Università Ca’ Foscari Venezia, open to the world Federica Ferrarin Tel. 041.2348118 – 366.6297904 - 335.5472229 Enrico Costa Tel. 041.2348004 – 347.8728096 Paola Vescovi Tel. 041.2348005 – 366.6279602 – 339.1744126 Federica Scotellaro Tel. 041.2348113 – 366.6297906 Email: comunica@unive.it Le news di Ca’ Foscari: news.unive.it
#fattixconoscere
https://youtu.be/qZDUrA4L5NM
Donne in carriera…oppure no? Sara Bonesso a #fattixconoscere L’ultimo rapporto della commissione Europea sul gender pay gap dimostra, ancora una volta, che gli stipendi più alti e le posizioni di vertice appartengono agli uomini. In Italia la retribuzione media annua delle donne è più bassa del 43,7% rispetto a quella degli uomini. Questo dato dipende soprattutto dalla difficoltà delle donne di accedere ai ruoli di vertice. SecondoEurostat in Europa 1 manager su 3 è donna. In Italia la proporzione cala a 1 su 5, posizionandoci così agli ultimi posti della classifica europea. E più si guarda verso le posizioni apicali, più le donne restano sotto al cosiddetto ‘soffitto di cristallo’.
Non esiste però nessuno studio scientifico che connoti la leadership secondo il genere. E allora perché queste differenze? Ce lo spiega Sara Bonesso, docente cafoscarina di organizzazione aziendale e vicedirettrice del Ca’ Foscari Competency Centre, che ha tenuto nell’ambito di LEI – Center for women’s leadership, il laboratorio Elle sul tema della leadership femminile.
#fattixconoscere
https://youtu.be/vVDiqQnj8lE
Cina ‘versus’ D&G. Il peso degli errori culturali Anche un brand internazionale come D&G è riuscito a ‘caderÈ nell’errore culturale, facendo innervosire il popolo cinese con tre video promozionali giudicati sessisti e offensivi. Un epic fail che è rimbalzato sui social e sulla stampa, causando la momentanea sospensione delle vendite in Cina dell’ecommerce della maison e l’annullamento della sfilata prevista a Shangai.
Ma cosa è successo esattamente? Ne abbiamo parlato nella rubrica #fattixconoscere con la prof.ssa Tiziana Lippiello, sinologa dell’Università Ca’ Foscari Venezia.
#fattixconoscere
https://youtu.be/sL1QVhVEBug
Divampano ‘guerre commerciali’, ne parliamo con Fabrizio Marrella Con la nuova politica commerciale internazionale inaugurata da Trump in discontinuità con i suoi predecessori alla Casa Bianca, il protezionismo e le ‘guerre commerciali’ sono tornati al centro dell’agenda internazionale. Dazi e sanzioni sono le due parole chiave che stanno cambiando il panorama del commercio con effetti che coinvolgono direttamente e indirettamente le imprese italiane. Tra i casi più rilevanti, quelli delle sanzioni tra Unione Europea e Russia e i limiti recentemente imposti dagli Stati Uniti con sanzioni ‘secondariÈ che colpiscono anche imprese non americane che intrattengono relazioni economiche e commerciali con l’Iran.
Ne abbiamo parlato nella rubrica #fattixconoscere con Fabrizio Marrella, professore di Diritto internazionale e dell’Unione europea.
#fattixconoscere
https://youtu.be/ofuYZyVOGFo
Come cambia l’Europa? Ne parliamo con Stéphanie Novak L’europarlamentare Judith Sargentini ha presentato alla commissione per le Libertà civili, la Giustizia e gli Affari interni del Parlamento un report dove accusa il premier ungherese Viktor Orban di aver violato lo stato di diritto. Per la prima volta il Parlamento Europeo ha chiesto di attivare l’articolo 7 del trattato sull’Unione europea, che «prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea (ad esempio il diritto di voto in sede di Consiglio) in caso di violazione grave e persistente da parte di un paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione (libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto)».
Il caso Orban, la Brexit (su cui non c’è ancora un accordo)… quali sono le minacce per l’Unione? Quali gli scenari futuri? Ne abbiamo parlato nella rubrica #fattixconoscere con Stéphanie Novak, ricercatrice in scienze politiche e relazioni internazionali.
#fattixconoscere
https://youtu.be/br9fbylhiyc
500 anni di Tintoretto: cosa ancora non sappiamo su vita e opere È iniziato l’anno di Tintoretto, con mostre, restauri e un’attenzione internazionale in occasione dei 500 anni dalla nascita del maestro veneziano, nato, probabilmente, nel 1518. Oltre alla data di nascita, su cui gli studiosi non concordano, ci sono altri aspetti poco noti o addirittura controversi sulla vita e le opere di Jacopo Robusti, come emerge dall’intervista che abbiamo realizzato con Valentina Sapienza, professoressa di Storia dell’Arte moderna al Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari. Cosa ancora non sappiamo? come Tintoretto ha innovato la pittura? ci sono opere controverse? La ricercatrice cafoscarina risponde dinanzi alla Crocifissione dipinta dal Tintoretto nel 1565 nella Sala dell’Albergo della Scuola Grande di San Rocco.
L’intervista a Valentina Sapienza inaugura la serie “Fatti per conoscere” (segui e commenta con l’hashtag #fattixconoscere), con cui la redazione di cafoscariNEWS, anche in collaborazione con Radio Ca’ Foscari, affronterà temi del momento intervistando docenti cafoscarini.
comunicati stampa
Presentate oggi le camere campione dello studentato
Pre-opening della residenza studentesca di Venezia a Santa Marta, canoni calmierati per 650 studenti di Ca’ Foscari Intervento da 30 milioni € con risorse CDP ed INPS: i lavori saranno conclusi entro il 2019 VENEZIA, 3 ottobre 2018 - Il cantiere in corso per lo studentato più grande di Venezia apre le porte al pubblico con la presentazione delle camere campione che costituiranno la residenza studentesca, in via di costruzione, per l’Università Ca’ Foscari Venezia. Uno studentato da 650 posti letto. L’area è quella di Santa Marta, dove l’intervento completerà la ristrutturazione di un complesso di edifici storici di fine ‘800, che fino al 2014 hanno ospitato le attività didattiche e di ricerca della Facoltà di Scienze di Ca’ Foscari, oggi svolte presso il Campus Scientifico di via Torino a Mestre.
Il complesso originale consta di tre edifici, “Cubo”, “Parallelepipedo” ed “Edificio Sud”, che al termine dei lavori, che includono opere di demolizione e ricostruzione oltre che interventi di restauro conservativo, ospiterà 650 posti letto organizzati come segue: • “Cubo”: 286 posti letto, ripartiti in 67 stanze doppie e 152 singole • “Parallelepipedo”: 136 posti letto, ripartiti in 59 stanze doppie e 18 singole • “Edificio Sud”: 228 posti letto, ripartiti in 112 stanze doppie e 4 singole L’operazione, del valore di circa 30 milioni di Euro, è resa possibile grazie alle risorse rese disponibili da CDP Investimenti SGR (Gruppo
Cassa depositi e prestiti) attraverso il fondo FIA e dal Fondo Aristotele (interamente sottoscritto da INPS), quotisti rispettivamente al 60% ed al 40% del Fondo Erasmo. L’intervento si avvale inoltre di un contributo del MIUR di circa 4 milioni di euro ex lege 338/2000. L’area su cui si sviluppa il cantiere, di proprietà dell’Ateneo, è stata concessa in diritto di superficie per 75 anni al Fondo Erasmo gestito da Fabrica SGR, primario asset manager italiano specializzato in fondi immobiliari. Allo scadere di tale termine, l’Università riacquisirà la piena proprietà dell’area senza corrispondere alcun onere. I lavori di realizzazione, affidati alla società CMB nel 2017 su progetto del Consorzio di Progettazione di Venezia, saranno conclusi entro l’estate 2019, con l’obiettivo di ospitare gli studenti già a partire dal prossimo anno accademico 2019/2020. Gestore della struttura sarà Camplus, primo provider di housing per studenti universitari in Italia, che oggi gestisce circa 7 mila posti letto in tutto il Paese. GLI ALLOGGI Gli alloggi sono stati progettati per garantire per ogni stanza, oltre alla zona notte con armadio guardaroba, un angolo studio (con scrivania, libreria e seduta ergonomica), un angolo cottura dotato di piastra, frigorifero, lavello, cappa di aspirazione e tavolo da pranzo, nonché i servizi igienici. I SERVIZI L’offerta abitativa sarà affiancata da una serie di servizi concepiti per favorire la vita di comunità degli ospiti: circa un terzo delle superfici sarà infatti occupato da spazi comuni, con servizi a supporto della didattica e/o pensati per il tempo libero. Inoltre, in accordo con il Comune di Venezia, l’intervento include la sistemazione di un’area verde, di pertinenza del complesso, a beneficio della cittadinanza. DISTRIBUZIONE DEGLI ALLOGGI La scelta distributiva è stata quella di collocare al piano terra degli edifici tutte le attrezzature
comuni ed i servizi, mantenendo l’area a verde come elemento connettivo di distribuzione. In particolare, nell’edificio “Cubo” avranno sede reception, front-office, uffici, aule studio, sala conferenze, sala TV, palestra, lavanderia e sala giochi. L’edificio “Sud” ospiterà invece alcune sale video e sale riunioni, nonché il complesso bar area colazioni - distributori automatici di cibi e bevande. Nell’edificio “Parallelepipedo”, infine, avranno sede al piano terra la segreteria, alcuni uffici, l’area ritrovo, una sala riunioni ed servizi igienici, mentre al piano primo saranno ubicate sala studio e sala video. I piani superiori degli edifici saranno esclusivamente dedicati alla residenzialità. Il progetto rappresenta un contributo storico alla residenzialità studentesca a Venezia, destinato a raddoppiare l’attuale offerta, per lo più di natura privata, disponibile in città; un’iniziativa per il diritto allo studio e l’housing sociale che per la prevalenza dei posti letto disponibili applicherà le tariffe fissate dall’Ente per il Diritto allo Studio Universitario di Venezia (a partire da 230 euro mensili a posto letto) e canoni calmierati in linea con gli importi stabiliti dal Contratto Abitativo Concertato del Comune di Venezia (a partire da 330 euro mensili a posto letto). Una volta ultimato, l’intervento consentirà la riqualificazione di una parte importante della città, mantenendo quali principi ispiratori la salvaguardia del valore storico ed architettonico degli edifici e la sostenibilità dal punto di vista dell’impatto ambientale: il complesso sarà infatti di classe energetica A, più in particolare raggiungendo la Classe A1 per l’edificio denominato “Parallelepipedo” e la Classe A3 per gli edifici “Sud” e “Cubo”. L’approvvigionamento da fonti rinnovabili sarà garantito da un impianto fotovoltaico da 54,93 KWP e da un impianto di 12 pannelli per il solare termico. /
Michele Bugliesi, Rettore Università Ca’ Foscari Venezia: «Manca ormai poco al completamento della residenza studentesca di Santa Marta, che con i suoi 650 posti letto, fornirà ai nostri studenti, italiani e internazionali, un servizio importante per la vita universitaria e un contributo significativo alla residenzialità. La struttura contribuisce inoltre a valorizzare quest’area della città che insieme alla vicina San Basilio, che già oggi ospita le aule e a breve ospiterà e anni Science Gallery Venice, si riconfigurerà come un vero e proprio campus universitario completamente innervato nel tessuto urbano e sinergico ad esso. Con l’apertura della residenza nell’anno accademico 2019-20, Ca’ Foscari si avvia a completare il piano delle residenze che prevede, oltre agli insediamenti a di Santa Marta, gli interventi per gli studentati del campus economico di San Giobbe da 225 posti letto e quello in terraferma, e del Campus Scientifico di Mestre, con altri 140 posti per un totale di mille alloggi». Marco Sangiorgio, Direttore generale di CDP Investimenti SGR, ha così commentato: «La residenza studentesca di Santa Marta, di cui è prossima l’inaugurazione a beneficio degli studenti per l’Anno Accademico 2019/20, costituisce una realizzazione iconica dell’intero programma di housing sociale che vede il Gruppo Cassa depositi e prestiti impegnato su tutto il territorio con progetti sostenibili e aggiornati alle nuove esigenze abitative. Il contesto territoriale interessato da questo intervento, con la sua unicità culturale ma anche la sua complessità urbanistica, costituisce per CDP un laboratorio importantissimo nel quale stiamo sviluppando anche le strutture per education & innovation del futuro campus di H-Farm, anch’esso modello di partnership pubblico privato con l’Università Cà Foscari. Ci auguriamo che queste due iniziative contribuiscano a colmare il gap di offerta di infrastrutture moderne a servizio della formazione». Giovanni Maria Benucci, Amministratore
Delegato di Fabrica SGR, sottolinea: «La carenza di posti letto per studenti rappresenta un gap infrastrutturale per molte città a vocazione universitaria, in cui la maggior parte dell’offerta è peraltro rappresentata dal settore privato, con canoni di locazione in costante crescita. Il modello di studentato che stiamo realizzando a Venezia intende fornire una risposta strutturata, innovativa e di qualità a questo fenomeno: i canoni calmierati permetteranno di intercettare un’ampia fascia di domanda, i cui redditi sono troppo elevati per accedere agli alloggi Esu, ma per la quale gli affitti a libero mercato risulterebbero difficilmente sostenibili». Maurizio Carvelli, Founder e Ceo di Camplus, aggiunge: «La Residenza di Santa Marta è un intervento che porterà grande valore alla Città, un contributo unico nella storia della residenzialità studentesca a Venezia oltreché un esempio positivo di come sinergia, collaborazione e il fare sistema tra più enti sia una carta vincente per realizzare soluzioni di qualità. E come Camplus siamo davvero orgogliosi di mettere a disposizione degli studenti la nostra filosofia di accoglienza e formazione, frutto di un’esperienza maturata negli ultimi trent’anni, che interpretando i bisogni attuali degli universitari replicherà un modello italiano di housing che sta riscuotendo successo anche all’estero. Nelle nostre residenze infatti offriamo ai ragazzi servizi residenziali di alto livello ma anche numerose opportunità formative integrative agli studi, orientamento alla professione, sotto la guida di una direzione che sostiene ciascuno studente nelle sue scelte mediante continue occasioni di confronto, per accompagnarlo in uno dei periodi più importanti della sua vita». / Fondo Erasmo è il primo fondo immobiliare dedicato al settore dell’housing temporaneo per studenti sottoscritto al 60% dal FIA (Fondo Investimenti per l’Abitare gestito da CDP Investimenti SGR) ed al 40% dal Fondo Aristotele (gestito da Fabrica ed interamente
sottoscritto da INPS). Il Fondo, che sta sviluppando un piano da 120 mln € su tutto il territorio nazionale, oltre a quella di Venezia ha in portafoglio altre tre iniziative, di cui due già a reddito a Torino e Bologna ed una in corso di realizzazione a Padova per un totale di oltre 1.600 nuovi posti letto. / CDP Investimenti è la SGR, partecipata per il 70% da Cassa Depositi e Prestiti e per il 15% ciascuna dall’ACRI e dall’ABI, che gestisce il Fondo Investimenti per l’Abitare (FIA) attivo nel social housing, nell’ambito del quale sono stati realizzati specifici progetti immobiliari per accogliere gli studenti universitari fuori sede nelle principali città italiane (Milano, Torino, Bologna, Firenze, Venezia). La dotazione del FIA ammonta a 2 miliardi e 28 milioni di euro, di cui 1 miliardo sottoscritto da CDP, 140 milioni dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e 888 milioni da parte di gruppi bancari e assicurativi e di casse di previdenza privata. Fabrica Immobiliare è una SGR dedicata all’istituzione e gestione di fondi immobiliari operativa dal 2005. Tra i principali player italiani, la Società gestisce oggi 13 fondi/ comparti per un totale attività di circa 3,4 miliardi di euro e, nel segmento dello student housing, ha già contribuito alla realizzazione di oltre 4.500 posti letto. Con oltre 700 milioni di euro di investimenti avviati, Fabrica è tra gli operatori più attivi e di più lungo corso in
ambito di investimenti con finalità sociali: oltre ad Erasmo, Fabrica gestisce il Fondo Aristotele, sottoscritto da INPS e dedicato all’edilizia in favore di università ed istituti di ricerca, e due fondi di social housing - Novello ed Esperia rispettivamente dedicati allo sviluppo di un progetto a Cesena ed al contenimento del disagio abitativo nelle regioni del Sud Italia, attualmente impegnati nella realizzazione di circa 650 nuovi alloggi in social housing. Camplus è il più grande provider di housing per studenti universitari in Italia, con molteplici offerte abitative e servizi. Camplus nasce nel 2007 dalla partnership tra Fondazione C.E.U.R. (Centro Europeo Università e Ricerca) e Fondazione Falciola, che da oltre vent’anni operano in sinergia per la gestione di patrimoni immobiliari e per la progettazione di soluzioni abitative su misura, con una particolare vocazione per la residenzialità di studenti universitari. La Fondazione C.E.U.R. è stata riconosciuta dal MIUR nel 1991 ed accreditata come rete di collegi di Merito in base al D.lgs 29 Marzo 2012, n.68. È membro, inoltre, della C.C.U.M. (Conferenza dei Collegi Universitari di Merito). La Fondazione Falciola è nata, invece, nel 1995 come player di housing sociale con la mission di favorire una concezione formativa ed educativa dell’abitare. Nel 2017 la Fondazione Falciola è stata incorporata nella Fondazione C.E.U.R. La rete Camplus con i suoi tre servizi - College, Apartments e Guest - è oggi presente in 12 città italiane: Milano, Torino, Bologna, Roma, Firenze, Ferrara, Palermo, Catania, Parma, Venezia, Perugia e Cesena, e in Spagna a Pamplona.
comunicati stampa L’iniziativa, nell’ambito dei 150 anni dalla fondazione dell’Ateneo, aggiunge una nuova lingua alle numerose già insegnate
Crescono le lingue insegnate a Ca’ Foscari Al via il Corso in Lingua e Cultura dell’Etiopia Il corso partirà dal secondo semestre e sarà svolto dal prof Mellese Gelaneh Alemu VENEZIA - In occasione dei 150 anni dalla fondazione, l’Università Ca’ Foscari Venezia aggiunge una lingua ulteriore alle numerose già insegnate confermando l’eccellenza nell’ambito linguistico che fa ormai parte della tradizione dell’ateneo con 40 lingue e culture insegnate. A partire dall’a.a. 2018/19 l’Ateneo offre a tutti gli studenti delle lauree triennali un insegnamento di introduzione alla lingua e alla cultura dell’Etiopia: Introduction to Amharic and Ethiopian culture (LT0A10). L’insegnamento, incardinato presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e l’Africa Mediterranea, verrà attivato nel secondo semestre con il docente Mellese Gelaneh Alemu, proveniente dalla Bahir Dar University. I contenuti del corso includeranno una rassegna delle lingue e culture in Etiopia, considerazioni culturali, la scrittura etiope e elementi di base dell’amarico. Questo corso, che introduce alla storia, alla cultura ed alla lingua ufficiale dell’Etiopia, costituisce un passo importante dell’apertura di Ca’ Foscari al continente africano. L’Etiopia, infatti, è storicamente e culturalmente il paese più importante dell’Africa subsahariana. Sin dal I millennio a. C. l’altopiano etiope ha visto la formazione di importanti stati nei quali sull’elemento locale si innestavano influssi esterni provenienti soprattutto dall’Egitto e dell’antica Arabia. A partire dal IV secolo d. C. l’Etiopia ha accolto in maniera prevalente anche se non esclusiva il cristianesimo, costituendo da allora una componente fondamentale dell’Oriente cristiano. Nel
corso dei secoli questo paese ha conosciuto un notevole sviluppo politico, sino a costruire un vasto impero multietnico, sviluppando al tempo stesso una civiltà originale, arricchita da diversi influssi esterni, in particolare arabi, ebraici ed europei. L’architettura, l’arte e la letteratura dell’Etiopia costituiscono in effetti uno straordinario patrimonio culturale. Dal punto di vista politico, il paese ha resistito dapprima all’espansione araba e ottomana – che pure ha apportato una presenza musulmana molto consistente – poi alla penetrazione coloniale europea, almeno sino alla breve parentesi della conquista italiana in epoca fascista. Da questo punto l’Etiopia costituisce un unicum nel continente africano e non a caso la sua capitale – Addis Abeba – è sede dell’Unione Africana. Oggi l’Etiopia è uno dei paesi in maggior sviluppo dell’Africa e costituisce uno dei principali centri politici ed economici del continente, con una popolazione che ormai raggiunge i 100 milioni. La lingua ufficiale dell’Etiopia, l’amarico, appartiene al gruppo semitico ed è quindi di particolare interesse per gli studenti di arabo ed ebraico. Il corso – che si svolgerà in inglese – è tuttavia rivolto a tutti gli studenti che vogliano avvicinarsi alle dinamiche storiche e culturali del continente africano, così importanti nello scenario internazionale del nostro tempo. Per maggiori informazioni si veda la scheda insegnamento: http://www.unive.it/data/ insegnamento/295914
comunicati stampa
Ice Memory, parte dal Grand Combin la missione italiana di Cnr e Ca’ Foscari
Sfida contro il tempo per salvare gli archivi climatici minacciati dal riscaldamento globale, estraendo e portando in Antartide carote di ghiaccio. Glaciologi di Cnr e Università Ca’ Foscari Venezia preparano spedizioni anche su Monte Rosa, Marmolada, Montasio e Calderone È iniziata dai 4200 metri del ghiacciaio del Grand Combin, al confine tra Svizzera e Italia, la corsa contro il tempo per mettere al sicuro la ‘memoria’ dei ghiacciai italiani alpini e appenninici, i ghiacci europei più minacciati dai cambiamenti climatici. La missione di ricognizione organizzata dai glaciologi dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del Consiglio nazionale delle ricerche dirà in quale punto del ghiacciaio sarà possibile estrarre, in una prossima spedizione, la carota di ghiaccio più profonda, capace quindi di raccontare secoli di storia del clima. “I ghiacci hanno intrappolato elementi chimici,
isotopi, particelle organiche e altre tracce dell’ambiente e del clima passato spiega Carlo Barbante – tra gli ideatori di Ice memory, direttore dell’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr e professore a Ca’ Foscari -. Le carote di ghiaccio sono quindi un archivio di informazioni unico sul passato del pianeta e fondamentale per mettere nella giusta prospettiva i cambiamenti attuali e futuri”. I rilievi effettuati con il georadar permetteranno una ricostruzione tridimensionale del substrato roccioso nascosto dal ghiaccio, mentre un campionamento di 12 metri sarà presto analizzato nei laboratori di Venezia
per preparare al meglio la campagna vera e propria. Inizia così il ‘capitolo’ italiano di Ice Memory, progetto internazionale patrocinato dalle commissioni nazionali Unesco di Francia e Italia che vede impegnati glaciologi di vari Paesi, tra cui i co-ideatori francesi del progetto. L’obiettivo principale è creare in Antartide, terra di scienza e di pace, il primo ‘santuario’ mondiale dei ghiacci provenienti dai ghiacciai minacciati dal riscaldamento globale. Questi campioni saranno patrimonio dell’umanità, con una governance internazionale che ne assicuri la conservazione così come l’utilizzo eccezionale e appropriato, per permettere alle future generazioni di scienziati di poter svolgere analisi senza precedenti. I primi campioni sono stati estratti dal team internazionale sul Monte Bianco, sul ghiacciaio Illimani, in Bolivia, e sui ghiacciai di Belukha e Elbrus, in Russia. Il team italiano sta ora organizzando spedizioni su ghiacciai destinati a scomparire nei prossimi decenni. Nella lista ci sono il Colle Gniffetti (Monte Rosa), l’ultimo ghiacciaio importante delle Dolomiti (Marmolada), il ghiacciaio più a bassa quota delle Alpi (Montasio, in Friuli, circa 1900 metri di quota) e il ghiacciaio più a sud d’Europa (Calderone, in Abruzzo). Il programma di missioni italiane ha ottenuto un finanziamento di 920mila euro da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Coordinato dalla Université Grenoble Alpes Foundation, il progetto riunisce CNRS, French National Research Institute for Sustainable Development (IRD-France), Université Grenoble Alpes, Consiglio nazionale delle ricerche, Università Ca’ Foscari Venezia, Istituto Polare Francese (Ipev) e il Programma nazionale per le ricerche in Antartide (Pnra) per quanto riguarda l’attività alla stazione Concordia, in Antartide.
