urban 114

Page 1

Poste Italiane spa - Spedizione in abbonamento postale 70% DCB Milano

MAGGIO 2013 NUMERO 114





SOMMARIO 7 | EDITORIALE

48 | THE WHITE SIDE OF THE HILL

9 | ICON

foto Cristina Capucci styling Ivan Bontchev

11 | INTERURBANA

58 | NIGHTLIFE

al telefono con Marta Imarisio

di Lorenzo Tiezzi

13 | PORTFOLIO

59 | FUORI

Farfromwords a cura di Floriana Cavallo

66 | ULTIMA FERMATA di Franco Bolelli

21 | CULT di Michele Milton

22 | NICOLAS WINDING REFN di Roberta Valent ritratto Sam Christmas / Contour by Getty Images

26 | SKYLINE DA TACCUINO di Franco Bolelli illustrazioni James Gulliver Hancock

30 | GLI INCANTESIMI DI GRIMES P. 22

di Paolo Madeddu foto Hedi Slimane / Trunk Archive

32 | MUSICA di Paolo Madeddu

34 | UTOPIA BIENNALE di Francesca Bonazzoli

P. 38

38 | SALUTI DA COACHELLA di Roberto Croci

P. 26

43 | LIBRI di Marta Topis

44 | PAGINE DI JEANS di Ciro Cacciola

46 | DETAILS di Ivan Bontchev e Tatiana Uzlova

Cover: foto Cristina Capucci Giacca Byblos, short di pizzo Pepe Jeans

MENSILE, ANNO XIII, NUMERO 114 www.urbanmagazine.it redazione.urban@rcs.it

Facebook: Urban Magazine Twitter: Urbanrcs

URBAN

DIRETTORE RESPONSABILE Alberto Coretti alberto.coretti@rcs.it

CAPOSERVIZIO Floriana Cavallo floriana.cavallo@rcs.it

FASHION a cura di Ivan Bontchev fashion.urban@rcs.it

PROGETTO GRAFICO Topos Graphics

SEGRETARIA DI REDAZIONE Rosy Settanni rosy.settanni@rcs.it

DIRETTORE MARKETING Giancarlo Piana

DISTRIBUZIONE PLP s.a.s. Padova tel. 049.8641420

ART DIRECTION Sergio Juan

via Rizzoli, 8 · 20132 Milano tel. 02.25.84.1 / fax 02.25.84.2120 testata del gruppo City Italia S.P.A.

FOTOLITO Airy s.r.l. via Russoli, 1 20143 Milano

STAMPA San Biagio Stampa S.p.A. via al Santuario N.S. della Guardia, 43P rosso 16162 Genova

PUBBLICITÀ Milano Fashion Media Luca Napolitano Corso Colombo, 9 20144 Milano tel. 02.5815.3201 lnapolitano @ milanofashionmedia.it

URBAN | 5



EDITORIALE

TENSIONE SUPERFICIALE Quando guardo un oggetto o un corpo sono sempre attratto dalla loro superficie. È come se ogni volta l’interazione fra l’ultimo strato di quello che sto guardando e il mondo che lo circonda costruisca un racconto molto più intrigante che non il capire che cosa ci sia dentro. I disegni delle facciate dei palazzi di Manhattan delle prossime pagine ci fanno respirare New York molto di più che se conoscessimo esattamente quello che succede al loro interno. Come anche la mostra sulla comunicazione del denim: la stoffa di un paio di jeans riesce a spiegare la nostra contemporaneità più facilmente di un libro di storia. E poi la modella in copertina. La sua schiena scoperta esprime meglio di mille parole l’ansia di primavera che finora ci è stata negata. In fondo, non c’è nulla di più profondo della superficie delle cose.

HANNO HA ANN NNOO CO COLLABORATO OLL LLABBORRATTO CON NOI CCO ON NNO OI Franco Bolelli Francesca Bonazzoli Bruno Boveri Ciro Cacciola Cristina Capucci

Roberto Croci Daniela Faggion Paolo Madeddu Michele Milton Mirta Oregna

Sara Rambaldi Leo Rieser Laura Ruggieri Lorenzo Tiezzi Marta Topis

Tatiana Uzlova Roberta Valent

URBAN | 7



LOS ANGELES ICON

L’OGGETTO DEL MESE

LUNCH BOX SCELTO DA JOHNNY DEPP “L’immaginazione ti fa volare, proprio come le ali di cera di Icaro. E il mezzo con cui ho cominciato a sognare nuove vite non fu altro che il mio primo lunch box, oggetto classico americano, primo prototipo di merchandising cinematografico. Da bambino, all’asilo, era l’unico oggetto con il quale potevo trasformarmi, passando da Superman a Scooby-doo, da Kung fu a Wonder woman all’Uomo bionico. Il mio sogno era quello di diventare ovviamente The lone ranger, paladino di cowboy e pionieri. Messo davanti alla scelta fra uomo di legge e pellerossa… ho sempre preferito interpretare l’indiano!”. • Vedremo Johnny Depp in The lone ranger, il nuovo spettacolare action western targato Disney/Gore Verbinski, in uscita la prossima estate in Italia

URBAN | 9



DAKAR INTERURBANA DI DANIELA FAGGION

AL TELEFONO CON

MARTA IMARISIO PERCHÉ UN ITALIANO SI TRASFERISCE A DAKAR? Ognuno ci arriva un po’ per i fatti suoi. Per me è stato il surf, per altri la curiosità e la mancanza di lavoro, ma tanti sono qui per una Ong, un’associazione o un’istituzione. A Dakar ci sono tutti gli uffici possibili e immaginabili, perché questo è il fulcro dell’Africa occidentale.

PER IL SURF NON È LA PRIMA META CHE VIENE IN MENTE. CHI SEGUE L’ONDA?

La comunità di surfisti a livello locale sta crescendo, un po’ grazie ai surfisti occidentali che portano l’attrezzatura, un po’ grazie ai surf camp che offrono lavoro. UN LAVORO CHE È DIVENTATO IL TUO. I TUOI MOTIVI PER RESTARE? La gente è estremamente ospitale e non si prende troppo sul serio, tanto che per noi occidentali può essere difficile da comprendere all’inizio. E poi vedere che c’è tanto da fare e che – se hai un po’ di testa – puoi fare. Se hai dei progetti ti viene voglia di realizzarli e di sfruttare tutte queste potenzialità. E la popolazione locale ti segue perché non saprebbe da che parte cominciare.

QUAL È STATA LA PRIMA IMPRESSIONE CHE TI HA DATO DAKAR? Caotica, ma con tanti colori e profumi da non sapere dove guardare. Condizione ideale per gli abilissimi venditori locali, che distinguono i turisti anche solo per come camminano e li tartassano. La loro capacità di osservazione è davvero straordinaria. UN POSTO CHE CI PORTERESTI SUBITO A VEDERE? La città non è un granché architettonicamente, però a me piace molto il Centro Culturale Francese, una vecchia struttura con un enorme baobab all’interno. Un’oasi tranquilla in una città piena di rumore, clacson, macchine, gente che va, gente che viene...

SIAMO GIÀ STANCHI! CHE EFFETTO HA IL MARE SULLA CITTÀ? Dakar è al centro di una penisola, ma la brezza marina si sente bene, ci sono le palme, quando sali in cima allo stadio vedi il blu dai due lati... Decisamente, lo “senti”.

CHE EFFETTO HA INVECE IL CALCIO? Sono patiti di calcio e di lotta senegalese, che è lo sport nazionale. Più il combattimento è importante, più lo stadio è grande e i biglietti vanno esauriti una settimana prima! E poi i negozi che chiudono, nessuno in strada e tutti davanti alla tv.

QUALCOSA CHE HAI TROVATO A DAKAR CHE NON RIMPIANGI DELL’ITALIA? Un’attitudine a selezionare i problemi veri e ad affrontare il resto senza lamentarsi troppo. E una comunicazione più essenziale fra le persone, fatta anche di tanti silenzi. ANCHE IN AFRICA PERÒ SI STANNO DIFFONDENDO TANTISSIMO I CELLULARI... Per lo più senza credito però. In realtà vengono usati soprattutto per ascoltare musica.

E QUAL È LA COLONNA SONORA DI DAKAR? Musica senegalese, da Vivian a Youssou N’Dour, passando per il tappeto di tamburi dei balli tipici. DOVE CI PORTI A BALLARE? Mi vengono in mente posti che non trovi sulle guide, dove vanno solo i senegalesi. Fra gli altri il Piano Piano, che aveva proprietari italiani, e lo Yangoulene.

PRIMA DI SALUTARCI UNO SPUNTINO A BASE DI... Il super tipico thiep bou dien. I piatti sono sempre a base di riso, verdure e pesce. Cambia la salsa e il modo in cui cucini i diversi ingredienti.

