Urban 113

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APRILE 2013 NUMERO 113





SOMMARIO 7 | EDITORIALE

48 | LA METAFISICA DELLO SKATE di Francesca Bonazzoli

9 | ICON

52 | FLOWER POWER DAY

11 | INTERURBANA al telefono con Piergiorgio Lattuille

foto Tatiana Uzlova styling Ivan Bontchev

13 | PORTFOLIO

55 | DETAILS

Bonnie & Clyde a cura di Floriana Cavallo

di Ivan Bontchev e Tatiana Uzlova

19 | CULT

foto Jessie Craig styling Ivan Bontchev

67 | FUORI 74 | ULTIMA FERMATA di Franco Bolelli

56 | PUNK PUNK PUNK!

di Michele Milton

20 | IL SENSO DI THWAITES PER GLI OGGETTI di Susanna Legrenzi foto Mattia Zoppellaro / Contrasto

24 | DESIGN di Olivia Porta

P. 56

27 | MUSICA di Paolo Madeddu

30 | GREEN BIKE di Maurizio Marsico

32 | BELLA, DISLESSICA E DI TALENTO di Roberto Croci

P. 20

36 | ZITTO & COMBATTI di Ciro Cacciola foto Ori Sadeh

P. 13

41 | NIGHTLIFE di Lorenzo Tiezzi

43 | LIBRI di Marta Topis

44 | ASIAN STREET FOOD di Mirta Oregna

Cover: Thomas Thwaites foto Mattia Zoppellaro / Contrasto

MENSILE, ANNO XIII, NUMERO 113 www.urbanmagazine.it redazione.urban@rcs.it

Facebook: Urban Magazine Twitter: Urbanrcs

DIRETTORE RESPONSABILE Alberto Coretti alberto.coretti@rcs.it

CAPOSERVIZIO Floriana Cavallo floriana.cavallo@rcs.it

FASHION a cura di Ivan Bontchev fashion.urban@rcs.it

PROGETTO GRAFICO Topos Graphics

SEGRETERIA DI REDAZIONE Rosy Settanni rosy.settanni@rcs.it

DIRETTORE MARKETING Giancarlo Piana

ART DIRECTION Sergio Juan

Michela DiBenedetto michela.dibenedetto@rcs.it

URBAN

via Rizzoli, 8 · 20132 Milano tel. 02.25.84.1 / fax 02.25.84.2120 testata del gruppo City Italia S.P.A. DISTRIBUZIONE PLP s.a.s. Padova tel. 049.8641420 FOTOLITO Airy s.r.l. via Russoli, 1 20143 Milano

STAMPA San Biagio Stampa S.p.A. via al Santuario N.S. della Guardia, 43P rosso 16162 Genova

PUBBLICITÀ Milano Fashion Media Luca Napolitano Corso Colombo, 9 20144 Milano tel. 02.5815.3201 lnapolitano @ milanofashionmedia.it

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EDITORIALE

STRADE CHE RACCONTANO Le polverose e pericolose strade di Accra, in Ghana, dove la boxe è insieme malattia e cura di qualsiasi contrasto. Oppure le aromatiche strade delle grandi metropoli asiatiche, dove, in una schizofrenica sintassi del cemento armato, tra minuti negozi fatiscenti che vendono di tutto e giganteschi rutilanti mall che vendono di tutto, i baracchini che ti promettono più o meno squisiti spuntini open air hanno la stessa vitale funzione delle virgole in una frase. O ancora, i metafisici percorsi degli skater californiani che ridisegnano la topografia metropolitana sulla dinamica dei cuscinetti a sfera. Per non parlare delle vie di Milano durante il Fuorisalone, che sono il vero termometro dell’evento: se, in giro, i milanesi sembrano stranieri e gli stranieri sembrano milanesi, allora ancora una volta il design ha rivoltato Milano come un calzino. Comunque la si prenda, la strada rimane il formidabile e inevitabile luogo dove ogni giorno la città si disfa e si reinventa.

HANNO HA ANN NNOO CO COLLABORATO OLL LLABBORRATTO CON NOI CCO ON NNO OI Franco Bolelli Francesca Bonazzoli Bruno Boveri Ciro Cacciola Jessie Craig Roberto Croci

Daniela Faggion Susanna Legrenzi Paolo Madeddu Maurizio Marsico Michele Milton Mirta Oregna

Olivia Porta Sara Rambaldi Leo Rieser Laura Ruggieri Lorenzo Tiezzi Marta Topis

Tatiana Uzlova Mattia Zoppellaro

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LOS ANGELES ICON

L’OGGETTO DEL MESE

COW TAG SCELTO DA NICOLE KIDMAN “In me esiste una relazione fortissima fra quello che ho, ciò che desidererei avere e quello che ho perso. Mai dimenticarsi chi si è e da dove si viene. Rimanere con i piedi per terra, ancorata alla realtà, è di fatto anche una connessione emotiva con i miei genitori, visto che papà e mamma lavoravano tantissimo, e a volte i soldi non bastavano. Quando facevo qualcosa di buono e mio padre voleva premiarmi, mi dava una ‘cow tag’, un’etichetta che le mucche della fattoria portavano al collo, che di base era una promessa per qualcosa che desideravo. Le ho tenute tutte fra i miei averi”. • URBAN | 9


MUNICH @ LICHTATHLETEN

PARIS @ PIERRE MOREL

BARCELONA @ ROBERTO ALEGRIA

URBAN X BRAUN

Sarà un po' per la bella barba sfoggiata da Ben Affleck nella notte degli Oscar. Sarà, un altro po', per effetto della primavera che ci invita a sfoltire le chiome e a governare meglio peli e pelurie. Fatto sta che la barba-mania scoppiata negli States con i barbieri più stilosi che si sfidano continuamente a colpi di Braun è arrivata prepotentemente anche in Europa. Perché un baffo o un pizzetto possono dire quasi meglio, o più in fretta, di una biografia ufficiale. Dimmi che barba hai e ti dirò chi sei, insomma. E con Braun cruZer ogni maschio europeo ha finalmente di che sbizzarrirsi per esprimere il suo stile, il suo punto di vista. Il website ufficiale offre nuovi orientamenti. Si può scegliere tra una rasatura più provocatoria, "dirty" per gli esperti, corta, simil-naturale, visibile solo a distanza ravvicinata, e un baffo hipster, per esempio, di quelli sempre più in voga tra i divi di Hollywood. Ma siccome la Vecchia Europa rivendica sempre una certa originalità, con Braun abbiamo fatto un giro in alcune grandi città a caccia delle varie tendenze, strumento ufficiale, neanche a dirlo, il nostro inseparabile cruZer beard&head, capace di disegnare la barba in qualsiasi forma e lunghezza ma perfetto anche per tagliare i capelli. Eccoci dunque a Barcellona, a Parigi, a Monaco, a Milano: what's hot in San Babila, and what's not in Saint Germain? Abbiamo fatto un bel po' di indagini, fotografato vari personaggi stilosi upside down e il risultato sembra chiaro evidente di città in città. Barba folta ma ben curata per i trend setter concittadini di Gaudì, pizzetto e rasatura vivace per i giovanotti mondani a spasso tra le vie ambigue e maliziose ma sempre alternative/chic di Pigalle, taglio deciso per l'uomo bavarese mitteleuropeo e rasatura elegante, raffinata, allegra e sorridente per il giovane uomo milanese che di giorno corre in zona Duomo e la sera socializza tra i Navigli. Come sempre, ri-vediamoci su shaveyourstyle.com per condividere vita e nuovi stili. Che Braun, che barba, che barba che Braun!

MILANO @ OLAF PIGNATARO

EUR0PEAN BEARD

www.shaveyourstyle.com/it wwww.braun.com/cruZer Se vuoi saperne di più sui prodotti Braun cruZer, fai lo scan della QR tag!

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DI DANIELA FAGGION

AL TELEFONO CON

PIERGIORGIO LATTUILLE TAIPEI ALLA PRIMA IMPRESSIONE... Organizzatissima. Tante auto ma traffico veloce. Shopping center da mille e una notte ma anche negozietti per tutte le altre tasche. Tutto funziona, sia nel privato sia nel pubblico: con un’assicurazione statale irrisoria hai una copertura sanitaria completa... e paghi il 25% di tasse.

cantine di Toscana, Umbria e Piemonte, dove i produttori amici mi hanno fatto sedere a tavola non solo per bere ma per comprendere il vino. Da queste parti vanno per la maggiore whisky e single malt, ma i gusti stanno evolvendo verso il vino, soprattutto in Giappone. E Taiwan segue molto il Giappone.

MA SONO DI FIANCO ALLA CINA...

UN ASPETTO CHE PROPRIO NON DIGERISCI DELLA CITTÀ? La loro guida spericolata. I peggiori sono tassisti e autisti di bus. Per il resto, è un popolo di una cordialità assoluta.

Meglio non ricordarglielo! Però l’origine è quella, così come la tradizione di regalare il rosso come portafortuna è di buon auspicio per il business. Il vino rosso era solo un cadeau, mentre ora chi lo compra spesso lo tiene anche per sé. E la scelta non è quasi mai economica.

DOVE SI VA A BERE? LA TORRE CHE SVETTA IN TUTTE LE FOTO CHE COS’È? La 101 Taipei. Più di 500 metri d’altezza, aperta nel 2004, all’epoca era l’edificio più alto al mondo. Lo stile è scelto per ricordare un bambù, flessibile al vento e ai terremoti... e all’interno c’è una grossa palla d’acciaio per contrastare le scosse telluriche che qui non mancano. È il primo posto dove porto chi mi viene a trovare, così dall’alto si fa subito un’idea della città.

E CHE IDEA SI FA? Di una città movimentata, dove cambiano continuamente clima e skyline, perché ci sono montagne da un lato, mare dall’altro, quasi tre milioni di abitanti nel mezzo e cantieri che nascono continuamente. Qui costruiscono sempre ma con logica e stile. ILLUMINACI DI SAGGEZZA ARCHITETTONICA TAIWANESE... Il rapporto moderno/antico è ben bilanciato. Sono molto attenti agli edifici di una certa importanza culturale.

COME SEI RIUSCITO A ESPORTARE LA CULTURA DEL VINO NELL’ESTREMO ORIENTE? Ho messo a frutto una vita trascorsa fra vigne e

Uno dei locali storici è il Moon Wine Bar, seguito da Wine Kitchen Bar e Vininfo. E UN ABITANTE DI TAIPEI CHE NON BEVA VINO MA ABBIA VOGLIA DI DIVERTIRSI? Per la cena attira molto il Daan District. Qui peraltro ci sono centinaia di ristoranti italiani ma purtroppo per la maggior parte proprietario e chef non lo sono, quindi il risultato è “asianizzato”.

