Moodmagazine 21

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____________________________ testo Filippo Papetti foto Sara Tamburro

The Next One non ha certo bisogno di presentazioni, è una delle personalità più importanti ed influenti dell’Hip Hop in Italia, dagli albori fino ad oggi, e se state leggendo questa rivista probabilmente non c’è bisogno di aggiungere altro. Tuttavia, se la sua attività come breaker è riconosciuta a livello universale, quella musicale a nostro parere è stata per lungo tempo sottovalutata: sia come dj, che come beatmaker. L’uscita di questo suo primo album solista The Beats And The Abstract Tour (Journey Into Sound!), ad esempio, è stata colpevolmente trascurata da molti media di settore. E sinceramente non riusciamo a capire il perché. Fin dai tempi di Dritto Dal Cuore infatti, seminale album dei The Next Diffusion, del 1995 – un lavoro che ancora oggi suona freschissimo, soprattutto dal punto di vista delle produzioni – The Next One porta avanti la sua ricerca su un suono classico e potente, aperto a varie influenze. Da qualche anno inoltre ha trovato su Bandcamp una collocazione ottimale, che gli consente di pubblicare vari Ep e tracce singole, con una cura estrema su ogni dettaglio (ci sono anche un sacco di chicche del passato). The Beats And The Abstract Tour chiude questo cerchio, e apre nuove prospettive. È un disco grandioso e, pur essendo un disco tutto strumentale, racconta più cose della maggior parte dei dischi rap che escono ogni anno. Purtroppo è in formato per ora solo digitale, speriamo presto in un’uscita su vinile. Lo abbiamo contattato in videochiamata per farci raccontare qualcosa in più sulla gestazione dell’album, e sulla sua attività. Lui ci ha risposto da una postazione circondata dai suoi dischi, il leggendario Beats4LifeSTUDIO. Quando uno pronuncia il nome The Next One automaticamente viene in mente il breaking. La tua attività come beatmaker e dj è probabilmente meno nota rispetto a quella di ballerino. Come mai ti è venuto in mente di fare uscire un disco proprio oggi? L’intento era quello di produrre un documento, un documento che rimanga poi accessibile per il pubblico, credo sia un po’ il desiderio che ogni musicista si porta dietro. Per me tuttavia non è mai stata una priorità, perlomeno non nel senso di una dimostrazione che attestasse la rilevanza del mio lavoro, o della mia presenza sulla scena. In generale la mia attività di beatmaker è sempre stata parallela alle altre che stavo portando avanti, e anche se dal di fuori questa poteva apparire secondaria, ti posso assicurare che non è così. Per me è sempre stato Hip Hop fin dall’inizio, e tutto quello che ho assorbito dalla Cultura ho voluto poi riversarlo al di fuori, in maniera diversa, in base ai momenti e alle opportunità. Il disco nasce da quel desiderio lì, che è cominciato tanto tempo fa, ma non mi è mai interessato di fare un disco tanto per fare, come una semplice compilation di tracce. Pur essendo molto prolifico – da quando ho cominciato, nel lontano 1987, ho accumulato una considerevole mole di materiale – il mio cruccio è sempre stato quello di riuscire a dare una forma coerente al tutto. Per questo spesso sono andato in crisi, perché magari amici venivano in studio, ascoltavano le cose, si prendevano bene e mi dicevano di farle uscire. Io però non avevo ancora trovato la formula che mi convincesse appieno. E qual è stata la molla che ti ha fatto fare lo scatto decisivo? Guarda, l’idea mi è venuta il giorno prima del mio compleanno. In sei ore ho fatto tutto. Mi sono reso conto che non dovevo assemblare un disco riassuntivo: dovevo piuttosto scrivere il primo capitolo di un racconto più ampio, di cui questo sarebbe stato il punto di partenza. Qui mi sono venute in aiuto anche le mie esperienze pre-Hip Hop, ad esempio quelle coi fumetti, la Marvel, che sono sempre stati una grande fonte d’ispirazione. Una volta intuito questo è stato facile capire cosa e come volevo raccontare, e quindi selezionare il materiale più adatto. Tra l’altro, a dirti la verità, le tracce del disco non sono neanche le cose che a livello tecnico più mi rappresentano in assoluto, però sono le più funzionali a questo viaggio.

Oltre al suono, mi sembra che ci sia una grossa cura anche nelle parole, nella scelta dei titoli dei brani, come se ogni lettera fosse soppesata all’interno di un contesto. È stata una scelta voluta, giusto? Esattamente. È tutto collegato. Ogni titolo non solo è ispirato al mood della composizione, bensì contiene un elemento che probabilmente tornerà utile in un momento successivo, come riferimento. Il disco è una sorta di video-racconto in musica. Più che un disco di rappresentazione è, come dicevo, un viaggio; un viaggio dentro ai suoni, dentro alle frequenze. Ogni brano inoltre può essere letto su vari livelli, così che ogni appassionato, se avrà tempo e voglia, potrà cercare di coglierne appieno tutte le sfumature. Quindi possiamo ipotizzare The Beats And The Abstract Tour (Journey Into Sound!) come un punto di partenza da cui poi iniziare a pubblicare tutto il materiale che hai raccolto negli anni? Guarda, nel tempo credo di aver sviluppato il metodo e la tecnica giusta per poter realmente raccontare chi sono io, e quello che mi anima, a livello musicale. Con The Beats And The Abstract Tour ci tenevo a raccontare alcune determinate cose, anche per far sentire a più gente possibile alcune produzioni che avevano ascoltato solo persone che magari erano venute a trovarmi in studio. Prima probabilmente avrei buttato fuori dei brani senza un filo logico tra loro. Quindi sì, in un certo senso è un punto di partenza. Hai una collezione di dischi vastissima. Che rapporto c’è tra il collezionismo e il tuo fare musica? Il collezionismo è una conseguenza. I dischi che possiedo non sono il frutto di un accumulo sfrenato, in base alla quantità. È un riflesso. La mia curiosità per fortuna continua ad essere molto forte, sono ancora animato dalla voglia di ricercare, come se fosse il primo giorno. A me piace lasciarmi trasportare dalle robe che mi parlano. A volte sono delle canzoni, a volte dei suoni, delle frequenze. I miei dischi sono come la mia biblioteca. Per questo ho voluto che il mio studio nascesse in questo involucro (indica le pareti dello studio, n.d.r.), perché se mentre ascolto un pezzo mi viene alla mente un collegamento con un altro, posso subito ritrovarlo tra gli scaffali. Ma come fai a stare sempre dietro alle novità? Ogni giorno è una continua esplosione di roba nuova, c’è davvero una sovraesposizione di musica... Non ho lo spasmodico bisogno di essere costantemente aggiornato perché non è che faccio il giornalista o devo essere sempre costantemente sul pezzo. Se c’è qualcosa che mi incuriosisce cerco di documentarmi, risalire alle origini, Diciamo che nonostante la quantità enorme di materiale che esce di questi tempi non manca mai la curiosità di andare a cercare qualcosa. Il mio rapporto con la musica è soprattutto molto emozionale, credo si capisca. Non ho mai creduto nel binomio vecchio/nuovo. Quando una cosa non la si conosce è necessariamente sempre nuova. Quindi il fatto di dover stare dietro a qualcosa che dovrebbe rappresentare in un certo senso la “novità” è un gioco fuorviante da parte di chi veicola magari un prodotto con un obiettivo preciso. Però da semplice fruitore non mi pongo mai pregiudizi su cosa è “attuale” o cosa no. Per me l’esigenza primaria è di vivere delle sensazioni o eventualmente colmare dei vuoti su qualcosa che seguo da sempre. Infatti, quasi quarant’anni di carriera, hai “attraversato” un sacco di mode musicali, hai visto praticamente di tutto. Mantenendo sempre una tua costante musicale riconoscibilissima.. Innanzitutto dentro la cultura hip hop e dentro la scuola di formazione che uno ha avuto modo di frequentare, intendo proprio il background di ognuno, ci sono già tutti gli strumenti per formare un certa impronta di gusto. E anche il modo di come essere riconoscibile rispetto agli altri, rispetto magari alla moda del momento. Attraverso delle citazioni, un certo modo di tagliare un loop, la musicalità, eccetera. L’hip hop è

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sempre stato poliedrico, ci sono sempre state più direzioni, secondo l’interpretazione di più persone, quindi necessariamente cambiava il fatto di proporre. Come dire, abbiamo gli stessi ingredienti però il modo di cucinare è diverso e le nostre ricette cambiano e variano secondo il gusto e la sensibilità di chi le fa. Un beat, un pezzo che funziona lo può fare chiunque.. ma il racconto o la storia di una cultura non credo possa farlo chiunque. Perché è il riflesso di anni di studioe di passione, lo spessore del tuo lavoro, la cura per i dettagli, riferimenti e citazioni, tutto ciò con un certo equilibrio e gusto che ne rappresenta. Ci sono delle cose che escono e lasciano il segno, altre sono solo il verso di cose già sentite e già masticate. Da noi si tende troppo spesso a semplificare con parole che dovrebbero spiegare tante cose ma in realtà confondono soltanto. Hai mai avuto nel tuo percorso un momento di stanca, come se la passione fosse calata? Non proprio. Però ho avuto dei momenti in cui ho dovuto dire basta ad alcune dinamiche che non erano salutari, al fine di mantenere accesa quella passione che mi ha sempre contraddistinto. Ti faccio un esempio: come dicevamo prima il dover star dietro necessariamente alle novità, a quello che secondo gli altri erano le formule giuste; oppure il dover star dietro alle etichettizzazioni, al fine di far comprendere meglio quello che volevi dire o volevi fare. Tutto questo credo sia stancante. Io semplicemente mi sono detto basta, e ho deciso di sprecare meno energie in cose che non rappresentano ciò che provo. Io non credo né nel vecchio, né nel nuovo: io credo che se veicoli qualcosa che parte da dentro, sinceramente, è sempre qualcosa di nuovo. È un’opportunità per rinnovarsi, giorno dopo giorno. Io faccio i beats che decido io, quando lo voglio io, magari qualcuno può dire “guarda, quella roba non la fa più nessuno, è il passato” ma a me non mi interessa, io voglio fare quello! Ho dedicato la mia vita a fare quello! E ci sarà qualcun altro che porterà avanti un altro discorso, com’è naturale che sia. Una delle parole del titolo che più mi ha colpito è “Abstract”. Che ruolo ha l’astrazione nella tua vita? Innanzitutto sono un Acquario (risate, n.d.r.), un motivo ci sarà! E comunque ritengo fondamentali sia l’astrazione, che la riflessività. È un po’ come nella musica: il silenzio che precede la nota è importante quanto la nota stessa, perché in un certo senso ne prepara il manifestarsi, gli offre lo spazio. Le mie – chiamiamole così – conquiste personali sono derivate appunto da questi momenti di riflessione. Quando ho iniziato a ballare, inoltre, non avendo modelli di riferimento al mio fianco, ho sempre cercato con la visione e l’immaginazione di intuire determinati movimenti. Il gesto diventa un gesto quando tu riesci ad intrappolare le tue emozioni all’interno. Magari gli altri notano solo la parte esteriore, ma in realtà è quello che tu ci hai incanalato dentro con la riflessione che produce quel magnetismo. C’è qualcosa che ancora ti emoziona? Guarda, non ho alcuna difficoltà a dire che tuttora mi emoziono, se non fossi legato a queste emozioni probabilmente mi sarei annoiato già da tanto tempo. Mi sono preoccupato negli anni soprattutto di curare quell’aspetto emozionale che mi ha coinvolto dentro quest’avventura. Non ho mai messo me al di sopra di quella che è la mia passione, in questo caso la musica. L’ho vissuta sempre da fan innanzitutto, e non mi vergogno a dirlo. Sono ancora un fan delle cose che mi piacciono e delle cose che mi trasmettono qualcosa. Tutto ciò che faccio, alcune cose decido di condividere, altre chissà, ma nessuna parte dal principio di vendere un prodotto ma sempre dalla necessità di esprimere quotidianamente delle emozioni. Di contrasto: qual è il rapporto con il tuo corpo? Hai fatto per tanti anni un’attività in cui l’atletismo è fondamentale: come vivi ora, ad esempio, l’invecchiamento? Innanzitutto non lo vivo come un dramma. Proprio perché, come dicevamo prima, grazie alla riflessione mi ero già preparato ad affrontare questa sfida. Quello che mi sta accadendo adesso, che ho 52 anni, sono cose che avevo già intuito anni fa, e nel frattempo ho avuto tempo per prepararmi ad accettare l’invecchiamento organicamente,

in maniera naturale. Ciò che ho imparato nel ballo riesco ancora a farlo, perché ho dedicato tantissimo tempo a dettagli che gli altri non potevano percepire, e per altri intendo qui gli spettatori in generale. Dettagli quali il lavoro sull’equilibrio, la qualità del movimento, il controllo della forza e al contempo quelle che sono le stratificazioni e la dimensionalità nello spazio. Queste cose fanno più parte della scienza e della fisica e sono meno evidenti alla parte dell’intrattenimento e della dimostrazione. I miei studi, già dagli anni ’80, si sono focalizzati su questo, sull’organicità del gesto. La scuola che mi ha preparato – ossia la Cultura Hip Hop – mi ha insegnato che dovevo arrivare ad essere abbastanza eloquente, al fine di rendere visibile anche ciò che era la parte nascosta, che è quello che poi rende davvero potente il tuo messaggio. E così come io ballo, io suono. Ascolto ciò che quel suono mi dice, e creo un collegamento, la mia conoscenza si limita a fare da tramite. Hai avuto una carriera bellissima e continui a diffondere musica, cultura, delivery. Hai mai avuto dei rimpianti? Qualcosa che pensi di non aver colto, un treno, un’opportunità? Non credo che sia una questione di rimpianti ma è come nell’andamento della musica, credo sia una questione di alti e bassi che ti accompagnano. Ci sono momenti in cui sei in grado di gestire la situazione, altri in cui non hai gli strumenti per poter trasmettere ciò che era nella tue intenzioni. Difficile essere una persona perfetta, non credo ci sia una persona che non abbia mai sbagliato nella vita. Ed ovviamente ragionare con il senno di poi, rispetto a ciò che sarebbe potuto essere, o addirittura se uno potesse fare come con Photoshop, modificare il corso degli eventi, eliminare ciò che non è andato bene, cancellarne le tracce, ho paura che il risultato poi non rispecchierebbe la vita reale di quella persona. Quando mi capita di leggere articoli piuttosto che seguire delle interviste vedo molto spesso operazioni infelici e pregne di revisionismo. E tanta incoerenza rispetto a ciò che è realmente accaduto. Per esempio io ricordo i tempi in cui l’hip hop era nudo e crudo ed era ostico a molti. E io credo che quella versione vera dell’hip hop ancora oggi non piaccia ad un sacco di persone. Perché non è esattamente la versione alterata che vorrebbero tutti al fine di poter scrivere le parole più pompose. Ho visto gente super radicale che è diventata esattamente l’opposto di quello che predicava. Quello che invece ho colto quando mi sono avvicinato a questa cultura, quindi in tempi dove non c’era nessun profitto da trarne, era che l’hip hop potesse essere una grossa opportunità per la mia vita, per poter trasmettere delle cose che avevo dentro e soprattutto sentivo che mi forniva le capacità per poterle realizzare. Mi sono ritrovato molte volte a pensare al perché sono ritornato in Italia dopo il periodo americano. Se avessi fatto la scelta giusta o meno. Però ho sempre creduto che il lavoro da fare era qui, non a New York. Quello che volevo fare era poter assicurarmi di continuare a trarre spunti per crescere e condividere questa crescita con altre persone. Trasmetterla qui, in Italia. Certe volte ci sono riuscito, altre volte no, non sono riuscito a far arrivare le cose come volevo. Concludo questa piacevole intervista ritornando al disco, che presto avrà anche la sua naturale collocazione nel formato vinile. Io vorrei capire come proseguirà questo viaggio. Allora, la naturale conseguenza di questo documento ovviamente cercherà di avvalersi di quelle che saranno le opportunità che si presenteranno e si manifesteranno. Da parte mia farò ciò che è in mio possesso dal punto di vista promozionale per diffonderlo e trasmetterlo a vari livelli e in vari formati. Ora nella pragmaticità di quello che può essere il dramma di un’artista indipendente che non ha molti mezzi a disposizione per arrivare subito al grande pubblico, devi fidarti soprattutto del network di persone che ti supporta e cercare di farlo arrivare a più persone possibili. Ne parlavo proprio oggi con un artista americano, che acquistando il disco mi faceva presente che al di là del rispetto e della stima reciproca, proprio il fatto di prenderlo significava dare riconoscimento a tutto quello che c’è dietro alla realizzazione, all’impegno profuso, e di conseguenza era anche una sorta di


riconoscimento per il lavoro artistico che anch’egli porta avanti. Ritornando al fatto di come farlo arrivare a più persone possibili, basandoti sulla gente che ti supporta, questa intenzione a volte genera anche una contraddizione di fondo. Ci sono persone che mi chiamano e mi dicono che aspetteranno l’uscita del vinile perché preferiscono acquistare il disco in quel formato. Una scelta condivisibile, certo, ma se tu non supporti il digitale il vinile non lo troverai mai. Perché se tu supporti il digitale io col digitale riuscirò a creare i fondi per il vinile. Capisci che c’è una contraddizione di fondo? Le due cose non possono funzionare insieme. È un po’ come quando hai a che fare con le major che ti dicono se tu funzioni io ti vengo a cercare, ma se io funziono non ho più bisogno di te. Questa è la contraddizione dell’hip hop italiano. Quindi ad un certo punto ti ingegni e cerchi di fare con quello che hai. So benissimo che c’è gente a cui non interessa neanche più il vinile ed è un fatto, ma questo non significa che io debba privarmi di portare la mia musica nel formato principe che ha caratterizzato tutta la mia vita. Così come è un fatto che c’è gente che vorrebbe impedirti di esprimere il tuo gusto o il tuo modo di produrre e trasmettere la musica seguendo i tuoi criteri emozionali perché secondo gli stessi non è più di moda. Ma chi l’ha detto cosa funziona? I giovani? Io conosco dei giovani che fanno altre cose, si interessano ad altro, quindi non rientrano nella categoria? Quindi capisci? Esistono tutte queste contraddizioni con le quali puntualmente ci scontriamo. Il disco vuole avvalersi di quelle che saranno tutte le opportunità che verranno, partendo dal digitale, che pian piano sta avendo il suo riscontro. Credo che un punto a favore sia anche come l’ho confezionato, perché nulla è lasciato al caso, è un racconto dove le note parlano anche senza l’ausilio di un rapper o di un cantante. Vuoi vederlo anche come un viaggio interstellare, molto vicino ai fumetti che leggevo durante la mia adolescenza, salti temporali, ultra dimensionali e cose del genere. Anche la copertina ha un suo racconto, non solo rispetto al titolo che è ovviamente pieno di citazioni ma anche nella sua visione di insieme. E quindi tutto questo stuzzica la mia voglia di trasmettere questo racconto/viaggio in più capitoli, che mi permetteranno di addentrarmi in altri suoni, in altre atmosfere, in altre produzioni che ovviamente fanno parte della mia storia musicale ma che sarebbero rimaste penalizzate in un contesto di disco stile compilation.

Il mio modo di produrre da sempre è molto vicino all’idea del compositore, nonostante i presunti limiti derivanti dal campionamento, dal non poter lavorare sulle note magari nel modo in cui vorresti. Ma questa cosa è anche una sfida per mettere insieme frequenze, musicisti, epoche diverse e dargli una organicità naturale senza nessun condizionamento. Voglio avere lo spazio di poter sorprendere e io stesso di poter essere sorpreso dalle reazioni di chi ascolta questo disco e ricevere feedback. Per me è arte e l’arte sta vive nei dettagli e vive nella volontà di esprimere questi dettagli. Quindi sicuramente ci aspetteremo tante altre novità. Certo, la storia non è finita. Mi fanno sorridere quando parlano del mio ritorno. Ma quale ritorno, io sono sempre stato qua. Non sono mai andato da nessuna parte. Pensa a quello che fa una produzione, fa un pezzo e di conseguenza un disco. Bravo. Io ho fatto 50 milioni di pezzi e ne ho fatto uscire uno. Però quei 50 milioni sono la mia forza. Uno è quello che conosci tu. Ma io mi faccio forza sulle mie fondamenta, che sono solide, in qualsiasi momento per poter costruire qualcosa. In ogni caso ci puoi passare sopra e non affondi. E questo per me è fondamentale. Poi sai, c’è anche la voglia di accontentare, fra virgolette, chi vorrebbe ascoltare queste strumentali con la collaborazione di qualche artista. Probabilmente metterò su una sorta di contest/audizione quelle cose che oggi vanno tanto di moda, darò l’opportunità a chi prende il disco di scegliere una traccia e rapparci sopra. Poi sceglierò quelle che mi avranno trasmesso qualcosa, mi sembra un bel modo per aiutare qualcuno a emergere sfruttando la mia esperienza, anche in una sorta di scambio che possa dare dei frutti reali, e non solo basati sull’opportunismo.



