UniResearch 2

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UniResearch 2 Forschung an Der FreieN Universität Bozen Fare ricerca alla Libera Università di Bolzano



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Neue Forscher, neue Forschung Nuova ricerca, nuovi ricercatori Weltweit stehen Universitäten heutzutage untrennbar im Wettbewerb um Studierende wie um Forschungsmittel. Nur wer die besten Professorinnen und Professoren anwerben und verpflichten kann, erlangt als moderne Universität Exzellenz in Forschung und Lehre. Diversamente da un ateneo maturo, una giovane università deve definire chiaramente il suo profilo, ovvero le competenze che la contraddistinguono, in modo da essere competitiva e attraente per potenziali studenti. Solo incanalando le risorse umane e materiali disponibili nello sviluppo di queste competenze una giovane università può acquisire visibilità internazionale. Per la Libera Università di Bolzano questo compito è reso più complicato da due fattori: innanzitutto si tratta di un Ateneo di piccole dimensioni, come è tipico per le università fondate da poco ovunque nel mondo e, in secondo luogo, la tradizione accademica italiana, classificando i professori e le materie in settori scientifici e richiedendo che ogni professore insegni solo materie appartenenti al proprio settore scientifico piuttosto che materie relative al suo profilo di ricerca, favorisce implicitamente grandi atenei che offrono un più alto numero di corsi di studio. Last year the Free University of Bozen-Bolzano initiated to move towards creating a clear cut hull for it research activities. This is an evolutionary process implying continuous adjustment to the changing environment of political, economic and other factors. Having a clear goal but, as it is typical for an adaptation process, no predetermining time span, it is driven by internal as well as external forces. Besonders zwei interne Neuheiten sollten hervorgehoben werden: Zum einen hat jede der fünf Fakultäten im vergangenen Jahr ihre Forschungsschwerpunkte definiert. Dementsprechend werden künftig alle Berufungen und internen Karrieren von Professoren als auch die Einrichtung oder Veränderungen von Studiengängen auf ihre Konsistenz hinsichtlich dieser gesetzten Forschungsschwerpunkte überprüft. Die Ressourcen der Freien Universität Bozen konzentrieren sich demnach ausschließlich in Richtung dieser vordefinierten Bereiche.


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Als zweite Maßnahme wurde 2011 jeder Fakultät eine Mentoringgruppe als Instrument der internen Steuerung zur Seite gestellt. Diese besteht aus je drei renommierten Professoren, darunter stets einer der italienischen Universitätswelt zugehörig, sowie einem Mitglied der Südtiroler Wirtschaft. Diese Mentoren haben beratende Funktion bei Berufungen und internen Karrieren von Professoren als auch bei der Entwicklung neuer Studiengänge und bei der Schärfung des Forschungsprofils der jeweiligen Fakultät. Le forze esterne differiscono per il loro agire a diversi livelli di gerarchia. Al livello più alto, il Framework Programme for research and innovation “Horizon 2020” dell’Unione Europea stabilisce le priorità della ricerca per i prossimi otto anni. A livello nazionale la cosiddetta riforma Gelmini ha creato condizioni più rigorose per il futuro sviluppo dell’università italiana. L’ANVUR (Agenzia di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) è pensato come strumento per rendere efficiente l’accademia italiana. Una pietra miliare di questo processo, che intende dare forma al mondo della ricerca, sarà la valutazione nazionale delle attività di ricerca da parte dell’ANVUR, un processo che è già in atto. Tra le forze che a livello locale influiscono sul profilo accademico della Libera Università di Bolzano, le più importanti sono le istituzioni di ricerca presenti in provincia di Bolzano, specialmente le più grandi: EURAC e il Centro di sperimentazione agraria e forestale di Laimburg. Diese Broschüre vermittelt einen wesentlichen Einblick in Forschungsergebnisse unserer Professoren und Forscher der vergangenen zwei Jahre seit Erscheinen der ersten UniResearch-Broschüre im Jahr 2010.

Prof. Yuriy Kaniovskyi Prorektor für Forschung

Prof. Walter Lorenz Rettore

Prof. Konrad Bergmeister President

An der Freien Universität Bozen wird hauptsächlich dank Drittmitteln geforscht. 2009 bis 2011 betrug die Summe an externen Finanzmitteln 5.611.064,46 Euro: 2.442.354,50 Euro davon stammten von EU-Geldern, 168.951 Euro vom MIUR, 2.999.758,96 Euro von der Autonomen Provinz Bozen. La LUB porta avanti la ricerca soprattutto grazie a finanziamenti esterni. I finanziamenti esterni ricevuti tra il 2009 e il 2011 ammontano a 5.611.064,46 euro: 2.442.354,50 euro provengono da finanziamenti europei, 168.951 euro da finanziamenti ministeriali, 2.999.758,96 euro dalla Provincia Autonoma di Bolzano.


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Impressum Redaktion / Redazione Bereich Presse, Kommunikation und Marketing / Ufficio stampa, comunicazione e marketing: Vicky Rabensteiner, Cornelia Dell’Eva Koordination / Coordinamento Cornelia Dell’Eva Autoren / Autori Alan Conti, Cornelia Dell’Eva, Paolo Mazzucato, Marina Pernthaler, Susanne Pitro, Vicky Rabensteiner Grafik / Grafica helios.bz Fotografie Archiv Pressestelle FUB, außer anders angeführt Archivio Ufficio Stampa LUB, se non diversamente specificato Haftung / Responsabilità Sämtliche Texte wurden sorgfältig verfasst und redigiert. Dessen ungeachtet kann keine Garantie für die Richtigkeit, Vollständigkeit und Aktualität der Angaben übernommen werden. Eine Haftung der Freien Universität Bozen wird daher ausgeschlossen. Tutti i testi sono stati accuratamente scritti e redatti. Ciò nondimeno la Libera Università di Bolzano non si assume alcuna responsabilità riguardo all’esattezza, alla completezza ed all’attualità delle affermazioni riportate. Kontakt und Anregungen / Contatto e suggerimenti press@unibz.it


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Inhalt InDICE

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FAKULTÄT FÜR NATURWISSENSCHAFTEN UND TECHNIK Facoltà di Scienze e Tecnologie Quanto è sostenibile il meleto?

12 Ein Traktor für die „Pergln“ 14 Planen bis ins letzte Detail 16 Contro il colpo di fuoco

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FAKULTÄT FÜR BILDUNGSWISSENSCHAFTEN Facoltà di Scienze della Formazione

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Mit Samthandschuhen in die Vergangenheit

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Forscherin zwischen Kulturen

44 Schwarz oder weiß? Oder eher viele Graustufen? 46

Multilingue è meglio

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FAKULTÄT FÜR WIRTSCHAFTSWISSENSCHAFTEN FACOLTÀ DI ECONOMIA

FAKULTÄT FÜR DESIGN UND KÜNSTE Facoltà di Design e Arti

20 Oldtimer des Mac 22 Giocare con l'energia 24 Arriva l'artigiano virtuale, rivoluzione della manualità

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Faccia a faccia col cittadino

FAKULTÄT FÜR INFORMATIK Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche

28 Che fatica capirsi! 30 Interpretation von Daten in Raum und Zeit 32 Navigare in montagna 34 Softwaresysteme der Zukunft

50 Hinter der Fassade von Betriebsergebnissen 52 L'economia nella tempesta 54

Der mobile Konsument

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Da Londra con nuovo slancio


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FAKULTÄT FÜR NATURWISSENSCHAFTEN UND TECHNIK FACOLTÀ DI SCIENZE E TECNOLOGIE

Bozen Bachelor in Industrie- und Maschineningenieurwesen (auch in Kombination Studium/Arbeit) Bachelor in Agrarwissenschaften und Umweltmanagement Master in Energy Engineering International Master in Fruit Science Master in Innovation Engineering (Weiterbildender Masterstudiengang Grundstufe) Master KlimaHaus (Weiterbildender Masterstudiengang Aufbaustufe) Doktoratsstudium in Mountain Environment and Agriculture Doktoratstudium in Sustainable Energy and Technologies Forschungsschwerpunkte Energie und Abschwächung des Klimawandels Lebensmittel und -technologien Industrialisierung ‚Small-scale‘ Umweltmanagement und Umwelttechnologien im montanen Bereich

Bolzano Corso di laurea in Ingegneria industriale meccanica (anche in combinazione studio/lavoro) Corso di laurea in Scienze agrarie e agroambientali Corso di laurea magistrale in Energy Engineering Corso di laurea magistrale internazionale in Fruit Science Executive Master in Innovation Engineering (Master di I livello) Master di II livello CasaClima Dottorato di ricerca in Mountain Environment and Agriculture Dottorato di ricerca in Sustainable Energy and Technologies PUNTI CARDINE DELLA RICERCA Energia e mitigazione del cambiamento climatico Tecnologie e filiera alimentare Industrializzazione ‚Small-scale‘ Gestione e tecnologie per l’ambiente montano


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Quanto è sostenibile il meleto? Misurare la respirazione delle piante e del suolo: al di là dell’immaginario evocato dall’espressione suggestiva, questo è uno dei compiti che si è dato il team guidato dal prof. Massimo Tagliavini, preside della Facoltà di Scienze e Tecnologie, nell’ambito di un progetto che si svolge alle porte di Bolzano. Obiettivo finale: misurare il potenziale di fissazione dell’anidride carbonica atmosferica da parte della coltura del melo.

“Il melo è l’albero da frutto maggiormente coltivato sia a livello mondiale che in Alto Adige , spiega il prof. Massimo Tagliavini, “è quindi importante sapere quale è il suo contributo nel bilancio del carbonio, considerata l’influenza decisiva degli ecosistemi terrestri nel bilancio del gas serra”. I dati FAO indicano infatti che l’agricoltura, nel suo complesso, contribuisce per un 13% circa alle emissioni di gas serra in atmosfera, “ma si suppone che la situazione potrebbe essere assai diversa per gli ecosistemi arborei da frutto”. Il teatro della ricerca guidata dal prof. Tagliavini è un meleto a conduzione biologica che si trova nel comune di Caldaro. Come tutti sanno, le piante hanno la loro particolare “respirazione”: grazie alla fotosintesi, di giorno assorbono anidride carbonica rilasciando ossigeno, mentre la notte il ciclo si inverte. Ma occupandosi del sistema meleto, che include anche il suolo e altre piante, e non del singolo albero, calcolare il bilancio del carbonio è una questione che si complica. Nel meleto di Caldaro è stata installata una torre che permette, tramite la tecnica “Eddy Covariance”, la misurazione in continuo di parametri decisivi per la ricerca, come la velocità e la direzione del vento (a questo pensa un anemometro ad ultrasuoni), la concentrazione atmosferica di CO2 e di vapor acqueo, la luce che entra e che esce dal sistema, la temperatura e l’umidità di aria e suolo. Attorno alle

piante, inoltre, sono stati posti ulteriori strumenti di misurazione: sono queste otto camere automatiche a misurare la respirazione del suolo, che è più variegata di quanto si possa pensare. Nel terreno respirano infatti le radici dell’albero ma anche i microrganismi che trovano nel suolo il loro habitat. Con la tecnica del “trenching” è stato possibile separarle e quantificarle entrambe. Un gran numero di dati, dunque, che sono serviti a definire da dove viene e dove va il carbonio presente all’interno del “sistema meleto”. “Il team, formato dal ricercatori D. Zanotelli, L. Montagnani, C. Ceccon e F. Scandellari, è riuscito a quantificare la fotosintesi totale su una scala temporale di 30 minuti e per un intero triennio, a calcolare la quantità di anidride carbonica che torna in atmosfera grazie alla respirazione delle piante e, per differenza, la produttività primaria netta, ossia la quantità di carbonio che la pianta utilizza per crescere – spiega Tagliavini. Per valutare la qualità dei dati ottenuti tramite la tecnica Eddy covariance, un altro passaggio è stato fondamentale: “Abbiamo implementato un protocollo di campionamento della biomassa, sia sopra sia sotto il suolo. Per farlo abbiamo raccolto e analizzato campioni di vegetazione ed abbiamo fotografato la crescita delle radici utilizzando 48 minirizotroni, dei tubi trasparenti posti nel suolo”. L’accuratezza della ricerca ha portato a poter


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distinguere i diversi comparti dell’ecosistema: “Il grado di dettaglio che abbiamo raggiunto e la possibilità di effettuare controlli incrociati pongono la ricerca all’avanguardia nell’ambito degli studi specialistici sul ciclo del carbonio nei sistemi agrari”, assicura Tagliavini. Questo studio ha dimostrato che la coltura del melo consente una significativa fissazione netta del carbonio atmosferico (la produttività netta dell’ecosistema) , ovvero ne assorbe tra le 3 e le 4 tonnellate ad ettaro, a seconda degli anni. “Una quota importante del carbonio va nei frutti, che rappresentano nel melo più del 50% della produttività primaria netta”, spiega il professore.

Ma tornando alla domanda iniziale: la coltura del melo è sostenibile? “Anche considerando che i frutti vengono raccolti e quindi asportati dal sistema, la coltura del melo è praticamente carbon neutral, e dunque sì: è sostenibile dal punto di vista del bilancio del carbonio di origine biologica”. Un punto in più per la mela, che oltretutto in Alto Adige si trova facilmente a “chilometro zero”. “Per mantenere basso il C-footprint della mela - precisa Tagliavini - occorre comunque limitare le emissioni di carbonio direttamente o indirettamente associate alla conduzione del meleto (utilizzo di macchine agricole, fertilizzanti, etc.), e che sono oggetto di altre ricerche”.

Massimo Tagliavini è professore ordinario e preside della Facoltà di Scienze e Tecnologie dal 2008. Insegna Ecosistemi produttivi arborei ed Arboricoltura generale e si occupa di fisiologia degli alberi e di ecologia degli ecosistemi arborei da frutto. È autore di più di 150 pubblicazioni, di cui una cinquantina su riviste internazionali. Relatore ad invito in numerose conferenze internazionali. Collabora nell’ “Advisory board” dell’ “Europ. J. Agronomy” e di “Tree Physiology”, ed è direttore di “Italus Hortus”.


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Ein Traktor für die „Pergln“ Traditionelle Anbauweise und Mechanisierung müssen einander im Weinbau nicht ausschließen. Das beweist ein Projekt von St. Magdalener Weinbauern, einem Produzenten von Eisaufbereitungsmaschinen und dem Bereich Agrarwirtschaft der jungen Fakultät für Naturwissenschaften und Technik.