CHE LINGUA SI PARLA? Mandarino ma con accenti diversi rispetto alla Cina. CHE NON SI PUÒ NOMINARE... Ora c’è una grande apertura verso gli “scomodi vicini”. Il presidente è filo-cinese, nel senso che ha fatto politiche per attirare i capitali. Il rendiconto economico finale conta più di tutto e così i cinesi vengono anche in vacanza.

IN VACANZA A TAIWAN? Ci sono zone dell’isola con spiagge eccezionali. E poi il lungo fiume, da fare in bicicletta per arrivare fino al mare.

PIERGIORGIO LATTUILLE (Roma, 1971) studia medicina e legge per poi decidere di seguire la vera passione di famiglia: vini, grappe, sigari e viaggi. Dopo aver visitato l’Asia più volte da bambino, la sceglie come base per la sua attività di wine commerce all’inizio degli anni 2000. Dalla Thailandia nel 2011 si sposta a Taiwan, paese di origine di sua moglie, con cui vive, lavora e cresce i due figli. Con gli occhi a mandorla e i nomi rigorosamente italiani

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LOS ANGELES PORTFOLIO A CURA DI FLORIANA CAVALLO

BONNIE & CLYDE FOTO NEIL KRUG / JONI HARBECK TESTO ROBERTO CROCI

Western, spiritualità, hippie & sensualità. Sono i diversi ingredienti che il fotografo e la sua musa/moglie/modella hanno condensato in 200 immagini che sublimano lo spirito new western. Dalla prima all’ultima

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La super-model Joni Harbeck è l’eroina indiscussa di Pulp Art Book volume two – coffee table book composto da 200 immagini, appena presentato con una mostra allo Space 15 Twenty a Hollywood – in collaborazione con il fotografato-marito-filmaker Neil Krug. Come da copione dei classici western, li abbiamo rintracciati, circondati e interrogati a dovere, costringendoli a raccontarci com’è nata l’idea di questa collaborazione tutta particolare.

Una sera nella camera d’albergo iniziamo a scattare polaroid con me vestita da indiana. Dopo aver messo la foto su internet e registrata la reazione entusiasta di family & friends abbiamo cominciato a creare una serie di vignette che ritraggono questi personaggi così iconici ma allo stesso tempo caratteristici della società americana e di inserirli in un libro”.

TEMA DEL LIBRO?

“Dopo i primi scatti e le prime manipolazioni con le polaroid scadute ho continuato con il 35mm, anche se i risultati dei primi sono i migliori. Per me le polaroid sono foto ‘da non prendere sul serio’, stesso concetto che uso per i nostri scatti pulp, piccoli piaceri sensuali di una vita quotidiana trascorsa al sole e all’aria aperta. Per pulp intendiamo il tema vintage e la sensazione cult di look, foto e pose. L’idea di farne qualcosa di artistico sinceramente è dovuta al fatto che abbiamo venduto i primi 50 rullini di foto in meno di dieci giorni, quindi ne abbiamo visto il potenziale commerciale e la possibilità di costruire il libro con tanti temi diversi, il tutto lavorando e creando insieme”.

Neil: “Western, spiritualità, hippie & sensualità. Sergio Leone e Manara a manetta”.

ICONE PREFERITE? Jodi & Neil: “Entrambi amiamo B-movies, il Wild West, film gialli, Fellini, Bonnie & Clyde, Robert McGinnis, Tanino Liberatore, Jodorowsky, Jackie Kennedy, gli spaghetti western e tutta l’estetica pulp degli anni ’60 e ’70”.

NEIL, DA DOVE ARRIVA L'ISPIRAZIONE DI FARE QUESTO LIBRO USANDO PELLICOLE SCADUTE?

COM’È NATA LA COLLABORAZIONE? Jodi & Neil: “Tutto nasce quando ci conosciamo sul set del video dei White Flight, io modella, lui fotografo di scena. Lo shooting era nel ranch di un amico comune, appassionato di cavalli e pistole, in pieno territorio western.

Come non detto: mai mettere il dito fra moglie e marito. • www.pulpartbook.com

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KINGSTON & CO. CULT

DA DOGG A LION “Questo mio viaggio attraverso la cultura giamaicana si è rivelato più importante e spirituale del previsto, al punto tale che mi sono completamente abbandonato al significato di amore e pace che la musica reggae insegna: zero negatività, conflitti, zero odio e soprattutto ‘No Guns Allowed’” - anche track di uno dei single tratto da Reincarnated, album in uscita ad aprile e che ha dato il titolo al documentario, frutto di un lungo viaggio-vacanza in Giamaica di Snoop Dogg, sulla sua trasformazione da rapper a rastafari reggae Snoop Lion. “È un po’ la mia cronistoria, dagli inizi a Long Beach alla carriera con Warren G e Nate Dogg, dal passaggio a Suge Knight e ai gangsters hip hop anni ’90 all’amicizia con Tupac Shakur, fino all’incontro con Dr. Dre. È grazie al suo lavoro che sono diventato quello che sono, a great artist”. Il documentario ha inizio con la sua visita ai posti sacri di Shanty town, al leone Rastafari, alla casa di Bob Marley, dall’incontro con ley, passando d Bunny Wailer, responsabile del nome Snoop Lion, alla gita alle Blue Mountain coltiva una ganja n (dove si coltiv speciale, essenza pura della cultura rasta), per terminare con la cerimonia al tempio Nyabing Nyabinghi, quando Snoop viene ribattezzato con il suo nome rastafari: Berhane, aka luce pura. (Roberto Roberto Croci) www.snooplion.com

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL DANDY Dettagli chiassosi occulti o palesi , accostamenti eccentrici di tessuti eterogenei e palette di colori a prova di daltonico, e poi alla fine il tutto che straordinariamente funziona. Nodi di cravatta talmente elaborati da sembrare eseguiti con naturalissima nonchalance. Essere dandy è uno stato mentale che si avvicina molto all’arte e come tale merita che gli si dedichi una mostra. Ci ha pensato il Museum of Art della Rhode Island School of Design che dal 28 aprile fino al 18 agosto presenta Artist/Rebel/Dandy: Men of Fashion. Naturale che ad aprire le danze sia proprio un dandy contemporaneo, André Leon Talley di Vogue America, special guest della serata di gala inaugurale. Obbligatorio, restando in tema, non esserci. (Michele Milton) www.risd.edu

40 VOLTE PEPE E sono 40, gli anni di una straordinaria avventura iniziata nella Londra fuligginosa e glam anni ’70 di Portobello Road e giunta fino a oggi con una realtà che tocca 70 paesi, ha più di 300 negozi monomarca e vende in 7500 punti vendita. Miracoli del denim! Miracoli di Pepe Jeans London, che festeggia con una campagna SS13 con protagonisti Cara Delevingne insieme a Mia Goth e Jeremy Young, buoni ultimi di una lista di celebrità che nel tempo ha incluso, tra gli altri: Alexa Chung, Jason Priestley, Laetitia Casta, Donovan Leitch, Ashton Kutcher, Sienna Miller, Cristiano Ronaldo, Kate Moss e l’indimenticabile brano How soon is now dei The Smiths. (M. M.) www.pepejeans.com

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LONDON DESIGN

IL SENSO DI THWAITES PER GLI OGGETTI

È possibile costruire un tostapane partendo da zero? Che cosa sarebbe successo se l’evoluzione della specie ci avesse reso volanti? A queste e altre domande impossibili risponde il design di Thomas Thwaites TESTO SUSANNA LEGRENZI RITRATTI MATTIA ZOPPELLARO / CONTRASTO

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Thomas Thwaites lavora con un approccio filosofico-speculativo su alcuni dei temi più tosti del contemporaneo, mixando progetto, tecnologia, scienza e futurologia. Master in Design Interactions al Royal College of Art di Londra nel 2009, ha realizzato numerosi progetti su commissione. Tra i più noti, The Toaster: oltre 600mila impression sul portale di Ted che ha presentato la ricerca come “un’interessante parabola per la nostra società interconnessa”. La sfida? Ricostruire un tostapane da 3,94 sterline partendo dal nulla: 340 componenti da rifabbricare, andando in miniera per recuperare il materiale grezzo, derivando la plastica dal petrolio. A Milano, per la Design week 2013, Thomas è stato invitato a esporre – insieme ad altri 25 detective del futuro – nel contesto di (In)visible design, in scena nell’headquarter Logotel, distretto Lambrate Ventura, con direzione scientifica della sottoscritta e di Stefano Maffei. Facendo scouting per la mostra, è stato immediato pensare che quel suo corpetto con grandi ali di piume non poteva davvero non esserci. Thomas, prima di essere un (semplice) designer, è un affabulatore. Per incantarci, è bastato questo.

A MILANO VEDREMO UN’ANTEPRIMA DI UNLIKELY OBJECTS: PRODUCTS OF A COUNTERFACTUAL HISTORY OF SCIENCE. CI RACCONTI IL PROGETTO? Parte dall’idea che la conoscenza scientifica ha avuto un ruolo fondamentale nel dare forma al mondo delle cose materiali che conosciamo e – se pensiamo alla genetica – anche nell’influenzare le nostre vite dal punto di vista sociale,

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politico e spirituale. Il resto sono grandi domande. Ci siamo mai chiesti, per esempio, se fossero state fatte alcune osservazioni anziché altre, o ancora se certi scienziati fossero stati un po’ meno – o un po’ più – famosi, avremmo forse avuto una versione diversa della verità scientifica? Unlikely Objects esplora questo terreno attraverso un approccio fantasioso alla storia della genetica, sottoponendo all’attenzione dello spettatore alcuni risultati, più o meno probabili. Il corpetto con le ali s’inscrive in questo percorso: siamo noi, è Darwin, è l’anti Darwin, è ciò che potremmo diventare o siamo già diventati. Lo stesso vale per l’ultimo pezzo, a cui sto lavorando in queste settimane: è un primo prototipo per una macchina zoomorfica che ci invita a interrogarci su quali sensazioni potremmo avere se fossimo pachidermi.

THOMAS E IL DESIGN: COME CI SEI APPRODATO? Ero alla ricerca di qualcosa che potesse unire tecnologia, scienza e creatività con un po’ di rigore intellettuale o accademico. Quasi per caso, sfogliando i programmi del Royal College of Art di Londra, ho scoperto il corso di Design Interactions che offriva tutte queste cose assieme. Ho fatto domanda, mi hanno accolto. Mi ha cambiato la vita.

