Bizzy Classico, milanese classe ‘87 conosciuto anche come Kool Boy Classic, ha da poco pubblicato il suo nuovo disco Dedicato dopo Bizzy Classico EP, Vol.2 e “F2” usciti nel 2020. I suoi oltre quindici anni di gavetta si sentono, soprattutto quando le tematiche artistiche si intrecciano alla sfera personale ed emozionale. Il disco è indubbiamente un bel disco, ma l’intervista vi dirà già tanto di lui. Sono abbastanza certa che lo cercherete dopo aver letto quello ha detto.
In che modo il tuo nuovo disco chiude il cerchio che hai aperto? Parlo di consapevolezza e percezione di sé. Quando ho iniziato più o meno seriamente ad approcciarmi a questa cosa non avevo idea di che cosa volesse dire e cosa significasse. Ora forse ne so ancora meno di prima, ma penso di aver unito i puntini che mancavano a finire il disegno che avevo in mente. Come è cambiata la percezione che hai di te dal primo disco a oggi? Ho un livello di consapevolezza di me come persona, uomo e individuo che per ovvi motivi non puoi avere a 18 anni. Credo sia giusto così, ho avuto il tempo di capire, sbagliare ed imparare qualcosa. Ho iniziato che ero un ragazzino con mille cazzi per la testa e tanti casini da risolvere ma senza sapere come. Ora mi sento adulto, ho sempre tanti sbatti ma ho anche i mezzi per gestirli e affrontarli. Più nello specifico, se parliamo solo di rap, a 18 anni avevo grosse aspettative e anche abbastanza hype attorno. Ora mi tolgo ancora qualche sfizio a livello artistico - nonostante creda ancora molto nel mio percorso, investendo sia a livello economico che emotivo - ma non ho più quel sogno di diventare un big di questa cosa a livello numerico. Sogno che ovviamente non si realizzerà mai, fortunatamente però ho raggiunto altri obiettivi personali e lavorativi. Quali sono stati i fattori che hanno contribuito a concretizzare il tuo percorso e a finire il disegno che avevi in mente? Su tutti l’amore per questa roba che ancora continua ad essere molto forte. L’amore è stato sicuramente il motore per continuare ad andare avanti negli anni, ma forse ciò che ha reso più individuale e concreto questo mio percorso sono stati i tanti sbagli e piccoli/grandi fallimenti e/o delusioni collezionati; sia a livello personale che artistico e lavorativo. Dedicato è frutto di tutte queste esperienze. Dentro Ci trovi Tanto storytelling, curato nei dettagli e nelle sfumature. Episodi stilistici, in cui lo stile diventa il vero contenuto, ed altri pezzi più di pancia in cui c’era una particolare necessità espressiva. Il tutto condito con tanti wordplay e citazioni di vario tipo. Per quanto invece riguarda i suoni? So che hai principalmente lavorato tu alle produzioni. Sì, ho prodotto tutte le strumentali e in tre pezzi le ho co-prodotte. Per tutti i beats sono partito da sample presi dalla mia collezione di dischi, ho provato a lavorarli seguendo il mio gusto e li ho riproposti a mio modo. Ci sono parecchi riferimenti e influenze musicali che, un orecchio attento e/o un appassionato di Hip Hop, potrebbe cogliere. Da sound più newyorkesi, ad altri più losangelini, altri ancora più vicini a Houston o Atlanta, fino ad arrivare a Londra. Ma si tratta sempre di mie reinterpretazioni, non faccio typebeat o merda copia e incolla. Nel disco si trovano atmosfere crude e altre molto più melodiche, tutte però con una sorta di “pasta” che rende il suono unico, riconoscibile e soprattutto riconducibile al mio stile. Hai detto che hai una collezione di dischi. Come decidi se un disco entra o meno nella tua collezione? Collezione è sempre un parolone per me, anche un po’ sfigata forse. Però a tutti gli effetti è quello che è, non posso negarlo. (ride, n.d.r.). Non so se ci sia un vero e proprio criterio di ammissione, tra i dischi
che mi piacciono però tendo sempre a prendere le prime stampe originali. Butto già tanti soldi, almeno evito di prendere ristampe a caso. Sul rap l’acquisto è prevalentemente online, difficile prendere a scatola chiusa perché ormai coi servizi streaming hai modo di sentire tutto prima di averlo su supporto. Per tutto il resto della musica, che mi serve sì per campionare ma che in realtà molto spesso mi ascolto per puro piacere, c’è un discorso di diggin’ molto diverso. Sono ancora legato alla ricerca fatta fisicamente in negozio. Se il disco riesco a sentirlo sul posto e ha qualcosa che mi piace o di utilizzabile diventa mio. Interessante, infatti vorremmo sapere come cerchi nuova musica. Cerco sempre nuova e vecchia musica. Sono un fanatico di questo genere, ma anche un appassionato di musica in generale. Nel rap faccio un po’ come ho sempre fatto, cambiano solo i mezzi. Appena ci sono nuove uscite vado a studiarmele, e se ci sono delle collaborazioni con artisti, rapper o producer che mi piacciono e non conosco tento di approfondire più che posso. Spesso accade che più scavi e più trovi, allora scavi ancora di più e la ricerca non finisce mai. Credo che sia un discorso applicabile su tutte le forme artistiche. Con la musica vecchia stesso discorso, l’unica differenza è che in questo caso spesso la ricerca è più analogica e meno digitale, quindi si parla proprio di diggin’ e ascolto del vinile ma il succo non cambia. Tornando al disco: perché si chiama Dedicato? L’ho chiamato Dedicato perché è quello che mi sembra di essere per questa cultura. Allo stesso tempo, però, è dedicato anche a tutti quelli come me, che si spendono con anima e corpo in qualcosa che li appassiona, e a quei day-one supporter che mi seguono religiosamente da quando un diciottenne Kool Boy Classic è comparso nel 2006. Mi hai appena anticipato una domanda che comunque immagino sia stata fatta già innumerevoli volte: ma perché eri KBC e ora sei Bizzy Classico? Con gli anni il passaggio da Kool Boy Classic a Bizzy Classico è stato abbastanza naturale. Bizzy mi rappresentava di più, visto che sono sempre impegnato a fare mille cose, non mi fermo praticamente mai. Ho voluto poi italianizzare Classico per renderlo più unico e anche perché Classico è quello a cui poco umilmente punto, cioè a fare cose che possano restare nel tempo. Ritorniamo a quello che stavamo dicendo poco prima: in che modo ti senti dedicato alla cultura Hip Hop? Questa cosa è parte integrante della mia vita praticamente da sempre. Mi accompagna ovunque nella mia quotidianità, e nella mia testa c’è sempre il retropensiero di trovare una chiave Hip Hop ad un qualcosa che ho appena visto, sentito o vissuto. Provo a risponderti cosi, sperando di rendere l’idea di cosa intendo nel definirmi dedicato. Penso alle infinite notti insonni a scrivere o a trovare il pattern di batteria giusto per il sample che ho tagliato. La sveglia presto per andare al lavoro il giorno dopo e l’unica cosa che mi fa prendere bene è l’idea di avere un nuovo disco da ascoltare in macchina o in metro. Penso ai mille viaggi in tutta Italia (poi in Europa e nel mondo) per vedere concerti o eventi - prima ancora di andarci per suonare.
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Alle mie aperture di grandi nomi statunitensi senza mezzo euro di rimborso, l’attesa del primo treno del mattino stando tutta la notte in giro perché non potevo permettermi una stanza dove dormire. Le ore a far freestyle nei parcheggi con i miei amici, cosa che ogni tanto capita di fare anche ora. Poi penso anche a tutte altre cose meno nostalgiche, e più faticose. Come la necessità di dover essere sincero con quello che fai, il bisogno di mettersi a nudo dicendo anche cose di cui non vai fiero, che magari possono rovinare dei rapporti umani e reali che hai, ma senti di dover raccontare per completezza ed onestà narrativa. Le relazioni distrutte perché avevo sempre altro da fare, le amicizie sacrificate perché non avevo tempo da lasciare ad altro che non fossero certe mie passioni. Gli acufeni che mi fischiano in testa e ormai mi accompagnano da anni senza che mi lascino un vago ricordo di cosa sia il silenzio. Penso a questo, alla tanta fatica e sacrificio che ho deciso di investire in questa cultura, che sicuramente mi ha dato tanto ma che per certi versi mi ha chiesto anche qualcosa in cambio. Hai pubblicato molta roba fra il 2019 e il 2020. Il fatto che hai tirato fuori praticamente due/tre dischi in così poco tempo, non rischia di rendere i tuoi lavori fugaci e farli finire nel dimenticatoio? Questo lo deciderà il pubblico e la gente che mi segue. Il mio compito è di provare a fare le cose sempre al meglio. Non per forza un disco atteso dieci anni sarà più bello o più ricordato, anzi è capitato che dischi super attesi si rivelassero dei flop proprio perché non in grado di soddisfare le aspettative. Sono felice di vedere gente che ascolta e condivide “La Mia Milano” di Montenero come se fosse uscita ieri, o che mi scrive “Seee Zio” o sei “Troppo fresco per sto paese” tra i messaggi. Mi fa pensare che nonostante la quantità di progetti, la qualità venga riconosciuta e che possa durare qualcosa in più. Riguardo la copertina del disco, come mai questo stile di lettering e soprattutto chi ti ha aiutato con la parte visual? Volevo qualcosa che riassumesse in qualche modo questi ormai quindici anni di passione, studio e sbattimenti. Che potesse dare davvero peso alla parola Dedicato. Mi è venuta quindi l’idea di far inserire un po’ di foto e frame rappresentativi di questo arco temporale. Il progetto grafico è stato affidato a Gabriele Mellera che da sempre riesce a mettere in forma grafica le mie idee e ispirazioni. Ha praticamente curato tutte le grafiche che mi vedono protagonista, dal primo singolo “K.B.C.” fatto nel 2006, fino ad oggi. A parte Gabriele Mellera nella parte grafica, chi ti ha accompagnato in questo disco? Ho co-prodotto due beat con Neazy Nez e MemoB e un altro beat con Flatpearl e Succo, è stato un piacere lavorare con loro. E’ sempre bello potersi confrontare con realtà differenti quando sono preparate e stilose. Sopra le strumentali invece, mi sono fatto accompagnare da DJ Bront, Creep Giuliano, Desperado Rain, FatFat Corfunk, Long John, Notow e RollzRois. Sono tutti artisti che stimo e con cui condivido una forte passione legata alla musica e al rap in particolare. Con alcuni c’è una conoscenza decennale. Fatfat, per esempio, ha seguito e contribuito ai miei esordi, con altri il rapporto è più giovane ma ho imparato a dare fiducia e spazio a chi mi sembra rispettoso e meritevole. Come mio solito, le collaborazioni non sono casuali o fatte per convenienza. Volevo gente con un certo tipo di visione che potesse affiancarmi in questo disco che per me è molto importante. La parte organizzativa invece è tutta sulle mie spalle da sempre. Quindi non sei affiancato da nessuna etichetta? E’ stata una scelta? No, da nessuna. Non ho mai particolarmente cercato un contatto in realtà. Sono sempre stato indipendente al 100% e mi sono sempre smazzato tutto da solo. Ora come ora forse ne sentirei più la necessità per alleggerirmi di tante rotture di cazzo. Anzi, se qualche etichetta indipendente seria dovesse proporsi potrei accettare o perlomeno valutare di buon grado la cosa. Se pensi ai dischi più importanti che hai fatto uscire, cosa c’è di diverso o uguale in te come persona che si è riflesso nella musica? Tutto e niente. Di uguale c’è lo spirito del ragazzino che si è innamorato di questa cosa tanti anni fa e che ogni volta ha voglia di fare e mettersi in gioco come se fosse il primo giorno. Di diverso c’è la consapevolezza e l’esperienza di chi certe cose le ha già viste e fatte più volte. Essendo anche molto autocritico c’è un’eterna ricerca della perfezione che poi forse è il motore che mi spinge a continuare a fare. La perfezione è un’utopia e io continuando a inseguirla, sono spinto costantemente a creare e a fare meglio, fortunatamente riesco a godermi il percorso e il viaggio, visto che l’arrivo non ci sarà mai. Cosa fai nella vita oltre a fare musica? Faccio video editing e copywriter principalmente, resto quindi in un ambiente in cui l’espressione e la comunicazione hanno una certa importanza. Ho anche altre passioni, come il cinema e lo sport (basket NBA in particolare), e fortunatamente riesco ad alimentarle tutte. Anche se il tempo è sempre pochissimo e io sono sempre Bizzy. Concludo con una domanda filosofica. Quanto è importante (e perché) per te lasciare il segno? Direi parecchio. Nella vita di tutti i giorni, ti dico con poca modestia che sono ben consapevole di essere una persona carismatica e con discreta capacità di interagire con le persone, di solito la gente si ricorda. Lasciare il segno, anche in campo artistico, è una sorta di pass per la vita eterna, perché quando non ci saremo più resteranno solo le cose che abbiamo concretamente fatto e i ricordi che lasceremo negli altri. Tutto il resto sarà polvere. Piaciuta come risposta filosofica?
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Spingere un disco attraverso musica nuova raccolta in un altro disco. Un concetto in apparenza semplice, che mi ha però fatto riflettere su quanti pochi artisti abbiano rispetto per i propri lavori. Molti producono per il semplice gusto di collezionare discografia. Jangy Leeon si spinge oltre perché crede che il primo volume del suo Full Moon Confusion non sia stato recepito abbastanza. Fa roba nuova connessa al lavoro precedente e sforna in questo modo la Desert Edition. Lui, da anni lottatore di Jiu-jitsu fonde tecnica, disciplina e marzialità anche nella musica.
Partiamo dal motivo principale per cui siamo qui! Da qualche mese è ormai fuori una sorta di seguito del tuo lavoro Full Moon Confusion uscito nel 2020. Ci racconti di questa nuova edition e del perché l’hai battezzata Desert Edition? La Desert Edition è la seconda parte del disco, più che una vera e propria deluxe, come si potrebbe pensare. Non ci sono remix e le otto tracce sono tutte nuove. Penso che rappresenti per me un ulteriore step a livello artistico-tecnico. Ho usato la parola Desert perché rappresenta sempre il viaggio mistico legato alla Confusion da luna piena ma con un taglio più estivo. In realtà a livello di contenuti è proprio complementare con la prima parte dove già faccio diversi riferimenti al deserto. Scusa per la domanda probabilmente ridondante per te che hai già affrontato tante interviste: perché Full Moon Confusion? Era un titolo che rappresentava bene il mood mistico/occulto del disco a livello di atmosfere. Nato durante una vacanza in Grecia, a Corfù. Il proprietario del BnB che mi ospitava era un soggetto particolare di nome Kristos che aveva piantagioni di marijuana nel giardino privato dell’appartamento. Una sera per giustificare la sovrapposizione di due prenotazioni con un cliente disse “Sorry, there is some confusion, it’s for the full moon: Full Moon Confusion”. In quel momento ho pensato che fosse il titolo perfetto per il disco. Beh, si, decisamente il titolo perfetto. Quindi perché hai sentito l’esigenza di un continuum rispetto alla pubblicazione di un disco a se stante? Perché era materiale nuovo che si legava al disco e pensavo che i miei ascoltatori non avessero percepito al meglio la prima parte del lavoro: ho capito che sarebbe stata la scelta più adatta per spingere ancora il disco tramite musica nuova. Mi ha incuriosito molto questa cosa che hai detto. In realtà non so se sia un bene o un male. Mi spiego meglio: oggi escono tremila dischi, con una velocità paurosa. Non si ha il tempo di recepire tutto, ma allo stesso tempo siamo noi che, probabilmente, siamo troppo veloci e non ascoltiamo veramente. Quando dici che secondo te gli ascoltatori non hanno percepito al meglio la prima parte, cosa intendi? Forse è stata un’impressione mia, nel senso che mi aspettavo un volume di streaming più consistente, e forse non è il modo corretto di ragionare: la misura di un successo artistico non dovrebbe passare attraverso questo tipo di elementi, considerato anche il fatto che il gioco Spotify ormai è completamente condizionato e veicolato dagli inserimenti in playlist. I miei ascoltatori so che hanno percepito bene il prodotto. Fondamentalmente mi aspettavo di arrivare a un pubblico più ampio con questa uscita. Credi che ora, con l’uscita della seconda parte, sia stato percepito meglio o di più? Effettivamente, forse, di più è la definizione giusta, perché già questa seconda parte del disco va oltre la prima, è già un nuovo percorso. L’album per intero è arrivato anche a più persone ma non ti so dire
se sia stato effettivamente percepito meglio rispetto al primo lancio. Che tipo di continuità c’è rispetto al disco del 2020 dal punto di vista dei contenuti o dei suoni? Il sound è più fresco rispetto ai miei lavori precedenti sia nella prima parte che nella seconda del disco. Ci sono molte più tracce bounce, ovviamente la linea madre resta l’hip hop ma non è concentrato esclusivamente sul boom bap e anche la roba in quattro quarti del disco suona, per così dire, 2.0. Come nella prima parte, anche nella seconda ci sono tracce più party o clubbing a livello di contenuti come “Clap Clap” o “Bon Bon” e tracce più intime o conscious come “Ghost Rider”, mentre il boom bap di “Caracal” sia a livello di sound che di contenuti lega con tracce come “Black Magic”. Mi hanno colpito molto le copertine. E’ chiaro che la copertina desert edition ha dei veri e propri richiami alle atmosfere del deserto, ma mi chiedo se esiste qualcosa dietro alla scelta delle due colours palette e, soprattutto, il simbolismo di quegli uccelli rapaci, aquile giusto? I rapaci presenti allo shooting sono avvoltoi in realtà! Il simbolismo si rifà a un viaggio mistico notturno come può essere quello del peyote per i messicani o dell’ayahuasca per i sudamericani, e alla loro ritualistica: tramite questi si dice che entrino in contatto con entità a livello extrasensoriale. Le ali alla testa si rifanno anche alla mitologia norrena con eroi-divinità come Sigurd. Avvoltoi, ok. Avevo visto male. Hai studiato la materia o sei semplicemente appassionato di queste culture? Beh, diciamo che ne sono attratto. Mi incuriosisce tutto ciò che fa parte del mondo occulto/esoterico e di carattere ritualistico, come in questo caso sono l’uso e la somministrazione di allucinogeni naturali per gli indigeni. Penso che nei miei pezzi si possa cogliere un richiamo tribale o mistico e che questo possa essere percepito di natura latina o africana. Inoltre, credo che ci possa essere, appunto, una connessione con la musica. Detto ciò, questo tipo di culture mi affascinano e faccio anche della ricerca in questo senso. Quali sono le tue altre passioni? E come incidono nella tua musica? Le mie passioni sono molteplici e influiscono più o meno direttamente sull’immaginario dei miei testi e sulla mia musica. Oltre alla musica black, a me piace molto la musica latina tradizionale, tipo la cumbia nelle sue diverse sfaccettature, o più semplicemente il latin jazz in generale alla Ibrahim Ferrer, per esempio. Penso che si possa capire che queste passioni influenzano le musiche e le melodie che lego al mio rap. Aggiungo anche la bossa nova, altro genere che mi piace molto. Poi il combattimento, nella fattispecie la lotta, mi piacciono molto e anche qui mi piace fare citazioni a fighter storici e leggendari nelle mie barre per apportare la giusta aggressività ai miei testi. In generale, inoltre, come anticipato prima, mi affascina tutto ciò che ruota intorno all’occulto, esoterico e paranormale.
Da quello che mi hai raccontato fino ad ora, mi sembra di capire che per te l’innovazione è fondamentale quando si realizza un progetto. Ma in termini pratici come si può intendere il termine innovazione? In termini pratici, a livello artistico, per me significa mantenere la mie radici e basi culturali artistiche, che sono legate all’hip hop, ma steppare sempre a livello qualitativo tecnico e di contenuti, oltre che a presentare il mio suono in una maniera che sia autentica ma attuale. Come si riesce a coniugare le due cose in maniera fluida? Si coniugano naturalmente perché io sono un appassionato di hip hop, dall’old school fino a ora. Penso sia anche un fatto generazionale: questo amore per la doppia acca in un certo senso ha veicolato la mia vita e ciò si riflette nella mia musica. Non potrei fare la roba che si faceva negli anni novanta come la facevano nei ‘90, facendo un esempio, ma posso riproporre la stessa vibe, lo stesso gusto nel suono oppure nel sample ma in una versione aggiornata rispetto ai canoni musicali odierni, con dei contenuti attuali e delle metriche ricercate che non siano scontate: anche l’interpretazione del tutto vuole la sua parte. Tornando alle passioni, quali sono i punti comuni fra il rap e il Jujutsu, che pratichi ormai da anni? La tecnica, la disciplina e la marzialità sono tutti aspetti che puoi riportare sia al rap che al Jiu-jitsu. Devo dire che la lotta mi permette di sviluppare il mio carattere ma anche di essere più credibile agli occhi e alle orecchie dell’ascoltatore, considerato che il mio approccio al rap è spesso di tipo aggressivo… anche se di questi tempi non so quanto possa essere rilevante per il pubblico medio. In che modo sei aggressivo se parliamo di rap? Il mio timbro vocale nasce come ruvido e di impatto, diciamo che anche coi testi sfogo quello che non potrei dire o fare nella vita normale. Mi piace il rap carico da live con un’importazione potente, come molti dei miei riferimenti a livello artistico: ho sempre apprezzato quel tipo di rapper dal timbro ruvido che quando li ascolto mi sento il sangue pompare nel collo, musica adrenalinica che mi carica. Cerco di trasmettere le stesse sensazioni tramite la mia musica, so che a qualcuno può essere utile e servire come lo sono stati per me artisti come DMX, Busta Rhymes, Xzibit, Vinnie Paz e gli MOP. Un esempio di musica che carica realizzata appositamente da me è “Mi Fist”, il Walk Out che ho realizzato per Stefano Paternò: sapevo di dover realizzare qualcosa che lo caricasse al punto giusto prima del combattimento e, a quanto mi dice lui, ci sono riuscito.
Cosa consigli alle giovani leve di entrambi i settori? Consiglio alle leve di entrambi i settori di mantenere uno stile di vita sano, che gli permetta di sviluppare al meglio le proprie skills, senza velleità e distrazioni, di concentrarsi sul lavoro e sull’organizzazione di esso, ma soprattutto di non mollare mai. Come hai vissuto la pandemia dal punto di vista umano e dal punto di vista musicale? Qualcosa è cambiato in te? Dal punto di vista umano non è stato semplice, ma penso per nessuno, anche considerato che ho preso il covid all’inizio di marzo del 2020, quindi proprio quando è cominciata la pandemia, e che non ho ancora recuperato l’olfatto. Dal punto di vista musicale non ho mai smesso di produrre e lavorare, forse anche più di prima, perché ho avuto ancora più tempo per potermi concentrare sulla produzione. Politicamente, credi che le cose siano gestite bene in Italia? O guardando all’estero credi che si sarebbero dovute fare le cose diversamente? In particolare te lo chiedo pensando all’arte, agli eventi, ai sussidi… Per quanto riguarda il sostegno e supporto di realtà artistico-musicali in Italia, da parte del governo, si poteva gestire sicuramente molto meglio. Qui in Italia, oltre al fatto che la nostra non è riconosciuta come una professione vera e propria, non esistono neanche un minimo di aiuti come accade in altri Paesi come America o Canada o come, più semplicemente, in Francia e in tutte le altre nazioni in cui lo Stato è comunque più presente rispetto al cittadino in generale e nello specifico anche con gli artisti. Considerato che in Italia hanno bloccato, a ragione o a torto, gli eventi, potevano almeno in questo caso straordinario studiare qualcosa per venire incontro al nostro settore, invece di fingere che non esista, anche a differenti livelli. Ma come ho detto prima, in Italia non è una professione riconosciuta. Hai già in mente nuovi progetti? Sì, certo, oltre che in mente sto realizzando già un nuovo progetto curato alle produzioni dal mio socio Jack The Smoker, collaboro sempre con ST Luca Spenish e ho intenzione di realizzare un altro progetto insieme a Weirdo.