Er steht für typische Südtiroler Qualitätsweine und prägt mit seinen steilen Weinterrassen das Bild der Landeshauptstadt. Der Weinhügel St. Magdalena vor den Toren von Bozen ist aber auch ein Paradebeispiel für eine arbeitsintensive Landwirtschaft. Denn die traditionelle Anbauform der autochthonen Weine Vernatsch und Lagrein lässt Maschinen wenig Chancen: Die Wege durch die Terrassen sind maximal einen Meter breit, die im Volksmund als Pergln bekannten Pergolas beschränken die Höhe, und das Gelände ist steil. Statt mit dem Traktor wird hier mit von Hand gelenkten Maschinen oder manuell gearbeitet. Dies ist eine Einschränkung, mit der sich drei findige Magdalener Weinbauern nicht abfinden wollten. Nach langer wie erfolgloser Suche nach einer geeigneten Maschine entstand die Idee, einen maßgefertigten Traktor zu entwickeln. Dafür wandten sich die Landwirte an die Blumauer Firma WM-Mulser. Der Hersteller von Eisaufbereitungsmaschinen fragte wiederum bei der Fakultät für Naturwissenschaften und Technik um Unterstützung an. Dort hatte mit dem Agrarwissenschaftler und -ingenieur Fabrizio Mazzetto gerade ein Spezialist für Landmaschinen seine Professur angetreten, der sich mit Begeisterung an die Kooperation mit lokalen Partnern machte. Das gemeinsame Forschungsprojekt erhielt den ehrgeizigen Namen „Traktor 360° - Der Traktor für extreme Bedingungen“;

seine Finanzierung konnte größtenteils über die jährliche Ausschreibung abgedeckt werden, mit der das Land Südtirol die Realisierung von Projekten der industriellen Forschung, der experimentellen Entwicklung und Prozessinnovation unterstützt. Das konkrete Ergebnis der zweijährigen Zusammenarbeit? Zwei Prototypen eines nur 98 Zentimeter schmalen und äußert wendigen Traktors mit hydraulischem Antrieb und je einem Werkzeugträger vorne und hinten, die einen flexiblen Aufsatz von Arbeitsgeräten wie Mähmaschinen, Spritzgeräten oder Transportbehältern erlauben. Basis für diese Neuentwicklungen war eine technische Studie, mit der Fabrizio Mazzetto rund 40 Traktorenmodelle analysierte und klassifizierte. Darauf aufbauend wurden die Charakteristika der gewünschten Lösung festgelegt und ein erster einfacher Prototyp entworfen und getestet. Die dabei gewonnenen Erfahrungen und Einsichten bestimmten schließlich die Entwicklung des zweiten Prototyps. Es war ein Prozess, bei dem nicht nur die beiden offiziellen Projektpartner WM-Mulser und die Fakultät für Naturwissenschaften und Technik ihr Know-how einbrachten. Fraunhofer Italia übernahm die technischen Zeichnungen des definitiven Modells mit CAD; die drei Landwirte fungierten wiederum als sogenannte „Advisory Group“ – sie testeten die Prototypen in ihren Weinbergen.


© Fabrizio Mazzetto

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Während die Weinbauern sich dabei auf die praktische Handhabung der Geräte konzentrierten, stellte der Universitätsprofessor Messungen hinsichtlich Stabilität und Produktivität an. Neben diesen Feldversuchen, die mit beiden Prototypen durchgeführt wurden, ließ Fabrizio Mazzetto den zweiten Prototyp in einem OECD-zertifizierten Labor in Treviglio (Bergamo) durchchecken. Damit wurde sichergestellt, dass die Maschine allen geltenden Sicherheitsnormen entspricht; gleichzeitig ergaben die Tests verbindliche Werte über die technischen Kapazität – wie eine Zugkraft von bis zu 800 Kilogramm bei einem Eigengewicht von 900 Kilogramm. Insgesamt war der Befund durch die Spezialisten in Bergamo äußerst positiv, sagt Mazzetto. „Mit nur wenigen kleinen Änderungen

könnte das Modell in Produktion gehen und auch für weitere Anwendungen wie Wald- oder Tunnelarbeiten adaptiert werden.“ Ob und wann dies passiert, ist nun Sache des privaten Partners WM-Mulser. Der Professor versucht indes bereits das Feld für weitere Landmaschinen „made in Südtirol“ zu bestellen. Zum Beispiel durch Überzeugungsarbeit für ein Südtiroler Labor, in dem Landmaschinen und ihr Zubehör vor Ort getestet und zertifiziert werden können. Damit könnte laut Mazzetto nicht nur der Sicherheitsstandard in Südtirols Landwirtschaft verbessert werden, sondern im Rahmen des Projekts Technologiepark auch ein weiterer Kompetenzschwerpunkt im Bereich Alpine Technologie geschaffen werden. Der Anfang dafür ist in jedem Fall gesetzt.

Fabrizio Mazzetto ist seit 2010 Professor 1. Ebene an der Fakultät für Naturwissenschaften und Technik. Seine akademische Ausbildung in Agrarwissenschaften und Agrartechnik absolvierte er an der Universität Mailand, wo er zuletzt eine Professur für Landmaschinen innehatte. Schwerpunkt seiner Forschung ist die Mechanisierung und Informatisierung der Landwirtschaft. Mazzetto hat über 90 Fachbeiträge publiziert; darüber hinaus hält er zwei Patente, eines davon für eine vollautomatische Pflanzsetzmaschine.


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Planen bis ins letzte Detail Zeit ist Geld – auch beim Bau eines Hauses. Weil aber nicht immer alles bis auf die Stückliste hin durchgeplant wird, sind die Prozesse auf der Baustelle selten optimal abgestimmt. Um effizientere Wege für den Hausbau aufzuzeigen, vernetzt das Forschungsprojekt Build4Future alle zur Verfügung stehenden Instrumente der Forschung und das Wissen der beteiligten Gewerke, Ingenieure und Architekten. Erkenntnisse aus der industriellen Produktion auf den Bau zu übertragen und dadurch höchste Qualität und Energieeffizienz auch bei individuell geplanten Bauten bezahlbar zu machen – das umschreibt in knappen Worten das Forschungsprojekt Build4Future, das Dominik Matt, Professor an der Fakultät für Naturwissenschaften und Technik sowie Direktor von Fraunhofer Italia, leitet. Aufgrund der interdisziplinären Anforderungen setzt sich das Forscherteam aus Ingenieuren und Architekten, Studenten des Masterstudiengangs „KlimaHaus“ rund um Prof. Cristina Benedetti sowie Mitarbeitern von Fraunhofer Italia zusammen. Modernste Methoden und Werkzeuge werden eingesetzt, um anspruchsvolle Individualbauten, wie beispielsweise ein Klimahotel auf 2.000 m Meereshöhe so im Detail zu planen, dass am Bau keine Leerläufe oder Fehlplanungen mehr zustande kommen können. „Front Loading nennt sich dieses Prinzip, das zwar bekanntermaßen wichtig wäre, im Alltag aber viel zu wenig zum Einsatz kommt, obwohl es die Produktivität im Hausbau erhöhen würde“, sagt Matt. Aber auch ein anderer wesentlicher Aspekt soll im Projekt berücksichtigt werden: moderne Bauwerke werden aufgrund wachsender Nutzererwartungen sowie hoher Anforderungen an Komfort und Energieeffizienz immer komplexer und entwickeln sich zunehmend zu High-Tech-Produkten. Auch diese Aspekte müssen laut Matt von vornherein in die Planung aufgenommen werden. „Dabei liegt die Herausforderung darin, durch ein hohes Maß an Modularisierung und Standardisierung der Module beste Leistungsergebnisse zu niedrigsten Kosten erreichen, ohne auf die individuelle Ausgestaltung des Gebäudes zu verzichten.“ Zwei Welten verbinden. Ein Dutzend Unternehmen aus der Bau- und Bauzulieferbranche, ein Architekt sowie die KlimaHaus Agentur und das TIS sind mit im Build4Future Projektteam, denn das gehört zu den Zielsetzungen dieser praktischen Forschungsarbeit. Die Forscher, Doktoranden und Studie-

renden, die am Projekt mitarbeiten, erhalten so Einblick in die Problematiken der wirklichen Welt. Zum Beispiel? „Ein Fenster mit doppeltem Isolierglas, das für den Luftdruck von 500 Höhenmetern gebaut wurde, ändert seine Eigenschaften, wenn es auf 2.000 Höhenmetern eingebaut wird“, illustriert Matt. Zudem erleben die eher kleinen Unternehmen Südtirols, wie man Innovation mit einem wissenschaftlichen Ansatz angeht, wie Kooperationen funktionieren und wie letztlich Prozesse effizienter werden können. „Der gesamte Prozess wird im Netzwerk so perfekt definiert und gestaltet, als ob eine einzige Fabrik am Werke wäre“, umreißt der Bozner Professor das Projekt. „Dabei kommt es zu einem Know-how-Transfer, der die Unternehmen für die heutigen und zukünftigen Anforderungen des Marktes wappnet.“ Einer der überzeugten Teampartner ist Architekt Ralf Dejaco: „Das Besondere dieser Arbeitsgruppe ist der Erfahrungsaustausch mit Topfachleuten; es kommt eigentlich einer Art Weiterbildung gleich. Man erlebt, wie man über eine höhere Standardisierung neue Wege einschlagen kann.“ Von 3D zu 5D. „Einer der neuen Wege ist die so genannte 5D-Planung“, erläutert Matt weiter. „Die 3D-Planung ist bekannt – dazu kommen aber auch die Faktoren Zeit und Kosten, die heute unverzichtbar sind.“ Ein Instrument, das kaum eine der Firmen vorher bekannt war, ist die „Power Wall“, die bei Fraunhofer Italia zur Verfügung steht: Es handelt sich um eine interaktive 3D-Visualisierung. Durch eine spezielle Brille hat der Besucher den Eindruck, den geplanten Raum zu betreten. „Inzwischen erachten einige der Partnerbetriebe dieses Werkzeug als so effektiv, dass sie es schon mehrmals für andere Projekte eingesetzt haben“, sagt Matt. Die Phase Eins des Projektes ist längst abgeschlossen; sie umfasste eine internationale Trendanalyse, bei der 365 Bau- und baunahe Firmen


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befragt wurden. Es ergab sich ein Bild, in welche Richtung man hinarbeiten müsse. In der Phase Zwei geht es um das Nachbilden des Zusammenspiels der einzelnen Prozesse: „Das komplette Netzwerk der Prozesse wird mithilfe des Werkzeugs des „Value Stream Mapping“ dargestellt. Das Wissen über dieses Zusammenspiel wird dann zu einem Referenzmodell führen. Aber auch an Phase Drei, der prototypischen Realisierung eines energieeffizienten Individualbaus nach Build4Future-Standards, arbeitet das Team

schon fleißig. Parallel dazu nutzen die Forscher das bereits erarbeitete Know-how, um unter der wissenschaftlichen Leitung von Prof. Cristina Benedetti das Team der römischen Universitäten „Roma 3“ und „La Sapienza“ beim internationalen Wettbewerb für energieeffizientes Bauen „Solar Decathlon Europe 2012“ in Madrid beratend zu unterstützen – für die römischen Forscher eine unverzichtbare Expertise und für das Projektteam eine ganz besonders spannende Erfahrung.

Dominik Matt ist Professor 1. Ebene für Produktionssysteme und Technologien an die Fakultät für Naturwissenschaften und Technik; davor lehrte er am Politecnico di Torino. Seit 2010 steht Matt zudem dem Innovation Engineering Center (IEC) von Fraunhofer Italia mit Sitz in Bozen als Direktor vor. Er ist Mitglied in zahlreichen Beiräten und wissenschaftlichen Gremien. Nach seinem Maschinenbau-Studium an der TU München und einem Forschungsdoktorat am Institut für Produktionstechnik der Universität Karlsruhe war er bei Unternehmen in Europa und in den USA tätig.

Cristina Benedetti ist Professorin 1. Ebene für nachhaltiges Bauen an der Fakultät für Naturwissenschaften und Technik sowie Direktorin des weiterbildenden Masterlehrganges „KlimaHaus.“ Von 1975 bis 2008 lehrte sie an der Fakultät für Architektur der Universität „La Sapienza“ in Rom. Sie ist Expertin für Bioklimatische Architektur und Holzbauweise und war als solche Gastprofessorin an zahlreichen Universitäten und Referentin auf Konferenzen weltweit.


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Contro il colpo di fuoco La malattia dei meli nel mirino della ricerca della Facoltà di Scienze e Tecnologie. Dalla mappa di densità elettronica di una proteina del batterio scatenante potrebbe arrivare la cura a un morbo capace di radere al suolo intere coltivazioni. Attenzione massima da parte delle istituzioni altoatesine. Nel laboratorio dell’Università, intanto, si trova anche il modo di sentirsi artisti partendo da una provetta.

Un cristallo per salvare i meli. Quello che sembra il titolo di un libro in linea con le tendenze fantasy del momento è, al contrario, l’esatta descrizione di ciò che la Facoltà di Scienze e Tecnologie e il professore Stefano Benini stanno cercando di realizzare: una ricerca con importanti riflessi sul territorio e seguita con attenzione dal mondo agricolo. Nel mirino di Benini e del suo collaboratore Lorenzo Caputi, infatti, c’è un batterio dal nome tanto dolce quanto dannoso nei suoi effetti sull’albero delle mele: Erwinia amylovora. È lui, infatti, il responsabile del colpo di fuoco: malattia che lo ha portato dritto nella lista dei batteri da quarantena stilata dall’Ue. “Si chiama così – spiega Benini – perché richiama l’effetto sulla pianta che appassisce esattamente come fosse colpita da una fiamma: necrosi delle foglie e lacerazioni sui rami. Non solo: l’Erwinia è in grado di produrre un essudato che attira gli insetti garantendosi una veloce diffusione. Oltre al melo, comunque, le vittime di questa malattia possono essere anche i peri o piante ornamentali”. Una volta compreso “cosa” è in grado di combinare questo batterio, la vera sfida è svelare il “come” questo avviene. È qui il nocciolo del lavoro di Benini: “L’analisi va fatta su una proteina pura in soluzione salina da cui si ottiene un cristallo e che viene radiografata per ottenere una mappa di densità

elettronica”. Con un sorriso è lo stesso professore che ci prende idealmente per mano nel semplificare l’operazione. “Le proteine sono l’elemento attraverso il quale agisce il batterio, quindi è lì che dobbiamo andare a cercare le varie interazioni. Non possiamo, però, prendere in esame direttamente l’Erwinia amylovora, quindi procediamo su un altro batterio che si chiama Escherichia Coli. In questo modo evitiamo di lavorare direttamente con un patogeno”. Reso celebre dalla psicosi alla verdura di qualche mese fa, Escherichia Coli ha l’importante caratteristica di produrre grandi quantità di proteina utilizzando il DNA di Erwinia inserito in un “vettore”. A questo punto, però, la proteina va depurata per renderla testimone attendibile. “La preleviamo dalla cellula e la isoliamo in una soluzione salina in modo che sia unica”. È nella fase di cristallizzazione, tuttavia, che si cerca il salto di qualità: “È un’operazione dove bisogna essere in grado di dosare vari parametri come temperatura, acidità e concentrazione di sali per ottenere il cristallo. Se vogliamo, è una piccola arte perché mette in gioco la sensibilità del ricercatore”. Alla faccia di chi vuole gli scienziati di laboratorio poco creativi. Il lavoro tecnico nei laboratori della LUB finisce qui, ma il cristallo comincia il suo viaggio verso il sincrotrone di Amburgo, dove viene radiografato con un tecnica


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particolare di rifrazione e ricomposizione dei raggi X. Attraverso l’elaborazione dei dati si ottiene la mappa di densità elettronica della proteina. È lei la mappa del tesoro perché è da questa immagine tridimensionale che si svelano composizione e rapporti. “Vede – spiega Benini - questo documento permette di leggere dove avvengono le reazioni. In sostanza scopriamo in che modo il batterio si relaziona con l’esterno. Il passo successivo è trovare la soluzione migliore per controllare quelle reazioni che si vogliono evitare e tramite le quali avvengono contagio o diffusione del colpo di fuoco. È lo stesso procedimento usato per alcuni studi farmaceutici”. La ricerca di Benini, come detto, è cominciata un

anno fa e, grazie al finanziamento della Provincia, ne durerà ancora un paio. Tramite una borsa di studio della Fondazione Università, infine, arriverà una terza persona nel team di ricerca. Non è un mistero, infatti, che le istituzioni provinciali seguano con particolare interesse i progressi nel campo perché il colpo di fuoco non è un pericolo paventato, ma una problematica reale. Alcune coltivazioni di mele, infatti, sono già state contagiate in passato e gli agricoltori sanno bene che si tratta di uno di quei morbi che non lasciano tanto spazio all’inventiva, costringendo all’abbattimento. Prevenirne il contagio o bloccarne la diffusione sarebbero due vantaggi reali. Altro che fantasy.

Stefano Benini è ricercatore di ruolo presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie della Libera Università di Bolzano dal 2009. Nel 1991 si laurea in Scienze Agrarie all’ateneo di Bologna, dal 1996 al 2000 completa il dottorato di ricerca all’European Molecular Biology Laboratory di Amburgo. Dal 2000 al 2002 è a Trieste per un post doc, mentre dal 2002 al 2007 prosegue la carriera a York, in Inghilterra. Dal 2007 al 2009 lavora come cristallografo presso la ditta farmaceutica “AstraZeneca” di Alderley Park (UK).