AL ROYAL COLLEGE HAI STUDIATO CON I DUE GRANDI GURU DEL CRITICAL DESIGN: FIONA RABY E ANTHONY DUNNE. TRE AGGETTIVI PER DESCRIVERE IL LORO APPROCCIO? Incoraggiante, pensante, drammatico…


LA TUA GIORNATA IN UN TWEET? Avvio e conclusione alle prese con le e-mail o con un incontro con un curatore. Nel mezzo un po’ di tempo per pensare, disegnare, scrivere.

KIT DI PROGETTO? Penna e sketchbook.

DI COSA NON PUOI FARE SENZA? Del mio computer portatile.

HAI MATURATO UN TUO METODO DI LAVORO? Al momento no: ma ho sicuramente bisogno di trovarne uno. Sono sicuro che renderebbe la mia vita molto più calma rispetto a un presente fatto di strappi continui da una cosa all’altra.

IL TUO LAVORO PUÒ ESSERE CONSIDERATO COME UUNA VISIONE CRITICA DELLA REALTÀ CHE CIRCONDA. QUALE RUOLO HA IL DESIGN IN QUESTO SENSO? Mi piace pensare che il design possa avere effetti positivi, persino quando non produce prodotti e servizi solitamente associati agli scopi più tradizionali della disciplina. La cultura è fatta di storie e di idee dannatamente potenti: le rivoluzioni, le religioni, le civiltà stesse vivono di storytelling. Nel Regno Unito il governo è impegnato in una forte promozione delle scienze, della tecnologia, dell’ingegneria come strumenti a sostegno dello sviluppo economico. Ciò nonostante sembra trascurare il fatto che anche il mondo delle scienze e della tecnologia ha come fine ultimo quello di raccontarci storie che producono un nuovo modo di approcciarci al reale, anche in termini estetici. In quest’ottica credo che il mio ruolo di designer possa dare un piccolo contributo a far sì che le cose vadano in questa direzione.

QUALI ASPETTI DEL VIVERE CONTEMPORANEO TI INTRIGANO DI PIÙ? THINKING ROOM: A CASA, PER STRADA, AL LAVORO? Le idee migliori arrivano quando sono felice. E questo accade raramente quando sono al lavoro, più facile accada quando sono in bicicletta o a un concerto, a letto o in qualsiasi luogo distante dallo studio.

Sono piuttosto interessato a indagare come gli individui siano in grado di “funzionare” in un mondo sempre più complesso, rumoroso e sovraccarico di informazioni.

FARE DESIGN NELLA COOL BRITANNIA HA DEI VANTAGGI? In tutte le mie ricerche oscillo tra la tentazione di sviluppare progetti connotati da un forte aspetto performativo, che spesso mi coinvolge in prima persona, e l’idea di approcciarmi alla ricerca in modo più concettuale. In entrambi i casi faccio fatica a immaginare un modello di pensiero unico che governa i processi creativi di un designer.

In Gran Bretagna c’è una buona dose di interesse per il design inteso come mezzo per esplorare e superare i divari fra discipline, il che significa che c’è la possibilità di sviluppare progetti di design che non sono commerciali nel risultato ma sono indirizzati a trasmettere idee tra gruppi di esperti o al bacino di audience del pubblico. Da questo punto di vista i vantaggi sono molti: il primo è una grande libertà creativa.

DOVE TROVI ISPIRAZIONE?

DESIGN E MASS PRODUCTION: UNO SBADIGLIO?

Di recente, a Londra, alcuni amici hanno avviato una serie di incontri mensili: Alter Futures (alterfutures.org/, n.d.r.). Un paio di settimane fa ho seguito lo speech di Gareth Owen Lloyd, un artista che parla del suo lavoro in termini di “arte speculativa”, arte che esiste nel futuro, o esisterà. La sua ultima ricerca è una sorta di calendario, scandito in base a possibili eventi legati all’immaginario della Science Fiction e uniti a una descrizione sommaria delle pratiche artistiche possibili all’interno di questa storia. Ascoltarlo è stato di grande ispirazione».

Certo che no! Sono sinceramente innamorato della produzione di massa. Il mio tostapane appartiene a quest’universo.

QUANTO È IMPORTANTE L’ASPETTO PERFORMATIVO NEI TUOI PROGETTI?

CHE COSA TI PREOCCUPA? Depressione, nichilismo, rimpianto.

SE POTESSI PRANZARE CON UN PERSONAGGIO STORICO CON CHI VORRESTI CONDIVIDERE LA TAVOLA?

In modo casuale, con molti fallimenti, spesso lavorando fino a tarda notte.

Wow! Forse con Carl Sagan, il fisico. Oppure mi piacerebbe un pranzo informale con Barack Obama: potrebbe essere un’occasione per scoprire che cosa sta realmente accadendo.

BLOCCHI CREATIVI?

TI CAPITA ANCORA DI MANGIARE UN TOAST?

L’anno scorso vivevo ai bordi di una foresta, quando avevo bisogno di pensare andavo a correre. Ora sono di nuovo a Londra: l’asfalto è duro, ci si fa male ai legamenti delle ginocchia e così via… Questo mi ha fatto capire quanto ciò che ci circonda nelle immediate vicinanze ci induca a dover modificare le nostre abitudini.

Mmmmhhhh… :-).

IDEA, PROCESSO, PROGETTO: COME PARTI DALLA PRIMA PER APPRODARE ALL’ULTIMO?

OK, :-). CI VEDIAMO IL 9. TI ASPETTO. :-). • www.invisible-design.it

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MILANO DESIGN DI OLIVIA PORTA

SUPERSTUDIO TEMPORARY MUSEUM FOR NEW DESIGN

FABBRICA DEL VAPORE BLA BLA

Da quest’anno si potranno visitare Superstudio più e Superstudio 13 fino a tarda notte (chiusura cancelli alle 22), per il nuovo Temporary Museum for New Design, su progetto di Gisella Borioli e art direction di Giulio Cappellini, dal 9 al 14 aprile. Fil rouge il Design Globale, con sorprendenti installazioni che raccontano l’evoluzione del design in tutte le sue forme, dalla casa, al verde, al fashion, alla tecnologia, al food. Tra le molte superstar coinvolte, Michael Young, Xavier Lust, Richard Hutten, Massimiliano e Doriana Fuksas, Arik Levy.

Produzioni non seriali e indipendenti, sospese sul sempre più sottile filo che separa design, arte e artigianato. È la ricetta che si cela sotto il nome Milano Makers e che durante la Design week dà vita a Bla Bla, una grande mostra dibattito curata da Alessandro Mendini e caratterizzata da un allestimento di Duilio Forte. L’evento si svolge su due binari principali – mostra delle opere ed elaborazione teorica attraverso video trasmessi in loop su grande schermo – in modo che pratica e teoria non siano mai disgiunte e il visitatore si faccia un’idea del fenomeno makers a 360 gradi.

www.superstudiogroup.com

www.milanomakers.com

DISTRUGGERE PER PROGETTARE L’hub del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia ospita ancora Most, un concentrato di eventi, mostre e installazioni letteralmente “istigato” dalla mente di Tom Dixon sotto il segno del “Disrupting Design”, ovvero la sfida dei designer nella ricerca su nuove tecnologie, materiali e tecniche di produzione. L’e-commerce Fab.com presenta inedite idee di prodotto pensate da giovani talenti del design, da Shanghai arrivano i nuovi oggetti Kaikado di Japan Handmade per Stellar Works, e poi da vedere le collezioni di mobili pensati dal gruppo creativo danese studio OeO. www.mostsalone.com

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MUSEO SCIENZA E TECNOLOGIA JOB OFFICE Prosegue la collaborazione di Studio Job e Lensvelt. La coppia olandese presenta la collezione Job Office, che tra maniglie, serrature e chiavi fuori misura si completa di mobile basso, scrivania, tavolo e lampada da tavolo. Ci sarà un naso a fare da maniglia a mobili e cassetti, lo stesso che maschera i volti di Marilyn, Einstein e Madre Teresa di Calcutta usati come teaser del progetto. Un contrasto cromatico collaudato nel tempo, ma che a ogni edizione della Design week il pubblico aspetta con eccitazione. www.studiojob.be


BOOO INVASION Serie limitata o grandi numeri? L’idea alla base di Booo, marchio olandese di lampade, è proprio quella di sottrarsi a questo insidioso dilemma. I designer coinvolti nel progetto – da Nacho Carbonell a Front a Formafantasma – hanno sviluppato idee che possano prendere forma, declinandosi, nel pezzo unico come anche nella produzione industriale. Tanti gli appuntamenti targati Booo durante il Fuorisalone, dal 9 al 14 aprile: allo Spazio Rossana Orlandi sarà allestito un Booo shop dove presentaree un sistema “leggero” d di chandelier; a Lambretto le Booo Bulb di Formafantasma si accenderanno e spegneranno su un muro d’edera int interagendo con i visitatori, mentre pezzi inediti e limited edition saranno esposti al Museo Bagatti atti Valsecchi, all’interno all’intern della mostra Bagatti Valsecchi 2.0 a cura di Rossana Orlandi. www.booo.eu

TRIENNALE CONSTANCY & CHANGE IN KOREAN TRADITIONAL CRAFT

FO FORO BUONAPARTE NICHETTO = NENDO NIC

In mostra in Triennale con Constancy & Change in Korean Traditional Craft ft alcuni oggetti quotidiani contemporanei, quasi astratti per la loro perfezione, ione, icone di una millenaria cultura del fare, capace di essere evolutiva. Pietra,, legno, ceramica, tessile, argento, lacca: ciascuno pertinente a un uso popolare, olare, ma reinterpretato in chiave moderna. Una mostra-manifesto ideata per far conoscere non solo la Corea tecnologica e avanzata, ma anche quella altrettanto rettanto vitale legata alla sua identità artigianale.

