembre 1925, quando, con l'atto notarile n. 12194, venne sciolto e gli antichi beni della Reggenza attribuiti ai singoli Comuni a titolo di “piena proprietà 26
Cfr. A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 268. Precisa l'Autore come, dopo l'annessione, il Governo della Reggenza restò in vita per più di un anno ma “la sua autonomia si ridusse, però, un po' alla volta, a una larva: furono progressivamente introdotte le Guardie di Finanza, istituiti i dazi, resa obbligatoria la coscrizione militare”. 27 In proposito si veda A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 81. In particolare, il regio prefetto dichiara, in nome di Napoleone I, Re d'Italia, “abolito il Governo Federale, ossia la Reggenza, e incorporato a tutti gli effetti nel Regno d'Italia il territorio dei Sette Comuni e Contrade”. Sull'argomento si veda anche A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 268, ove si osserva che “cessava così di vivere, dopo cinque secoli di vita, la più piccola delle Federazioni politiche d'Europa e nello stesso tempo la più antica dopo quella svizzera”. Precisa, poi, l'Autore che “Asiago divenne il IV distretto del Dipartimento del Bacchiglione e sede di viceprefettura”. 28 Si veda, in proposito, A.D. SARTORI, Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 269.
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dominicale”,
passandosi,
perciò,
alla
diretta
amministrazione
comunale29. Quindi, nel 1926, “con profondo dolore di chiunque ama la propria terra, i Comuni si accordarono in una spartizione che ridusse a brandelli quel patrimonio che gli avi con mirabile tenacia avevano costruito e difeso”30. 1.4. L'istituzione della Comunità montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”: dallo Statuto del 1975 a quello attuale. Come noto, la legge istitutiva delle Comunità montane risale al 1971 e, in Altopiano, occorrerrà attendere il 1973 affinchè la Comunità montana rediga il suo primo Statuto. Nello stesso anno, infatti, era intervenuta la legge regionale 27 marzo 1973, n. 10, che aveva provveduto a delimitare le “zone omogenee” ove sarebbero stati istituiti i nuovi enti e tra le diciotto 29
Cfr. M. RINALDI, Le proprietà collettive nella montagna del Veneto, cit., e A. BROGLIO, La proprietà collettiva nei Sette Comuni, cit., 82. Osserva quest'ultimo Autore come si trattò di “una vera e propria espropriazione di fatto dei diritti domenicali degli antichi abitatori, anche se nessuna espropriazione di diritto è avvenuta in quanto non è possibile mutare la destinazione in perpetuo di quel demanio”. Sull'argomento si veda anche I. CACCIAVILLANI, La proprietà collettiva nella montagna veneta sotto la Serenissima, Padova, 1988, 110 ss, ove si osserva che “nella Restaurazione postnapoleonica, i Comuni dell'Altopiano non seppero ricreare l'antico ordinamento” e “dapprima si riunirono in un ʻconsorzioʼ, al quale faceva capo quello che era stato il ʻpatrimonioʼ della Reggenza (le proprietà collettive di cui la stessa era titolare)”, per poi “attribuirsene (per atto a rogito notar Serembe di Asiago del 29 dicembre 1925) la proprietà pro quota”. Quindi, osserva ancora l'Autore, “in un secolo circa dalla fine della Dominazione, l'Altopiano dei Sette Comuni seppe percorrere l'intero corso decadenziale della proprietà collettiva, che nella pianura era durato per i sette-otto secoli della sua lenta sparizione”. 30 Così si esprime A.D. SARTORI, in Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, cit., 270. In proposito si veda anche A. STELLA, Uno sguardo d'insieme: passato presente e futuro, in AA.VV., Storia dell'Altipiano dei Sette Comuni – Economia e cultura, Vicenza, 1996, 15, ove si osserva che lo scioglimento del Consorzio “parve cancellare perfino la memoria della singolare gloriosa tradizione comunitaria”.
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individuate dall'art. 2, proprio la diciottesima fu quella dei “Sette Comuni” (divenuti otto con l'aggiunta di Conco), comprendente “i Comuni di: Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo”31. La neo-istituita Comunità montana venne denominata “Comunità montana dell'Altopiano dei Sette Comuni” (art. 1) e le finalità che la stessa avrebbe dovuto perseguire vennero fissate dall'art. 2 dello Statuto: in particolare, essa doveva formulare ed adottare il “piano generale di sviluppo economico e sociale del territorio della Comunità al fine di concorrere a realizzare una politica di riequilibrio economico e sociale rispetto al restante territorio”; concorrere con altri enti del settore ad attuare programmi volti a “dotare il territorio montano di infrastrutture e servizi civili idonei a consentire migliori condizioni di vita per gli abitanti della montagna, nonché un adeguato sviluppo economico”; “individuare e incentivare (…) iniziative idonee alla valorizzazione delle risorse attuali e potenziali del territorio della Comunità”; fornire alla popolazione gli “strumenti necessari a compensare le condizioni di disagio derivanti dall'ambiente montano”; “favorire la preparazione culturale e professionale delle popolazioni” e, infine, “tutelare e valorizzare il patrimonio naturalistico, storico e linguistico della Comunità”. Lo Statuto proseguiva poi a descrivere gli organi istituzionali 31
In particolare, l'art. 1 della legge individuava la finalità della stessa, vale a dire quella di ripartire “in zone omogenee il territorio montano della Regione Veneta per la costituzione delle Comunità montane, secondo i principi fissati dalla legge 3 dicembre 1971, n. 1102, recante nuove norme per lo sviluppo della montagna”. Ai sensi dell'art. 3, poi, “tra i Comuni ricadenti, in tutto o in parte, in ciascuna delle zone omogenee del precedente articolo è costituita la Comunità montana, Ente di diritto pubblico”.
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dell'ente (artt. 4 ss) e, all'art. 26, venivano individuate le risorse a disposizione della Comunità, rappresentante da finanziamenti statali, regionali e provinciali, un “contributo annuo” dei Comuni facenti parte della Comunità stessa ed “eventuali lasciti, donazioni, sovvenzioni e contributi”. È nel 1983 che, “con intima commozione e insieme consapevolezza
storica”,
la
Comunità
montana
deliberò
di
denominarsi nuovamente “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”32: ciò non costituì un “effimero nostalgico richiamo a un passato del tutto irrepetibile” ma corrispose all'urgenza, “sia pure con nuove caratteristiche corrispondenti al progresso tecnologico e anche socioeconomico”, di “salvaguardare l'ecosistema fragile e ammirevole” dell'Altopiano33. Nel corso degli anni vengono apportate delle modifiche alla normativa regionale in tema di Comunità montane, in particolare con l'avvento dell'importante legge 3 luglio 1992, n. 19 (“Norme sull'istituzione e il funzionamento delle Comunità montane”)34, che “disciplina la costituzione, le attribuzioni e l'attività delle Comunità montane, il cui territorio sia compreso nel medesimo ambito provinciale” (art. 1), sulla base dei principi fissati dalla legge 2 dicembre 1971, n. 110235. 32 Come rilevato da A. STELLA in Uno sguardo d'insieme, cit., 15, il quale osserva come tale decisione apparisse, altresì, di buon auspicio. 33 In tal senso, A. STELLA, Uno sguardo d'insieme, cit., 16. Osserva l'Autore come “sempre più si avverte l'esigenza di un nuovo impegno civile comunitario per poter sperare in un riassetto efficace che valorizzi e non offenda ulteriormente il paesaggio e ogni originalità ambientale”. 34 Modificata dalla legge regionale 9 settembre 1999, n. 39. 35 Va ricordato che l'art. 2 della legge prevede diciannove zone omogenee (si tratta delle diciotto previste dalla precedente normativa, cui se ne aggiunge una derivante dalla suddivisione in due parti della “Comunità montana Bellunese”) e l'art. 3 sancisce che “tra i Comuni ricadenti
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Particolarmente rilevante è la gamma di funzioni che la legge riconosce alle Comunità montane, che comprende, oltre alle “funzioni di competenza” (art. 8), anche le funzioni delegate dalle Regioni (art.9), senza dimenticare che è prevista, altresì, da un lato, la possibilità per le Comunità di stipulare, tra loro oppure “con Comuni associati, con le Province e con altri soggetti pubblici”, delle “convenzioni” per lo “svolgimento coordinato di determinate funzioni e servizi per la realizzazione di specifici programmi” (art. 10) e, d'altro lato, quella di “prevedere, previa intesa programmatica, l'esercizio associato di funzioni proprie ricorrendo alla convenzione di cui all'art. 10” (art. 11). Parallelamente, vari interventi modificativi interessano anche lo Statuto della Comunità montana altopianese, prima di giungere alla versione attuale, nel 200536. “Finalità ed obiettivi” dell'ente sono individuati all'art. 5 e, in generale, si riferiscono alla “valorizzazione umana, sociale, culturale, ambientale ed economica” della zona, “attraverso una politica generale di riequilibrio e di sviluppo delle risorse attuali e potenziali della medesima”37. ciascuna delle zone omogenee (...) è costituita la Comunità montana, ente locale a norma dell'art. 28 della legge n. 142/1990”. 36 In particolare, l'attuale Statuto è stato approvato con la deliberazione consiliare n. 46 del 14 dicembre 1993 e modificato dalle delibere n. 7 del 25 febbraio 1994, n. 24 del 26 luglio 1994. n. 31 del 29 novembre 1996 e n. 23 del 30 settembre 2005. 37 Nel dettaglio, gli obiettivi perseguiti dalla Comunità sono individuati nel secondo comma dell'articolo in commento. Si tratta di: salvaguardia, razionale assetto del territorio montano e tutela dell'ambiente; gestione ottimale dei servizi e degli interventi sul territorio; promozione di unioni e fusioni di tutti o parte dei Comuni associati; programmazione delle infrastrutture e dei servizi civili, anche al fine di favorire la residenzialità; gestione associata dei servizi comunali; sostegno ad iniziative economiche e produttive volte all'incentivazione e valorizzazione delle risorse presenti sul territorio; partecipazione della popolazione al processo di sviluppo socioeconomico della montagna; stabilire relazione con gli emigrati altopianesi.
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Alle “funzioni” è, invece, dedicato il Titolo II, da cui si evince che la Comunità montana è titolare, oltre che di funzioni delegate dalla Regione, dalla Provincia e dai Comuni associati (art. 7), anche di “funzioni di competenza” (art. 6), vale a dire: funzioni strettamente connesse alla montagna; adozione del “piano pluriennale di sviluppo socio-economico”38; adozione di “programmi annuali operativi”, in attuazione del suddetto piano pluriennale; individuazione degli “strumenti idonei a perseguire gli obiettivi di sviluppo socioeconomico”; concorso alla formazione del “piano territoriale provinciale”; favorire il concorso dei Comuni, di categorie organizzate e della popolazione alla predisposizione e attuazione del piano pluriennale e, infine, attuazione degli interventi speciali per la montagna, volti ad ovviare gli “svantaggi naturali e permanenti insiti nei territori montani”. Lo Statuto prosegue poi ad individuare organi, attribuzioni e funzionamento degli organi, che sono rappresentati dai tradizionali “Consiglio” (definito “organo di indirizzo e di controllo politicoamministrativo” dall'art. 10), “Giunta” (“organo di governo”, ex art. 19), e “Presidente” (ai sensi dell'art. 30, “rappresentante legale” della Comunità montana, che “sovraintende alla direzione unitaria, politica ed amministrativa dell'ente e ne coordina l'attività”). Sono presenti, 38
Si tratta di un documento di particolare importanza, dal momento che contiene la programmazione di “opere ed interventi nel territorio di competenza della Comunità montana” e, attraverso il medesimo, “vengono individuati gli strumenti idonei al perseguimento degli obiettivi di sviluppo socio-economico, da elaborarsi in armonia con le linee di programmazione provinciale e regionale”. Esso, infatti, deve contenere “gli obiettivi fondamentali” della Comunità e i “mezzi per l'attuazione”, oltre ad individuare, “per ogni settore”, il “tipo di interventi” e il “presumibile costo degli investimenti”. Il Piano ha durata triennale e “le sue indicazioni devono trovare riscontro operativo nel bilancio pluriennale dell'ente” (art. 53).