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FAKULTÄT FÜR DESIGN UND KÜNSTE FACOLTÀ DI DESIGN E ARTI

Bozen Bachelor Design Master in Design für Gesellschaft und Nachhaltigkeit (ab 2013-14)

Bolzano Corso di laurea in Design Corso di laurea magistrale in Design per la Società e la Sostenibilità (dal 2013-14)

FORSCHUNGSSCHWERPUNKTE /PUNTI CARDINE DELLA RICERCA Visual Culture and its Impact on Society Structural, Digital, Material: Material Culture and its Discontent Sign, Form, Symbol: The Language of Design


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Oldtimer des Mac Was passiert, wenn ein Designtheoretiker in einem Südtiroler Dorf auf einen kulturhistorischen Schatz trifft? Die definitive Antwort steht noch aus. Sicher ist jedoch schon heute, dass sowohl die Fakultät für Design und Künste als auch das Schreibmaschinenmuseum in Partschins davon profitieren.

Dass die Inspiration Wissenschaftler in den unerwartetsten Momenten streifen kann, ist seit Archimedes bekannt. Gerhard Glüher, ordentlicher Professor für Theorien und Ausdrucksformen des Designs und seit Oktober 2010 auch Dekan der Bozner Fakultät für Design und Künste, erwischte sie vor knapp zwei Jahren in einem Südtiroler Dorf, von dem er davor noch nie etwas gehört hatte. „Schreibmaschinenmuseum Peter Mitterhofer, Partschins“ hatte der gebürtige Deutsche und langjährige Ausstellungskurator an einem freien Wochenende in einem lokalen Veranstaltungskalender gelesen – und sich von seiner Neugierde und Passion für Museen ins Vinschgau treiben lassen. Was ihn dort erwartete, warf Glüher schlichtweg um, wie er es selbst ausdrückt: Ein postmodernes Gebäude mitten in ländlicher Dorfidylle, mit einer Sammlung von fast 2000 historischen Schreibmaschinen von den Anfangsjahren um 1865 bis hinein in die 1980er-Jahre. Ob legendäre Schreibmaschinen wie die Malling-Hansen, auf der ein Friedrich Nietzsche geschrieben hatte oder eine jener berüchtigten Chiffriermaschinen des zweiten Weltkriegs wie die Enigma: „Es ist alles da“, schwärmt der Uni-Professor. Ergänzt wird die weltweit einmalige Sammlung, die der gebürtige Meraner Kurt Ryba der Heimatgemeinde des SchreibmaschinenErfinders Peter Mitterhofer samt Museum gestiftet hat, durch eine umfangreiche Sammlung von Druckwerken rund um die Schreibmaschine – von Bedienungsanleitungen über Original-Werbeplaka-

te bis hin zu Zeitschriften, Grafiken und Postkarten. Eine wahre Fundgrube zu jener Zeitspanne, die mit dem Übergang des handschriftlichen zum mechanischen Schreiben beginnt und mit dem Übergang in das Computerzeitalter endet. „Es ist so, als ob man als Archäologe auf ein nicht entdecktes römisches Amphitheater stößt und es ist noch alles erhalten“, sagt Glüher. Entsprechend schnell war der Entschluss des Universitätsprofessors gefasst, diesen außergewöhnlichen lokalen Bestand für ein Forschungsprojekt zum Phänomen Schreiben und Schriftkultur zu nutzen, das er gemeinsam mit dem Professor für Kommunikationsdesign und passionierten Typographen Christian Upmeier einreichte. „Designgeschichtliche und designtheoretische Untersuchung zu Geschichte des mechanischen Schreibens“ lautet der offizielle Titel. Dahinter stehen im Wesentlichen drei große Fragen, denen die beiden Forscher nachgehen wollen: Wie hat die technische Entwicklung der Schreibmaschine die Kulturtechnik des Schreibens beeinflusst? Wie entwickelte sich das Schriftbild der Maschinen und welche Verbindung gab es dabei zum Druck? Und: welche sozialen Veränderungen brachte die Mechanisierung des Schreibens insbesondere in Bezug auf das Berufsbild der Schreiberin bzw. Sekretärin? Diese breit angelegte und Disziplinen übergreifende Fragestellung zu Phänomenen, die mit der Schreibmaschine entstanden sind, will Gerhard Glüher in dem 2012 auslaufenden Forschungsprojekt erst einmal mit einer grundlegenden Publikation anreißen. Das Potential, das er in


© Schreibmaschinenmuseum Partschins

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Partschins sieht, reicht aber weit darüber hinaus. Seine Vision? Die Errichtung eines europäischen Forschungszentrums für mechanisches Schreiben, in dem Wissenschaftler aus aller Welt die unterschiedlichsten Aspekte der Kulturtechnik Schreiben und Schrift erforschen können. Einen ersten Schritt in diese Richtung hat Glüher bereits maßgeblich mitbetrieben: die Übernahme des nach seinem Sammler benannten Dingwerth-Archivs, einem der größten europäischen Archive zum Thema Schreibmaschine. Mit mehr als 5000 zusätzlichen Druckwerken verfügt das Südtiroler Museum nun über eine einmalige Mischung aus Hard-und Software.

Was Partschins noch fehlt, um tatsächlich zum europäischen Zentrum für Schreibmaschinen aufzusteigen, ist laut Glüher eine wissenschaftliche Kraft, die das Material ordnet und katalogisiert – und der Ankauf von zwei weiteren bedeutenden Beständen, die der Dekan der Fakultät bereits im Auge hat. Die Chancen dafür stehen zumindest in seinen Augen nicht schlecht. „Im Moment kümmert sich keiner richtig darum, derzeit sind alle mit i-Pads und Flatscreens beschäftigt“, meint er. Umso wichtiger wäre es, nun die Sammlung der Oldtimer der heutigen Schreibikonen lückenlos zu sammeln – noch dazu an dem Ort, wo sie erfunden wurden.

Gerhard Glüher ist Professor 1. Ebene für Theorien und Ausdrucksformen des Designs und Dekan der Fakultät für Design und Künste. Nach seinem Designstudium an der Fachhochschule Würzburg promovierte er an der Philipps-Universität Marburg, wo er Kunstgeschichte, Philosophie und Slawistik studierte. Habilitation an der Bauhaus-Universität Weimar zu Bildsprachen und Ausdrucksformen neuer Medien in der zeitgenössischen Kunst. Seit dem Wintersemester 2002 zunächst Vertragsprofessor und ab Oktober 2007 Professor erster Ebene an der Freien Universität Bozen.


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Giocare con l'energia Un progetto nato dall’idea di tre amici ingegneri che sarà sviluppato da Gianpietro Gai e dalla Facoltà di Design e Arti. Prodotti in grado di diventare strumenti energetici con possibilità di sviluppo nella vita quotidiana e domestica con un occhio fisso alla sostenibilità. Semplicità ed esperimenti live per sensibilizzare i cittadini che ancora ricordano le biciclette generatrici nel foyer del Teatro Cristallo.

Troppo spesso l’energia viene posta come problema: scarseggia, è difficile produrla o brucia risorse ambientali. Gianpietro Gai, ricercatore presso la Facoltà di Design e Arti, ha deciso di prendere e convertire questo martellamento mediatico alzando sul pennone dell’ateneo la bandiera del “giocare con l’energia”. Il suo progetto, quindi, cerca le opportunità nascoste nelle connessioni tra design del prodotto e gestione dell’energia nei suoi aspetti di generazione, seppur piccola, accumulo, trasporto e recupero. In soldoni si prende un oggetto e lo si studia fino a trovarne usi o funzionalità collegati all’energia. Un’iniziativa triennale e pluridisciplinare dal titolo eloquente di “Officina dell’Energia +”. In quel “+” si manifesta, però, lo sviluppo di un’idea nata da più lontano, una sorta di prequel preaccademico. “Assieme ai miei amici ingegneri bolzanini Paolo Rabbiosi e Stefano Nervo – racconta Gai – abbiamo cominciato ad accarezzare l’idea del “gioco con l’energia” strutturando il progetto di Officina dell’Energia. Ancora non eravamo inseriti nell’ambito universitario, ma ci siamo semplicemente lanciati su un’iniziativa no-profit che ci stimolava”. I bolzanini forse non ne ricorderanno il nome, ma alcune manifestazioni del progetto le hanno sicuramente conosciute. “In occasione di M’illumino di meno

2011, l’iniziativa sul risparmio energetico promossa da Radio2, installammo due biciclette generatrici all’interno del foyer del teatro Cristallo. Con i kwh prodotti dalle pedalate dei partecipanti abbiamo scaldato l’acqua per i “rinnowürstel” offerti ai volontari faticatori, oltre che illuminato band e lettori con dei led alimentati dalle bici. Parteciparono politici e campioni dello sport. Per il Festival delle Resistenze, invece, le stesse due ruote servirono per l’illuminazione dell’incontro con lo scrittore Gianantonio Stella”. Le uscite a contatto con la gente, però, non sono casuali. “Per nulla – continua Gai – perché il coinvolgimento degli spettatori, anche in una chiave spiritosa e divertente, è per noi fondamentale nella fase di test e sviluppo. È il presupposto che sta alla base del concetto di ricercaOpen che continueremo a seguire”. Già, perché durante Scienze Week 2012 l’Officina tornerà protagonista al Museo Archeologico. “All’interno della casa di Ötzi si terrà a settembre un’esposizione sul tema del freddo. Sono previste quattro stazioni. A noi ne è stata riservata una nella quale abbiamo in programma una serie di esperimenti per famiglie e bambini che evidenzieranno alcuni aspetti curiosi del ghiaccio. Si chiamerà La Meccanica del freddo”. Fin qui, però, l’idea iniziale, ma cosa dobbiamo aspettarci da quel “+” nato nella culla dell’ateneo?


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*Progetto realizzato con la collaborazione di Albert Kofler.

“I contesti del nostro sviluppo diventeranno le micro comunità, i condomini, i piccoli spazi urbani e l’ambiente domestico. Ovviamente importanza centrale la avrà il cohousing, alla base della moderna sostenibilità e decrescita, con particolare attenzione a trasporti e mobilità”. Il cohousing altro non è che una condivisione in comunità di alcuni spazi come cucina, laboratori, lavanderie o sale giochi. “Terremo in grande considerazione, inoltre, lo smart grid, ovvero quel sistema di distribuzione dell’energia elettrica che abbassa qualsiasi spreco attraverso tecnologiche redistribuzioni degli eccessi”. Si intuisce, insomma, come lo sviluppo dell’Officina prenda la struttura di una

matrioska. “Attraverso sponsor e partner anche esterni affineremo i prodotti che si comporranno in sistemi per formare una rete di veri e propri servizi. Il tutto tenendo ben presente il carattere low tech che, basandosi su tecnologie non troppo sofisticate, permette una manutenzione ampia, semplice e autonoma dei prodotti”. Decisivo, infine, l’allestimento di un vero e proprio laboratorio: “Sarà l’autentica officina – chiude Gai – dove gli studenti si potranno misurare con queste idee. Non abbandoneremo, comunque, le sperimentazioni live con workshop che coinvolgano universitari e cittadini”. Energia divertente, utile e democratica: una risorsa più che un problema.

Gianpietro Gai, dopo il bachelor in Disegno Industriale allo IUAV di Venezia ha avviato il marchio Etil - skateboard e skateparks, disegnato arredi, è stato grafico indipendente, illustratore web e infine grafico web a Sydney. Nel 2001 ha avviato il suo studio di design del prodotto. A Bolzano dal 2007, è ricercatore a tempo determinato alla Facoltà di Design ed Arti, dove svolge anche attività didattica. Nel 2010 ha dato vita ad “Officina dell‘Energia”.


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Arriva l‘artigiano virtuale, rivoluzione della manualità La Facoltà di Design e Arti contribuisce a un cambio potenzialmente epocale. Il docente Simone Simonelli e il suo team cercano la strada per portare progettazione, prototipazione e produzione dei manufatti nel mondo virtuale: “L’artigianato scosso nelle sue fondamenta per renderlo più veloce, economico e democratico. La LUB ha comprato due nuove stampanti all’avanguardia, presto avremo nuovi mestieri”.

Il computer come strumento artigianale per un lavoro artigianale che tempo e modernità stanno cambiando. Il lavoro di ricerca di Simone Simonelli, docente della Facoltà di Design e Arti, muove prima di tutto dallo stimolo a un cambio di mentalità. Falegnami, vasai, vetrai, gioiellieri, lattonieri: il mondo dell’artigianato è sterminato, ma ancora in pochi si sono posti il problema di coniugarlo con l’era digitale. Creare prototipi o singoli manufatti partendo dalla tastiera, infatti, è oggi consentito dallo sviluppo tecnologico. Se per moltissimi altri settori l’introduzione del digitale ha significato una semplificazione del lavoro e un abbattimento dei costi, perché non potrebbe funzionare allo stesso modo per l’artigianato? “Può funzionare eccome – la prima risposta convinta di Simonelli – e la mia ricerca spazia proprio all’interno della macroarea della produzione di manufatti attraverso un supporto digitale”. Perifrasi tecnica che, per la verità, nasconde una piccola rivoluzione capace di toccare tutti. “Sostanzialmente ipotizzo un rapporto costante tra approccio digitale e analogico e mi chiedo se il computer aided

design, il rapid prototyping e il rapid manufacturing possano diventare gli strumenti di una forma di artigianato contemporaneo”. Al di là dei termini inglesi, peraltro assai latini, in soldoni significa creare, progettare e realizzare un prototipo con tecniche digitali al posto delle procedure classiche. Ovviamente tutto in un’ottica che faccia della tradizione il più classico dei surplus per un mix potenzialmente rivoluzionario. “Oggi nella nostra società – continua Simonelli – sentiamo parlare di democratizzazione digitale di fronte all’uso dei computer per la totalità dei mestieri. Di questo concetto sto cercando l’estensione”. Già, ma l’artigianato è per eccellenza l’impero della manualità: sottrarre le mani a questi mestieri è come privare piazza San Pietro del suo colonnato. “Non è così: oggi le nostre mani sono continuamente a contatto con gli apparati digitali e studi scientifici hanno evidenziato anche una differente evoluzione anatomica. Le mani che lavorano sulla tecnologia, quindi, acquisiscono una memoria esattamente come avviene per chi è artigiano. La stessa progettazione di modelli virtuali presuppone un’abilità manuale non indifferente che continue-


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*Il Rapid-Prototyping è un progetto di ricerca realizzato con la collaborazione di Roland Verber.

rebbe, quindi, a essere elemento determinante e discriminante dell’attività”. Vantaggiosa, invece, la maggiore accessibilità: “Gli strumenti facilmente reperibili permetterebbero a molti di avviare una piccola produzione o prototipazione”. Fin qui le dichiarazioni di intenti. Ma nel concreto cosa si può realizzare? “Creiamo prototipi in ambienti virtuali e i pezzi senza l’utensile fisico, concreto o metallico, ma con vere e proprie stampanti tridimensionali. Utilizziamo coordinate digitali, invisibili, che ci consentono di mettere il materiale esattamente dove vogliamo. A breve potremmo osservare la nascita diffusa di nuovi artigiani elettronici”. Un mestiere innovativo con diversi punti di forza. “Penso alla rapidità di trasformazione dell’idea dal concetto al fisico oppure al controllo diretto dei costi di produzione attraverso procedure specifiche, passando per l’umanizzazione del prodotto nel rapporto cliente-artigiano”.