Un’ Un’amicizia da cui è nata un’inedita collaborazione creativa, partita in una caffetteria di Stoccolma. Il risultato dello scambio di idee e progetti tra Luca Nichetto e Oki Sato di studio Nendo è uno degli appuntamenti più attesi della Nic Design week. Lo vedremo in mostra dalle 10 alle 19 in Foro Buonaparte, 48: Des sette prodotti co-disegnati e co-interpretati insieme, riuniti sotto la formula sett (magica?) Nichetto = Nendo. (ma

www.triennale.it

www.lucanichetto.com ww www.nendo.jp ww

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MILANO & CO. MUSICA DI PAOLO MADEDDU

ELLIE GOULDING 24 APRILE MILANO – MAGAZZINI GENERALI

Da qualche anno ci si interroga su che cosa diavolo sia Elena Jane “Ellie” Goulding, 26 anni, figlia di una cassiera del supermercato e di un becchino, nata ai confini tra Inghilterra e Galles. Il suo primo album Lights (2010) era praticamente ancora nei camion che lo consegnavano ai negozi (o nei file che lo consegnavano a iTunes), che già aveva vinto Brit Award e un referendum tra ascoltatori della BBC. Col secondo album Halcyone (2012), analogo successo, con tanto di entrata nella eurofoba top 10 Usa. Ma il mistero rimane: cos’è esattamente Ellie Goulding? E perché il suo linguaggio sonoro sembra inaudibile da chi ha più di 28 anni, come certe frequenze che possono sentire solo cani e gatti? E come ha potuto

IL LATO OSCURO DI ELLIE fidanzarsi con Skrillex per quasi un anno, se è una persona normale? Ellie è probabilmente una cantautrice che ha scelto il pop elettronico per veicolare in modo stranamente piacione una tendenza alla grandiosità gotica e allo sbigottimento cosmico che è comune ad altre fanciulle: chi con toni più indie (Bat For Lashes), chi più sperimentosi (Imogen Heap) o più radiofonici (Florence). Ma c’è un lato indie e ambizioso che Ellie nasconde, nega ai propri dischi, forse sapendo che venderebbero un po’ meno – e questo probabilmente è il dna della cassiera. Dal vivo, per contro, il lato oscuro viene fuori. Dev’essere il dna del becchino. •

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BONOBO THE NORTH BORDERS BOMBINO NOMAD

Ninja

Nonesuch

WHO: Simon Green, di Leeds,

WHO: Omara Bombino Moctar, nato ad Agadez, probabilmente nel 1980. Il suo nome deriva da una parola italiana lievemente modificata (...NO. È “bambino”). Chitarrista. Tuareg. C’ha il blues del deserto.

WHERE: Il Niger è quello Stato enorme, poco popolato e molto sahariano, che sta sopra la Nigeria, e al cui confronto la Nigeria è ricca e ordinata come il Lichtenstein. Bombino fa parte di quel 10% di popolazione che l’etnia di maggioranza tende a rullare di mazzate quando la situazione ristagna un po’. WHY: Non è che qui siamo molto per l’etnico. Siamo tronfiamente e anche un po’ stolidamente urbani. Ma Bombino è scoppiettante, è rock, ancorché ovviamente inusuale. Ed è prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, che in questo momento è tipo il nuovo pontefice. Non abbiamo idea di che cosa Bombino stia dicendo mentre canta, certo. Ma in fondo la cosa vale anche per i Baustelle.

WHAT: “I miei due grandi eroi sono Jimi Hendrix e Ali Farka Touré”.

WHEN: Mentre vi porta a casa sua. Non andate! Non andate!

37 anni. È noto anche come DJ Bonobo, ma dal vivo non sta in console, suona il basso. Attivo dalla fine degli anni ’90. Quanto basta per avere visto passare l’ultimo tram del trip hop, ed esserci salito al volo: hop. Non ne è mai davvero sceso.

One Little Indian

WHO: Laura Douglas, nata a

WHO: Cinque disadattati vestiti a festa formatisi nel 2008 e provenienti da Exeter, Inghilterra. Si sono dotati del nome più insulso possibile e affermano di essere “I salvatori del soul, i campioni dei pesi massimi di rock’n’roll”. Fanno molto ridere, fanno molto casino, fanno molto ballare.

Birmingham, 26 anni. Mvula è il cognome da sposata. È possibile che ne abbiate sentito parlare, i media inglesi più avanti sono da mesi in stato inebetito come gli accade quando tra una next big thing e l’altra, gli capita per le mani qualcosa che per una volta potrebbe realmente essere la next big thing. Segnatamente, una nuova Amy Winehouse. Una che però i paradisi artificiali li mette più negli arrangiamenti che in vena.

WHY: La sua produzione è molto

azzardatissimo nel quale pop, jazz e psichedelia si sovrappongono.

strumentale, eccetto 4-5 pezzi a disco cantati da special guest. Di primo acchito pare uno dei cd che i bar mettono durante l’happy hour, e vien da sottovalutarlo. Ma il vecchio Bonobo vive come una missione il recupero di tutte le possibilità ritmiche, atmosferiche e campionatorie della filosofia rilassata ma non inerte che i baristi più ispirati hanno fatto propria: pettinare i pensieri col bicchiere nella mano.

WHAT: “Ascoltavo rock, ma è raro

esperienze precedenti. Pensavate fossero di meno, vero?

RCA

RCA

WHERE: In un territorio

WHEN: Mentre vi racconta le sue

THE STROKES “TAP OUT” DA “COMEDOWN MACHINE”

THE COMPUTERS LOVE TRIANGLES HATE SQUARES

WHERE: In pochi dischi, ma saccheggiati da pubblicità, videogiochi e serie tv.

che ti porti ad altre musiche. È stato l’hip hop a farmi scoprire soul, psychedelic jazz, jungle”.

UNA SU 11

LAURA MVULA SING TO THE MOON

WHY: Questo disco è una palla colorata e sofficesoffice lanciata dolcemente contro quegli stupidi birilli – e birille – tutti uguali che dicono di fare r’n’b. E per quanto sofficesoffice, ha l’aria di andare dritto a buttarli giù.

WHAT: “I miei pezzi hanno un suono immediatamente riconoscibile perché li ho composti con un programma per computer poco costoso che non mi lasciava molta scelta. Così usavo ripetutamente campionamenti di arpa, celeste e il suono di un lucchetto”. WHEN: Quando pensate che non succederà niente.

Sono i responsabili di uno dei crimini più efferati degli anni 00. Non a caso colpirono spietatamente nell’ottobre 2001, un mese dopo ciò che sapete. Erano ragazzi fighetti di famiglie ricche quando pubblicarono Is this it, che aveva in copertina il gluteo ricco di una ragazza fighetta e proponeva un rock scioccherello che gettò un ponte tra due mondi che avrebbero dovuto rimanere separati: i depressi indie e i coolissimi hipster. Come succede accoppiando cavalli e somari, nacquero ibridi strampalati e craponi: 1) indie fighetti 2) coolissimi depressi. Un mondo in ansia per una possibile guerrona totale lasciò che le frange più tonte tra i media people acclamassero gli Strokes come salvatori del rock invece di prenderli a pedate per tronfia inconsistenza. Di fronte ai successivi album insulsi, invece di prendere atto autocriticamente della cantonata gli indie fighetti e i coolissimi depressi

WHERE: In una nazione di infinita saggezza in cui Jerry Lee Lewis è Presidente, i Rolling Stones sono il Consiglio dei Ministri, i Ramones sono il Consiglio Superiore della Magistratura e i Led Zeppelin sono guardati con estremo sospetto e interdetti dalle pubbliche cariche perché troppo intellettuali. WHY: Questi ossessi garagisti lanciano il loro assalto all’arma bianca contro tutto quello che è venuto a complicare il rock’n’roll vecchia scuola. Probabilmente ci sono più riff in questo loro secondo disco che nei primi cinque dischi degli AC/DC.

WHAT: “Siamo qui per chiunque senta che la sua vita è bloccata sul tasto repeat”.

WHEN: Quando vi dice: “Tu mi sembri una persona diversa, di te sento che mi posso fidare”. Fuggite, sciocchi.

se la sono presa coi ragazzi ricchi e fighetti, ma continuando a venerare il Sacro Gluteo, incoronando Is this it come disco del decennio (Rolling Stone, NME). Oggi il quinto disco ricco e fighetto degli Strokes è invariabilmente accusato di essere insulso e fastidioso. È come accusare le patatine di essere fritte. Nella sarabanda di chitarrine sbarazzine e synth sbarazzini, si salva il primo brano del disco, quello che illude. Tap out ha un’ovvia matrice di funk bianco anni ’80, e un’imprevedibilità melodica che si perde nel resto dell’album, fin dalla traccia 2, il singolo All the time, che parte coi migliori auspici e un ottimo riff, ma come i cavalli da corsa “rompe” a metà percorso. Da lì in poi il resto del disco rompe e basta. E non c’è neppure la soddisfazione di immaginare gli ex ragazzi mentre strisciano nella polvere: al massimo, di vederli strisciare tra i vestiti firmati. •

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MILANO CREATIVE LAB

GREEN BIKE TESTO MAURIZIO MARSICO

Che cosa può accomunare l’Uroboro, o serpente che si morde la coda, simbolo ermetico dell’eterno ritorno, ad alcune specie vegetali le cui proprietà sono state addirittura testate dalla Nasa, e il ciclismo gentile made in Holland? No, non è una puntata del Kazzenger di Crozza, sono solo alcuni degli ingredienti autentici del progetto The Green Bike, curato da Claudia Zanfi (direzione aMAZElab /Atelier del Paesaggio), con la collaborazione dell’Ambasciata e del Consolato Generale dei Paesi Bassi, di cui anche Urban si fregia di essere tra i media partner, che apre i battenti lunedì 8 aprile (ore 12 conferenza stampa aperta al pubblico a Palazzo Marino) e sarà in scena a Milano nel corso dell’intera Design week (9-14 aprile). Una settimana di appuntamenti eclettici all’insegna della mobilità dolce, del verde urbano e di una creatività a basso consumo e sostenibile a tutto tondo, in cui la bicicletta è il massimo comune multiplo e “il modello olandese” (che tra l’altro è il pay-off del titolo della manifestazione) la principale fonte d’ispirazione. Perché è proprio dall’urgenza di intervenire in modo concreto nella realtà urbana di Milano, proponendo pratiche e stili di vita sostenibili e modelli virtuosi di mobilità urbana green & slow, che nasce l’intera idea progettuale. Mostre, incontri, conferenze, bike tour, che si svolgeranno soprattutto dentro e fuori i locali di tre celebri bike store cittadini (Equilibrio Urbano, zona Isola; Rossignoli, corso Garibaldi; Olmo,

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piazza Vetra), posti ai vertici di un invisibile triangolo psicogeografico di grande passaggio. In ognuno dei tre negozi saranno presentate le opere d’arte e di design, ispirate al mondo della bici, di Jan Gunneweg (biciclette in legno), Max Lipsey (sculture con elementi ciclistici di riciclaggio) e Maarten Kolk (light-box con immagini dedicate al verde e al ciclismo slow) mentre all’esterno i giovani designer e paesaggisti del Polidesign di Milano allestiranno i paesaggi verdi urbani dei tre luoghi espositivi che, grazie alla partnership con il Flower Council of Holland, saranno realizzati interamente con piante e muschi dotati di proprietà fonoassorbenti e specie vegetali anti-smog, in grado di purificare l’aria, testate dalla Nasa. Nell’ambito dei vari incontri sarà presentato inoltre il progetto della nuova pista ciclabile che collegherà il centro cittadino con l’area Expo 2015 e ogni giorno, dallo spazio Rossignoli, si dipaneranno i bike tour guidati da storici dell’arte e designer tra i giardini nascosti, gli atelier dei creativi e gli itinerari segreti della Milano meno nota (iscrizioni su cittanascostamilano.it). E sempre qui, alla partenza, il serpentone (di cui sopra) formato murale dell’artista Matteo Guarnaccia, dedicato al segno di quest’anno secondo lo zodiaco cinese, che per una volta, da ciclico, diventerà ciclabile e poi (why not?) forse pure riciclabile. • www.amaze.it