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poi, altri “organi burocratici”, individuati al Titolo IV, vale a dire il “Segretario”, che “sovraintende e coordina l'attività dei dirigenti e degli uffici, cura l'istruttoria e l'assunzione dei provvedimenti deliberativi, partecipa alle riunioni della Giunta e del Consiglio” ed è “preposto alla direzione degli uffici di propria competenza” (art. 41), e i “Dirigenti”, che esercitano la “propria responsabilità funzionale a livello di specifico programma con autonoma capacità di scelta metodologica e procedurale” e che adottano “atti interni di carattere istituzionale ed organizzativo, e a rilevanza esterna, sia negoziali che a contenuto vincolato” (art. 44). Infine, rilevante è anche l'art. 63, che riconosce autonomia finanziaria all'ente, “fondata su certezze di risorse proprie e trasferite”. In particolare, la Comunità montana può contare su trasferimenti statali e regionali, “altre entrate proprie, anche di natura patrimoniale”, un “contributo annuo dei Comuni membri, nella misura e con i criteri fissati dal Consiglio, sentiti i Comuni” e “risorse per investimenti”. Ci si può chiedere, in concreto, di cosa si occupi la Comunità montana. In proposito, si possono riportare le parole dell'ex Presidente, Giancarlo Bortoli, il quale precisa che “le attività sono molteplici. Si va dai compiti che coinvolgono direttamente la salvaguardia del territorio attraverso la pulizia del pascolo dall'infestazione di erbe per mantenere un giusto equilibrio tra bosco/pascolo, al miglioramento delle strade boschive, alla martellatura delle piante”. Inoltre, “la Comunità montana si occupa anche di progetti di valorizzazione
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turistica e di progettazione di offerte per favorire il diffondersi della conoscenza della vita di malga, ottenendo così un doppio beneficio (indotto per il malgaro/promozione turistica)”39, oltre ad occuparsi “anche di sviluppo economico: da dieci anni ha attivato uno strumento specifico (i patti territoriali, istituiti con la legge regionale 06 aprile 1999, n. 13). Data la valenza turistica di un simile accordo, la Comunità montana coinvolge istituzioni, Comuni, associazioni di categoria e sindacati, con il fine di realizzare opere pubbliche a valenza turistica (laghetto di Roana, centro polifunzionale di Enego, la strada delle Melette, il museo di Foza, il rifugio di Campolongo a Rotzo) per importi che si avvicinano in totale ai 9 milioni di euro”. Altra importante attività è rappresentata dalla “valorizzazione dei beni storico culturali”, con “interventi quali la manutenzione dei manufatti della Grande Guerra su tutto il fronte vicentino (legge n. 78 del 2001, per € 6.300.000)”. Infine, la Comunità montana è sensibile anche alla questione della salvaguardia ambientale, infatti, essa ha ottenuto l'importante certificazione EMAS40 e ha provveduto alla realizzazione di “interventi di miglioramento ambientale, che consiste nella pulizia e ricostituzione del manto incolto”. Quanto alla promozione delle energie rinnovabili, le relative attività sono recenti: è stata avviata una 39
Per quanto riguarda le funzioni svolte dalla Comunità montana altopianese, esse sono, come detto, indicate nello Statuto. Quanto, in particolare, alle malghe, precisa Bortoli che “il territorio dell'Altopiano di Asiago vanta la più alta concentrazione di malghe d'Europa, ne abbiamo circa 80” e “la Comunità montana si occupa del restauro di questo patrimonio fondamentale per la manutenzione dei pascoli, specie in alta montagna”. 40 Per completezza, si precisa che l'EMAS (Eco-Management and Audit Scheme) è uno “strumento volontario creato dalla Comunità Europea al quale possono aderire volontariamente le organizzazioni (aziende, enti pubblici, ecc.) per valutare e migliorare le proprie prestazioni ambientali e fornire al pubblico e ad altri soggetti interessati informazioni sulla propria gestione ambientale” (cfr. www.emastrentino.it).
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collaborazione con Veneto Agricoltura e con la Regione Veneto al fine di realizzare “interventi pilota” e una “legge pilota per la creazione di campi a pannelli solari per la produzione di energia elettrica pulita”. Il tutto a conferma che “l'attenzione nei confronti delle energie rinnovabili e del risparmio energetico è molto alta, anche se è ancora abbastanza complicato trovare le soluzioni maggiormente indicate per il nostro territorio, data l'elevata evoluzione delle tecnologie in ambito energetico”41.
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Cfr. C. SAVELLI, La Comunità montana e il suo impegno nella salvaguardia dell'ambiente, in l'Altopiano, 8 agosto 2009, 6.
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CAPITOLO II
IL NUOVO VOLTO DELLA MONTAGNA VENETA: LE “UNIONI MONTANE” E LE PROSPETTIVE PER IL TERRITORIO ALTOPIANESE, NELLE PAROLE DEGLI AMMINISTRATORI*.
2.1 L'approccio della Regione Veneto alla questione montagna e i sintomi di un malessere generalizzato: il referendum consultivo per il passaggio alla Regione Trentino Alto-Adige.
I rapporti tra la Regione Veneto e le Comunità montane non sempre sono stati di reciproca sinergia, talvolta assumendo, invece, i caratteri di una “tensione conflittuale”. Per lungo tempo si è posta la questione delle “deleghe di funzioni amministrative” dalla Regione alle Comunità montane, che si frapponeva tra le “istanze di sviluppo auto-propulsivo” delle stesse e le “tendenze, mai sopite, ad un neo-centralismo regionalistico mortificante le autonomie locali della montagna veneta”1. Le tensioni che ne sono derivate sono notevoli e hanno portato, addirittura, alcuni Comuni montani a chiedere il distacco dalla Regione di appartenenza ai fini del passaggio entro Regioni a Statuto speciale, avviando il complesso procedimento previsto a tal fine dall'art. 132 *
Si ringraziano per il prezioso contributo e per il materiale fornito, il Presidente della “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, Dott. Lucio Spagnolo, il Segretario, Dott. Gianni Ceccon e il Responsabile Ufficio Piani e Programmi, Dott. Giuseppe Fincati. 1
In tal senso si veda Cenni minimi ricostruttivi sul (mancato) riordino delle Comunità montane nel Veneto, in www.osservatoriosullefonti.it/archivio-articoli, luglio 2007.
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Cost2. Si tratta di un'iniziativa in ordine alla quale, secondo alcuni, “prevale un'opinione politicamente negativa”, avendo, essa, alla base, “pulsioni meramente egoistiche, per entrare a far parte di Regioni con maggiori disponibilità finanziarie”3. Tuttavia, tale censura pare celare “il 2
Recita il comma secondo dell'art. 132 Cost.: “Si può, con l'approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum e con legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Provincie e Comuni, che ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione e aggregati ad un'altra”. In proposito si veda M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali (a margine della pronuncia 66/2007 della Corte Costituzionale), in www.forumcostituzionale.it, 2007, 1-2, ove l'Autore, riportando quanto statuito dalla Corte, osserva che il procedimento descritto nella disposizione costituzionale in commento, si articola in “una prima fase procedimentale, del referendum consultivo della popolazione dell'ente locale interessato, nel segno del ʻdiritto di autodeterminazione delle collettività localiʼ (p. 3, in diritto); una seconda fase di ʻspecifico e solenne coinvolgimento delle Regioni interessate attraverso la richiesta ai loro Consigli regionali del parere sulla propostaʼ di distacco-aggregazione (p. 4, in diritto); una terza fase, parlamentare, per l'approvazione della relativa legge ordinaria”. Come ricordato da F. RATTO TRABUCCO, Riforma del procedimento di distaccoaggregazione di Comuni da una Regione all'altra: un attacco alle autonomie locali che grida vendetta, in www.forumcostituzionale.it, 2008, 1 ss, il 17 luglio 2007, la Commissione Affari Costituzionali ha “avviato l'esame del disegno di legge governativo di distacco e aggregazione di Comuni e Province da una Regione all'altra (Atto Camera n. 2523, relatore Boato), dopo che lo stesso già era stato modificato con la riforma costituzionale del 2001 col fine dichiarato di semplificare la relativa procedura e consentire alle Comunità locali che lo richiedessero di poter attivare l'iter di variazione territoriale con lo svolgimento del relativo referendum”. Osserva l'Autore che, con tale tentativo riformatore, si vuole “bloccare qualsivoglia tentativo di variazione territoriale, inserendo direttamente nella Carta fondamentale oneri del tutto irrazionali, che comportano peraltro anche risvolti economici di non poco conto qualora un Comune decidesse ugualmente di attivare la procedura, stante la necessità di svolgere due referendum a livello provinciale. Più nel concreto, si vuole mortificare il diritto di autoidentificazione delle Comunità locali”. Oltretutto, il “culmine della gravità”, secondo l'Autore, lo si raggiunge nel tantare di far sì che il progetto in corso di esame “possa direttamente influire sulle procedure di distaccoaggregazione per le quali le Comunità locali hanno già espresso il loro parere favorevole”, attribuendo alla riforma, quindi, effetto retroattivo. 3 In tal senso, M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali, cit., 6, il quale richiama l'articolo L'Unione: “in Parlamento bocceremo Lamon”, in Corriere del Veneto, 28 luglio 2007, 5. In proposito si veda anche F. RATTO TRABUCCO, Riforma del procedimento di distacco-aggregazione di Comuni da una Regione all'altra, cit., 3, ove si osserva che vi sono “ostinati attacchi agli esponenti locali e alle loro collettività che hanno attivato le procedure di distacco-aggregazione, descritti quasi sempre come alla ricerca di ʻsgheiʼ, citando sempre e solo il caso dei Comuni che intendono aggregarsi a Regioni autonome, per i quali, però, guarda caso, si dimenticano i veri fattori storici, culturali, economici, sociali, che stanno alla base dell'istanza di variazione territoriale”. In particolare, ricorda l'Autore che anche “gli otto Comuni dell'Altopiano d'Asiago, oggi compresi nella Provincia di Vicenza, hanno stretti legami di carattere socioeconomico e culturale con l'attigua Provincia di Trento”.
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timore che gran parte del ceto politico (…) avverte, di messa in discussione della propria posizione di potere, di fronte alla possibile espansione
di
iniziative
destinate
a
sviluppare
il
senso
di
autodeterminazione, ovvero la consapevolezza di poter decidere ʻdal bassoʼ (senza dover ʻomaggiare oligarchie politicheʼ) almeno la configurazione delle istituzioni locali”4. Certamente, l'iniziativa è “sintomatica di un diffuso disagio (…) nel rapporto con l'ente Regione, considerato lontano e addirittura incapace di iniziative e di politiche pubbliche autenticamente indirizzate alla tutela ed allo sviluppo della montagna e delle sue popolazioni”5, “disagio” avvertito anche dai Comuni altopianesi, che pure si sono attivati al fine di porvi rimedio. Il primo passo in tal senso è stata la promozione di un referendum consultivo. Il 06 e 07 maggio 2007 si è recato alle urne il 63,19% della popolazione e l'esito non ha lasciato adito a dubbi: ben il 94,09% degli altopianesi è favorevole al passaggio alla Regione trentina6. Si è trattato di un “voto di protesta”, che mette in luce il grosso 4
Cfr. M. MALO, Forma e sostanza in tema di variazioni territoriali regionali, cit., 6 ss. prosegue l'Autore osservando come “si nasconde, inoltre, l'opportunità di tracciare confini regionali più coerenti, rispetto alla cultura, alle tradizioni ed alle consuetudini di vita locali (ladini di Cortina, Livinnalongo, Colle Santa Lucia; romagnoli dell'Altavalmarecchia), e probabilmente si teme che il possibile incremento dei fenomeni di distacco e aggregazione, da una Regione ad un'altra, possa mettere profondamente in discussione la geografia politica regionale”. Inoltre, egli osserva che “se, in ipotesi, quello che tradizionalmente viene chiamato ʻTrivenetoʼ corrispondesse ad un'unica Regione autonoma (…), d'un tratto sfumerebbero le punsioni ʻsecessionisteʼ dei Comuni Veneti verso le limitrofe Regioni speciali”. 5 Cfr. Cenni minimi ricostruttivi sul (mancato) riordino delle Comunità montane nel Veneto, cit. 6 Gli altri Comuni che hanno promosso il referendum, sono quelli di Lamon (BL), che ha provveduto ancora nell'ottobre del 2005, seguito, nell'ottobre del 2007, dai Comuni di Cortina d'Ampezzo, Livinnalongo del Col di Lana e di Colle Santa Lucia. Poi, a marzo 2008, è toccato a Sappada e Pedemonte (Sappada desiderava il passaggio alla Regione Friuli Venezia-Giulia, mentre tutti gli altri auspicavano il passaggio alla Regione Trentino Alto-Adige). Gli esiti sono stati in tutti casi quasi plebiscitari (cfr. Cenni minimi ricostruttivi sul (mancato) riordino delle Comunità montane nel Veneto, cit.).