MARTA IMARISIO, torinese, in Italia lavorava per surfcamp.it ma sognava un surf camp tutto suo e offline. Nel 2008 si trasferisce in Senegal per un’associazione umanitaria: biglietto di sola andata e sette tavole. Nel 2009 apre la sua scuola a Malika, non lontano da Dakar, insieme ad Aziz che nel 2010 è diventato suo marito

URBAN | 11



Laure Prouvost, immagini e appunti raccolti dall’artista durante la sua residenza in Italia. Courtesy Collezione Maramotti; Whitechapel Gallery © Laure Prouvost

A CURA DI FLORIANA CAVALLO

FARFROMWORDS FOTO LAURE PROUVOST

Sensoriale, prima ancora che sensuale, è il mondo evocato da Laure Prouvost, già vincitrice della quarta edizione del Max Mara Art Prize for Women e fresca di ‘nomination’ per il Turner Prize, nel suo ultimo progetto Farfromwords. Un universo in cui l’elemento selvatico sembra prevalere sulla civiltà: i corpi sono nudi, la frutta ha avuto la meglio sugli oggetti e le emozioni hanno definitivamente trionfato sulle parole. • Farfromwords: car mirrors eat raspberries when swimming through the sun, to swallow sweet smells. Collezione Maramotti, Reggio Emilia, fino al 3/11. www.collezionemaramotti.org URBAN | 13


14 | URBAN Laure Prouvost , Swallow, 2013. Film still, digital video. Courtesy Laure Prouvost, Collezione Maramotti, MOT International


URBAN | 15


16 | URBAN

Laure Prouvost, immagini e appunti raccolti dall’artista durante la sua residenza in Italia. Courtesy Collezione Maramotti; Whitechapel Gallery Š Laure Prouvost


URBAN | 17





NEW YORK & CO. CULT 50 SFUMATURE DI BLU Patchwork mon amour. Maglieria in jersey di cotone leggero e seta in un mélange di sfumature tono su tono e, in abbinamento, jeans con toppe finemente lavorate sulle ginocchia tutto in blu dipinto di blu, indaco, azzurro. Sono le collezioni di punta per la S/S 2013 di Closed. Ovvero, l’esaltazione del più classico colore del denim, in tutte le sue variazioni, con un elegante sapore New Mexico che ti rimane in testa come una buona canzone di Neil Young.

Richard Hell, late 1970s. Courtesy of The Metropolitan Museum of Art, ph. © Kate Simon

DI MICHELE MILTON

www.closed.com

BIKE & SKATE Skateboarding e motociclismo vintage, appassionatamente insieme per l’estate 2013. È la collezione esclusiva DC Double Label, creata in partnership tra DC (uno dei marchi iconici tra le skateboard company) e W. 1910 (azienda francese di motociclette custom e accessori per rider) per soddisfare proprio la passione che molti skater del team DC hanno per le due ruote vintage parigine targate W.1910. Scarpe da skate, chino e short, felpe, t-shirt, giacconi da moto, accessori ispirati a entrambi i mondi e persino una borsa da viaggio, perfetta per i selvaggi road trip da fine settimana.

BACK TO PUNK!

www.dcshoes.com www.w1910.com

Dal Chaos alla Couture, il punk sbarca fino al 14 agosto al Metropolitan Museum. Le scene di New York e Londra, le t-shirt del CBGB e i jeans strappati dei Ramones, le provocazioni situazioniste di Malcolm McLaren e le geniali invenzioni sartoriali di Vivienne Westwood, i capelli platinati di Blondie e quelli fucsia di Johnny Rotten, il pogo di Sid Vicious, la poesia urbana di Patty Smith e molto ancora, saranno spalmati all’interno di sette gallerie tematiche, focalizzate sui concetti di “do it yourself ”, “riciclo” e “fatto su misura” che il punk col suo impeto incendiario ha contribuito in modo sostanziale a rivoluzionare, elevando lo street style fino alle vette dell’alta moda. Gabba gabba hey!

www.doddoindaco.com

Karl Lagerfeld for Chanel. Vogue, March 2011. Courtesy of The Metropolitan Museum of Art, ph. © David Sims

Prendete una strada nel ghetto di Roma (via della Reginella). Prendete la tradizione sartoriale italiana che riscopre il denim. Aggiungete la creatività di un laboratorio di idee e il nome del fondatore in testa al brandmark et voilà il gioco è fatto: nasce Doddo Officina Indaco, uno spazio tutto dedicato all’universo denim, dove scambiare idee sulle tendenze del momento, sfogliare riviste, sorseggiare un caffè oppure scegliere un modello delle tre nuove collezioni, all’insegna di intuizione, visione, stile, formato jeans.

www.metmuseum.org/punk

Sid Vicious, 1977. Courtesy of The Metropolitan Museum of Art, ph. © Dennis Morris

HANDMADE JEANS

URBAN | 21


CANNES CINEMA

NICOLAS WINDING REFN

TESTO ROBERTA VALENT RITRATTO SAM CHRISTMAS/CONTOUR BY GETTY IMAGES

22 | URBAN


URBAN | 23


24 | URBAN


Colori saturi e contrastati, atmosfere linchyane, shot notturni, luci neon, rabbia, gioia, amore, violenza, caos, sparatorie, movimenti al rallentatore intervallati da musica e silenzi. Questi alcuni degli elementi chiave della filosofia cinematografica di Nicolas Winding Refn, che con il suo nuovo film – Only God forgives – è tra i più attesi a Cannes (uscita in Italia il 23 maggio): protagonista il ‘solito’ Ryan Gosling. Nicolas ha un pedigree eccellente: il padre Anders Refn montatore di Lars von Trier da anni, la madre Vibeke Winding, direttore della fotografia. Lo zio Peter Refn era un filmmaker d’eccezione, il patrigno Thomas Winding, sceneggiatore, due fratellastri Kasper e Sara, rispettivamente compositore e montatrice, la moglie, attrice Liv Corfixen è figlia di Teit Jorgensen, direttore della fotografia, culto della cinematografia danese... Nato a Copenhagen nel 1970, Nicolas si trasferisce a New York all’età di 8 anni, dove assimila la cultura americana rap e post-punk dell’epoca. Tra i suoi lavori, film come Pusher I, II, III, Fear X, Bleeder, Bronson, Valhalla Rising e Drive, dove inaugura il sodalizio creativo con Gosling.

QUANDO ERI BAMBINO, QUAL ERA IL TUO SOGNO? Ho sempre voluto diventare un toy designer. Amo i toy, li colleziono, seguo fiere e convention, giro per negozi, ho dei pezzi unici, tipo i primi Godzilla.

dream, uno dei suoi romanzi. Dopo mesi di ricerca ho scoperto che Selby viveva in un appartamento a Hollywood. Quando l’ho scovato, abbiamo parlato parecchio, era molto eccitato all’idea di lavorare su Fear X.

QUANTO È STATO IMPORTANTE FARE QUEL FILM? Fear X è un film che non sono mai riuscito a realizzare completamente come volevo. Però il risultato mi ha permesso di evolvere, di crescere, di continuare a esplorare la trilogia di Pusher, che alla fine mi ha portato a fare i film che faccio e che voglio fare. Hubert mi manca. Ho passato molto tempo con lui, siamo diventati amici, ero al suo fianco quando è morta sua madre. È stato molto importante per la mia crescita umana e professionale.

CHE FILM AMAVI DA BAMBINO? Il cinema underground americano, Lionel Rogosin, Robert Frank, Alfred Leslie e Gregory Markopoulos. Era un modo per ribellarmi contro i miei genitori cinefili, per loro il cinema americano era considerato allo stesso livello del fascismo. Guardavo tutti i film più “fascisti” di quel periodo, era il modo per mandare a quel paese la mia educazione.

QUALI SONO I TUOI FILM PREFERITI? Il filone americano dell’orrore. Il cinema violento, stile The Texas Chain Saw Massacre.

CHE COSA RICORDI DELLA NEW YORK DEGLI ANNI ’80? Ero troppo piccolo per farmi influenzare dalla golden age dei primi Eighties, però quando avevo 13 anni ricordo il boom della disco decadente, i primi rap con Run DMC e i Beastie Boys, una città sporca e pericolosa, molto cinematografica. A 12 ho convinto mia madre a comprarmi il mio primo libro di cultura cinefila, Splatter movies di John McCarthy: l’ho adorato per anni, l’ho letto e riletto, analizzato, è stato il libro dove ho scoperto Andy Milligan, one man band, scrittore, sceneggiatore, regista, attore, produttore, montatore, che ha realizzato 27 film tra 1965 e 1988. Era un uomo che faceva i film che voleva, come voleva. Usava il film come alter ego della coscienza. Era un genio affascinante.