____________________________ intro Alessio Guglielmelli testo Alfredo D’Alessandro foto Sara Ceresoli

L’insostenibile leggerezza dell’essere… un Rapper. Stereotipato, omologato, criticato e additato come pessimo esempio per le nuove generazioni , il Rapper è diventato una delle figure più controverse della società odierna. Accostarlo al titolo di un capolavoro della letteratura, enigmatico e che si imprime nella memoria proprio come una frase musicale, non è però qualcosa di incoerente, anzi. Ormai da tempo e ogni giorno sempre di più, il Rap è campo di studio, anche in ambito accademico. Chi è del mestiere lo sa, quello che contamina il mondo della musica mainstream effettivamente ha poco a che vedere col Rap, ma questa premessa era necessaria per entrare nel discorso e presentare un Rapper unico nel suo genere, che ha fatto della letteratura il suo inconfondibile stile di scrittura. Murubutu, al secolo Alessio Mariani, è insegnante di storia e filosofia, gravita nella galassia artistica dal 1993, tra teatro e musica. Grazie all’unicità del suo flow e all’originalità dei contenuti letterari nei testi delle sue canzoni si afferma come una delle migliori penne del Rap italiano e ottiene consenso intergenerazionale. Anche i numeri non mancano, Murubutu arriva a un pubblico davvero ampio, pur restando vicino a tematiche di spessore. Ma esiste la possibilità che, - come si chiedeva ironicamente qualche giorno fa proprio un membro della crew di Moodmagazine, - Murubutu faccia un pezzo in cui parla solo di bitches, crack, criminalità, soldi, denti d’oro, ecc?” Se non erro, già nel 1993, la Kattiveria, si esibiva nei teatri e penso che per una posse non era una cosa usuale. Quando è nata l’idea di fondere letteratura e Rap? Nel 1993 La Kattiveria si esibiva con delle rappresentazioni di tipo teatrale, con costumi di scena diversi ad ogni spettacolo, con un notevole lavoro di preparazione e allestimento. Non era né vero teatro né letteratura però c’era la voglia di proporre qualcosa di diverso e articolato. Sentivamo la necessità di sfuggire agli stereotipi e all’estetica canonica del rap, trasmettere contenuti facendo qualcosa di coinvolgente. Oggi Murubutu è un artista che ha saputo distinguersi meritatamente. Ti aspettavi una risposta così importante dal pubblico? Adesso sono un rapper che ha ottenuto un poco di visibilità, ne sono felice perché, facendo sempre quello che volevo, non mi sono mai aspettato una risposta crescente di pubblico ma penso sia fondamentale per un artista che, come me, ha una tensione di tipo didattico. Sono contento anche perché quello che ho ottenuto è frutto di un lavoro continuo e costantemente in crescita. La maggior parte del mio pubblico si affeziona alla narrazione e alla componente letteraria più che al rap: i miei ascoltatori apprezzano il vissuto empatico che cerco di creare a livello narrativo nelle mie canzoni e si affezionano per questo. Mi ascoltano e vengono ai live per emozionarsi e questo mi fa enormemente piacere. Mi sento di dire che rapper come te hanno aperto un varco per le generazioni future e ridato importanza alla narrazione oltre al sé. Ti trovi d’accordo? Mi sento di aver dato degli stimoli per interpretare il rap in modo più ampio e profondo. I riconoscimenti scolastici ed accademici, ma anche da parte di quei giovanissimi che ascoltano anche cose completamente diverse, mi porta la consapevolezza di avere raggiunto, nel mio piccolo, un obiettivo. Ai tuoi concerti si trova gente di tutti i tipi , dal rappuso alla studentessa universitaria, cosa ha reso la tua musica così

trasversale? Sicuramente la componente letteraria e la componente emozionale. Nell’ultimo tour in città come Torino e Chiasso, per esempio, c’erano in prima fila persone di 60 anni, spesso sono presenti anche famiglie. Non sono certo l’unico a ottenere questo ma penso sia un bel risultato anche per lo sdoganamento del genere. Il primo brano con la quale sono venuto a conoscenza di te è “Storia di Gino”, diversi anni fa. Hai avuto modo di raccontare in più occasioni storie partigiane nelle tue canzoni. Oggi è ancora importante ricordare? Io insegno storia oltre che filosofia al Liceo, so che la riflessione sul vissuto resistenziale è fondamentale per la nostra identità storica. Veicolare temi così importanti per la memoria collettiva, che sono sempre meno sentiti perché sempre più lontani nel tempo, attraverso un medium accattivante come la musica, credo sia importante per due motivi. In primo luogo per interpretare il nostro presente anche istituzionale, secondo per scongiurare il ritorno di certi atteggiamenti populisti e discriminatori che sono sempre in agguato. Reggio Emilia è stato un luogo dove il conflitto politico è stato acceso. La città può avervi in qualche modo educato a prendere posizione? Ricordo che a Bologna hai rischiato un linciaggio.. Reggio Emilia è sicuramente una città che ha dato un contributo importante alla resistenza, chi vive in questi luoghi cresce con questa consapevolezza attraverso le varie narrazioni, istituzionali e non, attraverso le tante testimonianze donate dal territorio. I fatti di Bologna penso siano decisamente trascurabili. Anni fa ti dissi che il tuo timbro vocale era predisposto alla narrazione, come quello di Guccini. Ci fu un incontro tra voi due, due che hanno saputo leggere il loro tempo, con linguaggi simili ma diversi. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza? L’incontro con Guccini è stato emozionante e decisamente formativo per me, sono suo estimatore da sempre e lui è stato indiscutibilmente un pilastro del cantautorato italiano. Gli ho rivolto domande che volevo fargli da tempo e lui ne ha fatte a me, cosa che non avrei mai pensato fosse possibile. E’ stato interessante capire che c’è una forma di continuità in quello che facciamo, nel tradurre in narrazione il vissuto umano ed emotivo di alcuni momenti storici. Ogni volta che perdo l’orizzonte nella scrittura torno a riascoltare i suoi dischi. Ho pensato che la tua musica, come quella di Dargen ad esempio, è stata forse la prima prova di rap made in Italy che aveva una forte radice nella cultura musicale italiana. È una chiave di lettura giusta, o c’è anche dell’altro? Mi fa molto piacere questo riconoscimento, soprattutto in un genere così fortemente derivativo come il rap, oggi più che mai. Sicuramente è quello che provo a fare io, così come Dargen, Rancore, Caparezza, Claver, è restituire al genere una sua originalità. Il mio forte collegamento con il cantautorato italiano, a livello di intenzione e scrittura, sicuramente va in questo senso. Una domanda leggera, ti sentiremo mai fare una hit estiva con una cantante pop? Una hit estiva non so. Sicuramente non ho paura del pop, se una soluzione melodica o una produzione mi piace non la rifiuto di certo a priori. I tabù e i le preclusioni uccidono l’arte anche perché scivolano costantemente in atteggiamenti giocoforza contraddittori. Pensare che pop e superficialità siano un binomio indissolubile è un errore, secondo me. Certamente non è facile dimostrare il contrario ma è anche una grande sfida da cogliere. Sviluppare un testo significativo su una

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sonorità vicino al pop penso che possa incidere molto di più sulle coscienze e sulle sensibilità collettiva piuttosto che un pezzo underground che, per quanto intenso, ascolteranno solo poche persone. Quali sono 3 album che ritieni fondamentali come ascolti? Direi Radici di Francesco Guccini, Nuvole Barocche di Fabrizio De Andrè e Dal Basso di Lou X. Di qualche mese fa la stampa in doppio vinile di Dove vola l’avvoltoio de La Kattiveria, disponibile direttamente sul sito lakattiveria.com, con diversi contenuti speciali, merchandise e altro ancora. Cosa ricordi di quel periodo? Come è nato questo disco? Dove vola l’avvoltoio è il primo disco della crew, anno 2006, quindi quindici anni fa ormai. La crew nel tempo aveva ridefinito la propria line up acquisendo nuovi membri come Il tenente, U.g.o. e successivamente Dj Caster. Questo album nasce dall’esigenza di esprimere il nostro percorso artistico ma anche umano, un vero e proprio laboratorio musicale nato dalle serate di freestyle, dal confronto con produzioni e le tecniche di scrittura d’oltreoceano ma anche dalla voglia di darci una identità artistica forte e controcorrente. Hai stampato spesso vinili dei tuoi lavori. Sei affezionato a quel tipo di formato? Perché? Si, sono affezionato al vinile e alle musicassette anche se quotidianamente ascolto musica sul telefono. Ho cominciato a comprare dischi alla fine degli anni 80, quando il vinile era ancora la forma principale di fruizione della musica, passavo ore nei negozi di dischi della città, mi sembrava di entrare dentro a templi pieni di tesori. Nel tuo ultimo disco solista troviamo oltre a Peyote, Dutch Nazari e altri artisti anche Caparezza, come è nata la collaborazione? Come vi siete conosciuti? Willie Peyote e Dutch sono persone che ho conosciuto “sul campo”, facendo serate insieme, in giro per l’Italia, dividendo palchi e passando bellissime serate. La conoscenza di Caparezza invece è avvenuta a distanza, tramite una conoscenza comune. Michele poi mi ha invitato ad un suo concerto e nel tempo ho avuto modo di conoscere una persona davvero squisita ed unica. Infernvm è il titolo del tuo disco con Claver Gold che corona un’amicizia e stima reciproca che va avanti da tantissimo tempo. Quando avete deciso di fare un disco? Da diverso tempo ormai io e Daycol pensavamo di fare un disco insieme. Ne parlavamo spesso ai live dove ci divertiamo sempre tanto. In un momento in cui non abbiamo più avuto le pressioni dei dischi solisti ci siamo detti che era venuto il tempo. Doveva essere un EP ma poi è uscito fuori un disco intero che speriamo di poter portare sul palco in questo 2021. Giocare con la materia dell’Inferno di Dante è un’operazione molto stimolante per chi come voi lavora con le parole, credo sia fuori discussione l’abilità nel far indossare un vestito nuovo e ad utilizzare un medium diverso per un’opera titanica come la

Divina Commedia. Un omaggio riuscito, decisamente. Ma come avete scelto questo concept? L’inferno dantesco è un concept scelto da Claver. Io inizialmente avevo paura di approcciare un’opera così imponente e maestosa della letteratura italiana invece lui aveva già in mente la giusta prospettiva e freschezza con cui interpretarla. Sono contento del risultato. L’emergenza Covid ha stoppato l’attività live. Attività che nel tuo caso è davvero intensa da diversi anni a questa parte, contando che hai un altro lavoro. Come vedi questa situazione? È mancata un po’ di tutela per questa tipologia di lavoratori? La situazione dei live è drammatica. Non tanto per me che ho un altro lavoro e, nonostante mi abbiano spostato un tour già tre volte, sono comunque uno dei pochi che ha continuato a suonare fino ad ottobre e quindi non posso certo lamentarmi. Sicuramente per chi vive di musica è un problema enorme: artisti, maestranze e i lavoratori dello spettacolo non sono tutelati adeguatamente in questo momento storico. Non solo le tue liriche ma anche la scelta delle produzioni nei tuoi lavori ha contraddistinto la tua arte e dato giustizia alle tue parole. Come scegli le musiche? Con chi hai collaborato più spesso e perché? I produttori con cui collaboro più spesso sono anche amici, come XXX-Fila, Dj West, Dj Caster o Il tenente che ha firmato la maggior parte delle mie produzioni nel tempo. In linea di massima quindi ho sempre avuto dei produttori di fiducia che hanno saputo creare le atmosfere adeguate per le mie narrazioni. Talvolta mi capita che altri artisti mi propongano beats da cui rimango folgorato e allora scriverci diventa spontaneo. Ultimamente ho cominciato a lavorare con alcuni produttori come James Logan e Gian Flores. Lo studio è una parte fondamentale della tua opera immagino. Lavorando come professore, cosa vedi nei giovani di oggi? E’ vero che sono così vuoti come li raccontano? Perché io non credo sia così, penso ci sia soltanto una mancanza di stimoli reali. Nonostante quello che si afferma e si legge da più parti, nei giovani che conosco a scuola, quelli che osservo ai concerti vedo molta curiosità, interesse, sensibilità. Penso che il sistema comunicativo attuale sia decisamente limitativo e metta loro a disposizione tante informazioni da fruire in modo fugace favorendo un atteggiamento superficiale che poi non gli si può addebitare come una colpa. È il sistema massmediale di televisione, rete e soprattutto social che va sempre più in questa direzione. La profilazione, la targhettizzazione creano degli universi di conoscenza parziali e avulsi dal reale. Al contrario l’educazione scolastica, con tutti i suoi limiti, rema ancora in senso completamente contrario: favorisce la sedimentazione del sapere, il lavoro in profondità, la riflessione e il collegamento fra i contenuti. Per fortuna c’è ancora la scuola ed è pubblica. Banalità di fine intervista ma doverosa, cosa dobbiamo aspettarci da Murubutu in futuro? Ho progetti su più versanti, in fase embrionale. Sicuramente c’è un nuovo disco in arrivo.

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____________________________ testo Davide Guasti foto Hona_Photo

Credo che Metal Carter abbia bisogno di poche presentazioni. È stato tra i membri fondatori delle storiche crew Truceboys e Truceklan, uno dei nomi più iconici della scena romana, a livello di immaginario e di stile. Per quanto mi riguarda, verso i quattordici anni mi capitò per caso di ascoltare un pezzo. Ad un certo punto, parte una strofa che più o meno faceva Il signore mi ha castigato, uno zingaro mi ha letto la mano ed è scappato terrorizzato Spero di essere vendicato presto Un presagio funesto la morte dei genitori mi ha chiesto Non scherzo. Non riesco a fare un discorso serio Gronda sangue il mio stereo, ho un odio funereo nero che mi colpì in faccia come uno schiaffo. Tempo dopo consumai letteralmente Sangue. Una delle mie strofe preferite tutt’ora, dopo più di dodici anni, è quella di “Truceboia” contenuto in Cosa Avete Fatto a Metal Carter?, roba che ancora mi fa sobbalzare dalla sedia. Non riesco a scrivere cose diverse, sono un tutt’uno col malessere. Non faccio finta, sai che c’è? Ho da sfogarmi, aiutami a liberarmi, da questa prigione senza muri. C’è buio totale, ma guarda bene non siamo da soli! Dalla passione per il cinema – soprattutto horror – alla difficile adolescenza di Primavalle, l’artista romano presenta il suo ultimo disco, Fresh Kill, con una spettacolare copertina disegnata da Scarful. Chi meglio di lui stesso può introdursi e introdurvi alla sua “Uccisione fresca”? Metal Carter, Il Sergente Di Metallo. Parlaci un po’ di te e introduci pure Fresh Kill! Da chi sono composti i featuring, come li hai scelti e come ti sei trovato con gli artisti con cui hai collaborato? Uccisione Fresca è una traduzione giusta ma molto letterale... “Fresh KilI” di solito si usa per dire “Appena Ammazzato” “Ucciso da poco”. I featuring li ho scelti tramite il mio solito criterio, cioè chiedendomi: chi ci sta bene su questo tipo di traccia e perché? Chi può valorizzarla? Come mi è sempre accaduto mi sono trovato molto bene con chi ho collaborato. Tutti sono stati molto contenti di essere stati coinvolti nel progetto e hanno dato il loro massimo. Sul disco troviamo tre importanti ritornelli affidati a Young Signorino, Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti e a Pacman XII della Do Your Thang. Il rap di Danno, Esa, Santo Trafficante e Sick Boy Simon (Dirty Dagoes). Via dalle vicende brillantemente Ti sputo in faccia, ho saliva bollente Sei contro me, sei incosciente, poco furbo Secco, sono un Porsche Cayenne Turbo Diffondo il verbo come fosse un morbo Guarda il faccia la realtà, maledetto orbo (Yeh) Hai imparato davvero un botto dalle situazioni violente? Sì, purtroppo si. Avrei voluto veramente evitare volentieri ma non si può cambiare il proprio destino soprattutto quando sei un bambino e/o un’adolescente. Ho sempre respirato un clima di tensione e violenza sia a casa che per strada. Quindi tutto questo ha inevitabilmente influenzato il mio rap e la mia persona. Puoi considerarmi uno specialista della violenza, ma non pensare solo alla violenza fisica, esistono tanti tipi di violenze, anche molto più subdole. Ne ho viste di tutti i colori, ormai non mi stupisco di nulla ma sono convinto che violenza e follia non hanno fondo. No non c’è bisogno di crepà per andà all’inferno. Io la interpreto e l’accosto abbastanza alla società odierna e ad alcuni suoi aspetti. Oltre che naturalmente all’eventuale disagio che può presentarsi in molteplici situazioni. Descrivimi invece il tuo punto di vista su questa citazione. La mia interpretazione è che la realtà può superare la fantasia. Il famoso e terrificante inferno biblico può essere superato dalla

sofferenza che si prova sul pianeta terra quindi non c’è bisogno di morire per provare dolori infernali perché l’inferno può essere situato proprio sulla terra. Questo tipo di inferno è sotto gli occhi di tutti invece dell’inferno dell’oltretomba, non c’è una certezza cosi grande in confronto alla quotidiana realtà. Una collaborazione che non mi aspettavo e che mi ha piacevolmente sorpreso è quella con Santo Trafficante. So che sono anni e anni che collaborate. Com’è nata la vostra amicizia? Da pischello son cresciuto con “Lato Oscuro” “Violenza Domestica” e “Da Primavalle a Torrino” Santo Trafficante è un mio grande amico dal 2004. Lo conobbi perché vidi un suo videoclip in rete e pensai: “Cazzo!! quando suona questo??! Spacca!! Lo voglio andare a beccare!!” Così andai ad un suo concerto, mi presentai e da quel giorno nacque una lunga e solida amicizia. Lui musicalmente già mi conosceva perché era già uscito già da qualche anno Sangue dei Truceboys. Ha uno stile molto originale e si è sempre dato molto fare per il rap. Ha fatto uscire una valanga di dischi e mixtape, sicuramente è uno tra quei rapper italiani che meritano di più. Cosa ti ha portato a fare un featuring con il già tanto discusso Young Signorino? Lui nel 2018 propsò la mia song “Controverso” contenuta in Slasher Movie Stile tramite un’instagram story. Da quel momento iniziamo a parlare prima in chat e poi dal vivo e così nacque un’amicizia. Per quanto sia un personaggio discusso, diverso da me e non strettamente collegato alla cultura Hip Hop lo apprezzo musicalmente e può vantare il fatto di essere stato uno tra i primi in assoluto in Italia a portare un certo stile e attitudine. Che ti piaccia o no. Avevo due strofe senza ritornello di “Armata Mimetica” e ho pensato di incaricare lui per quanto riguarda il chorus ... Non mi sono sbagliato! Ha fatto un ottimo lavoro! La sua voce calza a pennello su quel beat ed è riuscito a tirare fuori delle parole perfettamente in linea con la song. La mia strain sai che te lascia steso Il mio mic è un kalash, ra-ta-tam-tam, preso In mezzo agli occhi come fosse niente Fomento il culto del sergente Mettiti in ginocchio e prega il dio-serpente (Danno - tratto da Landmarks) Penso che Landmarks sia una pura punta di diamante dell’album, senza naturalmente togliere niente alle altre tracce. Metal Carter, Danno ed Esa. Totale. Brutti stronzi, avete chiuso i giochi, farabutti. Vi mando a vivè su pianeti distrutti” Il pezzo con Danno ed Esa è veramente potentissimo. Ti va di raccontarmi come l’avete pensato e come avete diviso le strofe? Come vi siete accordati? Quel pezzo è venuto fuori in un modo particolarmente istintivo e naturale in confronto ad altre song del disco. Ho semplicemente mollato un beat con una mia strofa sopra ai due MC dicendogli di starmi appresso come mood, e loro ci sono riusciti alla grande. È una figata che quel pezzo piaccia molto perché è l’unico brano del disco che non ha un ritornello, quindi oltre al tipo di rime usate anche a livello di struttura della song di tratta di rap puro. Ho notato che l’album oltre ad avere suoni crudi che fanno parte della tua carriera, ci sono anche sprazzi di cose più attuali, come la collaborazione appunto con Pacman XIII o il particolare ritornello di Frontline. Qual è quindi la tua posizione sulla scena rap e trap attuale in Italia? Pacman ha fatto veramente un ritornello bomba! Mi gasa una cifra! Sì capisce che è uno che ascolta molto rap americano e anche molta “robba” moderna!

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Per quanto riguarda il mio ritornello su “Frontline”, mi sono reso conto una volta registrato che la mia voce stonava. Non volevo cambiarlo perché spaccava e quindi ho fatto aggiungere un effetto sulla voce per intonarlo e farlo suonare meglio... Non mi ricordo esattamente come si chiama quel tipo di effetto, ma sicuramente non è l’autotune, anche se non ci sarebbe stato niente di male ad usarlo. Lo usava anche Big Daddy Kane tanto per citarti un grande rapper old school. Non mi interessa troppo sta sorta di diatriba trap/rap se uno spacca, spacca e basta! Non c’è una new school, non c’è old school, c’è solo true school. Per quanto riguarda più strettamente il mio rap, ha uno stile talmente unico e originale, come pochi in Italia hanno, che le tendenze che seguono gli altri mi interessano poco. Io sono principalmente impegnato a portare avanti il mio discorso. Se lo ha fatto, la quarantena ha influito in qualche modo in quello che hai scritto nell’album? No, perché l’album è stato scritto prima della quarantena. In ogni caso la quarantena mi ha influenzato positivamente, ho reagito con grinta e mi ha ispirato nuove rime. Alzo le mani al cielo, risplende il cielo. Alza gli occhi al cielo, leggi il mio vangelo, scemo. Sfacelo la tua esistenza, mò non suono, faccio una conferenza La caratterizzazione dei testi deriva direttamente dal tuo vissuto immagino. Ti andrebbe di raccontare un episodio, se c’è, che ha influito particolarmente in una strofa dell’album? No, non c’è un episodio singolo che ha influito nella scrittura di una strofa o in questo disco in generale perché proprio come mi è successo per i prodotti precedenti l’album è il risultato della somma delle mie esperienze di vita. Quindi sono più pensieri ed idee che si intersecano tra di loro.

So che sei un amante del cinema. In uno skit dell’album pare che si senta qualcosa proveniente da un film. Anche io sono particolarmente patito, sapresti dirmi cosa? Sì è vero amo il cinema! Soprattutto quello anni 70/80/90! Lo skit che senti è un dialogo tratto da “Il Giustiziere della Notte” parte 2 con Charles Bronson. Quel dialogo era ottimo per chiudere quel pezzo secondo me. Soprattutto sui primi miei album ci sono altri frame audio di film e dopo tanti anni di mancato utilizzo ho deciso di reinserire un dialogo di un film su una mia song. Alla fine è una cosa molto figa ed è totalmente “alla Metal Carter” Vorresti concludere dicendo qualcosa in particolare? Concludo ringraziando moltissimo te e tutto lo staff di Moodmagazine per questa bella intervista e salutando tutti i miei veri fan! Only death is real!