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problema di fondo, rilevato anche dal Sindaco di Asiago, Andrea Gios, secondo il quale si è di fronte al “segnale di un disagio non più sostenibile”7. In ogni caso, la procedura si è arenata: oltre al mancato riscontro rispetto l'istanza presentata dai Sindaci e dal Presidente della Comunità montana, indirizzata al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri, volta ad ottenere “risposte concrete alla volontà espressa”, vi sono state le pronunce dei Consigli provinciali di Trento e Bolzano e del Consiglio regionale che “esprimono parere negativo all'accettazione di altri Comuni, in quanto ogni cambio confinario deve passare attraverso la modifica dello Statuto speciale di competenza del Governo”8. 7
Come riportato nell'articolo di G. P., Mille voci s'intrecciano, in Il Gazzettino, 8 maggio 2007. In termini analoghi si esprime il sindaco di Lusiana, Virgilio Boscardin, che manifesta viva soddisfazione in merito all'esito referendario, dal momento che va a dimostrazione di come il popolo abbia “espresso il proprio parere su problemi di grande gravità”. Parole sostanzialmente analoghe vengono espresse dal Sindaco di Roana, Mario Porto, secondo il quale “questo voto è la manifestazione di tutto il malessere di chi abita sui monti” e, se nessuno provvederà, “saranno terre abbandonate e per riportare qualcuno a vivere in quota bisognerà spendere dieci volte tanto rispetto ad adesso, quando di potrebbe ancora evitare la fuga verso la città e la pianura”. Porto evidenzia anche un'altro aspetto: da parte della Regione “per la Provincia di Belluno un occhio di riguardo c'è stato”, mentre “la montagna di Vicenza, Treviso, Verona, non esiste nella politica regionale”. Non è dello stesso avviso, tuttavia, Franco Manzato (Vicepresidente della Regione Veneto e assessore per l'economia e lo sviluppo montano), secondo il quale “in un momento di crisi non ci sono ʻfigli di un dio minoreʼ”, “non c'è chi ha ricevuto più di altri” e nessuno “può ritenere di avere privilegi particolari dallo Stato e dalla Regione” (cfr. N. CANAZZA, Comunità montane: non sono morte ma devono rinascere, al risparmio, in La difesa del popolo, 6 novembre 2009, 3) Sull'argomento molto è stato scritto: per una lettura di articoli sulla questione, tra gli altri, si veda Gazzettino, 8 maggio 2007, l'Arena, 8 maggio 2007, Giornale di Vicenza, 4 giugno 2007 e 5 giugno 2007. 8 Come ribadito dal Sindaco di Asiago, Andrea Gios, nell'articolo di G. RIGONI, Passaggio al Trentino: “i Comuni sono inerti”, in www.ilgiornaledivicenza.it, 5 luglio 2012. Osserva Gios come “la realtà è che Trento non ci vuole perché se beneficiassimo degli stessi loro mezzi, costituiremmo un competitor troppo forte per le località turistiche trentine. In più l'accettazione di territori provenienti da Regioni ʻordinarieʼ dimostrerebbe che le condizioni per cui sono state concesse le agevolazioni dell'autonomia non sussistono più”. Quanto al dissenso manifestato dal Consiglio regionale trentino in merito all'annessione dei Comuni altopianesi, si veda il Resoconto stenografico alla Seduta del Consiglio Regionale n. 61 del 15 gennaio 2008, ove si esprime “parere negativo” alla prosecuzione dell'iter di approvazione
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Il 29 aprile 2008 è stata presentata la proposta di legge costituzionale “Distacco dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo dalla regione Veneto e loro aggregazione alla regione autonoma Trentino-Alto Adige, ai sensi dell’articolo 132, secondo comma, della Costituzione”, il cui art. 1 così recita: “I comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo sono distaccati dalla Regione Veneto e aggregati alla Regione autonoma Trentino-Alto Adige, nell’ambito della Provincia autonoma di Trento. Il Governo è delegato a adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, uno o più decreti legislativi recanti le modifiche o integrazioni alle disposizioni legislative vigenti che sono strettamente consequenziali al disposto di cui al comma 1, applicando, ove necessario, la procedura prevista dall’articolo 107 del Testo Unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670. Il Governo è autorizzato a adottare le disposizioni regolamentari necessarie per l’attuazione della presente legge costituzionale”. della proposta in questione. In particolare, il consigliere de Eccher, afferma che “certo non si può aprire la strada all’ingresso di nuovi Comuni” che, “non si muovono per ragioni di ordine storico, di ordine culturale, di ordine geografico” ma solo “perché spinti da uno stato di bisogno e dalla ricerca dell’interesse delle rispettive popolazioni”; il consigliere Pasquali esprime, inoltre, perplessità in ordine alla stessa procedura prevista dall'art. 132 Cost., in quanto, a suo parere “nel momento in cui si lascia la possibilità a determinati Comuni di fare richiesta di aggregazione ad altre Regioni o altre Province, naturalmente sentendo i Consigli provinciali o i Consigli regionali, è evidente che c’è una fila di Comuni interessatiall’aggregazione” e “non può essere lasciata questa facoltà ai Comuni ed alle Regioni e province interessate, ma deve essere lo Stato a stabilire con certezza i confini della Regione e della Provincia, proprio per evitare questo assalto alla diligenza”; il consigliere Lemprecht, addirittura, vede nella proposta un “pericolo indiretto” per l'autonomia della Regione, “nata storicamente per tutelare un determinato territorio”. In termini analoghi siesprimono anche gli altri consiglieri regionali. Dissente con tutto ciò, invece, il consigliere Boso, il quale appoggia la proposta, in quanto crede “in quello che è la democrazia” e “l'autodeterminazione”.
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Attualmente, essa è ancora all'esame della Prima Commissione Affari Costituzionali. Da ultimo, il Sindaco di Asiago, Gios, e il Presidente della Comunità montana, Spagnolo, hanno ribadito la necessità di “valutare in maniera effettiva e fondata la possibilità che si realizzi quanto democraticamente chiesto dai cittadini dei nostri Comuni”, che si sono espressi piuttosto chiaramente sulla questione e sono ancora in attesa di risposte concrete9. 2.2 Gli effetti della Finanziaria 2008 e 2010 (e delle relative pronunce costituzionali) per la Comunità montana “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”.
Nonostante i chiari segnali d'allarme lanciati dalla montagna veneta e, in particolare, da quella altopianese, la situazione negli anni non ha fatto che peggiorare, rispecchiando quanto, parallelamente, accadeva a livello nazionale. Sono già stati ampiamente analizzati gli effetti della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e dei ricorsi costituzionali che sono stati, opportunamente, presentati (e, almeno in parte, accolti): ivi si vuole analizzare, più dettagliatamente, la situazione che ha dovuto affrontare la
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Le dichiarazioni di Gios e Spagnolo sono state riportate in S. LONGHINI, Quale Provincia scegliete? Quella di Trento!, in l'Altopiano, 15 settembre 2012, 1. In particolare, come rilevato nell'articolo in questione, gli stessi si sono espressi a seguito di una nota del 30 agosto 2012 con la quale l'assessore regionale e presidente della Conferenza Regioni – Autonomie Locali, Roberto Ciambetti, ha chiesto il parere dei Comuni in merito alla nuova articolazione territoriale delle Province. In sostanza, “i Sindaci sono stati invitati a scegliere la Provincia alla quale essere aggregati oppure a dichiarare di voler rimanere nella Provincia di attuale appartenenza”.
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Comunità montana altopianese10. Innanzitutto, va ricordato che la Regione Veneto ha lasciato trascorrere inutilmente i termini previsti dalla legge n. 244 per l'emanazione della legge di riordino delle Comunità montane, con la conseguenza che la Giunta regionale ha dovuto prendere atto della produzione degi effetti previsti dal comma 20 dell'art. 2, vale a dire, in primo luogo, la cessazione dall'appartenenza alle Comunità montane venete dei Comuni di Belluno, Bassano del Grappa, Feltre, Schio, Valdagno e Vittorio Veneto (in quanto aventi più di 20.000 abitanti) e, in secondo luogo, la soppressione delle Comunità montane che non rispettano i requisiti previsti dalla normativa11. La Comunità montana altopianese non è rientrata tra quelle destinate alla soppressione, in quanto rispettava i requisiti previsti dall'art. 212; tuttavia, anche per essa si sono prodotte delle conseguenze, 10
Si rimanda, in proposito, alla prima parte, Cap. II, della presente trattazione. Si ricorda che con la sent. cost. n. 237 del 2009, la Corte costituzionale ha ribadito la competenza regionale nella materia relativa alle Comunità montane, dichiarando l'illegittimità della loro soppressione con legge statale. Il Veneto, è stata una delle Regioni che ha presentato ricorso avverso la legge n. 244, scongiurando, così, il pericolo di una radicale eliminazione degli enti montani. Ricorda, peraltro, la Delegazione regionale Veneto dell'UNCEM come “la spesa per le 19 Comunità montane del Veneto è stata, per l'anno 2008, di € 9.500.000”, a dimostrazione che “l'impegno di coloro che operano a favore dei territori e delle popolazioni montane, come è stato sempre nel loro costume, lungi dagli sprechi e dagli eccessi imputati all'azione pubblica, è sempre stato improntato al contenimento delle spese”. Ribadisce l'UNCEM Veneto come la montagna necessiti di un “ente sovracomunale di autogoverno del territorio che assicuri lo sviluppo socio-economico di aree più vaste del piccolo Comune (…), evitando la creazione di agenzie di sviluppo, modello poco funzionale, che diverrebbe, in termini di competenze, ruoli e funzioni, una sovra struttura estranea ai Comuni stessi”. Proprio per questo motivo appare “auspicabile un intervento regionale” che “attraverso una revisione delle attuali Comunità montane possa garantire omogeneità territoriale, la loro operatività per la salvaguardia e lo sviluppo dei territori di montagna, garantendo idonee risorse economiche” (cfr. il documento UNCEM – Delegazione regionale Veneto, I veri conti delle Comunità montane venete, 22 settembre 2009). 11 Il tutto in applicazione di quanto previsto dal comma 18 dell'art. 2 della legge n. 244, per il quale si rimanda alla prima parte di questa trattazione (Cap. II, § 2.2). Si veda in proposito, la Deliberazione della Giunta regionale n. 3687 del 25 novembre 2008, pubblicata nel B.U.R. n. 105 del 23 dicembre 2008. 12 Invece, in applicazione dell'art. 2, comma 20, sorte contraria sarebbe toccata alla Comunità montana Bellunese - Belluno - Ponte nelle Alpi, a quella del Grappa, delle Prealpi Trevigiane, del
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dal momento che la Regione ha ritenuto opportuno “disciplinare gli effetti che deriveranno alle rimanenti Comunità montane, che vengono confermate avendo tutti i requisiti richiesti dalla legge finanziaria statale, e per le quali gli organi restano in carica nell'attuale composizione, in attesa del rinnovo delle designazioni da effettuarsi secondo le disposizioni della lettera d) del comma 20 dell'articolo 2 della legge finanziaria n. 244/2007” e, a tal fine, ha provveduto a nominare “Commissari ad acta i Presidenti in carica delle medesime Comunità montane, col compito di sovraintendere alle operazioni necessarie al passaggio al nuovo regime normativo”13. Con la pronuncia della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'incostituzionalità della normativa in questione, la delibera regionale appena esaminata è decaduta, tornando in vigore la precedente legge regionale relativa alle Comunità montane, che per il Veneto restano nel numero di 1914. Quanto alla Finanziaria per il 2010, i suoi effetti sarebbero stati deleteri se non fosse intervenuta la pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 326 del 2010): infatti, come analizzato nella prima parte di Baldo, della Lessinia, alla Comunità montana dall'Astico al Brenta, a quella Agno - Chiampo e, infine, a quella Leogra - Timonchio (cfr. Deliberazione della Giunta regionale, cit.) 13 Cfr. Deliberazione della Giunta regionale, cit., ove si specifica che le Comunità montane interessate alla nomina dei “Commissari ad acta” sono, oltre alla “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, la Comunità montana Agordina, quella dell'Alpago, quella del Cadore - Longaronese Zoldano, quella della Val Belluna, quella del Centro Cadore, quella di Comelico e Sappada, quella Feltrina, quella della Valle del Boite, quella dell'Alto Astico e Posina e quella del Brenta. 14 Come osservato nel Comunicato dell'UNCEM Veneto, La Corte costituzionale conferma la competenza delle Regioni in merito alla disciplina delle Comunità montane, del 30 luglio 2009. Osserva il Presidente di UNCEM Veneto, Galdino Zanchetta, che, nonostante la vittoria della Regione, “resta attualissima la problematica di poter proporre un ragionamento sul ruolo delle Comunità montane nei territori montani”, attraverso “un percorso razionale per una scelta coerente con le finalità di sviluppo della Montagna Veneta”. Per uno sguardo alla dislocazione delle Comunità montane in Veneto si veda Appendice b).