comunicati stampa Beni culturali a rischio: da Venezia le tecnologie del futuro per conservare i beni culturali sviluppate dal nuovo centro dell’istituto italiano di tecnologia in collaborazione con Univeristà Ca’ Foscari Venezia L’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), in collaborazione con l’Università Ca’Foscari, apre a Venezia un nuovo centro del network nazionale IIT per lo sviluppo di nuove tecnologie e materiali nel campo della conservazione dei beni culturali Le tecnologie sviluppate proteggeranno e assicureranno la conservazione digitale e fisica dei beni culturali del nostro Paese e del mondo, grazie ad intelligenza artificiale, machine learning e scienze dei materiali avanzate Venezia 19 novembre 2018 – l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) inaugura oggi, in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari Venezia, un nuovo centro IIT dedicato allo sviluppo di nuove tecnologie e materiali nel campo dello studio e della conservazione dei beni culturali. Il Centre for Cultural Heritage Technology (CCHT@Ca’Foscari) si aggiunge al network nazionale dell’Istituto composto da 10 centri in Italia e due outstation all’estero (presso MIT e Università di Harvard in USA).
ricercatori post dottorato, personale tecnico e ricercatori senior (Principal Investigator) e inizierà l’attività di ricerca a partire da gennaio 2019, non appena si concluderanno le procedure, già in corso, di assunzione dello staff e il loro insediamento nei laboratori già allestiti presso l’Università Ca’Foscari. L’attività scientifica di CCHT@Ca’Foscari verrà pianificata in base ai bisogni reali di chi ogni giorno si impegna a conservare e restaurare il patrimonio artistico nazionale ed internazionale e si snoderà su diversi piani sfruttando le competenze acquisite dai team di ricerca IIT che lavorano nel campo delle scienze dei materiali, della computer vision, dell’intelligenza artificiale e del machine learning in un’ottica multidisciplinare.
Fenomeni naturali e azione dell’uomo mettono a rischio i beni culturali, di cui l’Italia è tra i maggiori custodi. Venezia, emblema del patrimonio dell’umanità da proteggere, grazie a questo nuovo centro della rete IIT e alle competenze di Ca’ Foscari, diventa laboratorio per lo studio, l’analisi, la conservazione anche preventiva, e la protezione della ricchezza architettonica, artistica e archeologica conservata in Italia e nel mondo.
Gli scienziati dei materiali coinvolti nelle attività del centro analizzeranno i materiali con cui i beni sono realizzati allo scopo di individuarne le caratteristiche e sviluppare adeguate strategie di conservazione e protezione da agenti naturali o artificiali. Verranno così creati, ad esempio, rivestimenti per la protezione da umidità, microorganismi, erosione del vento e areosol marini progettati per rispettare le caratteristiche chimico fisiche di tessuti, di opere in muratura, di affreschi, tele o sculture in modo che ogni trattamento sia sviluppato ad hoc in base alle caratteristiche dei materiali e ai fattori esterni a cui sono sottoposti, siano essi di tipo meteorologico o legati ad attività umane.
Il centro a regime sarà composto da oltre 20 unità di personale che comprendono amministrativi, studenti di dottorato,
D’altra parte mediante tecniche di visione computerizzata e machine learning si potranno digitalizzare e rendere così indistruttibili e
perenni beni culturali di ogni genere inserite nel loro contesto originale, per consentirne uno studio più articolato, la riproduzione o il restauro in seguito al loro danneggiamento, avvenuto per cause naturali – quali alluvioni, terremoti – o cause dovute all’intervento umano – quali atti di vandalismo o terrorismo e inquinamento. A tal fine si sperimenteranno nel centro nuove tecnologie – come sensori e dispositivi - mai usati nell’ambito della conservazione dei beni culturali e nuovi strumenti sempre più economici e compatti sviluppati ad hoc che possano essere anche integrati in dispositivi di uso comune come smartphone o tablet. Il lavoro del CCHT@Ca’Foscari sarà anche dedicato alla valorizzazione delle risorse artistiche, archeologiche e architettoniche del nostro Paese, e non solo, mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie sviluppate in percorsi espositivi o museali per portare l’Intelligenza artificiale, la computer vision e le scienze dei materiali avanzati a beneficio della divulgazione in campo culturale. “La multidisciplinarietà sarà un elemento chiave del nuovo centro della rete IIT” afferma Arianna Traviglia la Coordinatrice di CCHT@ Ca’Foscari appena insediata “le persone che lavoreranno qui a Venezia combineranno i loro background differenti per ottenere risultati concreti che soddisfino le reali esigenze del nostro patrimonio culturale; potremo così vedere, ad esempio, sistemi automatizzati per lo studio e l’analisi dei manufatti che si avvalgono di dispositivi robotici in grado di manipolare manufatti da digitalizzare o trattare. Un incontro fra tecnologie di frontiera e patrimonio culturale senza precedenti” conclude Traviglia.
ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA L’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) è un centro di ricerca istituto dal governo con la legge n. 326 del 2003 che adotta il modello della fondazione finanziata dallo Stato. IIT ha l’obiettivo di promuovere l’eccellenza nella ricerca di base e in quella applicata e di favorire lo sviluppo del sistema economico nazionale. L’Istituto svolge attività di ricerca interdisciplinare nel campo della robotica, dei nanomateriali, delle tecnologie per le scienze della vita, delle scienze computazionali e dell’IA. Lo staff complessivo di IIT conta 1639 persone provenienti da oltre 60 Paesi. L’area scientifica è rappresentata da circa il 80% del personale. Il 47% dei ricercatori proviene dall’estero: di questi, il 33% è costituito da stranieri e il 14% da italiani rientrati. Oggi il personale scientifico è composto dal 7% Principal Investigator, 11% ricercatori e tecnologi di staff, 41% post doc, oltre 41% studenti di dottorato. Età media 35 anni. 42% donne / 58 % uomini. La produzione di IIT ad oggi (Dicembre 2017) vanta 11720 pubblicazioni, oltre 180 progetti Europei e 25 ERC, più di 600 titoli di brevetti attivi, 18 start up costituite e 26 in fase di lancio. Dal 2009 l’attività scientifica è stata ulteriormente rafforzata con la creazione di 11 centri di ricerca IIT nel territorio nazionale (a Torino, due a Milano, Trento, Roma, due a Pisa, Napoli, Lecce, Ferrara e Venezia) e due outstation all’estero (MIT ed Harvard negli USA) che, unitamente ai Laboratori Centrali di Genova, sviluppano i programmi di ricerca del piano strategico 2018-2023.
comunicati stampa Il Centro, realizzato dall’Università Ca’ Foscari Venezia e dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, ha sede al VEGA Parco Scientifico e Tecnologico
Nasce a Venezia il piu’ grande centro di ricerca accademico in italia sui cambiamenti climatici Task force di climatologi, chimici, economisti, statistici, userà strumenti modellistici e sistemi di supercalcolo VENEZIA, 13 aprile 2018 – Si chiama CMCC@Ca’Foscari ed è il più grande centro accademico di ricerca sui cambiamenti climatici in Italia, nasce dalla partnership strategica tra Università Ca’ Foscari Venezia e la Fondazione CMCC - Centro EuroMediterraneo sui Cambiamenti Climatici. Con sede al VEGA – Parco Scientifico e Tecnologico di Marghera Venezia, la task force multidisciplinare vede lavorare insieme climatologi, economisti, chimici, statistici per mettere in piedi ricerche nazionali e internazionali sull’interazione tra il clima, l’ambiente, l’economia e la società. Studi che sono supporto alla costruzione di politiche che mirano ad affrontare i cambiamenti climatici. La collaborazione tra Ca’Foscari e CMCC è nata diversi anni fa e trova oggi una formalizzazione istituzionale fondata sulla condivisione di risorse e competenze che consentono alla più importante realtà di ricerca sul clima che si trovi all’interno di una università italiana di poter contare sull’infrastruttura tecnologica del CMCC, un supercomputer con sede a Lecce, tra i più potenti in Europa tra quelli dedicati ai modelli di previsione del clima. CMCC@Ca’Foscari aggrega i gruppi di ricerca del CMCC e quelli presenti a Ca’ Foscari al Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica e al Dipartimento di Economia, è una partnership che si sviluppa su più livelli, si compone di innovative linee di ricerca, del Dottorato in Science and Management of Climate Change unico in Italia su questi temi e che ha finora diplomato
50 dottori di ricerca che oggi lavorano in ambito accademico e non accademico in tutto il mondo. Novità assoluta di quest’anno è il Master of Research in Science and Management of Climate Change, che arricchisce l’offerta formativa gestita dalla Challenge School di Ca’ Foscari. Linee di ricerca e laboratori CMCC@Ca’Foscari aggrega i gruppi di ricerca del CMCC e quelli presenti a Ca’ Foscari al Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica e al Dipartimento di Economia. Il Centro si caratterizza per una attività di ricerca fortemente interdisciplinare, spaziando dal paleoclima all’analisi degli impatti dei cambiamenti climatici, dalla gestione delle risorse idriche a quella dell’energia, alla gestione del rischio da disastri naturali, dalle valutazioni economiche delle conseguenze del cambiamento climatico alle relative proposte di policy, sia a livello nazionale che internazionale. I laboratori e le attrezzature scientifiche dei gruppi di ricerca attivi nell’ambito degli studi sugli effetti del cambiamento del clima e del paleoclima includono una varietà molto ampia di strumentazioni avanzate per le indagini chimiche, chimico-fisiche, biologiche e geochimiche. Dottorato e nuovo Master Il Dottorato Science and Management of Climate Change è unico nel suo genere sia in Italia che nel panorama internazionale, perché unisce scienza ed economia dei cambiamenti
climatici. È un’iniziativa congiunta dell’Università Ca’ Foscari Venezia, del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale. A Venezia sono arrivati dottorandi da tutto il mondo per diventare esperti di cambiamenti climatici: 24 le nazionalità degli studenti, un terzo provengono da paesi extraeuropei. Negli otto cicli finora conclusi il dottorato ha formato 50 dottori di ricerca che hanno poi trovato impiego nelle università, in enti di ricerca e in organizzazioni di tutto il mondo. Mentre è aperto il bando per candidarsi al 34° ciclo, altri 47 studenti stanno completando o hanno iniziato da poco il percorso quadriennale del dottorato. Dal 2018/2019 nasce il nuovo Master of Research in Science and Management of Climate Change, che arricchisce l’offerta formativa gestita dalla Challenge School di Ca’ Foscari ed è integrato al dottorato. In aula per la prima volta insieme dottorandi e masterini assisteranno alle lezioni tenute da docenti di Ca’ Foscari e da ricercatori di CMCC e altri enti di ricerca nazionali ed internazionali. L’evento di inaugurazione CMCC@Ca’Foscari è stato inaugurato con un incontro pubblico cui hanno partecipato Michele Bugliesi, Rettore, Università Ca’ Foscari Venezia; Roberto Ferrara, Amministratore Unico, VEGA; Antonio Navarra, Presidente, Fondazione CMCC; Antonio Marcomini, Direttore, Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica, Università Ca’ Foscari Venezia; Monica Billio, Direttore, Dipartimento di Economia, Università Ca’ Foscari Venezia; Carlo Barbante, Presidente, Società Italiana per le Scienze del Clima, CNR - IDPA Istituto per la Dinamica dei Processi Ambientali, Università Ca’ Foscari Venezia; Carlo Carraro, Vice Presidente, WGIII-IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, Università Ca’ Foscari Venezia.
Dichiarazioni Carlo Barbante, direttore dell’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Consiglio nazionale delle ricerche (Idpa-Cnr), professore a Ca’ Foscari e docente del PhD promosso da Cmcc@CaFoscari, ha presentato le prospettive di ricerca sui Artico e Antartide: «I Poli sono importanti perché contengono informazioni uniche sul sistema Terra, determinano il bilancio energetico terrestre e la distribuzione delle masse d’acqua negli oceani, sono le aree più colpite dal cambiamento climatico dovuto all’uomo a causa del fenomeno di amplificazione di cui risentono. Tre le azioni urgenti ai Poli: collegare il sistema climatico polare al contesto globale, comprendere i limiti fino ai quali ci possiamo spingere nel formulare solide previsioni sui cambiamenti futuri delle regioni polari, studiare gli impatti su scala regionale e percorsi di adattamento in risposta al cambiamento climatico polare».
comunicati stampa Si chiama VeNice il nuovo spinoff universitario di Ca’ Foscari
Startup al femminile per cosmetici green Creme hi-tech da fondi di caffè Tre scienziate, una farmacista e una manager: obiettivo inventare creme sostenibili valorizzando un brevetto che massimizza l’efficacia VENEZIA – Dall’idea di tre scienziate nasce a Venezia una startup tutta al femminile per sviluppare cosmetici sostenibili e hitech. L’impronta green viene dalla selezione delle materie prime, come principi attivi che possono essere ottenuti da scarti: fondi di caffè e buccia della frutta. La tecnologia, frutto di anni di ricerca nei laboratori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, permette un rilascio controllato del principio attivo: intervenire quando e dove serve per usare meno cosmetico, o meno frequentemente. Dopo aver depositato un brevetto le scienziate hanno deciso di aprire una startup innovativa, VeNice, che è anche spinoff universitario. In questa nuova impresa sono coinvolte la professoressa Michela Signoretto, coordinatrice del gruppo di ricerca in catalisi eterogenea e materiali del Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi di Ca’ Foscari, la chimica industriale Federica Menegazzo, e una scienziata dei materiali, Elena Ghedini. Da anni lavorano allo sviluppo di tecniche per massimizzare l’efficacia di molecole attive da impiegare in svariati campi, dal settore farmaceutico a quello cosmetico. A questo gruppo iniziale si è aggiunta, grazie ad un progetto finanziato dal Fondo Sociale Europeo, Enrica Tanduo, laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche. Infine, per poter passare dagli esperimenti ad una vera impresa il team ha coinvolto una giovane esperta di management, Azzurra Meoli.
La startup cafoscarina ha subito convinto gli osservatori: a pochi giorni dall’avvio è già arrivato un premio, il MF Fashion Veneto Award. Ora la sfida è attrarre investitori. Il calendario di presentazioni è già fitto e internazionale, a partire dal congresso mondiale della cosmetica di Monaco di Baviera, a settembre. “Per studiare nuovi formulati innovativi abbiamo bisogno di integrare la strumentazione scientifica dei nostri laboratori - spiegano le fondatrici di VeNice - quindi i primi finanziamenti che riusciremo ad ottenere dai partner industriali saranno determinanti per poter proporre al mondo della cosmetica dei prodotti sempre più efficaci ma anche ecosostenibili”.
comunicati stampa In corso lo scavo dell’Università Ca’ Foscari Venezia
L’antico abitato di Torcello restituisce uno scheletro – nuove ipotesi sui primi abitanti dell’isola e la loro vita L’origine di Venezia si arricchisce di nuovi dati interpretativi LO SCHELETRO A Torcello, isola veneziana nella laguna, presso lo scavo dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, iniziano ad emergere I protagonisti della millenaria storia dell’isola. Una sepoltura databile intorno all’VIII secolo d.C. è stata infatti scavata in questi giorni dall’equipe di studiosi sotto la direzione scientifica dell’archeologo Diego Calaon (Marie Curie Fellow). “Si tratta di un giovane adulto, la cui sepoltura – non troppo lontana dall’area che immaginiamo essere stata adibita a cimitero intorno alla Basilica nelle sue fasi altomedievali – di cui si è conservato piuttosto bene quasi tutto lo scheletro, ad eccezione della testa. Non lasciamoci ingannare però: il ritrovamento delle parti residuali di lato destro del cranio e il taglio di una buca di età moderna (probabilmente per un palo strutturale) proveniente dall’alto, ci indicano che la sepoltura era completa e che solo le attività successive svolte nell’area hanno determinato le mancanze di oggi”. Si tratta di un rinvenimento importante: a Torcello negli scavi degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso erano state indagate aree cimiteriali, ma generalmente più moderne, ovvero pertinenti al pieno medioevo. Potere analizzare dati biometrici degli antichi Torcellani tra VI e IX secolo è un’occasione unica. Chi erano gli antichi abitanti dell’isola che vivevano nelle ben costruite case di legno presente densamente nell’area? Lavoratori liberi? Schiavi? Si tratta di una comunità già profondamente cristianizzata o meno? La presenza di una tomba isolata, o non connessa direttamente alla chiesa apre a molte ipotesi: le analisi DNA e biometriche ci indicheranno importanti dati interpretativi.