____________________________ testo Antonio Solinas illustrazione Carmine Palladino

La sua parabola si è chiusa in maniera bizzarra così come era iniziata (la leggenda vuole che DOOM sia nato quasi per caso a Manhattan, in un evento open-mic al Nuyorican Poets Cafe). Quello che sappiamo, dato il finale bizzarro e ancora non del tutto chiaro, è che DOOM non c’è più. E non sembra importante andare più a fondo, nonostante i particolari da fiction come l’annuncio della scomparsa a un mese dalla morte. Questo è quello che l’uomo ha voluto e andare a smontare il meccanismo sembrerebbe solo un atto di voyeurismo inappropriato e non necessario. È stato scritto molto sulla musica di MF DOOM, sulla sua originalità, sulle sue idiosincrasie e persino sulle sue influenze. Ma non è stato scritto tutto, perché, per esempio, troppo trascurato è stato l’aspetto di una disamina più articolata su DOOM come produttore. Poco si è ragionato sul suo stile, spigoloso e grezzo ma anche raffinato e capace di articolarsi in una fenomenologia musicale a base di sghemba sampledelia che spazia da campioni di tropicalia a sample di cartoni animati classici (e tutto quello che passa in mezzo), sempre al servizio di un boom bap classico ma particolare come l’uomo che lo creava. Né è stato esplorato troppo l’approccio alle batterie, che DOOM ha sempre tenuto in quattro quarti ma con poco swing e o molto quantizzate, distinguendosi per l’uso insolito di drum machine o arrangiamenti di rullanti personali e sorprendenti. E certamente, forse schiacciati dalla sua enorme personalità come personaggio (letteralmente) non ci si è forse soffermati con sufficiente attenzione sulla costruzione dei suoi brani, tutti basati su un curioso senso di continuità da parte di DOOM, che si è quasi sempre svincolato dalla forma canzone classica per il rap moderno, ritornelli in primis, senza rinunciare a una bizzarra fruibilità. Una continuità ottenuta tramite un peculiare senso dell’umorismo che, a sentire lo stesso DOOM, procedeva per accumulazione. Il punto di partenza era sempre una rima inusuale e d’impatto (per esempio, roba tipo “Catch a throatful from the fire vocal, Ash and molten glass like Eyjafjallajökull”, da Guv’nor), estendendo poi la punchline esattamente come fa un comico quando crea una routine di stand up a partire da una prima battuta fulminante (o come si fa fra nerd quando si scherza su robe, appunto, nerd: è sempre un’escalation). Questo è particolarmente evidente in alcune delle barre più apprezzate del Nostro (esempio a caso: “In living, the true gods / Givin’ y’all nothing but the lick like two broads / Got more lyrics than the church got ‘Ooh Lords’ / And he hold the mic and your attention like two swords / Or even one with two blades on it / Hey you, don’t touch the mic like it’s AIDS on it / It’s like the end to the means / Fucked type of message that sends to the fiends / That’s why he brings his own needles / And get more cheese than Doritos, Cheetos or Fritos” da Accordion). È stato scritto molto sulle origini di MF DOOM, sul suo passato come Zev Love X nei KMD, sul promettente esordio su The Gas Face, su Mr. Hood e infine sulla débâcle di Black Bastards, che seguì a breve distanza la devastante morte del fratello Dingilizwe/Subroc. Ma non è stato scritto tutto. Per esempio, non è stato adeguatamente evidenziata la metamorfosi, compiuta grazie alla frequentazione della crew Constipated Monkey (e in particolare del rapper Kurious), dei fratelli Dumile da musulmani hardcore a sperimentatori di sostanze psicotrope (e alcool): uno dei passaggi fondamentali nella carriera artistica dell’allora Zev Love X, in quanto una delle poche istanze dove le influenze sono “esterne” e non provenienti dalla sua infanzia. Lo scambio con la crew di New York (alla quale era affiliato anche Bobbito Garcia, figura fondamentale nel lancio della carriera discografica di DOOM con la Fondle ‘Em Records) permise all’allora giovane rapper, poco più che ventenne, di porre le basi per la propria evoluzione sonica e caratteriale (poi ahimé modellata dalla tragedia). E a proposito di personalità/persona, poco è stato scritto, nello specifico, su come DOOM abbia creato la propria identità. Certo, è stato messo in evidenza, e anche molto bene, come il rapper/produttore avesse come faro lo spettro di quella che oggi viene chiamata “cultura nerd” (solo per fare qualche esempio sparso, G.I. Joe, i film di Kevin Smith, Star Wars, anime, personaggi di cartoon classici come Dick Dastardly

e Muttley) e che usasse quel quadro di riferimento per rielaborare la cultura urbana nera nella stessa maniera in cui altri hanno invece usato i film di kung-fu o il mondo di Tony Montana. Ma, nella rinascita di Zev Love X, è stata spesso sottovalutata l’identificazione totale fra il rapper e l’alter ego Dottor Destino (in americano Doctor Doom), a favore di altre influenze (Destro, Phantom of the Opera). Certo, un personaggio poliedrico come DOOM non poteva fare un semplice ricalco, come ricorda anche il costante gioco di parole sulla parte “MF” del suo nome, ma l’aderenza al personaggio di Doctor Doom (da noi Dottor Destino), creato da Stan Lee e Jack Kirby, è stupefacente. A pagina 11 di Fantastic Four Annual 2 (1964), intitolato The Fantastic Origin of Doctor Doom, il megacattivo del mondo dei Fantastici Quattro, infilandosi la maschera che ne coprirà per sempre il volto, dice: “Da questo momento non ci sarà più Victor Von Doom! [...] Ma al suo posto ci sarà un altro... Più saggio... e forte! Più geniale, più potente che mai!! Da questo momento, sarò conosciuto come... Doctor Doom!” E la vignetta che ne rivela le prime parole come Doctor Doom lo vede con una maschera molto simile a quella che appare nel video del primo singolo di MF DOOM, Dead Bent, a partire dalle fessure quadrate per gli occhi. Ma c’è di più. Doctor Doom, deciso a nascondere per sempre le proprie sfigurate fattezze (proprio come Daniel Dumile si sentiva sfregiato dall’industria musicale che aveva rigettato un album importante per lui come Black Bastards dei KMD), decide che la maschera potrà essere rimossa solo tramite un meccanismo legato a un anello che porta al dito, e che i servi di Doom camuffano con un peculiare stratagemma. L’uso di... “special herbs”! Sì, avete capito bene, è dalla sequenza delle origini di Destino che viene il nome della serie strumentale Special Herbs, uscita nel corso degli anni per varie etichette indipendenti a nome Metal Fingers (ritorna il gioco sulla MF del nome di DOOM). Quella serie che inizialmente riciclava in copertina proprio le vignette di Jack Kirby dai Fantastic Four degli anni 60 (poi presumibilmente oggetto di “cease and desist” da parte della Marvel, visto che a un certo punto gli artwork e la maschera delle uscite di DOOM sono stati debitamente differenziati dalla controparte fumettistica). E Victor Von Doom, in americano, non si pronuncia forse come Viktor Vaughan / DOOM? O possiamo dimenticare che i famosi/ famigerati “Doomposters” (le controfigure mascherate usate più volte in situazioni di live, in una sorta di strana beffa) altro non sono che un’intelligente rimando ai Doombot, i robot in armatura usati sempre dal Dottor Destino per depistare i nemici? Lo scrittore Tom Bissell, nel proprio libro Magic Hours, parlando di letteratura, descrive il “vero outsider” come colui che crede unicamente all’idea che non ci sarà per lui alcuna speranza di entrare all’interno del mondo letterario. In questo senso, per Bissell l’industria musicale è diversa, in quanto riesce a plasmare l’indipendenza anarchica in prodotti mainstream che sfruttano con cinismo l’appeal dei veri outsider. Il risultato è che la forza seduttiva dell’industria fa sì che il vero outsider di successo non resti vero o outsider molto a lungo. DOOM, in questo senso, invece era il true outsider per eccellenza, in quanto con quel discorso delle cerchie interne non aveva assolutamente alcun punto di contatto, né voleva averne. Le sue collaborazioni più famose e significative (Madlib, Prince Paul, MF Grimm, Jneiro Jarel) sono con personaggi che hanno sempre mal digerito le regole del “gioco”. E forse anche per questo è ancora più singolare che la Clarks lo abbia scelto qualche anno fa come titolare di un modello in serie limitata delle Wallabees, la scarpa più amata da leggende del rap come Ghostface Killah (che con DOOM ha collaborato) o Slick Rick. O che, oltre un decennio fa, sul New Yorker di lui abbia scritto, e con trasporto, non uno dei soliti sicofanti delle popstar del genere, ma TaNehisi Coates, forse il più importante intellettuale nero di oggi, e che l’immagine a coronamento del pezzo fosse di Jaime Hernandez, uno dei più validi e influenti cartoonist indipendenti e membro di una delle top two families di Oxnard, California (se amate il rap, sono certo che sappiate quale sia l’altra).



____________________________ testo Selene Luna Grandi foto Giuseppe Molinari

Partiamo dal tuo progetto più recente, anche se per indole poi mi piacerebbe ritornare indietro non fino alle origini ma almeno di qualche anno…Kill The Beat, perché? L’input immagino sia partito dalla “necessità” di usare le tue produzioni o per endorsare il tuo studio.. Oppure c’è dell’altro? Kill the beat nasce innanzitutto dall’esigenza personale di collaborare con altri artisti in un progetto mio, in cui potermi mettere in gioco “dall’altra parte del microfono”. Dopo l’esperienza Duplici e un’altra esperienza come duo di dj - negli anni in cui sono stato a Londra -, mi sono concentrato a fare musica da solo, in modo possessivo, quindi questo è stato innanzitutto un modo per mettermi alla prova e imparare a condividere la mia musica con altri artisti. La volontà, oltre che di promuovere il Substrato come struttura professionale, che fornisce servizi audio con un particolare knowledge in ambito Hip Hop ed Elettronica, era quella di rimettere l’arte del microfono al centro, in modo nudo e crudo. Kill The Beat nasce sulla falsariga di diversi altri format, che in questi ultimi anni si sono fatti spazio su Yotube e utilizzando in dosi massicce i social: c’è qualche differenza rispetto ad essi? La differenza rispetto ad altri format - anche più altisonanti - è che il Kill The Beat è fatto nel Substrato Studio esclusivamente con artisti della scena torinese, che rappano sui miei beat, con il mio sound. Questo lo rende unico di per se, alla fine è quasi uscito fuori un concept album. Hai sempre coltivato la passione del rap unendola a quella delle produzioni, non hai mai scelto di andare solo in una direzione, approfondendo anche gli studi come sound engineer a Londra. Hai qualche rimpianto? Substrato Studio è il frutto di anni di studio lavoro e sacrifici. Quando durante la lavorazione di Schiena contro Schiena insieme ad Alby andammo in studio da Bassi, all’allora Fortezza delle Scienze, per mixare e masterizzare il disco, rimasi così colpito dal processo e dal risultato finale che decisi che volevo assolutamente studiare e conoscere il suono, per capire come manipolarlo ed elevare le nostre produzioni; da quel momento è iniziato un lungo percorso di studio e ricerca che continua tutt’ora. Negli ultimi anni ho iniziato ad avvicinarmi anche alla produzione, inoltre mi è sempre piaciuto collezionare dischi e suonarli, ma non ho mai utilizzato la parola DJ davanti al mio nome perché ho troppo rispetto per la categoria; mi piacciono tante sfaccettature di questa cosa, è vero. Avrei dei rimpianti se avessi fatto delle scelte per compiacere qualcuno all’infuori di me, ma ho sempre fatto di testa mia, spinto da una sensazione più che da un idea sensata. Se mi guardo indietro ed unisco i punti la traiettoria della mia vita inizia ad avere un senso, non penso mi sentirò mai veramente realizzato per come sono, ma posso dirmi soddisfatto del percorso fatto fino a qui, ho ancora fame e voglia di crescere e confrontarmi. I feel blessed. In realtà queste prime tre domande erano solo il preambolo a quello che mi interessava di più: ti conoscevo come Paolito, ora ti ritrovo col moniker Litothekid. Perché questo cambiamento? Se possiamo ritenerlo tale.. Ho iniziato ad utilizzare lo pseudonimo Litothekid soprattutto per i miei esperimenti di produzione come gli EP Hybrid Theories e l’ho poi mantenuto per tutto quello che faccio quando non faccio il rap. Per spiegarlo in modo abbastanza chiaro, di solito dico che Paolito fa il rap, mentre Litothekid fa il cazzo che gli pare (ride n.d.r.) Qual è il tuo primo ricordo musicale? E cosa stai ascoltando ora? Immagino che non ci siano parallelismi… Mi ricordo che ascoltavo la radio con la mano sul tasto rec aspettando che la radio passasse “quel brano”, per imprimerlo su cassetta e poterlo ascoltare quando volevo.

In questi giorni sto ascoltando Chick Corea, pianista e compositore fenomenale che è venuto a mancare qualche giorno fa e che non avevo mai approfondito a dovere. Dagli anni 2000 ad oggi immagino sia cambiato il tuo modo di lavorare, sia per via dei mezzi che per l’approccio compositivo. E necessariamente anche come upgrade a livello di strumentazione.... Cosa cerchi oggi nel tuo workflow? Agli esordi eravamo in fissa con un certo tipo di suono Hip Hop e volevamo fare quello, quindi avevamo una direzione ben precisa da seguire, a partire dai bpm ai dischi da campionare, le metriche ecc. Oggi nel mio workflow cerco di inglobare le diverse esperienze e influenze musicali per creare un suono originale che rappresenti il mio percorso e abbia senso nel 2021. A livello di strumentazione ho delle casse migliori, dei convertitori migliori, qualche synth analogico e una collezione di samples più ricca, ma penso che per creare della buona musica siano le idee e il gusto a fare la differenza, oggi con un laptop si può fare tutto, no excuses. Sento il tempo che mi schiaccia quindi corro senza freno so che si vive una volta soltanto e che domani è un giorno in meno ho una crew che lo spinge più in là una famiglia dei ricordi e tremo se mi chiedo cosa resterà che ne sarà della mia musica dei miei anni, dei miei drammi, del mio soul e del talento che lo illumina Non siamo coetanei, ho qualche anno in più, ma volevo farti questa domanda: come spiegheresti Schiena contro Schiena a un ragazzo di 16 anni? A discapito di ogni ambizione illusoria.. Il mondo visto e filtrato dagli occhi di due fratelli con madri diverse, nei loro anni migliori, raccontato con estrema lucidità e alla velocità media di 94 battiti al minuto. Beh, direi, descrizione perfetta. Passiamo ad altro, una domanda che è abbastanza indicativa di quello che stiamo vivendo. L’industria del live e tutto l’indotto che c’è dietro ripartirà sicuramente finita la pandemia. O quasi. Come si fa a mantenere un approccio sereno in un momento difficile come questo? Durante la quarantena ci sei riuscito? Fortunatamente il mio lavoro come responsabile di post produzione audio non ha subito gravi rallentamenti, questo mi ha permesso di rimanere lucido e dedicare energie al format Kill the beat pur in un periodo complesso come questo. Ho molti amici e colleghi la cui prima fonte di sostentamento deriva proprio dall’industria dei live e spero per loro e tutto il settore che si possa al più presto tornare alla normalità. Credo che oggi siano utili sia l’incontro che lo scontro, quando serve. È difficile trovare una sorta di coerenza fra passato e presente, c’è molto in ballo e non parlo solo a livello di soldi e/o follower. Ti chiedo da boomer, dato che non è difficile calarmi nella parte: esiste un conflitto generazionale oggi? Si, è vero, è difficile trovare coerenza tra passato e presente, ma la si può trovare. Nonostante ci sia in Italia una wave figlia della globalizzazione del genere rap/trap, che non ha radici e non conosce il passato del genere nel nostro paese, è anche vero il contrario. Non parlerei di conflitto generazionale, perché vedo nascere collaborazioni spontanee anche tra artisti di diverse generazioni e penso che ci sia da imparare sia da chi è venuto prima che a da chi arriva dopo, non si può arrestare il nuovo che avanza, facts. Certo, ci sono persone della mia generazione che hanno sputato sangue e sudore per anni, fatto tre lavori e mangiato merda per guadagnarsi il proprio spazio e ora si vedono spuntare ragazzini che svoltano con il loro primo singolo, ma sarà veramente tutto oro quello che luccica?

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Oggi la scena rap italiana è un gigantesco centro commerciale, fatto di tantissime possibilità, il che è molto positivo ma, a volte, tutte queste possibilità limitano la scelta, la rendono più difficile. O meglio, visto uno visti tutti, ascoltato uno ascoltato tutti. Come è possibile districarsi in mezzo a questa giungla? Io mi reputo un digger, scavo, cerco la musica nel sottosuolo, raramente ascolto il rap italiano che mi viene proposto dai media ufficiali se non per lavoro e per rimanere aggiornato sull’andamento generale della discografia del nostro paese. Sicuramente è un genere molto inflazionato e il livello generale si è alzato, ma il rischio è che gli artisti cerchino di fare la roba che funziona adesso e finiscano per assomigliarsi tra di loro. Un ruolo fondamentale credo lo avranno le etichette indipendenti, con selezioni all’ingresso create da chi la musica la fa: ce ne sono già, alcune sono nate negli ultimi anni, e andrebbero supportate il più possibile. Lunga vita alle etichette indipendenti. Torino è ancora una città che funziona per quanto riguarda il rap? Torino è una città laboratorio ricca di fermento, ma ha spesso sofferto di provincialismo. Guardiamo fuori e pensiamo che la merda che c’è in giro sia meglio della nostra, forse perché ci facciamo attirare dai riflettori puntati sulle altre realtà, invece di pensare ad accenderli sulla nostra. In ambito rap ha sempre fatto scuola, ma non sempre è stata in auge come avrebbe potuto. Questo penso sia dovuto al fatto che ci sia sempre stata molta più competizione e frammentazione che non collaborazione, viste anche le minori possibilità rispetto ad altre città. Al momento ho la sensazione che la situazione stia cambiando, vedo molto movimento molte collaborazioni e questo mi fa ben sperare. Recentemente Salmo ha affermato che Il rap italiano non viene considerato all’estero perché non abbiamo un’identità, non siamo originali. Copiamo gli americani, i francesi, i tedeschi, suscitando

un bel po’ di polemiche. Cosa ne pensi? La ritengo una provocazione interessante, ho apprezzato il fatto che si sia messo in discussione anche lui e penso che in parte abbia ragione. Chiunque faccia musica in Italia al giorno d’oggi (me compreso) prende ispirazione dall’estero, almeno a livello di sonorità, ma nella sua provocazione parlava anche di cercare di essere criminali credibili e forse questa è la chiave del discorso. Soprattutto in ambito rap/trap si cerca di scimmiottare dei modelli che ormai sono abbastanza standardizzati e che funzionano per l’industria, quando invece la vera potenza di questo mezzo è esprimere se stessi e descrivere la propria realtà, la propria visione. Forse c’è già un identità di rap italiano, ma siamo troppo concentrati a guardare quello che succede fuori per accorgercene. Domanda di rito, la usano tutti quelli che fanno il mestiere di giornalista (sempre meglio che lavorare, cit.): “Kill The Beat” va bene, il Substrato Studio funziona, ma stai lavorando anche a qualcosa di diverso? Magari con la tua vecchia formazione? Negli ultimi mesi, tra Kill the beat e lavori in studio, non ho avuto molto tempo per creare e voglio dedicare il resto del 2021 a stare in studio e produrre il più possibile; ci sono alcuni progetti in corso, ma non voglio anticipare nulla al momento. Con Alby D abbiamo fatto un episodio del Kill the Beat molto scoppiettante e abbiamo prodotto il beat dell’ultimo episodio, con ospite il king Maury B, ed è il classico cerchio che si chiude. Inoltre stiamo definendo in questi giorni i dettagli per stampare finalmente Schiena contro Schiena in vinile (appena uscito per Mint And Soul Records). Sarà un’edizione limitata per i true fans e collezionisti, ancora un altro cerchio, l’ennesimo, che si chiude.


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____________________________ testo Federico Savini foto Chilledcow.com

Circa un anno fa, a fine febbraio 2020, le trasmissioni del canale YouTube ChilledCow sono state interrotte, probabilmente per errore, generando sul portale un video lungo la bellezza di 13mila ore; ossia quanto trasmesso da ChilledCow dalla nascita del canale in poi, senza interruzione alcuna fino a quel momento. Una webradio più che una pagina YouTube - hanno detto in molti - e in effetti se non fosse stato per le immagini dalla ridondante estetica nipponica il canale sarebbe stato in tutto e per tutto equiparabile a una radio, ossessivamente dedita a un unico genere musicale, che pare avere la facoltà di rigenerarsi all’infinito: il cosiddetto “lofi hip hop”. In realtà non so granché di ChilledCow, mi è semplicemente capitato di imbattermici, come in pagine consorelle tipo Chillhop Music (quest’ultima consigliata se volete “rilassarvi o studiare”, mentre ChilledCow aiuta “a dormire”, almeno così dichiara il suo deus ex machina). Lo scorbutico boomer che vive dentro di me (e che fa sempre più fatica a mimetizzarsi) tenderebbe a derubricare questi fenomeni come “porti sicuri virtuali per depressi cronici nell’era della liquidità digitale”. Una sintesi brutale, lo ammetto, ma in fin dei conti non così lontana dal vero, al netto del fatto che l’estetica delle immagini e la semplice qualità musicale del “lofi hip hop” sono abbastanza colorate da non lasciare troppo spazio agli scoramenti pesanti. Sommariamente ci muoviamo nel campo delle musiche un tempo definite “chillout”, nelle quali mi imbattei ancora imberbe a metà degli anni ’90, quando le mandavano nelle camere di decompressione che conducevano verso l’uscita delle discoteche dell’era techno-trance. Musiche rilassanti, in buona sostanza, che personalmente ho sempre considerato parte del generico universo ‘ambient’, cioè musiche imperniate su una ricerca decisamente più sonora che non compositiva, e finalizzate appunto a placare i sensi dell’ascoltatore, senza un ulteriore e più profondo ‘perché’. La chillout veniva ‘servita’ in discoteca e colà manteneva una flebile componente ritmica, che ci potesse cullare verso il ritorno alla stramaledetta realtà dopo i martellamenti dionisiaci del ballo in pista. Negli stessi anni furoreggiava anche la musica ‘downtempo’, che fondamentalmente era un hip-hop mondato dei testi e graziato da una poetica pastello, più sognante che stradaiola, che spesso partiva da campionamenti di vecchia musica jazz, soul ed exotica, andando a parare in una comfort zone percettiva non dissimile da quella della chillout, solo mediamente più creativa (per fortuna!). Tornando al presente, il “lofi hip hop” in sostanza aggiorna questi linguaggi al nuovo evo digitale, a un mercato musicale nel quale l’hip hop è “l’unico stile produttivo possibile” e alla narrazione delle camerette sempre più private ma anche delle comunità che letteralmente nascono “a fianco” dei video, cioè nelle chat che accompagnano l’infinito dipanarsi delle trasmissioni di questi canali che divulgano ad libitum la dolce melassa sonica di artisti e produttori beatamente sconosciuti. Per inciso, non è necessario trasmettere 13mila ore di fila per radunare una comunità intorno all’eterno ripetersi di suoni ipnotici e non necessariamente invitanti, come ha dimostrato di recente il successo tra gli adolescenti del disco Everywhere at the end of time: 6 ore di cupissima dark-ambient che Leyland Kirby/The Caretaker ha dedicato alla malattia di Alzheimer e che la TikTok generation ha trasformato in una challenge d’ascolto da affrontare da soli, per poi commentarla tutti insieme. Il Giappone così caro all’immaginario del “lofi hip-hop” era peraltro già in primo piano quando la pagina YouTube in cui venne caricato il disco Watering a Flower di Haruomi Hosono (una cassettina ambient che il genio nipponico realizzò nel 1984 per una commissione di Muji) divenne lo spunto per un diario onirico collettivo che ha fruttato persino libri e saggi sociologici… (se poi vi interessa l’hip-hop giapponese virato chillout e un po’ fuligginoso nel sound, date un ascolto alle produzioni di Budamunky, in pista da una dozzina d’anni, e in particolare al relaxosissimo progetto