Tutto bello, però ci vogliono elementi che garantiscano vantaggi di mercato. “Il layer manufacturing – riprende Simonelli – è un metodo di lavoro che permette di procedere secondo un meccanismo di aggiunta di strati di materiale sull’oggetto. È l’esatto contrario del procedimento tradizionale che parte da un blocco unico per eliminare pezzi in eccesso. Il digitale garantisce di conoscere a priori il peso esatto, quindi il costo finale, del manufatto”. La ricerca, intanto, si nutre anche di corsi e workshop con gli studenti dell’Ateneo bolzanino. “Ci piace coinvolgerli e concentriamo gli sforzi sulla fase della produzione vera e propria considerando che la LUB ha appena acquistato una serie di strumenti tecnologici avanzati tra cui due stampanti 3D che ci permettono di produrre manufatti in materiale plastico. Possiamo già permetterci, quindi, uno stadio più avanzato rispetto a un normale prototipo”. Il futuro è già qui.

Simone Simonelli ha studiato Industrial Design al Politecnico di Milano e alla Brunel University di Londra. È impegnato nel campo del design dal 2003. Simone progetta per aziende, amici, chiunque sia interessato. I suoi lavori sono stati esposti in svariate mostre sia in Italia che all‘estero e pubblicati su diverse riviste di settore. Dal 2009 è ricercatore a tempo determinato presso la Libera Università di Bolzano, dove svolge anche attività didattica. Il suo tema di ricerca nello specifico si sviluppa nel campo del computer aided design, rapid prototyping e rapid manufacturing.


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FAKULTÄT FÜR INFORMATIK FACOLTÀ DI SCIENZE E TECNOLOGIE INFORMATICHE

BOZEN Bachelor in Informatik und Informatik-Ingenieurwesen (auch in Kombination Studium/Arbeit) Master in Informatik (u.a. European Master) Doktoratsstudium in Informatik Kompetenzzentren/FORSCHUNGSSCHWERPUNKTE CASE – Centre for Applied Software Engineering DIS – Centre for Database and Information KRDB – Research Centre for Knowledge and Data

Bolzano Corso di laurea Scienze e Ingegneria dell’Informazione (anche in combinazione studio/lavoro) Corso di laurea magistrale in Informatica (anche European Master) Dottorato di ricerca in Informatica Centri di ricerca/PUNTI CARDINE DELLA RICERCA CASE – Centre for Applied Software Engineering DIS – Centre for Database and Information KRDB – Research Centre for Knowledge and Data


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Che fatica capirsi! Sappiamo che la tecnologia è al servizio della comunicazione: dagli smartphone ai social network, tutto si muove per farci comunicare di più. Ma comprendersi è un’altra cosa, e anche tra informatici i malintesi non mancano. La prof. Gabriella Dodero della Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche lavora ad un linguaggio preciso che eviti malintesi tra committenti e sviluppatori di software.

A noi è capitato: passi un bel po’ di tempo, poniamo, con l’arredatore, spieghi quello che hai in mente, schizzi su un foglio i disegni, annoti modelli e materiali e, infine, paghi. Poi, dopo un po’ di tempo, arriva a casa l’imballo, lo apri fiducioso e, purtroppo, poco corrisponde ai tuoi desideri: la porta dell’armadio doveva aprirsi verso destra, non verso sinistra, e l’anta trasparente doveva essere opaca. Una vera seccatura ma, in fondo, poco male, con un po’ di pazienza si rimedierà. Però, se questa mancata “corrispondenza” accade ad un’azienda che ordina un software per migliorare le proprie prestazioni e poi il committente si ritrova tra le mani qualcosa che non funziona, o meglio non serve alle sue necessità, il problema si fa più serio, ne va di mezzo la qualità del lavoro, si aprono contenziosi e, soprattutto, si dissipano preziose risorse. Tale “asimmetria”, insita per altro in qualsiasi processo comunicativo, nell’ambito della produzione di software è ancora più evidente poiché spesso legata al fatto che chi raccoglie le richieste del committente affida poi il compito da svolgere ad una schiera di programmatori, a loro volta incaricati di occuparsi magari di una sola porzione dell’intero progetto. Il problema della mancanza di chiarezza nell’assegnare “la consegna” ai programmatori è del resto una vecchia conoscenza per gli ingegneri del software, che da tempo, per ovviare ai problemi descritti, utilizzano il linguaggio standard UML

(Unified Modeling Language), con risultati che sono giudicati però non ancora del tutto soddisfacenti. La professoressa Gabriella Dodero, docente presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche, ha attivato così una collaborazione con l’Università di Genova, che da anni si occupa del problema, per giungere ad un miglioramento di questo linguaggio: l’idea è quella di poter disporre di una sorta di “strumentario” che costringa chi lo adopera a minimizzare le possibili ambiguità nella formulazione delle funzioni che il software dovrà svolgere; e, anzi, dovrà essere in grado di rendere comprensibile il contenuto del documento, visualizzato in forma di grafico, anche a chi non ha una preparazione specificamente informatica. La professoressa Dodero ha quindi individuato nei 26 studenti del Corso di laurea magistrale della LUB i soggetti ideali per testare l’UML “riformato”, o “preciso”, fornito dall’Università di Genova, essendo in effetti gli studenti del master i più probabili utilizzatori finali di tale linguaggio. A loro sono stati fatti leggere due tipi di documenti scritti seguendo le regole del “vecchio” e del “nuovo” UML e che descrivevano l’attività svolta da due software. Al termine della lettura gli studenti dovevano rispondere a domande sul documento ricevuto, un po’ come avviene con i classici “test di comprensione del testo” che si fanno abitualmente nelle scuole, con la differenza che, oltre alla correttezza delle


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risposte, è stata misurata anche la rapidità con cui queste venivano fornite. Ebbene, a parità di tempo impiegato per leggere i documenti, chi aveva avuto da esaminare quelli scritti con il metodo “preciso” aveva capito il 27% in più rispetto ai colleghi che avevano avuto a che fare con documenti redatti secondo il vecchio metodo. L’UML di nuova concezione insomma è risultato più comprensibile e quindi anche meno foriero di errori nella misura nel 27%, percentuale che compensa ampiamente il maggior impiego di tempo necessario per la stesura del documento secondo le nuove regole. Ancora più sorprendente è stata la seconda fase della ricerca, nella quale il medesimo test è stato sottoposto a 62 studenti di informatica del corso di laurea di primo livello dell’Università di Genova,

meno “specializzati” quindi dei colleghi bolzanini: anche in questo caso l’UML preciso ha garantito una migliore comprensione, benché inferiore (12%), mantenendo per altro sostanzialmente invariato l’impiego di tempo. Se questo venisse confermato anche nella terza fase del test, che vedrà coinvolti studenti dell’Università della Basilicata, si potrà sostenere che utilizzare documenti “precisi” non solo non richiede un dispendio di tempo maggiore, ma garantisce anche a chi è più esperto una maggiore efficacia nello svolgimento del proprio lavoro. Caratteristiche queste che per un’azienda chiamata a elaborare un programma informatico significano invariabilmente aumento della produttività e maggiore soddisfazione del cliente.

Gabriella Dodero è professore ordinario di Informatica presso la LUB dal 2006. In precedenza è stata ricercatore e professore associato presso l‘Università di Genova, dove si era laureata in Matematica nel 1977. Svolge attività di ricerca sulle tecnologie per la formazione e sull‘ingegneria del software all‘interno del centro di ricerca CASE. Presso la LUB è stata Preside e Vicepreside della Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche, ed attualmente è delegata del Rettore per la Formazione a misura di studente.


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Interpretation von Daten in Raum und Zeit Eine Datenbank speichert das Abbild eines Ausschnittes der Welt zu einem bestimmten Zeitpunkt. Wenn in der Datenbank auch die zeitliche Entwicklung der Daten festgehalten wird, dann spricht man von temporaler Datenhaltung. Eine Forschungsgruppe der Fakultät für Informatik hat einen Algorithmus entwickelt, um die so entstehenden großen Datenmengen intelligent zu gruppieren und signifikante Änderungen in den Daten zu identifizieren.

In vielen Datenbanken werden Stammdaten, wie zum Beispiel eine Anschrift, im Datensatz einfach überschrieben, falls eine Änderung anfällt. Wenn aber eine zeitliche Entwicklung wie beispielsweise von Umsätzen festgehalten wird, entstehen so große Datenmengen, dass man sich fragt, wie man sie sinnvoll ordnet und gruppiert, damit sie dem Anwender das sagen, was er wissen will. Der stündliche Umsatz in einem Quartal könnte selbst den versiertesten Verkaufsleiter bei seiner Analyse der Umsatzentwicklung überfordern. Wenn er aber seine Kassen optimal auslasten möchte, dann spielen die stündlichen Umsätze durchaus eine Rolle. Für Business-Intelligence-Anwendungen, also die systematische Analyse von Geschäftsdaten, sind Trends und deren Abweichungsintensität wesentlich, damit das Management leichter Optimierungsentscheidungen treffen kann. Traditionelle relationale Datenbanktechnologien unterstützen den temporalen Aspekt aber nur unzureichend. Hier setzte der Informatikprofessor Johann Gamper schon vor ein paar Jahren an. „Unser Forschungsprojekt beschäftigt sich mit der Entwicklung von effizienten Algorithmen für parsimonious temporal aggregation – also die sparsame, zeitliche Zusammenfassung und Aggregation von Daten. Mit anderen Worten: Die Datenbank erfasst zunächst Daten in feinster Granularität und analysiert

anschließend die Schwankungen, um homogene Gruppierungen unterschiedlicher Länge zu bestimmen“, erklärt der Datenbankexperte. „Denn ich will nur dort die Daten in kleinere Einheiten unterteilen, wo signifikante Schwankungen vorhanden sind, die für meine Beurteilung wichtig sein könnten.“ Implementierung nach Forschung. Doktoranden der Fakultät für Informatik implementieren die Forschungsergebnisse, beispielsweise in das OpenSource PostgreSQL Datenbank-System, berichtet Gamper. „Die Implementierung der entwickelten Lösungen ist wichtiger Bestandteil unserer Forschungsarbeiten. Denn erst im Anschluss daran ist man ganz sicher, dass ein Algorithmus keine Fehler enthält.“ Auf die Frage, ob denn die neuen Algorithmen auch in kommerzielle Software einfließen, erklärt der Professor, dass die Forschungsergebnisse zum Thema temporale Datenbanken nicht von Unternehmen direkt übernommen werden. Es braucht eben auch Themen, die frei von den Zwängen einer direkten kommerziellen Verwertbarkeit erforscht werden, präzisiert Gamper. Sehr wohl würden aber Softwarehäuser Ideen aus Forschungsergebnissen übernehmen. „Den kommerziellen Markt beliefern wir hingegen in einem anderen Zweig – einem in dem zum temporalen


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Aspekt auch noch der räumliche, also spatiale Aspekt, dazukommt“, erzählt Gamper. Ein Projekt, das sein Team in Zusammenarbeit mit der Gemeinde Bozen und einer GIS-Firma entwickelt hat, stellt die Verkehrsdichte auf einer Stadtkarte dar. „Autos mit GPS senden ihren Standort in regelmäßigen Abständen an einen zentralen Server; dieser errechnet, wie viele Fahrzeuge auf den verschiedenen Straßenabschnitten unterwegs sind und stellt auf einer Stadtkarte die Verkehrsdichte in Farben dar – beispielsweise rot für sehr viel Verkehr. Je nach Änderung der Daten in der räumlichen oder zeitlichen Dimension muss die Visualisierung ständig aktualisiert werden“, sagt Gamper. Das Forscherteam arbeitet – in Kooperation mit zwei Südtiroler Softwarehäusern – an einem weiteren Projekt bei dem räumlich-zeitliche Datenban-

ken zum Einsatz kommen: ein Destination Management System. „Ein Tourist mit gewissen Interessen, zum Beispiel Kunst und Botanik, möchte Vorschläge für mögliche Besichtigungsrouten für einen Tag an einer Destination erhalten. Das System errechnet, welche Varianten in der Zeitvorgabe möglich sind und stellt sie auf einem GPS dar“, erläutert Gamper. Solche kommerziell verwertbaren Projekte sind typischerweise durch Drittmittel finanziert. „Allerdings liefern wir nur eine Black Box mit der Basissoftware; die Softwarehäuser kümmern sich dann noch um Aspekte wie zum Beispiel die Benutzeroberfläche, die nicht mehr zu unserer Forschungsarbeit gehört“, sagt Gamper. Angewandter könnte Forschung kaum sein.

Johann Gamper ist Professor 2. Ebene. Er lehrt und forscht seit 2003 am Center for Database and Information Systems der Fakultät für Informatik, 2008 erhielt er die Professur. Bevor er im Jahr 2000 die Koordinierung des Aufbaus der Bozner Fakultät für Informatik übernahm, war er vier Jahre lang Forscher an der Europäischen Akademie in Bozen. Der Südtiroler studierte an der TU Wien Informatik mit Schwerpunkt medizinische Informatik und promovierte summa cum laude an der RWTH Aachen.


© Joujou – pixelio.de

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Navigare in montagna Sui sentieri come sulla strada: un GPS sul telefonino ci guiderà nelle escursioni in tutta sicurezza. La Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche lancerà la nuova applicazione per tutti gli smartphone. Il docente Sillitti: “Strumento utile per gli appassionati e la comunità. Alert per frane e blocchi. I nostri studenti, intanto, imparano le esigenze del nuovo mercato”.


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In principio furono le navi e gli aeroplani, poi si è passati alle automobili e la navigazione satellitare è letteralmente esplosa. La produzione su larga scala, però, non significa che il settore sia esaurito dal punto di vista della ricerca e il professore della Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche Alberto Sillitti è pronto a dimostrarlo. La nuova strada porta in montagna e abbraccia un sistema di mappe più individuale e naturale: i sentieri. Sillitti ha deciso infatti di progettare un software per dispositivi mobili in grado di guidare escursionisti e amanti dell’alta quota attraverso i sentieri. Si tratta, insomma, di un gps da telefonino facilmente scaricabile come applicazione e assai utile per evitare brutte sorprese. La facilità della gestione, però, non è direttamente proporzionale a quella della sua realizzazione che già sta impegnando alcuni laureandi della Facoltà con tesi specifiche. “Abbiamo previsto – spiega Sillitti – due fasi del lavoro, entrambe importanti e concatenate. La prima presuppone la raccolta dei dati attraverso tracce lasciate dagli stessi telefonini durante passeggiate o gite in montagna. Solitamente, infatti, famiglie e appassionati portano con sé un dispositivo mobile rendendo così più semplice la mappatura dei sentieri”. Non tutti, però, percorrono i sentieri nella loro interezza e le deviazioni sono sempre dietro l’angolo. “Vero, infatti stiamo studiando un sistema che si basi su calcoli statistici. Contiamo insomma su molteplici registrazioni che siano in grado di restituirci un quadro affidabile della situazione”. Una volta costruita la cartina, però, bisogna anche renderla utilizzabile al grande pubblico: secondo atto della ricerca. “Esatto – conferma Sillitti – e questo presuppone la creazione di un’applicazione stabile, funzionante e sufficientemente semplice. In ogni caso l’obiettivo è permettere una navigazione tout court, con tanto di indicazioni di percorso. Sarà possibile farsi comunicare dal telefonino il percorso più corto per raggiungere una baita o un qualsiasi punto sul reticolato di sentieri”. In tutto e per

tutto, insomma, uguale al navigatore che ci parla al volante. “Dobbiamo tenere conto anche di alcune specificità della montagna – ribatte il docente – legate alla transitabilità dei sentieri, ma anche alla loro costante modifica. Può capitare, infatti, che alcuni tratti siano chiusi in inverno, oppure che il percorso venga leggermente modificato per motivi naturali: l’applicazione deve potersi aggiornare in tempo reale in questo senso. Potremmo agganciarci ai servizi provinciali per contare su comunicazioni tempestive: in fondo è sufficiente collegare una loro immissione dati nel server con il software”. Potrebbero, così, arrivare avvertimenti immediati. “Molte applicazioni sfruttano alert o push per comunicazioni fulminee: potrebbe essere così anche per noi in caso di frana, blocchi o eventi imprevisti”. Oltre alla comodità più immediata di bussola delle vette, però, questa ricerca potrebbe avere delle ricadute positive per il territorio. Non è un mistero, infatti, come la digitalizzazione completa dei sentieri non sia affare facile per le amministrazioni. “In partenza abbiamo pensato all’Alto Adige, contando su una disponibilità già abbastanza ampia di dati digitali. Chiaro che la copertura totale del territorio è un obiettivo che ci inorgoglisce e può essere utile all’intera comunità. Una volta affinata la raccolta dei dati, oltretutto, nulla vieta che la procedura possa essere replicata in altre realtà”. In tutta evidenza si tratta di uno strumento versatile e del tutto in linea, dal punto di vista didattico, con quanto i ragazzi devono aspettarsi dall’attuale mondo del lavoro nel settore informatico. Non è un mistero, infatti, che le applicazioni in particolare e gli smartphone in generale siano ormai la vera esplosione tecnologica di questi anni. “La nostra ricerca – conclude Sillitti – dovrà essere adatta sia ad iTunes sia al sistema Android per coprire più pubblico possibile e permettere ai nostri studenti di prendere dimestichezza con entrambe le piattaforme più diffuse sul mercato”.