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Una ricerca tuttora in corso all’Università Statale di Milano, dal titolo I generi musicali nell’era di Spotify: costruzione sociale, fruizione computazionale e pratiche produttivo-distributive, pare stia pian piano dimostrando che, alla faccia delle ridondanti retoriche su contaminazioni e liquidità, la distinzione della musica in generi viene ancora utilizzata dagli ascoltatori per orientarsi nel mare magnum dell’offerta digitale. Oltretutto pare che le playlist, gli algoritmi e tutti gli automatismi che le piattaforme di streaming ci mettono a disposizione per rendere sempre meno stressanti e in definitiva sempre più passive le nostre ricerche, vengano ormai guardate con sospetto anche dalla generazione dei ventenni, quella che noialtri boomer siamo portati (troppo spesso) a sottovalutare. Vanvere generazionali a parte, l’idea che i generi musicali abbiano ancora un ruolo in questo mondo è un buon punto di partenza per affrontare quello che avrebbe le potenzialità per essere l’evento discografico hip hop dell’anno, e che però nessuno sta filando di striscio. Parlo dell’uscita (a fine estate negli Usa, con modalità distributive francamente masochiste nel resto del mondo) della Smithsonian Anthology of HipHop and Rap, ovvero il cofanetto di 9 cd con tanto di corposo e autorevole librettone uscito su Smithsonian Folkways allo scopo di definire una volta per tutte quale sia il canone del rap. Quale sia o magari quale sia stato, visto che le 129 tracce quivi raccolte spaziano dal 1979 al 2013.
COS’È STA ROBA. GROSSO MODO
Il presente articolo non intende fare le pulci alla compilazione di quest’opera. Non ne avrei le competenze e non mi sembra il genere di considerazione più interessante, anche perché parificherebbe questa operazione alle mille altre raccolte pubblicate negli anni. È evidente che partendo dal ’79 rimane fuori la fase pionieristica non solo di Kool Herc, ma anche di gente come Gil Scott-Heron e i Last Poets, che con le origini del rap c’entrano parecchio ma di sicuro stanno fuori dal canone (appunto!). Quanto alla cesura finale sul 2013, grosso modo ci si ferma prima che lo streaming diventi il mezzo di fruizione musicale dominante (lo diventerà tecnicamente nel 2015) e che l’hip hop perda del tutto le caratteristiche di sottocultura che lo hanno contraddistinto nella fase eroica della sua storia. Manca per esempio in toto la considerazione di quelle realtà alternative come Stones Throw, Anticon e Def Jux che al cambio di secolo innovarono in particolare il lato sperimentale dell’hip hop e, insomma, sui distinguo e le piccolezze ci sarebbe da far notte. Ma tanto nessuno sarà mai completamente d’accordo con le scelte di qualcun altro, in un campo come questo.
COS’È LA SMITHSONIAN FOLKWAYS
Lo Smithsonian Institution è l’ente cultural-museale nazionale degli Stati Uniti, composto da una complessa ramificazione di musei sparsi sul territorio e centri di ricerca che operano nei campi più svariati, ma con particolari focus di interesse sulla storia dei popoli e del folklore. La Smithsonian Folkways è il nome che l’etichetta discografica Folkways ha assunto nel 1987, dopo la morte del fondatore Moses Ash che la diresse per una quarantina d’anni, quando il catalogo venne acquisito dallo Smithsonian per il suo alto valore culturale e documentale. Ma la Folkways era nata come etichetta commerciale. Molto sui generis, beninteso, visto che si dedicò da subito a scoprire musicisti messi in disparte dalla grande industria discografica e soprattutto dediti a rinverdire i lasciti delle tradizioni musicali popolari più remote, sia in senso temporale che geografico (l’etichetta è stata fra le prime ad importare negli Usa suoni da ogni parte del mondo). La Folkways ha avuto un ruolo determinante per la tenuta e la diffusione del fenomeno del folk-revival, ovvero la riscoperta filologica, intellettuale e militante che alcuni musicisti e ricercatori statunitensi (il più attivo fu Pete Seeger, che qualcuno ricorderà novantenne sul palco con Bruce Springsteen a suonare per l’elezione di Barack Obama) a partire dagli anni ’40 operarono sui vecchi repertori folk del mondo contadino americano, una terra in cui si era creato un meticciato etnico e culturale unico al mondo (questo per via della colonizzazione di diversi popoli europei, poi mescolatisi, e del brutale innesto di manodopera schiavizzata dall’Africa e dai Caraibi; il che - per quanto moralmente riprovevole - ha dato vita a un melting pot musicale straordinario, che si è poi contaminato ulteriormente con l’immigrazione dall’Europa e dall’Asia, in particolare a inizio ‘900). Vale la pena sottolineare che molto prima degli anni ’60 e dell’esplosione del movimento per i Diritti Civili, nel circuito del folk-revival si muovevano musicisti di primo piano afroamericani come Leadbelly, Odetta e Josh White, seguiti con interesse da un pubblico di bianchi cittadini borghesi.
I PRECEDENTI: QUELLO INUTILE E QUELLO MASTODONTICO
Non se n’è accorto nessuno, ma nel 2011 è uscito il cofanetto in 6 cd Jazz: The Smithsonian Anthology, che proponeva un’operazione sinistramente simile a quella di quest’anno sul rap. Sinistramente nel senso che la cosa proprio non funzionò. Troppo istituzionale e calata dall’altro, oltre che carente in modo vistoso sulle ramificazioni che la materia jazz ha preso dagli anni ’80 in avanti, questa antologia uscì oltretutto in un momento in cui quella musica era particolarmente poco in auge (non c’era ancora quell’hipster-jazz di cui parlammo nella prima puntata degli “Altrimondi”). A differenza di quanto accadde con quel progetto, non si può certo dire che oggi non ci sia interesse per l’hip hop, in un panorama nel quale l’influenza di quella che fu un tempo una sottocultura è diventata così pregnante da non accorgersi quasi più della sua presenza. L’hip hop è semplicemente ovunque nella musica pop contemporanea. Ma al presente ci arriviamo tra un attimo, perché il vero precedente storico ingombrante - direi proprio monumentale - risale al 1952. Ed è la Anthology Of American Folk Music curata da Harry Smith e pubblicata dalla Folkways (non ancora “Smithsonian”). Era un’antologia di canzoni folk uscite tra la fine degli anni ’20 e i primissimi anni ’30, quando ancora la crisi non aveva strangolato il giovane mercato di questa musica. Ma era roba che nel ’52 non aveva ascoltato nessuno; di sicuro non quei cittadini acculturati a cui Moses Ash e gli alfieri del folk-revival la vendettero. Dietro a questo cofanetto agghindato con strani simboli esoterici non c’era un progetto di compilazione di tipo scolastico e istituzionale, ma un ricercatore compulsivo di dischi a 78 giri e reperti antropo-folklorici minori, che si dilettava di cinema sperimentale e addirittura di occultismo: Harry Smith, in pratica un pazzo totale. Ma un pazzo con un metodo e un sacco di idee brillanti, un irrequieto genio outsider stimato dalle alte sfere dell’intellighenzia beatnik americana, che seguendo connessioni mentali e filologiche tutte sue riuscì nell’impresa di costruire per davvero un canone, partendo da incisioni che diversamente sarebbero state cancellate dalla Storia. Ora, capisco che i lettori di Moodmagazine sono tutti B-boys, ma non accetto discussioni sul fatto che il musicista in assoluto più importante del secondo Novecento si chiami Bob Dylan. E Bob Dylan considera l’Anthology di Harry Smith tipo la Bibbia. Non so se mi spiego.
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AFFINITÀ E DIVERGENZE
L’Anthology del folk di Harry Smith concorse enormemente a consolidare il movimento del folk-revival che per primo, al principio degli anni ’60, condizionò la musica giovanile innestandole elementi di contestazione e consapevolezza socio-politica tali da rendere per la prima volta adulto un mercato discografico che era nato con l’imperativo puramente ormonale del rock’n’roll, oltre che con espliciti intenti commerciali. Insieme al bebop (corrente jazz rivoluzionaria degli anni ‘40, orgogliosamente nera ma inadatta a sfondare presso un pubblico veramente ampio) il folk-revival fu il primo genere musicale conscious di massa (aiutato in questo dal fatto di venire praticato per lo più da bianchi universitari). Dietro all’Anthology di Harry Smith non c’era però alcun intendimento di tipo professorale o dottrinale. A intrigare i giovani virgulti acustici degli anni ’60 furono infatti anche il suo mistero e la sua semplice alterità rispetto a tutto quello che si ascoltava in giro. La nuovissima Smithsonian Anthology of Hip-Hop and Rap, invece, ha ben poco di misterioso, arriva a posteriori - con il rap che la sua storia l’ha già bella che fatta -, e ha pure l’obiettivo un po’ antipatico di definire oggi un canone, cercando di dare un ordine a quanto si è consumato fra gli anni ’80, ’90 e duemila. Che il confronto con l’operazione di Harry Smith sia impietoso fin dalle premesse è evidente. Ma onestamente non credo sia un confronto legittimo. L’Anthology del ’52 fu una magia. Si trattò di un caso più unico che raro di operazione che era a tutti gli effetti antologica (le incisioni avevano tra i 20 e i 25 anni; l’origine dei brani assai più antica) ma che non di meno spalancò le porte a un nuovo genere, il folk-revival appunto, che rivitalizzò le vecchie canzoni donando loro un senso nuovo in un mondo nuovo. Le polverose incisioni dell’Anthology ispirarono un’intera generazione di musicisti dalle orecchie vergini perché erano testimonianze di un mondo alieno e ancora sostanzialmente rurale, catapultate con una macchina del tempo (discografica) nell’epoca industriale. Oggi viviamo invece nell’era digitale, che è cosa diversa dall’età industriale, ma pensare che basterà questo scarto storico perché la nuova Anthology produca sul rap di domani un effetto detonante come fece sul folk-revival quella del ’52 sarebbe un’ingenuità. Non basterà questo ed è chiaro che un’operazione come quella della Smithsonian Folkways non sta mobilitando l’interesse dei seguaci del rap e la chiacchiera degli influencer del settore perché 1) arriva da una nicchia ignota a quasi tutti i frequentatori di quel mondo; 2) si presenta con assai poco velati intenti educativi e la cosa fa ovviamente storcere il naso a chi non ha mai demonizzato la parte genuina e modaiola di questa musica; 3) non ha alcun tipo di sfruttabilità commerciale, e nell’era digitale questo è il più grave tra i peccati che ti precludono ogni visibilità su larga scala.
CHE CE NE FACCIAMO
Fatti salvi i diversi obiettivi, vale la pena analizzare il differente contesto in cui cadono le due antologie, poiché arrivando quando il rap domina incontrastato le logiche produttive di quasi tutta la musica del Globo, questa nuova Anthology potrebbe avere davvero una valenza per lo meno storico-educativa. E nel contesto attuale, con lo sfruttamento commerciale dell’hip hop che ha raggiunto il culmine, beh, un po’ di sana e vecchia scuola io non lo butterei. Suona un po’ paradossale, ma nel caos totale delle contaminazioni e delle aperture verso tutti gli stili e tutte le geografie, la semplice idea che il rap possa avere un canone oggi ha un che di esotico, inatteso, spiazzante. Il tentativo di riannodare i fili della Storia, se fatto con il dovuto garbo e nessuna velleità di incidere per forza sul presente di una musica che scoppia di salute al punto di rischiare il monopolio espressivo sui linguaggi del mondo giovanile, non viene mica per nuocere. Per esempio può restituire l’idea della territorialità a uno stile musicale che - piaccia o no - ha avuto origini precise all’interno di luoghi e comunità precise. Ribadire l’univocità delle origini non significa per forza contestare o men che meno ignorare quello che è il dato eclatante e fondamentale dell’hip hop oggi: la sua tentacolare diffusione su scala mondiale. Se il rap si globalizzerà eccessivamente, diventando tutto uguale a prescindere dai retaggi linguistici, storici, culturali e geografici, avrà sì definitivamente conquistato il mondo, ma lo avrà fatto rinnegando le istanze di denuncia e rivendicazione identitaria da cui partì più di quarant’anni fa dai quartieracci di New York. L’era digitale è proprio quella che, attraverso la tecnologia, si protende verso la cancellazione della geografia (sbandierando di farlo a fin di bene…). E se c’è una cosa che al rap riesce benissimo ad ogni latitudine non è la globalizzazione ma la cosiddetta glocalizzazione, cioè la popolarizzazione mondiale di elementi culturali, idee e stili di vita che in origine si sono sviluppati a partire da specifiche realtà locali, e ne trattengono in qualche modo lo spirito. Uno spirito fatto di lotta e rivendicazione, di divertimento e disciplina, che da almeno trent’anni la cultura hip hop mette a disposizione delle esigenze delle nuove comunità; quelle che scelgono di adottarne i linguaggi, dalla Francia al Giappone, dal Brasile ai ghetti londinesi, dal sud-est asiatico alla provincia italiana. C’è una cosa che, alla fine, vale sempre la pena di tener presente: viviamo in un mondo fin troppo colmo di stimoli e condizionamenti; un mondo nel quale il concetto stesso di scelta è problematico e scivoloso. E allora se di una forma d’arte conosciamo le origini e la storia, forse quando l’avremo fatta nostra e la useremo per i nostri scopi (senza scimmiottare inutilmente chi ce l’ha fatta conoscere), potremmo dire davvero di averlo scelto, e non subìto.
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Xqz, nome d’arte di Oliver Paul Speck, è un produttore e DJ della provincia di Varese, amico e beatmaker di Massimo Pericolo. Dopo aver accompagnato il rapper di Brebbia nei tour prima della pandemia, Xqz ha lavorato al suo primo progetto, Menù Fisso, uscito per Pluggers. Sette tracce con le collaborazioni di Massimo Pericolo, Speranza, Ketama, Silent Bob, Chicoria, Disme, Rafilù, Gravante e DJ 2P.
Oliver, sei conosciuto per essere il un produttore e il socio fidato di Massimo Pericolo e per aver prodotto due classici precedenti al suo album Scialla Semper: “Totoro” e “Cella senza cesso”. Quanto ha influito nel tuo percorso aver collaborato con lui? Come vi siete conosciuti e qual è il tipo di legame che avete costruito nel tempo? Collaborare con Vane mi ha fatto capire a fondo l’importanza di ogni singola barra, sembra banale nel rap ma non lo è proprio. A livello artistico è uno dei due (l’altro è Grava) che più mi ha introdotto al rap italiano, prima ascoltavo solo rap USA o latino americano. Se ora riesco a capire l’identità di testo di ogni singolo artista è grazie a lui. In termini lavorativi Vane ha chiaramente sconvolto la mia vita, prima stavo letteralmente alla frutta e quando ha svoltato abbiamo fatto mesi a lavorare 24/7, ne è valsa la pena per fortuna. Ci siamo conosciuti a 15/16 anni tipo, all’epoca non andava di moda il rap e chi lo ascoltava era automatico escluso dalla fascia delle persone cool. Io ballavo breakdance ed ero in crew con Bolo (Palazzi d’oriente), è lui che ha fatto da tramite per conoscerci. Una volta scoperto che entrambi eravamo appassionati di rap abbiamo collaborato sempre più fino ad arrivare a CSC e Totoro. Dal 2019 a oggi siamo diventati molto più amici di prima, c’è una profonda fiducia reciproca. Per le collaborazioni del tuo album d’esordio hai scelto tutti amici di vecchia data con cui hai un rapporto umano prima che artistico. Come mai questa scelta? È da qui che è nato il titolo Menù fisso? Sono un grande fan di tutti loro e rappano di cose che sono molto vicine a me. Li ho scelti anche perché sapevo avrebbero dato fiducia ai miei beat. Sono persone che capiscono la mia visione e che non erano interessati alla collabo per fare classifica. Il nome nasce dalla mia passione per i menù fissi, quando sei in after dopo una serata il menù fisso è capace di salvarti la vita. A fissare il titolo però è stato Vane, avevo quattro alternative e lui ha scelto quella. Mi son subito fidato perché so bene che lui ha un bel talento per le parole.
“Slonkin’” invece è una traccia molto particolare un po’ diversa rispetto alle altre presenti sviluppata sul campione Memphis, il suono dope e le batterie tipicamente UK. Come è nato questo mix? Diciamo che ogni elemento ricopre una parte del mio lato creativo: Memphis perché sono uno dei pochi che è partito ascoltando rap dirty south, mi son sempre gasato i Three 6 Mafia per dire. Poi nel tempo ho scoperto che persone come Asap Rocky o i Suicide Boys avevano rilanciato l’uso di quel tipo di campioni e mi son detto: “perché non farlo anche qui?”. Una cosa che dico spesso è che tra east coast e west coast alla fine ha vinto il sud . I suoni della trap vengono da lì. La batteria UK viene dalla mia grande passione per la UK bass music. Sono stato anche io vittima del movimento dubstep del 2010, da lì in poi ho approfondito sempre più il genere fino ad arrivare a cose più deep come Burial o Skream. Il suono dope invece nasce un po’ dall’abuso di marijuana fatto in fase adolescenziale, sentivo di potermi cullare in quei suoni morbidi e avvolgenti. Questo è un EP diverso dai soliti dischi da producer ed è il tuo primo album da produttore. Cosa ti aspetti da questo nuovo capitolo? Resterà un episodio isolato o ci sarà un continuo? Io non mi aspetto molto in realtà, mi sento molto felice perché ho visto che il mio viaggio e la mia estetica sono arrivati. Ci sarà sicuramente un continuo, ho una marea di musica nel computer e ogni giorno provo a farne di nuova.
I temi dei brani affrontati dai tuoi ospiti si sviluppano trattando di problematiche per lo più sociali. Quanto pensi abbia influito essere cresciuti in un ambiente di provincia? Pensi che le cose sarebbero potute andare diversamente per te se fossi cresciuto in una grande città come Milano? Beh, crescere in provincia mi ha influenzato tantissimo, mi ha sempre dato la possibilità di sbirciare i trend ma di fare quello che voglio. Qui le mode arrivano dopo, è normale che i ragazzi sviluppino una loro identità creativa. Lo si può notare nei progetti che escono: il mio, quello di MP, quello di Wasi e di Richard Gers. Non è roba che puoi paragonare ad altra roba in Italia. Se fossi cresciuto a Milano sarebbe stato uno schifo, mi spaventa l’appiattimento di gusto per uniformarsi alla “moda” del momento. Sia a livello musicale che estetico. Si apre qui il capitolo casertano, c’è un brano dal titolo “Senza Ghiaccio” con Speranza e Gravante nel quale si percepisce tutto il rispetto e l’amore che li lega a questa terra.. Nel 2019 Rafi e Speranza sono venuti a Luino, sul nostro amato Lago Maggiore, per girare un video e siccome ai tempi eravamo low budget li abbiamo ospitati a casa di Grava. È stato subito amore a prima birra (ride, n.d.r.). Abbiamo passato la notte a bere e ad ascoltare musica e ci siamo subito sentiti in sintonia. Noi e loro condividiamo tanti valori comuni, è come se avessimo un storia condivisa anche se viviamo vite completamente diverse. Poi chiaramente c’è anche Vane che ha giocato un ruolo chiave nelle nostre amicizie, senza di lui non avrei mai potuto conoscere due persone incredibili come Rafi e Speranza. m d m g z n / 17
Siamo in un periodo storico in cui le domande sul Covid e sulla pandemia sono inevitabili. Soprattutto se si ha l’occasione di trovare persone che hanno davvero qualcosa da dire per esperienze dirette nel mondo della musica e del turismo (settori più colpiti). Mi sono trovato qualche mese fa a fare due chiacchiere con Danny Beatz e Royal Damn, autori di Leit Motiv, un disco che personalmente ho amato, per attitudine e freschezza di suono.
Tuffiamoci nel passato solo per un istante! Come vi siete conosciuti la prima volta e come decideste di collaborare al singolo “Impicment” nel 2010 (che se non sbaglio faceva parte del disco solista di Danny Beatz). Danny Beatz: Sono passati anni ma se non sbaglio la prima volta ci siamo incontrati in uno studio qui a Roma. Avevamo amicizie comuni, poi chiacchierando abbiamo anche scoperto di abitare abbastanza vicini. Io stavo preparando Untitled Vol 1, gli ho fatto ascoltare qualche provino e alcuni beat che avevo prodotto. Royal era preso bene, così abbiamo iniziato a collaborare. Ti ricordi cosa ti aveva colpito di lui? Danny Beatz: Lo conoscevo già per le gare di freestyle al 2TheBeat del 2006. Avevo visto qualcosa su Youtube e ricordo che esordii dicendogli “… stile al chilo nella biro …” (verso con cui chiude una di quelle battle di freestyle). Mi prese subito in simpatia. Penso di non aver mai incontrato una persona professionale, umile e rispettosa nello stesso tempo. Royal Damn: Diciamo che capire che sarebbe stato un producer superiore alla media era facile, i suoi beat suonavano meglio, pompavano meglio, avevano un tiro sempre più fresco rispetto al periodo, un prodigio. Come mai sono passati così tanti anni per un disco insieme? Danny Beatz: In effetti in questi anni abbiamo sempre collaborato con numerosi singoli, ma l’idea di un intero lavoro insieme c’è sempre stata. Poi, dopo “Flash Bang” nel disco Guerra Santa, il “The Town XII” ft. Pacman e “Busyman” con Prooftop abbiamo pensato di continuare verso questa direzione e di affondare il colpo. Royal Damn: Danny Beatz è attualmente il mio producer italiano preferito, abbiamo collaborato sempre, da quando ci siamo conosciuti, vista la stima artistica reciproca (oltre che la consolidata amicizia). Ho avuto la fortuna di rappare su suoi parecchi beat in diversi progetti personali, c’eravamo promessi di fare un disco come volevamo prima o poi, e abbiamo aspettato il momento giusto. Come vi siete organizzati per Leit Motiv? Danny Beatz: Ho creato un po’ di produzioni, senza strafare, non sono un tipo che ama fare 8000 cartelle di beats per poi lasciarli inutilizzati, piuttosto ci siamo concentrati su pochi provini, ma buoni. Abbiamo voluto curare ogni singolo brano mattone dopo mattone. Dopo “Vegeta” il disco ha cominciato a prendere forma da solo. Royal Damn: Sapevamo che volevamo fare il disco, e sapevamo i nostri gusti musicali. “Vegeta” è stato il primo brano ed è stato l’incontro giusto delle nostre sonorità. È lì che ci siamo detti “dobbiamo fare tutto l’album così”. Qual è il contributo che ognuno di voi ha dato all’altro per la creazione di questo disco? Danny Beatz: Entrambi ci siamo sempre supportati come due fratelli e abbiamo tirato fuori ottime idee, mettendoci a tavolino e pianificando il tutto al meglio. Royal è professionale ed io un promotore dell’innovazione. Potrei dire, però, che l’eterno indeciso sono sempre
stato io. (ride, n.d.r.). Ci sono tracce a cui avrò fatto almeno 3-4 prove di ritornelli diversi e altrettanti beat a cui ho cambiato arrangiamento parecchie volte. Royal Damn: Nella musica siamo due stakanovisti, ma Danny è sicuramente più pignolo e preciso. Io sono tutto flusso e ho bisogno di una figura come la sua che mi rimetta sul binario quando me ne vado troppo in là. Cosa troviamo dentro se parliamo di contenuti? Royal Damn: Leit Motiv è un album profondo, o perlomeno per noi lo è. Chi mi conosce lo sa, io sono un amante del rap fatto di barre, di incastri tecnicamente avanti, a prescindere che sia gangsta o conscious. Ma fare un album non è come fare un freestyle, i brani vanno concepiti perché risplendano al meglio, e per farlo devi mostrare una parte di te personale, intima. Nel disco c’è ogni sensazione: c’è la sensazione di assoluto vuoto (“Il nulla”), c’è l’inadeguatezza al mercato musicale (“Vegeta”), c’è la forza di volontà con cui si reagisce ai problemi (“Frog Splash”), c’è la voglia di mandare tutto all’aria ed andarsene (“Famme uscì”), ma c’è soprattutto la riconoscenza verso il motore dal quale non si può scindere, la musica appunto (“Leit Motiv”). Mai scendere a compromessi. Questo è qualcosa che si assapora da Leit Motiv. Riguarda solo la musica o anche il vostro modo di vivere? Danny Beatz: I compromessi fanno parte della vita quotidiana, ma penso che sia importante essere in equilibrio con se stessi e vivere quei momenti al massimo, questa è la mia filosofia. Quando si parla di musica fortunatamente si parla di arte, e nell’arte non possono esistere compromessi o non possono esistere compromessi in grado di limitarti. Un artista non può essere condizionato o limitato da qualcosa o da qualcuno, no? Anche se lo fosse, deve trovare il modo di esprimersi sempre al meglio. Royal Damn: Musicalmente no, mai. Poi ovviamente, parlo da persona adulta con più di vent’anni di scena sulle spalle, ma la concezione che ho di musica io, anzi di rap, cozza un po’ con tutti i meccanismi di algoritmi, monetizzazione, pubblicità, eccetera. Rimango il solito vecchio oldschooler romantico. Nella vita ne ho fatti invece, e li faccio tuttora, ho un’attività, sono un albergatore, e per muoversi tra gli squali devi essere intelligente, niente paraocchi. Senti lo so che non c’entra con la musica Royal, ma come se la sta passando a causa della pandemia il turismo e il settore alberghiero? Royal Damn: Guarda, posso dirti che abbiamo aperto il nostro Guest House a Roma pochi giorni prima del lockdown, è stato un anno durissimo, ma abbiamo resistito e ora lavoriamo un sacco. Siamo quasi sempre fully booked per fortuna, anche se siamo lontani dai numeri pre-pandemia. Poi, purtroppo, la nostra stupenda città è amministrata malissimo e nel 2019 avevamo raggiunto il picco negativo del -8%, per cui è dura, tanto, ma i risultati ci sono e gli sforzi pagano.