Green Butter del 2012, in tandem con l’altro producer Mabanua) Il “lofi” richiamato nella sigla di questo fortunato e viralissimo sottogenere musicale sta notoriamente per “bassa fedeltà”. Nello specifico si fa riferimento all’opacità sonora di musiche che anziché protendersi esplosivamente verso il pubblico di un’arena sembrano avvolte in una placenta intima, che conforta l’ascoltatore disteso nel letto con le cuffie piantate nelle orecchie. Ebbene, quando si cominciò a utilizzare il termine “lofi” per aggettivare certi linguaggi musicali - grosso modo nei primi anni ’90 e parliamo di rock, mentre il massimo del lofi rinvenibile nel rap stava nel gracchio dei vinili campionati - l’immaginario aveva sempre a che fare con le camerette, ok, ma i risultati erano decisamente più brutti, sporchi e cattivi. I suoni erano ruvidi per non dire traumatici, senza contare che la depressione - quando era possibile invocarla era dolorosa e conclamata, non confezionata in zuccherose immagini kawaii accompagnate da marmellatosi carillon. Lo scopo non era insomma quello di cullare l’ascoltatore, ma, al contrario, quello di risvegliarlo e scuoterlo. Fosse anche con una secchiata d’acqua fredda o con l’istigazione al voyeurismo auricolare che spingeva a perdersi nei meandri di incisioni deliberatamente nebbiose, alla disperata ricerca di un perché… Chiaramente la “bassa fedeltà” esiste da sempre, e comunque da molto prima dell’alta fedeltà, nel senso banale che le incisioni di Edison a fine ‘800 non sono proprio roba da dolby surround. Ed è vero anche che molti musicisti legati alla controcultura flirtavano con la pazza idea del “suono di merda” fin dagli anni ’60 (guru psichedelici stracotti d’acido, sguaiati strimpellatori acid-folk, psicotici hard-rockers del Sol Levante, hippie deviati che per eterogenesi dei fini finirono per battezzare la industrial-music, outsider del garage-rock e poi del punk disconosciuti anche dalla propria madre), ma insomma l’estetica lofi sostanzialmente nasce negli Stati Uniti negli anni ’80 e viene così definita - conoscendo una prima esplosione di hype - un decennio più tardi. Erano sommariamente tre i filoni musicali nei quali fiorì - per così dire - l’estetica lofi classica. Uno era il noise-rock, che più si impantanava nelle fogne acustiche e più risultava true (tra l’altro la qualità audio tipo cassetta ripassata due volte in padella e poi mandata al contrario nella radiolina in cui il nonno ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto aiutava a mascherare le lacune strumentali…). Il secondo era il garagepunk, per il quale valevano gli stessi concetti, con la differenza che in questo caso l’immaginario era vintage e vitalistico, dunque banane in testa, ettolitri di birra, ragazze con gli hot pants inseguite da marziani depravati e l’idea di non fidarsi di qualunque cosa suonasse più raffinata di Bo Diddley. Il genere più praticato e iconico fu però probabilmente il cantautorato lofi. Ossia la musica di soggetti poco raccomandabili come il misantropo Jandek, l’alienato vero Daniel Johnston o i leggendari Supreme Dicks, che predicavano il celibato decenni prima che gli Incel entrassero a far parte del paesaggio. Un tale di nome Bill Callahan - venerato cantautore indie sempre sulla breccia, che nei primi ’90 si faceva chiamare Smog e faceva credere a tutti di essere uno psicolabile sull’orlo del suicidio - nel ’93 pubblica Julius Ceasar, a parere di chi scrive il top di gamma di tutto il cantautorato lofi. Dopo due album di canzoni incerottate e scorticate da ogni possibile angheria acustica, il nostro impara a scrivere grandi melodie e le ‘arrangia’, fingendo di suonare anche peggio di quanto già non facesse: è la fiera dei capitomboli strumentali, delle stecche cercate, degli effetti vocali deragliati, delle ritmiche claudicanti e delle depressioni terminali messe sul bancone del macellaio per esporle al pubblico ludibrio. Un capolavoro, insomma, costruito da cima a fondo su un inganno: devastare le canzoni per farle sembrare il rantolo straziato di un inabile alla vita serviva a far sì che il pubblico le recepisse come più “autentiche”, come richieste urgenti d’aiuto. Ma la verità è che quella di Callahan - scalcagnata e rozza quanto vi


pare - era semplicemente una “produzione”; cioè una cosa “che non è successa per davvero”, ossia un tale che si mette in studio con un po’ di strumenti, registra quel che viene e poi perde notti intere ad aggiustare ogni dettaglio fino a metterlo nel punto giusto - che nel caso di Julius Ceasar era il punto sbagliato - per ottenere un risultato premeditato. E cioè “sentite qua come sto male, aiutatemi e fate sapere agli altri depressi cronici come voi che in giro c’è gente come me, che vi capisce e canta per voi”. Bingo! Negli anni ’90 il lofi si inserì agevolmente nella narrazione “alternativa” dell’epoca, poiché nel contesto di allora suonare grezzi e scalcagnati significava non solo “distinguersi” dal mainstream (la cultura cattivona che ti fotteva il cervello per conto delle perfide major, che a loro volta foraggiavano radio e tv allo scopo di blandire le giovani menti), ma significava addirittura essere “puri tra i puri”. Non saper mettere in fila due accordi e registrare al cesso mentre tiravi l’acqua era considerato un ‘valore’: certificava che di fare soldi con la musica non te ne fregava nulla. Un concetto che oggi farà anche ridere - specie il pubblico del rap, che non ha mai demonizzato il vil denaro, visto che quella musica nacque precisamente come via d’uscita dal ghetto - ma trent’anni fa le possibilità di ascoltare qualcosa di diverso dal mainstream radiofonico erano limitate, quindi alla favola della ‘romantica purezza barbona’ si poteva pure credere. Il lofi era insomma percepito come l’avamposto etico dell’intera comunità alternativa del mondo musicale. Era un’estetica anti-industriale per eccellenza. Peccato che l’era industriale, di lì a poco, avrebbe passato il testimone a quella digitale… Com’è dunque che si è arrivati a chiamare “lofi hip hop” il suono dolciastro e rammollito che ci propina ChilledCow? Beh, è passata tanta acqua sotto i ponti e i giovani d’oggi hanno problemi assai diversi da quelli di allora (in linea di massima peggiori, affrontati però con maggiore consapevolezza e per lo meno apparente - forse ipocrita - supporto degli adulti). In termini schiettamente musicali c’è stato un momento in cui le cose sono cambiate: intorno al 2009 le riviste e le webzine mormorano di un oggetto misterioso che si chiama “hypnagogic-pop” e che ha finito per dare la stura a sottogeneri come la Chillwave (torna il chill…) e la pervasiva Vaporwave. Lungi da me affrontare il ginepraio dei discrimini fra queste sigle (per come la vedo io solo la Vaporwave è qualcosa di fondamentalmente diverso dalle altre due, visto che implica un immaginario futuribile, o comunque non passatista), qui ci interessa capire perché l’hypnagogic-pop abbia aperto una breccia nell’estetica ruvida e luddista della “bassa fedeltà”. In pratica ha permesso che l’ambient da salotto, l’estetica new-age e persino il “pop mainstream” penetrassero - dilagando peraltro subito - nella roccaforte del purismo indie. Questo è successo a causa (o se preferite per colpa) di due artisti. Il primo è James Ferraro, che negli anni ’00 guidava il progetto The Skaters, portando a vertici di ineguagliabile parossismo l’estetica lofi. Praticamente il crinito James e il sodale Spencer Clark emettevano per ore gutturali mugugni vocali ispirati ai canti rituali dei monaci tibetani, ma lo facevano senza alcuna preparazione specifica, attraverso microfoni di bassa lega, casse incerottate e loop station primitive, registrando tutto peggio che si può e stampandolo in 30 copie su cd-r ‘agghindati’ da copertine fotocopiate in bianco e nero; supporti destinati peraltro a smagnetizzarsi dopo un

paio d’anni (tremo all’idea di verificare quanti ‘capisaldi’ della loro discografia in mio possesso girino ancora sul lettore…). A un certo punto Ferraro se ne esce con un side-project chiamato Lamborghini Crystal, nel quale in mezzo al consueto ciarpame rumorista si distinguono lontani echi di sintetizzatori robotici e chitarre tamarre; un’intromissione lontana della musica pop, insomma, ancorché ridotta a deforme frattaglia. Possiamo fermarci qui, visto che la strada di James Ferraro era segnata, al punto che nel 2011 il Nostro avrebbe addirittura battezzato la fortunata corrente musicale dell’“elettronica HD”, che è la quintessenza del suono più lustro e limpido possibile con le tecnologie del nuovo secolo (occhio però che ‘limpido’ non significa hifi: la “fedeltà” è un richiamo alla “realtà”, non alla pulizia, ma per di qua ci si inoltra in un terreno filosofico da cui ci teniamo alla larga). Torniamo al 2009, quando insieme a James Ferraro viene definitivamente alla luce anche la stella di Ariel Pink, cantautore freak losangelino di recente finito ai disonori delle cronache per aver preso parte ai disordini di Capitol Hill in mezzo ai supporter di Donald Trump, ma che è sempre stato un bravo musicista e produceva album casalinghi fin dalla fine degli anni ’90, nell’indifferenza generale. Ariel Pink era tecnicamente un cantatore lofi - suonava in cameretta, con una certa dimestichezza strumentale ma un equipaggiamento sgangherato -, solo che anziché lagnarsi con desolati piagnistei folknoise-blues suonava musica pop con fascinazioni vintage. Ma proprio roba spudorata: dalla disco-music al synth-pop, fino al glam. Ariel Pink pone così una questione: il lofi è un’estetica applicabile solo a certi linguaggi (come avevamo sempre creduto, ammantandola anche di una eremitica superiorità morale) o è semplicemente un “tipo di produzione” (vi ricordate cosa dicevamo di Bill Callahan?) che può essere funzionale a creare un certo tipo di suggestione, ottimizzando la scarsità dei mezzi a disposizione? Ahinoi, la risposta giusta (o per lo meno la più difficile da confutare) era questa seconda. Lo capimmo bene solo negli anni ’10, quando in un mercato musicale completamente mutato decadevano le narrazioni puriste e para-ideologiche degli anni ’90 (sostituite da altre narrazioni, beninteso!). Per quanto attiene alla nostra storia, cioè a come si possa spiegare il carattere docile e condiscendente di una musica chiamata “lofi hip hop”, lo snodo cruciale è stato proprio l’ammissione dei ‘gradevoli’ linguaggi della pop-music nel novero di un’estetica che pareva nata per essere quintessenzialmente alternativa, idiosincratica e rancorosa. E i cui massimi esponenti, chissà, magari fin dal principio sarebbero stati ben contenti di passare intere giornate stesi a letto, avvolti dall’inedia, a lasciarsi ipnotizzare dal ciclico ripresentarsi di un suono che rumina sé stesso fino alla fine dei tempi. (vi interessa uno che oggi faccia rap con un’estetica lofi che potremmo definire classica, o comunque non più melliflua dell’hypnagogic-pop? Beh, quasi tutti i lettori di Moodmagazine conosceranno il freak-rap di Earl Sweatshirt, ma io punto piuttosto su un suo amico: si chiama semplicemente MIKE, qualche mese fa ha pubblicato l’album Weight of the World e fidatevi che è una roba marcissima, oppressiva ma tutto sommato anche ipnotica e colorata. Un bel compromesso, insomma)




____________________________ ____________________________ testo Selene Luna Grandi testo Filippo Papetti foto Giuseppe Molinari foto Gatto Pirata Dischi

Ho avuto il piacere di scambiare due parole con Desperado Rain e Paziest per presentare il loro nuovo progetto “Pazi + Rain” e per fare due chiacchiere in generale su di loro, su come si sono conosciuti, sulla loro etichetta discografica “Atelier 71” e, visto che non ci siamo fatti mancare nulla, anche di cucina e gastronomia. Il disco Pazi + Rain nasce sul finire dello scorso anno nella periferia di Milano ed è colorato di Black Music. Dentro c’è il pezzo trap, il soul, il classic rap. Tutto è talmente tanto equilibrato da creare un concept unico che miscela la quotidianità dei testi a un tappeto sonoro mai monotono e coinvolgente. Se non l’avete già fatto, date un ascolto al disco. Partiamo proprio dal principio. Fate entrambi una breve presentazione per raccontare ai lettori di Moodmagazine chi siete? Insomma il vostro background musicale. Desperado Rain: Ho iniziato a scrivere intorno al 2009 e vivevo ancora in Marocco. Da quel momento non ho mai più smesso. Dal primo singolo, al primo mixtape, fino ad arrivare ad oggi con alle spalle una dozzina di progetti. Paziest: Yoyoyo! Sono rapper, producer e beatmaker, più o meno dal 2004. Ho fatto jam, gare di freestyle più o meno ovunque capitasse e ho pubblicato un po’ di mixtape e album, da solo o con gente veramente forte dell’underground. Sono appassionato di Hip Hop fin da piccolissimo e sta cosa del rap mi ha cambiato la vita, insegnandomi i concetti di comunità e di cultura, cose che ora, insieme ad Atelier 71 stiamo cercando di diffondere in un periodo in cui questi termini sembrano degli sconosciuti. Come vi siete conosciuti? Desperado Rain: Nel 2016 al Biko. Mi avevano chiamato per una riunione avvisandomi che ci sarebbe stato anche un certo Dimitri. Una volta arrivato e ci hanno presentato, la prima cosa che ho pensato è stata “Non ha per niente la faccia da Dimitri questo, però sembra simpatico!” Paziest: In realtà la prima volta ci siamo visti rispettivamente in live al Barrio’s, in uno di questi contest di brani che impazzavano qualche tempo fa. Mi è piaciuto subito lo stile di Idriss ma per un motivo o per un altro quella volta non ci siamo cagati granché. Qualche tempo dopo ci siamo rivisti al Biko e da lì è partito tutto… Questo è praticamente il vostro primo disco insieme. Come vi è venuta l’idea di collaborare insieme a un progetto? Desperado Rain: La verità è che non lo abbiamo scelto. Certo sì, ci siamo detti all’inizio di fare un disco insieme, ma non abbiamo mai pianificato niente a riguardo. Abbiamo solo seguito il flusso. Paziest: Non ci è venuta in mente un’idea: è stata una cosa naturale che si è sviluppata man mano che ci conoscevamo. Il disco è nato in automatico mentre ascoltavamo musica insieme, andavamo ai concerti insieme, magari durante un concerto Despe si girava e mi diceva: “mi è venuta in mente una strofa!”, oppure faceva la stessa cosa mentre giravamo in città a bere o chiacchierare. Un giorno mi ha messo in mano un vecchio Mpc 500 che lui non usava più e mi ha detto: “Lo so che hai smesso, ma ora devi tornare a produrre”. E così ho fatto. Paziest perché avevi smesso di produrre? Avevo prodotto alcune tracce del primo disco di Fedez (Pat-a-Cake), dove però non sono mai stato accreditato come produttore, ma solo come featuring con il nome di Pazkall. Ho prodotto per un po’ di altre persone, ma ero rimasto un po’ scottato e mi era passata la voglia di fare i beat. Proprio appena avevo comprato l’Mpc 1000. Mi sembrava tutto troppo difficile e complicato, volevo essere dentro una ballotta, ma tutti pensavano ai cazzi loro. Così l’ho fatto anche io e sono andato a cercare altri produttori più bravi di me, ho venduto l’mpc e ho fatto solo rap per un po’ di anni. Poi ho beccato Idriss ed è cambiato tutto.

Qui dovete perdonarmi invece. Io credo che il vostro disco sia stilisticamente una bomba. Non c’è nessun difetto, forse è solo troppo breve! Ad ogni modo, a me ha un po’ deluso il titolo, ed la copertina, se devo essere sincera. Mi aspettavo un titolo più speciale e una delivery con più carattere. Soprattutto con un prodotto come quello che avete proposto voi! Mi dite qualcosa su questa scelta? Come mai un semplice Pazi + Rain? Cioé, è chiaro che si tratta di voi. Ma come mai? Desperado Rain: Perché non è un disco omonimo. PAZI+RAIN non siamo noi, ma è il mondo in cui ci siamo catapultati. Volevamo far arrivare proprio questo. Diretti al punto, senza girarci tanto intorno. Paziest: Il disco è naturale, come ti dicevo. Non l’abbiamo pensato per essere più lungo o più corto: è semplicemente uscito così. Si chiama come noi perché è il nostro biglietto da visita: siamo diretti e concisi, non te la contiamo su e Pazi+Rain è il nostro mondo! Mi dispiace che non ti sia piaciuta la copertina: a me piace un botto! Figurati. Non è che non mi piace universalmente. Ma non la riesco ad associare al vostro disco che reputo grandioso. Sarà la palette di colori scelti. Non so. Ad ogni modo ho capito rispetto al titolo che cosa intendete. Qualcuno vi ha aiutati in queste scelte (anche solo ispirandovi) o avete fatto tutto da voi? Desperado Rain: A livello tecnico abbiamo fatto tutto da soli, come al solito. Se si parla però ideologicamente, ci facciamo catturare da ciò che ci circonda. Respirando aria nuova, espirandola rendendola nostra. Mi sono invece divertita molto a guardare il video di “Atelier Worldwide”. L’ho trovato davvero molto carino. Come avete ideato il concept? Cosa volevate trasmettere? Desperado Rain: In realtà l’idea ce l’ha suggerita Giuseppe Molinari, che ha realizzato il video. Noi sapevamo di voler creare qualcosa di assurdo e comico, e quando è uscito il tema “Cooking Show” ci era sembrato perfetto. perché il mondo della cucina è il nostro altro amore. Paziest: Molinari ci ha dato il la e noi siamo partiti a impazzire sopra a questa idea che in realtà ci rappresenta molto. Non apparteniamo a quel genere di rapper che si prendono sempre e solo sul serio (nulla in contrario eh!), a noi piace divertirci e quello era il succo che volevamo far passare. In più, ci sono delle altre cose collegate a quel video, che abbiamo svelato a Natale 2020, con un merchandising originale. Mi voglio distrarre un attimo dalla musica. Cosa vi piace mangiare? E cucinare? Desperado Rain: Come dicevo prima, sia io che Paz abbiamo un background nel settore. Non potrei mai scegliere tra la cucina e la musica, è come chiedermi se voglio più bene a papà o a mamma. Mi piacciono veramente molte cose, ma direi che tutto il cibo che si affaccia sul Mediterraneo è potenzialmente il mio cibo preferito. Cucino invece molte pietanze marocchine solo quando ho un po’ la nostalgia, sennò normalmente riso. Da risi saltati vari, a risotti nostri. Paziest: Mio papà era un cuoco e mi ha insegnato un po’ di trucchetti del mestiere, inoltre, ho gestito il ristorante di famiglia per diversi anni. Per cui mi piace cucinare praticamente tutto, ma i miei piatti preferiti sono quasi tutti legati alle interiora, fegatini, frattaglie, robe così. Poi adoro il pesce e soprattutto il tonno…meglio se rosso e di Carloforte! Il vostro posto preferito dove mangiare? Uno solo! Ovunque nel mondo! Desperado Rain: Facile. A “La Tertulia” a Barcellona, e provate le miglior Croquetas de Berenjena nel miglior quartiere della città (Poblenou!!) Paziest: Astier, a Parigi. Ristorante tipico francese, proprio un posto speciale. Si spende pure poco per quello che mangi e alla fine

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ti portano un carrello di formaggi incredibile. Prendete il menù degustazione: fidatevi! Tornando al disco, cosa troviamo dentro da punto di vista di suoni e tematiche? Desperado Rain: Nel disco si passa dal lo-fi alla trap senza rendersene conto. E questo perché è semplicemente il nostro modo eclettico di fare. E anche un po’ perché se una cosa piace a noi, ce ne sbattiamo del resto. Mentre per i temi, anche in questo disco ci siamo messi a nudo, e forse più del solito. Mostrando le nostre insicurezze e i nostri fallimenti, ma che si equilibra tutto con la nostra ambizione e i vari obbiettivi da raggiungere. Paziest: Credo che sia un po’ la summa dei nostri ascolti: c’è la trap, lo storytelling, il lo-fi e il rap classico. Parliamo di noi, parliamo di amore e ci divertiamo: questo è il nostro spirito! I suoni che abbiamo usato sono stati frutto di una ricerca approfondita nei meandri del diggin’: abbiamo preso vinili assurdi e li abbiamo trasformati, in alcuni casi rendendo i sample una cosa completamente diversa, in altri aggiungendo degli strumenti (grazie al contributo di BONGI, Looppolo e Fabio Concept). Mi raccontate una giornata tipo o la creazione di uno dei pezzi? Da come è nato, come registrate, dove, come decidete di lavorare? Insomma il vostro processo creativo mi interessa moltissimo. Desperado Rain: Un’altra cosa che ci accomuna è la sveglia presto. Il mattino ha l’oro in bocca. Io di solito mi alleno prima di fare qualsiasi altra cosa. poi normalmente le mattine le passo ad occuparmi di tutto quello che riguarda Atelier. Durante la giornata mi capita svariate volte di prendere le note (oppure, ultimamente, il registratore per non scordare niente) e buttare giù delle idee. A volte solo una melodia, altre volte delle punchline e basta. Ma un pezzo non nascerà finché non sento una strumentale e da lì mi faccio trasportare. Lascio che la cassa, che l’808, che il giro di basso scelgano al posto mio il senso della canzone. Mi adatto ad un processo ormai naturale per me. Non scelgo né i testi né il tema, ma aspetto che venga fuori, come le statue da dentro il marmo. Con Paz, credo che la maggior parte del tempo la passiamo a strutturare e modificare post scrittura e produzione. Giorni interi a rimandare avanti e indietro versioni, perché vogliamo che tutto sia perfetto. Registrare è normalmente un pensiero ultimo. A volte aspettiamo anche di avere 3 o 4 pezzi insieme per poi andare a reccare. E quando arriva quel momento, il telefono di Marco “Markio” Mantuano è l’unico che squillerà per fissare una session. Paziest: Il disco è nato un po’ al Biko, un po’ in libreria da me (sono un libraio?), un po’ nel mio home studio e un po’ nello studio di Fabio Concept. Desperado quando poteva veniva da me e ci mettevamo a cazzeggiare con la drum machine e i vinili, poi partiva una melodia e iniziavamo a cacciare qualche rima. Alcuni testi li abbiamo persi e riscritti, altri sono stati modificati in seguito, altri ancora sono iniziati e finiti in giornata. Non abbiamo regole fisse per creare, quando arriva l’ispirazione ci lasciamo trascinare! Mi ero anche scordata di chiedervi della vostra etichetta! Prima abbiamo nominato “Atelier Worldwide”. Atelier71 è anche la label che avete messo in piedi voi due! Mi dite qualcosa del progetto? Desperado Rain: Atelier 71 è quello che ha consolidato la nostra unione. Dopo poco più di un anno che io e Paz ci frequentavamo, gli ho raccontato di questo mio progetto nel cassetto. Un cassetto non del tutto chiuso, ma con uno spiraglio per far cambiare l’aria. Solo che Pazi è impazzito, ha preso il cassetto e lo ha scaraventato via, ha preso il progetto e lo ha reso suo. Diciamo che bene o male è andata così. Paziest: Atelier for the Culture, baby! Non è solo una label, ma una fucina artistica che stiamo continuamente ampliando con nuova musica, nuovi artisti, nuovi progetti, nuovi eventi e nuovi folli idee. Oltre alla musica creiamo eventi (Loop Sessions Milano, Soulkush e Librelive), podcast (Daaamn Bwoy), merchandising originale (BruBru Sugo). Insomma: non stiamo con le mani in mano, perché