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questa trattazione (Cap. II, § 2.4), l'art. 2, comma 187, della legge prevedeva che lo Stato cessasse “di concorrere al finanziamento delle Comunità montane previsto dall'articolo 34 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e dalle altre disposizioni di legge relative alle Comunità montane. Nelle more dell'attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42, il 30% delle risorse finanziarie di cui al citato art. 34 del d. lgs. n. 504 del 1992 e alle citate disposizioni di legge relative alle Comunità montane è assegnato ai Comuni appartenenti alle Comunità montane e ripartito tra gli stessi con decreto del Ministero dell'Interno, previa intesa sancita in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 3 del d. lgs. 28 agosto 1997, n. 281”. Fortunatamente, la pronuncia della Consulta, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma in questione, ha scongiurato il pericolo del taglio totale dei finanziamenti e ha consentito “di sbloccare definitivamente il fondo statale per l'associazionismo, congelato dal Ministero dell'Interno e destinato a quelle Comunità che svolgono la gestione associata di funzioni e servizi comunali”. Di conseguenza, le risorse sono state ripartite tra le Regioni e al Veneto sono stati assegnati oltre € 607.000, che la Giunta ha provveduto, a sua volta, a ripartire tra le varie Comunità montane, con la conseguenza che alla “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni” sono stati attribuiti € 31.04415. In ogni caso, nonostante gli esiti positivi raggiunti con le pronunce costituzionali, resta ferma la necessità di provvedere al riordino delle 15
Cfr. Comunicato stampa n. 2378 del Consiglio Regionale del Veneto, 30 dicembre 2010. Per i dettagli circa la sent. cost. n. 326 del 2010 si rimanda alla prima parte di questa trattazione (Cap. II, § 2.4).
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Comunità montane, dal momento che se esse sono, per il momento, salve, altrettanto non si può dire per i loro bilanci, poichè “dovranno essere in qualche modo trovate le risorse finanziarie, per le spese correnti e quelle di investimento, prima trasferite dallo Stato e ora venute meno. Un mancato introito importante se si considera che il fondo ordinario base trasferito dallo Stato a tutte le Comunità montane sul territorio nazionale è passato per il 2009 da 111 a 12 milioni di euro”16. Quanto al suddetto riordino, “il punto di partenza per ogni programmazione
sembra
essere
la
consapevolezza
che
si
sta
attraversando una crisi strutturale, non ciclica, e che non si può rimandare una riorganizzazione di enti e servizi a tutti i livelli”. Quanto alle Comunità montane, “si tratterà di difendere la specificità montana” dei territori, “individuando, sulla base della conoscenza precisa di caratteristiche, risorse e luoghi, le strategie e le azioni per raggiungere gli obiettivi”. Dunque, “la scommessa è trasformare le Comunità montane in enti capaci di aggregare e associare i servizi dei Comuni, migliorando la governance del territorio e consentendo economie di spesa senza incidere sul livello delle prestazioni essenziali alle persone in zone dove la stessa conformazione morfologica le renderebbe più complesse e costose”17. 16
Così si esprime il consigliere regionale Franco Manzato in N. CANAZZA, Comunità montane, cit. Egli prosegue osservando come “a differenza di altre Regioni, il Veneto ha Comunità montane ʻvereʼ” e “si dovrà tenerne presente l'utilità, le difficoltà in cui operano e la realtà di un territorio dove ci sono, ad esempio, Comuni sotto i 400-500 metri, ma attorniati da montagne più importanti”. 17 In tal senso si veda N. CANAZZA, Comunità montane, cit., ove si riportano le parole dell'Assessore Manzato.
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2.3 Segue: le proposte di riordino delle Comunita montane venete. Dai disegni di legge n. 196 e n. 238 del 2011 alla legge regionale 27 aprile 2012, n. 18. La posizione degli amministratori altopianesi. All'indomani dall'emanazione della legge Finanziaria per il 2008 e per il 2010, sono stati presentati diversi progetti di legge di riordino della disciplina delle Comunità montane, che sono confluiti, infine, nella legge regionale n. 40 del 28 settembre 2012. Ripercorrendo l'iter, si deve ricordare che dopo la reviviscenza delle Comunità venete per le quali si era prodotto l'effetto soppressivo previsto dalla legge n. 244 del 2007 (determinata dalla sent. cost. n. 237 del 2009), due sono state le proposte di legge presentate: si tratta della n. 196 e della n. 238 del 2011. L'ultima citata (“Istituzione e disciplina delle Unioni montane”), promossa dall'Assessore Marino Finozzi, è stata, tuttavia e con rammarico, accantonata in Prima Commissione. Si trattava di un progetto visto con favore dagli amministratori altopianesi e che si caratterizzava, sotto il “profilo giuridico”, per “l'identificazione, l'istituzione e la disciplina di un nuovo soggetto giuridico, le Unioni montane di Comuni (Unioni montane)”, che avrebbero sostituito le preesistenti Comunità montane, in una prospettiva di “netta evoluzione del ruolo e delle funzioni di tali enti, quali erogatori di servizi a carattere collettivo, tenuto conto di quanto già previsto dalle previgenti leggi, ma in coerenza con il nuovo profilo operativo, basato sulla gestione associata da parte dei Comuni di piccole dimensioni”.
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Sotto il “profilo ordinamentale”, il progetto prevedeva un “radicale mutamento dell'ordinamento dell'ente e dei suoi organi”, in quanto l'Unione sarebbe diventata “diretta espressione dei Comuni che la costituiscono, attraverso l'istituzione dell'Assemblea dei Sindaci”, annoverata tra gli “organi”, all'art. 418. Infatti, il ruolo dei Sindaci appariva ai promotori “strategico per una gestione efficace ed efficiente delle funzioni dell'Unione montana stessa”, senza dimenticare che si trattava di una scelta che avrebbe portato ad un “significativo risparmio dei costi della politica, in relazione al minor numero di consiglieri ed assessori” che la legge prevedeva rispetto alla previgente normativa regionale19. Quanto al “profilo procedurale”, i passaggi per il riordino degli enti montani e l'individuazione di più razionali assetti territoriali erano volti a garantire “l'ottimizzazione dei livelli di governo e delle caratteristiche dimensionali, demografiche e strutturali delle Unioni montane” e consistevano in: individuazione delle zone omogenee, coincidenti con 18
Sono state manifestate perplessità in ordine a tale, ipotetico, organo consiliare, “in quanto tale direttorio attenuerebbe l'approccio intercomunale dello stare ʻinsiemeʼ” (questa è l'opinione manifestata dalla Fondazione “Montagna e Europa” Arnaldo Coleselli, rinvenibile nel Documento di indirizzo da essa redatto, in data 18 giugno 2012). 19 Infatti, l'art. 4 del progetto prevedeva che “organi dell'Unione montana” fossero l'Assemblea dei Sindaci, la Giunta, il Presidente e il Revisore, con la precisazione che la Giunta sarebbe stata composta da “un numero di componenti, compreso il Presidente, non inferiore a tre e non superiore ad un terzo del numero dei componenti l'Assemblea dei Sindaci, eventualmente arrotondato all'unità superiore”. Di conseguenza, il numero massimo di membri della Giunta nella “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, sarebbe stato di tre, essendo l'Assemblea dei Sindaci, ipoteticamente, formata da otto membri (corrispondenti agli otto Sindaci degli altrettanti Comuni altopianesi). Invece, ai sensi dell'art. 4 della legge regionale n. 19 del 1992, sono “organi della Comunità montana il Cosiglio, la Giunta e il Presidente”. Il primo è composto da “rappresentanti di ciascun Comune associato”, in ragione di “tre per i Comuni fino a 4.999 abitanti, di quattro per i Comuni da 5.000 a 9.999 abitanti, di cinque per i Comuni da 10.000 a 19.999 abitanti, di cinque per i Comuni da 10.000 a 19.999 abitanti, di sei per i Comuni da 20.000 a 40.000 abitanti”, con la conseguenza che, tenendo conto della popolazione di ciascun Comune dell'Altopiano, il Consiglio si compone di 25 membri.
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quelle delle preesistenti Comunità montane e costituzione delle Unioni entro 90 giorni dalla pubblicazione della legge, con l'approvazione del relativo Statuto; soppressione delle Comunità montane; predisposizione e approvazione, nei successivi 18 mesi, di un “Piano di rimodulazione delle zone omogenee” e adeguamento delle Unioni montane allo stesso, entro 90 giorni dalla sua pubblicazione. Infine, quanto al “profilo del ruolo e delle funzioni assegnate alle Unioni montane”, alle stesse veniva riconosciuto un duplice ruolo, dal momento che, da un lato, avrebbero dovuto svolgere le “funzioni basilari di pubblico interesse” già spettanti alle Comunità montane e, d'altro lato, avrebbero potuto svolgere le “ʻnuoveʼ funzioni” relative alla “gestione in forma associata di funzioni e servizi fondamentali dei Comuni”20. Come già anticipato, questo progetto non è giunto all'approvazione definitiva: è, invece, il n. 196 (“Disciplina dell'esercizio associato di funzioni e servizi comunali”), promosso dall'Assessore Roberto Ciambetti, a tradursi in legge regionale, la n. 18 del 27 aprile 2012. Interessante è l'esame della Relazione della Prima Commissione consiliare, dalla quale emergono i tratti fondamentali della nuova disciplina. In particolare, lo scopo fondamentale della legge risulta essere quello di “favorire la riorganizzazione da parte dei Comuni del territorio veneto per quanto riguarda l'esercizio delle funzioni, in primis, quelle fondamentali, nonché lo svolgimento dei servizi nelle materie di cui all'art. 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, attraverso il ricorso a forme di gestione sovra comunale, secondo i principi di economicità, di efficienza e di riduzione delle spese, dando, nel contempo, vita a un 20
Questo è quanto riportato nella Relazione introduttiva al progetto di legge n. 238 del 2011.