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Scusate la deviazione dall’album. Mi dite qualcosa sui suoni invece? Danny Beatz: Chi mi conosce sa bene che sono un tipo che sperimenta molto e per questo progetto serviva qualcosa che avesse il sound giusto per entrambi. Ho cominciato a sfornare dei loop dal gusto Brooklyn mettendoci i miei ingredienti. Mi piace ascoltare tanta musica, dal Funk dei ‘70, passando ai suoi elettronici anni ‘80, fino alla Dance dei tempi moderni. Per questo adoro fondere samples e sintetizzatori. Spero che questo si sia percepito nel sound del disco. Come fai a cercare musica nuova da cui trarre ispirazione? Danny Beatz: Prima che inventassero Spotify trafugavo le cassette e i cd dagli scatoloni di mio padre. Spesso passavo pomeriggi interi da Messaggerie Musicali a Via del Corso a Roma, 2000 mq di CD, c’era la possibilità di ascoltare in anteprima i dischi. Ora vado di correlato in correlato, mi capita di ascoltare musica nuova in radio, o in un film, apro Shazam, poi Spotify e inizio il viaggio. Royal Damn: Più invecchio e più ascolto dischi vecchi. Sto passando un lungo periodo in cui faccio fatica ad esaltarmi o farmi ispirare da qualche album appena uscito, per cui posso dirti che la vera ispirazione, per quanto mi riguarda, viene dalla mia città, dal mio quartiere, dalle persone. Ma musicalmente non mi influenza più nulla. Mi direste qualcosa di più sulla scelta del titolo? Danny Beatz: Una sera Royal mi chiama e mi fa: “Leit Motiv!” Ed io: “Che?”. Lui mi ripete: “Leit Motiv!, il filo conduttore, il motivo guida del nostro percorso artistico”. All’inizio ero un po’ scettico, però era centrato. Quello doveva essere il titolo e non poteva essere diversamente, un lampo di Royal che illuminava perfettamente il tema del disco. Royal Damn: Mi piace come suona, mi piace come si pronuncia (anche se noi lo facciamo un po’ all’italiana) e mi piace il significato. Non riesco a sintetizzare in maniera migliore questa necessità (musicale) che ci ha tenuti in piedi fino ad ora. Nel complesso, quindi, come descrivereste l’album? Danny: La indovino con quattro: solido, originale, completo e differente. Royal Damn: Io la indovino con due: elegante e profondo. Come è stato accolto dalle persone? Ha raggiunto le vostre aspettative? Danny Beatz: Le aspettative sono state ripagate, in un’epoca dove escono cento dischi al mese e lo streaming la fa da padrone, per noi che siamo indipendenti, è sempre difficile farsi notare, ma per fortuna è piaciuto, anche a chi il rap non è abituato ad ascoltarlo. Royal Damn: Non so quasi più dire cosa sia tanto o cosa sia poco in quest’epoca digitale, però posso dire che i numeri raggiunti adesso sono più alti di quelli fatti finora, ed è il segno che la direzione è giusta a prescindere. La copertina chi l’ha realizzata? E cosa rappresenta collegandola al disco? Royal Damn: Il lavoro grafico, dai singoli all’album, è stato affidato a Francesco Curci, a.k.a. Paura. Anche se non è più in attività, oltre ad essere il rapper italiano a cui mi sono ispirato maggiormente, è un grafico mostruoso ed un grande amico. Non volevamo grossi simbolismi, volevamo un’immagine che ci conferisse la stessa eleganza che mettiamo nel produrre il nostro rap, e che al tempo stesso ci disegni un po’ come una ditta specializzata: sembriamo i Men in Black che vengono a pulirti le orecchie con il disco. Te l’avranno già chiesto in tanti, ma come mai da Johnny Roy al nome attuale? Royal Damn: In pochi sanno che Roy non era altro che l’abbreviazione di Royal Damn, quindi il nome per esteso sarebbe
Johnny Royal Damn. Volevo semplicemente liberarmi del nome Johnny, tanto mi ci chiamano tutti lo stesso! Dipingi ancora? Royal Damn: I writers seri ringraziano che non faccia più quelle oscenità sui muri. Scherzi a parte, ho smesso quel poco che sapevo fare sui muri prima dei 20 anni, diciamo che ho capito subito che ero portato più a fare altro. Danny ho una cosa da chiedere anche a te. A parte l’Ep del 2015 come mai non sono usciti dei dischi solisti o anche un Untitled Vol2? Danny Beatz: L’EP “In Alta Quota” del 2015 uscito per Big Wednesday e La Grande Onda è stato creato subito dopo la vittoria all’Hip Hop MEI 2014, dopo quegli anni c’era l’idea di un tape intitolato Businessman, per questo ho fatto uscire vari singoli, ma non sono mai riuscito a unirli sotto uno stesso album, per via dei suoni troppo differenti e di influenze musicali diverse. Nel 2017 ho creato Prooftop insieme a Whisky e abbiamo fatto uscire l’album The Proof. In tutto questo, tra singoli e vita lavorativa, c’è sempre stata la voglia di far uscire un Untitled Vol 2 o un progetto solista, magari un bel disco di produzioni, e penso che prima o poi avrà la luce che si merita. Pensando ancora alla pandemia, come sta andando questo periodo per la musica? E voi in particolare come l’avete vissuta? Danny Beatz: Quando tutto è iniziato sembrava tutto così assurdo, così surreale, soprattutto nel periodo del Lockdown. Penso che nessuno su questa Terra si sarebbe mai aspettato una situazione del genere. Purtroppo non è un film americano sull’apocalisse, bensì la dura realtà. Devo dire che Internet è stata l’invenzione più bella che l’uomo abbia creato, si è visto con lo smart working. Per quello che riguarda la musica, come per tutti i suoi addetti ai lavori, sono passati momenti davvero bui. Royal Damn: Sorvolo su quanto mi abbia sconcertato la cosa. Posso solo dire che io sono uno che campa di live, che si mette alla prova di continuo, sono quel tipo di rapper che “ok, bello l’album, ma mamma mia dal vivo, togliti proprio”. Ecco, ti lascio immaginare la sofferenza, mi sembra come se qualcuno volesse soffocare la mia arte. E ci si sta riuscendo benissimo. Credete che le cose torneranno come prima? Danny Beatz: per fortuna in questi ultimi mesi qualcosa sembra smuoversi, anche se ancora è lunga per ripartire a pieno. Mi auguro che le cose possano riprendersi o evolversi in modo tale da adattarsi e da prevenire anche situazioni future così complicate. Ad oggi ho fatto la prima dose di vaccino (ottobre 2020, n.d.r.) mi raccomando vacciniamoci e stiamo sempre molto attenti a come ci comportiamo fuori casa! Royal Damn: Se si capisse che l’unica cura possibile è il vaccino, e non il buonsenso delle persone, forse sì. E io avrei una certa fretta, visto che abbiamo l’album fuori. Credo che siate fra i pochi a non parlare di vaccino legandolo a termini come controllati o dittatura! E’ un periodo difficile ragazzi. Vi lascio uno spazio libero. Per dire qualunque altra cosa volete dire ! Su qualunque tema! Royal Damn: Vorrei solo invitare le persone a non improvvisarsi medici, e di smetterla di parlare di cose che non sanno. Io sono ignorante, non ho studiato queste cose, quindi mi affido totalmente alla scienza e alla medicina che, ricordo, finanziamo con le nostre tasse. D’altronde quando vai al ristorante non ti metti al posto del cuoco, anche se a casa fai delle polpette da paura. PS: Forza Inter. Danny Beatz: Mi raccomando vaccinatevi e speriamo che tra qualche tempo tutto questo sia solo un brutto ricordo e nulla più.
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Vincenzo Durazzo, conosciuto come D.Ratz, è un rapper e producer della provincia di Salerno. Esplorando i nuovi lavori dell’etichetta Stoned Saints Records ci siamo imbattuti in questo suo ultimo progetto che secondo noi ha delle ottime potenzialità, potente ed incisivo come piace a noi. Ecco cosa ci ha raccontato riguardo Vinticingo.
Iniziamo l’intervista e devo subito farti una confessione: non ti conoscevo, poi iniziando ad esplorare il mondo della Stoned Saints Records ti ho scoperto con il video di “Careno L’Asci” e ho colmato le mancanze andando a ritroso nella tua discografia. Con che idee sei cresciuto? A livello di riferimenti stilistici intendo.. Vengo dal rap americano classico, e per un bel periodo di tempo ho ascoltato anche rock, Metal e affini. Iniziando a campionare e di conseguenza diggare tra i dischi ho iniziato anche ad avere influenze che passano per soul funk, prog, Library e chi più ne ha più ne metta. Parlaci del tuo ultimo lavoro, uscito esattamente un anno fa, Vinticingo, e del concept generale che c’è dietro. Ti sei occupato di tutto, e non c’è nemmeno un featuring. Immagino sia stata una scelta voluta… In realtà c’erano dei featuring in programma, ma alcuni stavano andando troppo per le lunghe, altri artisti invece mi hanno letteralmente rimbalzato. Infatti non sarebbe dovuto essere un ep, ma un vero e proprio album. La fretta di uscire mi hanno spinto a striminzirlo in 4 tracce con il solo feat del mio socio Enema. D’altronde meglio che sia andata così, sarei andato praticamente off topic e non avrei raggiunto il concept pensato inizialmente. In copertina c’è il patrono di San Marco con un uzi in mano, chiara provocazione e critica al bigottismo del posto in cui vivo. Ora, appunto a quasi un anno dalla sua uscita, quale pensi che sia il suo punto di forza e al contrario il tallone d’Achille? Credo che con questo disco io abbia finalmente trovato la mia formula, in termini di sound e di immaginario. Il suo tallone d’Achille è la sua incompletezza. Avrei approfondito molto di più vari punti. Abbiamo molti ascolti in comune, fra cui probabilmente il più centrale è riconducibile a Griselda ed affini. In Italia questo filone è stato ampiamente saccheggiato negli ultimi tempi, comunque dando parecchi frutti a livello creativo e a livello di indipendenza artistica. Non siamo ancora ad una fase di stanca, ma ugualmente ti domando: come si può andare oltre? Beh, direi che ormai in America sia una vera e propria corrente. Più che saccheggiare io utilizzerei il termine aderire. Tutte le correnti artistiche conosciute si sono sviluppate con il tempo, anni, e vari artisti i quali hanno dato un contributo personale per renderle tali. Prendi De Chirico e (Giorgio) Morandi, entrambi metafisici ma con stili completamente diversi, è solo la formula che li accomuna. Le correnti si sviluppano da sole, lasciamo tutto al suo corso. Da cosa nasce sempre cosa. Come lavori a livello di produzioni? Qual è il tuo workflow? Ti affidi a sample e/o altro? Sample a vita. È l’essenza dell’hip hop. Dalla scelta del sample puoi creare mood totalmente differenti. Io parto sempre da quello, poi se trovo un loop che gira da Dio lo lascio così, senza aggiungerci nulla. Conosco anche la sintesi ma la uso raramente, gusto personale. Una volta steso il beat ci scrivo quando ne avrò voglia e quando mi ispirerà. “qua i cattivi sono sempre più dei buoni”, prendo spunto da questa tua citazione per parlare del posto da dove provieni: abitare in provincia cosa rappresenta per te? Questa citazione ha senso solo unendola con la barra dopo, che fa “è come dire che i lampi son sempre un po’ più dei tuoni”. Lampo e
tuono sono la stessa cosa, quindi analogamente non esiste il cattivo e il buono. Nella mia visione sono due facce della stessa medaglia. In ogni caso io vengo da un piccolo paesino in provincia di Salerno di 1500 abitanti. Amore et odio. O esci pazzo, o ti droghi o scappi. Il Cilento è così, un’accozzaglia di piccoli paesini dove c’è troppa calma. O perlomeno agli occhi di chi viene da fuori. Quali sono le ambizioni, oltre alla passione, che alimentano la tua musica e in questo momento a che punto sei del tuo percorso artistico? Ovviamente voglio da te delle sensazioni più che una risposta oggettiva… Oltre alla musica mi occupo di mille altre cose, fotografia, arte, e qualsiasi cosa coinvolga il mio impeto creativo. Quindi dovrei risponderti semplicemente che è dovuto alla necessità di esprimermi. Anche se, a dirla tutta, un giorno dovessi girare in una Mustang la cosa non mi dispiacerebbe affatto. A che punto sono? Non so dirtelo, però il fatto di aver venduto dischi in ogni parte d’Italia tranne che nelle mie zone mi fa intendere che se c’è qualcuno che ascolta e supporta non sono pacche sulla spalla, apprezza davvero il prodotto che stai offrendo, non è l’amico che ti fa il piacere per vederti contento. Mi ha molto colpito quando in “Buriane” dici “chi non riceve amore non sa nemmeno come darlo”: il pezzo è forse è il più autobiografico dell’intero ep? Si. È un’analisi, sia personale che di ciò che ho intorno e ha influenza sulla mia psiche, preferirei fare pezzi con solo barre, punchline, divertirmi mentre scrivo, ma purtroppo non ci riesco sempre, ho momenti no e ho la necessità di esorcizzarli nei testi. Poi ho fasi mega ciniche in cui perculo tutto e tutti (ride, n.d.r.) Come pensi che il pubblico percepisca i tuoi lavori? Ho avuto chi mi ha fortemente criticato per la scena iniziale del video di “Careno l’asci” e per la bestemmia non censurata, sono persino dovuto andare dal parroco della mia chiesa, pensavo che a giorni tutto il paese si fosse presentato sotto casa mia con fiaccole e forconi. Molti altri invece hanno apprezzato e capito il senso, quella bestemmia è diventata culto (ride, n.d.r.). La scena è semplicemente cinematografica, ci sono film con scene ben peggiori, e la bestemmia fa parte della nostra dialettica, niente di più. In ogni caso la provocazione è arrivata a chi doveva arrivare. In linea di massima chi mi segue apprezza questo mio immaginario che mi sono creato, chiamalo blasfemo ma neanche troppo. C’è un senso dietro tutto questo, non è nulla buttato li a caso. Come dicevamo all’inizio, sei fermo da un po’, per lo meno a livello di discografia solista. Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Sto lavorando al disco nuovo, e stavolta sarà un album. Ci saranno dei featuring ma non posso dirti niente di più. Poi nel frattempo io, Dj Rogo e Enema stiamo lavorando a un progettino di cui neanche posso svelare nulla. Finisco con questa, ringraziandoti della disponibilità: in Italia qualcuno un po’ di anni fa affermava “la credibilità è tutto”. Sei d’accordo? Ti rispondo con un’altra citazione: “aggia capito ca rici ca fai, ma u costrutto adduvè?” (mio nonno)
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Delorean, il nuovo disco di Lord Madness e Gian Flores per Glory Hole Records, è stato uno dei miei dischi preferiti usciti l’anno scorso. Un disco che è passato, presente e futuro. C’è la matrice hip hop, quella originale. Così come c’è il background personale dei suoi autori. C’è lo stato d’animo e il disagio sociale dell’individuo di oggi. C’è l’avanguardia e l’incognita del futuro. Lo sarà forse fra qualche anno, quando sicuramente Delorean verrà considerato un classico.
Subito una domanda secca: Delorean, perché? Lord Madness: Perché nel disco si rappresenta passato, presente e futuro su due chiavi di lettura diverse, sia a livello di contenuto che musicale, con sound e flow radicati nel passato, ma con l’intenzione di essere attuali guardando al futuro, ovviamente senza poterlo sapere; magari tra dieci anni non si faranno neanche le rime, visto il trend del momento. (ride, n.d.r.). Io poi nel disco parlo di eventi passati e presenti, con il grande punto interrogativo del mio futuro, ovviamente legato a passato e presente. Gian Flores: Lo spiega bene Maddy quando parla di presente, passato e futuro. Arrivati ad un certo punto avevamo dato un altro titolo, però non ci convinceva del tutto. Il disco aveva questa caratteristica di sembrarci proprio un’automobile accesa con il motore rombante. Questo aspetto, e la voglia di coniugare presente, passato e futuro – a livello sonoro e lirico – ci hanno portato a pensare che effettivamente la Delorean era il modo migliore per rappresentare tutto il lavoro. Come mai un punto interrogativo per il futuro? Lord Madness: La mia vita è un punto interrogativo da 14 anni. Vivo alla giornata fondamentalmente, anche a causa della situazione che viviamo da due anni. Purtroppo è così, sia a livello artistico che nella vita. Tutto è un grosso punto interrogativo. Il futuro è adesso, come dicevano i Non Phixion. Quali tipi di contenuti troviamo nel disco? Gian Flores: Io ho cercato soprattutto di recuperare “vecchie” melodie, intramontabili, combinandole però ad elementi moderni, come le batterie più trap. Lord Madness: Il disco ha vari colori, sia a livello di sound che di concept, perché le due cose vanno insieme. Dal pezzo più scanzonato, come “Social Boomerang”, a quello provocatorio, “All Eyez On Mad”, passando per quello più conscious, come “Nudo”. Ci sono tante sfumature, fino ad arrivare a “Soldato”, il pezzo più street del disco. Le tematiche sono varie perché io ho varie sfaccettature proprio a livello caratteriale, e volevo farle coesistere in maniera omogenea nel disco. Parlacene allora. Lord Madness: Sono cinico, ironico, sofferente, molto simpatico. Sono uno stronzo, non sono un infame, vengo dalla strada. Sono molto sociale, poco social però. Ironico l’ho già detto? Faccio molta autoironia, sono davvero di cuore. Mixa tutto questo e viene fuori il Lord Madness artista, e probabilmente ho dimenticato anche qualcosa. Diciamo però che gli elementi essenziali sono questi. Qual è il feedback che vi aspettavate da parte delle persone? Gian Flores: Generalmente cerco di non farmi aspettative sulla reazione del pubblico, sarebbe limitante. Mi piace essere colto di sorpresa dalle reazioni, anche da quelle di chi ho più vicino. Di sicuro non mi aspettavo che determinate persone che non seguono il rap, persone che conosco, apprezzassero così tanto il progetto. Lord Madness: Fondamentalmente non mi aspetto un cazzo da nessuno, così non rimango deluso, anche se un po’ sotto ci spero sempre, anche se non so in cosa. Soprattutto quando hai tra le mani un progetto molto ambizioso, curato nei minimi dettagli e potente come
questo. Vediamo come va, non voglio essere ottimista o pessimista, mi baso su quello che viene. Da che punto parte la Delorean e fin dove pensate che arriverà? Gian Flores: Parte dalla voglia di sviluppare un’idea, di far nascere qualcosa che prima non esisteva. Dove arriva non saprei, spero siate più bravi voi, critica e pubblico, a spiegarlo, per noi la cosa più importante è sapere da dove si parte. Lord Madness: Parte dai miei fantasmi, da quelli del mio passato, e vorrebbe arrivare lontano, lasciare un solco indelebile nell’hip hop italiano. In questo momento però sono in mezzo ad una fase di pessimismo cosmico, quindi temo che possa cadere nel dimenticatoio; magari però un giorno qualcuno lo recupererà e si renderà conto che questo è un disco spartiacque, seminale. C’è sempre un grande punto interrogativo. Cosa fa andare un disco nel dimenticatoio? Lord Madness: Ormai nulla è fatto per rimanere nel tempo, è tutto veloce, a meno che tu non sia mainstream e paghi per rimanere nel tempo. Lì però non hai fatto un classico, ti sei comprato il pubblico. Adesso è tutto veloce, un disco è il disco dell’anno già dal primo gennaio, poi la settimana dopo se lo sono dimenticati e non lo ascoltano più. È la velocità a cui viviamo, si riflette anche nella musica. Come vi siete organizzati per questo disco? Avete lavorato a distanza, mi sembra di capire. Lord Madness: Con la tecnologia, era l’unico modo. Chiamate in cui suonava qualcosa live, io improvvisavo con una sorta di freestyle, e da lì nasceva la magia; oppure scartavamo tutto. “Benzopositivo”, che è un beat che avevo scartato, poi l’ho riascoltato e l’ho ripreso, perché ho capito che spaccava. È stato figo, perché molta affinità si è manifestata anche a distanza, abbiamo sfruttato la tecnologia nel migliore dei modi. Gian Flores: Dice bene Maddy, grazie alla tecnologia, perché eravamo in pieno lockdown. Ci siamo confrontati spesso in videochiamata, per spiegarci e capirci. L’organizzazione in realtà è stata abbastanza semplice, Maddy è uno dei rapper più autonomi con cui abbia mai lavorato, ad esempio si registra le voci da solo. Tutta la pre-produzione è stata velocissima, gli mandavo un’idea di beat, lui mi rimandava la voce e io la montavo. Poterci dedicare quasi completamente al disco durante la pandemia ci ha aiutato ad essere ancora più dinamici e veloci. Ci siamo visti per registrare le voci definitive e siamo rimasti in contatto per tutta la finalizzazione e il post. E per quanto riguarda la parte musicale? Come hai lavorato alle produzioni? Avevi già dei beat da usare o hai lavorato ad hoc? Che tipo di ricerca hai fatto per rispettare il concept di partenza? Gian Flores: Generalmente quando lavoro ad un album intero cerco di cucirgli delle produzioni su misura. C’è quasi sempre un lavoro ad hoc, in questo caso a maggior ragione, perché avevo già un’idea. Sono andato a ricercare una parte di me più adolescenziale nella produzione, più sfrontata, cercando giri armonici corti e frasi ripetute, elementi presenti in molti pezzi del disco. Meno riflessivo, più istintivo.