NEL 1987 SEI TORNATO IN DANIMARCA. COME TI SEI INTEGRATO? Malissimo. Ero il classic teenage funk: irrequieto, insoddisfatto, odiavo la scuola, non avevo nessuna idea sul mio futuro. Per caso un giorno mi sono trovato alla Danish Cinematheque, dove proiettavano L’assassinio di un allibratore cinese diretto da John Cassavetes. L’unica cosa che sono riuscito a pensare è stata: “Se mai dovessi dirigere un film, questo è il tipo di recitazione che vorrei dai miei attori”. A quel punto ho deciso che avrei potuto diventare attore, ho fatto un’audizione per l’American Academy of Dramatic Art e mi hanno preso. Ma odiavo anche quella scuola, ho odiato tutte le scuole che ho frequentato, pensavo che se fossi rimasto dietro i banchi a studiare sarei diventato pazzo.

QUANTO È IMPORTANTE LA MUSICA NEI TUOI FILM? Importantissima, perché è un veicolo per trasmettere emozioni. La musica è pura, è capace di far passare tutto quello che non possiamo comunicare tramite immagini. I primi film muti erano incredibilmente emotivi grazie alla musica.

ONLY GOD FORGIVES È IL TUO ULTIMO FILM, CHE VEDREMO A CANNES. PERCHÉ QUESTA SCELTA? Ho sempre pensato che sarebbe stato interessante ambientare un western in Asia, l’ultimo posto in cui ti aspetteresti un film di questo genere. Quando giro non giro mai in ordine cronologico, quindi prima di partire ho bisogno di studiare bene la logistica del film. Quando scrivo una sceneggiatura annoto tutte le scene su delle etichette, poi scrivo una frase che descrive ogni scena, le attacco al muro e vedo se la storia funziona... Il dialogo arriva dopo, prima devo avere chiara la struttura della storia. Bangkok, dove Only God forgives è ambientato, è una città futuristica, stile Blade Runner. È una città asimmetrica che rispetta la mia libertà di pensiero. In più, amo il cibo thailandese, la cultura asiatica, e la loro passione per i designer toy. •

CHI SEI COME FILMMAKER? Mi considero un filmmaker fetish. Sono dislessico, i film che faccio sono basati sulla realtà che provo, su esperienze reali. Sono daltonico, quindi per vedere i colori che voglio devo lavorare molto sui contrasti. La maggior parte dei miei film sono girati con lenti grandangolari, come Valhalla Rising e Bronson. Ogni inquadratura deve essere trattata come un capolavoro: quello che succede nello sfondo è importante, tutto quello che accade dietro i personaggi per me è estremamente importante. È fondamentale avere reazioni dagli attori, fare fotografie e riflettere sulle scelte migliori.

IL TUO PRIMO FILM IN INGLESE – FEAR X – È UN THRILLER CON JOHN TURTURRO COME PROTAGONISTA, UN UOMO IN CERCA DELLA VERITÀ... Quando da adulto sono ritornato negli States, speravo di fare un film sulla vita dello scrittore-poeta Hubert Selby Jr. Ho sempre voluto lavorare con lui, l’ho contattato prima che Darren Aronofsky facesse Requiem for a

URBAN | 25


NEW YORK CREATIVE LAB

TESTO FRANCO O BOLELLI ILLUSTRAZIONI JAMES GULLIVER HANCOCK

26 | URBAN


URBAN | 27


Dentro quei veri e propri organismi viventi che sono le grandi città, ci sono cose – noi umani – evidentemente più viventi delle altre (tutti quelli che non a caso definiamo immobili). Però ci sono grandi città dove questo è molto meno vero, dove quello che noi umani costruiamo sembra più vivo. Ci sono città dove ogni nuovo edificio viene guardato con il sospetto che si riserva a un intruso, e ci vogliono anni prima che venga accettato. E invece ci sono città dove la nascita di una nuova costruzione viene considerata naturale come quella di un bambino. New York, più di tutte. Anche senza avere sott’occhio la città, guardate questi disegni di James Gulliver Hancock e ve ne accorgerete in un battito di ciglia: il cubo della Apple o il New Museum hanno giusto l’età per la scuola materna ma è come se non potessero essere che lì dove sono, come se fin dalla nascita fossero habitat naturale. Ovvio, dirà qualcuno: nei luoghi che hanno una storia, nelle città fatte di strutture classiche se non antiche, il nuovo deve entrare in punta di piedi chiedendo permesso, mentre dove c’è poca o nessuna storia lì non c’è niente da perdere. Vero, ma non sufficiente. Chiaro che il cubo della Apple non lo potremmo mai piazzare di fianco al Colosseo o in piazza San Marco: ma se non da millenni,

28 | URBAN

New York c’è da secoli, non è che è improvvisamente spuntata come un fungo, eppure il nuovo fa parte del suo stesso metabolismo e anche i palazzi e gli edifici più avanzati e innovativi vengono percepiti come una seconda natura. È una questione di relazione con il mondo e con la vita, alla fine. È dinamismo invece che conservazione. È considerare il mutamento non come una minaccia ma come un’inevitabilità. È pensare che puoi anche essere il centro del mondo ma puoi e anzi devi sempre e comunque lavorare sui tuoi margini di miglioramento. È per questo che fra quei veri e propri organismi viventi che sono le grandi città New York ti sembra più vivente di tutte. •

ALL THE BUILDINGS IN NEW YORK: THAT I’VE DRAWN SO FAR JAMES GULLIVER HANCOCK Universe Publishing, an imprint of Rizzoli New York 64 pagg., 60 illustrazioni a colori, 19.95 $ www.allthebuildingsinnewyork.com


URBAN | 29


VANCOUVER & CO. MUSICA

30 | URBAN


GLI INCANTESIMI DI GRIMES

Sonorità che spiazzano, riferimenti culturali schizofrenici e una insana passione per i mostri extra terrestri. La miscela esplosiva di nome Grimes in arrivo quest’estate in Europa TESTO PAOLO MADEDDU FOTO HEDI SLIMANE / TRUNK ARCHIVE

Se il futuro della musica pop stesse bussando, siamo sicuri che correremmo ad aprire? In fondo abbiamo passato tanti anni comodamente adagiati sulla rétromania, concedendoci ogni tanto le sperimentazioni di avanguardie al massimo un po’ birichine, mai realmente nuove. Ma ascoltando Claire Boucher, 25 anni, in arte Grimes, si ha la sensazione che la mutante, se non l’aliena, sia arrivata. Alle orecchie non suona devastante, né epica, né soave. A dirla tutta, al primo ascolto pare di trovarsi nel bar di Guerre Stellari a fine serata, quando il mood di jawa e wookies rimasti ai tavoli tende a farsi languido. Ma dal secondo ascolto, accade qualcosa. Inizia a sparire, a perdere consistenza tutto un sistema di riferimenti musicali. Il che non significa necessariamente che ciò che ne prende il posto sia magnifico, fantasmagorico. No, Beatles, David Bowie, Radiohead (e tanti altri) rimangono evidentemente superiori dal punto di vista artistico. Non stiamo parlando di talento sublime. È diverso. È che Grimes, senza chiedere il permesso, ci sgancia dalla corrente dimensione della musica, arruffa i punti cardinali. E non è affatto chiaro dove portino le sue musichine, la sua voce (...pardon) eterea e infantile. Ma lo straniamento è assicurato, provate. Le recensioni sono entusiaste, e non solo quelle di NME e Pitchfork, che hanno messo Visions sul podio dei migliori dischi del 2012. Anche New York Times e Guardian sono incantati – ma nessuno sa spiegare perché. Tutti ci provano col vecchio modo di fare recensioni: citare le influenze, le somiglianze. Ma i paragoni, gli accostamenti (da Björk ad Aphex Twin) sono fuorvianti. Non c’è modo di spiegare a parole. Dopo tutto quelle sono tastiere, quella è una batteria elettronica, cosa c’è di concettualmente diverso da quanto i Depeche Mode facevano 30 anni fa? Da cosa dovremmo essere spiazzati? Claire sul palco usa un Roland Juno, un campionatore, un vocal looper. Come possiamo non avere già metabolizzato questi strumenti? In fondo abbiamo assorbito le frenesie elettroniche di Prodigy e Skrillex. Ma ecco un precetto cruciale: il pericolo più grande è quello che non è percepito come tale. Grimes camuffa il proprio attacco dietro una maschera apparentemente inoffensiva. E tanto confonde, che non siamo del tutto sicuri che lo faccia apposta. Claire Boucher si definisce “yuppie surrealista, fata urbana”. Si identifica con Nausicaä di Hayao Miyazaki. “Un archetipo che esiste solo in Giappone, una ragazza molto forte ma nel contempo timida e carina, come Chiaki Kuriyama in Kill Bill, qualcosa che non conosciamo in Occidente”. Da bambina, a Vancouver, ascoltava Mariah Carey e Michael Jackson. Da adolescente, è folgorata da Marilyn Manson. “È sottovalutato. In lui arte e presentazione