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articolato e armonico riordino territoriale”. Il “ricorso a forme di gestione associata” appare ai promotori della legge, “oltre che obbligatorio per i Comuni al di sotto di determinate precise soglie demografiche”, anche “indispensabile in ragione delle ridotte risorse economiche per poter garantire, da parte degli stessi, l'assolvimento dell'obbligo di esercizio delle funzioni fondamentali”21. Dunque, l'obiettivo è realizzare un “intervento normativo puntuale (…) che realizzi un riordino delle autonomie locali armonico, completo, rispettoso sia delle specificità locali che delle zonizzazioni e gestioni associate già esistenti, qualora ritenute idonee ed adeguate alla gestione di funzioni associate” e, a tal fine, il progetto di legge provvede a disciplinare, all'art. 1, comma secondo, in primo luogo, il “processo di riordino territoriale”, attraverso la “individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica22”; in secondo luogo, 21
Quanto alla suddetta “obbligatorietà” del ricorso a forme di gestione associata delle funzioni e servizi comunali, vanno ricordati i principali interventi normativi in tal senso, vale a dire: il decreto-legge n. 78 del 2010, il cui art. 14, comma 28, prevede che “le funzioni fondamentali dei Comuni, previste dall'articolo 21, comma 3, della citata legge n. 42 del 2009, sono obbligatoriamente esercitate in forma associata, attraverso convenzione o Unione, da parte dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, (esclusi le isole monocomune ed il comune di Campione d'Italia). Tali funzioni sono obbligatoriamente esercitate in forma associata, attraverso convenzione o Unione, da parte dei Comuni, appartenenti o già appartenuti a Comunità montane, con popolazione stabilita dalla legge regionale e comunque inferiore a 3.000 abitanti”; l'art. 16 del decreto-legge n. 138 del 2011, ai sensi del quale “tutte le funzioni amministrative sono esercitate obbligatoriamente in forma associata con altri Comuni contermini con popolazione pari o inferiore a 1.000 abitanti mediante la costituzione, nell'ambito del territorio di una provincia, salvo quanto previsto dall'articolo 15 del presente decreto, dell'unione municipale”, disposizione superata dall'art. 19 del decreto-legge n. 95 del 2012, il quale prevede le “funzioni fondamentali” che dovranno necessariamente essere esercitate in forma associata dai Comuni fino a 5.000 abitanti (3.000 se si tratta di Comuni appartenenti o appartenuti a Comunità montane). Per un approfondimento sulla questione si rimanda alla prima parte di questa trattazione (Cap. III). 22 In particolare, nella Relazione viene specificato che la “dimensione territoriale ottimale e omogenea” viene individuata a seguito di un procedimento articolato in varie fasi: “innanzitutto sono individuate quattro macro aree sulla base di numerosi indicatori geografici, socio-economici, demografici”, (“macro aree” che sono rappresentate dall'area montana e parzialmente montana; area ad elevata urbanizzazione; area del basso Veneto e area del Veneto centrale) e, successivamente, viene predisposto il “piano di riordino territoriale”, evitando qualsiasi “soluzione di continuità con il presente e uno scollamento rispetto alla realtà territoriale nella quale i Comuni
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“le forme e le modalità per l'esercizio associato delle funzioni da parte dei Comuni” e, in terzo luogo, la “promozione ed il sostegno dell'esercizio in forma associata di funzioni e servizi comunali, nonché la fusione di Comuni”. Come è già stato detto, questo progetto è giunto ad approvazione e si è tradotto nella legge regionale 27 aprile 2012, n. 18 (“Disciplina dell'esercizio associato di funzioni e servizi comunali”). Si tratta di una legge con la quale la Regione “ha inteso dare avvio a un progetto complessivo di riordino territoriale”23, che, “oltre a garantire risultati in termini di efficienza ed economicità, sia armonico, funzionale al mantenimento e al miglioramento dei servizi assicurati a favore delle popolazioni di riferimento”24. insistono”. 23 Questo è quanto affermato nella lettera inviata dall'Assessore regionale agli enti locali, Roberto Ciambetti, ai Sindaci dei Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, a quelli dei Comuni montani con più di 3.000 abitanti, oltre che ai Presidenti delle Comunità montane, delle Province e delle Unioni di Comuni, in data 12 settembre 2012. Nella medesima lettera si osserva che malgrado “aderire al piano di riordino territoriale costituisca, per i Comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti in area montana o ai 5.000 negli altri territori, una mera facoltà, qualora tali Comuni ritenessero aderire, dovranno rispettare la tempistica e le disposizioni previste”, in modo da “non ingenerare ritardi e disarmonie”. Inoltre, si osserva che “ripensare il territorio veneto secondo una logica che privilegi le gestioni associate tra Comuni, prim'ancora che attuazione di un obbligo che riguarda alcuni Comuni, costituisce occasione per tutte le autonomie locali” ed “è per questo che si rivolge invito a tutti i Comuni a partecipare a quello che è un vero e proprio cambiamento epocale della geografia amministrativa veneta”. Parole sostanzialmente analoghe vengono espresse nella lettera, datata 11 settembre 2011, indirizzata ai Sindaci dei Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, a quelli dei Comuni montani fino a 3.000 abitanti (vale a dire i Comuni che, in base alla normativa statale, sono obbligati ad avviare le forme di gestione associata) e, ancora una volta, ai Presidenti delle Comunità montane, delle Province e delle Unioni dei Comuni, ove “si confida in una piena e fattiva collaborazione da parte dei Comuni in indirizzo ai quali spetta il compito di essere veri artefici all'interno di quel riordino territoriale, vero e proprio cambiamento epocale della geografia amministrativa veneta”. 24 Così si esprime il Dirigente regionale, Maurizio Gasparin, nella lettera inviata ai Sindaci dei Comuni veneti l'11 settembre 2012. Ivi si osserva che “la Regione Veneto ha inteso andare oltre la mera applicazione, nel proprio territorio, delle disposizioni che impongono obblighi di esercizio associato in maniera spesso non organica nel tempo e nello spazio, prevedendo, viceversa, un intervento organico che investa l'intero territorio regionale”, con la necessità, dunque, “di pensare a un riordino complessivo che, senza disconoscere l'autonomia dei Comuni, li coinvolga, pur in maniera differenziata, tutti”. Proprio per questo motivo si evidenzia che, malgrado per i Comuni
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Tuttavia, essa apre uno scenario molto negativo per le Comunità montane, in quanto scompare qualsiasi riferimento alle stesse, che vengono, addirittura, spogliate dall'esercizio in forma associata delle loro funzioni e servizi, a far data del 31 dicembre 2012. Così, infatti, recita l'art. 15: “I Comuni appartenenti a Comunità montane possono continuare ad esercitare in forma associata esclusivamente le funzioni e i servizi già conferiti, ai sensi dell'art. 27 del d. lgs. n. 267 del 2000 e della legge regionale 3 luglio 1992, n. 19 ʻNorme sull'istituzione e il funzionamento delle Comunità montaneʼ e successive modificazioni, entro e non oltre il 31 dicembre 2012. Decorso il termine di cui al comma 1 le funzioni e i servizi di cui al comma 1 sono esercitati dai Comuni o dalle eventuali forme associative cui gli stessi aderiscano”. L'inopportunità di questo intervento legislativo è evidenziata dal Presidente della “Spettabile Reggenza”, Lucio Spagnolo, secondo il quale esso comporterà la “necessità di trovare nuove strutture, con nuovi costi e un grosso problema anche per quanto riguarda il personale attualmente impiegato presso la Comunità montana, che non potrà confluire in questa nuova, ipotetica, struttura, dato il sussistente blocco delle assunzioni”. Ciò che traspare a Spagnolo è una “mancata visione d'insieme da parte dei responsabili della Regione, incapaci di comprendere le esigenze con popolazione superiore ai 5.000 abitanti (3.000 qualora si tratti di Comuni montani), non sia obbligatorio il ricorso a forme di gestione associata, esso appare “quanto mai opportuno al fine di realizzare un riordino complessivo della realtà territoriale veneta”. Peraltro, quest'ultimo punto è criticato dal Presidente della “Spettabile Reggenza”, Lucio Spagnolo, in quanto se i Comuni montani che superano la soglia dei 3.000 abitanti non hanno l'obbligo di aderire all'Unione montana, per i Comuni di piccole dimensioni la situazione si profilerebbe di difficile gestione laddove essi dovessero essere privati della “forza” dei Comuni più grandi.
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dei territori montani e i disagi della vita di montagna”. Egli si chiede, inoltre, come potranno i Comuni prendersi carico delle funzioni che erano svolte in forma associata dalla Comunità montana, che ora è destinata a sopravvivere solo quanto alle funzioni proprie, senza contare il tradizionale “campanilismo” sussistente tra i Comuni montani, compresi quelli altopianesi, che sarà di grosso ostacolo alla creazione di nuove forme di collaborazione tra gli stessi25. 2.4 La nuova legge regionale in materia di “Unioni montane”: quali prospettive per la “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”? Anche la Regione Veneto sembra aver preso atto dei dubbi insiti nella recente normativa e, il 7 agosto 2012, i consiglieri regionali 25
Questa l'opinione del Presidente, Lucio Spagnolo, intervistato sull'argomento da chi scrive. Peraltro, proprio questa situazione precaria ha indotto Spagnolo alla sofferta decisione di non “guidare più una Comunità montana senza certezze e senza prospettive”, che egli interpreta come “una mancanza di futuro anche per la montagna stessa”. Queste le motivazioni addotte dal dimissionario Presidente: “lascio perchè il Consiglio regionale non ha approvato una legge, stilata insieme alle montane e all'UNCEM, che obbligasse i Comuni ad associare i servizi delegandoli alle montane e che portasse i sindaci stessi nel Consiglio della Comunità montana, formando una sorta di c.d.a. territoriale. Al suo posto si è scelta la strada della lenta agonia, fino a quando le Comunità moriranno per mancanza di fondi e di entusiasmo. Lo Stato stesso ci considera un ente inutile, intanto in Veneto si continua a mantenere tutte le Comunità montane invece di investire su quelle vere; anzi, si impone che le montane restituiscano le deleghe ricevute dai Comuni entro il 31 dicembre”. Dunque egli “si chiama fuori”, esasperato dal fatto di aver vissuto la sua presidenza “trattato come un pezzente dalle istituzioni e come figura inutile per la mia gente, perchè non potevo garantire alcunchè a chi bussava alla mia porta” (le dichiarazioni di Spagnolo si possono ritrovare nell'articolo di G. RIGONI, “Spettabile Reggenza”: Spagnolo non ci sta più, in www.ilgiornaledivicenza.it, 27 giugno 2012). Posizione sull'argomento è stata assunta, sin dal 2010, anche da G.A. STELLA, il quale, nel suo articolo Taglia la montagna, in laderiva.corriere.it, 27 luglio 2010, osserva come la “Spettabile Reggenza” sia uno “straordinario esempio di democrazia dal basso. Dove la Comunità montana (con 9 persone, che oltre a fare tutti i progetti hanno messo su anche lo sportello unico per le imprese) gestisce 470 kmq (sette volte San Marino) di prati e foreste, otto Comuni per un totale di 60 frazioni, 392 km di strade, 86 malghe di alpeggio (il più grande bacino europeo) e l'immenso patrimonio storico della Grande Guerra, compresa la zona sacra dell'Ortigara. Un lavoro essenziale. Tanto più in anni in cui, via via che la faticosissima agricoltura di montagna viene abbandonata, i boschi stanno divorandosi il 6% l'anno di pascoli ed alpeggi”.