Alberto Sillitti è professore associato presso la Facoltà di Scienze e Tecnologie informatiche della Libera Università di Bolzano. Nel 2005 ha ottenuto il Dottorato di Ricerca in Ingegneria Elettronica ed Informatica presso l’Università degli Studi di Genova dove si è laureato in Ingegneria Informatica col massimo dei voti nel 2001. Ha pubblicato più di 80 articoli scientifici nell’area dell’ingegneria del software, in particolare riguardo lo sviluppo open source ed agile, i sistemi mobili e web e la qualità del software.


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Softwaresysteme der Zukunft Wie wird die Welt in 20 Jahren funktionieren? Wahrscheinlich werden wir uns allerhand vernetzter Geräte bedienen, die allesamt von Software gesteuert sind. Auch werden die Grenzen zwischen Mensch, Technik und Software immer mehr verschwimmen. Doch um diese Systeme zu erschaffen, gilt es, sich von den bestehenden Denkmustern und Grenzen zu verabschieden. Für die „Software Factory“ der Fakultät für Informatik ist dies nicht nur ein Ziel, sondern eine Prämisse.

Vera ist Masterstudentin für Informatik. In der Bozner „Filiale“ der „Software Factory“ geht sie in das „globale“ Büro, wo sie mit Pirkko aus Helsinki und Bhagwan aus Indien in Videokonferenz tritt, um sich mit den beiden über den Stand des gemeinsamen Softwaremoduls zu beraten. Dann macht sie sich ans Programmieren … So könnte in zwei Monaten ein Zeitungsbericht über die Software Factory beginnen. Denn in Kürze tritt die Bozner „Filiale“ des Forschungsprojektes der Fakultät für Informatik in Aktion. Eine Reihe von Teams in unterschiedlichen Universitäten der Erde forschen in vernetzter Art und Weise an Softwareanwendungen der Zukunft. Sie befinden sich in Madrid, Sardinien, Helsinki, Beijing, oder in Polen, Tschechien, Indien ... Den Käfig im Kopf verlassen. Prof. Pekka Abrahamsson, der die Software Factory schon zwei Jahre lang an der Universität Helsinki mit Erfolg betrieben hat, erklärt, warum gerade in Universitäten zukunftsorientierte Software entstehen kann: „Organisationen sind zu oft im Hier und Jetzt gefangen. Die bisher gültigen Regeln der Ratio, ökonomische Anforderungen, gesetzlichen Rahmenbedingungen und nicht zuletzt die Gewohnheiten lassen grundlegende Innovation nur schwer zu. Ein Softwarehaus, das den Mut hätte, sich von bisher Erprobtem völlig zu lösen, könnte wirtschaftlich leicht ins Strudeln geraten“, sagt der Informatikprofessor aus Finnland. „Wir wissen andererseits, dass sich die Ökonomie nur dann erfolgreich weiterentwickelt, wenn die Wissenschaftler nicht nur verstehen, was die Organisationen tun, sondern auch wie sie es tun und warum sie es so tun.

Dies ist der erste Pfeiler des Forschungsprojektes „Software Factory“. Business minded. Der zweite Pfeiler ist darauf ausgerichtet, bei den Studierenden den Blick für das Unternehmerische zu schärfen. „In Europa wird zu wenig auf diesen Erfolgsfaktor geachtet und dies hat unseren Kontinent im Vergleich zu den Vereinigten Staaten ins Hintertreffen geraten lassen“, erklärt Abrahamsson weiter. Wenn Informatiker lernen, unternehmerisch zu denken, dann nimmt die Wettbewerbsfähigkeit der ganzen Branche und ihrer Nutznießer zu. Sich im globalen Raum bewegen. Pekka Abrahamsson legt Wert darauf, dass auch in der Kommunikation und Lernmethodik in neuen Dimensionen gedacht wird. Er baut seinen Unterricht nicht auf Vorlesungen auf: „Die Studierenden lernen, indem sie tun“, erklärt Abrahamsson sein Lernkonzept. „Und Fehler machen gehört zum Lernprozess.“ Das Computersystem, mit dem sie arbeiten, ist so raffiniert gebaut, dass es sofort Rückmeldungen gibt, wenn ein Softwaremodul fehlerhaft ist. Bisherige Kommunikationsbarrieren werden überwunden, indem Abrahamsson seine Studierenden in einen globalen Raum begleitet, in dem Informatiker aus aller Welt arbeiten. Auf ihren Bildschirmen kommunizieren sie direkt miteinander – beispielsweise über Videokonferenzen oder Chat-Rooms. „E-Mails sind für uns Informatiker out“, schmunzelt Abrahamsson. Physisch befindet sich die Bozner „Software Factory“ in einem Raum der Fakultät für Informatik. Dort stehen etwa zehn PCs. Ebenso viele Studierende


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des Masterstudienganges in Informatik werden an einigen der Forschungsprojekte mitarbeiten. Unternehmen, die eine Idee entwickelt haben, sich aber nicht im Detail darum kümmern können, sind eingeladen diese einer Runde von Teilnehmern der Software Factory vorzustellen. Die Idee kann dann zu einem konkreten Projekt führen. Eines davon, für das die Vorarbeit schon in Gange ist, soll der lokalen Weinwirtschaft zugute kommen. Es befasst sich mit der Frage, wie man Südtiroler Weine in einer Region der Welt vermark-

ten könnte, wo hiesige Weine noch nie importiert wurden. Um die Branche und ihre Arbeitsweise besser kennenzulernen, hat das Team der Software Factory schon mit einigen Winzern und deren Vereinigungen gesprochen. Doch nicht nur Informatiker sind hier gefragt: zunächst wurde die Fakultät für Design involviert, dann werden Wirtschaftswissenschaftler und Ingenieure gebraucht, um die Ideen und das Know-how aus den verschiedenen Fachbereichen zusammenzuführen – Teamarbeit also, so wie in der echten Arbeitswelt.

Pekka Abrahamsson ist Professor 1. Ebene für Informatik in Bozen und kommt aus Finnland. Nach jahrelanger Tätigkeit als Forscher für das VTT Technical Research Centre of Finland, der größten Organisation für Auftragsforschung Nordeuropas, hielt er von 2005 bis 2009 am VTT eine Forschungsprofessur inne. Sein Hochschulstudium absolvierte er hauptsächlich an der Universität von Oulu, Finnland. Außerdem sammelte er Erfahrungen in den USA, Frankreich und Dänemark.


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FAKULTÄT FÜR BILDUNGSWISSENSCHAFTEN FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

BRIXEN Masterstudiengang Bildungswissenschaften für den Primarbereich Bachelor Sozialarbeit Bachelor Sozialpädagogik Bachelor Kommunikations- und Kulturwissenschaften Master Innovation in Forschung und Praxis der Sozialen Arbeit Doktoratsstudium in Allgemeiner Pädagogik, Sozialpädagogik und Allgemeiner Didaktik Kompetenzzentren Kompetenzzentrum Sprachen Kompetenzzentrum Soziale Innovation und Qualitätsförderung in den Sozialen Professionen FORSCHUNGSSCHWERPUNKTE Prozesse der Erziehung, Entwicklung und Bildung in unterschiedlichen Lebenswelten Sprachen und Ausdrucksformen in der multikulturellen und mehrsprachigen Gesellschaft Soziale Prozesse, aktive Bürgerschaft und Solidarsysteme

BRESSANONE Corso di laurea magistrale in Scienze della Formazione primaria Corso di laurea in Servizio sociale Corso di laurea per Educatore sociale Corso di laurea in Scienze della Comunicazione e Cultura Corso di laurea magistrale in Innovazione e Ricerca per gli Interventi socio-assistenziali-educativi Dottorato di ricerca in Pedagogia generale, Pedagogia sociale e Didattica generale Centri di ricerca Centro di competenza lingue Centro di competenza per l‘innovazione sociale e la promozione della qualità nelle professioni sociali PUNTI CARDINE DELLA RICERCA Processi e progetti educativi e di sviluppo nelle differenti età e contesti di vita Lingue e linguaggi per una società multiculturale e plurilingue Dinamiche sociali, coesione, cittadinanza e sistemi di solidarietà


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Mit Samthandschuhen in die Vergangenheit Der Gang durch Klöster und alte Gemäuer schult das Auge jener, die auf der Suche nach verschollenen musikalischen Handschriften sind. Seit vier Jahren erfassen Prof. Franz Comploi und die Forscherin Giulia Gabrielli unbekannte Handschriften; mittlerweile sind etwa 100 von ihnen katalogisiert und fotografiert und sollen in Kürze publiziert werden. Eine Bestandaufnahme der musikalischen Handschriften unter besonderer Berücksichtigung des „cantus fractus“* in Südtirols Bibliotheken stand 2008 am Ausgangspunkt der ehrgeizigen Forschungsarbeit. Bereits nach einigen Monaten war jedoch klar, dass die gesichteten Bibliotheken in Bozen, Brixen, Neustift, Innichen, Enneberg, Stilfs und anderen kleinen Ortschaften viel zu umfangreich waren, als dass sie in einer Arbeit untergebracht werden könnten. Also wurde der Rahmen enger gesteckt und die Bibliotheken und Archive von Bozen und Brixen durchforstet. Im Detail sind dies die Bibliotheken des Franziskanerklosters in Bozen, jene der Benediktiner in Muri-Gries, das Stadtmuseum und das Propsteiarchiv in Bozen sowie für Brixen die Bibliothek der PhilosophischTheologischen Hochschule, das Kapuzinerkloster, das Diözesanarchiv, das Diözesanmuseum und die Parschalk-Bibliothek des Vinzentinum. „Der Blick bei dieser Arbeit wird geschult, und obgleich die Handschriften sehr unterschiedlich sind – vom reich mit Ornamenten verzierten Werk für die Sonntagsliturgie bis hin zur Handschrift in Taschenbuchform für den Tagesgebrauch – sind sie für den Fachmann wiedererkennbar“ erläutert die aus dem Trentino stammende Giulia Gabrielli. Als studierte Musikwissenschaftlerin hat sie ebenso wie Musikprofessor Franz Comploi, Dekan der Fakultät für Bildungswissenschaften, ein besonderes Auge für Text und Musik. „Das Interessante dabei ist, dass viele Musikhandschriften nach Jahrhunderten des Gebrauchs nur noch für die Texte genutzt wurden, die Musik sich aber im täglichen Gebrauch sozusagen verselbständigt hat und die Sänger die musikalischen Handschriften nur mehr der Texte wegen zur Hand nahmen.“ Und zur Hand nehmen ist auch nur bei den wenigsten Musikhandschriften korrekt ausgedrückt: es gibt die 80 cm hohen und 50 cm breiten

Handschriften, die reich verziert als liturgische Schmuckstücke die Kirche schmückten; oder eben die einfacheren kleinen, unscheinbar gebundenen Handschriften, welche die Mönche in ihrem Tagesablauf begleiteten. So werden in der Forschungsarbeit Handschriften erfasst, die für den Chor als musikalisches Handbuch dienten, als auch jene die zum Beispiel der Organist verwendete. Alles dreht sich dabei um geistliche Musik. „Ein Ziel des Projektes ist es zudem, vergessen geglaubte Musik wieder aufzuführen“ betont Prof. Comploi. „Manche Kompositionen, die in den Manuskripten von Schloss Tirol und des Stadtmuseums Bozen gefunden wurden, gehören inzwischen z.B. zum Repertoire des Vokalensembles Feininger aus Trient und werden immer wieder aufgeführt.“ Wissenschaftliche Quellen, auf die man sich diesbezüglich stützen kann, gibt es wenige. Im Jahr 1905 zum Beispiel wurde der Katalog „Die illuminierten Handschriften in Tirol“ veröffentlicht, was einen interessanten Anhaltspunkt für die zwei Forscher darstellt. In der Forschungsarbeit der Fakultät für Bildungswissenschaften wurden bisher etwa 100 musikalische Handschriften fotografiert, Seite für Seite; sie stehen künftigen Generationen digital zur Verfügung. „Wobei man bedenken sollte, dass diese alten auf wertvollem Pergament geschriebenen Handschriften die Jahrhunderte überdauern. Das älteste von mir katalogisierte Werk stammt aus dem 11. Jahrhundert. Unsere heute gedruckten Bücher werden eine Lebensdauer von 50-100 Jahren wohl kaum unbeschadet überstehen“, resümiert Giulia Gabrielli. Mit einem Problem haben die wertvollen alten Schriften aber zu kämpfen – Feuchtigkeit und Insekten. „Wir arbeiten natürlich mit Handschuhen bei dieser delikaten Arbeit. Bei manchen Handschriften sind aber Verfallserscheinungen zu erkennen, wenn z.B. Insekten den


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*„Cantus planus“ und „cantus fractus“ bezeichnen zwei Kompositionsarten bzw. Notationsarten: beim „cantus planus“ (lat. = ebener, einfacher Gesang) sind alle Notenwerte mit dem gleichen Wert/Dauer notiert ; beim „cantus fractus“ (lat. = gebrochener Gesang) sind hingegen unterschiedliche Notenwerte angegeben. Die „cantus fractus”- Notation beginnt Anfang des 14. Jahrhunderts und endet gegen Ende des 19. Jahrhunderts.

Klebestoff, der in den Einbänden ist, befallen“ so die zwei Musikwissenschaftler. Auch die Datierung ist Teil des Forschungsprojektes. „Nur eine sehr geringe Anzahl der Bücher trägt eine Jahreszahl“, gibt Prof. Comploi zu bedenken. Die zwei Forscher haben anhand von Einband, Wasserzeichen, die die Bücher tragen oder Schriftund Ornamentformen die Werke auch zeitlich datieren können.

Und auf die Frage, welches der aufgefundenen Werke das Schönste sei, zieht Giulia Gabrielli einen Vergleich, der oft auch auf Menschen angewandt wird: „Es sind zumeist nicht die auf den ersten Blick schönsten Werke die interessantesten, sondern jene, die trotz eines schlichten Äußeren eine Fülle an faszinierendem Inneren verwahren. Das waren für mich die schönsten Funde.“

Bevor Franz Comploi 2004 an die Freie Universität Bozen berufen wurde, war er Professor an der Universität Mozarteum in Salzburg. Er ist Professor 1. Ebene: er lehrt Didaktik der Musik am Studiengang Bildungswissenschaften für den Primarbereich an der Fakultät für Bildungswissenschaften, der er als Dekan vorsteht. Die Vernetzung von Theorie und Praxis in der Musik steht im Zentrum seiner Arbeit. Seine Forschung konzentriert sich auf zwei Schwerpunkte: das Verhältnis von Musik und Sprache, also die musikalische Prosodie, und die Erfassung historischer Manuskripte in Archiven Südtirols.