coincidono perfettamente”. I familiari, cattolici, non gradiscono la sua infatuazione: lei rincara la dose e si rade i capelli a zero. Pessima mossa: a scuola diventa l’aliena, tutti la evitano, le scrivono “pazza” e “puttana” sull’armadietto, insomma la spingono volente o nolente verso dimensioni alternative. Ecco dal suo blog un elenco eloquente di suoi eroi: Friedrich Nietzsche, Mariah Carey, Frida Kahlo, JRR Tolkien, Werner Herzog, Psy, Hildegard von Bingen, Andrej Tarkovskij, Frank Herbert, Marina Abramovic, Prince, Fjodor Dostoevskij. E il disegnatore (di mostri extraterrestri) Ken Grimes, dal quale prende il nome. Ma torniamo alla biografia: Claire si iscrive all’università, vuol diventare neurologa. Ma si fidanza con un musicista, Devon Welsh (Majical Cloudz). Inizia a giocare coi suoi strumenti. Presto le neuroscienze escono dal radar. Gli amici la convincono a mettere i suoi pezzi in circolazione. Lei butta i primi due album gratis su internet. Inizia a espandersi in più direzioni: si mette a dipingere, impara a girare video, elabora i propri vestiti. Nel 2008 inizia a esibirsi, lei e le sue macchine, come spalla di artisti indie canadesi. Poi, sempre meno indie, sempre meno canadesi, e sempre meno come spalla. Nel 2012 la rinomata etichetta 4AD le offre di pubblicare Visions, composto in casa in nove giorni di autoreclusione, al buio e senza dormire quasi mai causa anfetamine. “Mi piace spingere i limiti fisici e mentali. Volevo il senso di lucidità e di tortura che si può ottenere con 30 ore di lavoro di fila”. Non crediate di aver inquadrato il tipo. Una raccolta di affermazioni di Claire sarebbe un flusso di dichiarazioni per nulla ponderate. Di rado dà la stessa risposta a una domanda, i concetti chiave che sottolinea variano continuamente, così come i riferimenti artistici: è un flipper vorticoso eppure credibile. Claire è onnivora, Claire è vorace. Rihanna, Genesis P-Orridge, Beyoncé, Outkast, Chopin, Nine Inch Nails, Enya, Joy Division, TLC, Cocteau Twins, Drake. E un assalto frontale di nomi undergroundissimi e di popstar coreane e giapponesi. Le piace TUTTO. Come lo spiega? “Quando avevo 11 anni è apparso Napster. Potevo avere tutta la musica del mondo e subito”. Ed è proprio questo, che dev’essere successo. Grimes è la spugna che ha assorbito tutto e lo ripropone. E dato che la natura non fa salti, e la musica pop neppure, il suo suono frulla insieme tutto ciò che ci è noto, ma abbatte naturalmente i generi, creando un futuro sonoro pop. “Vorrei vivere nell’universo di Dune, ma forse ancora di più in quello di Legend of Zelda”... Vorrei? Vedete, non se ne rende conto. Lei lo fa già. • Grimes sarà in concerto in Europa, a Oslo, Göteborg ed Helsinki, rispettivamente l’8, il 9 e l’11 agosto. Calendario in aggiornamento sul sito www.grimesmusic.com

URBAN | 31


MILANO & CO. MUSICA DI PAOLO MADEDDU

SINCERAMENTE PUNK SAVAGES 21 MAGGIO MILANO – MAGNOLIA Ci sono cose che solo la natura può creare. Tipo il pesce sega. Nessuna persona di buon senso avrebbe potuto metterlo in piedi. Oppure l’ananas. Guardatelo bene, vi sembra una roba normale? O i penitentes delle Ande, quelle lame di ghiaccio che puntano il sole. Ecco, allo stesso modo le Savages non possono essere una creazione fatta in laboratorio, un gruppo rock di design, studiato in base all’appeal garantito da un’immagine di fighettismo punk (no, non chiedeteci nomi. Non ne faremo) (...Crystal Castles, Crystal Castles, Crystal Castles). No, sono troppo incerte e nervose per non essere naturali. L’angoscia incanalata nel loro primo singolo Husbands, sul pensiero ansiogeno di avere, un giorno, un MARITO, è eloquente. E nel loro caso, il risultato dell’evoluzione spiazza. Abbiamo un gruppo completamente femminile che dà al suo malcontento una forma inedita per i gruppi completamente femminili: quella del vibrante intervallo sonoro e stilistico che si ebbe nella loro città, Londra, alla fine degli anni Settanta, all’indomani ll indomani

32 | URBAN

della morte del punk e prima dell’elaborazione del lutto (il goth). Quel suono così rock ma così cupo che echeggiò nei dischi dei Ruts prima ancora che dei Joy Division, che si riscontra anche nel primo, monumentale disco dei Dead Kennedys. Un approccio febbrile, ansioso, tenebroso, che dalle rocker non era mai uscito né 35 anni fa, né in tempi recenti di riot grrrls o riot pussy. La sensazione perciò è che le tipe siano arrivate a tutto ciò spontaneamente. Che oggi delle ragazze di 20 anni si possano sentire realmente così, e che così non si sono sentite mai. Pure, sono consapevolissime che qualcosa di simile, decenni fa, sia già rapidamente balenato. “Le Savages non cercano di darvi qualcosa che non avete”, dice il loro manifesto, sull’album di debutto Silence yourself. “Cercano di richiamare in vita qualcosa che avete sepolto tanto tempo fa”. Le Savages sono: Ayse Hassan (basso), Fay Milton (batteria), Gemma Thompson (chitarra) e Jehnny Beth (voce). •


COLIN STETSON NEW HISTORY WARFARE, VOL. 3.: TO SEE MORE LIGHT Constellation Records

DARGEN D’AMICO VIVERE AIUTA A NON MORIRE GHOSTPOET SOME SAY I SO I SAY LIGHT

Giada Mesi/Universal

Pias

WHO: Jacopo D’Amico, 33 anni,

WHO: Obaro Ejimiwe, 30 anni, nato a Londra. Col primo album, nel 2011 ha ricevuto una nomination al premione inglese Mercury Prize. È stato gabbato sul filo di lana da PJ Harvey.

WHERE: In un flashback che ci riporta al 1997 e al trip hop e a Bristol e a quelle musiche che pare sempre che siano le due di notte e stiate per essere aggrediti in un vicolo. WHY: Lui declama come faceva Roots Manuva (e anche un po’ Eric Mingus. Non Charlie. Eric) su basi a volte dubstep, a volte jazzate, a volte elettroniche come i Radiohead di Hail to the thief, ma con una voce nera e laconica invece che bianca e dolente.

WHAT: “Non sono la voce di una generazione, non sono un messaggero di qualcosa. Sono uno che è stato messo in esubero dall’ufficio e ha avuto il tempo di fare un disco”.

WHEN: Dopo che avete avuto una discussione estenuante su Renzi.

milanese. Il Jacopo Frusciante dell’hip hop italiano: molla i due soci de Le Sacre Scuole perché troppo inclini a buffoneggiare. Loro diventano i Club Dogo. Lui acquisisce carisma da guru. Loro acquisiscono soldi. Cosa è meglio? Non fateci sbilanciare. Noi, qui, non abbiamo né l’uno né gli altri.

WHERE: In un tempietto dove vengono a omaggiarlo i giovani Nardinocchi, Fedez e Andrea Volonté, ma anche i vecchi J Ax, Max Pezzali ed Enrico Ruggeri, tutti presenti nel disco. Fa figo lavorare con lui. Fa figo citarlo. Ascoltarlo no. Noi, qui, ad ascoltarlo non ci siamo sentiti fighi. Ma a citarlo sì.

WHY: Non dovete aspettarvi hiphop convenzionale. Non dovete aspettarvi canzoni. Forse non dovete aspettarvi niente. È sempre bene non avere aspettative. Noi, qui, non ne abbiamo mai. WHAT: “I miei discografici mi dicono che devo dimagrire”.

WHEN: Dopo che avete avuto una discussione estenuante su Luciana Littizzetto.

WHO: 36 anni, sassofonista, nato nel Michigan, emigrato in Canada. Ha suonato con Tom Waits, Arcade Fire, Tv On The Radio, Laurie Anderson, LCD Soundsystem, Anthony Braxton, Bon Iver, Feist. Ne avete abbastanza? NO? Ha suonato con David Byrne, The National, Fred Frith, Godspeed You! Black Emperor, Angelique Kidjo… Ne avete abbastanza, ADESSO, eh?