Madness, il pezzo “Social Boomerang” è pura satira. Una volta ti ho sentito dire che anche tu fai un uso sbagliato dei social. Qual è l’uso che se ne dovrebbe fare? Sia nella vita personale, che per la musica. Lord Madness: Il brano è una critica a come si utilizzano i social, fondamentalmente non sono contro di loro, ma contro l’utilizzo che se ne fa. Potrebbero essere utilizzati positivamente, ma l’essere umano riesce a rendere tutto distruttivo, siamo molto punk in questo. Come diceva Terminator, “è nella vostra natura autodistruggervi”. Se domani i social sparissero, farebbero solo il bene di questa società, di questa musica, il bene dei rapporti sociali. E sai quanti smetterebbero di fare musica, privati dei babbi che li sostengono?! Emergerebbe la qualità, non la schifosa quantità di adesso. Il video è spettacolare. Peccato che è troppo corto! Come mai la scelta di tagliarlo? Marketing o avevate paura di una sorta di critica/censura? Lord Madness: Ricorda, Maddy non ha paura di niente. Se la morte viene da me, le chiedo un autografo. Ho paura solo degli ascensori in acciaio inox, quelli che si chiudono e da cui non puoi uscire. La scelta di fare solo la prima strofa nel video era per rimandare la gente ad ascoltare la seconda, e il resto del disco, su Spotify o in copia fisica. Se vogliamo sì, è un’operazione di marketing, anche se non mi piace come parola; diciamo un’operazione paracula, che però, come tutte le idee intelligenti di questo tempo, è durata poco. Perché qui ci si vuole godere solo l’idiozia. Diciamo che il primo vero videoclip è quello di “Soldato” quindi. Come mai la scelta è ricaduta su questo specifico pezzo? Lord Madness: La scelta è stata fatta dai ragazzi di Green Grass, un collettivo di Olbia, una città in cui ho suonato. Hanno scelto il pezzo che li ispirava di più e ho accettato di fare il video con loro. Per me rappresenta in pieno uno dei colori del disco, come piace dire a Gian, la sfumatura più street. C’è una dedica a Joe Cassano, un grande artista che mi ha influenzato molto. I ragazzi di Green Grass sono stati estremamente professionali e professionisti. Abbiamo girato le scene in playback dopo il live ad Olbia, mentre si sono occupati loro delle altre scene street, in un altro momento, creando il collage tra playback e storytelling. Ne approfitto dopo aver ascoltato il pezzo “Chiedimi chi sono”. Chi sei? Lord Madness: Sono Lord Madness, aka Misogenius. Sono uno dei più grandi talenti che l’hip hop italiano abbia mai avuto, senza essere riconosciuto tale. Potrei stare tranquillamente accanto a giganti dell’hip hop europeo senza sfigurare, come già dimostrato all’Hip Hop Kemp o a Londra, gasando gente senza che quest’ultima capisse cosa stessi dicendo. Per il resto sono una persona semplice, sorridente, ironica, cinica, triste. E forse molto altro. Gian tu chi sei invece? Gian Flores: Bella domanda. Sono un musicista, produttore, romantico. Papà, compagno, sono ciò che si sente attraverso il mio suono. La mia musica è onesta, esprime me stesso; magari è più difficile da decifrare rispetto a chi scrive e arriva direttamente alla persone, ma la musica quando viene composta, rivela molto di chi l’ha realizzata. Credo che le cose che faccio mi rappresentino fortemente. A livello concettuale qual è la differenza fra “Soldato” e “Kamikaze”? Lord Madness: Kamikaze è un semplice pezzo da battaglia, all’inizio non volevo neanche farlo, perché fondamentalmente quelle metriche le trovo una semplice dimostrazione di capacità, come Ronaldinho che palleggia bendato; non è una partita, è esibizionismo. Però mi sono convinto che sia figo avere un pezzo così nel disco, un omaggio a Twista e alle sue robe del 2003, ha proprio un disco con questo nome in catalogo. “Soldato” è più ispirata a Big Pun, ovviamente prendiamo i paragoni con le pinze, ma il viaggio è quello.
Come sono nate le collaborazioni del disco? Le avete scelte insieme o avevate dei desideri personali? Gian Flores: Direi che è stato un lavoro perfettamente corale, figlio di diverse telefonate di confronto con diversi elenchi di nomi alla mano! Cercavamo i nomi giusti per questo progetto, e siamo soddisfatti del risultato. Quasi tutte le figure che avevamo in mente sono presenti nel disco, e hanno dato un apporto strepitoso al progetto. Lord Madness: Tutte estremamente spontanee. Con alcuni avevo già collaborato, come ad esempio Oyoshe, con altri invece mai, come Aban, che però si era dimostrato supporter della mia roba, nonostante siamo stilisticamente diversi. Non c’è nulla di troppo costruito, sono tutti rapper e artisti che stimo, sia umanamente che artisticamente, non riuscirei a fare le cose a tavolino; se lo sapessi fare però non me ne vergognerei, sarebbe un modo di portare avanti la mia roba e farla svoltare. Sai quante bollette potrei pagare con un featuring con Sfera o Plaza, gente che non ascolto? Ma non sono così ipocrita da dire il contrario. Il pezzo “Un piatto caldo” io l’ho sentito molto attuale. Vero che può avere più interpretazioni, ma con quello che sta ancora succedendo con la pandemia è impossibile non pensare alla crisi che si è andata ad aggravare. Voi due come avete vissuto questi due anni? Oltre che artisticamente, intendo dire dal punto di vista del lavoro/finanziariamente e come individui? Lord Madness: Mi ha ridotto alla fame, letteralmente. Ringrazierò sempre l’esistenza di mia sorella, senza di lei probabilmente non so dove sarei. Forse in una casa popolare, forse per strada, non lo so, meglio non pensarci. In tanti hanno subito davvero questa pandemia, non sono tutti fortunati. Per quanto riguarda te Gian? Gian Flores: Sono stati due anni molto duri, perché hanno cambiato molte cose e molti equilibri. Ho continuato a lavorare, fortunatamente a fare questo mestiere, per realtà che hanno continuato a pubblicare musica. Adesso è il momento di agire in conseguenza di ciò che è successo, e non sappiamo quanto ci vorrà a tornare ai ritmi di un tempo. Per me però è importante continuare a produrre, e a sperare che questa situazione finisca, per essere pronti a tornare con la musica dal vivo. Questa è una domanda che vorrei farti da anni Madness. Anche in questo lavoro si sentono riferimenti a depressione, ansia, pillole eccetera. So che negli anni hai avuto problemi di quello che in Inghilterra chiamiamo mental health, con crisi di panico e problemi di depressione. Molti dei motivi si intuiscono in uno dei vecchi pezzi in collaborazione con Vaniss. Come ti fa sentire parlarne? Credi possa aiutare a sensibilizzare i più giovani e a chiedere aiuto senza vergognarsi? Lord Madness: Non so se trattare certi argomenti sensibilizza la gente, so che vengono ascoltati solo da alcune persone, perché altre non ci si rivedono. Le persone vogliono sentirsi dire che tutto va bene. Io però non posso non esprimere me stesso e ciò che vivo, quindi a me viene naturale parlare di queste cose, le vivo e le ho vissute sulla mia pelle. A volte ne parlo in maniera drammatica, altre in chiave molto più ironica. “Lontano da qua”, presente in 3 MG (disco fatto con Depha), è molto sofferta, “Benzopositivo” invece è quasi allegro, qualcuno potrebbe prenderlo per un invito ad usare certe sostanze, ma non è così. È provocazione pura, poi la gente può pensare quello che vuole. Come mai avete scelto di affiancarvi alla Glory Hole Records? Gian Flores: Sono due anni che lavoro con loro e seguo diversi progetti, credo sia la realtà italiana hip hop indipendente più legata alle radici e in grado di costruire progetti che siano veri. Per me è un piacere e un onore lavorare per loro. Lord Madness: Io sono uno di casa in Glory Hole, entro, esco. Avevo già pubblicato Il Grande Addio e Maddy Water Mixtape per loro. Ci siamo allontanati per un periodo, per poi riavvicinarci e tornare nella family. È stato tutto molto spontaneo, io e Gian avevamo iniziato a lavorare insieme prima che lui entrasse in GH, manco a farlo apposta.
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Quando vi ho chiesto del disco all’inizio avete fatto riferimento al passato, al presente e al futuro. Non sto criticando voi due, vorrei solo aprire un dialogo. Se parliamo di opportunità e pensiamo al presente e al futuro, non è che la vostra etichetta avrebbe dovuto anche promuovere un po’ Delorean all’estero? Questo è esattamente il sound e lo stile che va di più. Me lo chiedo, non necessariamente colpevolizzando la Glory Hole, ma un po’ tutta la serie di etichette che lavorano troppo ancorate al passato. Gian Flores: Finchè gli artisti non arrivano ad una distribuzione multinazionale, è molto difficile perché servono enormi budget per muoversi in questo modo, per raggiungere il resto del mondo. Un’etichetta italiana indipendente fa molta fatica. Salvo eccezioni particolari, senza la presenza di una major che può muoversi in questo modo è davvero difficile. Non ti nascondo che ovviamente sarebbe bello, ma teniamo i piedi per terra e ci concentriamo sull’Italia, che è già una bella sfida. Lord Madness: Il disco guarda molto all’America come punto di riferimento, e comunque in generale non suona italiano, né nella voce, né nel sound, né nel mix o nel master. Non che sia meglio o peggio, semplicemente è diverso da quello che puoi sentire qui, underground o mainstream. Fuori indubbiamente possono apprezzarlo e riconoscere che in Italia c’è qualcuno che fa il rap come andrebbe fatto. Siamo in Italia però, ci basiamo sul mercato italiano, perché se già è difficile vendere qui, figuriamoci all’estero. C’è da dire però che grazie alla tecnologia possiamo arrivare ovunque, infatti un importante magazine messicano ha recensito il disco. Mi piacerebbe che arrivasse a Londra, dove ho suonato. Sarebbe figo presentarlo fuori. Per il resto, il lavoro dell’ufficio stampa della Glory Hole in Italia ha funzionato molto bene, quindi non posso proprio lamentarmi.
Se volessimo comprare il disco? Gian Flores: Potete comprarlo sul sito www.bucodelrap.it ed ovviamente a tutti i nostri live! Trovate il disco, il merchandising, le ristampe dei vecchi dischi, Il Grande Addio, Maddy Waters, Suicidio, ma ora comprate Delorean e le t-shirt. Oppure scriveteci in direct message su ig, vi indicheremo la retta via per gli acquisti. Pensate di continuare a collaborare insieme per il futuro? Avete già qualche idea? Gian Flores: Ovviamente non lo escludo! Non abbiamo ancora un’idea, visto che Delorean è appena uscito, ma appena l’avremo ve lo faremo sapere! Lord Madness: Spero presto, anzi, ne approfitto per dire a Gian Flores: “Quando facciamo Smokin Session 4? Quando facciamo la posse di cui parlavamo? Quando facciamo il pezzo commerciale in cassa dritta per rincoglionire gli italiani già estremamente rincoglioniti?”. Abbiamo tre pezzi in cantiere, vorrei fare questi! Visto che hai appena detto di non aver paura di nulla e di nessuno, concluderei questa chiacchierata chiedendo a Madness: perché dissi sempre tutti? Lord Madness: Ma io non disso nessuno, prendo solo per il culo. Loro e me.
Mio fratello Gue’: Storie di rap, di rapper, d’Italia è il nuovo libro di Matteo Fini, basato sugli aneddoti, le storie e le emozioni che il suo lungo viaggio con il rap gli ha donato. Un viaggio che dura ormai da venticinque anni e che è anche una cartina al tornasole di come è cambiata questa musica in Italia. Questo è un libro abbastanza atipico, fondamentalmente incentrato sugli aneddoti che ti hanno visto coinvolto nel corso degli anni, più diffusamente sul tuo modo di rapportarti a questo genere fin da quando lo hai conosciuto. O almeno da quando hai imparato ad andarci d’accordo. Ma se dovessi definirlo tu come libro? Che parole useresti? È un epitaffio. Con questo libro chiudo la mia storia col rap, non ho più nulla da dire. Ho vissuto il rap italiano per trent’anni, mi ha cresciuto e ci ho lavorato per gli ultimi dieci. Ho voluto raccontare tutto quello che l’Hip Hop mi ha dato. Sostanzialmente è un libro d’amore. Anche se mia madre dice che è un romanzo di formazione che dovrebbe essere studiato nelle scuole, ma si sa ogni scarrafo…. Quanto tempo ci hai messo per assemblarlo? L’ho scritto, realmente, nell’autunno del 2020 a Malta dove mi ero rifugiato tra un lockdown e l’altro. Però l’idea di scrivere un libro mio sul rap italiano mi è scattata intorno al 2015 quando per l’uscita di Vero di Gué avevo scritto un articolo per l’HuffingtonPost, bocciato dal mio responsabile all’epoca. L’articolo anticipava quello che poi è diventata la intro del libro e allora mi son detto: “Fanculo l’Huffington, questa storia merita di più”. Poi fra lentezza, casini, altri progetti il tutto ha subito dei ritardi ma questi cinque anni sono serviti per mettere insieme le idee e limarle. Poi al sole di Spinola Bay mi è uscito tutto abbastanza di getto.
Hai scelto di pubblicarlo autonomamente, probabilmente oggi rappresenta anche la soluzione migliore. Ma te lo domando lo stesso: avevi fretta di farlo uscire? Non hai trovato nessuna casa editrice interessata? Sembra che sia abbastanza in voga fare uscire libri sul rap, anche da chi non ha praticamente nessuna cosa da dire, e parlo anche degli stessi artisti… Fretta no, direi. Visto che ci ho messo cinque anni (ride, n.d.r.). Anzi, pensa che l’ossatura del libro è rimasta quella d’origine però immagina la trap, nel 2016 era un trafiletto, oggi invece ho dovuto farci quattro capitoli! Per quanto riguarda invece la scelta editoriale non affronterei qui il discorso sulle case editrici che sono morte e sepolte e che non danno più nessun vantaggio all’autore. Ho comunque ascoltato delle proposte, al limite dell’insulto, ma in base ai risultati dell’esperimento fatto con Jobber il mio libro precedente, avevo già deciso che sarebbe uscito solo su Amazon. Invece voglio ringraziare Federico Traversa aka FT Sandman di Chinaski Editore. Lui non lo sa, ma la chiacchierata fatta a Genova più di tre anni fa parlando di questo mio progetto è stata fondamentale per me e per la riuscita di Mio Fratello Gue’. Seguendo i tuoi social vedo che sei coinvolto in diverse attività, fortunatamente tutte lecite. Che fai nella vita? Abiti a Milano, quindi credo sia una domanda che ti fanno spesso… Beh, se la mia tag nel rap game è Prof un motivo ci sarà! Ho insegnato tanti anni Matematica e Statistica in Università, poi son passato a lavorare nella formazione professionale in azienda e oggi ho una realtà mia che si chiama Pokertalk dove insegno a professionisti, appassionati ed aziende il Poker, sia come gioco che come strumento di decision making. Sei figlio d’arte, tuo padre Massimo è un noto giornalista e saggista. E questo è un altro fattore che ti accomuna a Gué Pequeno, anche lui figlio di un apprezzato giornalista e scrittore. Non ho mai avuto l’occasione di domandarlo a lui, quindi lo domando a te: questa cosa ti ha mai aiutato nella vita questa cosa? In termini di aiuti o “spintarelle”, dico... Sì, guarda, infatti sono editorialista al Corriere della Sera, ho un programma in seconda serata in Rai e guido un’agenzia di comunicazione… Le spinte che ho avuto da mio padre negli anni sono state fondamentali e te ne racconto una: nel 2001 mi sto laureando e mi incuriosisce il mondo del giornalismo televisivo, vado a cena da mio padre e ci trovo Mauro Crippa, tutt’ora numero 3 di Mediaset. Discutiamo del boom del Grande Fratello, prima edizione in onda nel mentre, lui mi chiede perché è interessato all’occhio della generazione mia, io ovviamente spero di fare colpo e magari trovare uno spazio. Interviene mio padre: “Mauro ma non ascoltarlo questo qui che tanto è un coglione”. Io ho 43 anni e un Dottorato di Ricerca in Statistica, la gente può scendermi dal cazzo con questa storia del figlio di.
Tornerei un attimo indietro, come nasce il Matteo scrittore? A caso. Io faccio altro nella vita, però ogni tanto mi viene un’idea che penso possa avere un suo senso letterario e allora mi ci metto. Ma credimi, faccio davvero fatica a mettermi alla scrivania a scrivere, anche se poi una volta che parto vado abbastanza veloce. Negli anni mi ha dato forza anche la mia community di lettori che mi sprona, mi supporta, mi chiede e, ogni tanto, mi mette anche pressione.
Siamo quasi arrivati ai saluti. Charles Bukowski scriveva: “Ospedali, galere e puttane: sono queste le università della vita. Io ho preso parecchie lauree. Chiamatemi dottore.” Tu hai scritto anche un libro che ha fatto abbastanza scalpore per aver descritto una polemica panoramica della situazione dell'università italiana: “Università e puttane”. Quante puttane hai incontrato nel rap? Vedi, anche quello in realtà era un libro d’amore. Amore per l’insegnamento, lo studio e gli studenti. Aveva solo un titolo geniale (ride, n.d.r.) Nel rap game un po’ puttana lo devi essere perché se dovessi fare affidamento solo su rime, tecnica e flow rimarrebbero in tre. Anche se forse non sarebbe male….
In Mio fratello Gue’ c’è anche una buona dose di ironia, a partire appunto dal titolo che è leggermente fuorviante, anche se l’equivoco viene svelato molto presto, e chi ha letto il libro capisce cosa intendo. Penso che ci vorrebbe molta più ironia di riflesso anche in questo genere. Secondo te i rapper (e derive varie) si prendono troppo sul serio (vedi storie Ig e altro) o è ormai un sistema gioco forza ben consolidato in tutte le arti? La gente parla troppo sui social quando quello che fa non è interessante, non vende, non piace. Un rapper non mi deve insegnare a vivere o essermi simpatico, mi basta che faccia delle rime con un flow di cristo. Michael Jordan in The last dance racconta di quando fu criticato per non essersi esposto su una questione politico/razziale e dice una roba tipo “io non sono un attivista, gioco a basket”. Ecco, io penso che gli sportivi e artisti debbano parlare in campo o sul palco, quello che fanno fuori non mi interessa e non dovrebbe interessare.
Suoni, facce ed immagini in movimento per decenni ormai, quelle relative al rap, che in questo libro hai cercato sempre di fermare in una parola, in una frase, in una pagina. C’è qualche aneddoto che non ha trovato spazio? Guarda, sono tentatissimo di pubblicare, come fanno i rapper, una deluxe del libro perché ho lasciato fuori un bel po’ di nomi e aneddoti che potrebbero piacere ai lettori. Mangiare ciambelle con Tommy Kuti, la mia amicizia, personale e professionale, con Eiemgei, produttore sottovalutatissimo. L’amicizia nata sul lavoro, no rap, che è cresciuta con Ted Bee della Dogo Gang. Ma se vuoi chiudo con un racconto che una volta di più ti spiega come l’Hip Hop nella sua essenza e nonostante tutto sia ancora una famiglia fortissima: sono al Festival di Sanremo, passa Junior Cally, stressatissimo e blindatissimo, tutti gli urlano per avere una dichiarazione, lui tira dritto scortato da quattro energumeni, è quasi arrivato alla porta che lo metterebbe in salvo dal delirio quando gli urlo: “Junior, siamo di Hano.it”. Lui si ferma, si gira, si libera dalla stretta del bodyguard, si fa largo tra la folla, mi guarda e dice: “Lascia il tuo contatto, con te ci vediamo dopo”.
Flesh & Jap, veterani from Verona City, dopo una serie di anticipazioni video si sono rimessi in gioco pubblicando il nuovo disco Longevity. L’album ha come obiettivo quello di seguire i capisaldi della cultura Hip Hop, proiettando il tutto in chiave moderna, attraverso beat freschi, contenuti attuali e una spiccata attitudine hardcore. Il disco, che trovate sia in digitale che in copia fisica, è ben fatto e molto lontano dai comuni prodotti che si sentono in giro oggi. E soprattutto ha molto cose da dire, come avrete modo di leggere.
Cosa dice la copertina che vedo del vostro disco? Il simbolo raffigurato nella copertina rappresenta il Ginkgo, una pianta cinese che è sopravvissuta alle più grandi crisi che hanno sconvolto la vita del pianeta, dall’estinzione dei dinosauri in poi. Per questo motivo il Ginkgo viene definito il sopravvissuto, è uno dei più grandi esempi di longevità esistenti al mondo. L’idea della raffigurazione è venuta in mente a Michele Rodella che ci ha proposto il logo, lo ha lavorato e sistemato: questa immagine rappresenta al 100% il concept che gravità intorno al titolo del nostro album. Vi sentite dei sopravvissuti? A cosa esattamente? Siamo dei sopravvissuti nel senso che abbiamo cambiato pelle diverse volte, non ci siamo mai piegati alle regole imposte dal mercato, abbiamo seguito l’istinto e il nostro suono, questo ci ha aiutato a costruirci un seguito, a prescindere da tutto e tutti, siamo rimasti in piedi nonostante le difficoltà che abbiamo riscontrato nel continuare a fare musica di livello superata una certa età, non è facile restare competitivi e al passo con i tempi, in un’epoca come questa in cui tutto passa alla velocità della Luce. Nel corso degli anni abbiamo visto diverse persone avvicinarsi a noi per tornaconti personali, queste stesse persone poi ci hanno voltato le spalle, ma noi siamo sempre rimasti focalizzati sui nostri obiettivi, siamo longevi, del mestiere, “survival of the fittest only the strong survive” come dicevano i Mobb Deep. Qual è il vostro background? Prima di essere Flesha & Jap, siamo innanzitutto Matteo e Paolo, due amici di vecchia data, nati e cresciuti a Verona, spinti dalla passione, dall’amore per la musica e per la cultura nello specifico. Abbiamo nel corso degli anni prodotto innumerevoli album solisti, Ep e mixtapes. Longevity è il nostro settimo album, un progetto che abbiamo realizzato in coppia e che va a coronare un’esperienza ventennale nel panorama hip hop italiano. Un disco travagliato sotto certi aspetti, ma siamo fieri del prodotto finale e dei feedback che stiamo ricevendo. Come mai travagliato? Travagliato perché abbiamo più volte ripreso in mano canzoni, modificato ritornelli, sistemato strofe, riprodotto determinate strumentali, rifatto qualche traccia da zero: il disco è rimasto un cantiere aperto, finché entrambi non ci siamo ritenuti soddisfatti completamente di tutto. Come avete deciso di fare questo disco insieme? Il progetto è nato molto spontaneamente, non ci siamo messi a tavolino a decidere nulla, entrambi ci siamo resi conto di poter realizzare qualcosa assieme. Avevamo un tot di canzoni inedite realizzate come duo alle quali stavamo lavorando, queste tracce non avevano ancora una connotazione a livello discografico e quindi abbiamo iniziato a dare una direzione a questi pezzi. Aggiungendone altri pian piano ci siamo resi conto di avere in mano abbastanza materiale per realizzare un album corposo, così è nato Longevity. Cosa avete imparato uno dall’altro? Alcune caratteristiche nostre, caratteriali, che ci uniscono sono senza dubbio la voglia di rimettersi in gioco, di confrontarsi, di insistere,
di rompere gli schemi, dando ampio spazio alla creatività e andando oltre le solite “barre”, i soliti ritornelli, le solite strofe o le solite produzioni standard, stereotipate. Abbiamo voluto osare, proponendo un disco fresco, originale e molto hardcore per certi aspetti. Abbiamo due caratteri diversi ma che combaciano, quindi non abbiamo avuto problemi nel trovarci in sintonia, delineando un piano comune che ha guidato la stesura dell’intero progetto. Quali invece sono le diversità che vi uniscono? I nostri sono due caratteri forti, decisi, non prevaricatori, se uno dei due istintivamente è più dedito alla programmazione, all’ordine, all’equilibrio, l’altro è più istintivo e passionale. Sono aspetti diversi che sono in grado di integrarsi tra di loro: questa dicotomia si può percepire ascoltando Longevity, entrambi abbiamo descritto ciò che siamo liberamente, il disco è al 50% di Flesha e al 50% di Jap, il 100% che ne esce racchiude tutta la nostra essenza. Quasi obbligatorio chiedervelo quindi. Perché Longevity? Il termine longevità deriva dal latino longaevus; il segreto della longevità di tanti artisti è che ogni opera è una nuova avventura, un nuovo viaggio, un nuovo inizio. Longevity è dunque un progetto in cui abbiamo cercato di recuperare i capisaldi dell’hip hop, coniugandoli in chiave moderna, proprio a dimostrazione del fatto che spesso il termine classico diventa sinonimo di evergreen, di sempre attuale e imperituro nel tempo. Se analizziamo le nostre rispettive carriere, dal giorno zero ad oggi, longevità è il termine che più si addice per sintetizzare la nostra vita musicale, entrambi non abbiamo mai mollato il colpo, siamo sopravvissuti, musicalmente parlando, a tutto e tutti, proponendoci nuovamente con un progetto ambizioso e curato nel dettaglio, essere artisti longevi significa tenere sempre presente questi aspetti, senza lasciare mai nulla al caso. Questo mi interessa parecchio: come si fa a recuperare i capisaldi dell’Hip Hop e a coniugarli in chiave moderna? Veniamo dagli anni in cui l’appartenenza a questa cultura era tutto, quindi chi ci ascolta deve conoscere l’origine e gli album che ci hanno ispirato: siamo cresciuti con dischi come Only Built 4 Cuban Link di Raekwon, Illmatic di Nas o Dah Shinin’ degli Smif-N-Wessun, giusto per citarti 3 dei nostri preferiti di sempre. Ovvio che nel 2021 riproporre musicalmente una tipologia di suono identica a quel mood può risultare banale, noi abbiamo cercato di evolvere il nostro sound verso uno step superiore. L’ascoltatore deve riconoscere, ascoltando il nostro disco, che c’è un upgrade rispetto a Hate & Love di Jap o Me, Myself and I di Flesha per esempio, questo perché per noi è importante rimarcare certi tipi di sonorità, ma evolverci al contempo: abbiamo fatto sempre Boom Bap, il disco suona bello classico, ma nell’album ci sono delle influenze Trap, in un pezzo ci senti il kick e lo snare della 808, in un altro pezzo abbiamo integrato qualche synth nuovo per fare un refresh e non suonare stucchevoli. In un altro pezzo ancora abbiamo voluto mettere parecchi strumenti suonati live, come in “Correre” per esempio, dove il sax di Daniele Pasquali alza sensibilmente il livello della traccia; diciamo che ogni pezzo ha la sua specifica caratteristica, perché suona classic da un lato, moderno dall’altro.