Nach einer Schulausbildung in Klavier und Gesang studierte die gebürtige Trentinerin Giulia Gabrielli Musikwissenschaft am Institut für Paläografie und Musikalische Philologie der Universität Pavia. 1999 erwarb sie ihren ersten Abschluss cum laude; 2002 folgte das Spezialisierungsstudium. Sie lehrt an der Fakultät für Bildungswissenschaften, wo sie seit 2008 als Mitarbeiterin und seit 2010 als Forscherin auf bestimmte Zeit aktiv ist. Einige Jahre bereits untersucht sie das konservierte Erbe an musikalischen Hand- und Druckschriften der Provinz Bozen und Trient.


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Faccia a faccia col cittadino Ilaria Riccioni, sociologa della Facoltà di Scienze della Formazione, ha elaborato il Piano Sociale per il Comune di Bolzano. La ricerca sul campo e le interviste approfondite coordinate dalla docente hanno prodotto un documento che rivela l’anima del capoluogo altoatesino. “La vita tranquilla come bene assoluto, attenzione all’ecologia, ciclabili e dialogo con le istituzioni”. Tra le categorie che chiedono di essere ascoltate, intanto, spuntano gli studenti.

La qualità della vita è concetto sfuggente, difficile da afferrare in una frase, raccontare con un dato o esporre in un piano amministrativo. La Facoltà di Scienze della Formazione della LUB, però, ha accettato la sfida proposta dal Comune di Bolzano: ha trasformato la stesura del Piano Sociale Qualità della Vita in un progetto di ricerca coordinato dalla responsabile scientifica Ilaria Riccioni. La prima domanda è: da dove si parte per produrre un simile documento? “Ascoltare la voce dei cittadini – spiega Riccioni – è fondamentale perché sono loro che subiscono o contribuiscono alle sue caratteristiche e contraddizioni”. L’intervista, dunque, come strumento principe dell’indagine. “Esatto, ma anche qui diventa determinante la metodologia. Fino a poco tempo fa, infatti, l’amministrazione si basava su focus group di persone in gruppi collegati per un qualche aspetto. Noi abbiamo preso cittadini singoli, faccia a faccia con la garanzia dell’anonimato, procedendo con metodo biografico e basandoci sulle storie di vita di ogni individuo. Così si rifuggono i luoghi comuni e si scava nel profondo su ampi settori”. Prima della quantità, dunque, sale a galla la qualità. “Spesso i politici sono abituati a fotografare la realtà secondo dati statistici che, talvolta, possono anche essere fuorvianti. Nei nostri colloqui, invece, siamo presto passati alle considerazioni sulla capacità recettiva

delle istituzioni. Quanto sono capaci di interpretare segnali di benessere e malessere?”. Già, quanto? “Discorso complesso – risponde Riccioni – prima di tutto, però, bisogna considerarlo dal punto di vista dei servizi sociali. Qui sono emersi alcuni aspetti di una Bolzano che sta cambiando in fretta, con nodi da sciogliere come la collocazione sociale degli immigrati, la vulnerabilità delle famiglie e l’aumento dei single. Di fronte a un’elevata capacità di venire incontro alle esigenze economiche dei servizi, infatti, non corrisponde un’adeguata capacità di creare un tessuto sociale di solidarietà o agilità relazionale”. Sono le due facce della medaglia chiamata welfare: una tira fuori i soldi e si volta, l’altra ti dona l’anima senza grandi risorse. Cuore e denaro: le 250 interviste effettuate dal team di ricerca in dodici mesi, equamente divise per sesso ed età, sono andate alla ricerca del sottile equilibrio fra questi due estremi. Quali sono, dunque, i valori chiave per i bolzanini? “In prima battuta è emerso un profondissimo rispetto della vita tranquilla della città. Tempi a misura d’uomo, pulizia, sicurezza o integrazione sono tutti elementi che contribuiscono a questa concezione, mentre la resistenza ai cambiamenti implica la paura dell’alterazione di una una situazione che si vuole mantenere”. Non solo di tranquillità,


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però, può vivere una cittadinanza. “No, ha ragione – continua la docente di Sociologia – e tra le altre peculiarità emerse vanno citate senza dubbio l’ecologia come valore in accordo con la natura ai piedi delle montagne, una Bolzano vivibile e ciclabile, la famiglia come luogo di crescita, la cultura intesa come scambio e, soprattutto tra gli immigrati, la religione”. Il Piano Sociale, però, non si limita a un semplice sondaggio ed è in realtà molto più articolato. “Nel complesso è composto dalla ricerca, una descrizione dei quartieri attraverso interviste e fotografie e le linee guida 2011-2015. In estrema sintesi possiamo dire che registriamo una sostanziale soddisfazione per l’amministrazione, ma una difficoltà nel sentirsi parte sociale attiva per

scarsità di informazione, difficoltà nei rapporti e scarso ascolto delle istituzioni”. Interessante anche la posizione dell’anima dell’Università: gli studenti. “Sentono la città come poco disposta ad accogliere le loro esigenze. Evidenziano un costo della vita elevato, poche misure a favore degli studenti, ridotto numero degli affitti, pochi spazi di aggregazione spontanea e poche alternative al bar del centro”. Grazie anche al lavoro dei ragazzi, però, oggi il Comune ha sul tavolo una “traduzione” umana di grafici e statistiche: sarà il caso di ascoltarli?

Ilaria Riccioni è ricercatrice di ruolo presso la Libera Università di Bolzano dal marzo 2010. Fa ricerca nell’ambito della sociologia teorica e applicata sui temi del mutamento sociale, dell’interpretazione dei fenomeni sociali emergenti, delle politiche sociali e della cittadinanza attiva. Ha svolto ricerca sul campo per un adeguamento delle politiche sociali alle diverse realtà del disagio nelle società complesse, con attenzione agli aspetti di multiculturalismo e convivenza.


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Forscherin zwischen Kulturen Wie kann nachhaltige kulturelle Integrationsarbeit auf Gemeindeebene aussehen? Dieser Frage geht eine Forscherin der Fakultät für Bildungswissenschaften in einer Publikation nach, die auch außerhalb von Forschungszirkeln Anklang findet.

Wer Annemarie Profanters Büro im dritten Stock der Brixner Fakultät für Bildungswissenschaften betritt, wird sich schnell bewusst, dass er hier auf keine klassische Kleinkind-Pädagogin trifft. Dafür sorgen Fotos an der Wand, auf denen die Professorin für Allgemein- und Sozialpädagogik häufig mit Kopftuch und umgeben von Männern in weiten Kaftanen oder Frauen mit Tschador und Niqab zu sehen ist – Erinnerungen an ihre bald zehnjährige Forschungstätigkeit in arabischen Ländern wie Pakistan, Saudi-Arabien oder dem Oman, die Profanter in mehreren Büchern aufgearbeitet hat. Körperliche Bestrafung von Kindern im Schulsystem, Situationen von Kindern mit besonderen Bedürfnissen, Organisation von Familiensystemen in Mehrfrauenehen… Durch die Auseinandersetzung mit solchen Themen in den Ursprungsgesellschaften erforscht Annemarie Profanter wissenschaftliche Grundlagen für die Integrationsdebatte vor Ort. Denn: „Wenn ich verstehe, wie islamische Gesellschaften funktionieren, kann ich auch verstehen, wo jemand, der aus Marokko oder dem Oman zu uns kommt, Schwierigkeiten hat und wo es dagegen Anknüpfungspunkte gibt“, sagt sie. Um dieses Verständnis auch außerhalb des akademischen Elfenbeinturms zu fördern, pflegt die leidenschaftliche Forscherin konkrete Kooperationen mit lokalen Akteuren. Einen wichtigen Impuls in diese Richtung hat die Zusammenarbeit mit der Organisation für Eine solidarische Welt (OEW), der größten entwicklungspolitischen NGO Südtirols, gegeben. Ausgangspunkt dafür war das ESF-

Projekt „Nachhaltige kulturelle Integrationsarbeit in der Gemeinde“ in Franzensfeste. Das von der OEW konzipierte und durchgeführte Projekt hatte zum Ziel, in der Gemeinde mit dem zweitgrößten MigrantInnenanteil Südtirols interkulturelle Begegnung zu ermöglichen. Zu diesem Zweck wurden zwischen Dezember 2009 und Mai 2010 sechs geführte Workshops organisiert, an denen VertreterInnen der unterschiedlichen Migrantengruppen sowie Einheimische teilnahmen. Im Laufe dieser Treffen entwickelten die TeilnehmerInnen außerdem den Wunsch, ein Fest der Völker zu veranstalten, das am 1. Mai 2010 stattfand. Während die OEW gemeinsam mit lokalen Verantwortlichen die Durchführung des Projektes übernahm, analysierten Annemarie Profanter gemeinsam mit ihrer wissenschaftlichen Mitarbeiterin Claudia Lintner auf Basis von Beobachtungen und Gesprächen den Verlauf. Die grundlegende Frage, der die beiden Forscherinnen dabei nachgingen, war: Welches Veränderungspotential haben solch kommunale Projekte – und was sind Kriterien, die zu ihrem Erfolg führen? In rund dreißig Interviews befragten die Wissenschaftlerinnen anhand eines standardisierten Fragebogens TeilnehmerInnen, Außenstehende und lokale Schlüsselpersonen zu den Workshops, zum Fest sowie zum Dorfleben im Allgemeinen. Die Auswertung dieser qualitativen Interviews ergab nicht nur ein differenziertes Bild des interkulturellen Zusammenlebens in Franzensfeste, sondern ermöglichte auch eine kritische Bilanz über Nutzen und Mankos des Projektes.


© Giovanni Melillo Kostner

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Darauf aufbauend erarbeiteten Profanter und Lintner einen Katalog an Kriterien, die zentral für eine erfolgreiche Umsetzung solch interkultureller Vorhaben sind – Kriterien, die angesichts steigender Projektanträge in diesem Bereich auch für den Südtiroler Gemeindenverband von großem Interesse sind, der sich ebenfalls in die Kooperation einklinkte. So wichtig Annemarie Profanter diese Zusammenarbeit mit externen Partnern ist, so genau achtete sie jedoch auch auf die finanzielle Unabhängigkeit des Forschungsprojektes. Deshalb lief dieses als eigenständiges Projekt der Fakultät mit dem Titel „Expatriate Acculturation into the Host Population of South Tyrol (EAHPT)“. Einzige Ausnahme von dieser strengen Rollentrennung? Die von der OEW und der Gemeinde Franzensfeste mitfinanzierte

aufwändige Publikation „Zusammen und weniger getrennt“, mit der die beiden Autorinnen den Pfad klassischer wissenschaftlicher Publikationen verließen. Neben allgemein verständlich aufbereiteten Forschungsergebnissen finden sich darin jede Menge ausdrucksvoller Fotos und Porträts von Franzensfestnern aller Kultur- und Sprachgruppen. Ein Weg, um das Buch auch einer breiten Öffentlichkeit zugänglich zu machen, wie Profanter erklärt. „Denn sonst dringt schließlich nie zu den Leuten durch, was wir hier in unserem Glashaus erforschen.“

Annemarie Profanter, Professorin 2. Ebene an der Fakultät für Bildungswissenschaften, absolvierte zwei Forschungsdoktorate in Erziehungswissenschaften und Psychologie sowie einen Master in Psychology of Education an der University of London. Ihre Forschung konzentriert sich auf Elemente sozialer, familiärer und erziehungswissenschaftlicher Realitäten indigener Stammeskulturen sowie die Verwertung der Ergebnisse für pädagogische Fragestellungen der aktuellen Integrationsproblematik.


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Schwarz oder weiß? Oder eher viele Graustufen? „Das Hemmet – die Hemmeter“ würde der eine oder andere Südtiroler zum „Hemd“ sagen: Der Plural für sächliche Hauptwörter wird im Dialekt häufig auf -er gebildet, häufiger als in der deutschen Hochsprache jedenfalls. Dialekte unterscheiden sich nämlich nicht nur phonetisch und lexikalisch von der Hochsprache, sondern auch grammatikalisch. Ein Forschungsprojekt des Kompetenzzentrums Sprachen.

Ein Sprachatlas gibt Aufschluss über sprachliche Unterschiede eines Gebietes, und zwar über Aussprache, Wortschatz und Grammatik. Der Tirolische Sprachatlas, der auch Südtirol umfasst, stammt noch aus dem frühen 20. Jahrhundert. Das Kompetenzzentrum Sprachen, an welchem Sprachwissenschaftlerin Silvia Dal Negro forscht, hat in den letzten zwei Jahren hauptsächlich die grammatikalischen Unterschiede der Dialekte in Südtirol erhoben. Das Ziel ist eine Basisstudie, die wie eine Folie über verschiedene Seiten des Sprachatlasses von Tirol gelegt werden kann, um Veränderungen festzuhalten. Bei der Erhebung wurden je vier Personen in rund 20 Gemeindegebieten als Gewährspersonen befragt (so heißen in der Fachsprache die Informanten): ein Mann und eine Frau sowie zwei Jugendliche unter 15, die selbst und deren Eltern ebenso in der Gemeinde geboren sind. „Das war nicht ganz leicht“, sagt Silvia Dal Negro, die gemeinsam mit einem Assistenten, Simone Ciccolone, die Befragung durchgeführt hat. „Durch die hohe Mobilität gibt es nicht mehr viele Menschen, die diese Bedingung erfüllen.“ Mit einer Liste von Beispielsätzen in Hochdeutsch hat sie die Gewährspersonen gefragt, wie sie dazu in Dialekt sagen würde. „Die Schwierigkeit war, dass die Leute oft den Satz in der Hochsprache wiederholt haben, ohne in der Lage zu sein, in den Dialekt überzuwechseln.“, erzählt Dal Negro. Der Grund dafür könnte sein, dass eine Datenerhebung

für die Informanten einen so offiziellen Charakter hat, dass für sie der Dialekt in dieser Situation kaum infrage kommt. Dal Negro vermutet deshalb, dass die Menschen nicht immer bewusst zwischen den beiden Sprachformen unterscheiden, sondern je nach Situation mehr oder weniger Dialekt in ihre Sprache mischen. Während zum Beispiel in der deutschsprachigen Schweiz eine klare Trennung zwischen Dialekt und Hochdeutsch besteht, scheint der Südtiroler die beiden Sprachen eher als eine anzusehen. Mit vielen Grausstufen – und nicht schwarz und weiß. „Gewisse Färbungen und Unterschiede verblassen durch diese Entwicklung – der Dialekt nähert sich unwillkürlich immer stärker der Hochsprache“, kommentiert Dal Negro. Während beispielsweise in Naturns wie auch in Mühlbach „nimmt zwölfe“ gesagt wird, heißt es am Ritten, Branzoll und Leifers inzwischen hochsprachlich „nimm zwölf“. Der Plural weist im Südtiroler Dialekt hingegen noch ganz klare Muster auf. Während es in der Hochsprache sehr unterschiedliche Formen gibt, wie ein weibliches, männliches oder sächliches Hauptwort in der Mehrzahl endet, reduzieren sich diese Formen im Dialekt auf ein paar Varianten. So ist es für Substantive im Maskulinum typisch, dass sie im dialektalen Plural keine Veränderung erfahren: der Tag – die Tag. Ein Pullover heißt im Pas-


© Kühebacher, Egon, Tirolischer Sprachatlas, Marburg 1965

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seiertal Pilouber, wenn es aber mehrere sind, heißt es Pilëiber, mit Vokalalternanz: Obwohl es sich um ein Lehnwort aus dem Englischen handelt, sind die inneren Regeln der Mundart stärker. Ein Neutrum (das Hemd) endet im Plural hingegen gern in -er: das Hemmet – die Hemmeter. Interessant waren auch die Unterschiede im Satzbau. Die Aussage „die wollten sie verkaufen“ wird in Salurn zu: „sie haben gewollt sie verkaufen“, mit einem ans Italienische anlehnenden Satzbau. In den meisten Gemeinden hieß es hingegen: „die haben sie gewollt verkaufen“. In Mals ist schließlich der alemannische Einfluss hörbar: „die haben sie wollen verkaufen“. Ähnliche Unterschiede gibt es bei der Bildung des Partizips Perfekt: während es in der Hochsprache „verbrannt“ heißt, sagt der Rittner „ungeprunnen“, der Malser „verprennt“. „Noch wichtiger für mich war es aber, immer wieder festzustellen, dass sich die Gewährspersonen

einfach nicht der Unterschiede bewusst waren“, erklärt Dal Negro weiter. „Wenn wir nach der Dialektform von einem Satz mit …ich ging…’ gefragt haben, wollte jeder Informant im Dialekt „i ging“ sagen. Das Präteritum gibt es aber im Bayerischen (zu dem auch Dialekte in Südtirol gehören) nicht. Da heißt es „i bin gongen“. Die Datenerhebung ist inzwischen abgeschlossen; Analyse und Schlussfolgerung werden noch einige Zeit in Anspruch nehmen. Auf die Frage, wie man denn bei einer so geringen Stichprobengröße Rückschlüsse auf generell gültige Entwicklungen feststellen kann, macht Dal Negro klar, dass es sich hier nur um eine Grundlagenforschung handelt, die Aufschluss darüber geben kann, in welche Richtung eine weiterführende soziolinguistische Forschungsarbeit interessant und sinnvoll wäre.