non puoi far parte di una cultura e di un movimento senza dare qualcosa alla comunità a cui appartieni (e non si tratta solo di vendere qualcosa, ma di fare comunità). Quel 71 cosa rappresenta? Desperado Rain: Atelier 71 è il posto al sicuro dove l’artista può letteralmente essere se stesso. Valutiamo l’integrità e incoraggiamo la personalità. Non ci interessano i numeri o se le foto ti escono fighe sui social. Qui solo la musica ha voce in capitolo. Paziest: Rappresenta la calda vibrazione di un certo modo di fare le cose, lontano dai classici stilemi che regnano nel mondo musicale. Qui ci si rimbocca le maniche e si fa. Se aspetti che la pera caschi dall’albero muori di fame. Quali sono gli artisti (italiani e non) che vi piacerebbe avere nella vostra etichetta? Anche sognando in grande! Desperado Rain: Per ora siamo felici con chi abbiamo all’interno della famiglia. Cerchiamo di puntare intanto sulla qualità, prima ancora della quantità. Vogliamo riuscire a distribuire la stessa attenzione, risorse ed energie per ogni singolo membro. ma se dovessi pensare in grande direi Smino, perché sarebbe un ottimo esempio, pure lui, come noi, fa quello che vuole lui senza seguire uno schema preciso. Mentre, non un artista specifico, ma mi piacerebbe entrare nell’industria musicale francofona, essendo cresciuto con il rap francese (e credendo che siano i migliori a farlo). Paziest: Action Bronson e Joyce Wrice (a lei abbiamo anche dedicato un brano, “Astro Joyce”). Oltre a loro mi piacerebbe riuscire a dare rilievo ai fenomeni underground che troppo spesso vengono sottovalutati. Ma per ora stiamo bene così (ride n.d.r.) Avete qualche spoiler su un prossimo video clip in uscita? O qualche altra news piccante che vi riguarda? Paziest: Ci sono un po’ di idee in ballo, ma di sicuro la prossima cosa che vedrete sarà la new entry Arven Argot, con un pezzo intensissimo dedicato alla sua provincia (56019, provincia di Pisa) e poi uscirà il disco di Arya e il suo secondo videoclip, con un brano veramente fighissimo prodotto da Looppolo. Non vedo l’ora che esca! Non vedo l’ora per tutto! Concludo con qualcosa di scontato, quando credete che si tornerà a una semi normalità postpandemia? Per la vita e la musica? Desperado Rain: Spero vivamente il prima possibile. Stiamo preparando tutto uno show da portare in giro, e stiamo aspettando che diano il “vero” e definitivo via libera. Ho paura sia necessario ancora un po’ di tempo, ma sogno con ogni fibra del mio corpo che si possa tornare ai concerti per la prossima primavera. Per farne e vederne. Paziest: Non sono sicuro che ci sarà di nuovo una “normalità” come la conoscevamo prima. Quello che è successo cambierà sicuramente alcuni aspetti della nostra vita quotidiana. Che sia solo perché faremo più smart working o altro non lo so, ma di sicuro ha stabilito delle nuove situazioni di cui dovremo sicuramente prendere atto. Se devo proprio stabilire un punto di ritorno a una situazione pre covid, credo che questa primavera/ estate sarà il passo decisivo. Per il semplice fatto che ci siamo rotti i coglioni di non suonare (anche se noi abbiamo avuto la fortuna di poterlo fare in versioni ridotte) e di non andare ai concerti.

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____________________________ testo Damir Ivic foto Universal Hip Hop Museum

Tanto si sa, la scusa è sempre la solita, “Eh ma i Run DMC, allora?”, praticamente una versione rappusa de “E allora le foibe?”; e se un paragone così farsesco-casapoundiano può far inarcare qualche sopracciglio, la verità è che la scena rap di oggi ricorda ormai troppo spesso per certi versi il bravo, sregolato un po’ stordito calciatore ex granata ed ex milanista Gianluigi Lentini: “Mah, io in politica sono un avulso”. Oggi, in fondo, a ‘sta faccenda dell’hip hop puoi pure accostare riferimenti di destra estrema che, insomma, non finisci col destare troppo scandalo. D’altro canto se Kanye tifava per Trump, aka il Presidente che più ha fatto per far riscoppiare la questione razziale negli Stati Uniti da tempi immemori (e che più ne ha disprezzato la gravità) e nessuno in fondo ha avuto troppo da ridire, non c’è ragione per cui in Italia – ed anche altrove – non si possano allargare i confini politici delle similitudini, nelle faccende di rap. O no? No. Ci sono dei confini che non dovrebbero essere valicabili. Ci sono dei principi che dovrebbero essere patrimonio comune: tipo accettare o anche solo sopportare il razzismo o il suprematismo bianco se si è anche solo vagamente simpatizzanti della cultura hip hop, beh, non è semplicemente accettabile. Ecco. È magari meno grave, ma sinceramente in un mondo ideale dovrebbe essere altrettanto inaccettabile pure l’essere diventati degli alberi di Natale. Sì: alberi di Natale ostaggio dei brand, dei direttori marketing, degli stylist, della marchetta. Quella roba lì. Oh, senza fare i verginelli: nel mondo della musica queste cose sono sempre esistite, i divi e divetti del pop hanno sempre avuto strutture attorno a loro che decidevano come e cosa vestivano, come si truccavano, come dovevano disporsi a favore di telecamera (ieri) e di social (oggi); va bene. Ma occhio, il mondo del rap e della cultura hip hop è nato, si è sviluppato ed è stato particolarmente amato in primis perché si poneva in maniera radicalmente diversa (e non intendiamo più impegnata o più “de sinistra”) rispetto ai meccanismi soliti del pop. Radicalmente, strutturalmente diversa. Il suo DNA sta lì, piaccia o meno. La sua forza propulsiva, pure. Essere popolare, ma sulle ali di un circuito nuovo, diverso ed alternativo rispetto a quelli utilizzati dal pop e dal mainstream pre-esistenti e già strutturati (…in caso, poi sono loro che vengono da te e ti omaggiano, ti blandiscono, ti ricoprono di soldi). Detto onestamente: è imbarazzante osservare il collasso dell’amor proprio di cui sta soffrendo la scena hip hop odierna, nel suo arrendersi senza condizioni alla dittatura culturale della moda e dei marchi, in particolar modo quelli d’abbigliamento. Volendo è anche comprensibile, certo: con la vendita di dischi non monetizzi più, coi live non sai mai che può succedere (e infatti…), e poi comunque fare i concerti e faticoso. Smarchettare invece in giro per scarpe, vestiti, bibite, cibo, auto costa molta meno fatica, porta via decisamente meno tempo, ti fa guadagnare infinitamente di più. Deal. …no, “deal” un cazzo. Perché se già con bibite, cibo e auto sei su un crinale discutibile ma è pur sempre mera pubblicità, nel momento in cui si scende nel tuo aspetto e nel tuo modo estetico di porti – ovvero nella tua public persona, che nel rap dovrebbe coincidere con quello che sei davvero – stai veramente imboccando una strada con poche vie di ritorno. “Eh ma i Run DMC con le Adidas”, “Eh ma Tupac con Versace”: la differenza, amigos ed amigas del rap, è che quelle erano scelte forti, sorprendenti, controcorrente, (talmente di rottura che la Adidas, inizialmente, non aveva idea di chi diavolo fossero ‘sti tizi che facevano quella cosa lì parlando sul microfono). Scelte insomma che implicavano personalità. Che implicavano una rottura, una cesura. La deriva che ci ha portato via via a ritenere normale che un rapper faccia sfoggio di marchi d’abbigliamento e lo facci docile ed entusiasta come l’ultima delle socialite o la penultima delle fashion blogger è molto

triste di per sé, ma in tristezza in sé è superata da un’altra cosa ancora. È superata dal fatto che sono i rapper i primi volersi sputtanare. A celebrare cioè questo circo – quello che li ha trasformati in paggetti inani ed inermi da vestire secondo i voleri di questa o quella casa di moda e d’abbigliamento. Sono loro, sull’onda del “Eh ma i Run DMC allora”, a non farsi vergogna nello sparare nomi di marchi nei loro testi pensando di essere filologico ma sapendo anche benissimo – se non lo sanno loro, gliel’hanno spiegato accuratamente i loro manager – che ogni citazione può essere monetizzata. Non citi oggi un marchio d’abbigliamento per affermare la tua originalità, una specificità del tuo quotidiano, una tua scelta controcorrente, o magari perché questo marchio lo stai fondando tu: no, lo citi perché ti pagano, e/o lo citi per comprare una sicurezza e un senso d’essere “vincente” che in realtà, con ogni evidenza, non hai. O non hai abbastanza. E non riesci a dartelo da solo – devi prenderlo in prestito da un sistema established che esiste già, quello della moda. TI fai “vestire addosso”, come se fossi un modello da sfilata, senza pretese. Se non economiche. Gucci, Prada, Louis Vuitton e gli altri gongolano, perché “succhiano” la tua fama (e ok) ma anche e soprattutto succhiano proprio l’entusiasmo che ci metti nel correre fra le loro braccia, nel farti loro fan: in questo modo sei ancora più convincente, almeno in prima battuta, la cosa si percepisce. Ne vale la pena? Ne vale la pena, considerando che quando il vento cambierà il brand di moda d’alto bordo tal dei tali farà probabilmente finta di non conoscerti? Vale la pena farsi vedere così arrendevoli e vendibili? Vale la pena farsi vedere così entusiasti nei confronti della moda (e qui “moda” è intesa nel doppio senso: quello sartoriale, e quello di mainstream dozzinale)? Molti diranno: ma è un gioco. Altri diranno: sì, ma comando io, decido io cosa indossare e da chi farmi pagare. Boh, sì, può essere. Il dubbio però è lecito: se decidessero veramente gli mc, allora magari spingerebbero marchi giovani, sconosciuti, magari pure brutti eh ma fatti da gente “loro”, esattamente come è successo nella discografia in cui la grande svolta del nuovo millennio c’è stata quando gli artisti si sono fatti rappresentare da gente “loro”: o entrando così nelle major (come successe con l’accoppiata Fibra-Zukar), o costruendosi proprio da sé struttura e fan base. Il sistema del fashion di un certo livello è astutissimo, è raffinatissimo. Ti usa, dandoti l’illusione sia tu ad usare lui. Gongola quando lo citi nei testi, dandoti l’illusione che sia tu a giocare e godertela. Ti sfrutta sostanzialmente all’osso, dandoti l’illusione sia tu a portare avanti la lezione old school à la Run DMC, del farcela-da-soli utilizzando capi di vestiario costoso e sartoriale come scalpo e trofeo. Le classifiche su quali sono i marchi d’abbigliamento più famosi citati nei pezzi rap – italiani o americani che siano – dovrebbe essere una “classifica della vergogna” a cui far contribuire solo gli sfigati, quelli senza idee, i parvenù fuori tempo massimo. Al momento non è ancora così. Al momento si è ancora sotto l’ipnosi Kanye, che non solo ha per cinque minuti sdoganato Trump ma anche e soprattutto ha introiettato nel circuito della cultura hip hop il virus della fashionizzazione pervasiva, arrivando a rendere personaggio e “geniale” (ahem…) un designer di medio livello come Abloh e rendendo cool certi tic dell’isterico universo fashion. Ora ci si ride e ci si scherza su, magari si dice pure (o si pensa) che polemizzare su questa cosa è una puttanata patetica da boomer; ma quando l’insostenibile leggerezza del brand modaiolo arriverà a colpire e se ne andrà senza lasciare nulla in cambio, migrando verso altri lidi, sarà il caso di ricordarsi di certi concetti, di certi principi, di certi valori.

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____________________________ testo Filippo Papetti foto Gatto Pirata Dischi

Questa intervista è nata in lockdown, anzi, in due lockdown. Ad aprile abbiamo incontrato via Skype Mental Dizzle e Comma Uno, per parlare del loro disco Varitech Alpha, poi, a novembre, abbiamo ripreso il discorso in occasione dell’uscita di Fuga in Egitto, sempre di Comma Uno, per completare il tutto. Due grandissimi dischi, rap underground senza compromessi ma di rilevanza certa: originali, cazzuti, e senza tempo. Nel primo Comma produce, e Dizzle srotola in suo rap criptico e incastroso su delle cartelle in stile Company Flow. Nel secondo Comma è al microfono, su dei beat spettacolari di GSQ, che gigioneggia col suo flow morbido e tagliente sulle musiche del sempre ottimo beatmaker pugliese. Quello che segue il resoconto della nostra chiacchierata in due tempi. Parlateci un po’ di Varitech Alpha, giusto per iniziare.. Dizzle: Il progetto è partito con un pezzo. Poco tempo dopo esserci conosciuti ci siamo beccati, lui mi ha fatto sentire questo beat e io sono letteralmente impazzito (risate, n.d.r.). Poi abbiamo continuato a sentirci - purtroppo non con la frequenza con cui avremmo voluto - e siamo andati avanti. Più o meno la prima cosa l’abbiamo registrata credo attorno al 2017, quindi è stato un parto molto lungo. Il tutto è nato gradualmente, lui mi passava dei beat e io ci scrivevo sopra, senza un filo logico prestabilito. Mi parlate un po’ del vostro background? Cosa avete fatto fino ad adesso? Comma: Io ho iniziato a fare i graffiti quando avevo 14-15 anni. Molti ragazzi della mia compagnia infatti sono writers: a Como c’è una scena molto attiva. Quasi contemporaneamente ho incominciato a rappare facendo freestyle e sono arrivati così i primi contest. Mi sono poi concentrato sulla scrittura che trovavo più stimolante e ho suonato in vari locali tra Como e Milano per un paio di anni, con il collettivo Uncle Mob. Quattro o cinque anni fa, non ricordo con esattezza, 4-5 anni fa mi sono buttato anche sulle produzioni ed è iniziata la follia, per assurdo sono uscito prima con un disco da produttore che da rapper, questo è davvero incredibile (risate n.d.r.). Dizzle: Io invece ho 42 anni (risate, n.d.r.), quindi di cose ne ho fatte parecchie! Scherzi a parte, ho cominciato anch’io sui 15 anni. Provenendo da un paese dell’Abruzzo da me non c’era nulla in ambito hip hop, quindi assieme ad un amico spesso ci spostavamo in treno a Pescara. Per i primi anni ho fatto solo freestyle. Poi mi sono trasferito a Bologna e da lì ciao! (risate, n.d.r).. Mi sono fatto Zona Dopa, al Livello; giravo spesso con Mastino, e anche lì un sacco di freestyle. Ma proprio tanto. Dizzle, questo è il primo disco che esce a nome tuo, vero? Sì, di stampato sì. Avevo fatto un disco quando ero a Bologna, ma è rimasto nel mio hard disk. Così come un altro ancora, di due anni dopo, su produzioni mie. Anche quello mai uscito. Era un roba mega-criptica, un po’ sul filone alla Scaramanga, uno che all’epoca mi piaceva molto. Quando mi sono trasferito qua in Lombardia ho fatto Plasma Music assieme a Marco Lvnar, poi mi sono autoprodotto Immaginario Vortex, e bene o male sono sempre stato attivo. Però ecco, magari la gente mi conosceva come rapper, ma se proprio doveva cercarsi un disco mio vero e proprio non lo trovava. Beh, e come mai stavolta le cose sono andate a buon fine? Guarda, testimone Comma: noi ci siamo beccati un giorno a suonare, per caso, e prima di me dovevano esibirsi lui e tutta la sua crew, Unclemob. Parte il beat, fighissimo, e loro in sei salgono palco tutti assieme, attaccano a rappare e sembravano il Wu Tang Clan! E io ti assicuro che sono un grande rompicoglioni: il fatto è che rappavano tutti bene! Lui in particolare mi aveva molto colpito, e

siamo entrati in contatto così. Da questo punto di vista Comma è stato uno stimolo molto forte a concretizzare al meglio la cosa. Il disco è frutto anche di un rapporto di frequentazione personale, o il tutto è rimasto in un ambito di musica? Comma: Ci siamo beccati varie volte, a qualche serata, però il disco più che altro è figlio di un’affinità di suono. Conoscevo il suo stile e sapevo su quali beat si sarebbe potuto divertire. Ci siamo conosciuti che io avevo appena iniziato a produrre, quelli che trovi su Varitech Alpha infatti sono tra i miei primissimi beat. Mi ricordo che quando ho visto Dizzle esibirsi al Cisim a Lido Adriano pensavo che il beat sotto fosse una roba dei Company Flow... Comma: Addirittura, ti ringrazio. Sicuramente i Company Flow sono un gruppo che mi ha ispirato quando ero più piccolo. El-P coi Cannibal Ox mi gasavano, beats e atmosfere aliene. Dizzle: Io ero proprio un loro fan. Così come del già citato Scaramanga, oppure Godfather Don, fino ad arrivare a Kool Keith progetto Dr. Octagon, son tutte robe il cui stile ha decisamente influenzato la mia musica. E potrei citarti anche i Cannibal Ox e la stessa Def Jux, la vecchia etichetta di El-P. Comma: Ti ripeto, per me è stato davvero naturale dare quei beat a Dizzle perché sapevo che lui avrebbe potuto farci cose fighe sopra. Magari avrei potuto rapparci sopra io, o darli alla mia crew ma non era il momento, non è stata per nulla casuale la scelta. Dizzle, il tuo stile di scrittura è molto criptico e originale, ti va di parlarci un po’ di come butti giù il tuo rap? Dizzle: Io ho un background molto vario. Mi piace un botto la fantascienza, mi piacciono un botto le sneakers. E mi piace un botto anche mangiare. Per scrivere di solito mi organizzo così: ascolto il beat due giorni di fila, poi ad un certo punto mi scatta dentro qualcosa. Prendo carta e penna e scrivo l’ultima barra. Parto sempre dalla chiusura, e poi vado a ritroso. Magari a scrivere la strofa ci metto poco, ma l’ultima barra la provo anche un’ora di fila. Per me è fondamentale suoni bene. Comma: Questa cosa non la sapevo (ride, n.d.r.). Dizzle: Sì, non avendo un cazzo da spiegare io faccio così. Non devo fare né paternali né dare un messaggio in particolare a nessuno. Io prendo e scrivo; e quello che esce, esce. Anche quando facevo freestyle - pur non considerandomi un mostro - se mi davi da rappare, io rappavo. Una cosa tutta concatenata, però con i miei svari. Diciamo che essermi drogato un botto in questo mi ha aiutato parecchio in questo (ride, n.d.r.). I beat del disco invece come sono nati? Comma: Io come beatmaker sono abbastanza nuovo. Come ti dicevo, le cose con Dizzle sono state tra le prime concrete che ho fatto e a parte un paio di beats fatti su misura per lui, ho pescato dal mio archivio e glieli ho passati. Di base ho più esperienza come rapper che beatmaker e lo stesso nostro incontro è partito dal fatto che a lui piacesse come rappavo; all’epoca infatti neanche producevo, o forse avevo iniziato da pochissimo. Dizzle: Ma infatti in questo disco avrebbe dovuto rappare anche lui! Dovrei tirargli le orecchie… Comma: (ride, n.d.r.) Il fatto è che essendo questo il mio primo disco da produttore ho preferito concentrarmi solo su quello, mi sembrava giusto che questo progetto si chiudesse così. Seguo molto l’istinto, mi piace finalizzare senza forzare per nulla il lavoro. Anche col rap, ad esempio: io ascolto il beat, scrivo e registro. Mi piace cercare di imprimere bene nella mente il momento in cui inizio a concepire una cosa. Dizzle: Anche perché se cominci a lasciare in sospeso le cose, poi non

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concludi mai un cazzo. Ed è un po’ il motivo per cui tante cose mie non sono uscite. Ad esempio con un mio vecchio gruppo in Abruzzo, di nome Disgregatori Molecolari, avevamo fatto questo Ep, mai uscito, a cui abbiamo lavorato tantissimo sui testi e poi l’abbiamo lasciato lì perché nel frattempo ci eravamo rotti i coglioni. Comma, cambiamo soggetto, anche restando ovviamente sull’argomento. Ti va di parlarci un po’ di Fuga in Egitto, nato nel frattempo in questa pandemia interminabile.. Fuga In Egitto nasce dalla collaborazione che va avanti da qualche anno col produttore GSQ, di Otranto. Avevamo in mente da un po’ di tempo di fare un disco. A fine 2018/inizio 2019 ho selezionato alcune musiche che mi aveva passato e sono partito con i primi pezzi. Il concept è nato in corso d’opera ed è legato a uno degli episodi della vita di Gesù Cristo: infatti il disco fa parte della Saga che GSQ sta spingendo con l’etichetta Quattro Bambole Music da un paio d’anni. Il disco ha poi avuto alcuni rallentamenti, perché nell’agosto 2019 ho avuto un incidente che mi ha dato parecchio da fare e ho chiuso gli ultimi pezzi solo nell’estate 2020, mentre ero a Lecce da Zio Frank Scippo, il mio socio nei Cosmonaughty. Il disco è poi uscito in vinile, in tre diverse versioni, il 20 novembre 2020, con il supporto di Frank’s Vinils Records, una dell’etichette più attive a livello di uscite nel panorama Rap Internazionale degli ultimi tempi. La gente ha reagito mega bene e il disco è letteralmente volato, 6 giorni ed è diventato sold out, andando praticamente esaurito in tutto il mondo. Ti dico anche un interessante aneddoto sul disco: il quadro originale che è stato utilizzato per ricreare la cover del progetto è custodito in una Chiesa di Cremona, che è la città dove sta la base di Frank’s

Vinils Records. E il bello è che l’ho scoperto solo dopo averlo già scelto, e con la copertina era già stata fatta! Assurdo, le coincidenze della vita. Questa è una mia curiosità invece, c’è la possibilità di vedervi assieme in un progetto in cui entrambi rappate? Comma: Se sono in forma da star dietro a Zio Dizzle e ci saranno i beats giusti sicuro! In ogni caso abbiamo già le mani sul nuovo disco e ci sarà da ridere. Dizzle: Esatto. Non appena ci potremo vedere di persona cominceremo a lavorare al nuovo progetto in cui rapperemo tutti e due. Però è ancora tutto da pensare. E magari tireremo dentro anche qualche amico, chissà. Per concludere, come collochereste Varitech Alpha nel contesto del vostro percorso artistico? Dizzle: Sarò sintetico: è semplicemente il disco mio che volevo che uscisse. Comma: È il mio primo vinile, il mio primo disco da produttore, sicuramente è stato una sorpresa, perché non c’era l’idea del lavoriamo ad un disco e facciamolo uscire in vinile. Barre chilometriche e beats stralunati, artisticamente è un disco che ci rappresenta e che mi ha fatto crescere. Abbiamo avuto un ottima risposta anche da chi non ci conosceva ed è stata una bella conferma.