WHERE: Alla fine di una trilogia che sancisce l’inaspettata rivincita del sax: lo strumento più vituperato degli anni ’90 e ’00, che il nostro decennio vede rinascere, sia col coté intellettuale che con quello pomicione. WHY: Ogni tanto si sente uno che canta (Bon Iver, incidentalmente), ma di fatto è un one-man show di Stetson che soffiando nella sua piva ne cava robe strane e sorprendenti e probabilmente illegali in qualche stato asiatico.

WHAT: “Durante un concerto per un’ora tendo ogni muscolo del mio corpo e porto allo spasmo i polmoni e mi va tutto il sangue al cervello con la respirazione ed espirazione forzate. In tutto questo cerco anche di pensare”. WHEN: Dopo che avete avuto una discussione estenuante su Travaglio.

UNA SU 11 YEAH YEAH YEAHS “SUBWAY” DA “MOSQUITO” Interscope

In questa seconda raccolta di racconti

Molte delle “sensations” del decennio passato stanno accostando ai bordi della carreggiata per mancanza di benzina. La verità è che molte di loro erano partite col serbatoio già mezzo vuoto, ma lo stesso, tutti quanti erano a salutarli alla partenza come se stessero iniziando un luuungo viaggio verso posti incredibili, dai quali ci avrebbero mandato testimonianze fantasmagoriche. Karen O, sorta di Lady Gaga prestata al rock, ha soddisfatto per qualche anno noi sciocchi media e il nostro bisogno di personaggi semirilevanti. Ma ce la stavamo dando a bere da soli. Rolling Stone Usa aveva financo inserito la minimale Maps al n.386 delle 500 canzoni più belle di sempre, davanti a Ticket to ride, Enter sandman, Roxanne. Il numero 386mila sarebbe stato meglio: oggi non avremmo un disco in cui il trio di New York,

THE HAXAN CLOAK EXCAVATION Tri Angle

WHO: Bobby Krlic, 28 anni, nato nello Yorkshire, che è una delle più antiche contee inglesi. Oltre che un cagnetto pucciosissimo che si fa infiocchettare. WHERE: In un mondo in cui i Nine Inch Nails sono una cumpa di allegroni e in cui le fiabe per bambini sono Saw e The Grudge. Krlic ama i suoni cupi, le frequenze basse e minacciose che fanno tremare tutto, e ci crea atmosfere elettroniche grame, popolate da fantasmi, mostri, paure senza nemmeno un nome. Al primo ascolto viene da nascondersi in un armadio. Al secondo, se ne coglie la sbarazzina spensieratezza e si sorride dei propri timori. Al terzo, una mano che emerge da una tomba vi sveglia dal secondo ascolto. WHY: No, è che questo mese abbiamo riscoperto la nostra vocazione avant-garde. Si era capito?

WHAT: “Credo si possa imparare a stare a proprio agio grazie al disagio. Guardi un film che ti terrorizza e stai male, ma capisci quanto ti piace essere vivo”.

WHEN: Dopo che avete avuto una discussione estenuante su José Mourinho.

accanto a pezzi stupidini in modo agghiacciante, buoni per YouTube, cerca continuamente di rifare quel brano, dilatando canzoni basate su due accordi reiterati come se fossero altamente significativi. Il tutto, lanciandosi in testi che rivalutano l’intera produzione poetica di Luisa Corna. Unico guizzo spiazzante, questo pezzo, Subway, coraggiosamente piazzato come seconda traccia. Pur essendo un ambiente spesso evocato nel rock, la metropolitana, che è sempre qualcosa di più che un semplice mezzo di trasporto, non era mai stata messa in musica con tanta capacità di suggestione. E con lei, l’attesa, lo smarrimento, l’irrealtà del luogo in cui tanti di noi (realmente) si devono muovere, e far muovere. Peccato che il treno della band si fermi subito. •

URBAN | 33


VENEZIA ARTE

RUDOLF STEINER, “Disegni alla lavagna”, 1923. Gesso su carta nera. Courtesy Rudolf Steiner Archive, Dornach, Switzerland

UTOPIA BIENNALE TESTO FRANCESCA BONAZZOLI

34 | URBAN


CAMILLE HENROT, “Coupé/Décalé”, 2010. Video, 3:54 min. © Camille Henrot Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

A Venezia da giugno a novembre torna la mostra d'arte per eccellenza. E torna un'estetica sentimentale, stupefacente, asimmetrica. Intenzionalmente senza intenzione

URBAN | 35


J.D. ‘OKHAI OJEIKERE, “Aja Nloso Family”, 1980. Gelatin silver print. Courtesy André Magnin, Paris © J. D. ’Okhai Ojeikere MORTON BARTLETT, “Untitled (Doll)”, n.d. (ca. 1936—65). Collection de l’Art Brut, Lausanne. Ph.: Atelier de numérisation - Ville de Lausanne

È il sogno più vecchio dell’umanità: conservare tutti i ricordi, le cose, le parole, i numeri, le esperienze. In una parola il sapere, perché esso viene dall’accumulo di memorie. Per questo è nata la scrittura. Così sono nate le biblioteche e i cataloghi; i bestiari, gli erbari, le Wunderkammer, le collezioni, le fototeche, le emeroteche, gli archivi, gli armadi, le cassettiere, i notai, i genealogisti, gli storici, i ricercatori, gli archeologi, i musei, i file. Ebbene, l’ultimo appassionato di questo vecchio sogno è il più giovane dei curatori cui sia stato assegnato il compito di allestire la Biennale d’arte di Venezia, la regina delle Biennali: Massimiliano Gioni, classe 1973, nato a Busto Arsizio e migrato a far carriera in America. Per la 55esima edizione della rassegna che resterà aperta dal 1° giugno fino al 24 novembre ai Giardini, all’Arsenale e in diversi altri luoghi della città lagunare, Gioni ha rubato il titolo e l’idea all’artista autodidatta italoamericano Marino Auriti che il 16 novembre 1955 depositò presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti per il suo Palazzo Enciclopedico, un edificio di 36 piani e 700 metri di altezza. Un museo immaginario che avrebbe dovuto occupare più di 16 isolati della città di Washington e ospitare tutto il sapere dell’umanità, conservando le più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite. “L’impresa di Auriti rimase naturalmente incompiuta – racconta Gioni – ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accumuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti visionari che hanno cercato, spesso invano, di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza”. In realtà, il progetto del Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni è molto meno ambizioso dell’originale e si limita a includere circa 150 artisti da oltre 37 nazioni. Numeri non da record per grandi kermesse come le Biennali e per la vastità dello spazio espositivo a disposizione. Anche l’idea stessa è un rimaneggiamento della Biennale del 2001, Platea dell’umanità, curata dallo svizzero Harald Szeemann il quale per primo teorizzò l’apertura delle barriere tra artisti professionisti e dilettanti, insider e outsider. La priorità era l’immagine e l’immaginario, qualunque esso fosse, e il riferimento erano le idee dell’artista tedesco Joseph Beuys secondo il quale tutti gli uomini sono artisti, sempre potenzialmente creativi, essendo il capitale dell’umanità la somma di tutte le creatività individuali. La mostra di Gioni si apre al padiglione Centrale ai Giardini con una presentazione del Libro Rosso di Carl Gustav Jung, un manoscritto illustrato al quale lo psicologo lavorò per oltre 16 anni: una raccolta di visioni e fantasie che introduce una riflessione sulle immagini interiori e sui sogni. La rappresentazione dell’invisibile è infatti uno dei temi centrali della mostra

36 | URBAN

MARISA MERZ, Senza titolo, 2004. Tecnica mista su tavola. Collezione privata. Courtesy Fondazione Merz, Torino. Ph. Paolo Pellion, Torino