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Addentriamoci nel disco: cosa troviamo se parliamo di contenuti? Longevity è un album in cui ci siamo esposti a 360°, all’interno ci sono innumerevoli tematiche e contenuti, dal nostro vissuto personale alla descrizione nitida e critica del panorama musicale italiano del 2021. Ci sono episodi di storytelling che si vanno ad affiancare a momenti di autocelebrazione e di ego-trippin’ come in ogni disco rap che si rispetti; abbiamo raccontato Verona dal nostro punto di vista, abbiamo affrontato anche tematiche sociali importanti e spinose, siamo soddisfatti di come siamo riusciti ad esporci e del risultato finale. Avete scelto l’indipendenza da etichette o non avete trovato qualcuno a cui affiancarvi? Faccio riferimento anche al singolo “No Label”… Abbiamo fatto svariate esperienze con una moltitudine di realtà soprattutto indipendenti (Vibrarecords e LaSuite su tutte), ci siamo spesso autoprodotti durante gli anni, a volte ci siamo interfacciati con varie persone dell’ambiente musicale: A&R, Manager, discografici o presunti tali, ma non siamo mai riusciti a trovare persone in grado di capire al 100% il nostro potenziale artistico. Secondo noi non c’è la consapevolezza, non c’è una knowledge per quanto concerne il mercato del rap in Italia, è sempre stato così: i grandi network e certe etichette vogliono per forza scendere ad un compromesso con gli artisti, snaturando la loro essenza, spesso si creano stupide categorie, come questo continuo differenziare il rap o la trap. Le grandi label puntano tutto su personaggi discutibili, in quanto vige questa legge dei numeri in cui per forza di cose i prodotti di qualità ne risentono, a discapito di un prodotto commerciale privo di consistenza ma che segue le leggi di mercato e rientra negli investimenti delle Label con stream fittizi e views comprate; noi non siamo parte integrante di questo sistema, non ne vogliamo fare parte, preferiamo stare nel nostro e continuare a produrre musica libera da ogni vincolo e da ogni costrizione. La domanda è retorica e apparentemente stupida, ma voglio sollevare il tema. In chi investono le etichette? Le etichette vogliono investire in pseudo artisti che possano portare a bilancio gli investimenti fatti, artisti che facciano guadagnare soldi a questi brand. Il ragionamento è lo stesso che fanno le banche se ci pensi bene, fanno un prestito per poi riguadagnare tutto con gli interessi; questa logica, da un punto di vista aziendale, non è sbagliata, anzi, ma la qualità della musica dove la mettiamo? Perché le Label vogliono continuare a lobotomizzare i cervelli delle persone, nello specifico i teenager? Un ragazzino figlio prima della generazione di MTV, ora di Youtube, per stare al passo con i tempi, viene condizionato da ciò che questi network propinano in continuazione, per cui la libertà di scelta e la voglia di cercare qualcos’altro, musicalmente parlando, vengono strozzate da quello che il sistema impone come cool a prescindere. Noi non giochiamo a fare i comunisti con il Rolex, non giochiamo a fare i vecchi bacchettoni, non ci interessa. Abbiamo una consapevolezza tale da andare oltre queste cose, abbiamo sviluppato una sorta di immunità a queste regole del gioco, facciamo il nostro consapevoli di avere del potenziale, non ci interessa nessun parametro, nessuno giudizio, non scendiamo a compromessi, abbiamo le spalle larghe, consapevoli che veniamo da una realtà piccola e puntiamo a crescere Abbiamo trovato etichette indipendenti che hanno investito su di noi nel tempo, non facciamo di tutta l’erba un fascio, ci sono persone competenti che hanno consapevolezza del settore in cui operano e sanno come valorizzare gli artisti con cui lavorano. La Dreki Agency, con la quale stiamo lavorando, ne è un esempio lampante.
In questo periodo storico, in cui l’apparenza regna indisturbata, bisogna essere in grado di essere autentici, ma ci rendiamo conto che non sempre è facile, perché viviamo in una realtà sterile che si basa su modelli preimpostati e su bombardamenti mediatici continui. Un ragazzino che si avvicina alla cultura Hip Hop, in tutto questo, può sentirsi inconsciamente spaesato, bisognerebbe trovare una direzione e seguirla, senza farsi condizionare da tutto questo rap incentrato sui soldi, sulla violenza gratuita e sugli eccessi, che tanto non portano a nulla di concreto. Riteniamo opportuno avere un minimo di KnowHow e di consapevolezza prima di prendere in mano il microfono e pensare di sfondare solo perché si fa musica. Rap o trap adesso come adesso è una tendenza, un domani probabilmente non lo sarà più. Nel disco avete un chiaro richiamo a Verona. Che sia la vostra musa ispiratrice è chiaro. Ma ci sono anche cose che non vanno e che andrebbero sistemate? Verona è la nostra città e la nostra zona di provenienza, l’abbiamo descritta approfonditamente in “City Sightseeing Verona”, traccia in cui traghettiamo l’ascoltatore verso un viaggio nei ricordi che ci legano alle situazioni che abbiamo vissuto in città, dalle feste che abbiamo fatto alle persone che abbiamo frequentato. Non cambieremo mai Verona City con nessuna città al mondo, anche se, come tutti, abbiamo un rapporto di amore-odio con lei e con la sua gente: sotto certi aspetti, è una città stupenda, adoriamo perderci per le sue strade, per le sue piazze, è una cittadina vivibile, in cui il lavoro per fortuna non manca, una città dove siamo riusciti a costruirci una vita. Sotto altri aspetti però, la mentalità della city è molto chiusa, bigotta, molte persone qui ragionano ancora per compartimenti stagni, il pregiudizio e l’odio per il diverso, molto spesso, la fanno da padrone, è una città poco aperta alle novità. E queste cose andrebbero assolutamente sistemate. Per quanto riguarda l’arte e la musica? Cosa funziona e cosa no nella vostra città? Si, lo stesso discorso lo possiamo fare dal punto di vista artistico. Verona è una città in continuo fermento, ha un talento musicale incredibile, una scena musicale pazzesca soprattutto nell’ambito rap, non è seconda a nessuno, il problema è legato maggiormente ai locali e ai luoghi in cui poter suonare: troppo pochi e non sempre tutti disponibili a concedere spazi agli artisti per esporsi e per esibirsi. Ci sono delle piccole realtà che si sbattono giorno dopo giorno per portare avanti serate di un certo livello, ma non sempre sono aiutate dall’amministrazione comunale, la quale se può mettere i bastoni tra le ruote per impedire di fare festa, lo fa senza la minima ombra di dubbio. Siete pronti a tornare sui palchi? Avete in mente delle date? Inoltre, dove possiamo trovare il disco? Assolutamente si, siamo già tornati ad esibirci in questi ultimi tre mesi, ora abbiamo altre date in programma ed altre che stanno per essere definite. L’obiettivo nostro, come accennato prima, è quello di portare Longevity in giro il più possibile, farlo suonare forte ovunque, perché il suono di Verona merita di tornare dove gli compete. Il disco è fuori su tutti i Digital Store, distribuito da Artist First e Dreki Agency, la copia fisica la trovate in tutti i negozi o scrivendoci alla mail fleshajap@gmail.com.
Ci sono un sacco di ragazzini che oggi sono vittime della fama e della voglia di sfondare. Voi che siete più grandi, cosa vi sentite di dire a loro? Al di là del genere musicale… Il consiglio che diamo, per quanto possa sembrare scontato, è quello di restare sempre con i piedi per terra, stando nel proprio e studiando, pian piano le cose verranno da sé. m d m g z n / 32
Drimer, nome d’arte di Francesco Marchetti, è un giovane artista italiano. Membro di FEA, collettivo che riunisce tutti i migliori freestylers italiani, ha già all’attivo quattro album, due da indipendente e due sotto etichetta Pluggers. Tornato indipendente dopo la fine dell’esperienza con Pluggers, Drimer è al lavoro per la realizzazione di nuova musica dopo Crashtest, uscito a maggio 2021. Ciao Drimer e benvenuto sulle pagine di Moodmagazine, è un piacere per me togliermi qualche curiosità sul tuo immaginario. Raccontaci un po’ dell’ultimo progetto, Crashtest, interamente prodotto da Ric De Large. Personalmente mi è impossibile non notare l’importante collaborazione che porta il nome di Clementino. Come mai hai scelto proprio lui? Crashtest è stato un progetto molto travagliato, com’era ovvio per un album scritto, registrato e lavorato durante una pandemia. I primi brani sono nati infatti a fine 2019, nel corso di alcune session presso gli studi dell’Accademia del Suono a Bologna: venivo da un anno molto positivo, specie dopo la pubblicazione de La Prova Vivente, il mio primo album rilasciato appunto per l’etichetta Pluggers, e in quei giorni a Bologna ci eravamo ritrovati con diversi musicisti a creare i primi beat e abbozzare i primi testi del nuovo progetto. Il disco sarebbe dovuto uscire di lì a breve, ma poi arrivò la pandemia e, insieme alla necessità di posticiparlo, la volontà di continuare a ritoccarlo e migliorarlo. Alla fine, dopo molte modifiche e aggiunte, l’album è uscito solo a maggio del 2021, ma esattamente nella forma che avrei voluto dargli. Il titolo Crashtest, infatti, era uscito fuori quasi da solo, e non poteva essercene altro per un disco che è stato, a tutti gli effetti, il mio impatto con la realtà del mondo post Covid. Sono molto fiero di quel progetto, perché per me è stata un po’ una prova della mia perseveranza e voglia di farcela, nonostante tutto. Per quanto riguarda i featuring, come si nota guardando ai miei precedenti lavori, non sono mai stato uno abituato a farne molti soprattutto in progetti ufficiali. Quando lavoro ad un album, infatti, guardo ad esso come al racconto di una storia, all’interno della quale un eventuale featuring deve essere sì come una voce narrante diversa, ma in grado di inserirsi perfettamente nel racconto del disco. In questo senso, la scelta di Clementino è stata perfetta: “La Differenza”, il brano a cui ha partecipato, riflette infatti su un percorso, quello di freestyler che cerca e trova la sua strada nella musica, che io sto percorrendo e che lui ha già completato da tempo con grande successo. È stato per me un onore avere l’opportunità di ospitare in un mio album un ospite di tale caratura. Che rapporti invece hai ora con Pluggers, l’etichetta che ha prodotto e distribuito il disco? Relativamente a Pluggers, dopo i due dischi pubblicati insieme tra il 2019 e 2021, la decisione che abbiamo preso di comune accordo è stata quella di cambiare strada. Sono molto grato ai ragazzi per i consigli, soprattutto in ambito artistico, che mi sono stati dati, ma sentivo di aver ultimato quel percorso e di poter abbracciare a pieno titolo, e cioè da indipendente, una nuova fase della mia carriera. Sei molto attivo anche nel freestyle: hai partecipato a diversi contest anche per realtà che si occupano di arti visive appena create come per esempio la La Plaza e il freestyle che hai proposto per loro non poteva che essere a tema festivo/natalizio. Anche in questa occasione il beat è sempre prodotto dal tuo fidato socio Ric de Large. Come vi siete conosciuti e come è nato il vostro legame? Ho conosciuto Ric de Large più o meno nel 2015. Avevo sentito qualche sua produzione per alcuni rapper di Padova, città dalla cui zona lui proviene e alla quale io sono molto legato sia per motivi artistici che personali, e da subito mi era piaciuto il suo stile eclettico e originale. Ric veniva dal mondo dell’elettronica, e iniziato a produrre
più specificatamente Hip Hop aveva da subito portato questa sua esperienza nei suoi beat, che perciò suonavano come nessun altro che avessi sentito all’epoca. Lo contattai su Facebook, per chiedergli delle produzioni, e ricordo che lui fu da subito entusiasta e molto propositivo (qualità molto rara). Originariamente gli proposi di lavorare insieme a un singolo, nello specifico il nuovo Diario di Bordo, una serie di freestyle che pubblicavo ai tempi. Alla fine, come spesso accade, la sintonia fu tale che ci ritrovammo a lavorare su più canzoni, fino ad arrivare alla realizzazione di un album intero, Inception, il mio primo. Il resto è storia! Una delle ultime battle alla quale hai partecipato è stata il “The end of days vol. 4 contest”, dove sei riuscito a conquistare la finale e a vincere il contest. A differenza di altri Mc tu non hai mai smesso con questa disciplina. Personalmente credo che il freestyle sia un ottimo modo per tenere allenate metriche, incastri, flow ma lo stile con il quale si affrontano queste sfide a tu per tu dipende molto anche dalla cultura personale di ogni freestyler. Tu sei conosciuto per creare delle rime che spaziano molto fra un tema e l’altro e salti spesso e volentieri dalla politica alla storia e alla filosofia. Che rapporto hai adesso con il freestyle? Ti reputi una persona competitiva? Sono una persona molto competitiva. Spesso, anzi, devo ricordarmi che prima della competizione viene l’amore per questa musica e il bene che può fare alle persone, per non rischiare di esserne risucchiato. Di certo questa mia indole, che ho per natura, ha trovato nei miei primi anni grande sfogo nel freestyle. Il freestyle è stato infatti, come per tantissimi, il mio primo contatto con la musica rap e la cultura Hip Hop più in generale, e non gli sarò mai abbastanza grato per questo. Anche per quanto riguarda la musica in sé, poi, mi ha dato molto, essendomi stato di grande aiuto sia nel perfezionamento del rappato in studio sia nel perfezionamento dell’esibizione dal vivo, un tasto molto spesso dolente quando si parla di artisti usciti negli ultimi anni. Ciononostante, personalmente, ho sempre preferito scrivere e lavorare a un album piuttosto che fare freestyle, così come nel tempo libero ho sempre preferito ascoltare un bel disco anziché riguardare il video di una battle online. Per questo motivo, ad oggi, il mio focus è sul lavoro in studio e la pubblicazione di musica, nella quale peraltro mi ritengo rispetto alla concorrenza assai più forte di quanto non pensi di essere nelle battle di freestyle. In queste ultime, come giustamente hai detto, rimango comunque attivo. Un po’ perché non condivido l’idea che per eccellere in una cosa tu debba mollare l’altra, come spesso si è detto. Un po’, e anzi soprattutto, perché credo molto nella realtà che ho creato insieme agli altri top freestyler italiani ormai da qualche anno, e cioè la FEA, la Freestyle Elite Agency. Una realtà innovativa, che ha riunito i migliori interpreti della disciplina per tentare di elevarla, portandola ad essere considerata a tutti gli effetti un’arte e soprattutto una professione. Molto è stato fatto, come ad esempio introdurre la strampalata idea che un freestyler affermato debba essere – pensa te! – remunerato per lo show che porta in dote alla battle. Un qualcosa che sembrerebbe scontato ma che per trent’anni, in Italia, non lo è stato mai. Molto, di certo, va ancora fatto, ma sono fiducioso che il lascito del mio lavoro nel freestyle andrà ben oltre i miei risultati. Per quel che riguarda soldi e fama, d’altra parte, ci penseranno i brani! (ride, n.d.r.)
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Un’altra esperienza importante in questo senso per te è stata sicuramente l’esperienza con Real Talk e tra le barre si intuisce la tua consapevolezza del talento e del livello culturale che ti contraddistinguono in questo game. Com’è stato partecipare alla puntata aggiudicandosi il titolo di rapper emergente più veloce per quanto riguarda l’extrabeat in Italia? È uscito pure un singolo prodotto da Bosca dopo questo episodio. Ti aspettavi un tale riconoscimento? Andare a Real Talk è stata l’esperienza e l’opportunità di una vita, per la quale sarò per sempre grato a Bosca, Khaled, Kuma e tutti gli altri. Il format, per quanto nuovo, era già ben avviato e aveva ospitato tanti big della scena, mentre io non ero che un ragazzo sbucato dal nulla con un solo album all’attivo. E se già dico questo della partecipazione, puoi immaginare cosa pensi della possibilità, data a quello stesso ragazzino, di lavorare a un brano insieme a Bosca, un produttore storico del rap italiano. Non mi aspettavo nessuna delle due cose, e sono due risultati dei quali vado veramente molto fiero, specie ripensando al nulla da cui appunto ero sbucato. Col senno di poi, ho dei rimpianti per come ho gestito il periodo immediatamente successivo a Real Talk, ma nessuno per quanto riguarda invece la mia esibizione. Avere portato me stesso e il mio rap, tanto veloce e superficiale prima quanto riflessivo e politico subito dopo, è una cosa di cui rimango contento, perché nessuno ha mai avuto il benché minimo dubbio su chi fossi o sarei stato, ascoltandomi in quell’occasione. Poi, che lì mi sia dimostrato l’emergente migliore – perché più veloce non mi basta – in extrabeat, è superfluo dirlo. Ora però va dimostrato di essere il migliore punto, anche se quello che voglio non è certo essere il rapper più veloce d’Italia, ma il più forte. Arrivavi da Inception, il tuo primo album interamente prodotto da Ric De Large, e come primo estratto avevi scelto “Volo”. In questo album a differenza di Crashtest non ci sono featuring. Questa scelta rende il tutto molto lineare e coerente quasi come se il tuo intento fosse quello di raccontare una storia. Lo si può intuire anche dalle atmosfere che sono ricreate nei brani che compongono questo lavoro che rappresenta un flusso di coscienza nudo e crudo. Ci sono stati degli artisti (italiani e americani) che ti hanno particolarmente ispirato per intraprendere questo viaggio durante questa tua prima presa di consapevolezza? Cosa ti aspettavi da Inception? Ci sono stati sicuramente tanti artisti, italiani e stranieri, che mi hanno influenzato nella stesura di Inception e in generale dei miei album, ma se dovessi fare un nome sarebbe senza dubbio quello di J Cole, seguito subito dopo da Kendrick Lamar. Al di là delle indiscutibili doti tecniche, infatti, quello che più mi piace di questi due artisti è la loro capacità di creare degli album che raccontino delle vere e proprie storie, coerenti dall’inizio alla fine e all’interno delle quali ogni brano, e così ogni eventuale featuring ricopre un ruolo fondamentale. 2014: Forest Hills Drive, oltre ad essere il mio disco preferito in assoluto, è stato un po’ l’esempio a cui ho guardato, mentre realizzavo Inception. Per la sua concezione non ho poi fatto altro che aggiungere alla mia passione per quel tipo di rap quella per i film di Christopher Nolan, il regista dell’omonima, famosissima pellicola. In Italia, purtroppo, esempi di questo tipo sono ancora abbastanza scarsi. Negli ultimi anni, con Persona e Noi, Loro, Gli Altri un’eccezione è stata di certo Marracash, un altro artista al cui esempio guardo molto quando lavoro. Infine, per quanto riguarda ciò che mi aspettavo da Inception, onestamente devo dirti che la più sincera delle risposte sarebbe: niente. Ero solo un ragazzo innamorato di questa musica, e volenteroso di raccontare la sua storia nel modo più originale che gli fosse possibile. Il riscontro del pubblico prima e di realtà come quella di Real Talk poi sono state delle inattese conferme del valore che, comunque, già davo a un lavoro come quello, al quale riguardo sempre con soddisfazione e, lo ammetto, anche un pizzico di nostalgia. Nostalgia figlia dell’invidia per la sicurezza e la visione con cui quel giovane Drimer ha realizzato un album anche difficile, ma unico. Tutte qualità che, però, sono adesso convinto di poter tornare a dare ai miei prossimi progetti, con un bel carico di esperienza e qualità in più dopo il tanto lavoro fatto in questi anni.
Le tue origini sono nel Trentino Alto Adige. C’è una scena molto attiva nella tua regione e conosco molto bene le rime di Ares Adami, rapper trentino con il quale hai collaborato in diverse occasioni. Intravedi nuove leve tra i giovani rapper che provengono dai tuoi posti? Ares Adami è semplicemente il Don del rap in Trentino Alto Adige. Non ci sarà risultato da me ottenuto che possa scalzarlo da quella posizione. Verso la fine del 2009, quando iniziavo a muovere i primissimi e incertissimi passi nel mondo del rap, ricordo che lo chiamavo al telefono per chiedergli dritte e istruzioni, essendo lui già da parecchio tempo il riferimento per il rap in regione. Dodici anni dopo, lo ritrovo ancora con la stessa voglia e le stesse skills a farla da padrone in qualsiasi evento dove gli sia data possibilità di toccare il microfono. Anche per questo, per me è stata una enorme soddisfazione poter collaborare insieme ad Antigravity, il nostro album collaborativo uscito nel 2018. La pubblicazione di quell’album è stata uno spartiacque importante, nella mia carriera: la ciliegina sulla torta, per quanto riguardava il percorso mosso fino a quel momento in regione, e la spinta definitiva per quanto riguardava l’inizio di quello fuori. Ad oggi, purtroppo, devo dire che non ho ancora visto nessun giovanissimo spiccare a livello nazionale partendo dal Trentino. Sicuramente, ciò è dovuto in parte anche al Covid e alla difficile situazione che ha creato per quanto riguarda l’organizzazione di eventi, che in un territorio così lontano dalle capitali di questo genere diventano fondamentali per mettersi in mostra. Tra i nuovi, comunque, mi sento di segnalarvi Ranabis, già da qualche anno al top per quanto riguarda il rap in regione e recentemente trasferitosi a Milano pronto per fare il balzo. Siamo in chiusura, vuoi aggiungere qualcosa? Volevo ringraziare te e la rivista innanzitutto, e dirvi che in questi ultimi tempi mi sono chiuso in studio ed ho fatto musica pensando di nuovo esclusivamente a cosa volessi raccontare, a cosa volessi trasmettere, a cosa mi piace ascoltare, a cosa amo fare. Poi sono tornato tra le mie montagne, perché volevo che simbolicamente ripartisse tutto da lì. Ed è ripartito. Infatti è appena uscito “No Mayday”, prodotto come sempre da Ric De Large. All’interno troverete due brani ben distinti. Le cose successe nell’ultimo periodo sono state tante, e una sola traccia non mi sarebbe bastata a raccontarle tutte. Insomma non potevo accontentarmi di tornare in cabina, volevo anche descrivervi ciò che ho visto da quassù, specie quello che non mi è piaciuto.