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____________________________ testo Riccardo Primavera foto Nike.com

Il binomio sneakers – rap esiste, se non dall’alba dei tempi, quasi. La nascita del genere negli anni ’70 ha infatti visto un’esplosione visiva ed estetica che ha contribuito a cementificare il concetto di rap e hip hop nella testa di molti profani (nel bene e nel male). Basti pensare al primo, storico accordo tra Adidas e i Run DMC – che dedicarono addirittura una canzone ad uno dei modelli del brand -, una delle prime mosse di marketing a rendere chiaro anche ai grandi investitori che il mondo del rap aveva un appeal unico su un determinato tipo di consumatore. Da allora, le collaborazioni si sono susseguite senza soluzione di continuità. Praticamente qualunque rapper abbia avuto successo commerciale ha avuto anche un contratto dal punto di vista delle calzature, con qualsiasi brand. L’elenco sarebbe più lungo della bibliografia di una tesi magistrale. Ecco perché abbiamo scelto di concentrarci su un brand specifico, Nike, e ancor più nello specifico, Jordan. Il rapporto tra la black excellence sportiva, incarnata da Michael Jordan, e quella dell’intrattenimento musicale, incarnata dai rapper, ha infatti dato vita a collaborazioni memorabili, che oggi si vendono a cifre spropositate. Abbiamo aperto gli archivi e siamo andati a scavare, alla ricerca di gemme nascoste o dimenticate. Eminem x Air Jordan 4 Forse uno dei Graal più sognato dai collezionisti di sneaker di tutto il mondo. La Jordan 4 realizzata in collaborazione con Eminem è stata infatti realizzati in sole 50 paia, donate da Slim Shady ad amici e familiari. Qualcuna col tempo è finita sul mercato, all’asta per cause benefiche, con cifre che sfiorano anche i 30.000 dollari. Un sogno per molti, moltissimi – e l’ennesima dimostrazione del disinteresse di Eminem nei confronti delle manovre di marketing. All’apice del suo successo, infatti, queste scarpe sarebbero state polverizzate sugli scaffali, con centinaia di migliaia (se non milioni) di paia vendute. Ma lui niente, 50 paia ad amici e familiari, e bene così.


Eminem x Air Jordan 2 Eh sì, Marshall Mathers non si è assolutamente limitato ad una sola collaborazione con la linea di calzature sportive più famosa al mondo, anzi. Questa però, che omaggia il modello preferito del rapper, era leggermente più accessibile della Air Jordan 4. È stata infatti prodotta in 313 paia, prendendo come riferimento il prefisso telefonico di Detroit, la città natale di Eminem. La “E” del logo del rapper spicca sulla linguetta della scarpa, rinominata la “The Way I Am”, come uno dei singoli più di successo dell’artista, che conta ormai 168 milioni di visualizzazioni sul suo canale Youtube.

Dj Khaled x Jordan Brand Forse una delle facce più conosciute del mondo del rap, figura pubblica e direttore creativo, un vero e proprio kraken onnipresente nel mondo dell’intrattenimento, Dj Khaled non poteva farsi mancare una collaborazione con Jordan. In occasione del suo mastodontico album Grateful, lui e il brand hanno collaborato su tre silhouette - Fly 89, Superfly 2017 e Air Jordan 3; sebbene mai effettivamente messe in vendita, per un breve periodo sono state disponibili tramite contest e giveaway.

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OVO x Air Jordan X Ovviamente Drake non poteva mancare in una lista del genere. Nello specifico, la collaborazione coinvolge OVO, la sua etichetta/brand (sempre più grande come brand, tra l’altro). Le collaborazioni col Jumpman in realtà sono state svariate, e su diversi modelli, ma l’eleganza e la pulizia dell’Air Jordan X rimangono difficili da battere. Davvero da Certified Lover Boy.

Macklemore x Air Jordan 6 La casa sportiva di Beaverton e nello specifico il brand Jordan ha indubbiamente sempre avuto un gran feeling con i rapper dal successo commerciale mainstream. Se Nike - con le linee Dunk e SB – ha spesso dato vita a collaborazioni con nomi culto ma meno pop, come MF Doom o i De La Soul, Jordan non si fa problemi a parlare letteralmente a tutti. Con Macklemore sono state realizzate diverse collaborazioni, e anche diverse colorazioni di Jordan 6. La “SharkFace Gang” del 2014 è stata realizzata in edizione F&F, in sole 23 paia – numero importantissimo per la mitologia Jordan.

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Travis Scott x Jordan Chiudiamo l’elenco con un’ultima posizione che in realtà contiene molteplici collaborazioni, ed è sicuramente quella più d’impatto degli ultimi anni. Travis Scott è infatti diventato l’artista musicale di punta della Nike, e in generale un simbolo del connubio tra il mondo dello streetwear e quello del rap, come i suoi mentori prima di lui – su tutti, Pharrell, Kanye West e Kid Cudi. Fan del brand dal giorno 0, Scott ha coronato il sogno di collaborare con Nike e Jordan, e l’ha fatto davvero in grande. Tra linee di apparel e sneakers, negli ultimi anni potremmo quasi dire che ha monopolizzato l’attenzione del colosso di Beaverton, e l’hype dei consumatori. Diverse sono le Jordan uscite in questo lasso di tempo: dalle 4 blu – di cui esistono anche edizioni F&F viola e grigie – alle 33 verde oliva, forse la silhouette meno apprezzata, per arrivare alle Jordan 1 – sia high che low -, che ancora oggi vanno via a cifre folli, oppure le Jordan 6. Nel mezzo, altre collaborazioni , come le tre varianti delle Air Force 1, apprezzatissime dai collezionisti. Insomma, il binomio Jordan – rap non delude, soprattutto per chi apprezza senza timori anche il rap più “patinato”. Per chi è invece più underground nello spirito, e magari più ricercato nei gusti, c’è tanto altro negli archivi Nike. Ne parleremo in un altro episodio però.

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Still From The ’90s è il quattordicesimo di Dj Fede, uscito per New Rapform. Un omaggio agli anni ’90, che vuole contribuire a dimostrare come il suono che ha contraddistinto il decennio in cui ha perfezionato la sua formazione musicale, sia destinato a non tramontare, soprattutto perché riesce a rinnovarsi costantemente senza perdere la sua natura. L’artista torinese in questo spazio ci racconta il suo disco soffermandosi su ogni traccia e regalandoci delle interessanti riflessioni sullo stato del rap in questo momento. Still From The ‘90s (The Manifesto) feat. Danno & Dj Tsura Il brano d’apertura di questo mio quattordicesimo album è anche il più rappresentativo di questo progetto. Non a caso il sottotitolo è “The Manifesto”. Ho spiegato a Danno quale tipo di disco avrei fatto e gli ho detto che avrei avuto piacere che lui scrivesse la title-track. Ero assolutamente convinto che fosse l’MC più adatto per questo brano: la sua storia è indiscutibile e la sua credibilità è totale, oltre a essere uno dei miei rapper preferiti di sempre. Ho coinvolto anche DJ Tsura perché, a mio avviso, non poteva mancare e non potevano mancare i suoi scratch. E, per finire, un brano del genere non poteva che essere accompagnato da un video di livello e da subito ho avuto in mente un solo nome, quello di Luca Barcellona A.K.A. Lord Bean che ha messo a disposizione il suo grande talento calligrafico. Fa’ La Cosa Giusta feat. Maury B, Dafa e Dj FastCut Senza falsa modestia, posso dire che in questa traccia, tutti assieme, rappresentiamo bene la nostra Torino, la black city. Il titolo la dice lunga sul brano, sulla fotta di questi due MC con un’esperienza quasi trentennale. Dafa e Maury B sono due pietre miliari del rap italiano. Hanno percorsi diversi, storie diverse ma un solo amore, quello per il rap. Le citazioni che hanno sfornato in questo brano sono una bomba e non ho avuto nessun dubbio che avremmo fatto un pezzo figo, da subito. E come ciliegina sulla torta ci volevano degli scratch belli grezzi: per questo non potevo che chiamare DJ Fastcut, con cui non avevo ancora collaborato… finalmente ci siamo riusciti! Candeline feat. L’Elfo Ho scoperto L’Elfo grazie a Vacca, è stato lui a segnalarmelo. D’altronde Ale mi conosce e ha fatto centro: il suo stile mi è piaciuto da subito così, poco dopo l’ho contattato e gli ho chiesto se fosse interessato a entrare a far parte del mio nuovo progetto. Lui non ha esitato nemmeno un secondo: è stato subito sì! Da lì, nel giro di poco tempo, ho ricevuto le voci e, appena mixato il brano, mi sono reso conto che mi trovavo ad ascoltare uno dei brani del disco che il pubblico avrebbe amato di più. Infatti è così: questo brano è entrato subito nelle classifiche di Amazon e Apple Music. Lui è veramente uno dei “giovani” più talentuosi della scena nostrana. Flow, schiettezza e rime che ti arrivano dritte in faccia sono la sue peculiarità come liricista. Il nostro brano è molto morbido come beat, ma lui con le sue skill lo ha reso granitico. Golden Dreams feat. Dope One & Dj Tsura Ho sempre amato il rap partenopeo, ha una grande tradizione alle spalle, come il resto della musica napoletana. Dope One doveva esserci assolutamente e sono sicuro che la nostra collaborazione continuerà nel tempo. Il suo talento è indiscutibile, i suoi racconti sono la fotografia della realtà. Questo brano ha una atmosfera incredibile, il sample era quello giusto per raccontare ciò che aveva da raccontare. Guerra Fredda feat. Kiffa Con Kiffa siamo amici da almeno 20 anni, avevamo già collaborato nel mio primo album. Avrebbe dovuto fare più dischi, ci avrebbe regalato molti più classici. Per quello che può valere il mio parere lo vedo come un talento unico. Il pezzo è uno storytelling molto “sentito”, le sue emozioni sono reali e riesce a trasmetterle con il suo modo di scrivere. All’interno di un album, brani come questo fanno la differenza, ci vogliono i pestoni e le rime da battaglia ma anche i momenti più introspettivi e legati ai sentimenti. Kiffa è stato quello giusto per portare a casa questa missione al meglio. Milano Violenta feat. Jack The Smoker, Blo/B & Dj TY1 Jack e Blo/B sono due rapper pazzeschi, Milano in full effect. Con entrambi avevo già collaborato più volte e metterli assieme è stata

una scelta azzeccata. Con Jack ci conosciamo dai suoi esordi, mentre con Blo/B credo da due o tre anni. Il beat è veramente un pestone e loro lo hanno cavalcato alla grandissima. Per gli scratch ho voluto il meglio e chi più di TY1 poteva darmelo? Credo che nessuna etichetta avrebbe permesso a un artista di far uscire come primo singolo un brano che inizia e finisce con gli scratch e in mezzo ha un palleggio di rime pazzesche, niente ritornelli, niente compromessi. Io ho pensato che questo fosse il brano giusto per essere il primo singolo del disco, un perfetto biglietto da visita per Still Form The ‘90s. Ho rischiato e non mi sono sbagliato: finora è il brano più streammato dell’album. Che tien ncap? feat. Speaker Cenzou Come ho già detto per Dope One, amo il rap napoletano e tra i rappresentanti più autorevoli c’è Speaker Cenzou. Non avevamo mai collaborato, quindi bisognava rimediare. Appena ha individuato il beat giusto per il suo gusto ha scritto uno storytelling di alto profilo, con un ritornello intriso della musicalità che solo un napoletano è in grado di trasmettere. Non c’è molto altro da dire, bisogna ascoltarlo e muovere la testa. Sono veramente contento che Cenzou sia parte di questo progetto; lavorando su un disco che vuole richiamare gli echi degli anni novanta non poteva non esserci anche lui. Trash Talking feat. Don Diegoh, Giso & Dj Tsura Gli album dei produttori vedono sempre una prevalenza di brani dove le rime pestano, questo è uno di quei casi. Sia Diegoh che Giso sono rapper che mi piacciono molto, con Soave ci conosciamo dai tempi dei DDP, con il rapper crotonese invece è stato il primo “incontro”. Il collante tra i due è stato il beat, la voglia di spaccare e un gran ritornello realizzato da DJ Tsura. Il titolo dice molto del brano, alla fine i brani più “ignoranti” sono quelli che chi ama il rap diretto fa girare in un loop infinito. Ho voluto unire nord e sud, diversi flow, diverse esperienze, diverse storie, “Trash Talking” ne è il risultato in musica. Lezioni Di Flow Feat. Er Drago Ho sempre avuto un debole per i rapper romani, credo di averlo ampiamente dimostrato realizzando un disco solo con rapper romani (Torino/Roma andata e ritorno del 2017). Ho scoperto Er Drago con il brano “Basalto”. Quando ho visto che il beat era di Ice One e il featuring era Danno, mi sono detto: “questo ragazzo deve essere un cazzo di rapper pazzesco!”. Poi mi sono ascoltato l’album omonimo e mi sono reso conto che ciò che avevo pensato corrispondeva a realtà. Ci siamo sentiti, abbiamo deciso di collaborare ed è nata una traccia super rap. Più di un flow, rime da battaglia e tributi a chi lo merita sono l’essenza di “Lezioni Di Flow”. Tormento Sunglasses feat. Gionni Gioielli Gionni spacca, non si discute. I suoi dischi mi piacciono sempre. Nonostante non sia della generazione young è super fresh, più di molti giovani. Credo sia semplicemente una questione di attitudine. Questo brano è un tributo a un amico e a un rapper fondamentale per la scena: Tormento. Con lui ho fatto una decina di brani e tanti live. Credo che una canzone dedicata a lui all’interno di un mio progetto sia il minimo che si potesse realizzare ed evidentemente ha ritenuto che fosse così anche Gioielli. La wave dei beat super lenti mi piace molto, nel mio prossimo disco ce ne saranno molti, questo è solo un assaggio... Dj Fede & Primo - Parassiti feat. Don Diegoh, Maury B, Inoki & Tormento (Reloaded Version) Mi piace realizzare delle “reloaded version” e questa non poteva veramente mancare. Ho sempre speso parole di grande stima e rispetto nei confronti di David. Non ho fatto fatica a scegliere i rapper. Tormento era evidentemente scontato, Maury B, con cui collaboro da tempo, ha portato la sua energia inesauribile, Don Diegoh è stato il primo a cui ho proposto di entrare nel progetto, il primo con cui ne ho parlato e lui mi ha ripagato cacciando una strofa bellissima, e per concludere Inoki, che dire di lui, nulla, perché la sua credibilità, la sua coerenza e la sua storia parlano per lui. Mi ha fatto molto piacere leggere la storia di Inoki su Instagram in cui mi ringraziava per avergli dato l’opportunità di figurare su un pezzo insieme alla voce di Primo. Queste cose fanno piacere sia a me sia a chi conosceva David meglio di me.

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Esto Lo Que Quieren feat. Psycho Les & Dj Double S Consapevole che i brani con featuring americani qui in Italia avranno molto meno riscontro di quelli con i rapper italiani, ho deciso comunque, per piacere personale, di portare avanti questo progetto insieme a Double S e di inserire quattro bonus track con ospiti americani in questo nuovo disco. Con Psycho Les ci siamo conosciuti durante un tour dei The Beatnuts in Italia e in Svizzera. Collaborai a quel tour per alcune date. Grazie a Bassi Maestro sono riuscito a recuperare il suo numero, ci siamo sentiti, gli ho parlato del progetto che stavo mettendo in cantiere con DJ Double S e lui ha accettato di collaborare. Dopo pochi giorni abbiamo realizzato la traccia. Due strofe con due flow diversi, un ritornello divertente, in pieno stile The Beatnuts, e dei super scratch fanno di questo brano uno di quelli che suonerò di più quando si ricomincerà a suonare. Nonostante il sample abbia degli accordi minori, Psycho Les lo ha reso un brano solare, del resto è un rapper con un credito pazzesco e una carriera grandiosa. Good Or Bad Man feat. Blaq Poet & Dj Double S Quando ventuno anni fa uscì il primo album degli Screwball per me fu

contento di quanto abbiamo ottenuto. Anche lui ama molto il pezzo e il risultato della nostra collaborazione. Composer Of Hardcore feat. Big Noyd & Dj Double S Questa collaborazione arriva da lontano, è stata realizzata molti anni fa. Sono veramente affezionato a questo brano, è stata la prima volta che un rapper americano ha rappato su una mia base. Il suo primo album l’ho letteralmente consumato. Big Noyd ha sempre gravitato nell’entourage dei Mobb Deep e adesso che Prodigy non c’è più accompagna Havoc nei live. Il beat ogni volta che lo sento mi gasa a gli scratch sono veramente belli, la mano di DJ Double S è inconfondibile. Con Noyd ci siamo conosciuti quasi 20 anni fa a New York: vidi un live pazzesco e decisi che prima o poi avremmo collaborato e così è stato. Veniamo Dal Basso feat. Puro & Luther G Ho chiesto a Tsura se avesse qualche rapper, che non conoscevo, da segnalarmi, lui mi fece il nome di Puro. Andai ad ascoltarmi un po’ di ciò che aveva fatto, molti dei suoi brani mi sono piaciuti e così ci siamo sentiti ed è nata “Veniamo Dal Basso”. Fu Puro a inserire il ritornello di Luther G, la trovai una buona idea e, dopo un paio di prove, trovammo la quadra giusta per chiudere il brano. Ogni tanto un ritornello cantato ci sta, soprattutto quando è accompagnato da rime e giochi di parole ad effetto.

una botta pazzesca, mi piacquero da subito e mi colpì più di ogni altra cosa la voce e il flow di Blaq Poet. Quando con DJ Double S abbiamo deciso di metterci a lavorare su questo side project del disco, è stato il primo che ho contattato. Non abbiamo avuto modo di conoscerci prima ma sono sicuro che quando questa pandemia sarà finita troveremo il modo di conoscerci e lavorare ancora assieme. Quando l’ho contattato tutto è stato semplice, gli ho inviato qualche beat, lui ha scelto subito e boom, in un attimo il pezzo era fatto. Rino ha realizzato come sempre un super ritornello che rende questo brano una chicca. Questo, nei club dove si suona hip hop, credo che si ritaglierà di diritto un bello spazio. I Remember feat Shabaam Sahdeeq & Dj Double S Delle collaborazioni con i rapper americani forse questo ha il mood che preferisco. Ho seguito la carriera di Shabaam Sahdeeq da subito. Quando ascoltavo in cuffia a ripetizione i Soundbombing, Lyricist Lounge e i suoi primi album non avrei mai pensato che avremmo potuto collaborare e che sarebbe stato presente in un mio disco. Per fortuna questa soddisfazione me la sono tolta e sono veramente molto

Dj Pandaj - Nashville B Boy feat. Esa The Funky Prez (Dj Fede Original Flavour Remix) In questo brano sono semplicemente l’autore del remix. Il pezzo era contenuto nel primo album di DJ Pandaj e io ho realizzato questa versione per il decimo anniversario dell’uscita dell’originale. In questo pezzo il funk si mischia indissolubilmente con l’hip hop. Il rap di Esa spacca tutto come sempre e tutti gli scratch, i breakbeat e le voci campionate fanno di “Nashville B Boy” un pezzo che suonerei tutte le sere. Remember To Remember feat. Federico Sacchi L’unico non rap all’interno del disco. Avevo in testa di realizzare una versione in italiano di “Remember To Remember” da tempo. Ci ho messo un po’ a capire chi poteva essere la voce giusta per reinterpretare Rick Holmes. L’intenzione era quella di trovare qualcuno che capisse esattamente di cosa parlasse il brano, che fosse dentro questa musica. A un certo punto mi è stato chiaro che Federico Sacchi era assolutamente la persona giusta. Chi parla di musica in teatro non può che essere perfetto per una interpretazione del genere. Il brano originariamente era prodotto da uno dei miei miti, Roy Ayers. Con questa cover spero di aver reso giustizia a uno dei pezzi spoken word più belli che sia mai stato realizzato.

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____________________________ testo Francesco Farabegoli foto Turismo Emilia Romagna

Dicevo, allora, io ho quarant’anni e rotti e sono cresciuto in un paesino della provincia romagnola, ok? OK. E ovviamente in una famiglia con pochi mezzi, come quasi tutte le famiglie che stavano al mio paese. Questo significa che per me andare al ristorante ha sempre voluto dire andare in trattoria. In effetti nelle colline cesenate usiamo molto poco il termine trattoria, e le trattorie le chiamiamo tendenzialmente ristoranti -avendo conosciuto tanto dell’una e poco del secondo, ci sfugge la differenza semantica. Insomma, dicevo, la trattoria o ristorante che dir si voglia, nella cultura da cui provenivo era un posto il cui menu era composto da tre primi, tre secondi e due contorni, una cantina che ospitava due soli vini (chiamati di solito rosso e bianco, anche se in certi posti pretenziosi ti offrivano la possibilità di avere il bianco sia fermo che frizzante) e in cui il personale di sala non aveva strettissime obbligazioni legate al vestiario o in generale al galateo. A volte se prendevi solo l’acqua ti sfottevano. “Mi scusi, il bambino ha 10 anni..” “Sì, ok, ok, no problem, dico solo che l’acqua fa la ruggine ecco”. Questa formula ristorativa aveva molti svantaggi, il principale dei quali era di fornire una visione del mondo diciamo così monolitica, che tendeva a restringere il campo visivo dei clienti. Ricordo con un certo orrore la prima volta in cui ho chiesto tagliatelle al ragù al ristorante e mi è stato risposto che non erano comprese nel menu -lo sgomento non era dato dal non poter mangiare tagliatelle, quanto dalla mancanza di un terreno comune tra me e la persona che doveva servirmi. OK. Io naturalmente sono cresciuto quando l’età dell’oro della trattoria se n’era già più o meno andata in gloria. Il primo ristorante cinese nella mia città è arrivato quando avevo dodici anni, e quando è arrivato il primo si è capito che era finito tutto. Voglio dire, ecco, è stata una cavalcata piuttosto recente -io dodici anni ce li avevo nel 1990, per capirci, e nel 2000 eravamo belli e pronti per i ristoranti giapponesi da 50 euro a pasto, e prima di loro erano arrivati i messicani e i thailandesi e qualche esteuropeo, i greci e gli argentini e perfino i sardi, santiddio, e ovviamente McDonald’s, ma molto più tardi di quel che potreste pensare (direi che il primo McDonald’s cesenate abbia aperto intorno al 1997). Senza contare i festival dello streetfood e tutta l’altra paccottiglia. Ma come detto, a quel punto la pulce del mangiare diciamo etnico, o comunque non-romagnolo, era stata messa all’orecchio di molti e presto avrebbe comportato un’evoluzione. Il principale argomento sulla bocca di mia mamma, la quale visse la sua prima serata al cinese con una circospezione che nei film non avevano neanche quelle che avevano una tresca col parroco, erano ovviamente i condimenti. Massimalisti e truffaldini, nella sua testa: tutta quella salsa agrodolce, tutto quel tamari, quelle punte di piccante del wasabi, e dio cristo, sotto quelle salse ci avrebbero pure potuto cucinare un gatto e non se ne sarebbe accorto nessuno (un luogo comune sui cinesi, molto diffuso all’epoca e noto ai più come sindrome di Azealia Banks). Voglio dire, una grigliata è una grigliata: se la salsiccia è vecchia si sente, giusto? Ok, e insomma, questo è più o meno il discorso sulla genuinità. È vero che il romagnolo è relativamente inerme nei confronti di queste nuove proposte che stanno avanzando e a cui nessuno aveva mai pensato prima d’ora, ed è pure accettabile che una persona non voglia mangiare tagliatelle al ragù e grigliata ogni volta che esce di casa, ma di sicuro li si batte in genuinità. Ecco. Mia mamma aveva la stessa teoria sul vino, ovviamente: non comprendeva l’esistenza di bottiglie che costassero più di 2000 lire, e dal suo punto

di vista è anche comprensibile (è astemia). Però insomma, a un certo punto i ristoranti, cioè le trattorie delle colline romagnole, hanno iniziato a mettere bottiglie più costose in cantina e a compilare quella che poteva essere definita, mi sento male a dirlo ma è così, una carta dei vini. La questione era: differenziarsi. La tradizione sarebbe sopravvissuta, ma solo al prezzo di una costante e continua reinvenzione. Le generazioni s’erano avvicendate, il contesto era cambiato completamente, il nipote della Pia era andato a studiare da chef ed era tornato con una serie di idee brillanti per integrare il menu del ristorante della nonna -la quale poteva smettere finalmente di cucinare e dedicarsi full time al principale hobby degli ultimi anni, il respiratore. I buchi vennero tappati da manigoldi col pallino degli affari che restaurarono alcune bettole storiche delle colline cesenati spendendo 300mila euro per far sì che non si vedesse alcuna traccia del restauro, comprandosi di fatto una purezza old skool a suon di quattrini. Risale a quel periodo roba come i passatelli asciutti o che so, la grigliata di fegatini in crosta di flan di sto cazzo. Nello stesso periodo la bolla del cinese era scoppiata già da tempo, molti ristoranti avevano battuto in ritirata ed erano stati sostituiti da rosticcerie senza tavolo e/o brutali mostri della fusion low-cost. Di fatto era impossibile quale dei due ristoranti dovesse essere chiamato trattoria: il ristorante in collina anabolizzato o il ristorante fusion-allyoucaneat in finto franchising nella zona industriale? Impossibile dirlo con certezza. Così abbiamo dovuto farci una nuova tassonomia, fondamentalmente autocostruita. Nel mio caso ho cercato a convincere mia mamma che mettere mezza bottiglia di aceto balsamico sulla tagliata di chianina con sei righe di pedigree sia un atto umano molto più controintuitivo di quanto possa esserlo buttare salsa di soia su un pezzo di salmone crudo, e come tutti gli hipster ho provato a sperimentare nuovi modi di cuocere la bistecca in slowburn e iniettandole dentro quantità insensate di salsa BBQ e altre schifezze simili. OK, la Lina di Montecodruzzo sarà sempre il mio posto del cuore, ma nel complesso. Credo di essere andato fuori tema, volevo scrivere una cosa sulla old skool e sull’autotune e roba così, vabbè.