e ritorna nelle cosmografie di Guo Fengyi e in quelle di Emma Kunz, nelle icone religiose e nelle danze macabre di Jean-Frédéric Schnyder, nel video di Artur Zmijewski che filma un gruppo di non vedenti mentre dipingono il mondo a occhi chiusi. Opere d’arte contemporanea, reperti storici, oggetti trovati e vari tipi di manufatti “illustrano diverse modalità di visualizzare la conoscenza attraverso rappresentazioni di concetti astratti e manifestazioni di fenomeni soprannaturali”, spiega ancora Gioni. Christiana Soulou dà forma agli esseri inventati da Jorge Luis Borges; la collezione di pietre dello scrittore francese Roger Caillois combina geologia e misticismo, mentre le lavagne disegnate dal pedagogo Rudolf Steiner tracciano diagrammi impazziti che inseguono il desiderio di comprendere l’intero universo; Walter Pichler progetta case per le sue sculture considerate creature viventi provenienti da un altro pianeta; Yuksel Arslan disegna le tavole enciclopediche di una civiltà immaginaria. Ma ci sono anche le cento sculture di creta di Fischli e Weiss che offrono un antidoto ironico agli eccessi delle visioni più totalizzanti. Insomma il progetto espositivo si disperde in mille rivoli, come è nella sua natura. Tutto vale e niente conta davvero. Non ci sono vincoli alle utopie che, per loro definizione, sono progetti destinati a mai realizzarsi. L’immagine che viene in mente è quella di certe botteghe di rigattieri dove vige la legge dell’accumulo. Il pensiero che regge questa esposizione, infatti, sfugge da tutte le parti rintanandosi nella vaghezza come la conoscenza che stava dietro le Wunderkammer, le camere delle meraviglie seicentesche prima dell’avvento dell’Illuminismo. Il mondo era allora un luogo sconosciuto, un territorio fra il magico e il religioso da cui giungevano notizie contraddittorie. Un mondo di superstizioni, crudeltà e pregiudizi da cui si trovava una via d’uscita attraverso l’immaginario più sfrenato, fino a confondere la vita con il sogno, secondo il celebre assunto di Calderòn de la Barca. Su questo terreno molle e vago la Chiesa ha costruito il potere dell’Inquisizione e del Barocco, il suo stile di propaganda fondato sulla meraviglia e l’estasi dei sensi. Fra 500 anni, all’umanità che ci studierà giudicandoci dalle grandi parate d’arte come le Biennali, la nostra estetica vetrinistica dell’accumulo apparirà un ritorno del Barocco e dell’irrazionale, mille miglia lontano dalle possenti architetture del pensiero rinascimentale che respiravano serenamente l’universo e lo costruivano imponendogli la propria geometria. Priva di qualsiasi forza progettuale, la nostra Bellezza contemporanea è quella fragile del sentimento, degli esteti da laboratorio e quindi dell’intrattenimento. Le manca l’energia eroica dell’arte classica e del Rinascimento, quella visione sublime “non confinata al mistero, al dolore e all’oscurità”, come ha scritto Henri Focillon, ma che si manifesta nella calma e nella luce. •


JOHN BOCK, “Unzone / Eierloch”, 2012. Copyright the artist, courtesy Sadie Coles HQ, London

URBAN | 37


Le ffoto in queste due pagine sono di Stefania Rosini

COACHELLA MUSICA

SALUTI DA COACHELLA

38 | URBAN


TESTO ROBERTO CROCI

Coachella: iniziato nel 1999 con mostri sacri quali Beck, The Chemical Brothers, Tool, Morrissey, Rage Against the Machine, Jurassic 5 and DJ Shadow (io c’ero!) è senza ombra di dubbio l’ammassamento più indisciplinato, più socialmente tribale, più riverito, più storicamente importante per chi, come me, vive e si nutre di musica. Nel senso che una vita senza musica, non avrebbe molto senso, giusto? Coachella 2013 è appena terminata e noi di Urban eravamo là anche quest’anno motherfukkers, in quel di Indio-Palm Springs, dopo aver goduto come matti per Rodriguez, Trent Reznor & wife, Nick Cave and the Bad Seeds, Social Distortion, Daft Punk, gli evergreen RHCP, La Roux, l’intramontabile Puscifer e una manciata di “newbies” che trovate qui sotto. Good luck and have a good reading. •

URBAN | 39


MAYA JANE COLES DEAP VALLY

CITTÀ: Londra GENERE: Deep house, Tech house, Garage INFLUENZE MUSICALI: Musica pop degli anni ’90

CITTÀ: Los Angeles GENERE: Blues & rock’n’roll INFLUENZE MUSICALI: Janis Joplin, Marilyn Manson, Tina Turner Deap Vally è un duo rock nato nel 2011, nel cuore di Silver Lake, zona hip collinosa di Los Angeles. Neofite di Coachella, non hanno affatto sfigurato, anzi, hanno ricevuto i complimenti di Beck & Flea dei RHCP, che sono di casa a Silver Lake. Lindsey Troy e Julie Edwards si sono conosciute a una classe di knitting, dove scoprono immediatamente lo stesso amore per la musica stile bad ass di Marilyn Manson e i ritmi groovy & sexy di Tina Turner. Due donne, una chitarra, una batteria e un suono che incrocia lo stile hippie e ruvido di Janis Joplin o Courtney Love e la freschezza delle melodie dei The Black Keys. “Siamo cantautrici che ammirano tutti i musicisti capaci di creare musica rumorosa con pochi strumenti”. Tra gli allori, la collaborazione in vari show live con Mumford & Sons. www.deapvally.com

EARL SWEATSHIRT CITTÀ: Los Angeles GENERE: Rap INFLUENZE MUSICALI: Black music e poesia africana Era uno dei più attesi al suo debutto a Coachella: è l’altra faccia dell’America di colore che guarda al mondo contemporaneo in maniera semplice e critica. Earl Sweatshirt nasce Thebe Kgositsile, il 24 febbraio 1994. Sua madre, Cheryl Harris, è professoressa di legge all’università Ucla, specializzata in diritti civili. Il padre sudafricano, Keorapetse William Kgositsile, è attivista politico, membro dell’African National Congress, e poeta, i cui lavori hanno influenzato il gruppo proto-rap The Last Poets, nella rivoluzionaria New York dei primi anni ’70. Naturalmente odia essere censurato per le sue liriche blasfeme, ed è anche membro attivo del gruppo hip hop OFWGKTA (Odd Future Wolf Gang Kill Them All). Vincitore del Breaking Woodie Award e numero 9 nella lista di Complex Magazine in una selezione di 30 come miglior rapper degli ultimi cinque anni, Earl è di sicuro una delle nuove promesse del 2013. www.earlsweatshirt.com

40 | URBAN

Due enormi tatuaggi di gufi sul petto, capelli di vari colori – adesso biondo fragola – per la prima volta a Coachella, Maya Jane Coles è stata votata come una delle migliori performance live al festival di quest’anno: bellissima, indemoniata, colorata, con un accento anglo-giapponese e, più importante, con un passato da dj. Adoro i dj. Mettono musica che ti fa ballare. Lei ha iniziato a 15 anni, e in poco tempo è finita nella lista annuale dei primi 10 dj mondiali più quotati, premiata come Artista dell’anno nella classifica di Beatport e miglior rivelazione dj secondo Mixmag. Seguono remix di vari artisti, tra cui Bo Saris e Florence & The Machine, Little Boots. Maya Jane Coles produce anche dubstep sotto l’alias di Nocturnal Sunshineand con il duo She is danger. C’è attesa per il suo primo Lp, che debutta questa estate con la sua etichetta I/AM/ME. Tra le varie collaborazioni, Tricky, Miss Kittin e Kim Ann Foxman, cantante degli Hercules & Love Affair. www.mayajanecoles.com


POLIÇA CITTÀ: Minneapolis

IO ECHO CITTÀ: Los Angeles GENERE: Indie rock, grunge-pop INFLUENZE MUSICALI: The Velvet Underground e Leopold Von Sacher-Masoch Il duo formato da Ioanna Gika – voci, chitarra, piano, violino e arpa giapponese koto – e Leopold Ross – basso e programmazione elettronica – sceglie il nome dalle iniziali di Ioanna aggiungendo Echo per la sua compatibilità musicalmente orecchiabile. “Ci siamo conosciuti tramite amici” ci racconta Ioanna “e abbiamo scoperto di avere passioni comuni tra cui la musica dei Velvet Underground e il teatro kabuki”. Il loro suono surreale combina sempre elementi opposti, luce e ombra, la desolazione del deserto californiano con la decadenza umida dei bassifondi delle strade londinesi. Oltre ad aver aperto show per Florence + the Machine, The Drums, Nine Inch Nails e i Garbage, hanno composto la colonna sonora del progetto artistico Rebel di Harmony Korine e James Franco per la mostra organizzata dal guru dell’arte Jeffrey Deitch.