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Toniolo (primo firmatario), Bond, Reolon e Ruzzante, hanno sottoscritto un nuovo progetto di legge, il n. 289 (“Norme in materia di Unioni montane”), che è stato definito come una “ciambella di salvataggio” per le Comunità montane26. Nella Relazione introduttiva, dopo aver richiamato la sopra 26
Cfr. P. ERLE, Patto salva-enti. Le Comunità montane sono Unioni montane, in www.ilgiornaledivicenza.it, 29 luglio 2012. Parere negativo sulla questione viene manifestato dal Vicepresidente del Consiglio regionale, Matteo Toscani, secondo il quale le nuove Unioni non sono altro che le vecchie Comunità montane, che “cambiano nome” e nulla più. Secondo Toscani, inoltre, “il progetto solleva dubbi di costituzionalità: a che titolo si ʻcostringeʼ un Comune ad associarsi ad una Unione montana? Un pasticcio enorme” (cfr. M. DE' FRANCESCO, Unioni montane, la legge in Regione. La Lega: sono solo le vecchie Comunità, in corrieredelveneto.corriere.it, 07 agosto 2012. Va ricordato che, a seguito di alcuni emendamenti approvati, vale a dire quello che prevede l'istituzione del Consiglio delle autonomie montane, quello che “salva” la Comunità montana Belluno - Ponte nelle Alpi almeno per un anno e quello che prevede l'adesione volontaria delle Comunità montane alle nuove Unioni, anche Toscani e il suo partito, la Lega, ha approvato il progetto di legge in questione. Si veda in proposito A. VANZAN, Riecco le Comunità montane, in Il Gazzettino, 08 agosto 2012, 13 e F. TOS., La casta unita lega-pd-pdl riesuma le Unioni montane, in Il mattino di Padova, 08 agosto 2012, 8, ove si riporta il pensiero di Toscani: “Non è il testo che avrei voluto, né che avrebbe voluto il gruppo della Lega, ma rispetto alla proposta iniziale siamo riusciti ad introdurre importanti correzioni”). In termini analoghi si esprime anche il Consigliere regionale Diego Bottacin, secondo il quale con questo progetto si è aggirato l'obbligo di scioglimento delle Comunità montane previsto dalla legge regionale n. 18 del 2012, vanificando i passi fatti “verso il necessario sfoltimento della giungla istituzionale, che paralizza il funzionamento delle istituzioni del Veneto degi sprechi” (cfr. Comunicato stampa n. 1658 del Consiglio Regionale del Veneto, 07 agosto 2012). Molto critico è, infine, il giudizio espresso dal consigliere regionale dell'UDC, Stefano Valdegamberi, secondo il quale non vi è alcuna “semplificazione reale che garantisca un ottimale e razionale utilizzo delle risorse pubbliche”, dal momento che “si poteva cogliere l'occasione per ottimizzare il sistema istituzionale a livello locale semplicemente attribuendo le funzioni proprie delle Comunità montane alle forme associative tra Comuni come individuate da una recente legge regionale (il riferimento è alla legge n. 18 del 2012, sopra esaminata, n.d.r.), senza il bisogno di creare ulteriori enti” (cfr. Comunicato stampa n. 1807 del Consiglio Regionale del Veneto, 18 settembre 2012). Replicano, peraltro, Laura Puppato, capogruppo del Pd in Consiglio regionale, e il consigliere regionale Sergio Reolon, che “chi contesta questo progetto di legge è geograficamente e mentalmente lontano dai problemi che i Comuni di montagna vivono quotidianamente. Non si tratta di un cambio di nome, ma di vera trasformazione nelle funzioni a favore della gestione associata dei servizi, con più efficienza ed economicità. Abbiamo dato ascolto alla volontà dei Comuni”. Osservano gli stessi come con il progetto in questione sia stata bloccata “la proposta di Finozzi e della Lega di trasformare le Comunità montane in un ulteriore livello istituzionale”; esse, infatti “non vengono riesumate, ma viene bensì garantita la continuità dei servizi che da molto tempo erogano per conto dei Comuni”. Dunque, secondo Puppato e Reolon, “questo progetto di legge risponde fedelmente ad una situazione reale, con ambiti territoriali che già lavorano assieme su ambiti di servizio pubblico essenziali come i trasporti, il catasto, la Protezione civile, i rifiuti, l'edilizia scolastica, la Polizia municipale, cui si è aggiunta la promozione del territorio e del
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esaminata legge n. 18 del 2012, si riconosce che “i territori montani sono caratterizzati da una serie di specificità” che devono essere, necessariamente, prese in considerazione nella definizione del quadro istituzionale; inoltre, appare impensabile che per i Comuni montani, “poco abitati, molto estesi e geograficamente isolati”, valgano le stesse regole previste per “l'assai urbanizzata pianura veneta”. Ecco perchè, con questa nuova proposta, si vuole “incentivare l'esercizio associato delle funzioni”, valorizzando la “consolidata esperienza delle Comunità montane”, in modo da “costruire sul loro ambito territoriale le zone omogenee per l'esercizio associato delle funzioni e dei servizi compreso l'esercizio associato obbligatorio di funzioni fondamentali”27. A tal fine, il progetto prevede un processo evolutivo per le Comunità montane, trasformate in “Unioni montane”, che mantengono la delimitazione territoriale delle prime e che divengono delle “Unioni di Comuni caratterizzate da elementi di specificità”, quali la “estrema frammentazione” ed il “sottodimensionamento dei Comuni, anche in relazione alle diverse specificità morfologiche”. Esse, in sostanza, avranno una “duplice valenza: in primo luogo rispettare le prescrizioni legislative, in seconda battuta preservare il patrimonio di esperienze e professionalità delle Comunità montane stesse”28. turismo”. (cfr. Comunicato stampa n. 1662 del Consiglio Regionale del Veneto, 07 agosto 2012). 27 Si ricorda, nella Relazione, infatti, come la Regione non abbia perso la competenza legislativa in tema di Comunità montane che, anzi, è stata ribadita delle sentt. n. 244 del 2005 e n. 27 del 2010, esaminate nella prima parte di questa trattazione (Cap. II). 28 Così si esprime il Consigliere regionale Costantino Toniolo, secondo il quale “non ci sarà nessuna ripercussione né sul piano occupazionale né su quello dell'erogazione dei servizi ai Comuni associati e ai cittadini” (cfr. P. ERLE, Patto salva-enti. Le Comunità montane sono Unioni montane, cit.).
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La novità più importante è rappresentanta dall'istituzione del “Consiglio delle autonomie montane”, previsto dall'art. 6, che avrà lo scopo di monitorare la “attuazione degli interventi nelle aree montane” e di “svolgere funzioni concertative e consultive sui disegni di legge e sugli atti generali di programmazione afferenti la montagna”29. Inoltre, vengono previsti anche dei “meccanismi di flessibilità”, quali la possibilità per i Comuni confinanti con Comunità montane di “partecipare alla corrispondente Unione montana” (art. 3, comma 3); la possibilità per i Comuni di “aderire ad una Unione montana il cui territorio sia confinante con quello cui il Comune apparterrebbe ai sensi del comma 1” (art. 3, comma 4); la possibilità, per la Giunta regionale, su proposta dei Comuni già appartenenti ad una Comunità montana, di modificare “la delimitazione territoriale” iniziale e, infine, la facoltà, per i Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, di “uscire dall'Unione montana entro un anno dall'entrata in vigore della legge”. Saltano subito all'occhio le evidenti analogie col progetto di legge n. 238, presentato ancora nel febbraio 2012. Lo stesso Assessore regionale Marino Finozzi afferma che “alcuni contenuti sono, anzi, scopiazzati”, pertanto, e a maggior ragione, il percorso legislativo può e deve essere breve, anche se “il confronto istituzionale può accelerare ma non conculcare, perchè in questo modo si rischia di raffazzonare degli articoli e dei temi in nome di personalismi ed esigenze politiche diverse 29
Ai sensi dell'art. 6 del progetto di legge, il c.d. “parlamentino d'altura” (questo l'ironico appellativo usato per definire il nuovo organo in G. PISTELLI, Grosse koalition in salsa veneta, in Italiaoggi, 09 agosto 2012, 7, ove si allude al fatto che esso, secondo l'Autore, non farà altro che creare nuove “poltrone”), sarà composto dal Presidente della Giunta regionale (o un Assessore da lui delegato), dai Presidenti delle Comunità montane e delle Province nei cui territorio sono compresi i Comuni montani, dai Presidenti dei consorzi dei bacini imbriferi montani e, infine, dai Presidenti delle Camere di commercio nel tui territorio insistono i Comuni montani.
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da quelle che invece devono costruire il nuovo quadro di riferimento per l'autogoverno della montagna, che è un terzo dell'intero territorio veneto e alla quale la Giunta dà la massima considerazione”30. Dunque, la nuova legge “potrà essere utile a far tornare protagonista la montagna”31 e, come affermato da Dario Bond e Sergio Reolon (rispettivamente, capogruppo del Pdl e consigliere del Pd per la Regione Veneto), “le Unioni montane, da un lato andranno a preservare le professionalità delle attuali Comunità montane, dall'altro offriranno supporto ai Comuni che devono fare i conti con le nuove leggi in materia di servizi e funzioni associate”32. Il Consiglio regionale ha, dopo una lunga discussione, approvato la legge, in data 19 settembre33. Essa consentirà alle Unioni di diventare “ʻil Comune dei Comuni montaniʼ e nello stesso tempo la loro cabina di regia”, dal momento che, ai sensi dell'art. 19, comma terzo, del decreto-legge n. 95 del 2012, esse potranno “esercitare anche le specifiche competenze di tutela e di promozione della montagna attribuite in attuazione dell'art. 44, secondo comma, della Costituzione e delle leggi in favore dei territori montani”34. 30
Così si esprime l'Assessore nell'articolo La giunta Zaia va in aiuto alle Comunità montane, in www.ilgiornaledivicenza.it, 2 agosto 2012. Anche il consigliere regionale Costantino Toniolo è concorde circa l'esigenza di procedere celermente, “non certo per salvare le Comunità montane ma per mantenere vivi quei servizi indispensabili, come la raccolta rifiuti o gli uffici tecnici, offerti alla popolazione e alle aziende locali in territori resi ancora più fragili dalla crisi” (cfr., P. ERLE, Evitata la frattura tra PDL e Lega: ecco le Unioni montane, in www.ilgiornaledivicenza.it, 08 agosto 2012). 31 Così si esprime il giornalista e scrittore, nonché membro della Fondazione “Montagna e Europa” Arnaldo Coleselli, Maurizio Busatta, intervistato sull'argomento da chi scrive. 32 Cfr. Comunicato stampa n. 1660 del Consiglio Regionale del Veneto, 7 agosto 2012. Bond e Reolon proseguono osservando che “con il nuovo testo si va a fare chiarezza su un settore da anni contrassegnato da una certa precarietà”. 33 Si tratta della legge regionale n. 40 del 28 settembre 2012 (BUR n. 82 del 05 ottobre 2012). 34 In tal senso, M. BUSATTA, Sì alla legge sulle Unioni montane, in L'Amico del Popolo, 21 settembre 2012, 3. In particolare, per un approfondimento circa quanto statuito dall'art. 19 cit., si
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Merita di essere segnalata la particolare attenzione che il Consiglio regionale ha dedicato all'argomento. Infatti, i vari interventi che si sono susseguiti sul tema, con sfumature diverse, ne hanno sottolineato chi l'importanza chi l'inadeguatezza ma, comunque, con un approccio aperto alle aspettative dei territori35. Nel dettaglio, secondo il vicepresidente del Consiglio regionale, Matteo Toscani, “era un dovere della Regione Veneto approvare una legge che va a colmare il vuoto legislativo sulle Comunità montane e che scongiura il pericolo di un salto all'indietro di quarant'anni”, considerato anche che “la montagna parte da un'esperienza consolidata e, forse per la prima volta, si trova un passo avanti rispetto alla pianura”, in quanto la gestione associata dei servizi e delle funzioni è una “prassi consolidata nelle terre alte, proprio grazie all'esperienza dalle Comunità montane”, le quali “almeno nella realtà veneta e bellunese, si occupano di servizi che i piccoli Comuni, soprattutto a causa della carenza di personale e di risorse, non riuscirebbero a gestire da soli”. Secondo Toscani, sono da evidenziare due aspetti positivi della legge: il primo è rappresentato dalla discrezionalità dei Comuni di aderire o meno all'Unione, in modo che non vi sia alcuna “imposizione dall'alto, che sarebbe stata non solo inopportuna ma sicuramente anche illegittima”; il secondo è, invece, dato dall'istituzione del “Consiglio delle autonomie montane”, la cui composizione e funzioni sono state sopra illustrate36. Infine, Toscani rimanda alla prima parte di questa trattazione (Cap. III, § 3.4). 35 Cfr. M. BUSATTA, Sì alla legge sulle Unioni montane, cit. 36 In particolare, come osservato da M. BUSATTA, Sì alla legge sulle Unioni montane, cit., il Consiglio delle autonomie montane “diventa un tavolo ʻpermanenteʼ di concertazione e consultazione”. Peraltro, il Dott. Busatta (intervistato sull'argomento da chi scrive), non manca di rilevare un aspetto negativo nella definizione di questo nuovo organo, dal momento che allo stesso “non è riconosciuta la funzione essenziale di poter essere anche ʻorgano di raccordoʼ fra gli enti
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sottolinea un altro aspetto di notevole importanza, vale a dire che, in relazione a questi nuovi enti, non si potrà parlare di una nuova “casta”, dal momento che gli amministratori saranno dei “volontari che dedicano il loro tempo per la comunità”37. Commenti favorevoli in merito alla legge sono stati espressi anche dal consigliere Dario Bond, secondo il quale non era pensabile “disperdere un patrimonio come quello delle Comunità montane, soprattutto in un momento in cui le genti di montagna chiedono maggiore autonomia e possibilità di autogoverno” e che sottolinea come “non ci sarà nessuna ripercussione né sul piano occupazionale né su quello dell'erogazione dei servizi ai Comuni associati e ai cittadini”38. Infine, soddisfazione è stata manifestata dal relatore, Costantino Toniolo, il quale ha ribadito che si è di fronte ad una “svolta epocale”, “le Unioni non saranno carrozzoni, ma enti che funzionano a costo zero” e consentiranno di “fornire un quadro istituzionale per la montagna”39 e favorevole è, anche, il parere del Presidente di UNCEM Veneto, Ennio Vigne, secondo il quale “si tratta di un passaggio importante, che attendevamo dal 2007. Come UNCEM abbiamo lavorato in accordo con locali e la montagna”, come, invece, era previsto nella proposta originaria (si ricorda che in data 18 aprile 2012 è stato presentato, anche se poi accantonato, il progetto di legge n. 262, ai sensi del cui art. 15, comma secondo, il Consiglio delle autonomie montane svolge “un ruolo di razionalizzazione e coordinamento nel rapporto di collaborazione tra enti locali montani e strutture regionali, anche quale organo di raccordo degli stessi”). 37 Le dichiarazioni del consigliere Toscani sono riportate nel Comunicato stampa n. 1827 del Consiglio regionale del Veneto, 19 settembre 2012. 38 Per le dichiarazioni di Bond si veda il Comunicato stampa n. 1829 del Consiglio regionale del Veneto, 19 settembre 2012. 39 Cfr. AL. A., Una legge salva le Comunità montane. I contrari accusano: “poltronificio”, in corrieredelveneto.corriere.it, 20 settembre 2012. In proposito si veda anche G. RIGONI, La “nuova” Comunità montana accende gli animi in Altopiano, in Il Giornale di Vicenza, 26 settembre 2012, 38, ove il consigliere Toniolo ribadisce come si tratti di “una grande riforma”, che dà “una spinta ai Comuni montani perchè si associno”.