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LONDON CINEMA

BELLA DISLESSICA E DI TALENTO TESTO ROBERTO CROCI

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Š Matt Irwin / Trunk Archive


Il vantaggio di vivere in un’era globalmente digitale e di appartenere all’ordine dei giornalisti a volte risiede nel fatto di poter partecipare a interviste, Q&A’s e press conference stando comodamente seduti sulla poltrona di casa – Festival Sundance ’13 docet, seguito da quello di Tribeca NY, Los Angeles e anche Tiff di Toronto. Nonostante il filtro dello schermo, è comunque molto facile innamorarsi dell’azzurro-verde-mar-mediterraneo degli occhi di Kaya Scodelario, inglese, 21 anni, nasino all’insù, sguardo pulito e sensuale allo stesso tempo, già più film in curriculum: Clash of Titans, il classico Wuthering heights e Now is good dell’anno scorso, con Dakota Fanning, il big break che l’ha fatta conoscere agli agenti di Hollywood. Subito dopo sono arrivati copioni di film indipendenti, uno dei quali è Emanuel and the truth about fishes, scritto-diretto da Francesca Gregorini – artista, scrittrice e regista italiana, figlia di Barbara Bach e figlioccia di Ringo Starr – in cui si narra la storia-relazione di Emanuel (Kaya), sola, senza madre né famiglia, e la sua nuova vicina di casa, interpretata da Jessica Biel. Per questa pellicola Kaya è stata votata come l’attrice emergente del festival, ‘one of the new face of Sundance’, palmares precedentemente acquisito da Mary Elizabeth Winstead, Greta Gerwig, Brit Marling, Felicity Jones ed Elizabeth Olsen. Attendendo l’uscita della storia in America, attualmente ha due film in pre-produzione: Stay with me e Invisible.

COM’È STATO LAVORARE CON FRANCESCA? Quando ho letto la sceneggiatura mai avrei immaginato che sarei riuscita a ottenere la parte perché la storia era troppo interessante e pensavo che ci sarebbe stata una fila di attrici più qualificate di me che volevano quel ruolo. In effetti, la parte doveva essere di Rooney Mara, ma quando hanno trovato i soldi per fare il film Rooney era troppo ‘vecchia’, così, dopo aver incontrato Francesca, e chiacchierato per ore e ore, a un certo punto mi ha detto che il ruolo era mio. Abbiamo parlato di tutto tranne che del film. È stata molto coraggiosa, sa quello che vuole... speriamo, altrimenti è solo colpa mia.

RACCONTACI UN PO’ DELLA TUA INFANZIA. Sono cresciuta in un council flat – case popolari – a Holloway, nord di Londra. Mia madre è brasiliana, mio padre era inglese. Ci ha abbandonate quando avevo un anno e non si è mai più fatto vedere finché non ha scoperto che stavo diventando famosa. Prima che morisse ci siamo sentiti per telefono. Mi ha fatto piacere aver risolto almeno questo capitolo della mia vita. Dalla conversazione che ho avuto, ho capito che il senso dell’umorismo l’ho preso da lui, anche se la mamma per me è sempre stata sia madre che padre. Sono sempre stata indipendente, mia mamma ha sempre fatto fatica a controllarmi, avevamo discussioni continue sul fatto che voleva rientrassi sempre alle 8 di sera. Pensava al mio bene, non voleva vedermi incinta a 16 anni come tante mie amiche. Abbiamo sempre parlato di tutto, sesso, droghe, religione, politica.... Per entrambe, che pazienza!

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A SCUOLA COM’ERI? Mai stata una cima, non mi piaceva studiare. Ho dovuto subire un sacco di situazioni, fino ad aver cambiato varie scuole perché mi prendevano in giro per il look: magrissima, zero seno, zero curve e piatta come una tavola di legno, con i capelli crespi, che sfiga! Anche se non è mai stato bullismo fisico, ha decisamente influito sullo sviluppo interno della mia personalità, il ricercare me stessa in interessi che non fossero... accademici. Sono cresciuta forte anche grazie a mia madre che mi ha insegnato a parlare con proprietà di linguaggio e in una scuola come la mia il codice di comportamento sociale non era certo elevato agli standard della famiglia reale.

COME HAI INIZIATO A RECITARE? A un certo punto i continui soprusi mi hanno costretta a cambiare scuola. In quel periodo avevo anche scoperto di essere dislessica, quindi mi sono trasferita a Islington Arts & Media, dove ho iniziato a studiare recitazione. Grazie ai miei professori di inglese ho scoperto che la recitazione è meglio di qualsiasi droga, le emozioni che provi su uno stage o un set cinematografico sono il rush più intenso che si possa mai provare. Recitare mi ha aiutata ad avere sicurezza in me stessa, a diventare chi sono.

POI HAI OTTENUTO IL RUOLO NELLA POPOLARE SERIE TV, SKINS. Sì. Secondo me sta emergendo una nuova generazione di attori che non ha studiato formalmente la recitazione, ma che ha sensibilità ed esperienza di vita adatte a trasmettere messaggi e sentimenti che funzionano sia in televisione che al cinema. Non bisogna necessariamente essere ricchi o avere contatti per riuscire a ottenere una parte. Non è facile, ma se hai un sogno è giusto provarci. Può andarti bene, come è successo a me: a volte basta essere al posto giusto nel momento giusto.

MOON – IL FILM DI DUNCAN JONES, FIGLIO DI DAVID BOWIE – È STATO IL TUO PRIMO RUOLO CINEMATOGRAFICO. Avevo 14 anni, è stata la mia prima vera audizione. Mi ricordo che prima di andare ho pianto a dirotto perché la parte prevedeva un accento americano che non ero sicura che sarei riuscita a fare. Prima di allora non avevo mai provato, dubitavo delle mie capacità. Ho discusso con mia madre che dopo qualche ora mi ha convinta, corrompendomi con un Big Mac da McDonald! Quando ho incontrato Duncan sono rimasta colpita dalla sua passione. C’erano sempre problemi di budget, eppure l’atmosfera sul set è stata straordinaria, il film è magico. Mi ricordo che una volta, dall’emozione, sono svenuta sul set e Sam Rockwell è riuscito ad acchiapparmi al volo! Da raccontare adesso è una storia divertente, ma quando è successo ero in panico. Alla fine di tutto, ho ringraziato mia madre, la mia roccia da sempre.

DUE ANNI DOPO IL RUOLO DI CATHY NEL FILM WUTHERING HEIGHTS, TRATTO DAL ROMANZO DI EMILY BRONTË.


Quando mia hanno presa ero sotto shock. Prima di me avevano considerato per il ruolo Gemma Arterton e Natalie Portman. Ho sempre pensato che, non avendo mai studiato recitazione, non mi meritavo di ottenere una parte del genere.

CI SONO ATTORI CON CUI VORRESTI LAVORARE? Amo Tom Hardy. È bello, intenso, spontaneo, dolce e violento. Mia madre invece vorrebbe vedermi al fianco di Antonio Banderas. Lo adora da sempre.

PARLI PERFETTAMENTE PORTOGHESE. SAI ANCHE CUCINARE? Con mia madre non ho mai parlato una parola di inglese ed è una cosa di cui vado fiera. Amo la cultura brasiliana, il calcio, sono bravissima in cucina, mi piace passare ore davanti ai fornelli preparando feijoada – spezzatino di carne e fagioli neri, n.d.r. – o qualsiasi piatto con pinhão, i giganteschi pinoli brasiliani che uso per fare dolci e snack.

SI SA CHE AMI LA MODA, QUALI SONO I TUOI NEGOZI PREFERITI A LONDRA? Dopo aver smesso di fumare marijuana, l’unica droga che ho è la moda, le scarpe, i tessuti! Amo il vintage, il Camden market. Qualsiasi abito che abbia una storia ‘propria’ mi fa sentire felice quando l’indosso, mi dà una carica speciale. Non ho negozi che frequento religiosamente. Mi piace esplorare, sono una persona curiosa, non mi do molte regole perché mi piace essere libera di cambiare, di fare qualcosa di inaspettato. •