L’AREA La sepoltura è stata scavata in un area molto interessante da un punto di vista stratigrafico: siamo sull’intestatura di un antico canale lagunare che separava l’isola dell’Antica Chiesa di Santa Maria dall’area dell’abitato medievale: il canale nel tempo è stato bonificato con centinaia di pali lignei, indice di una “fame di spazio” per abitazioni e attività artigianali che richiedeva l’allargamento e la creazione di nuovi spazi abitati. Lo scavo nella sua estensione, ci sta rivelando come l’VIII i il IX secolo siano centrali per attestare l’esplosione demografica nell’isola: presenza di fitte case in legno, moli, focolari e strutture produttive, testimoniate da centinaia di frammenti di ceramica da cucina (tra cui molti catini coperchio, gli antichi testi per la cottura di pani e focacce nei focolari a terra), anfore da olio e vino, pietra ollare per la cottura di zuppe e minestre. LA DIETA Cosa mangiavano i primi abitanti dell’isola? Anche a questa domanda possiamo già dare qualche risposta: mangiavano molto pesce, visto l’ambiente lagunare, comprese ostriche, cozze e molluschi, ma anche pesce d’altura, alcuni resti in corso di studio sembrano riferirsi addirittura a tartarughe e delfini. Attestati consumi importanti di carni bianche da pollame, di maiale e carne bovina, anche se i consumi di carne dimostrano la presenza di numerosi ovini, presenti sia per la carne che per la probabile produzione di pergamene. Oltre a ciò una grande varietà di verdure e frutta. Il contenuto delle anfore invece attestano consumi di olio, vino e spezie dal sud
del Mediterraneo. IL PORTO L’abitato copre un’area molto ampia di magazzini, costruiti e attivi nei due secoli precedenti, tra VI e VII secolo dopo cristo: “Torcello diventa un punto nodale della portualità lagunare proprio in questo momento. Altino non è più praticabile come porto, e i magazzini che stiamo scavando nell’isola - continua Diego Calaon- ci dicono come molto prima di “immaginate” o “leggendarie” distruzioni barbariche le élite locali avevano investito pienamente per la creazione di uno scalo efficiente proprio nell’area del litorale dell’epoca. Magazzini costituiti con mattoni romani di riuso, alcuni anche iscritti, fondati con pietre spogliate dall’antica città romana. Il magazzino portuale porticato visibile a Torcello in questi giorni è eccezionalmente ben conservato”. UNA NUOVA INTERPRETAZIONE SULLE ORIGINI DI VENEZIA Tradizionalmente, Torcello si è sempre considerata nell’ottica di Venezia, come la prima Venezia, come l’origine della Serenissima, affidando a Torcello il ruolo del luogo dove gli antichi altinati (romani) si sarebbero rifugiati per scappare dai barbari. Se fosse così, come ci racconta il mito, gli spazi geografici dell’antica Torcello (ma anche di Rialto) dovrebbero essere considerati come luoghi “impervi, inaccessibili” dove nessuno avrebbe mai voluto mettere piede. Questa narrativa, fatta di guerre, barbari, lotte ha molto fascino, ma va riconsiderata alla luce dei recenti rinvenimenti. L’archeologia ci racconta una storia completamente diversa. Una storia di trasformazioni ambientali e lenti adattamenti, su cui si sono fatti importanti investimenti sul piano commerciale e delle infrastrutture portuali. Ci racconta una storia di genti, di case, di relazioni. Una storia da narrare. L’interpretazione nuova che se ne vuole dare è negli spazi e nelle stratigrafie Torcellane: “Torcello è il Porto Tardo-Antico e Altomedievale di Altino”. La collocazione
del nuovo porto è essenzialmente dovuta ai cambiamenti ambientali, sia su larga scala (la progressiva trasformazione dei delta/estuari dei fiumi che sfociano in area costiera, con apporti progressivi verso il mare e la creazione di nuove aree mediamente acquatiche con barene, dossi e dune litoranee) che a scala locale (il progressivo interramento delle aree portuali di Altino e la necessità di spostare gli scali commerciali su aree con canali/lagune con maggiore capacità acquea). Nella nostra narrativa, inoltre, hanno largo spazio i materiali da costruzione (il legno, il fango), l’approccio antropologico alla vita sulle lagune (il rapporto con l’acqua), e la fondamentale prospettiva dell’uso di forze lavoro per mantenere in vita i nuovi porti (schiavi). Nel frattempo continuano anche le indagini in un altro settore, dove una costruzione di grandi dimensioni (più di 25 metri di lunghezza), interpretabile come una rimessa per le barche e magazzino, databile al XIV secolo, è in corso di scavo e studio. L’edificio con solide fondazioni in pietra (ancora ”pezzi” di Altino riutilizzati in laguna,) si affaccia ad una robustissima antica riva in pietra, rinforzata successivamente da un pontile esterno per raggiungere quello che era il corso dell’antico Sile. Tra la riva e il magazzino i segni evidenti e abbondanti di un cantiere medievale per la sistemazione delle barche, probabilmente per la pesca, con le tracce dei pali per l’alaggio, per la sistemazione sul fianco dei natanti e, probabilmente, per la preparazione delle peci. Insomma, una nuova storia sulle origini di Venezia tutta da raccontare: un lento spostamento di un centro commerciale e fluviale. Una storia densa di elementi, ricca da scoprire giorno per giorno. L’ARCHEOLOGIA PARTECIPATA – IL PROGETTO TORCELLO ABITATA Di conseguenza queste le riflessioni: “Come raccontare dunque questo materiale? Come “esporlo”? Come conservarlo?” Da questo concetto prendono avvio gli APERITIVI ARCHEOLOGICI, le azioni di archeologia partecipata del Progetto Torcello
Abitata 2018 che ha ideato una forma insolita di incontro, condividendo insieme un aperitivo proprio lÏ, dove il cantiere di scavo è in corso, ascoltando dalla voce degli archeologi anticipazioni e news esclusive, ma anche proponendo giochi per bambini e visite guidate live, incontri con gli autori (Valerio Massimo Manfredi e Tiziano Scarpa) e momenti di riflessione sul possibile parco archeologico con i Soprintendenti ai beni Archeologici. Gli scavi saranno in corso fino al 14 ottobre. Sito del progetto www.unive.,it/voicesofvenice
comunicati stampa L’Ateneo veneziano fra le prime amministrazioni pubbliche ad applicare questa modalità di lavoro che concilia professione e famiglia e accresce autonomia e produttività
Dal 1 gennaio Smartworking a Ca’ Foscari Sede e orari di lavoro flessibili per il personale Il progetto coinvolgerà 60 dipendenti in due anni del personale tecnico-amministrativo. Oltre allo smartworking, il telelavoro coinvolge un ulteriore 10% del personale VENEZIA – Il lavoro all’Università Ca’ Foscari Venezia si fa più agile! Dal 1 gennaio 2019 entra in funzione lo smartworking che consentirà ai dipendenti del personale tecnicoamministrativo coinvolti di organizzare la propria attività scegliendo sede e orari di lavoro flessibili. Con l’avvio del progetto, verranno sperimentate modalità flessibili di organizzazione del lavoro grazie all’utilizzo delle moderne tecnologie digitali e di comunicazione che permettono di rimuovere vincoli di orario e presenza fisica senza conseguenze sull’efficienza e l’efficacia dei servizi. Il progetto prevede, nel primo anno di sperimentazione, la partecipazione di circa 30 dipendenti dell’Ateneo e cui se ne uniranno altri 30 nel 2020. Ca’ Foscari è una delle prime amministrazioni pubbliche ad applicare lo smartworking. L’Ateneo già applica l’istituto del telelavoro che coinvolge attualmente il 10 per cento del personale complessivo di Ca’ Foscari (500 persone) e con l’introduzione dello smartworking conferma la propria attenzione per le politiche verso il personale.
I dipendenti potranno gestire i tempi e le modalità di lavoro in maniera flessibile con importanti vantaggi: miglioramento della performance e della produttività, riduzione dei costi di gestione, riduzione dei costi e dei tempi di spostamento, miglioramento della sostenibilità ambientale. Il Rettore dell’Università Ca’ Foscari Venezia Michele Bugliesi: «Il benessere del personale tecnico-amministrativo è uno degli elementi qualificanti del Piano Strategico di Ateneo e l’avvio dello smartworking è un altro importante tassello di queste politiche. Dopo la piattaforma di assistenza sanitaria integrativa avviata nel 2018 e le nuove misure per lo smartworking, nei prossimi mesi del 2019 attiveremo anche il Piano Welfare a favore del personale, per il quale abbiamo stanziato a bilancio circa 900mila euro, che contribuirà a migliorare ulteriormente le condizioni di lavoro del personale e la conciliazione con la vita familiare».
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Ecco l’Heritage Scientist: per una cultura condivisa della conservazione Il tema della conservazione delle opere d’arte e lo studio dei diversi supporti, soprattutto nell’ambito dell’arte moderna, sembra vivere un momento di crescita di interesse. Ca’ Foscari ha tra l’altro appena inaugurato presso il Vega il nuovo Centre for Cultural Heritage Technology in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) per lo sviluppo di nuove tecnologie e materiali nel campo dello studio e della conservazione dei beni culturali. Abbiamo dunque pensato di chiedere a Elisabetta Zendri, coordinatrice del corso di laurea magistrale in Conservation Science and Technology for Cultural Heritage, di farci un excursus su queste tematiche. Come è cambiato in questi anni l’atteggiamento verso questo ambito di ricerca? Il tema della conservazione dell’arte contemporanea è dibattuto da alcune decine di anni, sia per quanto riguarda gli aspetti metodologici che quelli etici e anche giuridici.
Ci sono importanti aspetti economici che ruotano attorno all’arte contemporanea e questo ha sicuramente mantenuto alta l’attenzione sul tema della conservazione, ma nel tempo ci è anche resi conto che le metodologie tradizionali non erano adeguate. In molto casi si ha a che fare con opere concettuali in cui i materiali giocano un ruolo fondamentale nel significato dell’opera stessa. Vengono mescolati materiali molto diversi tra loro e con una diversa durabilità e questo ha richiesto (e richiede) lo sviluppo di nuovi metodi non solo di restauro, ma anche di studio e di valutazione degli impatti dell’ambiente di conservazione. Questo insieme di caratteristiche spiega l’attenzione crescente verso i temi della conservazione dell’arte contemporanea, nei quali la figura del Heritage Scientist gioca un ruolo importante sia nello studio dei materiali che nella proposta di nuove metodologie per l’intervento e per la prevenzione dei danni. L’intervento di conservazione di un’opera
contemporanea è considerata come l’esito di interazioni trans-disciplinari e per questo i convegni sul tema sono diffusi e richiamano molti esperti delle diverse discipline coinvolte (storici, esperti scientifici, restauratori, galleristi, artisti, ecc.). Il Campus Scientifico di Mestre ospiterà il 23 e 24 novembre l’ottavo Convegno Internazionale Colore e Conservazione 2018 dal titolo Supporto e(‘) Immagine, organizzato da CESMAR7 in collaborazione con la nostra Università. Questa edizione sarà dedicata al tema delle operazioni strutturali e di consolidamento nei dipinti contemporanei. Il tema sarà trattato nelle sue diverse declinazioni, dalla proposta di nuovi materiali, alla messa a punto di metodologie di controllo dei metodi, fino alla realizzazione di interventi su opere particolarmente complesse. Saranno presenti esperte ed esperti internazionali di diversa formazione e i lavori saranno di sicuro stimolo per le future ricerche. Quali sono in questo momento le attività che state sviluppando e in che settori? I campi d’interesse del nostro gruppo di ricerca spaziano dallo studio dei materiali artistici, archeologici e architettonici, alla valutazione delle loro interazioni con l’ambiente di conservazione, allo studio di nuovi sistemi per l’intervento di conservazione del patrimonio culturale e fino allo studio di metodologie per il monitoraggio e la prevenzione dei danni sulle opere. In questo momento le attività di ricerca si concentrano in particolare su alcuni importanti progetti: il progetto “Tintoretto”, in collaborazione con la Scuola Grande di San Rocco e Venice In Peril, per lo studio dei teleri del soffitto nella Sala Capitolare della Scuola e per la valutazione dell’influenza dell’ambiente sulla stabilità di queste straordinarie opere; il progetto di studio degli impatti della risalita capillare di acqua di mare nelle strutture architettoniche di Venezia e di valutazione delle metodologie di contenimento dei danni, in collaborazione con CORILA e IUAV; il progetto per la messa a punto di nuovi protettivi per la conservazione di supporti dell’arte e dell’architettura, in collaborazione
con l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova; il progetto per lo studio di nuovi materiali e metodi di produzione di oggetti artistici e di design attraverso tecnologie di fabbricazione additiva, in collaborazione con Aziende e con le Università del Veneto. Stare a Venezia vuol dire avere un osservatorio privilegiato e “un parco” su cui intervenire davvero enorme. Qual’è il rapporto con il territorio e le collaborazioni prestigiose che state avviando con le realtà museali della città? Negli anni abbiamo costruito una fitta rete di collaborazioni con enti e aziende del territorio, che ci permettono di conoscere e affrontare le reali esigenze conservative del patrimonio artistico e architettonico veneziano. Ci vengono sottoposti quesiti concreti, a cui diamo risposte concrete e nel contempo cogliamo l’occasione per dare inizio a ricerche che si sviluppano con tempi e modalità proprie dell’università, coinvolgendo anche gli esperti delle diverse istituzioni. Il sistema che si è creato è quindi inclusivo e con un obiettivo comune che riguarda la salvaguardia del patrimonio veneziano. Il lavoro di ricerca che stiamo svolgendo sui teleri di Tintoretto della Scuole Grande di San Rocco è un esempio concreto di interazione attiva con il territorio, dove i temi della conservazione di questo patrimonio inestimabile vengono affrontati in maniera diretta, con l’obiettivo di trovare in tempi brevi delle risposte e proporre dei metodi di controllo che siano efficaci e duraturi. Nel contempo abbiamo avuto l’occasione di studiare la tecnica pittorica di Tintoretto e utilizzare diversi metodi di indagine non invasivi e di sperimentare nuovi metodo di valutazione degli impatti dell’ambiente sui materiali pittorici. I rapporti con le istituzioni sono stati anche “ufficializzati” attraverso convenzioni con la Fondazione dei Musei Civici di Venezia e con la Soprintendenza di Venezia. Questo ci permette non solo di affrontare tematiche reali, complesse e per questo stimolanti, ma anche di coinvolgere gli studenti dei corsi di Laurea in Tecnologie per la conservazione e il restauro e in Conservation science and technology for
cultural heritage in attività di studio su casi concreti, dando loro l’opportunità di mettere a frutto quanto appreso nei corsi teorici e prendere atto della complessità del sistema bene culturale. Un esempio è l’attività svolta nell’ambito del corso di Chemical methods and technologies for cultural heritage materials della Laurea Magistrale, attività condotta in stretta collaborazione con la Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, che ad ogni edizione del laboratorio propone dei casi di studio straordinari, affrontati dagli studenti sia dal punto di vista diagnostico che di messa a punto di sistemi per l’intervento di conservazione. Stiamo progettando anche altre attività con il Comune di Venezia, da realizzare su manufatti lapidei con problematiche conservative molto particolari. Ormai da tempo avete avviato una fruttuosa collaborazione anche con altri ricercatori di Ca’ Foscari nel campo dell’archelogia e quest’estate avete lavorato a stretto contatto con il gruppo di archeologi che ha scavato nell’isola di Torcello per rilievi archeometrici e diagnostica sui materiali. Ci puoi descrivere qual’è stato il vostro apporto? Questa collaborazione ha avuto inizio con un progetto Interreg del 2011 e da allora abbiamo affinato l’interazione rendendola sempre più efficace, tanto da aver generato un’area culturale e di ricerca di grande interesse e di sicuro sviluppo. Abbiamo iniziato con un approccio molto tradizionale, con la figura dell’Archeologo e dell’Esperto Scientifico che si consultavano da una parte all’altra dello scavo e oggi siamo arrivati a lavorare assieme, durante lo scavo e nello scavo, con modalità ovviamente diverse ma con una notevole capacità d’interazione. Abbiamo partecipato agli scavi di Torcello imparando il linguaggio del metodo archeologico e insegnando quello del metodo chimico-archeometrico per lo studio dei reperti e dell’ambiente di scavo. In questo modo abbiamo contribuito alla ricostruzione dell’ambiente torcellano, allo studio degli oggetti di uso quotidiano (dalle indagini su di un’anfora siamo risalite al suo contenuto: una composta di pesche,
frutto coltivato sull’isola), allo studio delle tecnologie produttive sviluppate sull’isola e alla messa a punto di metodi di conservazione dei reperti con l’impiego di materiali a basso impatto ambientale. Questa diversa modalità d’interazione tra scienze per la conservazione e archeologia ha portato tutti ad una crescita culturale importante che non si esaurirà con lo scavo di Torcello, perché è un patrimonio di per sé e lo cureremo rafforzando ancora di più questa interazione. Quali sviluppi e quali applicazioni ancora potrà avere l’ambito della conservazione dei materiali in futuro secondo la tua opinione? Questo è il nodo cruciale che dobbiamo affrontare con onestà intellettuale e apertura, senza pregiudizi. La conservazione del patrimonio culturale è prima di tutto un tema sociale, quindi il “conservatore” nelle sue diverse declinazioni professionali e culturali deve confrontarsi con la società nel suo complesso e con le sue mutazioni. Altrimenti il rischio, ad esempio per l’esperto scientifico inteso in senso tradizionale è quello di trovarsi relegato in un ruolo marginale, dove potrà anche soddisfare le sue esigenze di scienziato, ma senza alcun peso nelle scelte che riguardano il futuro della conservazione e quindi anche il suo. Questo significa costruire una cultura della conservazione, dove ogni attore deve essere in grado di riconoscere l’importanza dei diversi contributi. Diciamo questo da decine d’anni, ma capita ancora di discutere sul valore di un approccio rispetto ad un altro e questo significa che il concetto di trans-disciplinarità non è ancora stato assimilato da tutti. Il futuro della conservazione dei materiali è il nostro futuro, quindi credo che nessuno voglia metterlo in dubbio. Cambierà, ed è già cambiato, l’approccio e anche l’attenzione a temi fino ad oggi non considerati. In particolare sarà sempre più importante progettare e mettere a punto metodologie che riducano i costi d’intervento, che generino quantità sempre minori di scarti, che non impattino sulla salute degli operatori e sull’ambiente. Ma sarà anche fondamentale passare
concretamente dal concetto di “restauro” a quello di “prevenzione” e di “manutenzione”. Ne parliamo da tempo, si sono già fatti importanti passi avanti, ora dobbiamo essere pronti a condividere con le istituzioni e con le aziende queste necessità e a dare risposte concrete.
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Tecnologia al servizio della famiglia: finanziato progetto di Ca’ Foscari L’equilibrio vita/lavoro è difficile da trovare soprattutto per lavoratrici e lavoratori con compiti di cura di figli o anziani. La gestione e l’organizzazione del quotidiano diventano un puzzle di difficile composizione in particolare per chi ha figli piccoli e in condizioni di crescente instabilità e precarietà del lavoro e diminuzione delle risorse investite nel welfare pubblico.
Si occuperà di co-progettare una piattaforma web Open Source che faciliti le famiglie in sette città europee (Venezia, Bologna, Trento, Salonicco, Budapest, Amburgo, Kortrijk) nel condividere la cura dei bambini per affrontare meglio i problemi legati alla conciliazione vita/lavoro attraverso laboratori di co-design partecipato e di test degli strumenti tecnologici messi a punto.
Una possibile strada, nella direzione delle cosiddette ‘alternative economies’, è mettere in comune e scambiarsi tempo e competenze nelle comunità di vicinato con la facilitazione delle tecnologie e strumenti di comunicazione social.
Families_Share punta a coinvolgere soprattutto fasce di lavoratori e lavoratrici più esposte alla prolungata stagnazione economica e all’aumento del costo dei servizi di cura, con l’intento di promuovere anche l’integrazione delle famiglie migranti nel tessuto sociale.
È questo l’obiettivo che si propone di raggiungere Families_Share, progetto appena approvato e finanziato nell’ambito del programma H2020 – ICT - CAPS (Collective Awareness Platforms) assieme ad altri sei progetti selezionati su oltre 100 candidature.
La dimensione di genere è cruciale nel progetto poiché, se l’equilibrio vita lavoro è di centrale importanza per sostenere l’occupazione femminile, il percorso di partecipazione che si andrà a facilitare servirà anche a coinvolgere attivamente i padri e a
promuovere riflessione e cambiamento degli stereotipi che identificano la cura dei figli come competenza prevalentemente materna. Families_Share rappresenta in questo un approccio fortemente innovativo nelle modalità di intervento mirate a promuovere eguaglianza di genere. Coordinato dal Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica di Ca’ Foscari vede la partecipazione del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali. Families_Share si colloca infatti in un ambito di ricerca interdisciplinare in cui il design di una piattaforma web fortemente influenzato dalle dinamiche relazionali e sociali che si attiveranno sul campo tra i partecipanti all’indagine e alla sperimentazione si configurerà come ‘sistema sociotecnico’ e, nel contempo, stimolerà cambiamento sociale, nella direzione della de-mercificazione del lavoro riproduttivo e di cura, ma anche di redistribuzione dello stesso tra uomini e donne e oltre i confini del contesto familiare. l progetto avrà 34 mesi di tempo per sfruttare il potenziale della cosiddetta digitalsocial innovation per testare un modello di ‘alternative economy’ applicato al lavoro di cura e alla sua condivisione, promuovendo sostenibilità sociale e un modello di città e comunità intelligenti ed inclusive grazie alla partecipazione di cittadini e cittadine. Il consorzio guidato da Ca’ Foscari vede la presenza di istituti di ricerca, come Fondazione Bruno Kessler e IMEC (InterUniversity Micro Electronic Research Centre), piccole aziende attive nella promozione di innovazione sociale e tecnologica (ViLabs, Smart Venice), ong di donne (Ergani) e associazioni di genitori che hanno già iniziato a lavorare in un’ottica di mutuo aiuto attraverso le tecnologie (De Stuyverij).