GENERE: Electro r&b e Goth pop INFLUENZE MUSICALI: World music Coachella è andata letteralmente in delirio quando il cantante Mike Noyce dei Bon Iver ha prestato la voce sui pezzi Lay your cards out e soprattutto Wandering star, nuovo singolo dei Poliça – si pronuncia po-lisa. Il loro suono è un misto di batterie intricate, basso fluido e sintetizzatori eterei, associati alla voce seducente e melanconica della frontwoman Channy Leaneagh, che combina paesaggi sonori sci-fi con cantati distorti e seducenti. “Siamo appassionati di World music, delle sensazioni che ci trasmette quel tipo di atmosfera: anche quando non capiamo le parole, apprezziamo le sfumature sottili e soffuse di una musica intramontabile”. Data importante per il quartetto: giugno 2011, quando la band parte per Austin, Texas, dove mixa l’album con Jim Eno, batterista dei locali Spoon. www.thisispolica.com

www.ioechomusic.com

URBAN | 41



BEIRUT & CO. LIBRI DI MARTA TOPIS

LA LIBRAIA DI BEIRUT RABIH ALAMEDDINE Bompiani, 2013 pp. 340, 18 euro Beirut, interno giorno, vecchio appartamento dove una signora di una certa età si sta tingendo i capelli di blu. Lei è Aaliya Sobhi, la narratrice, libraia settantenne in pensione, che racconta la sua vita passata di traduttore di grandi classici in lingua araba, con la piccola difficoltà di non conoscere, in realtà, la lingua originale in cui sono scritti, motivo per cui le sue sono traduzioni di traduzioni, mentre per guadagnarsi da vivere lavora in libreria. È qui che nel lontano 1967 incontra Ahmad, “timido adolescente allampanato ed esile”, profugo palestinese che inizialmente collabora con lei, ma poi si lascia invischiare dalla guerra e nel Settembre Nero del 1971 la abbandona. Anni dopo la libraia lo ricerca anche perché, spaventata dagli eventi, vorrebbe un’arma per potersi difendere. In cambio lui esige una notte di sesso, quella che da sempre avrebbe voluto… Protagonista principe della storia resta però il piacere della lettura, che si respira riga dopo riga, citazione dopo citazione, tra le pagine infarcite di titoli e autori con i quali Aaliya trascorre i giorni e le notti, e che costituiscono “il sale” della sua solitaria esistenza. Un libro che una volta tanto esce prima in Italia che oltreoceano (dove è previsto per il 2014) e che piacerà ai fan di Amos Oz e di Abraham Yehoshua.

TENNIS JOHN MCPHEE

L’UOMO DELLE NUVOLE MATHIAS MALZIEU

ADELPHI, 2013 222 pp., 12 euro

FELTRINELLI, 2013 160 pp., 14 euro

Un piccolo grande gioiello, dal gusto piacevolmente vintage, che un appassionato di tennis (ma anche qualsiasi raffinato lettore) dovrebbe avere nella propria libreria. Ne è autore John McPhee, maestro del giornalismo narrativo americano, di cui il libro contiene Livelli di gioco, un racconto che in 150 pagine descrive con minuzia di particolari (dal primo all’ultimo colpo) la semifinale agli US Open del 1968 tra l’afroamericano Arthur Ashe e il rivale Clark Graebner, analizzando pensieri e strategie nella testa degli avversari e utilizzando il match come chiave di lettura di due background e mondi diversi. Ma autore di Tennis è anche Matteo Codignola, il curatore, che firma una cinquantina di pagine illuminanti su questa affascinante partita letteraria che nessuno ancora ha osato tradurre in film (lui suggerisce Nanni Moretti), e che nel volume ha deciso di inserire un’altra chicca sull’argomento firmata McPhee: Twynam di Wimbledon, la storia del giardiniere capo del mitico Centrale londinese in erba. Da non perdere!

Poetico, visionario, fiabesco, il frontman del gruppo rock francese dei Dionysos, che già lo scorso anno aveva fatto sognare il pubblico italiano con il romanzo La meccanica del cuore, torna sugli scaffali con una nuova avventura, quella di Tom Cloudman, sgangherato acrobata circense con il pallino del volo, di cui nuovamente Luc Besson si è già aggiudicato i diritti per trasformarlo in animazione 3D. Cloudman, che vive felice “come una trottola in equilibrio”, un giorno cade e scopre di essere malato: nel reparto di oncologia dove viene ricoverato inizia allora una scanzonata ma dura battaglia contro “la barbabietola” (come lui chiama il tumore), costruendosi perfino delle ali con piume di cuscini. Fino alla notte in cui incontra la donna-uccello, creatura fantastica che lo salverebbe se facesse l’amore con lei, ma con tutti i rischi che questo può comportare. Una fiaba per grandi, rimasti piccoli dentro.

URBAN | 43


MILANO FENOMENI

Dal libro Fiorucci Story, Editore Electa

Dal libro Jeans, editore Lupetti & CO. Ugo Voli. “Levi’s”, pagina 95

Da Cult A Visual History Of Jeanswear American Originals di William Gilchrist e Roberto Manzotti, Edizione Sportswear International. Anni 1913/pre-1920s, pagina 30

PAGINE DI JEANS TESTO CIRO CACCIOLA

44 | URBAN

Dal libro Roy Roger’s, Edizione Mauro Pagliai. “The 100 years of production and progress”, pagina 32


Dal libro Jeans, Editore Lupetti & CO. Ugo Voli. “Blue Jeans”, pagina 99

Da Cult A Visual History Of Jeanswear American Originals di William Gilchrist e Roberto Manzotti, Edizione Sportswear International. Anni pre-1920s, pagina 10

Da Cult A Visual History Of Jeanswear American Originals di William Gilchrist e Roberto Manzotti, Edizione Sportswear International. Anno 1949, “Lady’s Wrangler”, pagina 98

Dal libro Cult A Visual History Of Jeanswear American Originals di William Gilchrist e Roberto Manzotti, Edizione Sportswear International. Anno 1936, “Super Big Ben”, pagina 65

Dal libro Roy Roger’s, Edizione Mauro Pagliai, pagina 10

Provate a immaginare la Statua della Libertà con un paio di jeans a strisce rosse e blu. Difficile? Se amate i jeans, se ci siete cresciuti dentro, a Milano, alla Biblioteca della Moda di via Alessandria 8, dal 22 maggio al 7 giugno c’è una mostra stupenda che fa per voi. Anzi, per noi! S’intitola Tra le pagine del Blue-jeans perché racconta nascita, mito e leggenda del capo d’abbigliamento più amato al mondo con una retrospettiva tratta da storiche testimonianze dell’editoria di moda, dai primi del Novecento a oggi. Un percorso puntuale, divertentissimo, soprattutto iconografico, pieno di curiosità, che illustra l’evoluzione di un capo che è stato tratto distintivo della working class di fine ’800 e che incredibilmente è must have della contemporaneità. Così, di fianco alla posizione, potremmo dire, “strategica” di una modella graffitista e un po’ monella disegnata da Fiorucci, troviamo la tipica cow-girl texana very americana che, in un avviso della Wrangler per lanciare il b-j tra lor signore, è lì pronta ad acchiappare con il suo lazo un puledro sconsiderato. Potremmo vivere oggi senza blue-jeans? Le icone trasgressive del cinema e quelle del rock ce li hanno fatti amare da sempre, di più: Marlon Brando e James Dean nei loro film di culto (Fronte del porto e Gioventù bruciata), Elvis e Marilyn, e poi ancora i Rolling Stones, Bruce Springsteen, Diana Ross, Madonna, che hanno usato i jeans per le copertine di alcuni tra i loro album più venduti. La mostra della Biblioteca sorprende e incuriosisce con le campagne pubblicitarie di alcuni tra i più celebri brand del settore, seguendone le evoluzioni stilistiche e le sue contemporanee rivisitazioni: Lee, Roy Roger’s, Big Ben. Questa mostra ci riporta indietro nel tempo ma ci riconcilia con i nostri mala tempora. Nel blue dipinto di blue del jeans! • www.bibliotecadellamoda.it

URBAN | 45


CANNES DETAILS DI TATIANA UZLOVA E IVAN BONTCHEV

1

3

46 | URBAN

PRONTE ALLA FUGA


2

4

1. moschino cheap and chic: borsa, 487 euro; calzedonia: costume, 35 euro 2. furla: mini bag, 98 euro; golden lady: bikini, 9,95 euro 3. prada: borsa, 1250 euro; la perla: bikini a triangolo, 190 euro 4. louis vuitton: minaudière bijou, prezzo su richiesta; eres: bikini, 250 euro

URBAN | 47


BORDEAUX FASHION

THE WHITE SIDE OF THE HILL Trasparenze leggere e sensuali. Silhouette morbide decontratte, immerse in un bianco mentale prima ancora che fisico. Inseguendo oltre la collina la fata... dentro FOTO CRISTINACAPUCCI STYLING IVAN BONTCHEV Giacca, byblos e jeans Short di pizzo, pep

48 | URBAN


URBAN | 49


Abito, anteprima e, ash Sandali con borchi

50 | URBAN


Abito, mirkog. di brandimarte Coulotte plissettata, tezenis Scarpe, emporio armani

URBAN | 51


Camicia con colletto, kenzo Camicia incrociata, e-gò Gonna, tibi

52 | URBAN


mani

Abito, emporio ar Pantaloni, alysi

URBAN | 53


Abito a rete, avant toi Coulotte, krizia

54 | URBAN


Giacca e pantaloni, krizia

URBAN | 55


Giacca di pelle, ottod’ame Gonna tutù, cristiano burani Ballerine, katie grand for hogan

ADDRESS LIST Alysi, www.alysi.it. Anteprima, www.anteprima.com. Emporio Armani, www.armani.com. Ash, www.ashitalia.com. Avant toi, www.avant-toi. it. Byblos, www.byblos.it. Cristiano Burani, www.cristianoburani. it. E-gò, www.e-gofashion.it. Hogan, www.hogan.com. Kenzo, www. kenzo.com. Krizia, www.krizia.net. MirkoG. Di Brandimarte, www. mirkogdibrandimarte.com. Ottod’Ame, www.ottodame.it. Pepe Jeans, www.pepejeans.com. Tezenis, www.tezenis.it. Tibi, www.tibi.com.