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ACCRA FENOMENI

ZITTO & COMBA TESTO CIRO CACCIOLA FOTO ORI SADEH

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TTI URBAN | 37


Sforna boxeur come sfogliatelle. Campioni del mondo di boxe come cervi a primavera. È un posto difficile in cui nascere, vivere, sopravvivere. Bisogna combattere, fare a pugni, darsele di santa ragione per avere di che mangiare. È così. Un posto come ce n’è tanti in Africa. Si chiama Bukom. Periferia di Accra, capitale del Ghana. Che sarebbe rimasto nell’oblio se non avesse dato i natali a cinque tra i più combattivi pugili di tutti i tempi. Ike “Bazooka” Quartey, David Kotei (che tutti chiamano DK Poison), Azumah Nelson detto “The Professor”, Joseph Agbeko e Joshua Clottey, il più giovane, vengono tutti da qui. Vere superstar per l’ex vicinato ed eroi nazionali per i ghanesi tutti. Ovvio che non abitano più in zona (il Professore ha villa con piscina, palestra e garden bar dall’altra parte di Accra, circondato da mura di protezione alte così). Però ogni tanto si fanno vedere in giro. Le loro famiglie restano qui, tra case fatiscenti e vie maleodoranti e bancarelle di cibo speziato dove decine e decine di giovani si ubriacano di boxe ogni giorno, nella speranza di trovare anch’essi, come i loro “fratelli” famosi, la via per il Bronx, dove da sempre si concentra una grande comunità di ghanesi, in costante migrazione, e dove i loro “bro” sono stati allenati, tirati a lucido e lanciati nel firmamento a stelle e strisce dei pesi medi, leggeri e soprattutto massimi. “Quando sono arrivato a Bukom l’impatto è stato duro. Ero continuamente molestato, la gente non mi lasciava andare in giro in pace e non potevo fotografare liberamente. Il feeling era che non ero per niente benvenuto in quella parte di mondo. Ma quando finalmente sono riuscito a entrare in uno dei club sportivi la sensazione è cambiata all’istante. Boxeur, allenatori e chiunque fosse lì a vario titolo erano tutti felici del fatto che io fossi interessato a loro e si sono subito resi disponibili a entrare in rapporto con la mia macchina fotografica”. A parlare è Ori Sadeh, photo doctor (così ama definirsi anche su Facebook) from Tel Aviv. “Quando ho iniziato a specializzarmi nella fotografia ho subito compreso che avrei potuto viaggiare per il mondo e farne uno strumento di vita. Guardo ciò che sta accadendo intorno a me attraverso il filtro del tipo di pellicola che ho nella camera e attraverso il tipo di lente e di obiettivo. Una visione che spesso mi insegue anche nei miei sogni. La cosa importante per me è riuscire a trasmettere un senso di verità, cerco sempre di non intraprendere azioni che possano alterare la realtà dei mondi che fotografo. Il mio approccio alla fotografia documentaria è pulito, perché non vivo di quello. Grazie a quello che guadagno con la fotografia commerciale posso concentrarmi sulle questioni che mi interessano. La maggior parte dei miei soggetti combina storia umana e interesse visivo. Per questo a un certo punto ho capito che dovevo andare a Bukom”. La zona in cui si trova la maggior parte del club sportivi è molto povera e pericolosa. Le persone vivono ammassate in piccoli capanni, sotto tetti di lamiera, ci sono ovunque uomini, donne e bambini impegnati nei lavori più improbabili. Molti vendono merci sulla strada: catene di moto, reti da pesca, pesce fritto e riso. “A Bukom c’è la legge del più forte” ha dichiarato Nelson The Professor in un’intervista alla Bbc: “Sin da quando sei piccolo devi procurarti da mangiare, devi lottare per te stesso per riuscire ad avere cibo e soldi. Tutto questo ti addestra, ti indurisce. Lottare non è poi un grosso problema”. Perché è come se la boxe facesse parte della cultura genetica di Bukom. Se due uomini o due ragazzini – non fa differenza – si trovano ad argomentare per la strada, la gente attorno non esita a incitarli: “Forza, sfidatevi, smettetela di parlare e combattete!”. “Quando viaggio in Africa niente mi sorprende perché tutto è sorprendente” ci dice Ori. “Fuori dai club sportivi era tutto molto pericoloso, soprattutto dopo il tramonto. La zona è piena di banditi canaglie e di ladri. Occasionalmente mi facevo scortare da qualcuno, per

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stare tranquillo. Ma in palestra l’atmosfera era completamente diversa. I ragazzi sapevano che le mie fotografie avrebbero messo in risalto le loro capacità. Mantenevo un profilo basso, cercando di non creare alcun disturbo, facendo il possibile perché tutto si svolgesse in maniera del tutto naturale, come se non fossi lì. A volte c’era un incredibile silenzio, una straordinaria concentrazione, in contrasto con tutto il frastuono di fuori”. Il regime di allenamento dei boxeur è molto duro, ma questo non gli impedisce di avere rapporti con il mondo esterno. Dopo tutto non sono mica dei monaci. “Accra ha una vita notturna molto vivace – continua Ori – ma nel centro, non nei sobborghi periferici tipo Bukom o Jamestown. Mi piacerebbe tornare ancora lì, questa volta per fotografare i pugili nella loro vita privata, fuori dal ring e dalle palestre, con le loro donne magari. Prima che sia troppo tardi. Gran parte dello charme tipico della cultura del Ghana purtroppo va scomparendo. Anche solo dieci anni fa era molto forte la musica popolare, tradizionale ghanese. Oggi invece un certo tipo di pop globalizzato ha preso il sopravvento, e il fascino di quei luoghi sta scomparendo”. Tornando a Bukom, colpisce il fatto che in una sola famiglia ci siano interi gruppi di pugili. In quella del campione del mondo Joshua Clottey, ad esempio, tutti e tre i suoi fratelli Micheal, Emmanuel e Judas sono pugili: “Se nasci da queste parti e vuoi uscire di casa a farti un giro devi essere forte, saper fare a botte, altrimenti saranno gli altri a picchiarti e ad avere la meglio su di te”, ha dichiarato con aperta sincerità il campione. L’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra ha tentato uno

studio su Bukom, per capire il perché di una tale concentrazione di boxeur, quasi si trattasse di un fattore genetico in quella popolazione. Ma l’influenza dei fattori ambientali sembra aver avuto la meglio su ogni altra spiegazione scientifica. D’altro canto, non basta la vita di strada e una vita di botte per fare un campione del mondo. Ci vuole un costante allenamento, e una attitudine alla sopravvivenza, fuori e dentro il ring. Le scuole di boxe a Bukom intanto prolificano come il fufu, il piatto tipico locale. Piene di sogni e di vecchi (a 40 anni) allenatori con il proprio campione del mondo, da qualche parte, nel cassetto. •

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ROMA & CO. NIGHTLIFE DI LORENZO TIEZZI

BOLOGNA LIVE ARTS WEEK La seconda edizione di Live Arts Week ha una sorta di sottotitolo, Gianny Päng, un’astrazione che dovrebbe crescere a livello biologico durante la settimana dal 16 al 21 aprile. L’arte contemporanea è un po’ complicata da spiegare, ma il suono del violino di Tony Conrad e i suoi film minimali di solito colpiscono. Proprio come i concerti rumorosi del londinese Luke Younger, sul palco semplicemente Helm. Sabato 20, al Cassero vanno in console Miss Kittin e Alex Smoke. Anche loro fanno rumore, ma lo organizzano in battute da quattro quarti, così il concetto diventa facile da seguire.

ROMA & CO. BICEP Andy Ferguson e Matt McBriar vengono da Belfast e fanno musica insieme fin dagli anni del liceo. Il loro successo lo devono a una passione comune per la disco, la house e gli anni ’80 in genere. Hanno condensato tutto in un blog per maniaci musicali come Feelmybicep.com. È l’unico posto al mondo in cui si possano ascoltare e/o scaricare decine di remix di Fleetwood Mac o Sade. Il fatto che i remix siano illegali è solo un dettaglio insignificante. Anzi la house è semplicemente un furto musicale. Anche i Bicep rubano tutto, ma hanno lo stile di Cary Grant in Caccia al ladro. Il 19 aprile al Lanificio 159, Roma; il 20 al Tunnel, Milano; il 24 aprile al Cielo, Firenze.

www.liveartsweek.it

www.soundcloud.com/feelmybicep

ART DEPARTMENT NAPOLI SVEN VÄTH L’amore che i clubber italiani hanno per papa Sven (i fan lo chiamano così) è infinito. Il dj tedesco ricambia suonando in Italia spesso, ma solo quando i party possono diventare leggendari. Al Metropolis di Napoli, il 24 aprile, per esempio, organizzano gli eterni Angels of Love. Tra tanti superstar dj, Väth è un mito e come tale può permettersi di lanciare talenti (Ricardo Villalobos, Loco Dice...), creare universi musicali come Cocoon e fregarsene delle hit del momento. La differenza in console si sente tutta. www.sven-vaeth.de

Si chiamano come una facoltà universitaria, ma invece di perder tempo a scrivere o leggere libri gli anni li hanno passati in studio e in discoteca, fino a diventare il dj duo più cool del clubbing internazionale. Kenny Glasgow e Johnny White hanno un certo gusto nello scegliere t-shirt e occhiali da sole, e poi sorridono parecchio. Le loro armi segrete, però, non sono certo solo queste. Social experiment, la loro nuova compilation, è uscita da poco e arriva dopo The drawing board, l’album d’esordio uscito un paio d’anni fa. Nel frattempo è cambiato tutto. La lunga carriera di produttore di Kenny, uno che fa tech house dalla fine degli anni ’80, e No. 19, la label di Johnny, restano oggetto di culto per pochi. I loro remix e i loro live set come Art Department, invece, li vogliono un po’ tutti. Non c’è da stupirsi. I sintetizzatori sono presi in prestito dagli anni ’80, i ritmi sono ipnotici ma mai estremi. La cassa della batteria batte per segnare il tempo, non per rimbambire. Basterebbe, ma spesso arrivano anche melodie funk & soul che liberano corpo & mente mentre si balla. Viene da chiedersi come i clubber nostrani, abituati a ben altra potenza di fuoco, accoglieranno tanta dolcezza. Come tutti i dj guest di questo mondo, gli Art Department entreranno in sintonia col dancefloor oppure lasceranno la console ai dj resident. La notte può anche essere dolce, ma le sue regole sono ferree. 18 aprile – Goa, Roma 19 aprile – Amnesia, Milano 20 aprile – Jubilee, Corato (Ba) 21 aprile – Cirq, Musile del Piave (Ve) www.facebook.com/artdepartmentmusic

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LONDON & CO. LIBRI DI MARTA TOPIS

I MELROSE EDWARD ST. AUBYN Neri Pozza, 2013 456 pp., 18 euro Edward St. Aubyn (Londra, 1960) è il discendente di una famiglia inglese di alto lignaggio, il classico rampollo della upper-class, ben istruito ma con qualche “ombra” nel passato: prolifico scrittore, ha costruito una sorta di suo alter-ego in Patrick Melrose protagonista di questa intrigante ma sarcastica saga che non è un memoir. All’estero ha fatto gridare a un nuovo Evelyn Waugh o Oscar Wilde. I Melrose, così come viene pubblicato in Italia, contiene quattro romanzi (scritti in oltre 22 anni), che rappresentano i capitoli di un’unica storia (il quinto uscirà nel 2014): un racconto di formazione che esordisce con il piccolo Patrick vessato da un padre complicato e cresciuto da una madre annebbiata dall’alcol (Non importa), prosegue con un ventiduenne eroinomane che va a New York per recuperare le ceneri del padre (Cattive notizie), continua in un party nella campagna inglese dove appare ripulito ma disgustato dalla vita (Speranza), fino alla resa dei conti con la propria famiglia, dove solo i figli sembrano dargli ossigeno (Latte materno). Ma per quest’uomo, consumato dal demone di una vita sbagliata, non è ancora finita… Per chi non ce la fa, non resta che acquistare l’ultimo capitolo (At last) già uscito a Londra, in versione originale. L , e leggerlo gg g

BOZZA ROSA YASSIN HASSAN

LA PRODUZIONE DI MERAVIGLIA GIANLUIGI RICUPERATI

IL SIRENTE, 2013 224 pp., 15 euro

MONDADORI, 2013 180 pp., 18 euro

“Per un anno e mezzo, due mesi e quattro giorni” il narratore onnisciente di questo romanzo, sorta di agente segreto che non abbandona mai il proprio computer portatile e che rimarrà anonimo fino alla fine, compie intercettazioni telefoniche, che lui stesso poi monta come pezzi di un puzzle mescolandoli tra di loro secondo la propria immaginazione. Il risultato è la “bozza”, prima prova di un libro i cui personaggi sono i suoi “sorvegliati speciali”: un figlio che cura la madre immobile a causa di un incidente e di cui vede nudità prima sconosciute; una donna che scappa dal marito che la maltratta ubriaco d’araq perché è stato esonerato dal giornale del partito; una figlia diventata bulimica per sopportare i litigi dei genitori; fino alla surreale conversazione di un uomo che preferisce amare un manichino piuttosto che una prostituta. Questa però – svelerà solo alla fine l’autrice siriana – è la parte narrativa del racconto, perché quella politica (le conseguenze provocate da censura e controllo dittatoriale) è destinata ad altro lettore. Bozza rappresenta uno sguardo diverso, ma sempre tagliente, sulla primavera araba ancora in corso.