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Musei sommersi: i tesori del mare a disposizione di tutti La valorizzazione del patrimonio marittimo è al centro di due progetti finanziati ai quali Ca’ Foscari partecipa come partner con il coinvolgimento di professori del Research Team “Creative arts, cultural heritage and digital humanities”. Si tratta di Progetti di cooperazione Interreg Italia-Croazia che fanno capo al Dipartimento di Studi Umanistici e di cui è responsabile scientifico Carlo Beltrame, con il coinvolgimento di Francesco Casarin e Francesco Vallerani nella proposta Arca Adriatica. Il primo è UNDERWATER MUSE(Immersive Underwater Museum Experience for a wider inclusion), un progetto Interreg Italia-Croazia, coordinato dall’ERPAC della Regione Friuli Venezia Giulia, in cui Ca’ Foscari è partner assieme alla Regione Puglia, alla Marco Polo System, al Rera (agenzia per lo sviluppo della regione di Spalato e della Dalmazia) e alla municipalità di Kastela. Prevede un budget di oltre 1,5 milioni di euro e si inserisce nell’asse
prioritario Ambiente e eredità culturale. Obbiettivo del progetto è lo sviluppo di una metodologia efficace finalizzata ad una più estesa condivisione del patrimonio archeologico marittimo in grado di superare gli ostacoli posti dall’ambiente sommerso. “Anche le recenti linee guida dell’Unesco – spiega Carlo Beltrame – indicano come sia preferibile il mantenimento in situ dei giacimenti e debba essere ricercata la possibilità di renderli fruibili al più vasto pubblico possibile. Per questo da un lato si tende a musealizzare l’ambiente subacqueo, ma questo pone seri problemi di manutenzione e controllo, dall’altra la strada senza dubbio più percorribile è quella dello sviluppo di tecnologie di ricostruzione virtuale degli scavi subacquei per una maggiore fruibilità a vantaggio di tutti. Pochi infatti hanno la fortuna di potersi immergere e vedere con i loro occhi le meraviglie che i nostri mari custodiscono, cioè il museo subacqueo ha dei limiti, ed è in questo caso che ci vengono in aiuto la realtà
virtuale e la realtà aumentata”. Il progetto si svilupperà concretamente, attraverso azioni pilota su siti archeologici italiani e croati, quali l’importante relitto del 3° secolo a.C. di Grado, indagato fino ad oggi in maniera solo preliminare, o il ricchissimo sito archeologico della baia di Santa Sabina in Puglia, ben studiato dall’Università del Salento. Si lavorerà sia per musealizzare in situ parte del patrimonio sommerso rendendolo visitabile ai subacquei, sia per fornire strumenti digitali in grado di permettere una conoscenza della storia sommersa veramente senza barriere. Verrà infatti elaborata una piattaforma web GIS e delle ambientazioni digitali che permetteranno di conoscere e navigare virtualmente sui alcuni siti. Le installazioni, in Italia, saranno ospitate nei musei di Brindisi, di Grado e del Mare di Caorle. In quest’ultimo, lo scorso luglio, è stata inaugurata la mostra permanente sul relitto del Mercurio, giacimento scavato da Ca’ Foscari al largo di Lignano, in cui è possibile immaginare di immergersi grazie alla realtà virtuale e ad altre innovative soluzioni digitali. Ecco in questo video un esempio di “immersione virtuale” Nel progetto Underwater Muse, il team di Ca’ Foscari, che sarà coordinato da Carlo Beltrame, docente di Archeologia marittima, sarà impegnato nella formulazione della migliore metodologia di lavoro, nelle indagini subacquee ma anche nella creazione di parte degli strumenti digitali, ambito in cui, negli ultimi anni, ha fatto importanti esperienza di ricerca operando nel campo della fotogrammetria subacquea, del GIS e della Virtual Reality. “Il valore aggiunto del lavoro di ricostruzione digitale – aggiunge ancora Beltrame – soprattutto dal punto di vista dello spessore scientifico, è che può elaborare anche risultati di vecchie campagne di scavi, mescolando dati non omogenei ottenuti con tecniche diverse e restituendo così in un’unica soluzione il sommarsi delle informazioni raccolte nel corso
degli anni per una conoscenza complessiva del sito archeologico”. Il progetto ARCA ADRIATICA, invece, ha un budget complessivo di 3,1 milioni di euro, è coordinato dalla contea di Primorje-Gorski Kotar e ha come partner, oltre al Dipartimento di Studi Umanistici di Ca’ Foscari, il Comune di Cervia, il museo della Marineria di Cesenatico, l’istituto agronomico mediterraneo di Bari, il comune di San Benedetto del Tronto, l’ecomuseo della Batana di Rovigno, il comune di Malinska-Dubasnica, l’agenzia turistica della contea di Kvarner e l’agenzia di sviluppo della contea di Zara. Scopo del progetto è la valorizzazione, anche a fini turistici-culturali, del patrimonio marittimo dell’Adriatico italiano e croato attraverso la creazione di centri di eccellenza. Attraverso i centri, questo patrimonio, consistente principalmente nella cantieristica navale tradizionale, verrà censito, documentato e quindi reso pubblico attraverso forme innovative di comunicazione digitale e l’organizzazione di appuntamenti di sensibilizzazione pubblica. L’unità di ricerca di Ca’ Foscari, coordinata da Carlo Beltrame e composta anche da Francesco Casarin e Francesco Vallerani, si occuperà di proporre una metodologia per la documentazione e lo studio del patrimonio marittimo, di elaborare un master plan per lo sviluppo di questa forma di turismo culturale e parteciperà ad attività di educazione dei bambini e dei giovani alla conoscenza di una cultura che accomuna le due sponde dell’Adriatico ma che, in molte zone, sta purtroppo celermente scomparendo.
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Un cafoscarino inventa come fare del bene, giocando: il caso Ofree L’idea del cafoscarino Nicolò Santin è tanto semplice quanto geniale e si riassume nel titolo della sua tesi di laurea in Economia e gestione delle aziende: “Gamification e advergaming: il caso Ofree e la soluzione per far donare le persone senza mettere mano al portafoglio”. Ofree, la sua invenzione, è una piattaforma che permette alle persone di donare soldi per progetti specifici di enti non profit senza spendere, ma semplicemente giocando (responsabilmente) a videogiochi gratuiti. I giochi sono advergame, giochi brandizzati pagati dalle aziende che li utilizzano come pubblicità. Seppure nata da poco, l’idea ha già scalato alcune classifiche del settore: prima classificata al Milano Startup Weekend, a Startuppato Torino 2018, a Lean in EU Business Angel Verona (a dicembre appuntamento con le finali internazionali). È per ora in finale a Startcup Veneto e a DigithON.
Ora il prossimo passo è raccogliere finanziamenti. Il team di Ofree è già in contatto con alcune importanti aziende interessate al prodotto, ed è alla ricerca di programmatori e designer. Nicolò, come funziona esattamente Ofree? È molto semplice. Le aziende, per poter caricare il loro videogioco, devono versare un determinato ammontare di denaro, che corrisponde a un tradizionale investimento pubblicitario. Questi soldi vengono convertiti in gettoni virtuali e a ogni partita gli utenti possono ricevere uno o più gettoni. Successivamente gli utenti possono decidere i progetti sociali a cui destinare i gettoni raccolti. Prima di arrivare ai vari enti non profit, i vari gettoni sono riconvertiti in denaro. La piattaforma è win-win-win: le persone possono divertirsi giocando ad una piattaforma di videogiochi gratuita e soprattutto possono donare senza spendere un centesimo; le aziende possono promuovere
il brand e, al tempo stesso, fare un’attività di Corporate Social Responsibility; gli enti non profit possono sensibilizzare le persone ad una causa sociale e soprattutto raccogliere fondi senza alcun costo. Sono partito da solo con un’idea. Ora siamo un team di 5 persone (due full time, tra cui Matteo Albrizio che si è dimesso da lavoro per dedicarsi ad Ofree, e tre part-time). La piattaforma è già operativa? Sì, abbiamo lanciato la beta test da poche settimane. Per provarla basta cliccare QUI . Questa beta test ci servie per validare l’idea e soprattutto raccogliere feedback da parte degli utenti. Visti i risultati davvero oltre le aspettative abbiamo già iniziato a lavorare all’applicazione vera e propria. Giusto per dare qualche numero: dopo un mese siamo a oltre 2.600 giocatori da più di 20 paesi del mondo (oltre all’Italia abbiamo avuto molti giocatori da UK, Germania, Messico, Perù e USA). Ci eravamo imposti come obiettivo di donare 10.000 monete e, attualmente, siamo a 65.000! Ci tengo a menzionare le 4 aziende che hanno deciso di prendere parte a questo test: H-Farm, Maikii (il fondatore di Maikii, Matteo Fabbrini, è stato eletto Alumno dell’anno a Ca’ Foscari), Galloway Treviso e Pietro Fiorentini. Il loro gesto ha dimostrato il loro interesse verso la società e soprattutto la loro lungimiranza nelle scelte strategiche di comunicazione. Come ti è venuta questa idea? L’idea mi è nata quando ho letto che il cantante PSY aveva guadagnato decine di milioni di dollari da Google per gli indotti pubblicitari che il suo video Gangnam Style aveva generato su YouTube. Nel periodo in cui è uscita la canzone stavo preparando l’esame di marketing avanzato all’università ed ero particolarmente interessato alle forme di marketing non convenzionale. Tra queste vi è anche l’utilizzo del gaming a fini promozionali, e in particolare gli advergame. Per di più, la mia tesi di laurea triennale era stata il fundraising, e quindi avevo affrontato da vicino il tema del non profit e le
difficoltà che questi enti hanno a raccogliere fondi. Unendo i vari punti è nato Ofree, che inizialmente si chiamava Progetto Robin Hood. Dato che il messaggio “rubare ai ricchi (le aziende) per dare ai poveri (gli enti non profit)” non metteva proprio in bella luce i brand, ho iniziato a pensare ad un nuovo nome ed è nato Ofree. Il termine deriva dall’unione di offer (donare) e free (gratuitamente). La mission di Ofree è – infatti - quella di permettere alle persone di donare senza mettere mano al portafoglio. Qual è stato il ruolo di Ca’ Foscari? Innanzitutto mi ha permesso di entrare in contatto con dei professori davvero molto competenti, a cui mi sono rivolto durante gli orari di ricevimento per chiedere dei consigli. In particolare, ci tengo a ringraziare i professori Fabrizio Gerli, Vladi Finotto e Chiara Mio, oltre che chiaramente al mio relatore Umberto Rosin. Inoltre, ho cercato di vedere la tesi di laurea magistrale non tanto come un obbligo per laurearmi ma come un’opportunità per studiare la validità e la fattibilità della mia idea, e in questo il professore Rosin è stato davvero d’aiuto. Il risultato finale è stato una tesi di 700 pagine, con 2300 questionari e 40 interviste, raccolti anche con la mia ‘squadra’ di cuginetti nelle spiagge di Jesolo e Caorle, offrendo sorrisi in cambio di risposte.
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#Cafoscarini all’estero: Annalisa, scrittrice e blogger a NYC Annalisa Menin vive e lavora da 11 anni a New York e nell’”American Dream” ha sempre creduto. Dopo una Laurea a 22 anni in Commercio Estero a Ca’ Foscari, da Camponogara (VE) è partita per uno stage nella Grande Mela presso la maison Valentino. Oggi è cittadina americana, scrive nel seguitissimo blog Il Mio Ultimo Anno a NewYork e a breve pubblicherà il suo primo romanzo, dallo stesso titolo. Con l’iniziativa charity Remembering Marco, creata nel 2013, dopo la perdita del marito Marco, Annalisa offre ad altri giovani l’occasione di poter realizzare il loro American Dream trascorrendo periodi di stage nella Grande Mela. Come sei arrivata a New York? Sono arrivata a New York grazie ad uno stage organizzato da Ca’ Foscari. Il mio corso di laurea, COMES - Commercio Estero, prevedeva uno stage all’estero per arrivare alla laurea. Ricordo molto bene che, nella scelta
dell’università e del corso da frequentare, mi aveva molto colpito il fatto che fosse un requisito necessario e non solamente consigliato. In tutta onestà, credo che dovrebbe essere così un po’ per tutti i corsi, di ogni area. Viaggiare apre la mente, permette di entrare in contatto con culture diverse e di far lavorare testa e cuore. Permette soprattutto di imparare a vivere di compromessi, cosa essenziale anche nella vita personale, oltre che professionale. Ricordo altrettanto bene quanto un po’ tutti noi studenti fossimo attirati in particolare modo da una destinazione: New York City. Per molti di noi era un vero e proprio sogno, io non ero da meno. Cosi, quando mi sono ritrovata a scegliere su quali mete puntare, la mia scelta è stata proprio NYC e un’azienda che sarebbe poi diventata importantissima nella mia vita, per motivi professionali e non: Valentino. Quando l’ufficio Stage & Placement mi chiamò per dirmi che ero stata selezionata per New York e proprio per Valentino, ero al
settimo cielo. Questo è stato certamente uno dei momenti che hanno definito la mia carriera lavorativa e, ma non lo sapevo ancora all’epoca, la mia vita personale. Quali sono gli eventi che hanno maggiormente segnato questi anni trascorsi nella Grande Mela? Da dove cominciamo? Dopo lo stage a Valentino ho capito che New York era la città che faceva per me così, contro il parere dei miei che mi avrebbero preferita a casa, sono tornata per un secondo stage durante il quale ho poi trovato lavoro. La Controller della compagnia cercava qualcuno da inserire nell’azienda di un suo conoscente e, a suo parere, ero la persona perfetta. E così mi è stata data la mia prima possibilità. Ho lavorato per quella compagnia, settore finanziario a Wall Street, per 6 anni. Poi è arrivato il tempo di cambiare ed è iniziata un avventura nel Real Estate, il settore immobiliare, lavoro che ho adorato e che tutt’ora porto avanti “on the side”. Infine c’è stata la “chiamata” come la definisco io. La mia manager a Valentino, che avevo conosciuto ben 8 anni prima, stava cercando qualcuno per il suo team e così mi ha chiesto di passare per un colloquio. E a Valentino, mica si può dire di no! Nel frattempo è iniziata l’avventura del blog, che ora mi ha portato a fare la scrittrice/blogger/copywriter full time grazie alla mia conoscenza della lingua inglese e spagnola. Da qualche mese lavoro per una società di consulenza qui a New York e mi focalizzo su strategie di re-branding. Proprio di recente sono stata in Colombia da uno dei clienti che, con il team con il quale lavoro, seguiamo. Adoro questo lavoro perché mi permette di conoscere persone incredibili e realtà aziendali sempre diverse. Dietro ogni azienda ci sono delle persone, e sono loro a fare la differenza: quando si trovano persone che lavorano bene e in più mettono anche passione, ecco è in quell’ambiente che do il meglio, proprio perché io stessa do sempre tutto. Lavoro di testa, e di cuore. Di cosa sei più fiera? Sono fiera di essere rimasta la stessa, nei limiti del possibile per una giovane donna
che diventa adulta. Credo di non essermi mai montata la testa. Penso sempre a tutto quello che ho fatto, e poi penso a tutte le cose che ancora devo fare. A quanto c’è da imparare, e mi sembra di non sapere nulla. Sono orgogliosa di essere riuscita a dare una mano alla mia famiglia. E poi sono molto orgogliosa del mio “gioiellino”. Una iniziativa charity che si chiama “Remembering Marco”, da me fondata nel 2013 in memoria di mio marito Marco. Ogni anno selezioniamo un ragazzo/ragazza dell’università Politecnica delle Marche per uno stage di sei mesi in Valentino. Quello che cerchiamo di fare con Remembering Marco è dare ad altri ragazzi l’opportunità di vivere il loro sogno americano. Lo stesso che ha vissuto a suo tempo Marco, lo stesso che sto vivendo io tutt’ora. Mi piacerebbe in futuro riuscire a farlo con molti più ragazzi. Nel tuo blog racconti la storia di Anna, una ragazza che sta vivendo il suo “Ultimo Anno a New York”. Una bellissima storia, che tra l’altro a breve racconterai più approfonditamente in un libro. È una profezia questa dell’ “Ultimo Anno”? Non lo so ancora. Tutti continuano a chiedermelo ma non ho ad oggi una risposta definitiva. Credo di sapere in cuor mio che cosa voglio davvero, ma non dipende solo da me e allora vedremo che cosa la vita mi porterà. “Il Mio Ultimo Anno a New York” è un blog nel quale racconto la mia vita da, oramai, italoamericana (Annalisa ha da poche settimane preso la cittadinanza americana n.d.r.) a New York. Ho iniziato, un po’ per gioco, un po’ per davvero, a gennaio del 2016, ma solo a gennaio di quest’anno ho iniziato a dedicarmici più assiduamente, man mano che vedevo il blog crescere e con esso, l’affetto delle persone che mi seguono. Ho sempre avuto una grande esigenza di “condividere”, nel bene e nel male, le mie esperienze. Penso che la condivisione sia essenziale alla crescita. Un paio di mesi fa ho iniziato a scrivere delle mini storie, condivise sul blog e sulla pagina FaceBook de Il Mio Ultimo Anno a New York e la risposta è stata eccezionale. Le mini storie raccontano del mio primo periodo a New York, che coincide
proprio con lo stage. Da lì è nata l’esigenza di scrivere un libro, e raccontarla tutta, questa storia. È un bellissimo progetto, al quale credo molto e nel quale sto mettendo tutta me stessa. Il libro avrà lo stesso titolo del blog ed uscirà sia in inglese che in italiano. Vi posso anticipare che la data di uscita qui negli States è prevista per il 14 novembre. Un emozione incredibile! Qualche consiglio per i ragazzi e le ragazze che partono per uno stage? Non aspettate a fare le cose! Spesso si attende il famoso “momento giusto”. Ma il momento giusto, non c’è praticamente mai. C’è sempre almeno una ragione per non partire, per non iniziare, per non mettersi in gioco. Partire ragazzi! Provate a fare le cose. È solo facendo che si impara, che si capisce il percorso giusto da scegliere. Quello più adatto alle nostre peculiarità. E l’altro consiglio è: rischiate! Se avete un’idea, proponetela a chi vi può aiutare a raggiungere il vostro obiettivo. Rischiare prevede fisiologicamente di prendersi anche tanti no e tante porte in faccia, ma non mi soffermerei su questo. Punterei tutto sull’imparare, sul lottare sul campo e non seduti da casa. Nel metterci la faccia. La vita passa davvero rapidamente davanti ai nostri occhi. Quindi: non aspettate, rischiate. In questo momento cosa c’è in cima alla tua to-do list? In questo momento la mia vita ruota tutta intorno al mio libro e al blog. In cima alla mia to-do-list c’è così l’uscita del libro a New York e quella successiva in Italia. Il mio obiettivo è che il libro arrivi a più persone possibili. Ci tengo molto a far passare questo messaggio: nella vita succede un po’ di tutto, tocca rimboccarsi le maniche e ripartire da capo, sempre a testa alta, sempre con un gran sorriso. Non c’è alternativa, a mio parere. Sei partita 11 anni fa, come ti vedi tra altri 11 anni? Mi permetti di sognare un po’? Mi vedo così, tra 11 anni: in una casa grande in campagna,
ma vicina ad una città. Con dei bimbi che corrono dal salotto con le mattonelle vintage recuperate da qualche casale, al portico in cotto con un grande tavolo in legno e le sedie in ferro battuto tutte diverse, anche queste recuperate qua e là. Io preparo una limonata in una grande caraffa di vetro soffiato, comprata a New York da Anthropologie e ti aspetto. Tu mi intervisterai nuovamente, dopo 11 anni. Ed io ti racconterò del mio nuovo progetto. Forse un altro libro, forse un evento charity, o chissà… qualcosa di totalmente diverso. Ci abbracceremo e, con gli occhi brillanti come sempre ci diremo: quanto passa in fretta il tempo! Ecco i link utili per leggere le storie scritte da Annalisa e per conoscere il suo progetto charity. Blog: www.ilMioUltimoAnnoaNewYork.com Website: www.AnnalisaMenin.com Charity Initiative: www.MarcoOmiccioli.com
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Un anno di LEI A dicembre si chiude il primo anno di LEI – Center for women’s leadership, il progetto gestito dal Career Service che punta a sostenere le giovani donne in un futuro da leader nel mondo del lavoro e superare il gap esistente, sia nelle retribuzioni che nelle opportunità di carriera, rispetto al mondo maschile. Sono state tante e innovative le attività che il progetto LEI ha proposto alle studentesse di Ca’ Foscari. Oltre 350 le persone coinvolte nel corso dell’anno nelle diverse iniziative Due edizioni del talk “Donne&Impresa”, con riferimento specifico agli ambiti di business dei Career Day che il Career Service ha proposto. Sono state coinvolte manager e consulenti dell’area Finance&Consulting; ma anche imprenditrici e professioniste del mondo Fashion&Food. Alcuni nomi: Vincenza Belfiore, Wealth Manager Azimut, Isabella Fumagalli, CEO BNP Paribas Cardif e Alessandra Ceriani, Equity Partner FSI Deloitte., Silvia Bisconti, Creative Director and Owner, Raptus & Rose;
Anna Cane, Presidente ASSITOL & Quality Director Deoleo e Silvia Carteny, Corporate Affairs Officer, Roberto Cavalli. Sono stati inoltre organizzati incontri “A tu per tu” come quello molto seguito con Monica Scarpa l’Amministratrice Delegata del Gruppo Save che il 26 Settembre è stata intervistata da Anna Comacchio. Un’edizione speciale di “Donne&Impresa sarà l’evento di chiusura di LEI nel 2018: si svolgerà il 5 dicembre con Mariacristina Gribaudi, imprenditrice e Presidente della Fondazione dei Musei Civici di Venezia, che sarà a Ca’ Dolfin alle ore 17.00 per presentare il suo libro L’altalena rossa, di recente pubblicazione. Appuntamenti di storytelling dunque, ma non solo. È stato avviato un vero e proprio programma di mentorship: un gruppo di 24 studentesse ha potuto confrontarsi per 5 incontri con 24 manager provenienti dalla rete di imprese del Career Service di Ca’ Foscari e
dell’organizzazione Valore D, sperimentando in prima persona ritmi, responsabilità, organizzazione dell’agenda, conciliazione vita/ lavoro. Con la collaborazione di Crédit Agricole FriulAdria, è stato promosso un laboratorio dedicato all’Autoimprenditorialità per accompagnare 25 ragazze nella creazione e nell’avvio di un’idea di impresa, sfruttando le potenzialità del digitale come volano. Il laboratorio ha previsto inoltre un contest di chiusura, vinto da Carlotta Antonante con la sua idea di creare un app per promuovere itinerari turistici e utilizzare il tempo per pianificare il viaggio direttamente dal device durante il tragitto in treno. Carlotta oggi sta sviluppando la propria idea con l’aiuto di tre mentor professionisti per analizzare le competenze indispensabili per avviare una carriera in proprio, valutare la fattibilità economico-finanziaria della propria idea e le modalità più efficaci per promuoverla attraverso il digitale. È stato poi avviato Elle, un laboratorio organizzato con il Ca’ Foscari Competency Center di Ateneo volto ad accrescere la consapevolezza della diversità di genere nell’esercizio della leadership e a sviluppare la consapevolezza emotiva e la fiducia in sé come competenza base per l’esercizio di una leadership efficace. Ma quali sono gli obiettivi di Lei per il 2019? Lo chiediamo ad Arianna Cattarin, Direttrice dell’Ufficio Orientamento e Career Service. “Riproporremo in parte le attività che abbiamo organizzato con successo nel 2018, rinnovandole nei contenuti e con nuovi protagonisti. Creeremo delle opportunità di orientamento per avvicinare le giovani ragazze allo studio e all’iscrizione a corsi di area scientifica. Svilupperemo strategiche sinergie con nuovi network. Ma non è tutto. In questo primo anno il progetto ha avuto uno sviluppo declinato molto al femminile: abbiamo parlato prevalentemente alle donne, ma vorremmo fare di più. L’obiettivo per il 2019
è coinvolgere anche la componente maschile nelle nostre attività: gli studenti tutti, che sono il nostro prezioso futuro, ma anche manager o imprenditori che vogliano sentirsi protagonisti di questo cambiamento. Vorremmo generare un cambiamento migliorativo rispetto all’occupabilità delle donne, condividendo riflessioni e azioni con una comunità eterogenea maschile e femminile.. ci proveremo!“
#ricercaèdonna
Stefania Bernini per #ricercaèdonna: immigrazione, famiglia e società Stefania Bernini, storica contemporanea, studia la società e i fenomeni politici e culturali su vasta scala attraverso la lente analitica della ‘famiglia’. Laureata a Firenze in Storia Contemporanea con Paul Ginsborg, concentra la sua ricerca sull’Europa del dopoguerra, anche analizzando come l’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine abbia un impatto nel contesto economico e socioculturale globale, sia nei paesi di arrivo che di partenza. Deportazioni forzate, welfare e rapporto famiglia-stato sono elementi che sembrano estremamente interconnessi. Giunta a Ca’ Foscari nel 2017 come cocoordinatrice della laurea magistrale Crossing the Mediterranean: towards investment and integration, estende il suo ambito di studi alla società contemporanea, in particolare alle famiglie divise dalle recenti migrazioni. «Nel dibattito pubblico attuale mi sorprende quanto poco si parli di famiglia, anche
nell’affrontare il tema dei minori non accompagnati - afferma.- Eppure il rapporto fra migrazione e famiglia è stretto ed importante; la migrazione ha un impatto enorme sulle famiglie di origine, oltre che sulla vita del minore stesso; ma anche la famiglia (intesa in tutte le molteplici forme che questa idea prende in diversi contesti culturali) ha un impatto enorme sulle pratiche migratorie. E il rapporto fra famiglia e migrazione è naturalmente fondamentale nei Paesi di arrivo, dove, in particolare nei confronti dei minori, dovrebbero attivarsi una serie di misure di welfare e protezione capaci di integrare o sostituire la protezione altrimenti offerta dalle reti familiari». Nel secondo dopoguerra l’Europa si ritrovò milioni di bambini e ragazzi separati dalle loro famiglie, soprattutto provenienti dall’Europa centro-orientale e questo divenne un grande tema di dibattito, politico e culturale. Ad oggi in Italia la stima è di poco più di 11.000 minori stranieri non accompagnati. In entrambi i casi
l’Italia ha avuto un ruolo di transito. A quali progetti sta lavorando in questo momento? Sto lavorando a due progetti. Il primo riguarda il rapporto fra famiglia, sessualità e nazione e il modo in cui questo rapporto, storicamente molto denso e complesso, viene rielaborato nei nuovi populismi, anche rispetto al fenomeno migratorio.Il secondo progetto riguarda la figura dei minori non accompagnati nel Mediterraneo, dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Chi sono i minori non accompagnati? Come sono stati visti, definiti e trattati nel tempo? E soprattutto come si sono raccontati? Come hanno essi stessi definito la propria esperienza? C’è ancora una tendenza molto forte a parlare per conto dei minori, trattandoli come se non avessero una voce propria. I bambini e i giovani rifugiati o migranti sono spesso raccontati semplicemente attraverso l’etichetta della vulnerabilità. Sono le vittime per eccellenza. La fotografia del piccolo Alan Kurdi, che per un momento ha catturato l’attenzione internazionale nel 2015 raccontava quella terribile vulnerabilità. Molte altre storie, tuttavia, ci raccontano di bambini che non solo sopravvivono ma aiutano altri a sopravvivere, a partire dalle loro famiglie. Anche gli storici per molto tempo hanno trattato la storia dell’infanzia essenzialmente come la storia di come gli adulti guardano ai bambini. Il mio tentativo è quello di partire dal tema dei minori non accompagnati per ripensare come possiamo scrivere la loro storia, a partire dalla loro voce. Chi è oggi il minore non accompagnato? Ogni storia è una storia a sé. I dati ci raccontano che sono soprattutto maschi, tra i 16 e i 17 anni, ma i dati non esauriscono la realtà. Molti ragazzini che arrivano in Europa dall’Africa o dalla Siria sono cresciuti come piccoli migranti e rifugiati. In molti casi, sono stati separati da altri parenti anche come effetto delle politiche di controllo della migrazione. Le immagini delle separazione dei bambini dalle madri sul confine fra Stati Uniti e Messico sono apparse sconvolgenti.