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la Regione per non disperdere il patrimonio prezioso delle Comunità montane e del lavoro svolto fin qui soprattutto nell'ambito dei servizi associati, su cui gli enti montani erano già operativi. Si configura adesso un assetto stabile del territorio, condizione necessaria al suo sviluppo e alla sua crescita”40. Non sono mancate le critiche, anche piuttosto pesanti, da parte di altri consiglieri, come Stefano Valdegamberi, a parere del quale “il Consiglio ha perso una grande occasione di semplificazione”, in quanto si potevano avere “meno strutture e più servizi” mentre, invece, “gli enti veneti aumenteranno di numero”41. In termini analoghi si sono espressi Diego Bottacin, Mariangelo Foggiato e Pietrangelo Pettenò, secondo i quali è stata approvata una “legge truffa che in modo furbesco si limita a cambiare nome ad un ente abolito sia con legge nazionale, che con legge regionale”42. In particolare, le voci dissenzienti sono ben riassunte nella Relazione di minoranza della Prima Commissione consiliare, ove si afferma che la legge in questione nasconde “ben altri fini se non quelli di mantenere in vita le Comunità montane e i loro organi rappresentativi”, in quanto la ratio, in realtà, è quella di “creare ulteriori poltrone per politici che non trovano collocazione in altre sedi”. Essa è considerata come una sorta di “spending review al contrario”, oltre al fatto che non collima con il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, “in quanto, lungi da 40
In proposito si veda l'articolo Veneto: Consiglio regionale approva legge su Unioni di Comuni montani, in www.uncem.it/copertine, 20 settembre 2012. 41 Le dichiarazioni di Valdegamberi sono state riportate in AL. A., Una legge salva le Comunità montane, cit. 42 Cfr. R. BASSAN, Comunità montane, cura dimagrante, in www.ilgiornaledivicenza.it, 20 settembre 2012. Ivi si riportano anche le dichiarazioni del consigliere Gustavo Franchetto, secondo il quale la legge conferma la volontà della Regione che “tutto cambi, perchè nulla cambi”.
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attuare risparmi di spesa, punta a mantenere delle strutture che non trovano giustificazione se non quella di creare posti per politici che altrimenti non saprebbero dove andare”, con la conseguenza che, invece di fare un passo avanti, se ne fa uno indietro, “ottenendo in concreto soltanto la restaurazione di strutture di nomina politica i cui costi ricadono sempre sulla collettività”. La critica più accesa rilevata in Consiglio, riguarda il fatto che, secondo gli oppositori, si tratta di una legge ritagliata su misura per il territorio bellunese, “dove le Unioni di Comuni si fanno di fatto fra Paesi di valle” ma esse non hanno senso “in Lessinia o sulla montagna vicentina”, poiché, occorre ricordare, che “le specificità non possono essere le stesse su territori che vanno dalla Val d'Adige alla Val d'Alpone: si tratta di dimensioni e di caratteristiche che non sono affatto funzionali ed omogenee”. Inoltre, è stato rilevato che, con la nuova disciplina, si potrebbe venire a creare una situazione per cui “un Sindaco si trovi all'opposizione nell'Unione e un suo consigliere di minoranza abbia deleghe per bilancio e urbanistica perchè la maggioranza dell'Unione è del suo stesso colore politico”, con la conseguenza che risulterebbe quantomeno difficoltosa l'amministrazione del Comune. Su questo aspetto verte uno dei pochi emendamenti approvati, che riguarda l'art. 7, in base al quale i Comuni non saranno obbligati a far parte dell'Unione, dal momento che si potranno creare più Unioni omogenee, a condizione che la popolazione di ciascuna di esse non scenda sotto la soglia dei 5.000 abitanti43. 43
In proposito si veda V. ZAMBALDO, Dalle ceneri delle Comunità rinascono le Unioni montane, in www.larena.it, 20 settembre 2012.
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Ora, sarà compito della Giunta, entro 60 giorni dall'approvazione della legge, sancire le modalità e i tempi di istituzione delle Unioni montane. Entro 90 giorni, invece, i Consigli comunali dovranno eleggere i consiglieri delegati all'Unione che, dunque, sarà attiva a partire dal prossimo anno. Per quanto riguarda, nello specifico, l'Altopiano di Asiago, da un'analisi della legge compiuta insieme al Presidente, Lucio Spagnolo, al Segretario, Gianni Ceccon e al Responsabile dell'Ufficio Piani e Programmi, Giuseppe Fincati44, non è emerso un netto consenso nei confronti della nuova legge: certo, almeno è stata scongiurata l'ipotesi di cessazione dall'esercizio delle funzioni e servizi in forma associata al 31 dicembre prossimo (prevista, come si è già detto, dall'art. 15 della legge n. 18 del 2012) ma sussistono alcuni punti che non sono affatto visti con favore e, altresì, alcuni dubbi interpretativi che occorrerà sciogliere se si vorrà capire quale sarà il futuro per questo territorio45. Innanzitutto, non è vista positivamente la possibilità, entro un anno, 44
Intervistati sull'argomento in data 25 e 27 settembre 2012. Secondo Spagnolo si tratta di una legge “che va nella giusta direzione ma che non è quella giusta”. In proposito si veda G. RIGONI, La nuova Comunità montana accende gli animi in Altopiano, cit., ove vengono riportate le dichiarazioni del Sindaco di Asiago, Andrea Gios, e del Presidente della Comunità montana, Spagnolo. Secondo il primo (che, si ricorda, essere il Sindaco dell'unico Comune altopianese che, avendo più di 5.000 abitanti, non è obbligato alla gestione associata dei servizi), la Giunta asiaghese ha “sempre dato piena disponibilità a strutturare servizi unici per tutto l'Altopiano”. Tuttavia, egli nota “nel mantenimento dei tre consiglieri per Comune, così come nel numero delle Unioni”, una “mancanza di coraggio che non favorisce decisioni rapide e quel dinamismo prezioso per non perdere altro tempo”. Spagnolo pare condividere tale posizione, il quale sottolinea come il d.d.l. n. 238 del 2011 “era quello voluto dalla montagna ed invece ci troviamo con una legge voluta dalla politica”. Inoltre, anch'egli esprime il suo rammarico nel fatto che “non ci sia stato il coraggio di ridurre i consiglieri”, fattore che determinerà grossi problemi nel finanziamento delle Unioni, che si spera non sia rappresentato da “briciole, anche se qualcuno rimarca che saranno enti a costo zero”. In senso analogo si veda anche G. RIGONI, Le Comunità montane diventano Unioni di Comuni. Spagnolo critica: “Opportunità o occasione mancata?”, in L'Altopiano, 29 settembre 2012, 3, ove si osserva che “la legge trasforma le Comunità montane in Unioni di Comuni montani ma il resto rimane così com'è; non si assegnano precise competenze, non si determina come finanziare queste Unioni, non si riducono né il numero di montane né il numero di consiglieri”. 45
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per i Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti di uscire dall'Unione: secondo Spagnolo si tratta “dell'ennesimo anno di stand-by e non è su queste basi che si costruisce un'Unione”, per la quale risultava più opportuno non prevedere scappatoie. In secondo luogo, criticata è anche la composizione del Consiglio dell'Unione di cui all'art. 4, comma secondo: secondo Spagnolo sarebbe stato preferibile optare per un Consiglio rappresentato dall'assemblea dei Sindaci in quanto, prevedere che esso sia formato da tre membri per Comune porta a situazioni paradossali, come quella che i diciotto Comuni della Comunità montana della Lessinia si troveranno ad avere un Consiglio composto da ben 54 membri, vale a dire un numero quasi pari a quello del Consiglio regionale del Veneto (formato da sessanta consiglieri)! Inoltre, si rileva come sarebbe stato opportuno eliminare alcune Comunità montane che di “montano” hanno poco o nulla e che costringono a frazionare eccessivamente le risorse finanziarie, che finiscono con l'essere troppo esigue per poter portare avanti una gestione efficace. Questione cruciale è, poi, quella della delimitazione degli ambiti territoriali delle istituende Unioni. Infatti, si deve tener conto di una situazione che da qualche tempo si è manifestata in Altopiano, la cui parte est (cioè, i Comuni di Enego e Foza), sembra volersi affrancare dal resto del territorio46. Di conseguenza, si possono ventilare due ipotesi: la prima, e più auspicabile, è rappresentata dalla creazione di un'unica Unione montana, 46
Infatti, tali due Comuni, assieme al vicino Comune di Gallio, già da qualche tempo hanno avviato una gestione associata di servizi, attraverso una convenzione. Quindi, non è escluso che essi possano formulare una propria, autonoma, proposta aggregativa.