Giovane (classe 1977) neodirettore della prestigiosa Domus Academy, Ricuperati è giornalista, curatore e scrittore: al successo di Il mio impero è nell’aria, oggi segue questa seconda intrigante prova di scrittura, un romanzo visionario sulla passione di due amanti “speciali”. Lui è Remì, un campione di poker, muto e con disturbi del sonno; lei è Ione, bella e viziata figlia di un chirurgo arrestato per questioni di mazzette: li impariamo a conoscere in volo su un piccolo aereo da turismo, dove lentamente scopriamo la loro infanzia e come si sono incrociate le loro vite, con lui che si esprime attraverso una serie di immagini che ha fatto plastificare come un mazzo di carte (e che poi formano una sorta di innovativa gallery nel testo che ri-racconta la storia), e lei che si fa ammaliare da questo misterioso silenzio. Fino al momento in cui il gioco di seduzione, condotto da Remì in chat come un mind game, rompe ogni barriera… Una storia concettuale che per essere capita va letta fino all’ultima riga e, come in ogni videogame che si rispetti, va raggiunto l’ultimo livello.

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SINGAPORE & CO. FENOMENI

SSee è vero vero cche he ssiamo iamo quello che mangiamo, m angiaamo, il cibo cibo di strada è un mattone m attone su cu cui ui ssii eerge la città. Mai M ai come come ora. ora. M Mai ai come in Asia ((parola parola d dii cchef) heff ) TESTO MIRTA OREGNA

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In Asia lo street food, l’onnipresente cibo di strada, ieri come oggi, fa parte del dna di chiunque, qualsiasi classe sociale appartenga o lavoro faccia. In Vietnam, per esempio, è un rito che appartiene alla cultura collettiva tanto che mangiare in solitario non è benvisto ed è stato coniato il detto “an mot minh dau tuc”, che letteralmente significa “mangiare da soli è doloroso”! Tutta un’altra storia rispetto al Giappone dove, al contrario, mangiare e bere per strada risulta maleducato, per cui nella metropolitana di Tokyo si mangia su mensole faccia al muro, vergognandosi di mettere in bocca un sushi al volo… Cina, Hong Kong, India e Thailandia (con il Vietnam di cui sopra) sono invece da sempre la patria dello street food: ogni backpacker che si rispetti nel raccontare i propri viaggi a Oriente finisce sempre per snocciolarti con una punta di superbia le incredibili specialità che ha assaggiato in quel banco del mercato o all’angolo della tal strada, saporite leccornie migliori di qualsivoglia ristorante stellato… E come dargli torto? Quei cibi emanano profumi che si imprimono nella memoria (e sui vestiti) più di ogni altra cosa: irriproducibili nelle foto, figurarsi nella cucina di casa! Per fortuna lo street food sta invadendo anche l’alta cucina, con i top chef impegnati a rivisitare le ricette di quartiere in un ancestrale ritorno alle origini nonché rimedio all’imperante crisi che impone ingredienti poveri e reperibili: bocconi invitanti che rappresentano sempre, in modo più o meno aperto, lo specchio dell’anima della metropoli in cui sono nati. Tanto il tema è caldo che la rivista Restaurant e San Pellegrino, in occasione della prima edizione degli Asia 50 Best Restaurants a Singapore lo scorso febbraio, ha organizzato un workshop Asian street food: old and new. Il cibo di strada reinterpretato e discusso da quattro super-chef: David Thompson del Nahm, lussuoso ristorante all’interno del Metropolitan by Como di Bangkok; Gaggan Anand, indiano di stanza nella capitale thai; il “demon chef ” Alvin Leung del Bo Innovation di Hong Kong (da dicembre anche a Londra) e, infine, il vietnamita Nam Quoc Nguyen, da poco rientrato al timone di Annam a Singapore, locale specializzato in cucina del Vietnam 2.0. Mescolando un kaeng pa, un “feroce” jungle curry che si compra nei mercati a nord di Bangkok, zupposo e molto piccante, in cui nuotano i kanom jeen noodle, bianchi spaghetti di riso importati nel paese cento anni fa dai mercanti cinesi, David Thompson (peraltro autore di Thai street food, 2010) ci fa capire come “qui, tempo e gusto si combinano bene. I Thai sono ossessionati dal cibo, consumato a casa con riso nei pasti tradizionali, o da solo, come snack per strada, diverso per ogni fascia oraria”. Ma, al contrario di quanto si pensi, lo street food in Thailandia è qualcosa di relativamente recente, che risale agli anni ’60, quando i contadini lasciarono i villaggi per cercare fortuna nella capitale e impararono a riunirsi e mangiare per strada, mentre la prima grande spinta fu data a inizio secolo dall’immigrazione cinese con le sue frotte di poveri venditori ambulanti. Curiosamente, anche in India, dove la tradizione di strada è autoctona e radicata nel tempo, il piatto del momento è la versione indiana del chow-mein cinese, stir-fried noodles conditi a piacere. Parola di Gaggan Anand, chef originario di Calcutta, paese in cui si finisce addirittura per sudare speziato e “dove – sottolinea lui stesso – ad ogni metro c’è un banchetto che vende cibo, qualsiasi cosa tu voglia mangiare qualcuno te la venderà! E tale e tanta è la varietà di sapori che non basterebbero 20 ristoranti specializzati!”. Pur lavorando a Bangkok, Gaggan ogni due per tre torna in India (prossima destinazione Varanasi alla scoperta del thandai, bevanda estiva a base di latte e zafferano) per rinfrescare gusto e memoria della propria terra: i piatti comuni rappresentano una condizione imprescindibile della sua cucina moderna, infatti recitando il mantra imparato da Adrià al Bulli “costruire- destrutturare”, Anand parte da ricette popolari, le scompone e ricompone con tecniche contemporanee, dando vita a piatti iconici come il Kulfi LN2, dessert gelato dell’India meridionale che si prende nelle calde serate estive, uscendo per una passeggiata, qui raffreddato con l’azoto liquido, oppure le tandoori lamb chops, ma cotte sottovuoto a bassa temperatura, o il Papdi Chaat Year 2050, frittella pakistana con yogurt speziato, che Anand sferifica. Ci sono poi paesi in cui il cibo di strada diventa, come in Vietnam, parte integrante della vita quotidiana: è il caso del pho quintessenza della nazione,

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un brodo di manzo con noodles venduto a ogni angolo di strada (sin dall’alba quando costituisce un energetico rinforzo dopo gli esercizi di tai-chi nel parco), le cui nebulose origini rimandano alla colonizzazione francese di inizio Novecento (pho sarebbe la trasformazione fonetica di feu del pot-au-feu): ciascuno ha il suo indirizzo del cuore e lo chef Nam Quoc Nguyen, vietnamita dai natali danesi, ama Pho Ha ad Ho Chi Min City (ex Saigon), dove il pho ga di pollo (un tempo riservato a donne e bambini e diffusosi quando il manzo non si trovava) viene servito in grandi ciotole e stracolmo di ingredienti (anche se nel nord, ad Hanoi dicono che ciò è maleducato). “Un pho delicious, tutta tradizione, nessuna sperimentazione!”. C’è poi l’onnipresente nuoc mam, salsa di pesce fermentata che sta alla dieta viet un po’ come l’olio d’oliva a quella mediterranea: “nel caso della phu quoc, la più pregiata – spiaga Nam Quoc – viene stagionata in botti dello speciale legno di boi-loi… un po’ come i vini nelle barrique di rovere!”. Con la guerra del Vietnam e l’embargo americano, il cibo di strada ha sofferto un po’ e questo spiega come il monopolio dei commerci di salsa di pesce poi sia finito nelle mani della Thailandia, ma oggi è indubbiamente rifiorito. Tra i piatti più pop dello street food asiatico resta l’oyster omelette, nato negli anni ’50 per utilizzare uova rotte: Alvin Leung istrionico fondatore della cucina “extreme chinese” lo ha trasformato in “fine dining”, ovvero un egg waffle, fragrante, dal cuore morbido di salsa d’ostrica, decorato con crema di bottarga, che è poi salsa di pesce in versione lusso. E per divertirsi rivisita anche il toast servito con milky-tea nei cha chaan teng della città, luoghi – per capirci – che stanno agli abitanti di Hong Kong come i diners stanno agli americani, ma finisce con il convincerci che il dna del cibo di strada non è cambiato né cambierà: “è economico, rassicurante, disponibile subito e tutti i giorni e soprattutto buono”. Certo, nelle metropoli una volta viveva per strada solo la working class. Ora che le classi non esistono più (e che siamo sempre di corsa) in strada ci viviamo tutti e quindi dal banchetto del mercato si è passati al negozietto (o al ristorante), qualche ingrediente si è raffinato, e magari gli odori non sono così forti, ma il piacere di mangiare in piedi o con c le mani non ce lo toglie nessuno! •


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VENICE BEACH ARTE

TESTO FRANCESCA BONAZZOLI

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Una complessa tecnica di stampa, un processo concettuale piuttosto elaborato. Una rappresentazione dello skateboarding che arriva dritta al cuore


LA METAFISICA DELLO SKATE

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Table Top, Archival lightjet print, 2013


Skate Wave Study Version One, Archival inkjet print, 2013 Skate Wave Study Version Three, Archival inkjet print, 2013 Cutting Board, Archival lightjet print, 2013