“Non ne potevo più della situazione, ecco perché l’ho fatto. Non m’importava nulla delle conseguenze!” (New York - ottobre 2009) Così inizia l’intervista con Melvin Van Peebles, vera e propria icona della scena culturale artistica afroamericana, considerato il padrino del cinema nero contemporaneo, scomparso il 21 settembre 2021 all’età di 89 anni. Dalla musica al cinema, dal teatro alla televisione, Melvin Van Peebles ha osato operare in aree dell’espressione artistica vietate sino a quel momento ai neri, aprendo nuove possibilità per un’intera generazione di afroamericani. Melvin Van Peebles è un personaggio affascinante, eclettico, poliedrico, che all’età di ottant’anni è ancora attraversato da quel fuoco creativo che ha segnato una carriera ormai cinquantennale. Emigrato in Europa negli anni sessanta per sfuggire alle condizioni di segregazione in cui viveva la popolazione di colore negli Stati Uniti, Van Peebles ebbe il suo primo riscatto personale vincendo il premio della critica al San Francisco Film Festival nel 1968, dove partecipò come delegato francese grazie alla regia dell’adattamento cinematografico di un suo romanzo. Fu allora che l’America scoprì il genio di Van Peebles, e da quel momento in avanti venne richiesto dalle più importanti case di produzione. Nel 1970, realizzò per Hollywood una commedia molto tagliente, Watermelon Man, che riscosse un buon successo. L’anno precedente aveva pubblicato il suo primo album musicale, Br’er Soul, da molti considerato come un’anticipazione del rap.
Da indipendente produsse, scrisse, diresse e interpretò il suo capolavoro Sweet Sweetback’s Baadasssss Song (1971). Il parallelo successo della sua produzione musicale permise a Melvin Van Peebles di diventare il primo regista nero di musical a Broadway, contribuendo anche alla desegregazione di quella scena artistica così come aveva fatto per il cinema. La sua produzione artistica, indipendente e non, è sempre stata libera da vincoli ed evidenzia il suo impegno politico e sociale capace di influenzare diverse generazioni di artisti afroamericani. Come sei riuscito a intraprendere la carriera cinematografica negli Stati Uniti degli anni sessanta data la situazione politicosociale? I neri non sono mai stati liberi in America. Per potermi dedicare alla mia carriera, decisi di trasferirmi in Francia. All’epoca non esistevano registi neri. Tornai in America quattro anni dopo, per partecipare al San Francisco Film Festival dove vinsi un premio prestigioso. In seguito, ricevetti numerose offerte di lavoro, inclusa quella di Hollywood. Non poteva succedere altrimenti. Pensa all’imbarazzo nel veder premiato un afroamericano in rappresentanza di una nazione straniera in un film festival statunitense dove non c’era alcun regista appartenente a minoranze. In quella congiuntura particolare, Hollywood decise di offrirmi un lavoro. Decisi immediatamente di rifiutare. Se avessi accettato quel lavoro mi avrebbero utilizzato per evitare il proliferare di registi neri; in pratica la mia presenza avrebbe testimoniato la presunta eguaglianza del sistema sociale e politico statunitense. Non accettando invece, obbligai l’industria cinematografica a cercare altri neri come registi. Così, all’improvviso, furono scoperti dei talenti afroamericani. Solo all’indomani del loro ingaggio, accettai la proposta di Hollywood, ponendo come condizione di poter lavorare negli studios; gli altri registi neri, infatti, erano stati relegati in location lontane dagli studi principali.
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Da Hollywood al cinema indipendente. Qual è stato il percorso che ti ha spinto verso questa scelta? Terminato Watermelon Man, realizzai altri tre film per la Columbia e poi decisi di intraprendere il progetto che avevo in mente sin dall’inizio della mia carriera: iniziai la mia personale rivoluzione nel mondo della cinematografia. Avevo sognato che sarei stato un filmmaker indipendente circa vent’anni prima, ma dovevo creare le condizioni perché questo potesse avvenire. Quello era il momento perfetto. Nel 1971 terminai la realizzazione di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. È stato erroneamente creduto che il coprotagonista, militante di un’organizzazione politica, fosse un membro del Partito delle Pantere Nere. Ma io non volevo ridurre l’intero panorama dell’opposizione e resistenza nera alle sole Pantere, non sarebbe stato vero storicamente né corretto nei riguardi dell’impegno e sacrificio di moltissimi altri attivisti e militanti. Baadasssss fu proiettato in solo due sale in tutti gli Stati Uniti. Come si vede benissimo nel documentario realizzato da mio figlio Mario sul making di Baadasssss, mentre sono in sala ad attendere il pubblico per il secondo spettacolo della giornata, entra un giovane nero, una Pantera. Si siede e dopo poco si alza e se ne va. Alla proiezione serale arrivarono numerosissimi fratelli neri, inclusi un buon numero di Pantere che si offrirono di farmi da servizio d’ordine. Tutta la mia produzione artistica è sempre stata a sostegno del Movimento di liberazione nero. Nelle mie intenzioni nella figura del coprotagonista si sarebbe dovuta immedesimare tutta la radicalità nera. Per la prima volta un nero si ribella al sistema imposto dai bianchi e non muore... Il fatto di scegliere un nero forte e impavido come protagonista, un personaggio non disposto a farsi sottomettere, pronto a lottare contro il sistema razzista bianco e che aiutato dalla propria gente riesce a sopravvivere alla condanna imposta dalla società, divenne un elemento imprescindibile. Era quello che le Pantere rivendicavano, come del resto tutte le altre organizzazioni del Movimento di liberazione nero e il sottoproletariato. Ho semplicemente interpretato il desiderio di migliaia di afroamericani negli Stati Uniti così come quello di migliaia di altri combattenti impegnati in quegli anni a liberarsi dal giogo imperialista in Sudamerica, Africa e Asia. Ovviamente, dato il contenuto, il film venne boicottato. Ho realizzato quella pellicola perché ero stufo di quella situazione ed ero pronto a perdere tutto ciò che avevo conquistato pur di realizzarlo. Nulla mi preoccupava... Ero sopravvissuto per anni cercando cibo nella spazzatura ed ero pronto a ritornare in quello stato. Non avrei avuto alcun rimpianto. Feci ciò che andava fatto, ciò che credevo fosse importante per la mia gente. Mi vuoi parlare dell’utilizzo rivoluzionario della colonna sonora per la promozione del film? All’epoca la colonna sonora di un film veniva pubblicata mesi dopo l’uscita, sempre che venisse pubblicata. Questo valeva anche per le produzioni hollywoodiane e per i musical. L’industria cinematografica non aveva ancora compreso né sfruttato appieno l’influenza della musica sulle masse. Io, al contrario, avevo le idee chiare sull’utilizzo e sul potere evocativo della musica e, una volta terminato il film, decisi di promuoverlo utilizzando i DJ e approfittando della possibilità a loro offerta di rendere popolare un pezzo. Così andai dai DJ neri nella speranza di far suonare il tema del film. Decisi di utilizzare la musica per veicolare il mio messaggio. Sono un artista del tutto autodidatta.
Non sapevo né leggere né scrivere la musica. Numerai le note e le chiavi così da poter comporre il pezzo. Sulla versione giapponese del libro di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song si trova una testimonianza molto importante. Nelle pagine introduttive è riprodotto l’originale dello pseudo spartito che scrissi. Se segui questi numeri, suonerai le note del tema del film: You Bled my Mama, You Bled my Papa... Non esistevano critici cinematografici neri, ma c’erano molti DJ neri. Non avendo soldi per pagare le radio provai a rivolgermi a loro. Fu un successo. Ai giorni nostri, l’utilizzo della colonna sonora per pubblicizzare un film è qualcosa di assolutamente normale mentre all’epoca si rivelò una scelta vincente. Non solo, per realizzare la colonna sonora mi rivolsi a un gruppo totalmente sconosciuto che si esibiva per pochi spiccioli lungo Hollywood Boulevard. Parliamo degli Earth Wind and Fire. Quello fu il loro primo album! Ci vuoi spiegare il tuo rapporto con il rap? Ho usato il rap perché era lo strumento più adatto per esprimere le mie idee. Sono un soggetto politico e la musica era la forma d’espressione che aveva più influenza sulla gente. Da giovane iniziai cimentandomi nella pittura e nella scultura ma ben presto mi resi conto che le masse non andavano nelle gallerie d’arte e che difficilmente leggevano dei libri, ma che tutti amavano la musica. Il pezzo “It Just Don’t Make No Sense”, tratto dal mio primo musical, registrato a un angolo di strada, un pezzo contro il razzismo, è puro rap. Fu inciso nel 1968-69, prima dei Last Poets e di Gil Scott-Heron, prima dei giovani MC del Bronx. Realizzai pezzi come questo per il mio album e per dei musical. Come nel cinema così nel teatro: fui uno dei primi registi/produttori neri a Broadway. Utilizzai sempre il denaro che avevo guadagnato per investire in nuove opere e poter creare nuovi progetti senza alcun tipo di condizionamento.
Questa intervista inaugura una nuova rubrica del nostro magazine dove andremo a esplorare tutti quei brand di streetwear legati all’hip hop che nel corso degli anni sono diventati “iconici” o in qualche modo sono entrati nell’immaginario popolare di questa cultura. Racconteremo la loro genesi, approfondiremo l’oggi e cercheremo di capire le difficoltà attuali nell’affrontare un percorso del genere in Italia. Partiamo da Malas, marchio nato in Italia nel 1997, straight Cantù, provincia di Como. Ne parliamo con Fabrizio Malaspina, fondatore del brand. Ciao Fabrizio, grazie innanzitutto per la disponibilità. Io partirei direttamente dagli inizi, cercando di ricreare l’atmosfera che c’era ai tempi. Una dimensione un po’ più intima, sia a livello di rapporti umani che a livello di produzione, testimonianza anche del fatto che se non sbaglio partì tutto dal laboratorio di tuo padre… Corretto! Era il 1997 quando dalla sartoria Malaspina mio padre Nicola, realizzò il primo pantalone Baggy con del tessuto che avevo recuperato in un negozio di scampoli della zona. Il primo prodotto, anche come prototipo, come già detto, furono i baggy jeans, Qual è stata la scintilla che ti ha fatto intraprendere questa strada? Per molti è stato un viaggio, per alcuni le scene di un film, per altri ancora un pezzo ascoltato in radio. Tu nasci skater se non sbaglio.. Cominciai a skateare nel 1988 e passai tutto il periodo delle scuole superiori a Como, dove la scena Skate era esplosa e c’era Cocoa Surf Shop che era il nostro riferimento. Fu grazie ai primi video americani e in particolare a Hokus Pokus di H-Street che mi innamorai dello Street Skating. Contemporaneamente la passione per i graffiti mi portava a dipingere con la crew locale C.S.D. Mi procuravo fanzine e skate video andando a Milano e volevo sentirmi diverso dai fighetti figli di papà che ti giudicavano dai vestiti che indossavi. Lo stile grunge dei Nirvana, ispirato agli skater losangelini, i cappellini da baseball dei Public Enemy e soprattutto i pantaloni larghi, anzi larghissimi indossati dai rapper americani mi affascinarono tanto da diventare una vera ossessione! Andavo alla Standa a comprare pantaloni economici di 3 o 4 taglie più grandi ma non mi bastava… In paese tutti mi prendevano in giro, ma più mi davano addosso e più saliva la voglia di rivalsa e così convinsi mio padre a cucirmi il primo pantalone baggy, tutti i miei amici skater e writer ne vollero un paio e così nacque l’idea di creare un brand. Le difficoltà maggiori che hai incontrato all’inizio del “viaggio”? Furono di organizzazione, logistica, eccetera o più prosaicamente economiche? Economiche. Vengo da una famiglia umile, cresciuto nelle difficoltà e nelle ristrettezze economiche, ma sempre con il sogno di sconfiggere i problemi e vivere sereni, facendo quello che si ama, i vestiti. Parliamo naturalmente anche del logo, perché agli occhi di tutti era il segno più riconoscibile, lo notavi subito. Come lo avete creato? Avevamo trovato un laboratorio vicino casa che poteva confezionare una ventina di baggy jeans, dovevamo personalizzare il sample e volevamo fare un ricamo sulla tasca come i brand americani. Ai tempi condividevo la passione per lo skateboarding, il rap e i graffiti con il mio amico Nico Vignali, uno studente di grafica con molto talento anche sui Technics. Tutti a scuola mi chiamavano Mala e decisi di trasformare il soprannome in brand. Diedi a Nico fogli pieni di tag Malas (mi piaceva la S finale) fatte da me con un pennarello e lui decise di rifarle con una penna calligrafica… Quando mi mostrò il risultato capii subito che era il logo giusto. Back in the days, Aelle e Malas, ricordo ancora la pubblicità: penso che quella collaborazione abbia dato il via al tutto, unita alla scelta vincente di affidarsi a degli “ambasciatori” del brand, che furono ricercati fra gli artisti maggiormente in voga in quel periodo. Oggi banalmente diremmo influencer, ma ai tempi un’opzione di questo genere non era propriamente popolare.. Aelle fu il vero inizio dell’avventura! Chiamai la redazione e presi appuntamento a Milano per avere informazioni su prezzi e requisiti tecnici necessari alla pubblicazione delle pagine pubblicitarie. Fu in quell’occasione che in un bar di Milano vicino alla stazione Cadorna conobbi Paola Zukar. Paola ci diede fiducia e realizzammo la prima grafica fotografando il ricamo del logo incorniciato in una diapositiva con il claim “L’Italia veste Malas”… m d m g z n / 43
Malas Jeans / Back in Business 1999: Rip off della mitica campagna pubblicitaria della Def Jam che girava sulle riviste americane. Abbiamo chiamato tutti i nostri amici e riprodotto le pose dei vari Method Man, DMX, Foxy Brown, EPMD, Redman, Slick Rick etc…
Un aneddoto particolarmente divertente di quei tempi? Penso il giorno che conobbi DJ Double S, l’inizio di un’amicizia che dura da anni. Organizzai il concerto di Neffa a Cantù, al cinema Lux durante il tour di “Neffa e i messaggeri della dopa”, Rino era il DJ di Neffa all’epoca. Accompagnai i ragazzi a cena, in un ristorante self service in città e con la crew c’era anche Benedetta Mazzini (figlia della mitica Mina), eravamo a tavola a mangiare quando ad un tratto squilla il cellulare di Benedetta che risponde con un “Ciao mamma!”… Tutto il ristorante si ferma e sprofonda in un silenzio assoluto, lei si alza e si allontana dicendo: “scusa sono al ristorante…” Avevo portato la figlia di Mina a mangiare in un ristorante self service in un centro commerciale! Dopo una pausa durante diverso tempo, da qualche anno siete ripartiti, più o meno in concomitanza con l’evoluzione e la crescita di un genere musicale che è diventato trasversale e con una direzione totalmente mainstream. Siete ripartiti con nuove idee, ovviamente, ma cercando nello stesso tempo di rendere omaggio alla storia e alle origini. Come sta andando? La situazione è come hai detto tu cambiata totalmente. Da un mercato di nicchia con marchi sconosciuti ai più, siamo oggi in un mercato globale con brand mainstream, di cui alcuni come Stussy, Carhartt e Supreme oggi sono il riferimento mondiale quando si parla di Streetwear. Noi siamo tornati a casa nostra, in Italia, dove questo stile l’abbiamo visto nascere e ci abbiamo creduto dal giorno uno, quando tutti gli altri ci snobbavano, etichettandoci come fenomeno per pochi. Oggi per un piccolo brand indipendente come il nostro è dura ma in realtà molto stimolante! Ci crediamo più di prima e sappiamo di cosa stiamo parlando, non per sentito dire ma perché noi c’eravamo! Questa è roba nostra. Come è costituita attualmente la vostra linea di produzione? Quante persone oggi dentro Malas? Siamo in due, il mio socio Cristian “Osde” Benzoni ed io. Il sottoscritto si occupa del prodotto e Osde delle grafiche e della fotografia. Abbiamo ancora il supporto dei fornitori di un tempo, che nonostante
gli anni passati, ci supportano ancora come se fosse il primo giorno. Inoltre si è aggiunto lo showroom di Milano dove concentriamo le nostre attività commerciali e PR. Nel corso di questi anni hai ovviamente fatto anche altre esperienze, molto importanti, sempre nel campo della moda. Dato che conosci a fondo questo settore, quali cambiamenti hai notato in termini di gusto, pubblico e brand e item più richiesti? Il cambiamento più evidente è l’affermazione dello Streetwear come stile globale e non più fenomeno di nicchia. I brand del lusso si ispirano e si contaminano con lo Streetwear, sicuramente Supreme ha rivoluzionato la moda, collaborando con top model e brand di livello internazionale. Louis Vuitton affidò a Virgil Abloh (rip.) la direzione creativa della linea uomo e altri brand come Palm Angels hanno collaborato con Moncler e Missoni. Non scordiamoci anche delle sneakers che da calzature sportive sono diventate uno status symbol (sempre grazie a Supreme)… Potremmo parlare per ore di ciò che è accaduto negli ultimi 5 anni, io stesso ho lavorato per Dolce & Gabbana! Cosa ne pensi del fenomeno reselling? Pura speculazione o in un certo senso aiuta il mercato a non affossarsi? Come in tutte le cose, la verità sta nel mezzo. Quando è iniziato il fenomeno del camp out fuori dagli store per accaparrarsi l’ultima release era bello. Hype puro. Adesso è tutto pilotato dai big brand per speculazione, ma il tempo saprà aggiustare le cose. Erano altri tempi, lo abbiamo già ribadito. Dai primi anni duemila ad oggi il mondo dello streetwear è cambiato completamente, e sembra ormai slegato da tendenze passeggere. In un mercato dominato da grandi brand e gruppi multimilionari, quale può essere la strada per riuscire a sopravvivere? Trovare la forza nel passato per costruire il futuro.
1998/99: L’Hip Hop non si veste…ma i B.boyz si! Questo claim era nato in studio di registrazione mentre preparavamo i nostri mixtape targati Ill Circuito, mixati da Nico Vignali a.k.a. DJ Silver K. Sullo sfondo il logo della nostra crew disegnato da Mastro K.
Il 29 gennaio del 2011 un gruppo di compagni e compagne varcava il cancello di un edificio ormai abbandonato da moltissimo tempo in via Olgiati, nel quartiere Barona a Milano. Undici anni dopo, sopravvissuti a tre sgomberi, un collettivo in continua evoluzione non ha ancora smesso di sognare una città diversa e di costruire una comunità che resista e persista. Ovunque si possa. RCP è la diretta emanazione in musica di questo sogno, collettivo politico oltre che artistico, super prolifico per quanto riguarda i progetti in uscita. Ecco la loro storia.
