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la mamma

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noa

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Le mamme degli altri sono al lavoro. La mia è quasi sempre a casa, da quando ero in prima. Dice che il suo lavoro è guarire. E amarmi dalla mattina alla sera.

«Ehilà!» grido sempre quando torno da scuola. Poi lascio cadere lo zaino sul pavimento dell’ingresso.

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«Ehilà, merla mia» grida sempre la mamma di rimando. «Ti va una merenda sfiziosa?»

Non mi chiama sempre con lo stesso nomignolo. A volte è Amore o Merla. Oppure Resina perché dice che profumo come il bosco in primavera. Non mi chiama quasi mai Lea, che è il mio vero nome. Ma sempre, sempre mi va una merenda sfiziosa. E anche alla mamma.

Faccio fatica a ricordarmi com’era prima che la mamma si ammalasse e avesse il tempo di amarmi dalla mattina alla sera. Prima amava anche il lavoro. Lavorava per un giornale. Adesso non ce la fa più. Ad amarmi, invece, ce la fa perfino quando mi sveglio a notte fonda e mi infilo nel suo letto. Oppure quando perdo le chiavi e i vestiti di educazione fisica.

A volte è malatissima e vomita in bagno e perde i capelli e diventa più calva di un pesce. Allora le tatuo la testa con i pennarelli. A volte sta bene e le ricrescono i capelli. In quei periodi ne approfittiamo per fare cose divertenti, tipo andare al cinema, fare visita agli amici e viaggiare. Vorrei che la mamma stesse sempre bene.

Era tipo da sempre che io e la mamma volevamo andare a Bora Bora. È un’isola della Polinesia francese.

Volevamo andarci da quando avevamo visto un programma televisivo che ne parlava. Quando la mamma ha compiuto trentasei anni, il papà le ha regalato il viaggio. Per pagarlo ha preso in prestito i soldi dalla banca e io ho preso in prestito dei soldi dai miei nonni materni. Quindi lo scorso Natale, quando i capelli della mamma hanno cominciato a ricrescere grigi e ricci invece che scuri e lisci, siamo partiti. Tutta la famiglia. Abbiamo volato per tantissime ore e abbiamo dormito in una capanna su lunghi pali in mezzo all’acqua, con grosse lucertole sul soffitto e il pavimento di vetro per vedere i pesci nuotare nel mare.

Nessuno è mai stato sano quanto la mamma durante quelle settimane in cui abbiamo fatto snorkeling in mezzo a barriere coralline di tutti i colori, abbiamo fatto il bagno, preso il sole e nuotato con le razze dalla pancia liscia come la seta. Ho perfino visto i delfini. Nonostante fossero lontanissimi, erano la cosa più bella che avessi mai visto. Pure Lucas, che di solito è sempre arrabbiato e non fa che ascoltare la musica ad alto volume in camera sua, era felice e mi ha insegnato un gioco di carte a cui giocavamo di sera. La mamma e il papà erano innamorati e camminavano mano nella mano e si baciavano in maniera imbarazzante.

Io e la mamma ci siamo comprate un pareo ciascuna, che legavamo come un vestito, e coglievamo fiori di ibisco da mettere nei capelli proprio come le polinesiane. Il pareo ce l’ho tuttora. Profuma ancora di mare, di delfini, di coralli e di felicità. Non lo laverò mai.

L’ultimo giorno a Bora Bora, mentre io e la mamma eravamo sedute sulla spiaggia con i piedi nel mare, la mamma è scoppiata a piangere.

«Perché sei triste?» le ho chiesto.

«Non sono triste» ha risposto lei. «Piango perché in questo momento sono la persona più felice del mondo. Pensa un po’, Merla, che tu mi hai donato tutto questo».

«Anche papà ha contribuito» ho detto, raddrizzando la schiena. È strano, ma quando ti senti la persona più importante dell’universo è come se diventassi più alta e talmente forte da riuscire a trasportare una scrivania intera.

«Conserva questo viaggio dentro di te» ha detto la mamma. «E quando sarai triste, in futuro, tiralo fuori e ripensa a quando le nostre dita dei piedi facevano il bagno nell’Oceano Pacifico. Settimane così sono lunghe quanto quindici anni mediamente noiosi».

Ogni volta che la mamma dice cose di questo tipo a me viene un grumo di paura nella pancia. Non sono un’idiota che non capisce niente. Tipo che la mamma ha il cancro e che di cancro si può morire. Lo sento come parlano gli adulti quando pensano che io non li ascolti.

«Però adesso stai bene» ho detto. «Vero?»

«Nessuno sta meglio di me in questo momento» ha detto la mamma tirandomi a sé. «Però se non trovano una nuova medicina non guarirò mai. Lo sai».

«Sì» ho sussurrato, rannicchiandomi più vicino possibile a lei.

Odio la malattia della mamma, che si nasconde nel corpo. E odio i suoi medici che non riescono a darle la medicina giusta.

È passato poco più di un anno da quando siamo stati a Bora Bora. Da Bora Bora siamo andati in Nuova Zelanda a trovare il fratello minore della mamma, che vive lì. Sono stata costretta a parlare in inglese, perché i miei cugini non sanno parlare lo svedese. Non sanno parlare un granché bene in generale, perché hanno solo uno e tre anni.

La Nuova Zelanda era bella, ma Bora Bora lo era molto di più. Da grandi io e Noa vogliamo trasferirci lì.

Quando siamo tornati a casa, la mamma si è ammalata di nuovo e ha perso tutti i suoi capelli ricci. Sulla sua testa lucida ho disegnato una razza che non è venuta benissimo, un delfino e un pesce a righe azzurre. Volevo che pensasse più al nostro viaggio che alla malattia.

E anch’io. È più bello pensare alla Polinesia francese che al cancro.

Mentre la mamma e il papà erano a Stoccolma al Galà del Cancro da noi c’erano i nonni, ma quando torno a casa da scuola trovo la mamma sul divano a scrivere al computer. Ha dei tubicini nel naso che la aiutano a respirare.

«Resina, sei già tornata?» domanda sorpresa.

«Sì» dico, passandole accanto come una tempesta. Su per le scale fino alla mia camera.

«Non vuoi una merenda sfiziosa?» grida la mamma.

«No!» le grido arrabbiata, sbattendo la porta.

Non so con chi sono più arrabbiata. Se con Noa, con la mamma, con il papà o con i nonni che non mi hanno lasciato guardare il Galà del Cancro. Perché Noa l’ha potuto vedere? Non è giusto! Era la mia mamma che partecipava. Non la sua. Schifosa, stupida Noa.

Sono talmente arrabbiata che lancio sul pavimento la fotografia che tengo sul comò. Il vetro nella cornice si infrange, proprio come il mio cuore. La foto ritrae me e Noa abbracciate, con i vestiti da calcio. Sembriamo felici. Non è così strano, visto che avevamo appena vinto una partita importante. Strappo la foto a metà. È Noa quella con cui sono più arrabbiata. Quale migliore amica ti direbbe che la tua mamma sta per morire?

All’improvviso lo so: finché odio Noa, la mamma non morirà.

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