Ma separazioni meno evidenti accadono ogni giorno in Europa e in Italia. Vale forse la pena ricordare che quando si dice ‘accogliamo soltanto donne e bambini’, si preparano separazioni che sarà spesso molto difficile correggere in seguito. Raramente i minori stranieri che arrivano in Europa dai paesi più lontani sono partiti da soli; piuttosto, si sono ritrovati soli durante il lunghissimo viaggio migratorio. In molti casi per la famiglia d’origine questo vuol dire attesa, impossibilità di sapere cosa succede, e quando si riesce – non sempre – a ristabilire un contatto, forzata separazione. I meccanismi esistenti di ricongiungimento familiare funzionano molto male. È di recente approvazione il nuovo decreto legge su sicurezza e immigrazione. Come influirà sulla situazione dei minori migranti? Teoricamente i minori non vengono toccati direttamente dal ‘decreto Salvini’. Di fatto, temo che saranno fortemente colpiti da questo nuovo corso, che ‘bolla’ il migrante come pericoloso per definizione. Per cominciare, l’eliminazione dell’accoglienza umanitaria avrà una ricaduta generale, su giovani e adulti, e non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze effettive sui meccanismi di ricongiungimento familiare. Il confronto che si è aperto fra alcuni sindaci e il governo mette ben in evidenza i nuovi rischi di vulnerabilità prodotti dal decreto sicurezza. Ma c’è anche un altro aspetto che trovo molto preoccupante, ed è lo stereotipo sempre più diffuso ed accettato del giovane uomo migrante come pericoloso predatore. C’è una forte connotazione razzista nell’immagine del migrante come invasore, che avrà forti ricadute anche sui minori. Il passaggio tra la minore e la maggiore età è un momento delicato nella vita di una persona. A 18 anni per i giovani stranieri tutti i meccanismi di protezione riservati ai minori - e garantiti dai trattati internazionali - si interrompono, e viene a cadere qualsiasi continuità nel percorso di integrazione. Il nuovo decreto è tutto basato sulla logica del noi/loro, una logica binaria, che semplifica la realtà e cerca di creare un nemico. Ma anche
altre iniziative del Governo assecondano questa logica binaria. Penso ad esempio alla discussione in corso sull’accesso al reddito di cittadinanza. Quando si cerca di rispondere alla scarsità di risorse escludendo i “nonitaliani” non si fa altro che utilizzare le politiche di welfare per alimentare la contrapposizione fra “noi” e “loro”, creando inevitabili tensioni e rendendo molto più difficile la gestione di una società complessa. Cosa cambia nelle società da cui partono e in quelle dove arrivano o transitano? Si sente spesso dire, anche con evidenti strumentalizzazioni, che dobbiamo ‘aiutarli a casa loro’ e che poiché a partire sono i più giovani e abili la loro partenza indebolisce i paesi di origine. È una rappresentazione superficiale, e appunto strumentale. Chiunque guardi al fenomeno migratorio da una prospettiva un po’ più ampia sa che le dinamiche economiche e sociali che questo genera sono molto più ampie e complesse; dai trasferimenti economici delle cosidette “rimesse” (da cui tanto vantaggio hanno tratto in passato i paesi dell’Europa del sud, a partire dall’Italia), al trasferimento di saperi e competenze, allo sviluppo di percorsi imprenditoriali. Non è affatto vero che chi parte toglie semplicemente risorse al proprio paese. Né è vero che chi arriva crea solo problemi per i paesi di destinazione. Pensiamo all’Italia e torniamo alla famiglia. Abbiamo una delle natalità più basse al mondo e un welfare molto squilibrato, in cui i più anziani garantiscono in molti casi il benessere (e sempre più spesso semplicemente la sopravvivenza) dei più giovani. È evidente che una società in cui i nonni diventano il gruppo sociale più numeroso non ha grandi prospettive, e non sorprende che il tema del ‘sostegno alla natalità’ sia diventato un tema ricorrente del discorso politico, ripreso anche dall’attuale ministro della famiglia. Purtroppo, nel clima politico attuale, il tema del sostegno alla famiglia assume tratti nazionalistici e xenofobici, con la ‘natalità italiana’ (e potremmo parlare a lungo di cosa questa immagine implichi o significhi) contrapposta
in modo artificiale alla presenza di migranti, giovani e adulti. Pensiamo ai conflitti che si sono aperti in diverse città italiane intorno al tema del trattamento di bambini così detti ‘stranieri’, ovvero nati da genitori non Italiani, penso ad esempio alla questione delle quote massime di ‘bambini stranieri’ negli asili di Monfalcone o alla questione mensa a Lodi. È importante guardare a questi episodi non come a semplici fatti di cronaca, ma come spie di un modo di concepire la cittadinanza che sempre più enfatizza un’appartenenza culturale e forse persino razziale, in contrasto con una concezione ampia e universalistica dei diritti. Nelle società moderne, le politiche di welfare hanno un grandissimo potere di inclusione e di esclusione. Un approccio al welfare che riuscisse a guardare alle famiglie nella loro pluralità, dalla pluralità linguistica e culturale a quella di genere, potrebbe realizzare delle politiche molto più capaci di cogliere la complessità delle società contemporanee. Gestire bene l’accoglienza, senza appiattirla sul tema sicurezza, potrebbe portare un’ottima ricaduta sociale. Purtroppo la tendenza attuale va nella direzione opposta, con una pericolosa tendenza a tornare ad una concezione della famiglia e della nazione come entità biologiche, esclusive e chiuse. E così, mentre dovremmo guardare ai nuovi cittadini Italiani come una risorsa, abbiamo grande difficoltà a farlo…. Uno dei temi del dibattito attuale riguarda la distinzione fra rifugiati e ‘migranti economici’ Se ascoltiamo il nostro Ministro degli Interni, sembra una distinzione molto facile. In realtà è una questione molto complessa, perché nelle condizioni attuali più e più persone vivono situazioni intermedie, con caratteristiche dell’una e dell’altra condizione. Il mondo contemporaneo è molto diverso da quello del 1951, quando la definizione di rifugiato trovò la sua prima definizione nel diritto internazionale. Alexander Betts ha efficacemente definito come “survival migrants” coloro che pur non fuggendo necessariamente da una guerra o da un conflitto politico, cercano tuttavia rifugio da situazioni che ne mettono a rischio
la sopravvivenza. Per esempio per motivi ambientali. Detto questo, bisogna aggiungere che anche davanti a situazioni ovvie e inequivocabili come la guerra in Siria, si è fatto tragicamente poco, con chiare ed evidenti violazioni del dovere di accoglienza in tutta Europa. Parliamo di differenze di genere. Esistono pari opportunità di carriera per uomini e donne nella scienza? Prima di arrivare a Ca’ Foscari, ho lavorato in Gran Bretagna, in Australia, e infine in Polonia. Ho così sperimentato contesti universitari caratterizzati da livelli diversi di supporto per le donne impegnate nella ricerca scientifica. Credo che sia fondamentale promuovere politiche che sostengano le donne nella ricerca. Ma non è sufficiente. Torno per un momento al tema della famiglia. Nei diversi paesi in cui ho lavorato mi ha sempre colpito il modo diverso in cui uomini e donne parlano dell’effetto che avere una famiglia ha avuto sulla loro vita professionale. Gli uomini parlano spesso dell’effetto positivo e stabilizzante della famiglia e dei figli per il loro lavoro di ricerca; per molti di loro la famiglia e la casa sono ancora il luogo dove tornare dopo il lavoro. Per molte donne, invece, la sfida è tenere insieme organizzazione familiare e tempo per la ricerca, responsabilità di cura e vita professionale. Naturalmente è una generalizzazione. Conosco molte coppie in cui le responsabilità familiari sono distribuite in modo equo e solidale. Ma occupandomi di famiglie, è inevitabile riflettere su quanto ancora ci sia da fare anche in questo senso, soprattutto in un paese come l’Italia, dove le politiche di welfare rimangono deboli e sbilanciate.
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Valentina Bonifacio per #ricercaèdonna: l’arte della ricerca antropologica Valentina Bonifacio tiene presso il dipartimento di Studi Umanistici uno dei pochi insegnamenti in Italia di Antropologia Visuale. È la prima ricercatrice assunta da un ateneo italiano come vincitrice di una “Marie Curie”. Laureata a Ca’ Foscari in Filosofia nel 2001, con una tesi sulla partecipazione indigena alla guerriglia guatemalteca degli anni ’80, dopo un master in cooperazione e sviluppo all’Università di Pavia ha viaggiato e lavorato tra Bolivia, Ecuador e Paraguay. Durante l’esperienza nella cooperazione internazionale ha cominciato a utilizzare la macchina da presa per raccontare le storie dei luoghi e delle persone che incontrava. Come è nata la passione per l’Antropologia visiva? A Puerto Casado, in Paraguay, c’è la fabbrica di tannino della famiglia Stastre-Casado (18892000). È una delle prime realtà produttive ad aver impiegato gli indigeni come operai, e attorno alla fabbrica è sorta una ‘company
town’ popolata dalle famiglie dei lavoratori. Una volta lì ho deciso di raccontare la storia della comunità locale dal punto di vista antropologovisuale. Avevo bisogno di specializzarmi e ho scelto uno dei migliori Master in questo ambito, all’Università di Manchester, dove ho poi conseguito un PhD in ‘Social Anthropology with Visual Media’. Dal 2014 al 2017 sono stata Marie-Curie research fellow presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e alla Parsons School For Design di New York. Ho così potuto tornare in Paraguay e lavorare con la comunità indigena di Puerto Casado. Vivendo e studiando quel contesto, ho scelto di restituire la storia attraverso le tecnologie sperimentali. Nel 2017 ho diretto un gruppo di ricerca interdisciplinare che coinvolgeva artisti di formazione diversa, e il progetto si è concluso con la mostra “Destiempo, dinamograma de Puerto Casado”, approdata a Venezia e a Milano dopo essere stata presentata in Paraguay (nella capitale Asunción e a Puerto Casado) e a New York (www.unive.it/archfact).
Perché unire Arte e Antropologia? Soprattutto grazie al periodo trascorso come ricercatrice alla Parsons di New York ho iniziato a considerare l’arte come una pratica di ricerca. Mi sono chiesta che tipo di riflessione avrebbe potuto fare un gruppo eterogeneo di artisti sulla storia della fabbrica di Puerto Casado. Hanno partecipato alla residenza un disegnatore, due grafici, una biologa e una curatrice di mostre. L’ impatto del progetto è stato notevole, sia come innovatività scientifica che come coinvolgimento del vasto pubblico. Come è stata vissuta dalla comunità locale questa presenza? Molto bene. La popolazione è stata coinvolta fin dall’inizio e in modo costante durante l’intero progetto. Attraverso una radio locale raccontavamo giorno per giorno il nostro lavoro. È stata aperta una pagina Facebook ancora attiva. Abbiamo analizzato il ruolo che le diverse memorie dei protagonisti dell’epoca - operai indigeni, immigrati, missionari salesiani, la stessa famiglia Sastre-Casado - hanno avuto nel formare l’identità politica contemporanea del paese. Cos’è per lei l’Antropologia? Mi piace molto una definizione data dall’antropologa Anna Tsing: “l’arte del notare le cose”. L’Antropologia è un allenamento dell’attenzione, l’osservazione partecipe è il cuore della disciplina. Attraverso lo studio e la pratica si impara a vedere il mondo, a notare dettagli che altrimenti sfuggirebbero, a capire la complessità delle relazioni. E la Ricerca sul campo? È il cuore dell’attività dell’antropologo. È uno stare nei luoghi, non ingenuo ma consapevole. Una volta stabilito un campo di ricerca – qualsiasi esso sia - lo si deve frequentare. È una conoscenza molto legata alla presenza del corpo nello spazio. Lì, attraverso una formazione adeguata, si impara ad osservare, ad acuire la vista. Ritiene che in ambito accademico ci siano trattamenti diversi per uomini e donne? Non nel mio dipartimento, dove per esempio la
direttrice è una donna e dove gli insegnamenti di Antropologia sono tenuti da due donne e un uomo. In generale però trovo che nei contesti accademici le donne non vengano considerate autorevoli quanto gli uomini. Non godono dello stesso rispetto e vengono trattate con una certa dose di condiscendenza. Anche la comunità studentesca, in alcuni casi, sembra essere più orientata verso interlocutori maschi. Nei rapporti con soggetti esterni, le donne sono più spesso esposte ad attenzioni non volute, ad atteggiamenti che tendono ad oltrepassare la soglia consentita. Un paragone tra Italia e Sud America? Mi è molto difficile. In Sud America gli europei in generale godono di un maggiore rispetto dovuto alla provenienza, che supera le differenze di genere.
#ricercaèdonna
Cristina Cavinato per #ricercaèdonna: così i rifiuti diventano risorse Con l’ambizione di vedere applicato su scala industriale quanto provato in laboratorio e spinta da una ‘vocazionÈ per l’ambiente, Cristina Cavinato è partita da una laurea in biotecnologie industriali per arrivare da ricercatrice al laboratorio cafoscarino di Treviso, nel mezzo di un impianto di trattamento di acque reflue e rifiuto organico. “Arrivai a Treviso per la mia tesi, lavorando ad ottimizzare il processo di produzione di biogas a partire dall’umido che si raccoglie a casa. E da lì ho continuato con Master e dottorato”, racconta con la consapevolezza di aver scelto una frontiera della ricerca scientifica e tecnologica che ha un grande legame con la vita di tutti: trasformare i rifiuti in risorse. Cosa succede a Treviso? “La tecnologia della digestione anaerobica ha preso molto piede in ambito agro-zootecnico, ma l’impianto di Treviso è stato tra i primi a dimostrare, fin dalla seconda metà degli
anni Ottanta, che si poteva lavorare su piena scala e sul trattamento dei rifiuti. Il grande vantaggio di fare ricerca di questo genere in un centro di depurazione e raccolta dell’umido è avere a disposizione le matrici con le quali sperimentare. La collaborazione con l’amministrazione comunale, i gestori dell’impianto e l’azienda dei rifiuti ha permesso di crescere e migliorare il trattamento integrato di rifiuti e acque reflue”. Ha fatto scuola anche a livello internazionale? “Il professor Franco Cecchi, pioniere in questo campo, ama ricordare sempre che la prima conferenza internazionale sulla digestione anaerobica venne organizzata proprio a Venezia e diventò un punto di riferimento. Fu l’inizio di un percorso di ricerca sul trattamento dei rifiuti solidi per trarre energia, un’attività che oggi è molto diffusa in tutto il mondo. Scienziati e aziende sono interessati a trarre tutto il possibile dal rifiuto”.
Oltre all’energia, dagli scarti della nostra vita quotidiana si possono trarre nuovi materiali… “Bioplastiche, per esempio. Con il progetto europeo Res Urbis stiamo ottimizzando un processo biologico in grado di selezionare specifici microorganismi in grado di accumulare polidrossialcanoati, dei polimeri poliesteri, aprendo un ampio ventaglio di possibilità applicative. L’unico limite è l’applicazione al settore alimentare, ma soltanto perché l’idea di una confezione che deriva dal trattamento dei rifiuti potrebbe far storcere il naso a qualche consumatore…” Attualmente qual è la sua sfida personale? “Sto studiando l’applicazione di microalghe per il trattamento dello scarto liquido della digestione anaerobica. Si tratta di liquidi ad alto contenuto di azoto. Ci sto coltivando microalghe, che rimuovono i nutrienti e contemporaneamente accumulano altri materiali. Ad esempio lipidi, precursori di un biodiesel di terza generazione. Il processo avrà un suo ulteriore scarto, che cercheremo di far tornare nella digestione anaerobica, chiudendo il cerchio. Ci stiamo lavorando nell’ambito di un progetto di ateneo”. Quali altri elementi preziosi possiamo ricavare dai nostri scarti? “Abbiamo visto che è possibile recuperare idrogeno dalla digestione anaerobica e che può essere utilizzato per migliorare le prestazioni di un motore a metano. Stiamo brevettando il sistema di controllo che abbiamo ideato per rendere stabile la digestione anche in un grande impianto, regolando il pH con un ricircolo del digestato”. Insomma, siete i nutrizionisti di uno stomaco gigantesco… “Esattamente. Un ruolo che diventerà ancora più importante quando a livello nazionale si diffonderà in modo massiccio la digestione di rifiuti e, di conseguenza, aumenterà la produzione di digestato, che oggi è a sua volta considerato un rifiuto. Mancano ancora linee guida sulla sua valorizzazione. Il nostro obiettivo quindi è dare significato al rifiuto,
recuperando energia e materiali ad alto valore aggiunto. Con la collaborazione del gruppo di ricerca di ecotossicologia presente in Ateneo, cercherò anche di capire quale sia l’impatto ambientale del digestato, mettendo nel conto effetti sulle piante ma anche lo stoccaggio di anidride carbonica”. Perché i vostri risultati trovino applicazione, conta molto il comportamento dei cittadini... “La gente ormai è dentro la mentalità della differenziazione, almeno nelle aree dove è attiva da quasi vent’anni. Inizialmente è difficile far accettare l’avvio del porta a porta, ma è la modalità che garantisce una maggiore qualità. Serve sensibilizzare. È importante che la cittadinanza conosca le attività che vengono fatte”. Qual è la sua esperienza riguardo alle differenze di genere nel mondo accademico? “Mi sono inserita come biotecnologa in un contesto di ingegneri e chimici industriali. Potrei dire che all’inizio questo mi ha fatto sentire in minoranza, ma la voglia di fare c’è sempre stata e col tempo sono arrivati risultati e soddisfazioni”. Vede cambiamenti in corso nell’ambito scientifico? “Vedo che in un ambito come quello dell’ingegneria, storicamente maschile, le cose stanno cambiando. E anche nel nostro settore, in cui trattiamo i processi di depurazione delle acque, e trattamenti di scarti organici e fanghi, non mancano dottorande e assegniste che si avvicinano. Lavorando su impianti pilota la fisicità conta, ma questo non esclude le donne. Inoltre, c’è molta richiesta di figure esperte in questo settore. Le opportunità non mancano”.