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____________________________ testo Filippo Papetti foto Resilienza Records

Resilienza Records è una delle label indipendenti più attive nel panorama Beats italiano degli ultimi anni. Producono principalmente cassette, in tiratura limitata, di roba in gran parte strumentale, potentissima, che non sfigurerebbe nei cataloghi delle più blasonate etichette in giro per il Mondo. Abbiamo contattato il fondatore U.Nico e uno dei co-fondatori J. Raise, Jr – entrambi due produttori di ottimo livello - per raccontarci qualcosa a riguardo. E prima di addentrarvi nella lettura vi consigliamo di dare un occhio al loro catalogo, se siete amanti del genere Instrumental Hip Hop questa è roba che sicuramente fa per voi. Partiamo dagli albori: quand’è nata Resilienza Records? U.Nico: Non esiste una data esatta. Più o meno il tutto è nato attorno al 2018, quando vivevo ad Amsterdam. È stata una cosa naturale e senza alcuna pianificazione. Ricordo che scrollando i social mi sono imbattuto in una foto di Necro: una delle sue classiche con la faccia incazzata in primo piano, ed il post recitava: indipendente dal giorno zero. La prima scintilla è avvenuta sicuramente in quel momento, mi ha suscitato la voglia di essere il primo a credere in me stesso e di non aspettare l’occasione, ma piuttosto crearla. Qualche tempo dopo ho iniziato a lavorare al nome e, poco dopo averlo scelto, c’è stata la realizzazione del Logo “RR” assieme a Giuseppe Tangaro, divenuto in seguito direttore grafico della label. Parallelamente a ciò, sempre mentre vivevo in Olanda, ho avuto

Fu così quindi che decisi anch’io di unire le mie forze per questo progetto, che tutt’ora è la nostra più grande sfida e soddisfazione. Qual è secondo voi il pubblico dell’etichetta? U.Nico: Definire un pubblico per l’etichetta mi risulta difficile. È evidente che strizziamo un occhio alla cultura Black, dall’Hip Hop al Jazz, passando per il Funk. Ma l’obiettivo prefissato è cercare di colpire un target di ascoltatori il più ampio possibile, cercando di fare cose così belle da non poter non essere notate. Ci piacerebbe inoltre riuscire ad arrivare a differenti fasce di età, non necessariamente solo a cultori di una genere specifico. In fondo su questa musica ci puoi rappare, ci puoi fare una pubblicità, ci puoi magari fare pure una sfilata di moda. Non vedo quindi perché limitarsi!? Colpire chi già è nel nostro mood è soddisfacente, ma personalmente mi piace molto quando riesco a fare muovere il culo gente che percepisce questa musica come inconsueta, perché è lì che c’è la vibe davvero positiva. Vi va di parlarci un po’ del vostro background musicale? U.Nico: Io andavo molto bene in musica alle scuole elementari, non so se conta nel portfolio (risate, n.d.r.). La maestra infatti propose a mia madre di farmi studiare pianoforte, cosa che purtroppo rifiutai. Fortuna volle che, per qualche ragione assurda e non ricordo esattamente come, scoprì la vecchia collezione dei dischi in vinile dei

modo di conoscere tre persone fondamentali per l’ufficializzazione dell’etichetta: Cristiano aka MasterBuss, attuale Sound Engineer della label; Theo aka Sunn Pei, artista e videomaker; e infine Gianni aka J.Raise, Jr, con cui mi occupo della completa gestione della label. L’alchimia naturale che si è venuta a creare tra noi è la chiave che ha permesso di rendere il nostro team unito, in primis da un amore fraterno fra di noi, fra la nostra musica, i nostri viaggi e i nostri sogni. Insomma, questa è la family che ha fondato Resilienza Records. J. Raise, Jr: Quando ho conosciuto Nico, Theo e Cristiano facevo il secondo anno di università ad Haarlem, in Olanda. Frequentavo le lezioni durante il giorno, e passavo il tempo restante sul campionatore, collezionando cartelle piene zeppe di beats. Resilienza Records è stata sin da subito il mezzo per poter condividere ed esternare ciò che amavo, confrontandomi con qualcuno che percepisse appieno l’energia ed il valore emotivo che nutrivo nei confronti della musica. Aldilà del rispetto reciproco e della stima artistica, siamo diventati a tutti gli effetti una famiglia, nel modo più naturale possibile, ognuno mettendoci del suo. In quell’anno avevo appena terminato una piccola esperienza lavorativa in un’etichetta Olandese come junior A&R ed ero in procinto di tornare in Italia per cominciare un altro percorso importante in una grande realtà indipendente Italiana, da stagista. In altre parole, avevo tanta voglia di mettermi in gioco, mettendo subito in pratica ciò che avevo imparato nel mio percorso di studi.

miei genitori, e mio padre mi mostrò come funzionava il giradischi, mettendo sul piatto cose come Peter Frampton, Pink Floyd, Sade e Bob Marley. In prima o seconda media mi feci regalare i primi giradischi e iniziai a comprare i miei primi 12’’, in breve la ricerca divenne sempre più assidua e gli acquisti sempre più insistenti, volevo a tutti i costi collezionare musica in vinile. In quel periodo mi avvicinai tantissimo al mondo Beats, soprattutto tedesco ed europeo in generale. In parallelo all’attività di Dj ho sempre rappato e prodotto anche cose mie, pubblicando vari dischi. Dal primo disco Tempi Di Guerra nel 2016 come produttore con il mio vecchio alter-ego Nico P, insieme al rap fenomenale di Roman, all’EP di remix super segreto chiamato Reflections, prodotto con Obukii nonché ex alter ego di Sunn Pei. Con i fratelli di Heel-Zone Records ho fatto la mia prima uscita su cassetta chiamata Pijama Beats. Nel gennaio del 2018 ho realizzato il mio primo disco solista in vinile chiamato Resilienza, in veste sia di produttore che di rapper. Di seguito a questo ho partecipato ad una trilogia di tapes con il vol.2 della serie Hi my name is, uscita nell’estate del 2019, sempre su Resilienza Records. In ottobre dello stesso anno ho prodotto Fame D’amore, un Ep particolarmente intimo e personale dove ho analizzato il mio profilo psicologico con le sue peculiarità, radicate nella mia infanzia e nel rapporto con i miei genitori. J. Raise, Jr: Le mie prime produzioni ufficiali risalgono al 2015, quando, dopo aver trascorso il mio quarto anno di liceo a Vancouver,

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in Canada, decisi di approcciarmi seriamente alla produzione. Tornato in Italia ebbi la fortuna di essere seguito sin dal primo giorno da due dei producer più esperti della zona pugliese, il cuore pulsante dei gruppi che mi ha fatto avvicinare all’hip-hop locale, ovvero Gianfranco Fuso e Q3000 (Fuma Project, Murgia Drima, Pooglia Tribe). È proprio grazie a loro se ho messo subito le mani sul campionatore e sono stati fondamentali per prendere consapevolezza del mio potenziale. Passo dopo passo mi sono ritrovato a collaborare con gente che stimavo da tempo. Nel 2017 la mia prima apparizione ufficiale da producer nel progetto SKY [One EP for Nujabes and J Dilla] di Saito, super beatmaker di Prato. Nel 2018, assieme ad U.Nico, Alsogood ed Alessandro Pollio con il progetto Swimming Loop, prima cassettina stampata con il logo di RR, fino ad Agosto 2019 dove ho rilasciato il mio primo beat-tape strumentale interamente prodotto da me Hi, My Name Is Vol.3. A fine 2019, insieme a Sunn Pei ho prodotto No Man’s Tape, uno tra i progetti che più amo fino ad oggi, dal sound fino alla parte emozionale, l’outcome di una convivenza tra beatmakers. Ad inizio 2020 invece, con la collaborazione tra NINETOFIVE e Resilienza Records ho rilasciato Lifted Quest, EP interamente curato da me, dalla musica alla grafica. Il progetto ebbe un riscontro inaspettato, ricevendo attenzione da ogni angolo del mondo, superando in meno di 6 mesi i 300 mila ascolti su Apple Music. Qualche mese dopo ebbi l’onore di far parte del nuovo disco di una leggenda dell’hip-hop Italiano: Esa aka El Presidente, nella traccia di apertura dell’album 20 Flessioni. Sempre nel 2020 ho collaborato svariate volte nei progetti di Poppa Gee (Milano Vandals, Manzo Flow) e nel primo disco ufficiale del rapper bolognese Jimbo producendo la traccia “Allineasoul”. Il 22 Gennaio 2021, il mio nuovo album “Likewise” A proposito J, ti va di dirci due parole su “Likewise”? J. Raise, Jr: Likewise è stato il mio primo progetto individuale concepito e finalizzato interamente in Italia, ho prodotto l’intero album nel mio paese d’origine, in Puglia, per poi concludere la parte creativa e grafica a Milano. È un album che rappresenta un po’ tutte le sonorità in cui navigo. Dai groove Hip Hop più classici, fino a ritmiche più complesse, cercando sempre di valorizzare al massimo l’utilizzo del mio campionatore. Da anni studio con attenzione le funzionalità del MPC 2000XL ed in tutti i miei progetti provo a rimarcarne la sua presenza, sfruttandone le caratteristiche al meglio per creare qualcosa di mai sentito prima. Spero arrivi a più persone possibili. Quali sono gli artisti e le etichette che vi hanno inspirato di più? J. Raise, Jr: Stones Throw è di sicuro l’etichetta che più mi ha influenzato ed ispirato, dal loro catalogo fino alla direzione artistica, sono spesso e volentieri impeccabili. Fanno un lavoro ammirevole anche con le loro sub-label come Circle Star Records, rilasciando sempre roba

originalissima ed interessante. Poi per me Jeff Jank è una vera divinità. Riguardo gli artisti invece ce ne sarebbero un infinità da nominare, ma di sicuro quelli più influenti e che mi hanno spinto ad avvicinarmi al beatmaking sono J Dilla, Madlib, Karriem Riggins, D’Angelo, Pete Rock e troppi altri, in altre parole: i re indiscussi del groove. U.Nico Riassumere senza essere prolisso come mio solito mi diviene difficile. Ci provo anche se ne scorderò parecchie fuori. Etichette: Stones Throw, XL Recordings, Mr.Bongo, Strata-East, Flying Dutchman , Melting Pot Music, Blue Note, Impulse, CTI , e anche la Emi Italiana. Artisti: Lonnie Liston Smith, Gil Scott Heron, Matthew Larkin Cassell, Pooglia Tribe, Ghemon, J Dilla, Gato Barbieri, Kev Brown, Jazzanova, King Krule, Lucio Dalla, Exile e un altro migliaio di nomi circa... Anche la parte visuale è molto curata, hai già accennato a chi se ne occupa, vi va di aggiungere qualche parola? U.Nico: Come ti ho anticipato prima, tutto ciò che riguarda graficamente la label, passa sotto le mani di Giuseppe Tangaro. È con noi dal primo prototipo del logo, del font, dalle prime prove in tipografia, fino alle prossime release in uscita. Il logo è stato concepito proprio con lui. Decidemmo di rappresentare il concetto di resilienza in due”R”, la prima deformata dall’urto subito, e la seconda ferma e salda, risanata dalla botta precedente subita. Trasformare il male subìto, in benzina per il futuro. Chi sono attualmente gli artisti che lavorano x voi?? J. Raise, Jr: Il team di recente è cresciuto parecchio. Per essere precisi, il roster di RR oggi è formato da sei artisti: Sunn Pei, Mazinga Paddon, J. Raise, Jr, U.Nico, Odeeno e Pentola. Ognuno di noi mette a disposizione tutte le knowledge necessarie per contribuire alla crescita di questo progetto anche al di fuori della musica, spaziando spesso e volentieri in altri campi come il videomaking e fotografia. Oltre ai nostri artisti intesi come producers, è importantissimo sottolineare il contributo artistico di Cristiano aka Master Buss e Giuseppe Tangaro. Senza di loro Resilienza non avrebbe ottenuto l’identità estetica e sonora che ci contraddistingue. C’è qualche nome in futuro con cui vi piacerebbe collaborare? J. Raise, Jr: Senza dubbio mi piacerebbe lavorare con K, Le Maestro, uno dei miei preferiti al momento in assoluto. Poi Suff Daddy, Tall Black Guy, Stro Elliot e molti altri. Del panorama Italiano: Emanuele Triglia, Michele Manzo e Fred Simon. U.Nico: Personalmente mi piacerebbe collaborare con King Krule, Lonnie Liston Smith, Nicolas Jaar, Leon Bridges, Moodyman; giusto per dire qualche nome casuale. In Italia sono felice già così, ma ammiro tantissimo il lavoro di Dario Bassolino, Venerus e Gegé Telesforo.

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____________________________ testo Toni Meola foto Alessandra Giansante

Fiamma Rocka è una Bgirl di Torino attiva dal 2001 nella scena Hip Hop. Inizia ballando al Teatro Regio di Torino, punto di ritrovo del movimento della città per poi proseguire una carriera internazionale fra diverse tappe europee e oltre oceano, con la partecipazione a diverse competizioni mondiali. Mai come in questo periodo, noto che la cultura hip hop e la sua “componente” femminile godono di ottima salute. Merito di tante donne che l’alimentano e la rappresentano nella loro massima originalità e autenticità: come Fiamma Rocka ad esempio, Bgirl di Torino attiva dal 2001 nella scena e diverse esperienze internazionali alle spalle. Partiamo con the foundations quindi: chi è Fiamma Rocka, qual è il suo percorso e il suo background? “Fiamma Rocka” è l’estensione di Fiammetta. Il mio nome in arte descrive la mia persona, dal tratto vivo e spiccato del mio essere dalla tenacia e forza alla resistenza: Fiamma è il diminutivo del mio nome originale e Rocka, ovvero roccia, mi è stato attribuito da Bgirl Dany in seguito a un periodo che mi ha messo a dura prova, che mi ha fatto vivere delle vere avversità a livello motorio e dove sono riuscita a non fermarmi mai e non mollare nonostante tutto. Ai tempi quando ho iniziato a ballare sotto i portici del Teatro Regio Maurizio, the Next One era solito portare ospiti da fuori durante i weekends. L’energia che si creava in quei momenti di cyphers era al top e tra di loro molti erano francesi; tra l’altro per noi Parigi è sempre stata la Mecca Europea dell’Hip Hop. Io ci ero stata già due volte e avevo deciso che volevo approfondire tutto quello che era possibile a livello artistico per quanto riguarda questa cultura e vivere in uno Stato dove la figura dell’artista è tutelata. Mi trasferii in Francia quindi nel 2008 e vi rimasi per tutto l’anno seguente trovando una sistemazione nel dipartimento 93 Seine Saint Denis a Aubervilliers, quartiere del gruppo NTM e di molti precursori delle quattro discipline e li ho potuto capire e vivere “la rage du ghetto”. La scena locale mi ha accolta come una sorella all’interno della famiglia, in particolare Xavier Plutus e Karim Barouche (Rest in Power), membri della prima e seconda generazione della crew storica Aktuel Force. L’esperienza americana è stata diversa, ho vissuto a Los Angeles in prima persona eventi storici come il Bboy Summit nel 2012, realizzato da Asia One e il Freestyle Session nel 2017. Viaggiare da sola mi ha forgiata molto, il desiderio di vivere e conoscere altre realtà con le quali confrontarmi mi ha reso molto forte: la cosa più bella di essere una Bgirl è che ovunque tu vada sei riconosciuta all’interno di una comunità, quella della famiglia Hip Hop ed il modo di camminare ne è il primo tratto distintivo. Hai già anticipato più o meno la seconda domanda che volevo farti, ma te la faccio comunque: qual è stata la scintilla che ti ha portato all’incontro con l’hip hop? La passione con questa cultura è iniziata quando frequentavo le scuole medie e il primo approccio è stato con il writing. Arrivo da una famiglia centro-meridionale e durante le trasferte per andare a trascorrere le festività con tutta la famiglia ero solita passare ore a guardare i pezzi, ovvero i graffiti sul lungolinea dal finestrino dell’espresso notte. Ero affascinata e incuriosita allo stesso tempo dal writing e mi chiedevo chi andasse a creare quelle opere d’arte in certi luoghi. Poi si è aggiunta la danza; dopo qualche anno di danza contemporanea vidi un video di bboys che facevano evoluzioni, in particolare il windmill, e volevo andare in America a scoprire questa disciplina: ero convinta che fosse un’esclusiva loro. Alle scuole superiori poi la mamma di una mia amica mi raccontò che a Torino sotto i portici del Teatro Regio c’erano dei ragazzi che si allenavano e una domenica di fine ottobre mi ci portò. Rimasi folgorata e decisi che il breaking sarebbe diventata la mia disciplina e la mia sfida personale. In questa carriera ventennale, ci saranno sicuramente tante storie da raccontare, vorrei quindi sapere i tuoi momenti top, condensati in aneddoti… Ho vissuto tante avventure, ne cito alcune più significanti.