Prima di iniziare con la vostra storia, vorrei partire da una riflessione: non nascono più tanti gruppi che condividono una esperienza di ”vita”, importante e soprattutto comune e non individuale come quella di un centro sociale, secondo voi perché? Diciamo che il rap è ormai un genere musicale diffuso in maniera capillare nella nostra società, in cui chiunque può trovare qualcosa da dire; però, allo stesso tempo, notiamo che molti artisti e artiste che emergono “individualmente” provengono da una dimensione più collettiva. A dirla tutta, negli anni di musica e militanza che abbiamo vissuto finora, abbiamo avuto l’occasione di conoscere svariate realtà e gruppi dalla genesi più o meno simile alla nostra; potrebbe dunque darsi che, nel corso del tempo, si siano sviluppati istituzioni e circuiti diversi da quelli dei centri sociali (dove il rap e l’hip hop, in Italia, hanno trovato una prima diffusione), mettendo in ombra questi ultimi e le loro potenzialità in quanto crogiuolo di percorsi artistici, senza però annullarli, ma piuttosto ridisegnando i confini della loro agibilità in merito. Riassumiamo un po’ i fatti e quello che è accaduto in questi anni: come siete nati? Immagino che il vostro percorso in tanti punti collimi con quello dello Zam… Siamo nati come Zam Hip Hop Lab nel Dicembre 2012, in via Olgiati nel quartiere di Barona, grazie all’interesse e allo sbattimento di Horso e Chiara, due compagnx del collettivo di Zam che, con il prezioso aiuto di Esa El Prez, hanno imbastito un laboratorio di scrittura di testi. Qui hanno cominciato ad affluire vari ragazzi, tra i quali alcuni dei nostri futuri cavernicoli. Forti del supporto di Musteeno e della Street Arts Academy, abbiamo organizzato le nostre prime jam, gli open mic, i concerti live e altro ancora. Siamo sopravvissuti a tre sgomberi nel giro di pochi anni, riuscendo a implementare un po’ per volta il nostro impianto audio e di registrazione. Rap Caverna Posse ha avuto il suo battesimo allo Zam di Piazza Sant’Eustorgio, dove avevamo costruito la nostra prima cabina di registrazione e scritto le nostre prime tracce. Ma è stato negli anni passati in via Sant’Abbondio, dove Zam risiede tuttora, che siamo riusciti a costruire un immaginario comune, a concretizzare i nostri primi progetti, a crescere come family, come gruppo e come collettivo politico oltre che artistico. Sorvegliato speciale in attesa di giudizio è il vostro secondo album se non sbaglio, ed il titolo è già tutto un programma… da che spunti è partito, come avete lavorato ad esso e soprattutto come vi siete divisi i “compiti” all’intento di esso Mentre cercavamo idee per un secondo album, il primo “ufficiale”, il nostro amico Giovanni è entrato in cabina e ha registrato un monologo di cinque minuti (alcuni passaggi sono contenuti nelle skit dell’album). Il suo intervento è stato a dir poco illuminante. Partendo dall’apparente nonsense della sua “storia dell’amore”, che è una favola e solamente una favola, abbiamo iniziato a organizzare alcuni pezzi sui quali stavamo lavorando. L’album contiene quattro anni di Rap Caverna Posse. La maggior parte delle tracce sono nate da una strumentale e da una sensazione più che da un’idea sensata (alcune sono state scartate nel processo), mentre altre sono state partorite con un intento preciso (sopra tutte,
“Siberia dreaming”). Le produzioni sono uscite principalmente dalle mani di Iacs Flux e di Cesa One, mentre agli scratch troviamo Iacs insieme a Dj Libero. Mix e master sono stati effettuati da Jaba, nostro socio di vecchia data. In generale, comunque, la nascita e la realizzazione del disco è stata molto spontanea e non particolarmente organizzata, quanto meno nella fase creativa: la vita in caverna, con tutti gli svarioni, gli intoppi e l’andamento ondivago del caso, ha governato tutto il processo creativo e questo è stato da una parte la nostra forza e dall’altra la nostra principale difficoltà. “Chef Joe” sembra il pezzo atipico del disco: come è nato? “Chef Joe” è nato da un’idea di Docru, per descrivere un’attitudine che in qualche modo accomuna le nonne e i kebabbari. Il pezzo è nato prendendo ispirazione dalle occasioni in cui abbiamo cucinato per tante persone, come nel rinomato San Valentino Ruderalis, ottima occasione per venire a scottarsi le chiappe con le nostre piccantate e per finanziare i nostri progetti. Il nostro modo di vivere l’hip hop e il nostro modo di cucinare hanno un sacco di cose in comune. Facciamo entrambe le cose senza troppe pretese, senza troppi fronzoli e soprattutto per il piacere di coinvolgere più persone possibili. Il nostro modo di fare hip hop è il modo in cui le nonne di giù fanno il ragù: ci mettono tempi inenarrabili, scelgono con cura le materie prime (dalle verdure per il soffritto alla trita di manzo, dalla pummarola alla salsiccia), e lo fanno per le persone a cui vogliono bene; nei giorni di gloria per qualche sagra o festa di Paese. Poi c’è il rap Barilla, fatto in serie e per riempire scaffali... Proseguiamo il viaggio senza social manager e senza faide sopra sul web: prendo spunto dal recente caso Madame e da come il pubblico percepisce un’artista, so che siete lontani da questa roba ma purtroppo sembra che Il rapporto tra artisti e fan è sempre più complesso e dipendente da numeri, soldi in ballo, riconoscibilità. Voi che ne pensate? Non comprendiamo pienamente la dinamica, per noi i e le fan sono amici e amiche, oppure altre persone appassionate di rap che abbiamo conosciuto in laboratorio, ai nostri eventi o durante i cortei. Il caso Madame è per noi solo l’ennesima trashata dei social che poco ha a che fare col nostro modo di vivere la musica, e comunque principalmente sticazzi. Vedo tutti indaffarati nessuno che sogna: dicevano che la pandemia ci avrebbe reso migliori, almeno nei confronti del rispetto dei diritti umani, della cooperazione internazionale e della solidarietà verso chi soffre. Secondo voi qualcosa è successo? Vivere a Milano ti abitua a stare in mezzo a un sacco di gente che ti passa davanti ma non ti vede, ed è difficile trovare momenti in cui condividere le proprie passioni ed esperienze. La pandemia ha costretto le persone a rimanere isolate e ognuno per i cazzi suoi, e adesso si sta tornando alla presunta normalità. Anzi, essere costretti a stare per conto proprio, con lo stare sul balcone a fare i delatori e gli infami come unica alternativa a Netflix, potrebbe
pure aver fatto da catalizzatore per la tendenza della nostra società all’atomizzazione e all’individualismo: per stare bene non ho bisogno di altre persone con cui condividere esperienze o punti di vista, né di una collettività in cui esprimere le mie potenzialità, superare le mie difficoltà e gestire i miei problemi. Scivolo sulle cosce di Milano mentre mi fingo sobrio: Milano è la capitale di tutto, di conseguenza è anche la capitale del rap, di tutto il rap nazionale, azzarderei. Lo Zam è in un quartiere difficile, nella periferia sud: quanto è difficile portare avanti la quotidianità in posti del genere? Attraversare un quartiere vivo come Milano Sud porta a conoscere mille situazioni anche difficili, ma porta anche l’ispirazione di tutta la gente che frequenta il laboratorio. Il rap è molto diffuso a Milano Sud, ed esso è spesso un’attrattiva per diverse persone. La nostra idea di posse si basa anche sul tenere lo studio aperto il più possibile per chiunque e raccogliere i contributi musicali più disparati. Il rap per noi è soprattutto condivisione. Che sia un cypher in cui si fa freestyle su un beat dal cellulare, una jam o un live in cui si esibiscono tanti artisti diversi, solo rappando insieme ci si può migliorare, affinare le tecniche, perfezionare il flow... Ascoltando il vostro disco ed anche i vostri progetti solisti un orecchio attento capisce bene la genesi dei vostri ascolti, le vostre influenze musicali, cosa state ascoltando in questo momento? Ascoltiamo un po’ di tutto stando aggiornati sul rap fresco ma spaziando, rap, trap, grime, drill, bum-bap… Ci sono alcuni classici intramontabili che continuiamo a gustarci, grazie a dio ci sono artisti che ci piacciono e con cui abbiamo anche avuto occasione di condividere il palco che continuano a fare uscire roba nuova, ma anche giovanissimi che fanno delle cose interessanti. La RCP forse non sarà la crew più forte ma sicuramente è la più lunga da salutare, e di conseguenza ognuno di noi ha i suoi riferimenti e le sonorità che preferisce; essere una crew numerosa, se per molti aspetti è faticoso e difficile, ha sicuramente il vantaggio di mettere insieme tante orecchie diverse che collaborano e si influenzano a vicenda. Una curiosità: nel vostro album non ci sono featuring importanti, non avete chiamato nessuno a darvi manforte: una scelta precisa o dettata dal fatto che avete lavorato in lockdown quindi era difficile in termini puramente logistici cercare delle collaborazioni… Il disco è il risultato del tempo passato in studio e le tracce sono nate piazzando in rap caverna: gli unici feat del disco sono con mcs che sono anche nostri amici. Per noi fare un feat a tavolino, senza che l’idea sia nata da un’esperienza vissuta insieme o venuta fuori da una passione in comune, ha davvero poco senso. Certo, da fan di altri artisti ci gasano feat tra rapper che ci piacciono, magari che non abbiamo mai sentito su una stessa traccia, ma fino ad ora il modus operandi è stato un beat, uno spino e uno svarione fatto insieme. Siamo verso la fine e volevo porre l’accento su una questione che ormai è dibattuta da più parti anche se non si è ancora arrivati ad un punto in comune: il linguaggio esplicito e controverso del rap che spesso sfiora nella misoginia e nella violenza. Dobbiamo accrescere la consapevolezza e combattere la disumanità di certi testi mettere in azione azioni correttive? Come mai, tra le infinite parole utilizzabili e tra gli infiniti argomenti che si possono trattare in un testo rap, così tanti scelgono argomenti discutibili? Il problema sono i testi rap o i media che li trasmettono? O il pubblico che li ascolta? I testi misogini e sessisti possono essere visti come lo specchio della nostra società, quindi quella del linguaggio nel rap è solo una delle mille battaglie sulla via di un mondo più giusto, ma una battaglia contro un sintomo che non intacca minimamente la causa del problema né lo risolve. Il punto di forza del rap è da sempre anche una sua criticità: finché chiudi le barre si può dire tutto… da “Fight the Power” dei Public Enemy a “My Adidas” dei Run Dmc, da “The Message” di Grandmaster Flash a “Big Pappa” di Notorious Big.
Quindi l’unico modo per combattere messaggi sessisti, omofobi, misogini e violenti nel rap è fare del rap che fa più brutto degli altri, ma che veicoli un messaggio positivo, consapevole e di critica sociale e politica. Penultima domanda: come dicevo prima avete già prodotto oltre al disco di Rap Caverna Posse, anche dei vostri progetti solisti, qui è lo spazio, se volete parlarne. I Miss my wife è il progetto solista di Iacs Flux, è stato prodotto a inizio 2021 e contiene le idee frutto di un periodo colmo di cambiamenti nella vita del cavernicolo. Il titolo cerca di esprimere una sensazione di nostalgia dovuta ad un certo stacco col passato, e le tracce spiegano in modo organico questa sensazione. L’ intro e l’ultima traccia sono caratterizzate da sonorità strettamente boom-bap in linea con le altre produzioni della posse, mentre le tracce intermedie spaziano verso un genere più personale e, se vogliamo, sperimentale. Mario Molotov Saga vol.1 è un EP ideato da CesaOne a Milano e Tom Melmo a Montevideo in pad (production a distanza) durante il lockdown, ma confezionato, registrato e mixato in presenza nel corso di una notte in rap caverna. Vede alcuni feat di altri membri della posse e alterna ritmi boom bap più classici a sonorità più trappuse, ma sempre con beat campionati. Due chicche sono i sample di altrettanti beat: uno estrapolato da un vinile d’epoca “made in URSS”, l’altro ricavato dalla sigla di un tg del blocco sovietico. Lo scorso settembre è uscito anche Mal di Mare, EP solista di 5 tracce prodotto da Siddy, con un paio di beat di Dj Libero ma senza featuring. Il progetto ha voluto provare a trasmettere una varietà di emozioni una in contrasto con l’altra, dalla rabbia alla pace, dalla frenesia alla malinconia. Musiche e testi lasciano un sapore amaro ma incisivo. EPCM di Pneuma e Pulsar Uranio è il progetto più atteso dell’ultimo DPCM, con barre tanto incazzate quanto riflessive su ciò che stiamo diventando ma che forse siamo sempre stati. Ai beats c’è Pulsar Uranio, e nell’intro si possono udire gli scratch di Iacs Flux e Dj Libero. Album secreto di Pulsar Uranio invece risulta da un accumulo selettivo con velleità da concept album, dove la paura viene identificata a posteriori come fil rouge del progetto. La paura come indagine dell’ignoto, come arma contro le altre emozioni, come sintomo paranoico, come apologia della contemplazione del dolore, come passaggio necessario all’immaginazione di un mondo altro, come anestetico della curiosità intellettuale e come proiezione delle insicurezze personali. I beats sono stati prodotti dal suddetto tranne quello di “Educazione evroniana” confezionato da Mandingo, e in “Pedine a mento” c’è una strofa di Tom Melmo. Mix e master sono di Jaba Losciallo. Le grafiche sono state tratteggiate da Marmo e i lettering da Horso e Krasto. Ultima uscita, l’EP Seguo il mio credo di Cesa One, online dall’undici dicembre, con produzioni originali fatte con il campionatore sp404sx. Il progetto prende esplicitamente spunto dal manga di Naruto: ogni traccia rielabora il nindo (credo ninja) di un personaggio e ha la base in cui è stato campionato il tema musicale che lo accompagna nell’anime; unica eccezione è la titletrack dell’album, che non si basa su alcun personaggio. Perfetto, ora finiamo con una piccola digressione: leggevo una intervista molto interessante di Pierpaolo Capovilla su Rolling Stone dove affermava che la lotta è gioia. La lotta è anche gioia? La lotta è gioia anche quando non si vince. Ma lottare di per sé è già una vittoria.
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Carlo Mercurio aka Carlo Flow, classe ’89, ha il suo primo approccio con il mondo del rap e della cultura Hip Hop più di 15 anni fa, vivendo la scena artistica campana con la sua prima crew, la Shotgun Underground Records e Alta Mob. L’arrivo a Milano, il confronto con altre realtà ha alimentato la voglia di crescita artistica, collaborando con lo Chandelier Studio e ampliando le sue conoscenze e le sue abilità artistiche. Crudo, cinico e ironico: il suo rap sfiora tematiche vietate ai minori. Il 3 dicembre 2021 pubblica Revelatio per Stoned Saints Records. Ci siamo fatti raccontare direttamente da lui le sei tracce che compongono il disco.
// Facciamo a botte? Prod. DJ Rogo Gli altri rapper vogliono confrontarsi, col rap o coi guanti. Nella mia traccia li invito a “fare a botte” con me, li sfido: li invito sul ring, sui palchi. Le realtà che mi hanno cresciuto sono state sempre molto violente e competitive, pur essendo un cultore della pace, so ben difendermi a pugni o col microfono. Benvenuti nel mio viaggio, Dj Rogo con la sua esperienza è riuscito in pieno a soddisfare le mie esigenze musicali, i suoni che mi rapiscono, appartengono, le atmosfere che desideravo vivermi e farvi vivere. // Apache feat. Stoma Emsi, prod. DJ Rogo Arrivo dalle strade, dagli stadi, da realtà piene di malavita e di scontri. Arrivo a Milano, inizio a vivere le sue strade: zozze, difficili, ricche d’ispirazione. Ed è qui che incontro Stoma Emsi, un ottimo compagno di viaggio, abbiamo percorso e camminato gli stessi posti, le stesse disavventure. In questo brano cerchiamo di raccontare le nostre passeggiate, quasi camminando a braccetto, quasi a descrivervi il lato marcio di questo posto. Ovviamente la magia di Dj Rogo rende l’atmosfera musicale adatta al concept pensato. // GG Allin prod. Novanta Il brano fa chiaramente riferimento al “personaggio”! Un personaggio che amo, delirante come la traccia che andrete ad ascoltare. Tematiche vietate ai minori, sono un amante del black humour, della rima spinta, delle parolacce.. mi attirano troppo e in questa traccia ho dato il peggio o il meglio di me. Tutto ciò rende onore ad un passato, dove ammiravo ed ascoltavo molto il punk hardcore, il loop ossessivo di Novanta ti farà entrare in un trip dove potrai mettere alla prova i tuoi sensi. // Revelatio prod. e feat. Novanta Siamo arrivati alla title track, spero pieni di lividi e occhi neri. In questo periodo apocalittico, ispirato quasi dalla vicina fine del mondo, ho voluto appunto chiamare il progetto così: Revelatio perché tutto intorno a noi sta cambiando, sta crollando. Novanta ci delizia non solo col beat ma anche col rap altrettanto cinico e crudo. L’atmosfera musicale rispecchia in pieno la tematica e il concept. Ispirati molto anche dalle realtà che ci hanno cresciuto, il sud Italia è una scuola di vita o ti uccide o diventi ancora più forte. Noi abbiamo vinto. // In bocca a tutti prod. Dj Rogo In modo scurrile e ironico il brano è un auto celebrazione, classica del rap, è un sfogo, è un sottolineare la grandezza del mio Ego. In dialetto napoletano l’avrei tradotto così: tutt n’mocc, spero capiate il messaggio, difficile spiegarlo senza essere volgare, offensivo o cafone. D’altronde sono caratteristiche che mi rappresentano molto e rendono reale il prodotto finale. Dj Rogo ti teletrasporta in un’altra realtà musicale, lontane a quelle abituate ad ascoltare, anche solo involontariamente. Preparatevi il ghiaccio. // Annientarmi prod. Novanta Fine del viaggio, in questa traccia ho cercato di essere più lucido, riflessivo, meno impulsivo. C’è anche un ritornello, cosa rara per la mia attitudine. Riassumo con più calma il percorso che abbiamo affrontato insieme, l’atmosfera di questo brano, usato proprio per la chiusura del progetto, è quasi differente dal resto delle tracce. Citazioni e doppi sensi rappresentano molto la scrittura utilizzata da me in questo brano e Novanta è riuscito ad affiancarmi con la musica in modo chirurgico.
Romo l’ho conosciuto per caso. Era arrivato in redazione il suo nuovo progetto, un Beatbox Sample Pack totalmente gratuito e con libera licenza per essere usato da altri beatmaker o produttori. Un’idea geniale, soprattutto per la filosofia che c’era dietro. Dovevo saperne di più su di lui e mi sono resa conto durante l’intervista che di fronte a me non avevo solo un produttore e beatboxer, ma un vero professionista della comunicazione e della musica.
Ti chiederei di dirmi qualcosa di te, così per rompere il ghiaccio! Mi chiamo Roberto e vengo da un paese del centro-ovest della Sardegna a venti minuti dal mare, Milis. Sono un DJ, producer, beatboxer e music curator. Ho iniziato ad appassionarmi di musica nei primi anni novanta con l’Eurodance e Piano House Italiana che sentivo alla radio, scoprendo poi in seguito i generi “hard” della dance come Techno, Hardcore e Gabber. Quasi nello stesso periodo ho iniziato ad ascoltare anche black music. Grazie all’Hip-hop ho poi scoperto un sacco di musica che veniva campionata nelle strumentali dei dischi che mi portava a scoprire generi come Funk, Disco, Jazz e Soul. La musica per me è di due tipi: bella e diversamente bella. Ora vi starete chiedendo cosa significhi questo termine. Quindi vi consiglio l’ascolto di alcune compilation che avevo prodotto diversi anni fa chiamate Italiani Brava Gente, un tributo al weird & odd sound italico. Sicuramente andrò ad ascoltare, nel frattempo mi hai incuriosito troppo! Cosa intendi per diversamente bella? Intendo la musica che a un primo e ripetuto ascolto non ti piace o magari può darti fastidio, ma anche farti ridere o innervosire o entrambe le cose, e poi magari finisce anche per piacerti e magari poi ti ritrovi nella tua camera a ballarla. La musica diversamente bella permettimi il gioco di parole mi piace perché non mi piace. Diciamo che negli anni per me è diventato un genere a sé stante. Cinque tra le mie preferite: Cinzia Paglini – “Fai l’aerobica con Cinzia”, Gregorio – “Il senso del risparmio”, Mr.T – “Treat your mother right”, David Hasselhoff – “Hooked on a feeling”, Legendary Stardust Cowboy – “Paralyzed”. Mi riallaccio a qualcosa di biografico: perché il nome Romo? Il nome Romo nasce semplicemente dalle iniziali del mio nome e cognome (Roberto Masala), con i due punti delle iniziali che diventano delle O. Lo uso dal 1994. Quindi: sei sia un produttore, un Dj e anche un Beatboxer! Dal punto di vista tecnico qual è il vantaggio di avere tutte queste skills? Si, ho iniziato a fare musica intorno al ’96-’97 producendo house e techno, poi alcuni anni dopo mi sono avvicinato anche al beatmaking, Djing e beatbox. Avere molteplici skills a mio avviso porta molti vantaggi. Nel mio caso come DJ quello di sapere leggere la folla durante il set e capire cosa piace e cosa no, oltre a cercare di tenere la gente nel dancefloor il più possibile e farla divertire. Spesso tra l’altro mi piace unire Djing e beatbox durante le serate e spiazzare il pubblico, che non si aspetta degli human beats live mixati ai brani. Inoltre non disdegno affatto quando possibile scendere in pista tra un pezzo e l’altro e ballare col pubblico, anche se questo ahimè succedeva prima della pandemia e ancora non si sa bene quando e se torneremo alla normalità’… a un prima che sicuramente non sarà più lo stesso. Il Beatbox tra l’altro stimola molto la mia immaginazione e mi spinge sempre nel creare dei suoni nuovi e originali. Grazie ad esso ho sviluppato inoltre un gran senso del ritmo che mi aiuta anche nei DJ set, oltre ad aver imparato negli anni come controllare la respirazione, specialmente quando faccio delle lunghe session di beatbox e spesso devo prendere fiato ma non posso fermarmi. Il lavoro in studio da producer invece mi ha portato negli anni ad acquisire molteplici skills come saper arrangiare un brano musicale,
modellandolo sino a creare un prodotto finito pronto per essere messo nelle piattaforme di streaming o su CD o vinile, creare suoni nuovi da zero con sintetizzatori e microfoni, registrare la mia voce e molto altro. Approfondendo le tue note biografiche e sbirciando i tuoi social ho percepito che viaggi parecchio. È la musica a portarti in giro? Si, adoro viaggiare, scoprire nuovi luoghi e culture. Ho vissuto in molti luoghi nel Sud-Est Asiatico, Nord America ed Europa dove ho anche messo musica come DJ e fatto beatbox. Stare a contatto con tante culture diverse mi ha ispirato tantissimo anche nel produrre musica, oltre a scoprire un sacco di perle rare nei vari mercatini in giro per il mondo che poi raggruppo nei vari mixtapes o nelle playlist su YouTube e Spotify. Il mio sogno è sempre stato quello di vivere di sola musica, alzarmi la mattina e comporre fino a tarda sera, anche se a dirla tutta è più facile a dirsi che a farsi, infatti negli anni mi sono dovuto adattare facendo diversi lavori. Tra le mie passioni infatti ci sono anche il Marketing e i Social Media. Lavoro da più di sette anni nel campo del Marketing da remoto, molto prima della pandemia e del cosiddetto smart working, e ciò mi ha permesso di viaggiare e scoprire posti nuovi, e mi ha anche aiutato a far crescere la mia presenza sui social, che ormai sono diventati fondamentali come mezzo di promozione per gli artisti. Lavoro inoltre come sound engineer e podcast editor. Poco fa hai detto che sei anche un music curator, mi spieghi cosa intendi? Il music curator ha molte cose in comune con il DJ. È come avere la tua playlist Spotify perfetta, che conosce i tuoi stati d’animo e le ore del giorno, tutto il tempo. In primis bisogna avere una grandissima passione per la musica, ascoltare un sacco di stili musicali diversi, e tenersi sempre aggiornato sulle nuove uscite discografiche. Il curator si occupa quindi di creare delle playlist per brand, ristoranti, hotel, eventi e altri tipi di attività con un determinato mood o atmosfera che si adatta perfettamente al tipo di venue, brand e clienti. Può capitare quindi che un brand richieda al music curator una playlist che magari si focalizza su un particolare anno, genere, luogo, e diversi altri fattori. Un music curator inoltre deve non solo capire il brand ma anche tener conto di chi poi andrà ad ascoltare la playlist, l’utente finale. Hai detto che lavori coi social e ovviamente li usi per promuoverti. Ti faccio però una domanda. Parlando di marketing e pensando ai social media, dovrebbe esistere una sorta di etica usata per la promozione musicale? Chiedo pensando alle visualizzazioni pompate e a quanto spesso siano i soldi più che il talento a far emergere gli artisti… Bella domanda! Si certo, dovrebbe esistere un’etica per quanto riguarda la promozione musicale e spero che col tempo si arrivi a una regolamentazione in questo senso, anche se la vedo difficile. I siti che offrono ‘free plays’ o followers gratis’ spuntano come funghi. In molte nazioni dell’Asia ci sono poche regolamentazioni in tal senso, e i costi per avviare un’attività di questo tipo sono bassi. Si creano quindi vere e proprie aziende chiamate click farms con migliaia di computer e smartphone accesi che fanno streaming di brani, guardano video, mettono like o segui sui vari social media. Negli anni sono stati
smascherati diversi guru dei Social Media che promettevano fama e successo ma che in realtà utilizzavano questi siti per far crescere la popolarità social di un artista o personaggio con questo tipo di stratagemmi. Purtroppo il talento da solo spesso non ti aiuta a diventare popolare come artista e raggiungere determinati numeri. Il musicista ormai nel 2022 deve investire su sé stesso e creare di frequente contenuti audio/ video da distribuire sui social, inoltre quando si hanno pochi soldi a disposizione il musicista spesso si ritrova ad essere (come nel mio caso) anche grafico, videomaker, social media manager, webmaster e marketer di sé stesso. Inoltre oggi il conteggio dei followers, delle visualizzazioni e degli streaming sembra essere diventato sempre di più il metro di valutazione che case discografiche, addetti ai lavori ma anche persone comuni usano per valutare un artista e decidere se investirci su e magari seguirlo sui social. Nonostante tutto, oltre a questo mondo dei fake likes o fake plays esiste comunque anche la possibilità di ottenere degli streaming puliti creando delle campagne di Ads e retargeting sui vari social o motori di ricerca, o condividendo i propri brani sui vari gruppi e forum. Anche con un budget ridotto di alcune centinaia di euro mensili si possono ottenere dei buoni risultati e far crescere la propria fanbase e gli streaming. Quali sono le collaborazioni che stai portando avanti in questo momento? Da poco ho fatto uscire questo sample pack di beatbox. Ho creato tutto io, i suoni, la grafica, i video per i social, il sito e ora sto lavorando al marketing e alla promozione. Da poco tra l’altro è uscita “Fresh”, una mia collaborazione con il DJ/ Producer Sardo Ekl. Sto inoltre lavorando a dei nuovi brani musicali dance - R&B sia strumentali che cantati e conto di farli uscire nei prossimi mesi. Vorrei chiederti di più sul tuo Sample Pack… Ho lavorato a questo sample pack - tra l’altro il primo di questo genere in Italia - per circa due anni. Ho registrato i suoni e loop per diversi mesi con vari microfoni, selezionando poi con cura quelli che ritenevo più interessanti e originali. Tutto quello che sentite all’interno del sample pack è stato prodotto solo con la mia voce, in alcuni casi manipolata con vari effetti. I loop contenuti nella libreria vanno da 92 a 175 BPM. Vanno bene quindi sia per produttori hip-hop, che drum and bass, techno, etc. Dentro ci sono 600 MB di suoni e oltre 580 loops, one-shots e tracce MIDI, che i producer possono usare gratuitamente nelle proprie produzioni 100% Royalty free. I produttori possono utilizzare sia i suoni singoli che creare dei veri e propri brani col solo utilizzo del sample pack, a patto che mi citino nei crediti del brano. Sinora il feedback ricevuto è stato davvero molto positivo. Che messaggio vuoi dare con questo particolare free-sharing? Il free download a mio parere è un ottimo strumento per far conoscere a un gran numero di persone chi sei e cosa fai. Voglio prima di tutto far girare il mio nome tra i producer, i musicisti e iniziare nuove collaborazioni partendo proprio dal sample pack! Certo, avrei potuto metterlo a pagamento e guadagnarci qualcosa, ma sinceramente non mi importa. Preferisco diffonderlo gratuitamente in rete. Sono molto curioso di sentire cosa tirano fuori i producer con tutti questi suoni!