#ricercaèdonna
Vania Brino per #ricercaèdonna: il lavoro nella “giungla” del diritto globale Una foresta pluviale, un labirinto di vegetazione che ti porta a scoprire nuovi percorsi e differenti punti di osservazione. Vania Brino prende a prestito la metafora ripresa dalla sociologa del diritto Maria Rosaria Ferrarese per descrivere cosa si trova di fronte lo studioso del paesaggio giuridico globale. La foresta si contrappone al giardino all’italiana dell’epoca d’oro degli Stati, dove ogni pianta (ogni ordinamento giuridico, fuor di metafora) aveva il suo spazio entro confini predefiniti. “Lo scenario descritto attraverso questa efficace metafora caratterizza anche il contesto di riferimento del diritto del lavoro, una materia che si è affermata per tutelare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e il cui orizzonte si compone oggi di nuove sfide regolative. Ciò caratterizza la dimensione nazionale, europea ed internazionale, moltiplicandosi le questioni giuridiche sullo sfondo e al contempo gli attori chiamati ad affontarle”, fa notare Brino, appassionata di
diritto del lavoro fin dalla laurea a Ca’ Foscari. Il dottorato a Ferrara in Diritto comunitario e comparato del lavoro le ha permesso di allargare lo sguardo sul ‘paesaggio’ globale. Oggi è professoressa associata di Diritto del lavoro al Dipartimento di Economia. Perché ha scelto di occuparsi di diritto del lavoro? “Perché è una disciplina con un cuore, un’anima. È una materia giuridica che dialoga con la realtà e con i fenomeni sociali. Muove da istanze di tutela del lavoro e mette al centro i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici promuovendone l’affermazione indipendentemente dalle latitudini entro cui gli stessi operano e dal tempo storico e dalle sue evoluzioni”. Quale la molla che l’ha spinta a studiare il contesto internazionale? “Direi l’interesse a ragionare sulle complessità derivanti da un sistema multilivello di tutele
che si dipana dal piano nazionale, a quello europeo ed internazionale. Ciò impone di guardare oltre, di confrontarsi con altri ordinamenti, di interrogarsi sul lavoro e sulle sue dinamiche evolutive all’interno di un ambiente in perenne trasformazione”. Guardando alla realtà un po’ con il cuore e un po’ con la razionalità, a che punto siamo? “C’è una competizione tra gli ordinamenti che spesso riguarda il costo del lavoro. Da qui il rischio che si creino fenomeni di concorrenza al ribasso con evidenti implicazioni in termini di sfruttamento dei lavoratori ed erosione dei sistemi più garantisti. Il quadro si complica ulteriormente se consideriamo che il lavoro non sempre rientra, nei fatti e non solo a parole, tra le priorità delle politiche pubbliche. D’altro lato, però, è importante guardare anche a quello che è stato fatto, agli importanti risultati raggiunti. Il prossimo anno ricorre il centenario dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), che ha sede a Ginevra ed è la più antica agenzia specializzata delle Nazioni Unite. Si occupa di promuovere i diritti dei lavoratori e la giustizia sociale a livello globale. Questa organizzazione ha fatto molto anche per quei paesi in cui il diritto dei lavoro si è formato tardivamente rispetto alla sua evoluzione in Europa. È giusto individuare i problemi ma anche ragionare su quello che è stato fatto e sui risultati raggiunti. È bene essere critici, ma anche fiduciosi nel futuro”. Tra le cose fatte, quali sono da ricordare in modo particolare? “Tra i numerosi ambiti di intervento dell’OIL possiamo ricordare l’attività di contrasto al lavoro minorile. Oltre alle due convenzioni fondamentali sul tema negli anni l’OIL ha attivato numerose campagne ed azioni volte a contrastare il fenomeno. Se guardiamo invece al contesto europeo sono stati raggiunti traguardi significativi in molti ambiti tra i quali quello della legislazione antidiscriminatoria e delle misure volte a favorire l’inclusione sociale delle categorie più vulnerabili nel mondo del lavoro”.
Una delle questioni aperte e irrisolte riguarda le multinazionali... “Quello del lavoro nelle imprese multinazionali è un tema aperto. La trama della storia consegna sovente immagini di sfruttamento dei lavoratori e di violazioni dei più basilari diritti dell’individuo nella catena globale di fornitura. La casa madre ha sede nei paesi più sviluppati mentre la produzione viene collocata nei paesi in via di sviluppo in quanto più attrattivi perché caratterizzati da sistemi regolativi tutt’altro che avanzati. Da qui l’esigenza di promuovere forme di tutela dei lavoratori anche di portata transnazionale. E in questa prospettiva possiamo indubbiamente registrare importanti cambiamenti in atto. Si moltiplicano, ad esempio, i casi di grandi multinazionali che intraprendono percorsi di responsabilità sociale d’impresa e che implementano al loro interno la sostenibilità letta nella sua triplice dimensione economica, sociale ed ambientale”. Qual è il ruolo del diritto del lavoro in questo contesto? “La complessità delle questioni da risolvere impone necessariamente risposte plurali. Solo per fare qualche esempio, pensiamo alle misure legislative volte ad incentivare le imprese ad adottare comportamenti socialmente responsabili o alla promozione della contrattazione collettiva a livello transnazionale o ancora agli interventi volti a regolare il lavoro nell’ambito della catena globale del valore”. L’altro grande fenomeno del momento è quello della digitalizzazione... “La digitalizzazione, come la globalizzazione, impatta sul modello di organizzazione del lavoro e scombina le regole del gioco. Siamo di fronte ad un cambiamento radicale dei modelli organizzativi, della società, ed inevitabilmente anche del lavoro che assume fisionomie inedite”.
Cosa sta succedendo? c’è una rivoluzione in corso? stiamo uscendo dalle regole? o stanno cambiando le regole? “Un po’ tutto questo. Il processo è multiforme non lo possiamo inquadrare entro categorie predefinite. Si creano nuove forme di lavoro. Cambiano le condizioni di lavoro. Il tema, oggi, è: come qualifichiamo queste nuove forme di lavoro? servono nuove categorie definitorie o possiamo utilizzare le categorie tradizionali? L’altro grande tema è quello della disciplina e delle tutele da riconoscere a queste nuove forme di lavoro”.
digitale esclude di per sé la subordinazione. C’è poi chi propende per l’introduzione di una terza categoria o, ancora, c’è chi promuove il superamento della questione qualificatoria così da focalizzarsi esclusivamente sulle tutele e sui bisogni di questi lavoratori”.
Come si tutelano i fattorini della gig economy? “Il tema delle tutele si lega inevitabilmente alla qualificazione del rapporto ovvero alla sua riconducibilità all’interno del lavoro subordinato o del lavoro autonomo. Di questo si discute in Italia, come in Europa e negli Stati Uniti”.
Tra i nuovi temi, c’è il welfare aziendale. “Un tema che si intreccia con quello del benessere lavorativo e che vede anche Ca’ Foscari particolarmente attiva. È un tema in ascesa, di interesse nel pubblico come nel privato perché è dimostrato che un sistema di welfare aziendale migliora il clima in azienda, crea fidelizzazione, incrementa la produttività. L’introduzione di questo tipo di strumenti riflette una visione attenta ai bisogni e alle esigenze dei lavoratori, valorizzati in azienda non solo come coloro che offrono il proprio tempo e le proprie energie ma anche come persone”.
Come si muove il giuslavorista in questo campo? “Lo studioso, partendo dal sistema normativo di riferimento, si interroga sulla regolazione di questi nuovi fenomeni indagandone l’evoluzione dentro e fuori i confini nazionali. Iniziano ad esserci le prime sentenze. Il tribunale di Torino, in una recente pronuncia, ha qualificato i fattorini nei termini di collaboratori coordinati e continuativi ma in altri paesi i giudici sono diversamente intervenuti sulla questione qualificatoria”. Quali gli orientamenti? “Per la complessità e le molteplicità delle forme di lavoro che si stanno affermando è difficile dare una risposta netta. I fattorini di Foodora sono infatti solo una delle molteplici forme di lavoro create dalla digitalizzazione. L’identità giuridica del lavoro digitale è necessariamente plurale in quanto diverse possono essere le modalità concrete di svolgimento del rapporto di lavoro. In alcuni casi si riconosce un rapporto di etero direzione, e quindi si apre la porta di accesso alle tutele lavoristiche. Ma c’è anche chi sostiene che l’autonomia decisionale di cui gode il lavoratore
Come a dire “chiamatelo come volete, ma il lavoratore deve essere tutelato”… “Con tutele che dovrebbero essere universali, comprendendo salari dignitosi, salute, sicurezza, discriminazioni… qui si parla di diritti che sono fondamentali”.
Parliamo ora di differenze di genere nell’accademia. Secondo lei in Italia ricercatori e ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le possibilità di carriera sono le stesse? “Quando studiavo a Ca’ Foscari ho avuto la fortuna di incontrare professoresse che sono state di esempio e di stimolo, non erano molte allora mentre oggi il numero è cresciuto a significare un cambiamento importante pur nelle difficoltà di un contesto, come quello accademico, che ti chiede molto e che può condizionare enormemente le tue scelte di vita e non solo professionali. Credo che l’università possa essere il luogo ideale nel quale promuovere una cultura dell’eguaglianza e della parità di trattamento e in questo senso molti passi avanti sono stati fatti rispetto al passato ma la strada è ancora lunga. La scelta tra progressione di carriera e famiglia
riguarda ancora troppe donne, nel pubblico come nel privato, e il percorso accademico presenta non secondari elementi di criticità in questo senso. Anche laddove le opportunità e le prospettive di carriere risultano equamente distribuite, nei fatti le donne si trovano spesso dinanzi a decisioni difficili. E non dipende dalla determinazione e dall’impegno ma piuttosto dalla difficoltà di trovare un equilibrio tra vita professionale e vita familiare e quindi governare le molteplici responsabilità che le donne sono portate ad assumersi. Il Dipartimento di Economia al quale afferisco è certamente un esempio virtuoso e in questo senso non posso che essere fiduciosa nel futuro”.
#ricercaèdonna
Renata Sõukand per #ricercaèdonna: studiamo l’uso delle piante per capire gli umani Se oggi usiamo certe piante come alimenti e medicinali è merito di tradizioni evolute in secoli di storia. È possibile perdere questo prezioso bagaglio di conoscenza? Come cambia il nostro rapporto con le piante quando cambiano confini, etnie dominanti, politiche educative? Per scoprirlo, l’etnobotanica estone Renata Sõukand ha creato un team di esperti (4 postdoc, 3 dottorandi, 3 assegnisti e 6 mediatori culturali per la ricerca sul campo) che sarà presto a contatto con minoranze etniche a cavallo di confini creati o spostati nell’ultimo secolo tra Estonia e Russia, Finlandia e Russia, Ucraina e Romania, Lituania e Bielorussia. Sõukand ha ottenuto un finanziamento Horizon 2020 ERC Starting Grant di 1,5 milioni di euro per il progetto DiGe - Ethnobotany of divided generations in the context of centralization, che ha scelto di portare avanti
a Ca’ Foscari, dove è diventata professoressa associata di Botanica al Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica. Laurea in Farmacia e dottorato in Semiotica: un percorso fuori dagli schemi. Come ha incontrato l’Etnobotanica? “Durante le superiori. Mia madre era un’appassionata e autodidatta collezionista di piante. Aveva molti libri e io l’aiutavo, sviluppando interesse per le piante. All’università avrei voluto studiare medicina, ma avendo vissuto per 6 anni in Russia e Ucraina avevo appena ripreso ad re-imparare l’estone e non ero certa di poter superare l’esame di lingua. Essendomi diplomata con una ‘medaglia d’argento’ l’ostacolo degli esami non si presentava per Farmacia e quindi mi iscrissi a quel corso. Fin dal primo anno di università, iniziai a frequentare l’Eesti Kirjandusmuusem (un centro di ricerca nazionale che promuove il patrimonio culturale estone, dove ho continuato lavorare con
alcune pause fino a maggio 2017) per quella che diventò la mia prima ricerca sulla storia della medicina tradizionale estone. Per la tesi scelsi di occuparmi della medicina popolare tradizionale. Proseguii gli studi scientifici, ma parallelamente portavo avanti le mie ricerche sul folklore, il mio vero interesse. Il dottorato in Semiotica mi permise di continuare a lavorare sui miei database e sui libri sull’uso delle piante, interpretarli”. Ha riscontrato differenti opportunità di carriera legate al genere? “Non ho esempi o casi di riferimento perché mi sono sempre occupata di un campo così specifico e poco affrontato che mi sono sempre trovata a lavorare per conto mio e in piena libertà”. Un’impresa solitaria che però a un certo punto è entrata in contatto con un network internazionale... “Il mio primo incontro con un network internazionale avvenne solo durante il dottorato e fino ad allora il mio riferimento era solo la letteratura. Era come se stessi inventando qualcosa di già inventato, come la bicicletta. Da un certo punto di vista è un bene lavorare così in autonomia e trovare da soli la strada giusta, dall’altro mi ha portato a commettere tanti errori all’inizio della mia carriera. Ma solo facendo errori ti puoi correggere e andare avanti. Non ci sono chance di scoprire qualcosa se segui un percorso noto… devi trovare la tua strada. E questa probabilmente è la ragione per cui ho queste pazze idee... Poi, grazie alle conferenze internazionali in Canada e Messico ho conosciuto molti etnobiologi internazionali, e presto ho organizzato il primo incontro del network degli etnobotanici dell’Est europeo con il supporto e la guida di Andrea Pieroni, oggi rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, chi è stato il mio primo e unico mentore in campo dal 2014”. L’obiettivo della ricerca è studiare l’effetto della centralizzazione politica sulla conoscenza tradizionale dell’uso delle piante. Perché?
“Quando andai alla prima conferenza, a Tofino, in Canada, portai un poster sul cambiamento dei nomi vernacolari delle piante. Evidenziava come nel diciannovesimo secolo in Estonia iniziò un processo che promuoveva l’uso dei nomi scientifici. Un singolo nome scientifico rimpiazzava molti nomi dialettali, nati in comunità chiuse come le parrocchie estoni. L’uso dei nomi tradizionali crollò negli anni Venti: per effetto della centralizzazione sovietica la scuola escluse i nomi tradizionali, non ufficiali e giudicati scorretti. La mia ipotesi è quindi che al termine di questo processo si sia diffusa una conoscenza standardizzata sull’uso delle piante, spazzando via la precedente conoscenza tradizionale. Nella ricerca in corso sto quindi verificando gli effetti di questo processo in vari gruppi etnici divisi dai confini e dalle lingue. Come si svolge la ricerca? qual è il vostro laboratorio? “Andiamo sul campo a intervistare persone, nelle loro case”. E come selezionate le persone da intervistare? “Il nostro non è un approccio sociologico. Le comunità che visitiamo sono piccole, di solito chiediamo chi è il depositario della conoscenza tradizionale. È un approccio intuitivo. Arriviamo sul posto con pochi punti di riferimento e parliamo anche con persone che inizialmente non emergono nel panorama locale. I ricercatori impegnati in questa attività sono molto esperti e sanno muoversi nei villaggi e trovare le fonti dell’autentica conoscenza tradizionale del posto. Intervistiamo esponenti delle minoranze, ma anche dei gruppi maggioritari”. E cosa chiedete loro? “Quali tipi di piante usano per cucinare, cosa mettono nella zuppa, nelle torte, nelle composte di frutta. Ma chiediamo anche quali rimedi utilizzano per problemi di salute, ad esempio cosa prendono quando hanno mal di testa, o cosa danno agli animali domestici quando si ammalano. È un questionario molto lungo. Dura un paio d’ore. Ma ci muoviamo
senza fogli di carta: abbiamo tutto in testa, a cominciare dai nomi tradizionali dei disturbi e delle piante. Entriamo nel vivo delle domande solo dopo aver instaurato un rapporto di fiducia con l’intervistato. Prima del ricercatore, vedono l’essere umano interessato alle loro tradizioni. Da ogni intervistato torneremo prima della fine del progetto per colmare eventuali lacune”. Ci fa un esempio di cosa trovate? “La corteccia interna del tiglio era tradizionalmente usata in Estonia come medicinale per curare ustioni. Con il tempo questo utilizzo è quasi scomparso, mentre si è diffuso il consumo dei fiori di tiglio per preparare infusi. È stato interessante notare come la stessa persona ci nominasse il vecchio uso con il nome tradizionale della pianta e il nuovo utilizzo con il nome più recente. Due nomi per la stessa pianta, perché l’uso che ne viene fatto è cambiato. Queste sono informazioni interessanti per la nostra ricerca, dicono molto sui meccanismi di cambiamento nell’uso delle piante”. Possiamo fare dei paragoni tra il rapporto con le piante degli italiani e delle popolazioni che ha studiato? “Non ho ancora fatto studi sul campo in Italia, il mio livello di italiano non me lo consente ancora. Ma ho letto studi e conosco i dati. Posso dire che disponibilità e uso di piante e verdure selvatiche in Italia sono molto più ricchi che in paesi Est europei”. Perché conoscere le piante dovrebbe essere ritenuto importante nelle società moderne? “Noi possiamo pensare di avere tutto. Se guardiamo alla storia dell’umanità, non c’è mai stata continuità nell’abbondanza. Le piante sono il nostro cibo e il cibo degli animali di cui ci nutriamo. La nostra sopravvivenza dipende dalle piante. Ma è difficile usarle senza sapere come farlo, senza saper distinguere le velenose dalle commestibili e i modi per prepararle. Ci sono voluti secoli per imparare a usare le piante selvatiche, per esempio, e se perderemo questa conoscenza faticosamente
costruita dovremo ricominciare da capo. E la domanda non è se la perderemo, ma quando la perderemo…” È ottimista, nonostante tutto? “Sì, sono ancora ottimista. Credo ci sia la speranza di un cambiamento nel modo di pensare. Abbiamo le potenzialità per vivere in pace, con rispetto e in modo sostenibile. Ma dobbiamo cambiare il modo di pensare”. Possiamo dire che, in fondo, studiate le piante osservando gli umani? “In un certo senso sì: come etnobotanici studiamo la relazione tra piante ed esseri umani. Le piante sono quindi uno strumento per capire la nostra attitudine al cibo e alla medicina. Costituiscono una connessione tra conoscenza tradizionale e scientifica. È una ricerca umanistica in questo senso. La competenza scientifica ci serve per identificare le specie, ma i nostri sono studi sulla cultura”.