Mi ricordo quando vincemmo con Bgirl Dany il “Webgirlz Italy” a Roma nell’agosto del 2009 per andare a rappresentare l’Italia a ottobre ai mondiali in Germania nella categoria femminile. Io ero l’unica che sarebbe partita da Torino, gli altri arrivavano tutti da Roma; il mio aereo era in ritardo di un’ora e al cambio a Francoforte ho corso 50 gates (senza riuscire a sbagliare direzione, attenzione!!) in cinque minuti con Olga e Bgirl Dany che avevano bloccato la partenza del volo per una persona mancante, cioè io. Altri momenti salienti sono stati a Los Angeles: il primo con Bgirl Eka nell’ottobre del 2012. Prima volta negli States, avevo scritto a Bgirl Jeskilz per avere informazioni sugli allenamenti del posto e mi diede il riferimento di quello del Juice. Il nostro primo allenamento fu in quel luogo, vicino a MacArthur Park; dopo due ore si presentarono Bgirl Jeskilz e Wonda pronte per sfidarci con tanto di camere da ripresa: da quello che avevo capito era girata voce che le “italiane” erano a Los Angeles e che avremmo dovuto guadagnarci il lasciapassare all’interno della comunità. La sfida si concluse alla grande guadagnandoci il rispetto da parte dei bboys e bgirls della scena della West Coast. Un altro episodio è stato sempre a Los Angeles nel 2016: ero partita da sola e stavo facendo un giro nel quartiere messicano quando venni riconosciuta da dei bboys, Will Power (Rock Force Crew), Martin, organizzatore dell Hip Hop festival a Kalmar in Svezia e Teepo, un altro bboy giapponese. Mi fermarono dicendomi che mi avevano vista all’allenamento del Juice e che adoravano il mio stile, mi invitarono a prendere un caffè con loro e Martin decide di selezionarmi per una battle al suo evento in Svezia. Parlaci ora dell’esperienza dello spettacolo “Gli originali”, che credo sia ancora oggi uno dei punti più alti che ha raggiunto questa cultura in Italia, far interagire sullo stesso palco un orchestra di 20 elementi e alcuni dei rapper più iconici e rappresentativi…. Mi trovavo a lezione in sala con Next-one e lui mi disse che avrei fatto parte di un progetto, uno spettacolo che aveva in programma, ma non mi disse i dettagli, si tenne sul vago. Una sera ero al Palladium di Milano per un concerto e uscendo vidi una locandina sul muro ed era quella de “ Gli originali”!!! Rimasi per un attimo incredula collegando le due cose, poi vidi tutto il casting: c’erano i massimi esponenti della scena, Turi, Kaos One, Moddi, Dee Mo, Alioscia, Colle der Fomento, Tay-one con il grande compositore Franco Micalizzi e la sua Big Bubbling Band e l’immagine di Maurizietto associata ai “The poets of rhythm”, che sarebbe stato il suo corpo di ballo, eravamo noi!! Scoppiai in lacrime quasi dalla felicità, ancora non ci credevo... Abbiamo lavorato mesi per la realizzazione dello spettacolo, i primi tempi in sala a Torino e poi in loco le settimane antecedenti lo show; il tutto era gestito da Royality, la casa di produzione. Il progetto andò avanti con due date nel 2006, la prima il 30 maggio al Palladium di Milano e la seconda a Roma. Durò meno del previsto, ma cosa avrei potuto desiderare di più? L’entusiasmo era a mille, sono stata l’unica ragazza nello show e questo dettaglio è stato determinante. Seguire Next-one durante i suoi corsi e lavorare con lui in teatro mi ha dato molto: lui non ha un limite nelle prove, c’è un orario d’inizio ma non un termine: si prova tutto fino a che non sia perfetto. La sua forza e la sua passione sono talmente forti che superano ogni soglia di stanchezza; Next-one è stato ed è tutt’ora un grande esempio e Guru per me, gli devo molto. Fare parte di questo Team e di questo spettacolo è stato uno dei regali più belli che mi potessero fare nel mio percorso di Bgirl. Ti sei ritrovata in ambienti artistici diversi dall’Italia, come hai detto prima: che rapporto hai con il panorama internazionale, quali sono le differenze principali che hai riscontrato rispetto al nostro Paese? La differenza principale sta nella meritocrazia; all’estero si tende molto a dare valore alle skillz, soprattutto se differenti e particolari rispetto a quelle del contesto locale: la diversità è un valore aggiunto e viene riconosciuto. In Italia invece per quello che è il mio vissuto ho sempre

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avuto più difficoltà ad affermarmi proprio perché se sei fuori moda in quel periodo o non sei comodo sei fuori dal mainstream e dagli eventi, il circolo è molto chiuso. Non che all’estero non si vivano di questi episodi ma forse perché a livello di proporzioni il numero dei rappresentanti della scena è maggiore forse si sente di meno. In particolare se sei una donna e balli da più di dieci anni sei riconosciuto al cento per cento per il tu percorso e la validità e presenza nel game; qui invece si dà più importanza all’immagine che alla sostanza e alla qualità. A livello artistico poi certo si hanno più opportunità; all’estero si ha la possibilità di fare casting per produzioni in teatro come ballerino di breaking richiesto, in Italia questo campo deve ancora svilupparsi o comunque è più raro. Quanto conta la positività, la tenacia e la costanza nel breaking? Queste caratteristiche hanno reso possibili cose che in altre circostanze tutti avrebbero pensato irraggiungibili.. cosa ne pensi? La tenacia e la costanza sono elementi essenziali per durare nel tempo. Molti ragazzi talentuosi si avvicinano a questa disciplina e spesso capita che chi riesca ad ottenere subito dei buoni risultati facilmente sia il primo poi a mollare, altri con meno skillz invece riescono poi nel tempo a superarli e a fare un “upgrade di livello” notevole. La “brutta” storia di molestie sessuali che ha coinvolto Crazy Legs e di riflesso la Rock Steady Crew insegna che siamo ancora lontani dal risolvere la questione delle discriminazioni di genere: tu sei mai stata diretta o indiretta protagonista di atteggiamenti del genere? Io penso che ogni volta che si parli di discriminazione di genere si metta in risalto l’argomento; certo la distinzione tra uomo e donna è una delle più evidenti all’interno della comunità. Sono cresciuta in un contesto misto, al Teatro Regio e ai tempi quando ho iniziato a ballare già c’erano delle Bgirls che spakkavano i culetti ai maschietti”, ricordo Carrie D, Lady Fire, Karma e Maura. La cosa più bella era che ci si allenava senza distinzione di sesso, che fossi femmina o maschio si ballava per spaccare e nel momento in cui mi sono avvicinata a questa cultura non mi sono neanche chiesta se, in quanto rappresentante di una minoranza potessi farne parte e farmi rispettare solo per le mie skillz: era per me un valore dovuto che avrei raggiunto, solo per l’amore del breaking. Ora le categorie nei battles sono più frequenti, mi piace vederlo come un valore aggiunto alla cultura senza togliere però la possibilità di confrontarsi con tutti, bboys e bgirls, infatti una delle mie frasi ricorrenti è breaking has no gender, it’s all about skillz. Personalmente ho ricevuto delle proposte dove mi venivano offerte delle cariche in modo agevolato in cambio di favori e servizi, non scendo nei dettagli ma per fortuna la richiesta non è degenerata nel momento in cui ho rifiutato nell’immediato. Ogni persona ha un valore e deve essere rispettata per quello; essere riconosciuto per cariche ottenute con i punti della tessera del Carrefour non ti migliora. Il problema è che viviamo in un’epoca dove l’immagine conta più dell’essere e questo fa si che le persone più deboli o con un ego spropositato si possano far abbindolare facilmente. Sono Fiamma Rocka, giro il mondo da sola, la comunità Hip Hop mi conosce, mi apprezza o meno per quella che sono, con i miei pregi e difetti, non c’è caratteristica più bella che questa cultura ci abbia regalato: il poter essere Noi Stessi e non un Personaggio o un Burattino nelle mani di qualcuno. Due domande banali ma di rito: qual è la tua powermove preferita? Adoro girare sulla testa, mi dà una sensazione di libertà estrema, sei in tensione tra la gravità e la velocità stessa del tuo corpo, ma a testa in giù, indi in una dimensione a parte e per pochi. A Torino c’erano già molti bboys che avevano un headspin impressionante: Bboy Atomic, Enea, Angelino, tra le Bgirls Carrie D e Lady Fire, ma l’headspin che mi impressionò maggiormente fu quello di Karim Barouche sotto i portici del Regio nel 2001 prima del party Next Level. Non ho idea per quanto abbia tenuto l’headspin sincera ma di sicuro è stato folgorante perché non mollava il colpo con una velocità negli scratches e una tecnica micidiale.

Subito anche la seconda: quali sono i tre pezzi su cui non ti stancheresti mai di ballare? “Juice (Know the Legde)” di Eric B. & Rakim, “Brothers on my jock” degli EPMD e “Heart of The Beat” tratto dalla colonna sonora di “Breaking”. I primi due mi riportano ai brividi del cypher, il secondo in particolare con il campione di “Nautilus” di Bobby James che adoro! Heart of a Beat è uno dei mie pezzi di battaglia che mi riporta alla fotta degli inizi, quando avevo visto il film “Breaking” del 1984, essendo uno dei pezzi portanti della colonna sonora: mi fa rivivere la scintilla dei primi giorni di allenamento. Molti breakers di oggi nascono in palestre o in accademie: anche tu insegni in Accademia ma il tuo background artistico come abbiamo visto è differente, come vedi questa situazione? Personalmente quando insegno nelle mie classi amo il fatto che i miei allievi mi vedano più come un guru della disciplina(anche se a volte quelli più piccoli mi vedono come un supereroe ), piuttosto che come un maestro autoritario e uso sempre la filosofia always a student. L’errore che molti insegnanti fanno è quello di proiettarsi nel futuro dei loro allievi vedendoli già come bboys da competizione infallibili nei loro sets ripetuti piuttosto che viverseli nel presente e dare priorità alla didattica. Questo è il punto: la cosa più bella che si possa insegnare è riuscire a vivere ogni giorno e ogni situazione sfidando le proprie paure. Quando dico non avere paura intendo anche “non avere paura di perdere” e avere la forza e l’umiltà di imparare dai propri errori e rimettersi in gioco nonostante il risultato di un’esibizione o competizione. Davanti a una classe di studenti io posso intuire, ma non so in verità chi continuerà a ballare per tutta la vita o chi lascerà dopo un mese, chi diventerà medico, calciatore o ballerino: ma quello che so è che attraverso questa disciplina io devo fornire loro gli strumenti necessari per affrontare la vita in tutte le sue sfaccettature. Aggiungo che molto spesso sono io stessa a imparare dai miei allievi: trasmissione e identità sono i valori capisaldi della cultura Hip Hop, la capacità di trasformare un episodio negativo a proprio vantaggio... La questione non è tanto l’insegnare in una palestra o in accademia piuttosto che restare in strada, è il non tradire questi valori. Hai collaborato con Red Bull, proprio grazie anche a manifestazioni sponsorizzate da grossi marchi come questi si nota che il “settore” è in crescita, e si stanno aprendo tante porte. I professionisti sono sempre più richiesti per musical, show coreografici, pubblicità e lavori in televisione. In Italia si può vivere di quest’arte? Sì, ho collaborato con Red Bull nel 2015 a Milano, per un video di breaking per l’edizione del Red Bull Bcone Mondiale tenutosi a Roma in quell’anno. Di sicuro il settore è in crescita rispetto a quando ho iniziato a ballare, bisogna sempre valutare la qualità delle proposte che vengono fatte comunque, perché da un lato la commercializzazione ha aperto il portale a questa disciplina, dall’altro con la piattaforma online è tutto troppo a portata di mano e disponibile e ci si butta tutti nel mainstream senza un codice di valori: c’è molta confusione attualmente. Ultima domanda prima di chiudere: so che sarai ancora giovane, ma come ti vedi fra vent’anni? Tra vent’anni mi vedo ancora a roteare sul marmo. Mi piacerebbe riuscire ad aprire una mia accademia per dare l’opportunità alla nuove generazioni di avvicinarsi alla cultura Hip Hop in tutte le sue discipline, con workshops e ateliers diretti da partecipanti della scena locale e estera. Costruire un luogo di crescita e di ritrovo allo stesso tempo con un’impronta educativa e stilisticamente elevata. Per ora è un sogno, vedremo. (sorride n.d.r.)

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____________________________ testo Camilla Castellani foto Associazione Premio Dubito

C’è differenza tra “sbaglio” ed “errore”. E se oggi chiudo il pensiero con un punto fermo è perché tempo fa l’avrei fatto con uno di domanda. Parliamoci chiaro, non esistono particolari situazioni limite di uso improprio di uno dei due termini ma è bello sapere di poter andare a fondo delle parole, di conoscerle meglio. Di fatto, a pensarci bene, sono le impalcature che sostengono quelle “grandi costruzioni” di tutti i giorni: le frasi. E ancora di più conversazioni e discorsi, vere e proprie metropoli di pensiero (gioie e paranoie incluse). Se si prova a seguire con lo sguardo il loro profilo, partendo dalla singola lettera, sarà come disegnare il contorno di edifici e palazzi: una sorta di personalissimo skyline. Così, intrigata dall’orizzonte profilato da “sbaglio” ed “errore”, ci sono voluta entrare. Se il primo è qualcosa di fugace, il secondo è quell’ingranaggio che potrebbe cambiare il corso delle cose. Sebbene “sbagliare” derivi da “abbagliare” - dal latino balium, quindi splendente - la “s” sottrattiva è proprio quella svista che rende diverse due parole che si comportano di fatto come sinonimi (niente sensi di colpa, n.d.r.). Se lo sbaglio è quindi una distrazione inconsapevole e inconscia l’errore può comportare un cambio di rotta: cosa che, non sempre è da considerarsi un male. “Errore” è figlio di “errare”, dal latino errāre: un verbo dagli intrecci di senso figurato e morale che ho capito grazie ad una persona, o piuttosto tra le sue pagine di prosa, poesia, fotografie e canzoni. Lui era Alberto Dubito, pseudonimo di Alberto Feltrin: era perché Alberto si è spento nel 2012, ma la sua penna brucia ancora e più forte della sua perdita. “Erravamo giovani stranieri” - edito da Agenzia X nello stesso anno della sua scomparsa - è una raccolta della produzione di Dubito, ovvero immagini. Che fossero spray, marker, il “click” di un’analogica o penne consumate fino all’ultimo: Alberto era un abilissimo regista del pensiero e architetto dello sguardo. Attento osservatore, ha saputo creare delle immagini con qualsiasi strumento avesse per le mani: le parole ad esempio. “Erravamo giovani stranieri” è un diario di bordo e di grido di battaglia, forse anche di aiuto. È la cronaca di una generazione di giovani erranti: viaggiatori senza una meta perché in cerca di una, (s)commettitori di errori che portano a cambi di direzione improvvisi, meditati e alle volte anche maledetti. Ci sono però anche erranti che non trovano via d’uscita, come quelli delle sue “periferie arrugginite”: protagoniste in loop di queste pagine e dei testi dei Distubarti dalla CUiete - il duo rap di cui era testo-voce con Dr. Sospè - Davide Tantulli - ai piatti -. Sono passati nove anni da La FrustrAzione del Lunedì (Le altre storie delle Periferie Arrugginite) ma quel disco suona sempre attuale. Sarà la chiarezza dei testi, saranno le basi sperimentali, sarà l’incisività della voce del flusso di coscienza di Alberto Dubito. La forza di questo album, e quella di Santa Bronx - riedizione de La FrustrAzione del Lunedì con poetry comics di Claudio Calla, edita da Squilibri - sta nel laboratorio di suoni incredibile creato da Dr. Sospè e nella la comunicazione incisiva e pungente di un poeta di strada e “militante” della slam poetry. Si tratta di gare di poesia dirette da un MC - Master Of Ceremony -. Costola dell’Hip Hop? Potrebbe darsi, sicuramente per origini e struttura: una sorta di jam di freestyle, nata in un jazz club di Chicago da Marc Smith nel 1984, ma con un contatto diretto con il pubblico, invitato a vivere la performance e a far sentire la propria

voce. Ed è questo quello che faceva bruciare Alberto di amore e rabbia. Un realismo sociale urlato al mic per destare dal sonno vite immobili e tempi ciclici delle sue periferie trevigiane, metafora di qualcosa di molto più profondo della descrizione di uno scenario urbano. Santa Bronx - in riferimento a Santa Bona, quartiere operaio dell’hinterland di Treviso dove Alberto è nato e cresciuto, è l’alter ego della disillusione generazionale di chi è cresciuto negli anni a doppio zero. Ciò che nell’introduzione al volume Lello Voce definisce come tempo […] periferico, freneticamente immobile, smisurato e inafferrabile […]. Un tempo che non è più ciclico, né lineare, ma che piuttosto si limita ad avvolgersi su se stesso, come un loop rimasto incantato sul disco rigido della nostra esistenza. […]. E ai Disturbati Dalla CUiete questo non stava bene, proprio per niente: difatti il loro rap era contaminazione pura. Alle rime real, alle volte criptiche ma sempre inspiegabilmente trasparenti di Dubito si contrappongono gli spazi sonori di Dr. Sospè. Suona così un crossover di generi che aprono dei veri e propri portali verso universi altri: la via d’uscita da una condizione immobile, da un mulinello che né ti porta a fondo ma nemmeno ti lascia risalire. Cara Città la tua stazione dorme più ore di me a notte e un po’ la invidio, al buio le telecamere hanno sostituito dio canto solo per dirti quanto grigio c’hai impresso tra i vicoli stanchi e le vie intitolate alle vite sbagliate, più in là l’aperta campagna con la stessa mentalità chiusa che tu sia maledetta non ci chiederemo mai scusa (traccia 10 - Cara città mash up!) I Disturbati Dalla CUiete sono stati terreno fertile non solo per artisti di poesia con musica - dalla scena rap al cantautorato, passando per la spoken music - ma anche della poesia ad alta voce come la slam poetry e la spoken word. In memoria di Alberto Dubito e del suo essere artisticamente un fiume in piena, nel 2013 nasce il Premio Alberto Dubito - Di Poesia E Con Poesia E Musica -: un bando aperto a giovani poeti, performer, cantautori e rapper (under35) per incentivarne la produzione artistica. Un’idea nata dai coordinatori Marco Philopat - scrittore e giornalista - e Lello Voce - poeta e performer -, con la collaborazione di Paolo Cerruto - poeta -, per stimolare e valorizzare la poesia come espressione a più punti di vista. Credo che la voce di Alberto Dubito debba essere ascoltata per ancora molto tempo. Questo pezzo è il mio omaggio alla sua anima giovane ed errante, e non potevo farlo in altro modo se non con le parole. Tre quartine/ per dire chi non siamo do inchiostro al foglio/ lui si prende la mia mano la periferia è il disordine/ che vuole, Dista chilometri dal cuore/ ma è il centro del dolore (traccia 7 - Periferie Arrugginite)

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____________________________ testo Toni Meola foto Cristiano Luparia

Sirtwo, writer dal 1989, illustratore e grafico dal 1993, scultore dal 2002, tra i primi writers italiani ad aver lasciato un segno tangibile del suo passaggio. Specializzato in lettere tridimensionali, “SirTwo”, al secolo Cristiano Luparia, opera in svariati campi, su ogni tipo di supporto, realizza sculture, grafiche, illustrazioni e loghi. La sua attività principale resta comunque il writing, muri, tele, vetrine, camion, pullman, macchine, facciate di edifici, interni ed esterni di locali di ogni genere. Ha partecipato ad un gran numero di eventi nazionali ed internazionali e collaborato con svariati brand italiane e straniere. Ciao Cristiano, grazie intanto per la disponibilità: in questo numero sei presente con una selezione esaustiva dei tuoi lavori sui treni, tralasciando gli altri tuoi progetti artistici più o meno recenti su cui sicuramente torneremo nei prossimi mesi… infatti volevamo concentrarci su questa sorta di retrospettiva, parlaci delle tue origini: come e quando nasce la tua passione per il writing? Cos’è che ti ha spinto a cimentarti in questa disciplina? E soprattutto ad iniziare dai treni? Da ragazzino andavo in skateboard e sulle riviste di skate ogni tanto vedevo dei pezzi e mi incuriosivano moltissimo: io disegnavo già e facevo fumetti, iniziai così a fare prove su prove su carta ma il primo pezzo vero lo feci poi nel 1989 con Zoid che allora firmava Actarus Productions. La mia tag di allora era Jet, ci trovavamo in vacanza in Valsesia e facemmo due pezzi su un muro di contenimento appena fuori dal paese. Mi piacque fin da subito e appena tornato a Vercelli iniziai a bombardare di notte. I treni furono il quarto step dopo muri, camion, bus. Il primo fu un treno merci ma Vercelli, dove abitavo, purtroppo non aveva depositi. I primi pezzi seri che vidi furono invece gli schizzi di Kaosone che era in classe con Chen che era di Milano come Zoid ma venivano entrambi in vacanza in Valsesia a Cellio. Poi i Puppet di Muddy di Torino che erano stati pubblicati da una nota rivista di skateboarding. Chi sono gli artisti, writers o non, che più ti hanno ispirato quando hai iniziato? Nel 1994 ho avuto la fortuna di fare la mia prima mostra importante e ho conosciuto quello che sarebbe poi divenuto il mio maestro, Phase2. Lui mi ha insegnato ad essere un writer e non smetterò mai di ringraziarlo. E stato un padre, un amico, un maestro e sebbene io conosca il cinquanta per cento dei pionieri americani non ho mai conosciuto una persona che si avvicinasse ad essere come lui. Hai cambiato nel corso degli anni, diversi nomi, firmandoti con diverse tag. Spiegaci questo modus operandi… Il cambio di tag andava di pari passo con i problemi nella vita reale: ogni volta che venivo preso ricominciavo con un altro nome, niente di più. Le lettere mi piacciono tutte per quanto resto affezionato ad alcuni nomi che mi hanno dato più soddisfazioni di altri. Credo che se dovessi sceglierne uno sceglierei Riso perché è l’unico che mi rappresenta visto dove son nato. Quali sono le tue crew di appartenenza? Puoi raccontarci qualche aneddoto su come sei entrato a farne parte o hai qualche ricordo particolare delle avventure in yard con i tuoi soci di allora che vorresti condividere? Faccio parte di un gran numero di crew: le prime sono state ZRK e Zona 13, poi nel 1994 fondai VAV con Ozio e Lazy P, nel 1996 ho fondato PDB con Onuk e Muko, nel 1997 ho fondato TOT con Wens e Reser. Nel 1995 ho fondato anche la DOS con Lazy e Ozio anche nota col nome di Covo delle Bisce che si occupa di musica, abbiamo realizzato diversi progetti discografici. Ho inoltre una crew in Francia, MTV, poi WAD con Agent 2 che era una crew con Phase e altri 5 stranieri che non ho mai spinto e mi rendo conto solo ora di averlo deluso. Poi TwentyStarz con Vesod Refreshink Cheone e Cowboy, da poco ho fondato una nuova crew SUP o 61p

con Flycat dato che ci siamo ritrovati dopo anni e abbiamo deciso di fare un progetto artistico assieme. Questo sarà il primo passo quindi. Mi è stato spesso chiesto di entrare a far parte di Crew importanti ma non ho mai accettato, perché credo che la crew debba essere come una vera e propria famiglia, ci devono essere legami forti non legami di convenienza come spesso accade. Tu sei di Vercelli, distante da Torino e da quello che poteva essere il centro nevralgico di una cultura, parlo del Regio. Come l’hai vissuta? Mah, ti dirò che in realtà vivere a Vercelli è come essere in periferia di Torino e di Milano. In quarantacinque minuti sei in centro quindi sinceramente non ho mai sentito questa distanza; sono parecchio attaccato sia a Torino che a Milano anche se con la gente di Torino e in particolare del Regio mi sono sempre trovato bene mentre non posso dire lo stesso per tutti quelli di Milano. Ora ne parlo tranquillamente ma non dimentichiamo che io arrivando da Vercelli ho dovuto lottare per farmi accettare: ricordo che per parecchi anni il ragionamento che facevano in tanti era che io non essendo di Milano non avevo il diritto di dipingere i treni in quei posti (sorride n.d.r.) Qual è, secondo te, il tratto distintivo che accomuna i tuoi lavori? Come definiresti il tuo stile e come si è evoluto negli anni? Oltre muri e treni quali supporti e tecniche utilizzi? Ho visto che lavori molto su commissione ora… Non credo ci sia un tratto distintivo in tutto quello che faccio, io sono illustratore e grafico oltre che writer quindi spesso la formazione influenza il mio essere writer ma mi piace cambiare e mi stufo facilmente. Per tutti il nome Riso è sinonimo di 3d e di lavori tridimensionali ma è solo una parte del mio studio: amo il wildstyle allo stesso modo ma ho solo impiegato più tempo per comprenderlo. Per quanto riguarda le commissioni ne ho sempre fatte ma da quando ho aperto Lobotech che è il mio studio, l’attività di grafico illustratore si è fusa con la passione per il writing. Inevitabile la domanda su “come era prima”: cosa contraddistingue ora il mondo del writing? Guarda, se penso al passato mi sembra che i writer fossero più persone e meno star, ma forse sbaglio.. (ride n.d.r.) In che modo questa situazione pandemica ha cambiato il tuo approccio al writing? In nessun modo perché io vivo perché dipingo e non riesco ad immaginare cosa potrei fare di diverso. Le mie abitudini non sono cambiate, io mi sveglio, mangio, dipingo, poi dipingo, cucino, dipingo, faccio grafiche più dipingo, ah e poi dipingo. (ride n.d.r) Hai qualche ambizione particolare per il futuro? Qualche soddisfazione che ancora vorresti toglierti? Direi che sarei già contento di riuscire a portare a termine il progetto libro e album solista. Il libro si chiamerà I miei primi 30 e parlerà ovviamente dei miei primi trent ‘anni di writing . Il disco non ha ancora un titolo anche se il pezzo che più mi rappresenta è “Cristiano L - noi i ragazzi dello zoo di Torino”.

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