Silvia Dal Negro, Professorin 2. Ebene, lehrt seit 2006 Linguistik an der Fakultät für Bildungswissenschaften und ist Vize-Direktorin des Kompetenzzentrums Sprachen. Sie hat an den Universitäten Bergamo, Pavia und Zürich studiert und lehrte anschließend sechs Jahre lang an der Università del Piemonte Orientale. Ihre Forschungsschwerpunkte umfassen die Soziolinguistik, die Kontaktlinguistik und die Dialektologie in den Bereichen des Deutschen, des Italienischen und in Sprachminderheitssituationen.


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Multilingue è meglio Crescere utilizzando due o più lingue favorisce il potenziamento di specifiche capacità del nostro cervello? Essere in grado sin da piccoli di muoversi in ambienti linguistici diversi porta dei benefici di tipo cognitivo già negli anni dell’infanzia? La questione, schietta ed essenziale, viene affrontata in una ricerca che Rita Franceschini e Gerda Videsott, rispettivamente direttrice e ricercatrice del Centro di Competenza Lingue della Libera Università di Bolzano, stanno conducendo dal 2009.

La ricerca dal titolo “Is there any cognitive and cerebral advantage for being bilingual?” ha non soltanto verificato che un certo tipo di vantaggio cognitivo nei bambini precocemente multilingui esiste, ma lo ha anche potuto quantificare. Per giungere a queste conclusioni le ricercatrici hanno innanzitutto ristretto il campo ad una soltanto tra le infinite facoltà cognitive del nostro cervello: la capacità di attenzione. Questo perché i plurilingui sono costantemente sottoposti alla necessità di decidere tra le diverse opzioni espressive di cui dispongono e la capacità di decidere con efficacia (“attenzione”) tra diverse opzioni è misurabile sulla base di un collaudato test (ANT, “Attentional Network Test”) nel quale il soggetto esaminato deve indicare nel minor tempo possibile, osservando una serie di frecce o linee ordinate orizzontalmente, in quale direzione punti la freccia che si trovi al centro della serie. Nel test vengono valutati, oltre alla correttezza della risposta, anche i tempi di reazione. Ebbene: questa capacità è legata alla padronanza di più lingue? La sfida lanciata dalla ricerca è consistita nell’idea di documentare lo sviluppo cerebrale relativo a questa specifica abilità in un gruppo di bambini plurilingui e in un arco temporale di 20 mesi, osservando direttamente, mediante l’impiego della Tomografia Cerebrale Funzionale (fMRT), quali aree del loro cervello venissero attivate durante lo svolgimento del test, e con quale intensità. Si trattava dunque di raccogliere una serie di “istantanee” del cervello alle prese con il test, e di “scattarle” durante le due distinte esecuzioni dello stesso; è stato svolto una prima volta nel 2009 e ripetuto dai medesimi bambini nel 2011. Queste fotografie, confrontate tra loro, avrebbero così testimoniato

l’eventuale crescita delle funzioni cerebrali sollecitate dal test. Lo strumento necessario a questa sofisticata misurazione è stato messo a disposizione dall’Università Vita Salute San Raffaele di Milano, che collabora alla ricerca con i noti ricercatori Jubin Abutalebi e Pasquale Della Rosa, mentre in Alto Adige si è formato, su base del tutto volontaria, un gruppetto di 16 bambini bilingui tra i 7 ed i 9 anni, disposti ad affrontare questa inesplorata strada di ricerca. Questi bimbi, sostenuti ovviamente da genitori fortemente motivati e coinvolti con sapiente cura nel “gioco”, hanno svolto il loro test mentre la macchina, nella quale con un certo entusiasmo si infilavano fedeli alla consegna di mantenersi il più possibile immobili e di cliccare su un apposito mouse le proprie reazioni alle prove del test, registrava e visualizzava le aree del cervello attive nelle operazioni. Inoltre, hanno svolto un test linguistico per verificare la loro competenza nelle due lingue, italiano e tedesco. I risultati che via via stanno emergendo dal raffronto di queste due serie di dati evidenziano con una sorprendente chiarezza non soltanto che, a distanza di venti mesi, le aree cerebrali coinvolte durante il test evidenziano dispendi minori di energia (e quindi siano in grado di rispondere più efficacemente alle prove), ma che, questi bambini plurilingui manifestano uno sviluppo neurobiologico precoce, simile a quello riscontrato di solito in soggetti di età più adulta. Il multilinguismo, ci suggerisce in definitiva questa ricerca, sembrerebbe un propulsore formidabile per lo sviluppo delle capacità attentive dei bimbi, che in questo campo risultano più veloci, precisi e precoci dei loro coetanei monolingui. A completare poi il quadro che


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sta emergendo dallo studio giungono anche i dati elaborati parallelamente agli esperimenti milanesi, ovvero lo studio comportamentale condotto su 118 scolari di quinta elementare residenti in Val Gardena e Val Badia, immersi anch’essi in un contesto multilingue. Anche loro, questa volta nelle loro classi e senza tomografia, hanno eseguito il consueto test con le frecce. Confrontando quindi i risultati ottenuti dai singoli scolari con i voti per materia delle loro pagelle si è potuto rintracciare

una netta correlazione tra i migliori risultati nel test cognitivo con le migliori valutazioni nelle materie linguistiche, mettendo in luce che i più rapidi e precisi nel test cognitivo sono sempre risultati i bambini che avevano i voti migliori nelle lingue. Come a dire che il multilinguismo è un ospite sempre presente nelle compagnie più brillanti.

Rita Franceschini, professore ordinario di linguistica e direttrice del Centro di competenza lingue della LUB. Ha studiato a Zurigo, Trieste e Bielefeld e insegnato, prima di venire a Bolzano nel 2004, in Svizzera, Italia e USA. Si interessa di multilinguismo nei suo risvolti neurobiologici, sociali ed educativi. Autrice di oltre 150 pubblicazioni, fu chiamata come esperto di alto livello presso la UE. Già rettrice della Libera Università di Bolzano , è presidente del Comitato pari opportunità della LUB.

Gerda Videsott, laureata in Lettere e Filosofia, attualmente ricercatrice a tempo determinato presso la LUB nel settore disciplinare M-PED/04: Pedagogia sperimentale. Presso la Facoltà di Scienze della Formazione svolge anche attività didattica. I suoi campi di ricerca sono soprattutto nell’ambito della didattica e del multilinguismo, con focus particolare sulla neurolinguistica.


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FAKULTÄT FÜR WIRTSCHAFTSWISSENSCHAFTEN FACOLTÀ DI ECONOMIA

Bozen und Bruneck Bachelor in Wirtschaftswissenschaften und Betriebsführung Bachelor in Ökonomie und Sozialwissenschaften Bachelor in Tourismus-, Sport- und Eventmanagement Master in Ökonomie und Management des öffentlichen Sektors Master in Unternehmensführung und Innovation Kompetenzzentren CRELE – Centre of Research in Law and Economics TOMTE – Competence Centre in Tourism Management and Tourism Economics FORSCHUNGSSCHWERPUNKTE Management – Strategy – Marketing – Entrepreneurship Dynamische Wirtschaftsmodelle und Regionalentwicklung Accounting, Banking & Finance

Bolzano e Brunico Corso di laurea in Economia e Management Corso di laurea in Scienze Economiche e Sociali Corso di laurea in Management del Turismo, dello Sport e degli Eventi Corso di laurea magistrale in Imprenditorialità e Innovazione Corso di laurea magistrale in Economia e Management del Settore pubblico Centri di competenza CRELE – Centre of Research in Law and Economics TOMTE – Competence Centre in Tourism Management and Tourism Economics PUNTI CARDINE DELLA RICERCA Management – Strategy – Marketing – Entrepreneurship Modelli Economici dinamici e sviluppo regionale Accounting, Banking & Finance


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Hinter der Fassade von Betriebsergebnissen Finanzanalysten spielen eine bedeutende Rolle in der Welt der Vermögenswerte. Wie gut sind sie aber wirklich? Durchschauen sie die gängigen Tricks, dank derer ein Unternehmen seine Bilanz aufpeppen kann, um den eigenen Wert am (Aktien-)Markt hochzuhalten? Und wenn die Analysten sie durchschauen, spielen sie einfach mit, weil sie daran mitverdienen? Oder lassen sie diese Fassade in ihren Gewinnprognosen schonungslos bröckeln? Eine Studie der Fakultät für Wirtschaftswissenschaften.

Wenn ein bedeutender Investor ein Aktienpaket kaufen oder verkaufen möchte, greift er gern auf Bewertungen von Analysten zurück, um die eigene Entscheidung zu unterstützen. Denn er möchte zumindest annähernd wissen, wie gut die zukünftige Rendite für seine Investition sein wird. Analysten nehmen dazu die Bilanzen des Unternehmens unter die Lupe, recherchieren und erstellen Prognosen über die mögliche Entwicklung von Gewinn, CashFlow oder Aktienpreis. Steuergesetze ermöglichen es, Buchhaltungsdaten mit einem gewissen „Spielraum“ einzuordnen, so dass Betriebsergebnisse und Cash-Flows eines

Unternehmens vorübergehend besser scheinen als sie es ohne „Korrektur“ wären. Oder der Profit wird vorübergehend nach unten korrigiert, um weniger Steuern zu zahlen. Gewinne können buchhalterisch gesteuert werden, in dem man beispielsweise Forderungen von gefährdeten Kunden später abschreibt, anstatt es gleich zu tun. Oder sie können real gesteuert werden, indem man zu Jahresende noch ein Angebot lanciert, das die Kunden zu vorgezogenen Umsätzen animiert. Ein so gesteuertes Betriebsergebnis nennt sich in der Fachsprache „Earnings Management“.


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Real oder beschönigt? Wer also eine Analyse kauft, würde gerne wissen, ob der Analyst ein eventuelles Earnings Management durchschaut hat. Auch ist es von Bedeutung zu verstehen, ob die Gewinnprognosen die realen Ergebnisse projizieren oder ob der Analyst sie in Linie mit dem Earnings Management des Unternehmens beschönigt, denn viele Analysten arbeiten in einem Interessenskonflikt. Dieses Thema vertieft die Professorin der Fakultät für Wirtschaftswissenschaften Lucie Courteau in einer Forschungsarbeit – gemeinsam mit ihren Kolleginnen Jennifer Kao von der Universität von Alberta, Kanada, und Yao Tian von der San Jose State University in Kalifornien. Schon vor zehn Jahren hatte Courteau gemeinsam mit Kollegen eine Studie veröffentlicht, in der Prognosen von Analysten verwertet wurden. Doch inzwischen hat sich in der Welt der Finanzanalysten viel getan. So sammeln die drei Wirtschaftswissenschaftlerinnen gerade Tausende neuer Daten und erweitern die Variablen um ein weiteres Element – den Typus des Analysten und seine jeweilige Motivation. Interessenkonflikt oder nicht? „Man unterscheidet zwei Typen von Analysten“, erläutert Lucie Courteau. „Sell-Side-Analysten arbeiten in der Regel für Investmentbanken und bewerten Unternehmen für die Kunden ihres Arbeitgebers. Sie erhalten Prämien, wenn die Abweichung ihrer Prognose von den späteren effektiven Bilanzzahlen gering ist. Sie sind also wenig motiviert, ihre Prognose vom Earnings Management reinzuwaschen, wenn sie

sich erwarten, dass das Unternehmen weiterhin die Betriebesergebnisse buchhalterisch oder real „optimiert“. Dass die Bank Interesse am Handel mit Vermögenswerten hat, beeinflusst sie auch. Allzu kritische Bewertungen liegen also nicht im Interesse des eigenen Arbeitgebers. Andererseits steht auch die eigene professionelle Reputation auf dem Spiel“, erklärt die Professorin aus Kanada das Dilemma. Wie akkurat sind solche Bewertungen am Ende also wirklich? Der zweite Typ ist der unabhängige Analyst. Er wird direkt vom Investor für seine Unternehmensbewertung gezahlt und ist nur ihm verpflichtet – eine wohl bessere Basis für unabhängige Urteile. Der Nachteil: Er liefert meist nicht im Detail jene Informationen, die im Anschluss die Fehlerrate der Prognose möglich machen. Ein Beispiel: Es wird nicht definiert, ob er den Gewinn vor oder nach möglichen außerordentlichen Einnahmen projiziert hat. Zusammenfassend: Die Studie wird darlegen, inwieweit die Bewertungen von Analysten nützlich sind, um den Wert eines Unternehmens kurz- und mittelfristig zu prognostizieren, wenn Earnings Management im Spiel ist. Lucie Courteau hat die ersten Ergebnisse des Forschungsprojektes bereits im Februar auf Einladung der Ludwig-Maximilian-Universität in München präsentiert; im vergangenen Sommer referierte sie darüber bei der Jahresversammlung der „American Accounting Association“, der weltweit wichtigsten Konferenz im Fachbereich Rechnungswesen. „Das Interesse an der Thematik ist groß“, so Courteau.

Lucie Courteau ist seit 2003 an der Fakultät für Wirtschaftswissenschaften als Dozentin tätig, seit 2011 ist sie Professorin der 1. Ebene. Sie stammt aus Québec, Kanada, wo sie auch studiert hat. Nach ihrem PhD arbeitete sie einige Jahre als Wirtschaftsprüferin in einer Kanzlei. Sie entschloss sich dann für eine akademische Karriere, die sie in den Jahren 1988 bis 2001 an die LavalUniversität und die Universität Ottawa in Kanada sowie an die Eastern Mediterranean University von Nordzypern führte.


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L’economia nella tempesta Analizzare i rischi, le cause e le incertezze degli eventi estremi o rari è la missione di ricerca del professor Fabrizio Durante. Dalla natura con le sue inondazioni alla società con la crisi che l’ha colpita in questi anni: la statistica e lo studio possono aiutarci a comprendere meglio questi fenomeni? Per dare una risposta alla Libera Università di Bolzano i progetti raddoppiano e si intensificano.