Ci sono artisti per i quali l’arte è metafisica, ossia qualcosa che va oltre le cose fisiche, “metà ta fisikà”, come dicevano gli antichi greci. Così è stato per Malevic con il suo quadrato bianco e il movimento suprematista che mirava al “nulla liberato” di un mondo non oggettivo, al di là del tempo e dello spazio sensoriale. Lo stesso per lo Spazialismo di Lucio Fontana con le sue tele tagliate e bucate che aspiravano ad andare oltre lo spazio bidimensionale e oltre il contenuto. E così è anche per Kelly Barrie, nato a Londra nel 1973, autore di una serie di stampe digitali ispirate alle superfici dove fare skateboard. Non esageriamo, direte. Mettere insieme Malevic e Fontana con Barrie è eccessivo! In effetti ci rendiamo conto dell’enormità del paragone, ma come altrimenti si potrebbe definire, se non metafisica, la complessa operazione di sintesi e astrazione che fa l’artista inglese quando riduce a getti di luce bianca le curve di cemento su cui volteggiano gli skater di città? Non sarà, la sua, la metafisica strutturata e portentosa di un Kant, bensì quella di un filosofo di minor rigore, ma sempre un tentativo di metafisica è. Basta pensare ai colori sgargianti, ai disegni, alle tag, alle grandi scritte che coprono le tavole da skateboard o i muri di cemento dove gli appassionati si radunano per esercitarsi ed esibirsi, per capire il salto concettuale che ha compiuto Kelly Barrie con la sua imprimitura di luce bianca sulla carta fotografica nera. L’artista ha abbandonato tutto il rumore visivo e l’energia giovanilista di quel mondo basato sull’acrobazia del movimento per generare immagini silenziose, in bianco e nero, coni con l’interno cavo che sembrano ruotare nel vuoto dell’universo con un moto statico come il satellite di Kubrik in 2001 Odissea nello spazio. Guardi le stampe esposte alla galleria Marine Contemporary di Venice, in California, e pensi a oggetti cosmici, ma poi scopri che in realtà stai davanti alla visione di enormi condutture di cemento, del diametro di 22 piedi, servite nel 1968 per il Central Arizona Project (CAP), il più vasto progetto idrico mai attuato per convogliare le acque. Le tubature erano così grandi che il cemento dovette essere colato e stampato nel calco direttamente sul posto. Così, mentre ancora aspettavano di essere interrate, quelle condutture colossali divennero una mecca per gli skater che accorsero da tutta la regione, sfidando la rete di sicurezza e l’arresto. Nessun deterrente poteva fermarli dal provare a scivolare su quell’onda gigante comparsa nel deserto, come se, nell’Oceano, si fosse d’improvviso sollevata la grande onda che tutti i windsurfer aspettano. Il modo di lavorare di Barrie è sorprendente perché arriva all’astrazione attraverso una complessa ricostruzione fittizia della realtà: metodo che sembra fatto apposta per complicare la vita. Ogni stampa digitale è un ibrido di fotografia e disegno che serve a ricreare eventi storici rievocandoli con attrezzi da camera oscura e pigmenti fotografici bianchi luminescenti impressi su carta nera continua. I disegni su carta fotosensibile sono poi riprodotti con

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Down Hill Pipe Study, circa 1984, Archival inkjet print, 2013

una macchina da 35 mm, riassemblati insieme digitalmente e prodotti in scala come un’unica stampa fotografica continua. Se non avete capito va bene lo stesso perché tutto questo complicato processo fa parte della struttura metafisica dell’opera. Del resto, quella che lo stesso Barrie considera come il lavoro centrale dell’intera mostra di Venice, è una rampa in fiberglass di dieci piedi di altezza, dal titolo Skate Wave circa 1977. Una scultura che all’apparenza sembra una sezione di una piscina vuota di cemento, di quelle usate dagli skater. Era un “oggetto da allenamento” che negli anni Settanta poteva improvvisamente comparire in una spiaggia remota o in un parcheggio e poi, alla fine di una sessione, spariva tornando a lasciare il vuoto. E come gli originali, anche lo Skate Wave di Barrie può essere spezzato in due parti e caricato sul retro di un pick up per raggiungere le sue diverse destinazioni. Insomma, quella che Berrie ci propone è un’arte astratta che parte da ricostruzioni concrete ricavate da immagini storiche a loro volta ricostruite. Se non è un impianto teoretico per una metafisica dell’arte, ditemi voi come altrimenti potremmo chiamarlo. •

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MILANO FASHION

ALESSANDRO

FLOWER POWER DAY ROBERTA

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Uno scaramantico rito per la primavera che non arriva. Una promessa perché la prossima sia una Summer of Love. Una polaroid per svelare la propria hippie attitude. Allo store MCS di Milano, Urban ha liberato l’energia Flower Power


LANFRANCO E DAVIDE

DONATELLA

FOTO TATIANA UZLOVA STYLING IVAN BONTCHEV LOCATION MCS STORE — MILANO

ELEONORA

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NEW YORK DETAILS DI IVAN BONTCHEV E TATIANA UZLOVA

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1. schneiders salzburg: sciarpa cotone e seta, 85 euro. 2. mafalda 86: occhiali in acetato ricavati da scarti di lastre vecchie, 240 euro. 3. wesc: cappello in tela di cotone, 30 euro. 4. marni: t-shirt in cotone stampato in collaborazione con l’artista Rop Van Mierlo, prezzo su richiesta. 5. levis’s waste<less: jeans ricavato a partire da bottiglie di plastica, 112 euro. 6. timberland: scarpe in canvas riciclato, 109 euro

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MILANO FASHION

PUNK

PUNK PUNK! Bianco e nero ma con un po’ di rosso. Gonne corte con plissé e cappotti oversize, tessuti a rete e capi maschili. Un po’ grunge, un po’ glam, ma soprattutto...

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FOTO JESSIE CRAIG STYLING IVAN BONTCHEV


Jeans a righe, felpa to maschile e blazer, tut closed o Cappello, borsalin

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Maglione di cotone, mango Gonna plissÊ di chion, american apparel Calze a rete, calzedonia

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Maglia a rete, manila grace Gonna nera, avaro figlio

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T-shirt, gang gang dance (stylist’s own) Gonna plissé di chiffon, edward achour Giacca biker di pelle, htc Calzini, ovs Scarpe, underground

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Camicia chiffon nera, c’n’c Camicia a quadri, mcs Gonna di pelle, mango Cappello, borsalino

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Camicia e short in maglia di lurex, anteprima Gilet di paillette, pepe jeans Reggiseno in seta, massimo rebecchi Calzini, ovs Scarpe, underground

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Maglia a rete, augustin teboul Reggiseno, tezenis Pantaloni, c’n’c

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Camicia a quadri, denim & supply ralph lauren Short di pelle, augustin teboul T-shirt, tezenis

ADDRESS LIST American Apparel, www.americanapparel.net. Anteprima, www. anteprima.com. Augustin Teboul, www.augustin-teboul.com. Avaro Figlio, www.avarofiglio.com. Borsalino, www.borsalino.com. C’N’C, www.costumenational.com. Calzedonia, www.calzedonia.it. Closed, www.closed.com. Denim & Supply, www.denimandsupply. com. Edward Achour, www.edwardachourparis.com. HTC, www. htclosangeles.com. Mango, www.mango.com. Manila Grace, www. manilagrace.com. Massimo Rebecchi, www.massimorebecchi.it. MCS, www.mcsapparel.com. OVS, www.ovs.it. Pepe Jeans, www.pepejeans. com. Tezenis, www.tezenis.it. Underground, www.undergroundengland.co.uk.

Makeup: Alice Coloriti using Laura Mercier. Modella: Linnea Groendahl @ Elite Milano. Assistente moda: Giulia Meterangelis. Assistente fotografo: Giuseppe La Rosa. Per la location si ringrazia Closed Showroom Milano, via Tortona 31.

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BAR, RISTORANTI & CO.

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MILANO ULTIMA FERMATA DI FRANCO BOLELLI

UNA TESTA, UNO STILE Proprio come Los Angeles. Nessun centro. Che può voler dire tanto ritrovarsi disorientati senza punti di riferimento quanto avere la possibilità di scegliere da te il tuo centro fra i tanti possibili. È così – come Los Angeles – che vanno ormai le cose negli stili, nelle tendenze, nei linguaggi del qui&ora. Più nessuna onda dominante, nessuna corrente che segna un’intera epoca. Finora – i non adolescenti se lo ricorderanno – funzionava così: al centro della scena c’era uno stile, e a un certo punto ne arrivava un altro di sapore opposto che relegava in soffitta quello precedente. Gli anni ’70 impegnati e seriosi, e dopo gli anni ’80 cinici e modaioli, e dopo i ’90 spiritual new age. Prima l’utopia hippie, poi il no future punk (in musica, prima il progressive sontuoso e raffinato, e poi la grezza immediatezza dei quattro accordi). Prima le ideologie totalizzanti e la modernità, dopo il pensiero debole e il post-moderno. Ecco, un giorno tutto questo implode e si riduce in polvere: il mondo diventa globale, tutto si connette con tutto, la nostra mente da verticale si fa orizzontale, così che c’è spazio per tutto, e gli stili e le mode si ritrovano

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a convivere l’uno con l’altro. Se cercate un centro di gravità, devo darvi una notizia: non ci sarà mai più. Ora che ci siamo abituati – milioni di noi – a Fateci caso: quanto più una città è fare da noi le nostre sintesi personali evoluta, quanto più è espressione del e a cercare esperienze peculiari se non mondo globale, tanto più ogni volta che uniche, qualunque cosa – stili e mode, ma ci andate non potete non accorgervi che anche ideologie e religioni – si proponga aumenta il numero di bambini che non si come unità di misura centrale non ha più riesce a definire in base ad alcuna identità la minima chance di successo. Se poi sei etnica e razziale. È così a New York, “indie” e underground e adesso ti ritrovi a Los Angeles, e poi a Londra, e giù a con la possibilità di avere attenzione e scendere. Le grandi metropoli sono sempre condivisione ritagliandoti una tua nicchia più popolate da spettacolari frullati neanche troppo ristretta, figurati se ti genetici, seconda o terza generazione di viene in mente di provare, come accadeva combinazioni dove le origini scivolano un tempo, a rivolgerti a un’audience più sempre più sullo sfondo e nuove misteriose generalista. Chi ha bisogno di essere al sfumature conquistano la scena. Ok, non centro quando ci sono ormai tanti centri tutte riusciranno come Jessica Alba o come possibili? – permettetemelo – la spettacolare bambina Proprio come Los Angeles, questo californiana di mio figlio (babbo milanese e mondo dove la principale tendenza è la madre di San Francisco ma taiwanese): però moltiplicazione di diversissime tendenze questa condizione indefinibile e plurale sta si rivela un appassionante habitat diventando non dico trendy ma in qualche naturale per chi dispone di una bussola modo familiare. D’altra parte qualunque interiore che lo porta a scegliere da sé evoluzione in qualunque campo è sempre e un puzzle dannatamente complicato per nata da connessioni al di là dei confini, chi ha bisogno di un punto di riferimento e viceversa le culture più arretrate sono quel tanto stabile. Si chiama evoluzione: quelle difensivamente arroccate su se quando non c’è più uno stile uguale per stesse. Per esempio le città di frontiera tutti, è tempo di imparare a essere il hanno sempre avuto una loro particolare proprio stile.

DON’T FORGET




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