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comprendente gli otto Comuni altopianesi. Si tratterebbe della soluzione ottimale, che consentirebbe un notevole risparmio dei costi e garantirebbe, altresì, una maggiore omogeneità nella qualità dei servizi che, attualmente, sono gestiti autonomamente da ogni singolo Comune. Tuttavia, come anticipato, non si può escludere una seconda ipotesi, vale a dire la creazione di due, o anche più, Unioni, malgrado gli stessi amministratori altopianesi non vedano di buon occhio un simile scenario che, peraltro, andrebbe in direzione radicalmente opposta rispetto a quella tracciata dal decreto-legge n. 95 del 2012 (c.d. Spending review), il quale impone una gestione associata delle funzioni e dei servizi, proprio al fine di contenere il più possibile la spesa pubblica. Costituire
una
pluralità
di
Unioni
avrebbe, infatti, delle
conseguenze palesemente negative, dal momento che si tradurrebbe in una duplicazione di enti, di organi e di funzioni, con un inevitabile aumento dei costi di gestione. Senza contare l'ulteriore problema della ripartizione dei rapporti attivi e passivi, attualmente, in capo alla Comunità montana: sarebbe difficile individuare il criterio in base al quale effettuare tale ripartizione e si verrebbe a creare una situazione caotica e di ardua governabilità47. Non resta che attendere la formulazione delle proposte aggregative da parte dei Comuni, anche se non si può negare che si poteva arrivare decisamente più preparati a questa svolta istituzionale: è stato, infatti, rilevato come, di fronte a quella che è, come si sa ormai da tempo, una 47
Come rilevato da Spagnolo, ulteriore e non marginale problema che deriverebbe dalla creazione di una pluralità di Unioni nel territorio altopianese è rapprsentato dal censuario: ci sono Comuni che hanno delle proprietà dislocate in territori diametralmente opposti rispetto quella che è la collocazione del Comune stesso, con la conseguenza che, se non si creasse un'unica Unione, sorgerebbero delle difficoltà nella gestione del territorio non indifferenti.
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scelta obbligata, vi sia la tendenza a “ignorare il problema”, facendo prevalere il “campanilismo” che caratterizza i Comuni altopianesi, con la conseguente tendenza di ognuno a “pensare per sè”, in un'ottica radicalmente opposta rispetto quella associativa. Tuttavia, occorre prendere atto che i tempi sono cambiati, la grave crisi finanziaria che stiamo vivendo impone un cambio di sistema e i Comuni dovranno svolgere la loro parte.
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CONCLUSIONI Un nuovo scenario si è aperto, dunque, per le Comunità montane, in particolare per quelle venete, tra cui quella alla quale si è voluta dedicare un'attenzione particolare: la “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, dell'Altopiano di Asiago. Come si è visto, la situazione per gli enti montani è risultata drammatica fino alla legge 14 settembre 2011, n. 148 (c.d. Manovra bis). Infatti, prima, la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) ha imposto un riordino delle Comunità montane, che si risolveva, nell'ottica del legislatore, nella soppressione di gran parte di esse, in virtù di una legge nazionale che, sostanzialmente, ha svuotato la competenza del legislatore regionale in materia. Poi, la legge 23 dicembre 2009, n. 191 ha previsto la cessazione del finanziamento delle Comunità montane da parte dello Stato; infine, l'art. 16 della legge 14 settembre 2011, n. 148 (c.d. Manovra bis) ha disposto l'obbligatoria adesione per i Comuni fino a 1.000 abitanti (in gran parte montani) alle “Unioni di Comuni”, privandoli, dunque, della loro autonomia di bilancio, con un approccio basato esclusivamente su criteri demografici e che, come affermato dal Presidente di UNCEM Piemonte (Regione che vanta ben 609 Comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti, su un totale di 1.964 presenti sul territorio nazionale), non ha tenuto in considerazione “le reali aree geografiche e la conformità territoriale”. Se la situazione è migliorata per i territori montani lo si deve,
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come si è potuto osservare nel corso della trattazione, in primo luogo, a due pronunce fondamentali della Corte costituzionale. Questa, infatti, con la sentenza n. 237 del 2009, ha considerato, in sintesi, legittimo il riordino delle Comunità montane imposto dalla legge n. 244 del 2007, ma non il previsto potere sostitutivosanzionatorio dello Stato, lesivo delle competenze e dell'autonomia, costituzionalmente garantite, delle Regioni. Con la sentenza n. 326 del 2010, invece, il Giudice delle leggi è stato chiamato a pronunciarsi circa la legge n. 191 del 2009 e ha dichiarato
l'irragionevolezza
insita
nella
cancellazione
del
finanziamento statale delle Comunità montane, dal momento che, come affermato dalla Corte, in questo modo, non è stata assicurata copertura
finanziaria
agli
investimenti
effettuati
grazie
alla
stipulazione di mutui in origine “garantiti” dal finanziamento statale. Infine, intervento di fondamentale importanza per la montagna è stato rappresentato dalla legge 07 agosto 2012, n. 135, di conversione del decreto-legge n. 95 del 2012 (la, ormai celeberrima, Spending review), che ha gettato le basi per disegnare le Comunità montane del futuro, le Unioni montane, attraverso le quali si potranno esercitare le “specifiche competenze di tutela e di promozione della montagna attribuite in attuazione dell'art. 44, secondo comma, Cost. e delle leggi in favore dei territori montani” (art. 19, comma terzo). Ne è risultato, dunque, un rafforzamento dell'autogoverno della montagna, con l'occasione per, innanzi tutto, far tornare la montagna ad avere un ruolo di primo piano nella politica nazionale e regionale e,
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in secondo luogo, per dare la possibilità agli amministratori di far sì che alle Comunità montane non venga più accostato l'epiteto di “carrozzoni”. La strada è, tuttavia, ancora lunga, dal momento che, come osservato dal Responsabile Area Piccoli Comuni dell'ANCI, non si può ancora affermare di essere in presenza di una normativa organica e razionale, poiché l'approccio del legislatore è ancora quello di considerare l'eccessivo numero di piccoli Comuni come l'origine di tutti i mali del Paese, puntando quindi al loro accorpamento, malgrado i dati dimostrino come esso non abbia mai generato un risparmio davvero considerevole. Per quanto riguarda il Veneto e, in particolare, l'Altopiano di Asiago, come si è visto, il 19 settembre scorso è stato compiuto il primo passo verso la rinascita degli enti montani, attraverso l'emanazione di una legge regionale che, sebbene rappresenti una disciplina “transitoria, in attesa di una legge generale sui territori montani”, ha scongiurato gli effetti della precedente n. 18 del 2012, in virtù della quale la consolidata esperienza delle Comunità montane avrebbe dovuto cessare al 31 dicembre prossimo. Le Comunità montane assumeranno, dunque, la forma delle “Unioni montane”, con una legge che, fermi restando i dubbi e le perplessità di cui è stato dato conto nella parte finale della trattazione, di
fatto
ha
rappresentato,
comunque,
la
presa
d'atto
dell'imprenscindibilità di un ente a tutela dei territori montani, di cui sono state, finalmente, riconosciute le specificità e le esigenze di
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tutela. Come si è visto, in merito a questo nuovo intervento, la discussione è ancora molto accesa e le posizioni discordanti. In ogni caso, si confida nel fatto che il legislatore regionale non sia stato mosso da un intento di mantenimento dello status quo, com'è stato affermato dagli oppositori, ma che, al contrario, egli abbia agito in un'ottica di rinnovamento istituzionale, che la montagna da tempo reclamava. Come si è potuto osservare, una certa insoddisfazione in merito alla nuova disciplina è emersa dal confronto con gli amministratori della “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, che hanno evidenziato, in primo luogo, il difficile coordinamento di questa legge con quanto previsto dalla c.d. Spending review. In secondo luogo, i potenziali effetti deleteri che si potrebbero realizzare laddove venissero istituite una pluralità di Unioni in seno ad un territorio come quello altopianese (come pare consentito dalla neo approvata normativa) e, in terzo luogo, l'irragionevolezza insita nella composizione del Consiglio dell'Unione e nella previsione di quella “scappatoia” rappresentata dalla possibilità, per i Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti, di uscire dall'Unione entro un anno dall'approvazione della legge. Al momento, come si è detto, si possono avanzare solamente delle ipotesi in merito a quanto potrà accadere in applicazione della nuova legge, dal momento che occorrerà attendere, quantomeno, la formulazione delle proposte aggregative da parte dei Comuni.
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In ogni caso, certo è che gli amministratori montani altopianesi sono chiamati, ancora una volta, a dare conferma della loro tenacia e abilità nell'amministrare territori di cui, con la nuova legge regionale, è stata riconosciuta la specificità, superando i “campanilismi” e sperimentando un associazionismo finora agli stessi praticamente sconosciuto, nella speranza che essi non vengano, tuttavia, lasciati soli. Come detto, la strada è ancora lunga ma, almeno, come affermato dal Presidente della “Spettabile Reggenza”, la direzione presa è quella giusta. Ora si può discorrere di un “futuro” per le Comunità montane (o meglio, Unioni montane) e alla montagna è garantita la rappresentanza che merita, nella convinzione che essa molto abbia ancora da offrire e nella speranza che, con il necessario supporto delle istituzioni regionali e nazionali, i nuovi enti sappiano cogliere questa nuova chance per dimostrarlo. Al termine di questo lungo lavoro, ci si può essere chiesti se un tassello fondamentale nella valorizzazione della montagna (“quella vera”, per usare le parole di Gian Antonio Stella), non sia quello di dare una nuova e più attuale definizione di “montanità” (che, come si è visto, risale ancora agli anni '50), tale da scongiurare nuove ipotesi di Unioni montane in riva al mare e nuove “caste”. Si tratta di un aspetto di cui si è discusso, come si è osservato anche nel corso della trattazione, ma che non è stato preso in considerazione nelle normative che si sono susseguite nel corso degli
199
anni, pur essendo decisivo. I parametri presi a riferimento per la costituzione delle ComunitĂ montane, infatti, hanno contribuito in maniera notevole a far sorgere i molteplici abusi che si sono riscontrati e, forse, una loro correzione, potrebbe portare vantaggi di non poco conto, dal momento che risulterebbero automaticamente eliminate quelle ComunitĂ montane (ora Unioni montane) che di montano hanno poco se non addirittura nulla, con un notevole risparmio dei costi e con la possibilitĂ di riservare le risorse ai territori che, effettivamente, ne hanno bisogno.
200
APPENDICE
a) LE COMUNITÁ MONTANE IN ITALIA
Fonte: ANCI
203
b) LE COMUNITÁ MONTANE IN VENETO
Fonte: ANCI
204
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Le
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Comunità nell'azione
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continuità
(documento
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RINGRAZIAMENTI
Al termine di questo lungo percorso desidero ringraziare, innanzitutto, il Prof. Mario Bertolissi, persona di rara competenza e umiltà, che ho stimato fin dalla prima lezione di Diritto costituzionale, nell'ormai lontano 2006. Voglio esprimere la mia gratitudine anche alle persone che mi sono state di ausilio nella stesura di questo lavoro: in primis, la Dott.sa Silvia Muttoni, che con infinita pazienza mi ha seguita in tutti questi mesi; poi, il personale UNCEM e ANCI, Marco Bussone, di UNCEM Piemonte, e Maurizio Busatta, direttore del quotidiano bellunese “L'amico del popolo”, per avermi fornito materiale e informazioni utilissime. Un sentito ringraziamento va ad un caro amico, Michele Allegrini, per le cartografie in appendice, a Giancarlo Bortoli, per il resoconto storico, e a Gianni Ceccon, Giuseppe Fincati e Lucio Spagnolo della “Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, per l'interessamento, l'aiuto e la disponibilità dimostratami. Grazie anche alle mie coinquiline, Giorgia, Giulia e Monica, per aver condiviso con me quattro anni di cui conserverò per sempre un meraviglioso ricordo. Last but not least, grazie a tutti coloro che festeggeranno con me questo importante traguardo e, in particolare, ai miei genitori, per l'aiuto morale (ed economico!); a Mauro, per avermi sostenuta, anche e soprattutto nei momenti di sconforto, riuscendo sempre a farmi
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tornare il sorriso, e alla mia migliore amica, Erika, che c'è sempre stata e so che sempre ci sarà . Vi voglio bene.
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