#ricercaèdonna
Stéphanie Novak per #ricercaèdonna: sfide e futuro dell’UE, questa (quasi) sconosciuta Economia, ambiente, agricoltura, mercato unico: alcune delle decisioni più importanti per i 28 Paesi dell’Unione Europea su questi e altri ambiti si prendono a Bruxelles. Ma cosa sappiamo del processo legislativo europeo? Non tanto. Assieme al Parlamento europeo, il Consiglio dell’Unione europea è il principale organo decisionale dell’UE, ma la trasparenza del suo operato – seppur migliorata nel corso degli anni – è ancora scarsa. Abbiamo parlato di UE con Stéphanie Novak, ricercatrice di Ca’ Foscari presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati e studiosa di Unione Europea, con focus particolare sulla trasparenza legislativa del Consiglio dell’Unione europea. Novak ha iniziato la sua carriera universitaria studiando Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Parigi e alla Sorbona, proseguendo con un Dottorato di scienze politiche a Science Po. Da sempre interessata alla Filosofia Politica, dopo gli studi in Francia ha vinto una borsa
di Post Doc all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Da lì ha continuato le sue ricerche a Berlino e in seguito come professoressa associata a Lille, fino al posto da ricercatrice a Ca’ Foscari. Che ruolo ha la trasparenza nel processo decisionale dell’UE? La difficoltà del processo decisionale e legislativo dell’UE è dovuta in parte alla grande eterogeneità dell’organismo, che conta 28 Paesi. Tuttavia, il Consiglio dell’UE è una sorta di ‘club’ dove viene svolto un finissimo lavoro di diplomazia. Ogni stato ha una rappresentanza permanente a Bruxelles e tutte le leggi sono negoziate dai diplomatici che si conoscono bene tra loro e lavorano insieme. In particolare si è sviluppata negli anni, accanto alle regole formali, la prassi informale del voto a maggioranza, un corpus di consuetudini non scritte volte a cercare il consenso tra le parti e a ottenere o fare concessioni per giungere a una legislazione condivisa. Il problema è che
questa ricerca del consenso, basata su mutue concessioni, non può essere per sua natura troppo trasparente. Dagli anni ‘90 l’UE ha investito per rendere i suoi processi decisionali più trasparenti, anche sotto la pressione del Parlamento. I diplomatici, d’altro canto, hanno spesso rivendicato il loro bisogno di riservatezza per poter legiferare. Se il processo legislativo diventasse del tutto trasparente, si sentirebbero costantemente sotto lo sguardo dell’opinione pubblica nazionale interna, quindi più portati a difendere gli interessi nazionali e qualche volta alla demagogia, piuttosto che a collaborare per cercare dei compromessi. Ma la ricerca del compromesso fra i diversi interessi nazionali è alla base dell’Unione europea. La predominanza di un lavoro legislativo basato sulla negoziazione diplomatica fa sì che una maggiore trasparenza imposta all’attività del Consiglio rischi di scatenare l’effetto contrario: che crescano i colloqui privati e gli incontri informali e che le decisioni vengano prese più nei caffè che nelle sedi ufficiali. In alcuni casi quindi la trasparenza non è del tutto positiva ma soprattutto non è del tutto attuabile. Come convivono l’Unione Europea e i nazionalismi? Inizialmente il progetto europeo aveva fra i suoi scopi quello di diminuire i nazionalismi: l’idea di Monnet era di creare delle istituzioni per far lavorare insieme i diversi rappresentanti dei paesi europei, in modo tale da indebolire il sentimento di appartenenza nazionale – si fidava dei meccanismi istituzionali che influiscono sugli atteggiamenti, piuttosto che delle persone. Ma adesso stiamo assistendo a questa crescita molto forte dei nazionalismi, ovunque nell’Unione Europea, come al fallimento di quel progetto politico. Mi chiedo in che misura le istituzioni possano veramente limitare e cancellare i nazionalismi, quanta parte di illusione ci sia stata in quel progetto iniziale e mi domando anche se non sia stata proprio l’integrazione europea a favorire il nascere di governi populisti e antieuropei come quelli di Polonia e Ungheria:
forse il grande sforzo per promuovere l’identità europea è stato controproducente. Quello che è sicuro è che ‘Bruxelles’ è diventata il capro espiatorio per gli eletti nazionali che vogliono fuggire le loro responsabilità e, anche se effettivamente sono stati fatti degli errori a livello europeo, i governi sono anche responsabili di questi errori e le istituzioni europee non hanno tutti i torti come costoro vorrebbero far credere: tale strategia gioca sul fatto che il sentimento di appartenenza nazionale rimane per la grande maggioranza degli Europei più forte del sentimento di identità europea. Quali sono oggi le sfide maggiori per l’UE? Tante. Per citarne solo qualcuna, il primo problema è quello dei governi anti-europei: come decidere, tutti insieme, se alcuni governi hanno una politica ufficiale anti-europea? Come può funzionare il parlamento europeo se una parte non piccola dei suoi membri è euroscettica? Questo è un dilemma perché le leggi europee hanno proprio per scopo il rafforzamento dell’integrazione europea. Il nodo delle migrazioni è sicuramente enorme. Gli stati membri, che hanno politiche interne estremamente diversificate, stanno cercando – per ora senza successo ¬– di trovare un accordo. Dal vertice sui migranti di fine giugno sono usciti risultati ambigui: si è parlato di istituire dei campi profughi in paesi esterni all’UE, come la Tunisia, ma senza verificare il reale consenso di quei paesi. Oppure della possibilità per gli stati di accogliere i migranti su base volontaria, altro punto che non si può definire un vero e proprio ‘accordo’. Ma l’Unione europea, come rilevano spesso i sociologi, ha anche un problema di immagine agli occhi dell’opinione pubblica. E inoltre soltanto una piccola cerchia ristretta di persone sfrutta le opportunità da essa offerte, come la mobilità professionale oppure il programma Erasmus che è l’esempio più noto: sono infatti pochi i giovani che approfittano di questa interessante occasione di scambio culturale, in parte a causa di barriere economico-sociali oppure spesso per
mancanza di informazione. Cosa potrebbe farci avvicinare all’UE? Spesso sento dire che non la conosciamo abbastanza: non trovo sia del tutto vero, perché le iniziative e i canali per conoscere meglio gli organi e i meccanismi di questa organizzazione sono tantissimi. Penso piuttosto che non sia semplice capire le politiche adottate ed è difficile per i cittadini distinguere quello che si decide a livello nazionale da quello che dipende dal livello europeo; il senso e l’orientamento di tutte le legislazioni adottate ogni mese non è neanche chiaro. Abbiamo accesso alle informazioni sull’organizzazione, quindi, ma non ai contenuti e ai grandi orientamenti delle politiche europee. Quando insegno trovo che i miei studenti sono molto interessati alle politiche europee, piuttosto che agli organi: su questi ultimi invece la scuola ha insistito di più. Le politiche, d’altra parte, sono molto tecniche e di difficile comprensione. L’UE secondo lei avrà vita lunga? Seppure in crisi, non credo che possa finire da un momento all’altro, come un film. Credo piuttosto che potrebbe rischiare di finire come la ‘Bella Addormentata’, diventando uno dei tanti organismi internazionali paralizzati. Dopo la Brexit si sarebbe potuto temere un effetto domino, ma il costo che sta pagando il Regno Unito in seguito a questa scelta è talmente alto che il suo esempio potrebbe invece servire da deterrente. I governi di Polonia e Ungheria sono oggi fra le principali minacce alla tenuta europea ma anche in questi casi ci sono interessi economici molto forti: entrambi infatti hanno percepito e percepiscono ingenti fondi strutturali e nonostante alimentino un sentimento antieuropeo, si può immaginare che i rispettivi governi sappiano che uscire dall’UE non sarebbe una scelta conveniente. Anche la nazionalista Le Pen, che aveva fatto campagna sull’uscita della Francia della zona Euro, ha ultimamente una posizione più ambigua.
Veniamo ora alla questione di genere: secondo lei uomini e donne hanno le stesse prospettive di carriera? No, ma mi sembra che le cose cambiano velocemente dopo anni di indifferenza. La mia esperienza è più legata alla situazione francese: fino a qualche anno fa in particolare era più difficile in Francia per una donna imporsi e fare carriera universitaria. Quando ho cominciato il dottorato in scienze politiche, una docente mi disse: “Come professoresse ordinarie di scienze politiche in Francia siamo in quattro”. In alcuni ambiti dominati dagli uomini, come per esempio la Filosofia – il mio primo campo di studio – le donne tendevano a esprimersi meno e io avevo la sensazione che fosse più difficile essere rispettata e ascoltata. E non c’era nessuna attenzione per la parità! Nel 2011, dopo l’affaire Strauss-Khan, la predominanza maschile si è spezzata e c’è stata una grande espansione della libertà di parola delle donne. Parlare pubblicamente dei problemi di prevaricazione, di molestie sul luogo di lavoro etc. ha aiutato le donne a recuperare quella fiducia in sé stesse che in alcuni casi si era persa.
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Susanne Franco per #ricercaèdonna: il mondo della danza e del teatro all’università Susanne Franco è ricercatrice e insegna Storia della Danza e Storia del Teatro e dello Spettacolo a Ca’ Foscari, ed è parte del team di ricerca “Creative arts, cultural heritage and digital humanities”. I suoi interessi di ricerca e le sue pubblicazioni vertono sulla storia della danza e della performance, sulla metodologia della ricerca in danza, sulla storia del corpo, e sulle culture teatrali di area francese, tedesca e nord americana. Ha avuto numerosi incarichi di docenza e seguito progetti di ricerca in Italia e all’estero, continuando a svolgere anche l’attività di curatrice di eventi performativi per musei e fondazioni. Come si è sviluppato il suo interesse per la danza e il teatro? Ho iniziato studiando danza e recitazione per diventare un’attrice di teatro e solo quando ho vinto la selezione per entrare all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma ho capito che lo studio mi mancava. La decisione di iscrivermi all’università e di tentare una carriera
accademica è maturata più tardi, ma tutt’oggi quando mi presento e dico cosa insegno mi viene quasi sempre chiesto se ho danzato in passato. Ci tengo a sottolineare, però, che una formazione pratica, pur essendo preziosa, non è una precondizione necessaria a diventare uno storico della danza o del teatro. Mi sono interessata sempre più alla storia della danza, anche se non ho seguito corsi specifici perché al tempo in Italia era insegnata solo in una università. Quando, nel 1997, ho vinto una borsa di dottorato in Discipline dello spettacolo con un progetto di storia della danza ho capito che per formarmi al meglio sarei dovuta andare negli Stati Uniti, dove questi studi hanno una lunga tradizione. All’Università di California a Santa Cruz ho frequentato soprattutto il Dipartimento di Arti e quello di “History of Consciousness”, che all’epoca era un avamposto straordinario per la sua impostazione interdisciplinare, e in un momento di grande fermento degli studi culturali.
Ho scoperto le teorie di genere, gli studi postcoloniali e nuovi approcci alla storiografia e all’antropologia, ma soprattutto ho avuto la fortuna di essere seguita da uno dei maggiori studiosi di danza a livello internazionale. Questa esperienza ha cambiato completamente la mia percezione dello studio della danza ed è stata fondamentale per il modo in cui ho sviluppato le mie ricerche. Oggi sono felice di poter insegnare queste materie e in particolare Storia della danza, che resta una rarità nel panorama nazionale. Ca’ Foscari è infatti una delle poche università italiane a offrire questo insegnamento e dall’anno prossimo anche in un corso di Laura Magistrale. Su cosa si focalizza la sua ricerca? Uno dei miei interessi principali è la metodologia della ricerca e da qualche tempo mi occupo in particolare dei rapporti tra storia e memoria. La danza, in particolare, offre infatti una prospettiva stimolante per comprendere il ruolo dei ricordi individuali e collettivi (ma anche dell’oblio e della rimozione), degli archivi corporei e dei processi di incorporazione. Questi studi stanno contribuendo a smantellare l’idea che la danza sia l’arte effimera per eccellenza, che svanisce, cioè, nel momento stesso in cui accade. La danza lascia tracce, ma lo fa in modo diverso e la ricerca, di conseguenza, richiede strumenti metodologici e orizzonti teorici adeguati a identificarle e a esaminarle. Studiare la danza attraverso il prisma della memoria porta anche a incrociare i percorsi delle neuroscienze, delle scienze cognitive e della psicanalisi. Tenere presente la complessa dimensione della memoria incorporata nella danza è utile, per esempio, a mettere in discussione la presunta linearità e unicità di alcune modalità di trasmissione da maestro ad allievo in virtù della loro veste istituzionale. Al contrario, un sapere pratico e teorico come quello coreutico, per sua natura sfugge facilmente al controllo o alla censura e in molti casi sembra inabissarsi come un fiume carsico per riapparire in luoghi e momenti storici non immediatamente riconducibili alla fonte.
Grazie a ricerche che privilegiano tipologie di documenti fino a poco tempo fa impensabili come tali agli occhi di uno storico tradizionale - il corpo e il movimento innanzi tutto - è stato possibile rintracciare e valorizzare anche patrimoni coreutici frutto di eredità indirette o di forme di resistenza all’insegnamento ufficiale dei maestri. Nel complesso, dunque, si sta profilando un panorama ben diverso rispetto alle genealogie lineari canonizzate dalla storiografia tradizionale, ma decisamente poco aderenti alla realtà. E sta emergendo un panorama assai dinamico e ricco di intrecci sia nel mondo della danza sia tra la danza e altri ambiti culturali. Il mondo della danza e del teatro sembra lontano da quello accademico. Come si incontrano e conciliano questi due universi? Se per insegnare Storia del teatro e dello spettacolo è più facile fare riferimento a qualche elemento della formazione che gli studenti seguono alle superiori e in genere al loro bagaglio culturale, per la Storia della danza la questione è più complessa perché non è inserita in nessun percorso scolastico e la sua storia è spesso completamente sconosciuta anche a chi frequenta dei corsi pratici. In Italia il disinvestimento rispetto al passato è più evidente che altrove e la mancanza di cultura di danza si è tradotta in una implosione del pubblico, che spesso prova più soggezione che curiosità per un linguaggio rispetto a cui si sente sempre più estraneo. Non da ultimo, la danza è un crogiolo di stereotipi legati al corpo, che in molti casi costituiscono delle vere e proprie barriere, in particolare per avvicinarsi alla danza contemporanea. Fornire le conoscenze di base, sia all’università sia in altri ambiti di diffusione della cultura di danza, è una sfida difficile e proprio per questo stimolante. Ci sono progetti che le stanno particolarmente a cuore in questo momento? Uno dei fenomeni più interessanti in questo momento è il fatto che la storia della danza è sempre più trattata in scena dagli artisti, che sentono la responsabilità di dover fare i
conti con quanto hanno ricevuto in eredità, come una tradizione coreutica, una tecnica o un repertorio. Nei loro spettacoli il desiderio di reinterpretare celebri pezzi del passato si intreccia a soluzioni originali per mettere in scena anche la loro soggettività, i loro ricordi e le loro esperienze personali. L’obiettivo dichiarato è ridare nuova vita a spettacoli del passato per comunicarli al pubblico di oggi. Molte di queste sperimentazioni avvengono all’interno dei musei e delle gallerie d’arte, talvolta entrando in dialogo con le opere esposte. In questo modo la danza incrocia altri sguardi e gli artisti hanno la possibilità di trasmettere una storia e una cultura a chi non sempre la conosce da vicino. D’altro canto, la danza si sta rivelando un veicolo efficace per far fruire ai visitatori l’arte visiva in modo inaspettato. Si tratta di un grande potenziale di cui tenere conto per lo sviluppo di nuove strategie museali. Secondo lei in Italia Ricercatori e Ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le possibilità di carriera sono le stesse? Il mio ambito disciplinare è sempre stato popolato in modo abbastanza equilibrato da donne e da uomini, e le possibilità di carriera sono limitate, semmai, dal lento avvicendamento generazionale, che è uno dei principali problemi dell’università italiana. Qual è il rapporto tra la danza e gli studi di genere? La danza è un’arte inscritta nel corpo e per questa ragione è un osservatorio privilegiato su questo ambito di studi. In altre parole la danza partecipa attivamente alla costruzione, rappresentazione e ricezione delle identità di genere, interrogando ma anche mettendo in crisi il sistema di valori, di costumi e di abitudini di una società. Studiando la danza è possibile infatti mettere a fuoco la relazione dinamica tra il maschile e il femminile, e come nascono e si affermano i condizionamenti sociali e culturali e dell’immaginario collettivo. Se si conoscessero meglio l’origine storica di alcuni stereotipi tanto nocivi quanto longevi sarebbe
più facile sgretolarli. In primis, per esempio, il fatto che danzare sia per gli uomini un modo per celare o per alimentare una presunta omosessualità. Questa percezione del corpo danzante maschile come effeminato ha accompagnato l’affermazione della borghesia e alla presa di distanza da un modello corporeo aristocratico avvertito come affettato e per questo non virile. All’epoca di Luigi XIV, che è stato anche il fondatore dell’Académie Royale de Danse oltre che un ballerino eccezionale, il fatto che un monarca danzasse, veicolando peraltro un’immagine di potenza, non avrebbe fatto dubitare nessuno della sua identità di genere. Oggi, invece, questo stereotipo continua a condizionare profondamente il modo in cui i danzatori maschi sono percepiti dal pubblico e in questo in Italia stiamo assistendo a un’involuzione che porta molti bambini ad avere forti resistenze a frequentare corsi di danza, anche a scapito di una passione genuina, per paura di essere derisi. Per iscriversi al ciclo di workshop di danza per bambini “Muoviti! Muoviti! Danza musica performance”, che curo per Palazzo Grassi, ho richiesto appositamente una sorta di “quota azzurra” che garantisse una uguale presenza maschi e femmine. È un modo per passare un messaggio perché anche nel nostro paese si riesca a invertire presto la rotta.
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Giulia Fiorani per #ricercaèdonna: verso la transizione alla chimica sostenibile Nel 2013, durante un post-doc a Ca’ Foscari, scrisse il progetto per la ‘Marie CuriÈ che la portò all’ICIQ, Institute of Chemical Research of Catalonia, a Tarragona, in Spagna. Poi Londra, all’Imperial College, e all’Università di Oxford. Quattro anni dopo torna a Venezia da ricercatrice, al Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi. Giulia Fiorani è una chimica che cerca di contribuire alla transizione verso modi di produrre e consumare più sostenibili. A farle da stella polare, i 12 principi della chimica verde scritti da John C. Warner e di Paul Anastas nel 2001. “Sono ancora linee guida molto valide - afferma - che invitano a minimizzare i solventi, attivare processi innescati da una piccola quantità di molecole, ridurre gli sprechi e l’uso di energia, prediligere le risorse rinnovabili, eccetera”.
Ci fa degli esempi di applicazioni di questi principi? “Minimizzare l’utilizzo di solventi, ad esempio. Un non addetto ai lavori non si rende conto del volume di solventi necessario a livello industriale per produrre un principio attivo di una medicina. Poter usare un solvente che dopo la reazione rilascia le molecole che mi servono, ad esempio, o sali liquidi, offre numerosi vantaggi: si riducono le emissioni, possono essere riutilizzati... Ci sono molti altri ambiti in cui si può migliorare ma sono meno comprensibili a tutti. Per esempio, potrei dire che sono contenta se una reazione avviene con catalizzatori che non contengono metalli, ma non tutti capirebbero la mia soddisfazione. Come ha imboccato la strada della scienza? “Volevo fare l’archeologa. Durante le superiori sono stata exchange student negli Stati Uniti dove ho seguito un corso di chimica molto pratico e divertente. Mi affascinò e mi fece cambiare idea su questa scienza che
conoscevo dai racconti, un po’ noiosi, di mio padre. Decisi allora che avrei fatto chimica all’università, spinta dall’idea di imparare una cosa da zero. Non ho mai rimpianto quella scelta: la chimica mi diverte e mi appassiona. Per il dottorato è stato diverso, non mi sentivo tanto ‘materiale da dottorato’, poi però ho pensato “sono giovane, tre anni posso dedicarli e poi ci penserò”. Altra scelta azzeccata”. Quanto ha contato l’esperienza della Marie Curie nella sua carriera? “Durante la Marie Curie all’ICIQ, in Spagna, ho avuto l’opportunità di sviluppare un progetto ”mio” non solo dal punto di vista concettuale, ma avendo i miei fondi da gestire e imparando a fare ricerca anche dal punto di vista manageriale. Siamo educati a fare i grandi scienziati, almeno dal punto di vista teorico, ma all’atto pratico per fare ricerca servono finanziamenti e collaborazioni. Le competenze sulle risorse rinnovabili, che ho sviluppato nel corso della borsa Marie Curie in Spagna, mi hanno portato in Inghilterra, dove ho potuto approfondire la chimica dei polimeri e applicarla alla preparazione di materiali di origine rinnovabile. Inoltre, lavorare in ambienti accademici competitivi come l’Imperial College e l’Università di Oxford è stato un buon allenamento prima di tornare qui. La possibilità di spostarsi in tanti posti diversi è stata fondamentale perché si impara tanto sia dal punto di vista scientifico che umano”. E poi il rientro a Ca’ Foscari... “È avvenuto in un momento in cui non mi aspettavo proprio di poter rientrare in Italia. Sapevo su cosa avrei voluto lavorare, ma cercavo opportunità in Inghilterra e in altre istituzioni europee. Invece ero nel ‘radar’ di Ca’ Foscari. Da qui mi hanno seguita nel mio percorso e quando si è aperta un’opportunità l’ho colta ed è andata bene. È una cosa strana per l’Italia il sentirsi voluta da un ateneo. L’amministrazione ha supportato il mio rientro dall’estero, il dipartimento mi ha accolta davvero bene e il gruppo di lavoro mi lascia libera di portare avanti le mie idee ed espandere le mie competenze in maniera
complementare al resto del team”. Si occupa di chimica green. C’è un filo ‘verdÈ che lega tutte le sue esperienze di ricerca? “Da laureanda e dottoranda a Tor Vergata ho avuto l’opportunità di lavorare con persone che hanno dato avvio alla chimica verde in Italia. In seguito, in tutti i laboratori in cui sono stata ho sempre lavorato su vari aspetti della chimica verde. Nel corso degli anni ho affinato il mio obiettivo. All’inizio era un concetto un po’ vago e come assegnista facevo quello che il progetto di altri di volta in volta prevedeva. Con la Marie Curie ho iniziato a dare una direzione precisa alla mia ricerca. Mi sono occupata di terpeni, biomolecole che si trovano, per esempio, nelle resine secrete dalle piante o nelle bucce d’arancia, oggi uno scarto ma potenzialmente una risorsa. Sono composti naturali di cui l’industria cosmetica e dei profumi fa largo uso. Noi abbiamo guardato al potenziale per renderle molecole reattive e sintetizzare materiali. Ora a Ca’ Foscari vorrei portare questo focus: usare la chimica sostenibile come cassetta degli attrezzi per sintetizzare nuove molecole, per poi utilizzarle come mattoncini di partenza per polimeri ad alto valore aggiunto”. Quindi, ad esempio, un obiettivo è produrre bioplastiche... “Non siamo ancora pronti per una completa transizione dalle plastiche di origine fossile ai biomateriali. Vogliamo sviluppare materiali biocompatibili, biodegradabili e che possano rispondere a degli stimoli, per esempio rispondano a variazioni di temperatura, pH, luce. Ecco, questo vorrei fare da grande, qui a Ca’ Foscari”. Parliamo di chimica sostenibile perché esiste quella insostenibile… “La chimica di oggi è insostenibile”. La vostra ricerca è quindi per la chimica del domani? “Esatto. A livello di opinione pubblica non siamo pronti per una completa transizione alla chimica sostenibile. Primo, perché è difficile
sradicare lo status quo. Tutte le comodità che abbiamo non le vogliamo perdere. Il nostro compito, come chimici, è sviluppare dei processi integrati ed efficienti che ci permettano di diventare indipendenti dal petrolio. Ma c’è un discorso più generale che va affrontato: quello sull’efficienza. Sprechiamo energia, benzina, cibo, metalli preziosi contenuti in quasi tutte le apparecchiature elettroniche… La transizione comincia anche da queste piccole cose. Nella chimica del petrolio, quella che studiamo come studenti, si parte dal materiale più semplice per costruire tutte le molecole che vuoi. Nella chimica delle biomasse invece partiamo da un materiale di base che è molto vario, dalla reattività difficilmente controllabile o attivabile, per cercare di convergere su nuovi mattoncini che poi ci serviranno per costruire altri materiali”. Quali i tempi? “Ci stiamo lavorando, ci vorrà un po’ di tempo. Penso che prima di 20-30 anni non avremo un sistema ben integrato, ma ci sono tante realtà stimolanti in giro per il mondo e sono fiduciosa. Spero di essere nel quadro quando il risultato sarà raggiunto, se non proprio in mezzo, almeno verso la cornice… (ride, ndr)”. Ci fa un esempio di un risultato raggiunto? “All’Imperial College e all’Università di Oxford abbiamo lavorato a creare materiali polimerici a partire da anidride carbonica e derivati di origine naturale, ma questi risultati non sono ancora pubblicati e quindi non ne posso parlare… Mentre nel corso della borsa Marie Curie abbiamo sviluppato una metodologia per produrre dioli, molecole importanti nei farmaci, senza metalli pesanti, utilizzando solo un materiale di scarto, l’anidride carbonica, e molecole di origine naturale”. Attualmente su cosa sta lavorando? “Con i professori Selva e Perosa ci occupiamo di valorizzazione delle biomasse. Inoltre, vorrei applicare alla sintesi di monomeri delle tecniche sviluppate da loro, con l’obiettivo di sintetizzare poliesteri e policarbonati in modo innovativo, privilegiando l’utilizzo di materiali
derivati dalle biomasse e metodologie chimiche sostenibili”. Parliamo di differenze di genere. Esistono pari opportunità di carriera per uomini e donne nella scienza? “Direi che c’è ancora un po’ di strada da fare. Essere donna e madre in ambito di ricerca scientifica significa che a un certo punto del tuo percorso dovrai stare quasi due anni lontano dal laboratorio. A livello europeo la maternità è considerata: viene dato più tempo per accedere ai finanziamenti e ampia flessibilità lavorativa. A livello italiano, ad esempio, non è contemplata la maternità per gli assegnisti. D’altro canto però, il mio anno del corso di laurea in chimica era composto in maggioranza da donne e al dottorato eravamo solo donne. Aumentano le ragazze che intraprendono percorsi scientifici, quindi qualcosa sta cambiando. Penso che sia un bel segnale far vedere che a livello scientifico le donne contano. La ricerca la sappiamo fare bene, non è più un ambito prettamente maschile e la presenza sia di uomini che di donne è importante per curare l’aspetto umano e lavorare bene, in un ambiente sereno e costruttivo”.