56 | URBAN

Makeup: Augusto Picerni @ Wm-Management using Mac Cosmetics Hair stylist: Marco Minunno @ Wm-Management using Maroccanoil Modella: Astrid Baarsma @ Next Model Management Milano. Assistente moda: Giulia Meterangelis. Assistente fotografo: Laura Della Valle


foto Tatiana Uzlova

IN ITALIANO E INGLESE, SCARICA GRATUITAMENTE URBAN SU IPAD!


BARCELONA & CO. NIGHTLIFE DI LORENZO TIEZZI

IBIZA A IBIZA OPENING NG I clubber duri e puri a Ibiza ci vanno per le aperture di fine maggio, oppure aspettano ottobre. In effetti, è la scelta giusta anche per tutti gli altri. Si parte sabato 25 maggio, quando sulla sabbia dell’Ushuaia si balla la techno di Sven Väth, Luciano e Loco Dice. È un party diurno, la musica inizia all’ora di pranzo, così il 26 si può essere ai cancelli dello Space già a mezzogiorno, per la storica 24 ore domenicale. Per rilassarsi c’è tempo fino al 30, quando al Pacha arrivano i Guetta col loro party F*** Me I’m Famous. 25 – 30 maggio pacha.com – spaceibiza.com – ushuaiabeachhotel.com

MILANO VIDEO SOUND ART La Salumeria della Musica è uno dei locali più jazz di Milano, ma a maggio fa avanguardia. Si riempie di motion graphic, videoarte e musica elettronica con la terza edizione di Video Sound Art. Alle pareti e in giro per il locale ci sono le opere di nuovi talenti. Sul palco il 29 c’è Tom Krell aka How To Dress Well. Col suo falsetto e le sue melodie soul, avrebbe potuto fare la popstar come Timberlake, ma ha scelto la musica. Il 30 si comincia col rock’n’roll elettronico di Dirty Beaches e si finisce con le inquietanti colonne sonore dei misteriosi Old Apparatus. fino al 30 maggio www.videosoundart.com

PRIMAVERA SOUND BARCELONA PARC DE FORUM Da 13 anni è il festival più rock di Barcellona e dintorni. Il Sonar nasce dalla club culture ed è cresciuto insieme ai dj superstar, mentre il Primavera Sound è più vicino alla vitalità della scena indie. Il calendario mette in fila una quantità incredibile di concerti. C’è l’atteso ritorno dei Blur, c’è Nick Cave che con i suoi Bad Seeds non si risparmia mai, tornano anche Dead Can Dance, Wu-Tang Clan e My Bloody Valentine... sia chiaro, non come headliner, visto che qui non ce ne sono. Gli artisti sono elencati in rigoroso ordine alfabetico, anche perché il pubblico del festival ama tutto tranne le solite star. In tanti comprano l’abbonamento con mesi d’anticipo soprattutto per il piacere di scoprire musica nuova o dimenticata. Qualche caduta di stile nel line up c’è: The Jesus and Mary Chain non fanno dischi importanti dagli anni ’80, mentre il belga The Magician ha l’unico merito di aver remixato I follow rivers di Lykke Li. Un po’ poco.

MILANO MI AMI

In generale, si sente bene che lo staff del festival passa tutto l’anno a cercare talenti, vecchi e nuovi che siano. Per esempio, il teaser del festival che gira su You Tube è un piccolo capolavoro e utilizza Digital versicolor degli americani Glass Candy. Il loro electropop sofisticato sinora è rimasto nell’underground, ma siccome suonano dal ’96 sul palco ci sanno stare. Chi avrebbe avuto tanta voglia di arrivare fino in California, al Coachella, valuti bene un’alternativa che dista dall’Italia solo un’ora e mezza di volo low cost. Oppure chieda info sul Primavera a chi gestisce il suo live club preferito. Tra i frequentatori della sezione Pro, per gli addetti ai lavori, gli italiani sono numerosi. Quest’anno sul palco ci sono ben tre band nostrane: Blue Willa, Foxhound, Honeybird & the birdies: cantano tutti in inglese ma musicalmente sono lontani anni luce tra loro, il che fa ben sperare.

È il più importante indie festival italiano. C’è il rock spinto dei Linea 77, ci sono i Giuradei, cantautori bresciani molto intraprendenti, c’è Mauro Ermanno Giovanardi, uno che non invecchierà mai... Le band sono una sessantina, è impossibile citarle tutte. Anzi, è inutile. Mi Ami, come dice il sottotitolo, è soprattutto una tre giorni di musica bella e di baci. L’Idroscalo non è Ibiza, ma quando si ha la compagnia giusta e un palco in lontananza può anche capitare di innamorarsi.

22 - 26 maggio www.primaverasound.com

7-9 giugno, Circolo Magnolia www.rockit.it/miami/2013

58 | URBAN


BAR, RISTORANTI & CO.

URBAN | 59








MILANO ULTIMA FERMATA DI FRANCO BOLELLI

PROFUMO DI SELVATICO Adesso allarghiamo l’inquadratura. Perché è chiaro che il palco è il centro di tutto – lì sopra ci sono tutte insieme quelle dieci o venti band che ci danno il polso (e il ritmo, e il suono, e l’atmosfera) della musica oggi: ma il luogo in cui sorge quel palco è tutt’altro che irrilevante. Ecco, inquadrando il luogo dove vanno in scena tanti dei festival che accendono luci e scatenano energie – da Coachella a Glastonbury – la prima parola che viene in mente è inospitale: deserto, fango, sole a picco o torrenti d’acqua, scenari desolati, strutture di accoglienza che al confronto gli Spartani erano debosciati. Si dirà che tutto questo lo si era già visto a Woodstock: ma allora si era trattato di una scelta poco più che casuale, e in ogni caso gli epigoni di quei proverbiali tre giorni erano poi naufragati nell’approssimazione “alternativa”, nella scarsa attenzione per le esigenze del “pubblico” o nella sgradevolezza del “pubblico” stesso. Il vero prototipo della scelta di allestire festival in luoghi dove per il resto dell’anno arriva solo chi ha sbagliato strada è semmai Burning Man, che – senza neanche un palco, senza nomi celebri e anzi sventolando la bandiera “no spectators” –

66 | URBAN

come un vero canto delle sirene attirò nel torrido deserto del Nevada l’America più irregolare e avventurosa. Per capire come mai tanti concerti in Fateci caso: quanto più una città è luoghi ideali – facili da raggiungere, evoluta, quanto più è espressione del tutti i comfort, eccellente acustica – mondo globale, tanto più ogni volta che non esercitano la stessa fascinazione di ci andate non potete non accorgervi che questi festival ai confini della civiltà, è aumenta il numero di bambini che non si allora evidente che dobbiamo spingerci al riesce a definire in base ad alcuna identità di là dei confini del palco e della musica. etnica e razziale. È così a New York, Non voglio metterla giù troppo dura, ma a Los Angeles, e poi a Londra, e giù a credo proprio che tutto questo abbia a che scendere. Le grandi metropoli sono sempre fare con il nostro inappagato bisogno di più popolate da spettacolari frullati esperienze iniziatiche: in un certo senso, genetici, seconda o terza generazione di avventurarsi per tre giorni nel deserto o combinazioni dove le origini scivolano nel fango è la versione usa-e-getta dei sempre più sullo sfondo e nuove misteriose viaggi in luoghi inesplorati lontano dalla sfumature conquistano la scena. Ok, non tribù. Più la società propone un’esistenza tutte riusciranno come Jessica Alba o come sterilizzata e sotto controllo, più è – permettetemelo – la spettacolare bambina inevitabile sentire un minimo di richiamo californiana di mio figlio (babbo milanese e della foresta: Coachella e Glastonbury madre di San Francisco ma taiwanese): però diventano così rituali dove condividere questa condizione indefinibile e plurale sta con altri questa spinta verso il lato non diventando non dico trendy ma in qualche addomesticato, occasionali repubbliche modo familiare. D’altra parte qualunque indipendenti dove le regole e i ruoli evoluzione in qualunque campo è sempre convenzionali perdono qualunque peso. nata da connessioni al di là dei confini, Forse abbiamo bisogno di ritrovarci in e viceversa le culture più arretrate sono luoghi che non esistono, per capire meglio quelle difensivamente arroccate su se la nostra esistenza. stesse. Per esempio le città di frontiera hanno sempre avuto una loro particolare

DON’T FORGET




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.