free download ho scoperto un sacco di musica che non avrei mai conosciuto o che magari ci avrei messo anni prima di scoprirla. Abitando in Sardegna poi non era affatto semplice reperire CD o Vinili originali di importazione. A quel tempo inoltre una TV Sarda trasmetteva MTV UK e avevo scoperto un sacco di musica che purtroppo nei negozi non riuscivo a trovare. Rimanevo sveglio sino a tarda notte per registrare il programma “Chill Out Zone” che trasmetteva i video di Aphex Twin, Autechre, Orbital, Future Sound of London, o registravo le puntate di “Suoni e Ultrasuoni” su Radio2, appuntamento dedicato alle nuove uscite elettroniche. La musica può rimanere un hobby o diventare un lavoro, dipende da cosa uno vuole ma spesso anche dalla fortuna e dalle connessioni che si creano nel tempo. Anche se spesso far diventare il fare musica un lavoro vero e proprio non è semplice, specialmente di questi tempi. Non sono molti i produttori musicali che conosco che vivono al 100% di musica. Specialmente adesso durante questa pandemia che ha tagliato le gambe un po’ a tutti nel settore, ragion per cui molti musicisti si sono reinventati e magari fanno altro. Io personalmente ho scelto di fare un secondo lavoro che mi permettesse di viaggiare, star bene e continuare a fare la musica che mi piace, magari a un ritmo un po’ più lento rispetto a chi produce full time ma comunque non mi lamento. Spero sempre che prima o poi questa mia grande passione diventi un lavoro a tempo pieno. Rimane sempre un sogno che spero si avveri presto. Never give up! Da dove arrivano tutte le influenze e inflessioni musicali che hai? Dalla mia curiosità e voglia di scoprire sempre suoni nuovi. I miei ascolti sono molto variegati. Un giorno potresti trovarmi che ascolto Mozart o Esquivel, un altro magari disco-funk o Italo Disco, l’altro ancora il Jazz di Thelonious Monk o il prog-rock de Il Balletto di Bronzo, il metal dei Sepultura, il rock dei Green Day, la techno di Derrick May etc. ma non disdegno neppure il pop mainstream di Madonna, ad esempio. Per me gli album Ray of Light, Music prodotto assieme a Mirwais e Confessions on a Dancefloor, prodotto da Stuart Price) sono dei classici. Se mi piace un disco lo ascolto, senza farmi problemi riguardo al genere o pregiudizi di sorta, non importa il fatto che sia pop, underground… Hai mai fatto veri e propri dischi da solista? O hai intenzione di farne uno? Parlo di dischi canonici, nel vero senso del termine... No, ancora non ho prodotto un album intero. Alcuni anni fa avevo fatto uscire un EP di rap sperimentale, un EP di remix (tra cui un remix de “Il senso dell’Odio” di Salmo con cui vinsi un concorso come miglior remix), mentre di recente ho pubblicato un nuovo singolo prodotto assieme a Katy J, una cantante americana di Nashville. Il brano si chiama “Your Life” e lo trovate su tutte le piattaforme di streaming e su YouTube. Che dire, grazie per il tuo tempo e prima di andare ti lascio spazio libero per dire quello che vuoi. Grazie a te per l’intervista. È stato un vero piacere! Potete ascoltare la mia musica, le mie playlist e i miei mixtapes andando nel mio sito www.romogroove.com!
Controllando le tue note biografiche ho scoperto che siamo più o meno coetanei e proveniamo appunto dall’epoca del free download. Tu credi ancora quindi nella musica libera? Come vivi questo con il fatto che la musica è anche un lavoro e andrebbe retribuito? Si, ho iniziato a navigare su Internet intorno al 1995 con un modem a 14.4 bit/s e Windows 3.11 (il modem 56k ancora non esisteva!) e ho vissuto appieno l’epoca dei primi mp3, Napster e il free download. Io sono sempre stato a favore del fenomeno anche perché grazie al
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Odeeno è un produttore musicale classe 1991 della provincia di Napoli. Il suo suono è ricco di influenze eppure molto originale e, sebbene di primo acchito possa essere inquadrato nell’immenso calderone del Lo-Fi, in realtà è ricco e complesso dal punto di vista sia ritmico che melodico. Nel corso degli anni ha pubblicato numerosi dischi e tape per etichette indipendenti internazionali, dal Giappone alla Grecia, passando per il Canada, Spagna e Germania. Lo abbiamo contattato per parlarci di Lostmemory,
Come hai incominciato ad amare la musica? È stato durante i viaggi in macchina con mio padre. Ricordo che aveva una vecchia Fiat Tipo, con dentro quattro audiocassette, che ascoltavamo sempre: Thriller di Michael Jackson, una di Pino Daniele, una di George Michael e quella di Mina e Celentano con la copertina di loro fatti a paperi. Forse non lo sa, ma è stato proprio mio padre a trasmettermi l’amore per la musica, artisti come George Benson, Santana e BB King che spesso ascoltava a casa. Tra l’altro suo cugino, cosa che ho scoperto molto dopo, si chiama Rosario Jermano, ed è stato per molti anni percussionista per Pino Daniele. Più in generale ti posso dire che il mio artista preferito da bambino era Michael Jackson, che è stato il mio primo incontro vero e proprio con la cultura black e la breakdance.
personale di utilizzarlo, sia come campionatore che come multieffetto, rendendolo di fatto il cuore del mio studio di casa, collegato al computer. Computer che tra l’altro è ancora quello che mi hanno regalato nel 1999, quando ho fatto la prima comunione (ride, n.d.r.).
E l’incontro con l’hip hop invece? Da piccolo mi aveva molto colpito il video di Freestyler (ride, n.d.r.). Nel cortile del mio palazzo c’erano i breaker, che avevo visto appunto nel video, e a me piaceva quello che facevano, anche se non capivo bene, e ogni tanto mi avvicinavo. Avrò avuto una decina d’anni. Poi conobbi il figlio di una collega di mia madre, che abitava nel palazzo di fronte, ed era uno di quei ragazzi che ballava. Lui mi spiegò la cultura l’hip hop, il breaking. Con cui ho iniziato, e che ho praticato per quattro anni. Era tutto una sorta di passaparola, con gli altri ragazzi che mi dicevano di guardare Yo MTV Raps, di cui non mi perdevo una puntata. E da lì ho iniziato ad ascoltare Eminem, 50 Cent, Nas, Little Brothers.
A proposito, parlaci un po’ di Lostmemory, uscito in cassetta per la label Spalato Wyale. Per me è un lavoro molto importante perché è collegato ad un sentimento di rinascita e di cambiamento, anche a livello personale. C’è la ricerca di un nuovo sound e di alcune nuove idee che ho cercato di mettere in pratica. Ho cercato di dimenticare chi ero prima e quello che facevo prima. A livello emozionale volevo dare una sensazione di confusione e di dimenticanza, un po’ come quando cerchi di ricordare qualcosa che hai dimenticato e nel farlo magari lo ritiri fuori in maniera confusa. In questo senso credo che la cover, che è stata disegnata da Michele Papetti, sia molto azzeccata. Prima di iniziare a produrre un nuovo disco ho il vizio di passare un paio di settimane ad ascoltare nuova musica, e in questo caso ho ascoltato cose diversissime rispetto al solito.
Come sei passato invece al beatmaking? Diciamo che è stata una cosa tipo 8 Mile, però al contrario (ride, n.d.r.). Perché oltre a breakkare, a fare un po’ di writing, per un certo periodo mi sono anche messo a rappare. Il problema è che mi obbligarono a partecipare ad una battle di freestyle, con tutti i miei amici a guardarmi, e persi subito: fu una specie di trauma. Forse non faceva per me, non era nelle mie corde mettermi così in mostra. Però comunque ero interessato alla musica, e una volta scoperta la figura del produttore musicale mi sono incuriosito, ho deciso di cimentarmi, perché mi piaceva l’idea di essere presenti senza per forza farsi vedere, in maniera più schiva. Come sono avvenuti i tuoi primi approcci? Ho iniziato nel 2009, quando due miei amici mi regalarono un Cd masterizzato con dentro Cubase. Anzi, a dire il vero il mio primissimo approccio fu con un videogioco della Playstation 1 - chiamato Music 2000 - che aveva dentro un sequencer, dei suoni e ti permetteva di fare delle produzioni musicali. Dopo Cubase, che trovai molto complesso, passai a Reason e successivamente a Fruity Loops, che utilizzo ancora come software di riferimento. Iniziai a capirci davvero qualcosa circa un anno dopo. La svolta però è avvenuta nel 2013, quando acquistai l’SP 404, ancora oggi l’elemento cardine del mio setup. L’SP 404 è diventato negli anni uno strumento di culto. Raccontaci del tuo rapporto con questo piccolo gioiello della Roland. A dire il vero il mio sogno è sempre stato quello di prendermi un Akai, volevo l’MPC 2500, versione bianca. Ma non ho mai avuto i soldi per comprarlo, e mi sono dovuto arrangiare. Mi sono organizzato con un PC e un controller midi a pad, e grazie ad alcuni amici ho capito che l’SP 404 poteva integrarsi bene. Nel tempo ho creato un mio modo
Quali altri strumenti utilizzi oggi? Come tastiera utilizzo principalmente una Casio SK-1, che ha un suono Lo-Fi bellissimo. Poi ho anche un Elka Capri Junior, una sorta di organo elettrico, un bellissimo strumento italiano degli anni ‘70, regalatomi da un mio amico. Utilizzo anche tantissime percussioni, che campiono direttamente col microfono dell’SP 404 e poi tratto a livello sonoro. Nel mio ultimo disco Lostmemory, infine, ho suonato per la prima volta la batteria.
Cosa hai ascoltato e cosa ti ha influenzato maggiormente? Molta house, techno, roba tipo Moodyman. Poi tantissima R&B, roba di fine anni ‘90. Ad esempio un beat di Lostmemory riprende la melodia di un pezzo dei Jodeci, risuonata con la Casio SK-1. In generale ho cercato di ascoltare i produttori hip hop da un’angolatura un po’ diversa. Fondamentale è stato il disco house di Madlib a nome Dj Rels, che mi ha fatto capire varie cose sul design delle ritmiche, stimolandomi anche nella creazione di nuovi suoni e per farmi staccare dal campionamento classico e dai loops. Quali sono stati invece i produttori che ti hanno influenzato di più nel tuo percorso, sia italiani che stranieri? Fritz Da Cat, perché 950 è stato un disco pionieristico per il beatmaking in Italia. Bioshi, un nome che purtroppo si sono cagati in pochi ma che mi ha influenzato tantissimo, per molti versi rivoluzionario. Infine Deda, per il suo tocco magico. Per gli stranieri ho questa piramide di cinque nomi: J Dilla, Madlib, Flying Lotus, Knxwledge e Pete Rock. Come vedi oggi la scena del beatmaking in Italia? Secondo me oggi i beatmaker sono più avvantaggiati e anche più bravi rispetto a noi che abbiamo iniziato dieci anni fa. Oggi non dico che basta un tutorial, ma ci sono vari modi per capire le cose. Anche il diggin’ è cambiato, c’è un nuovo approccio al campionamento. I beatmaker che iniziano oggi hanno un rapporto diverso con la tecnologia: è il loro mondo, è tutto molto più immediato. Concludo facendoti qualche nome di artisti che reputo molto interessanti: Lester Nowhere, Sans, Pentola e Mazinga Paddon.
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Ancora una volta la Sicilia protagonista sulle nostre pagine. Dopo aver intervistato nello scorso numero il catanese Movycube questa volta è il turno della messinese Bgirl Alessandrina, 21 anni di puro talento. Seppur giovanissima, ha già vinto numerosi premi a livello internazionale, più volte finalista al Red Bull BC One Italy Cypher e soprattutto rappresentante italiana alle finali mondiali dell’evento nel 2019. Check it!
Ciao Alessandra, e grazie di essere qui. Vorremmo tornare leggermente indietro e contestualizzare un po’ come è nato questo percorso di avvicinamento: stavo appunto leggendo che hai iniziato a 6 anni, dopo una breve passione dedicata alla danza classica. Che ricordi hai di quel periodo? Come quasi tutte le bimbe italiane, sono passata anche io dalla danza classica ma ho subito capito che non era il mio genere. Ho iniziato a ballare breaking vedendo due miei vicini di casa allenarsi nel complesso in cui abito. È stato un colpo di fulmine! Andavo in quel posto ogni volta che si allenavano e cercavo di copiare ed imitare ciò che facevano, rimanendo nascosta in un angolo, senza che loro sapessero nulla. Adesso siamo nello stesso gruppo “Marittima Funk”, dal nome del posto dove andavamo ad allenarsi (Stazione Marittima) ma gli ho rivelato solo dopo essere entrata come avevo iniziato a ballare e grazie a chi. Le cose sono un po’ cambiate negli ultimi anni: oggi molte persone iniziano con il breaking poi scoprono la cultura hip hop, nel migliore dei casi almeno. Avevi già contezza che questa disciplina faceva parte di una cosa più grande o sei rimasta solo affascinata dal ballo ed hai approfondito in seguito? Come detto precedentemente, sono rimasta subito affascinata da questa danza. Ovviamente da piccolissima il mio obiettivo era divertirmi. Se le altre bambine giocavano con le bambole, il mio gioco era quello. Ho iniziato ad informarmi da subito e ho scoperto le origini e la cultura a cui appartiene. Ho anche presentato la tesina di terza media e quella del diploma su questa bellissima cultura. Quindi non sei focalizzata solo sul breaking, cerchi anche di seguire le altre discipline, compatibilmente con i tuoi impegni... Attualmente sono focalizzata al 100% sul breaking, però è importante sapere cosa sia e conoscere la cultura di cui è parte. In futuro chissà, ora per forza di cose sono concentrata sulla mia disciplina. Ti sei quasi subito cimentata con le gare, da giovanissima. Non succede così spesso. Ti vedevi già come un’agonista spinta dalla competizione? La competizione mi è sempre piaciuta. Ho iniziato a competere all’età di 8 anni e a 9 anni ho rappresentato l’Italia in un team di Bgirl in Olanda al “The Notorious Big”, arrivando fino alle semifinali. Oltre la gara di per sé, mi piaceva andare agli eventi perché erano un luogo di condivisione. Facevo tesoro di tutti i consigli e di tutto ciò che vedevo negli altri per poi tornare ad allenarmi e diventare più forte di prima. Quanto conta in questo percorso appunto, la positività, la tenacia e la costanza? Queste caratteristiche in una disciplina come il breaking sono davvero indispensabili? Tutto dipende dai propri obiettivi. Per persone come me, sono indispensabili. Ma ci sono altre persone che invece sono in questo mondo senza un obiettivo agonistico ma solo e soltanto per la loro passione. Ognuno è libero di viversela a modo suo.
Comunque non hai lasciato gli studi, vedo che ti sei laureata da qualche mese: quanto è importante avere un piano B? Anche grazie anche a manifestazioni sponsorizzate da grossi marchi come Red Bull si nota che il “settore” è in crescita, e si stanno aprendo tante porte. I professionisti sono sempre più richiesti per coreografie, pubblicità e lavori in televisione. In Italia si può vivere di quest’arte? Ormai vediamo bboys/bgirls dappertutto, dalle televisioni ai grandi eventi. Attualmente però devo purtroppo dire che in Italia è davvero difficile vivere con questo. Non abbiamo lo stesso supporto che invece troviamo in altre nazioni. Dal 2024 però sarà anche una disciplina olimpica quindi ci saranno sicuramente più opportunità. Personalmente ho aperto due vie diverse e parallele (dal punto di vista lavorativo) e continuerò a perseguire al meglio entrambe le strade. Molti breakers di oggi nascono in palestre o in accademie: anche tu insegni in Accademia ma il tuo background artistico come abbiamo visto è differente, come vedi questa situazione? Io sono cresciuta allenandomi alla stazione marittima di Messina e se tornassi indietro lo rifarei. Sicuramente una palestra offre dei comfort che la strada non ti dà, però non la vedo soltanto come una cosa positiva. È importante ricordare da dove siamo venuti e rivivere quella atmosfera, ci vuole un giusto equilibrio tra le due cose. Ad ogni modo, l’importante è viversi la propria passione e ballare dappertutto. Parliamo ora dell’aspetto relativo ai contest: stavo rivedendo l’edizione 2021 del Red Bull Bc One Cypher e ti faccio ancora i complimenti per la performance. Ho notato comunque più sorrisi fra voi bgirl che fra i vostri colleghi di sesso opposto. Mi sbaglio? C’è una grande differenza tra l’atteggiamento in battle e quello al di fuori. È una degli aspetti del breaking che mi piace di più. Ci sfidiamo sul floor fino all’ultimo sangue, ma appena finisce la sfida siamo tutti super amici e ci aiutiamo a vicenda sia nel breaking che nella vita. Sotto questo punto di vista non ho mai visto differenze tra i due sessi. Due anni di pandemia hanno avuto ripercussioni in tutti i settori, compreso il vostro. Volevo chiederti: le gare senza il pubblico penalizzano la performance? È un valore aggiunto rilevante quello del “tifo”? Sì, le gare senza pubblico penalizzano sicuramente la performance. Quando sono sul floor, amo interagire sia col mio avversario che con il pubblico. Senza nessuno attorno a me, non si crea quell’atmosfera che mi porta a fare uscire il meglio di me. Il mio obiettivo principale è sempre stato divertirmi e fare divertire. Hai una discreta esperienza internazionale maturata grazie ai numerosi contest a cui hai partecipato: che rapporto hai con il panorama estero, quali sono le differenze principali che hai riscontrato rispetto al nostro Paese? Come detto prima, in Italia non abbiamo ancora molta gente (sia nel privato che nel pubblico) disposta a sponsorizzare un evento o un ballerino per far crescere la scena. Quindi ci sono meno eventi ed opportunità. Ma il livello in Italia è comunque molto alto e non vedo differenze sotto il punto di vista dei valori che questa cultura ci insegna.”
Il ricordo più bello relativo ad una gara vinta? Uno dei più belli è sicuramente associato alla vittoria del Red Bull Bc One Italy 2019. Reduce da un lungo stop dovuto ad un infortunio, ho messo tutta me stessa per riuscire a partecipare alla prima edizione italiana. Avevo solo due settimane a disposizione per prepararmi e grazie al supporto dei medici e del mio preparatore atletico, sono riuscita ad arrivare su quel palco. Una volta salita su quel palco, mi sono sentita subito nel mio mondo. Ero super felice di essere tornata a competere. Quando ho vinto, ho sentito il calore da parte di tutti ed una forte emozione dovuta all’aver vinto la sfida con me stessa oltre a quella contro le mie avversarie. Ti faccio una domanda delicata ma di stretta attualità, che prende spunto dalla “brutta” storia di molestie sessuali che ha coinvolto Crazy Legs e di riflesso la Rock Steady Crew. Una storia che insegna che siamo ancora lontani dal risolvere la questione delle discriminazioni di genere: tu sei mai stata diretta o indiretta protagonista di atteggiamenti del genere? No, personalmente non ho mai avuto problemi del genere. Sono in questo mondo dall’età di 6 anni e ho conosciuto tantissime persone stupende sia italiane che di nazionalità estera. I bboys rimangono comunque persone quindi, come esistono brutte persone nel mondo, le stesse possono essere presenti anche nella nostra scena ed è importante “smascherarli”, in modo da proteggere le altre ragazze. Invece questa è di pura e semplice curiosità: quali sono i tre pezzi su cui non ti stancheresti mai di ballare? Ce ne sono tantissimi ma nomino i 3 classiconi con i quali sono cresciuta: The Jimmy Castor Bunch - “It’s Just Begun”, James Brown - “Get on the Good Foot“ Babe Ruth - “The Mexican”. Una domande banale ma di rito: qual è la tua powermove preferita? La mia powermove preferita è il windmill perché farla mi dà una sensazione particolare e bellissima. Mi sento come se fossi un tornado. Difficile da spiegare. Quella più caratteristica e classica è invece l’headspin perché è una delle prime che io abbia imparato e ho tanti bei ricordi legati a questa powermove. 2024, Olimpiadi di Parigi. Ci sarai anche tu con la squadra italiana. Come valuti l’inserimento del breaking nel programma olimpico? Attualmente sono nella Nazionale italiana ma non si hanno ancora certezze. Le convocazioni definitive avverranno molto più avanti. Sicuramente darò il mio meglio per essere presente. Valuto l’inserimento del breaking alle Olimpiadi come una cosa positiva. È un’opportunità in più che però non rimpiazza ciò che già abbiamo, è importante ribadirlo. La vedo come una via parallela alla nostra: uno può decidere se percorrere entrambe le vie o se rimanere nella via in cui si è già (con i battles undeground, jams e tutto quel che abbiamo da tempo). I vari insegnanti delle scuole di danza e palestre che hanno corsi sulla disciplina hanno adesso l’importante responsabilità di far capire ai ragazzini che si avvicineranno nel momento in cui vedranno le gare olimpioniche che il breaking è più di quello. Molto più di quello. Sarà necessario educare la generazione che entrerà nel nostro mondo a breve. Ultima domanda e chiudiamo: so che sarai ancora giovane, ma come ti vedi fra dieci anni? Tra dieci anni mi vedo sicuramente migliorata in tutti gli ambiti. Ma non mi sbilancio più di così. Per adesso voglio concentrarmi al massimo sul presente e vedremo quel che succederà.
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Tutto è iniziato nel 1997, inizialmente ero molto interessato alla disciplina del Breaking. Il ballo ti porta sempre a quell’idea di far festa e la gente del mio quartiere in quegli anni pensava solo al divertimento! Allo stesso modo non era semplice vivere il quotidiano provenendo da un quartiere difficile e in preda alla disperazione, al degrado e sommerso dalla droga. Pur avendo solo 13 anni, in quel contesto, cercai di vedere oltre per programmare un futuro diverso da quello che vedevo improntarsi negli amici più grandi di me. Quando la cultura Hip Hop prese piede e iniziò a darmi una nuova essenza alla realtà formale, la mia passione per il disegno mi portò ad un collegamento diretto con il Writing. Il senso intrinseco dei graffiti fece in modo che la mia vita venisse travolta, fu lì che vidi oltre e l’entità da writer mi fece respirare la stessa strada in maniera diversa. Un giorno un amico, vedendomi fare un footwork, disse: “cazzo sei veloce e preciso come una freccia!” Da quell’episodio Freccia diventò il mio nickname. Contestualizzato al writing lo trasformai nella tag Fre1, abbreviazione di freccia più il numero 1, ovvero il mio numero civico. Wild style è il mio stile.
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