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Irene Mammi per #ricercaèdonna: valori e criticità del sistema sanitario nazionale Da settembre 2017 Irene Mammi è Ricercatrice di Econometria presso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Dopo la Laurea in Cooperazione e Sviluppo Locale e Internazionale all’Università di Bologna ha conseguito un Master in Statistica ed Econometria all’Università dell’Essex (UK), e nel 2008 è stata ammessa all’IMT Istituto di Studi Avanzati di Lucca. Nel corso del PhD in Economics, Markets and Institutions, pur non avendo un background da economista, unisce alla passione per le materie di studio molta determinazione che la porta a conseguire il Dottorato a fine 2011. Prima di giungere a Ca’ Foscari è stata Assegnista di Ricerca presso l’Università di Bologna.
passione. Anche insegnare mi coinvolge molto, probabilmente vi è anche una componente vocazionale; in particolare trovo stimolante riuscire a coinvolgere gli studenti spiegando in aula ciò che studio. Nell’interessarmi alla ricerca accademica non ho abbandonato la vicinanza ai temi di attualità che aveva guidato i primi passi del mio percorso universitario: infatti in entrambi i filoni di ricerca (in macroeconometria applicata e politica fiscale ed economia sanitaria) analizzo aspetti ad elevato impatto sociale e spesso al centro del dibattito pubblico. Ad esempio, nell’analisi delle scelte di politica fiscale, studio come i policymakers rispondono al ciclo economico quando definiscono le politiche fiscali.
Perché ha deciso di occuparsi di ricerca ed insegnamento? Cosa significa essere una ricercatrice in ambito economico? Mi è sempre piaciuto studiare e fare ricerca, e, anche oggi che questo è diventato il mio lavoro, continuo a dedicarmici con grande
Le parole discussione pubblica e politiche fiscali richiamano alla mente la parola spread, molto utilizzata nei momenti più gravi della grande crisi economica dell’ultimo decennio. È vero, prima della crisi economica lo spread non era una variabile particolarmente utile
per spiegare le scelte discrezionali di politica fiscale; dal 2010 in poi invece sono entrati in gioco nuovi fattori a guidare le scelte dei decisori pubblici. Fattori che i ricercatori hanno studiato in profondità per meglio comprendere le dinamiche macro-economiche nel nuovo contesto scaturito dalla crisi. Una maggiore conoscenza in questo ambito è importante, fra l’altro, perché permette di prevedere l’impatto dei provvedimenti inseriti nelle leggi finanziarie, fornendo indicazioni anche sull’opportunità di introdurre talune misure rispetto ad altre e sulle influenze reciproche delle economie dei diversi paesi. Ai miei occhi, il punto di contatto tra questo campo di ricerca e l’economia sanitaria è duplice: da un lato il rigore metodologico nell’utilizzo dei dati e nelle elaborazioni statistiche, dall’altro l’attenzione alle implicazioni di politica economica e alle ricadute sociali degli studi che conduciamo . Qual è il focus della sua ricerca in ambito di economia sanitaria e quali i metodi di analisi? Il tema di cui più mi sono occupata negli ultimi anni è stato quello degli accessi inappropriati al pronto soccorso. Il contributo dell’economia applicata ad ambiti un po’ insoliti come questo è determinante non solo per quantificare e meglio comprendere il fenomeno, ma anche per individuare la risposta più appropriata da parte delle autorità pubbliche al fine contrastare il problema e migliorare il benessere della collettività. In particolare, i nostri studi hanno cercato di valutare in che misura miglioramenti nell’organizzazione e nell’accessibilità della medicina di base attraverso l’estensione delle orario di apertura degli ambulatori abbia contribuito a ridurre gli accessi inappropriati in Pronto soccorso. Lo scopo era quello di allentare la pressione sugli ospedali lasciando loro la possibilità di concentrarsi sui casi più gravi. La ricerca è stata pubblicata nel 2016 sul Journal of Health Economics, la più importante rivista scientifica nel campo dell’economia sanitaria, e abbiamo vinto il premio AIES – Farmafactoring per la migliore pubblicazione internazionale dell’anno realizzata da autori italiani nel campo dell’economia sanitaria.
Se si identifica sul lato dell’offerta la causa principale del sovraffollamento del Pronto soccorso - se dunque gli ospedali non erogano abbastanza servizi o sono carenti di personale - la risposta più efficace è un incremento degli investimenti per rafforzare la capacità ricettiva delle strutture. Se invece le ragioni risiedono principalmente sul lato della domanda - ossia se i cittadini si recano al pronto soccorso quando non è necessario - le politiche da mettere in atto riguardano in primo luogo un miglioramento della capacità di risposta dei servizi territoriali, in primo luogo dei medici di famiglia. Abbiamo condotto la ricerca grazie ai dati di ‘triagÈ fornitici dalla Regione Emilia-Romagna; in particolare ci siamo concentrati sugli accessi con codice bianco (minimo livello di urgenza) che costituiscono un importante indicatore dell’uso inappropriato dei servizi, dal momento che pazienti così classificati avrebbero potuto fare ricorso al proprio medico con pari efficacia clinica. L’elevata incidenza dei codici bianchi sul totale degli accessi è stata in parte contrastata con l’introduzione di un ticket che ha generato un disincentivo monetario a utilizzare il pronto soccorso per problemi di scarsa rilevanza. Accanto a questo, sono state sviluppate politiche finalizzate al miglioramento della qualità dei servizi alternativi al pronto soccorso, come la medicina di base. Ad esempio è stata promossa la creazione di medicine di gruppo in cui in una stessa struttura si riuniscono più medici di base coadiuvati da personale infermieristico che può svolgere diagnostica preliminare e anche da personale amministrativo per la gestione e l’organizzazione dell’ambulatorio. Ulteriori programmi hanno incentivato l’estensione degli orari di apertura di tali centri fino a coprire 12 ore giornaliere. Infine, l’aggregazione dei medici sotto il profilo logistico è stata anche accompagnata dalla possibilità di condividere le informazioni sulle condizioni dei pazienti attraverso le cartelle. In questo modo, il paziente può recarsi in ambulatorio certo di trovare risposte adeguate. Per la nostra Ricerca abbiamo fatto
riferimento al medico di base quale unità di osservazione e abbiamo valutato l’incidenza degli accessi con codice bianco degli iscritti alla lista di ciascun medico, tenendo conto di una varietà di caratteristiche dei pazienti e dell’organizzazione dell’ambulatorio. Per quanto riguarda la metodologia, la sfida principale è stata quella di affrontare i problemi legati all’adesione volontaria da parte dei medici a estendere gli orari. Questo fenomeno, noto come endogeneità, lascia aperta la possibilità che i gruppi di medici che operano scelte diverse rispetto all’estensione abbiamo anche diverse attitudini sotto il profilo professionale che a loro volta incidono sull’uso del pronto soccorso dei rispettivi pazienti. Risulta quindi importante nell’analisi identificare correttamente le differenze di esito effettivamente riconducibili ai diversi orari di apertura da quelle legate alle diverse caratteristiche dei medici e della loro pratica clinica. Grazie alla disponibilità di dati su più anni e all’uso di opportune tecniche statistiche (metodo delle variabili strumentali) siamo stati in grado di identificare una relazione causale significativa fra maggiore apertura degli ambulatori e riduzione degli accessi impropri al pronto soccorso, a conferma dell’efficacia della politica messa in atto. Che fotografia esce del sistema sanitario nazionale? In controtendenza si può affermare che la sanità italiana è ancora oggi in grado di rispondere efficacemente ai complessi bisogni di una popolazione che sta attraversando molti cambiamenti, prima di tutto demografici, ma anche legati all’incremento dei costi delle tecnologie mediche. Oggi il sistema sanitario nazionale costituisce un patrimonio per la collettività e un elemento di coesione sociale del paese. Le criticità però non mancano e per questo è in atto un ripensamento di tutto il sistema, che deve tenere conto anche dei limiti alle risorse imposti dal vincolo di bilancio pubblico. Le principali evoluzioni in atto riguardano l’esigenza di riqualificare gli ospedali come luogo di trattamento dei casi acuti, accompagnata da un rafforzamento dei
servizi territoriali in cui devono trovare risposta i problemi crescenti legati alle cronicità e all’invecchiamento. Un’efficace integrazione fra ospedale e territorio e un’attenta promozione dell’appropriatezza delle cure sono gli strumenti di politica sanitaria che possono permettere nel futuro di contemperare efficacia dei trattamenti e contenimento dei costi. Anche i ricercatori sono fortemente coinvolti in questo processo, soprattutto nell’analisi dell’efficacia delle politiche poste in essere e nella valutazione di impatto di queste sulle condizioni di salute della popolazione e della sostenibilità economico-finanziaria del sistema. Uno studio pubblicato il 5 marzo 2015 dall’Ocse ha evidenziato che l’unica materia scolastica in cui i ragazzi ‘superano’ le colleghe femmine è la matematica. I numeri, quindi, sembrerebbero essere ancora materia maschile. Nel gruppo di ricerca allargato di cui ho fatto parte all’Università di Bologna eravamo tre donne e due uomini, e anche il gruppo di coautori con cui sto lavorando ha una composizione bilanciata. Se nelle aree scientifico-tecnologiche è ancora largamente prevalente la componente maschile, vero, in economia le quote sono più equilibrate e la situazione è in continuo miglioramento. Nella mia esperienza di docente e ricercatrice, trovo che i numeri siano progressivamente sempre meno una “questione maschile”. In aula le ragazze sono spesso molto più numerose dei ragazzi. Certo non è sempre stato così, e non lo è per tutti i gradi della carriera. Se si guarda ai professori ordinari, il divario nei numeri è notevole, mentre si sta invertendo la tendenza per chi si affaccia oggi nel mondo accademico. In generale, le donne studiano di più e le università si stanno arricchendo di coorti con ottima rappresentanza femminile. La mia esperienza personale è effettivamente anomala: il gruppo di colleghi di dottorato era composto da sole donne, un esempio sicuramente positivo, sebbene con le complicazioni che una convivenza tutta rosa
può portare! Trova che all’interno del sistema universitario esistano differenze di genere? Ricercatori e ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le prospettive di carriera sono le stesse? Sicuramente noi donne ci stiamo guadagnando, seppur lentamente, una parità di trattamento. Mentre nel settore privato le differenze di trattamento sono ancora diffuse, fortunatamente nel settore pubblico è garantita la parità di trattamento economico a parità di livello di carriera. Tuttavia, anche nel mondo universitario, la condizione delle donne può richiedere decisioni difficili e, talvolta, implica differenze nelle opportunità e nelle prospettive di carriera: capita ancora infatti che una donna si trovi a dover scegliere tra progressione di carriera e famiglia. Non si tratta certo di discriminazione conclamata; piuttosto, di una conseguenza della struttura del percorso accademico, specialmente nei primi passi. La strada per diventare ricercatrice è lunga e richiede determinazione e grande impegno. È comune, per uomini e donne, diventare ricercatori ben dopo i 30 anni, con posizioni a tempo determinato, eventualmente in seguito a periodi di studio e ricerca all’estero. Purtroppo, de facto è frequente che una donna rinunci a proseguire il percorso, prima ancora di avere l’opportunità di diventare ricercatrice, a causa di un costo personale da affrontare più elevato di quello di un uomo. Io sono comunque ottimista: nel mio Dipartimento le donne sono tante, e costantemente in aumento, brave nella ricerca e determinate ad affermarsi!
#ricercaèdonna
Caterina Cruciani per #ricercaèdonna: ‘It’s very personal, It’s business’ Caterina Cruciani, classe 1981, assegnista di ricerca al Dipartimento di Management a Ca’ Foscari, direttrice operativa e membro del Centro per la ricerca sperimentale in Management e Economia (CERME). Ricercatrice, donna e mamma, focalizza la sua ricerca sulla behavioural finance e, con il suo nuovo libro Investor Decision-Making and the Role of the Financial Advisor, studia il modo in cui empatia, emozioni, fiducia e rapporti interpersonali daranno una nuova forma alla consulenza finanziaria. Insomma, il business è diventato… “very personal”. Com’è nata la sua passione per l’economia e qual è stato il percorso accademico che l’ ha portata dove è ora? Io mi sono formata come economista; ho completato entrambi i miei percorsi di laurea qui a Ca’ Foscari, nel dipartimento di economia e, sempre all’interno di questo dipartimento,
ho conseguito il dottorato. Subito dopo la laurea magistrale ho lavorato per qualche anno alla Fondazione ENI Enrico Mattei qui a Venezia, che mi ha mostrato in cosa potesse consistere il lavoro di ricerca ed è stata un’utile palestra per il lavoro che avrei potuto fare in futuro. È stato questo a spingermi a ritornare studentessa. Durante il dottorato ho sviluppato un interesse per quella parte dell’economia non tradizionale, tutti quei nuovi modelli che non considerano le persone come macchine, ma ammettono che gli uomini possano avere delle difficoltà a valutare le informazioni e delle preferenze non perfettamente prevedibili o stabili nel tempo. Ho iniziato a occuparmi del tema della fiducia già all’interno della tesi di dottorato; la fiducia è sicuramente un tema ampissimo, che si presta a essere letto in molti ambiti e che l’economia condivide con altre scienze sociali, come la psicologia, la sociologia e la filosofia. In cosa consiste il suo progetto di ricerca e qual
è il focus del suo libro? La tempistica del libro coincide con l’entrata in vigore della direttiva europea MiFID 2, la risposta strutturata alla crisi da parte dell’Unione Europea, che rivede il ruolo di tutti gli intermediari finanziari. Ho colto lo spunto della necessità di capire questa nuova normativa e l’ho analizzata sotto la lente della finanza comportamentale, prendendo in esame i limiti cognitivi, le emozioni e il possibile ruolo della fiducia. La figura del consulente finanziario emerge infatti non solo come un gestore del denaro, ma anche come gestore del cliente. In Italia, la consulenza finanziaria non è un fenomeno pervasivo come può essere in altri paesi; è però uno strumento molto utile, secondo la mia ricerca, per aumentare e migliorare la partecipazione al mercato, facilitandola sotto molti punti di vista. La chiave di lettura è che la fiducia sia uno dei driver fondamentali del rapporto consulente – cliente, e che possa essere utilizzata per coinvolgere più persone e farle lavorare meglio. Ho dedicato un intero capitolo alle emozioni e alle personalità che, secondo me, sono un campo molto importante e necessario in tutti gli studi che riguardano i rapporti interpersonali e di delega . Mi sono poi concentrata sugli aspetti più tecnici: i possibili ruoli del consulente e la revisione della normativa. Fiducia, emotività e empatia, per un non esperto del settore, sono apparentemente molto distanti dall’idea di finanza. In che modo cambia la figura del consulente dopo la crisi e con questa nuova normativa? La trasparenza richiesta dalla direttiva comporta per esempio che vengano esplicitati i costi della consulenza finanziaria, mentre prima questo processo era meno trasparente e assorbito attraverso un sistema di commissioni. Il mio libro vuole dimostrare quali siano le dimensioni in cui il consulente possa contestualizzare la propria professione, gli strumenti, le qualità e i vantaggi che questi propone. Per esempio, un problema molto rilevante e molto caro anche agli organi di regolamentazione del mercato, è il tema
dell’educazione finanziaria. Il consulente viene ad assumere un ruolo educativo: non è più solo un “money doctor”, un dottore dei soldi, ma, attraverso la relazione e la fiducia, trasferisce competenze e facilita il processo di delega. Il nuovo ruolo educativo svolto dal consulente lo porta a costruire una relazione all’interno della quale è più facile che il cliente chieda spiegazioni, o costruisca quelle competenze che gli siano utili in futuro e che portino a rendimenti migliori. Quali saranno i risvolti futuri di questo progetto? È stato molto interessante e illuminante lavorare con i consulenti finanziari insieme ai miei colleghi Gloria Gardenal e Ugo Rigoni, che hanno condotto con me la parte empirica della ricerca. Attraverso questo progetto di ricerca abbiamo stretto legami molto forti con i nostri partner, e sono certa che questo progetto continuerà, anche perché il libro segna il punto su tutta una prima fase della ricerca, fornendo delle suggestioni che speriamo di corroborare con una seconda che, invece che sui consulenti, si concentrerà sulla clientela, permettendoci così di chiudere il circuito della fiducia. Donne e ricerca: secondo lei, in Italia Ricercatori e Ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le prospettive di carriera sono le stesse? Secondo me, l’ambiente italiano è un ambiente in cui le donne e gli uomini spesso ricevono trattamenti diversi nel mondo del lavoro. Sono convinta che il gender gap che viene mostrato dalle statistiche, relativamente agli stipendi e alle posizioni di rilievo, sia vero e sia espressione di una cultura esistente e di modelli ormai superati da riformare. Io ho due bambini e, sicuramente, la maternità ha influenzato la mia carriera perché, al di là dei mesi di assenza, cambiano sia la tua vita, che, soprattutto, la percezione che gli altri hanno di te. Penso che, sia nell’ambiente accademico in generale che in ambienti professionali come quello della consulenza, ci sia ancora strada
da fare per quello che riguarda una vera parità di genere. Dico questo senza tristezza, né cinismo, ma prendendolo come un punto di partenza: il mondo dell’accademia secondo me è il luogo ideale dove provare a ripensare ai ruoli di uomini e donne, perché è un ambiente naturalmente flessibile e alla frontiera sia nei contenuti che nei metodi. I numeri fanno anche i contenuti: quando le donne sono più presenti, anche in termini proporzionali, è più facile portare avanti istanze che considerino le esigenze di tutti. Per questo quando mi guardo intorno e vedo tante capaci giovani colleghe non posso che essere ottimista perché l’ambiente sta diventando sempre più equilibrato anche in termini di numeri. Sogni nel cassetto e progetti per il futuro? Amo il mio lavoro e faccio del mio meglio per continuare a farlo. Questo è uno dei lavori più belli del mondo perché è uno dei pochi in cui sia possibile passare il tempo ad approfondire i propri interessi. Sicuramente spero di continuare a far parte anche nei prossimi anni del gruppo che porta avanti la ricerca sperimentale in campo comportamentale di questo dipartimento e di questa Università, ambienti che trovo particolarmente dinamici e stimolanti. Al momento sono assegnista, quindi il mio futuro è ancora tutto aperto a quelle che potranno essere le possibilità di carriera che emergeranno.