Avete presente quel meccanismo ideale lineare che collega causa, azione ed effetto? Ecco, smantellatelo e moltiplicatelo per vari fattori inserendolo in un evento estremo. È questa la complessa operazione su cui il professore Fabrizio Durante ha incentrato il progetto di ricerca della Facoltà di Economia della Libera Università di Bolzano. Partendo dalla presa di coscienza dell’incertezza che da sempre accompagna la realizzazione di alcuni fenomeni, Durante si è posto l’obiettivo di individuarne rischi e concatenazioni. Chi pensa di accontentarsi dei fatti semplici, però, è nettamente fuori strada perché la Facoltà si è concentrata su eventi rari di ordine naturale (inondazioni) o sociale (crisi economica). In sostanza è come decidere di analizzare un fiume partendo dal delta per ricomporre tutti i rivoli affluenti che lo compongono: operazione di grande difficoltà e ricca di stimoli. “Il presupposto di partenza – comincia Fabrizio Durante – è la considerazione che la maggior

parte dei fenomeni in natura e nella nostra società possono essere descritti da modelli stocastici, ovvero che tengano in considerazione l’incertezza insita nella realizzazione di determinati eventi”. C’è sempre, insomma, un margine di imponderabile, specialmente quando ci si trova di fronte a qualcosa di non comune. “I modelli stocastici diventano particolarmente interessanti quando la loro applicazione si concentra sugli eventi estremi multivariati, caratterizzati da diversi fenomeni nello stesso momento, noti anche come tempeste perfette”. L’intreccio di concause, quindi, diventa ulteriormente stimolante e risponde, sostanzialmente, a quella comunissima domanda che ci si pone fin da piccoli: perché? “Vero, infatti si ritiene che una migliore comprensione delle diverse relazioni e interdipendenze tra eventi possa migliorare la stessa comprensione delle situazioni. È il caso, per esempio, delle crisi economico-finanziarie che, per loro stessa natura, derivano da molteplici cause e


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condizioni”. Chi ha percorso veloce queste righe alla ricerca del link con l’economia è servito: la crisi, probabilmente, è quanto di più strutturalmente complesso si possa al momento immaginare. Il mondo dell’informazione, d’altronde, ne porge implicita conferma ogni qualvolta economisti, anche di grande fama e preparazione, divergono in modo netto nelle analisi e nelle ricette per superarla. Chiaro, oltretutto, che scoprire cause e relazioni non è finalizzato al solo appagamento dello spirito da ricercatori, ma serve principalmente a valutare i fattori di rischio. Della serie: prima regola - conosci il tuo nemico. “Il progetto Modelli Multidimensionali di Dipendenza – continua Durante – che ho recentemente concluso con il supporto della LUB era sostanzialmente finalizzato ad individuare strumenti atti a valutare meglio il rischio. Abbiamo analizzato la possibilità che eventi rari e situazioni di crisi possano svilupparsi in futuro”. Considerazioni che, oltre al piano teorico, trovano immediata traduzione nel concreto. “Questi strumenti hanno primaria

applicazione nel fenomeno noto come contagio finanziario, comunemente descritto come la tendenza dei mercati ad avere performance negative in presenza di crisi in un settore o in un’area economica. Pensiamo, per esempio, ai mercati dell’area euro o alla recente crisi in Grecia”. L’accenno iniziale al mondo naturale, però, non vale solo a titolo esemplificativo. “Abbiamo applicato questo approccio anche per valutare i rischi di tipo idrogeologico con un’analisi statistica effettuata sulla diga Ceppo Morelli in Piemonte”. La ricerca, però, ha proposto nuove sfide e oggi continua a svilupparsi lungo due filoni: “Abbiamo due progetti in fase di sviluppo – conclude Durante – che seguono interessanti area tematiche. Il primo, Modelli stocastici per i tempi di vita, mira ad esaminare la sopravvivenza di determinati sistemi economico-finanziari in presenza di shock esterni. Il secondo, Rischio e Dipendenza, si prefigge di perfezionare le tecniche statistiche per misurare il rischio di eventi estremi”. Basteranno i numeri per anticipare la tempesta perfetta?

Fabrizio Durante è ricercatore di ruolo e insegna Statistica presso la Libera Università di Bolzano dal marzo 2010. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Matematica presso l‘Università di Lecce (Italia) nel 2006 e, nel 2010, ha ottenuto la “abilitazione venia docendi” in Matematica presso la Johannes Kepler Universität di Linz (Austria). È autore di circa 50 articoli scientifici, principalmente su modelli statistici di dipendenza ed editore di un libro pubblicato su Springer.


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Der mobile Konsument Die digitale Revolution bringt die Marktforschung immer näher an ihre Studienobjekte heran. An der Wirtschaftsfakultät legt Michael Bosnjak die wissenschaftliche Basis für einen Markt mit ungeheurem Potential.

Einkaufsbummel unter den Bozner Lauben. Beim Verlassen des Shops XY piepst das Smartphone in der Tasche und meldet eine neue Befragung. Wie beurteilen Sie Service und Angebot von XY auf einer Skala von 1 bis 10? Wie würden Sie den Shop ihrer Freundin beschreiben? Die ersten beiden Fragen werden per Tastendruck beantwortet, die dritte Antwort wird ins Handy gesprochen. Fertig, vielen Dank und weiter geht es in das nächste Geschäft. Eine fiktive Szene, die bereits in naher Zukunft Realität werden könnte. Einer der an ihrer Realisierung mitarbeitet, ist der habilitierte Psychologe Michael Bosnjak. Als der Professor der Bozner Wirtschaftsfakultät Mitte der Neunziger Jahre in Freiburg eine Masterarbeit über webbasierte Marktforschung schrieb, spielte sich in Deutschland weniger als ein Prozent der gesamten Marktforschung im Internet an. Heute sind es bereits 40%. „Man sucht als Forscher eben immer Gebiete, in denen noch großes Potential steckt“, sagt Bosnjak. Ein Grund, wieso sich seine Forschungstätigkeit mittlerweile weitgehend von webbasierten auf mobile Befragungen verlagert hat. Denn spätestens seit der Entwicklung des Smartphones ist klar, wie viel ungenutzte Kapazität noch in Mobiltelefonen steckte. Einerseits für die Nutzer selbst, die mit ihren Handys längst nicht mehr nur telefonieren, sondern damit im Internet surfen, E-Papers lesen, mailen und Social Media nutzen und voraussichtlich in naher Zukunft auch zahlen werden. Anderseits erhalten professionelle Datensammler wie Google damit ein noch weit deutlicheres Bild

ihrer Nutzer als über den klassischen Computer. Denn über sein Betriebssystem kann ein Smartphone nicht nur jede Menge Infos über Interessen, Absichten und Kontakte seines Users liefern. Es kann beispielsweise bei entsprechender Erlaubnis auch zeigen, wo er sich wann bewegt. Somit bietet es auch für Markt- und Tourismusforscher bisher ungeahnte Möglichkeiten in mobilen Befragungen Daten zu erhalten, die nicht in künstlichen Befragungssituationen entstehen, sondern aus dem „richtigen Leben“ gegriffen werden. Um dieses Potential künftig optimal nutzen zu können, braucht es neben Informatikern auch Marktforschungsmethodiker wie Michael Bosnjak. Wie müssen solche Befragungen gestaltet werden, damit sie gebrauchstauglich sind? Wer macht mit bzw. welche Barrieren stehen einer Teilnahme im Weg – und wie valide sind die erhaltenen Daten im Vergleich zu anderen Befragungsmethoden? Fragestellungen wie diese hat der Professor in mehreren Kooperationsprojekten mit Google behandelt. Eine Studie befasste sich mit der Funktionsfähigkeit eines Spracherkennungsprogrammes, mit dem die Beantwortung offener Fragen über das Mobiltelefon erleichtert werden soll. Anhand einer zur Verfügung gestellten Probandengruppe fand Bosnjak heraus, dass das von Google verwendete Programm keineswegs gut funktioniert und der Vorgang als weit flüssiger erlebt wurde, wenn die Daten aufgezeichnet, auf einen Server übertragen und dort decodiert wurden. Ein weiterer interessanter


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Teilbefund: Bei mobilen Befragungen erreicht man Zielgruppen, die sonst schwer für Marktforschung zu erreichen sind, wie beispielsweise Menschen, die im mittleren bis oberen Management tätig sind. Neue Perspektiven ergeben sich durch den Befund, dass Personen, die im Rahmen sogenannter Panels bereits regelmäßig an Marktforschungsuntersuchungen teilnehmen, nicht nur eine große Bereitschaft zeigten, in Mobil-Panels zu gehen. „90% hatten auch nichts dagegen, für solche mobilen Befragungen ihre aktuelle Position frei zu geben“, verrät Bosnjak. Solch wissenschaftliche Befunde mögen Datenschützern Bauchschmerzen verursachen. Für

Unternehmen eröffnen sich daraus auch jenseits von Google & Co. vollkommen neue Möglichkeiten, mehr über ihre Kunden zu erfahren. Als Beispiel nennt Michael Bosnjak den Tourismus – dort können sich neue Wertschöpfungspotentiale ergeben, wenn die Bewegungen der Gäste während ihres Aufenthalts nachvollzogen werden können. Die Entwicklung konkreter Anwendungen in diesem Bereich liegt nun in der Hand der Betriebe. Ein Anschub in diese Richtung findet bereits in Bosnjaks Lehrveranstaltung statt: Dort erhalten Studierende nicht nur Zugang zu Erhebungstools, die er während seiner Forschungstätigkeit testet; im Rahmen des Studienzweiges Tourismus sollen sie in Kürze auch selbst erste mobile Erhebungen entwickeln.

Michael Bosnjak, Professor 2. Ebene, promovierte und habilitierte an der Universität Mannheim. Dort war er im Bereich Konsumentenpsychologie und Forschungsmethoden tätig, bevor er 2008 an die Freie Universität Bozen kam. Weiters arbeitete er als Forschungsmitarbeiter am GESIS Leibniz Institut für Sozialwissenschaften und als wissenschaftlicher Assistent an der Universität Heidelberg. Neben mobilen Befragungen konzentrierte er sich in seiner Forschungstätigkeit letzthin auf die Imageforschung und die Selbstimagekongruenz im Bereich Tourismus.


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Da Londra con nuovo slancio Anno sabbatico è un’espressione che fa pensare ad un anno di pausa in cui recuperare energie. Non è così quello che l’Università concede ai propri docenti: “Una vera faticaccia”, spiega Stefano Lombardo, professore di Diritto dell’Economia che, dopo un anno sabbatico trascorso alla London School of Economics, ha incrementato le sue pubblicazioni scientifiche. Ritrovarsi seduti alla mensa universitaria accanto al Premio Nobel per l’Economia Christopher A. Pissarides, mentre ci si ritempra dopo una mattinata di studio; oppure decidere di assistere, nell’aula accanto, ad una conferenza di Jean-Claude Trichet proprio mentre infuria la tempesta finanziaria globale; o ancora scoprire di essere al momento l’unico docente italiano ospite per una “visiting fellowship” in quella stessa Università nella quale stai trascorrendo il tuo anno sabbatico all’estero e che ti ha appena offerto le due occasioni appena citate. Sono alcuni dei “ricordi di viaggio” che il Stefano Lombardo, professore aggregato di Diritto

dell’Economia alla LUB e specialista di questioni di diritto europeo, cita con controllata soddisfazione illustrando la sua recente esperienza, tra l’ottobre del 2010 e l’ottobre del 2011, presso la London School of Economics, una tra le più prestigiose istituzioni di alta formazione a livello mondiale. Facendo tesoro dell’opportunità offerta ai docenti di poter trascorrere, a determinate condizioni, un anno sabbatico di ricerca all’estero ogni cinque di insegnamento, il prof. Lombardo ha infatti presentato proprio alla LSE il programma di ricerca che intendeva svolgere durante quel periodo e la LSE, valutato il curriculum del candidato, gli ha infine


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aperto le sue porte. Il tempo di fare le valigie, trovare una sistemazione in loco, prendere possesso della nuova ufficio londinese, ed il visiting fellow era già al lavoro. Nel corso dei nove mesi di permanenza a Londra il prof. Lombardo ha così potuto perfezionare il lavoro di ricerca che già da tempo stava svolgendo presso l’ateneo bolzanino ed ha ultimato la pubblicazione, finanziata dalla stessa LUB, del volume “Quotazione in borsa e stabilizzazione del prezzo delle azioni”, in cui vengono affrontate alcune questioni legate alla collocazione sul mercato di nuove azioni, ed analizzate le regole vigenti negli Usa, in Europa ed in Italia per evitare o limitare eccessive oscillazioni del loro valore. Sono poi usciti su importanti riviste internazionali di settore, come European Company and Financial Review e European Business Organization Law Review, alcuni articoli sul tema elaborati durante il periodo di studi londinesi ed è tuttora in corso di elaborazione anche una ricerca sulla natura degli enti non-profit nel mercato unico europeo, per i quali l’attuale legislazione comunitaria non prevede, come accade invece per le persone fisiche o le società, la libertà di scegliere un ordinamento giuridico nel quale costituirsi e successivamente operare in altri Stati della UE. Ma insieme con i diversi risultati in termini di pubblicazioni, oggi comunque fondamentali per la crescita professionale di un docente universitario e quindi per il prestigio dell’Università nella quale lavora, il prof. Lombardo sottolinea soprattutto quanto l’innegabile proficuità scientifica dell’anno sabbatico all’estero, in particolare in un’istituzione così importante come la London School of Economics, coincida ed anzi sia corroborata dal suo aspetto più prettamente “umano”: “Lì ho trovato una volta di più conferma del fatto che in un ambiente come quello, fatto della presenza di straordinarie perso-

nalità, vige il più puro understatement: la relativa facilità con cui può capitare di frequentare nella medesima giornata i seminari delle menti migliori nei campi più disparati del sapere è la stessa con cui poi questi docenti possono essere avvicinati per uno scambio di idee informale e diretto. Se è vero che nell’epoca della rete le distanze sono di fatto molto più facilmente superabili di un tempo, il contatto vis à vis conserva tutto il suo prezioso vantaggio”. La strada dell’anno sabbatico all’estero, che a dispetto del suo nome vagamente evocativo di pause similvancanziere è in realtà “una vera faticaccia”, risulta poi tanto vitale in un’università trilingue come la LUB e anzi, per la disciplina di cui si occupa Stefano Lombardo, si rivela quasi irrinunciabile: “L’Unione Europea è oggi un’area nella quale persone, merci e capitali devono potersi spostare ed allocarsi nel modo più efficiente e vantaggioso. Le regole del diritto che mirano a governare questo universo non possono che essere scritte ed anzi pensate, concepite in lingua inglese, per cui quello che avviene in altre materie, quali la fisica o la chimica o l’informatica, accade esattamente anche al diritto“. Ma com’è il “rientro” alla normalità dell’attività in sede, dopo dodici mesi in cui non si sono dovuti affrontare gli impegni della didattica e la routine della burocrazia? “Si riprende con nuovo slancio – conclude Lombardo -, sicuramente arricchiti e certo in grado di offrire di più alla “propria” università. Credo che da questa esperienza internazionale tragga vantaggio sia il docente sia l’università cui appartiene. Alla LUB credo di essere stato il primo ad utilizzare questa possibilità, ma so che molti miei colleghi hanno già presentato domanda per accedervi, e penso che la rete di relazioni che cresce per questa via possa solo potenziare la vocazione internazionale della LUB”.

Stefano Lombardo è ricercatore di ruolo. È Dottore di ricerca in analisi economica del diritto (Università di Amburgo 10/1998-04/2002). È stato Visiting Scholar presso la Yale Law School (08/2000-07/2001), post-doc researcher presso il “Max-Planck für ausländisches und internationales Privatrecht” di Amburgo (09/2002-09/2003) e Visiting Fellow presso il “Departement of Law della London School of Economics” (10/2010-06/2011). È ECGI Research Associate dal 2006. I suoi interessi di ricerca coprono vari temi del diritto dell’economia in prospettiva europea.




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Brixen – Bressanone Regensburger Allee 16 viale Ratisbona, 16

Bruneck – Brunico Universitätsplatz 1 Piazzetta dell‘Università, 1


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