nb. I linguaggi della comunicazione

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Euro 12,00

I LINGUAGGI DELLA COMUNICAZIONE


Triennale Design Museum time design, design time 11 ottobre 2011 – 8 gennaio 2012

Triennale di Milano viale Alemagna 6 – Milano triennale.org triennaledesignmuseum.org

Main Par tner

Par tner fondatori Triennale Design Museum

Par tner istituzionali Triennale di Milano

Par tner tecnici





Aiap Woman Design Award* è il nuovo progetto di Aiap. Un premio biennale pensato e rivolto alle designer della comunicazione visiva, nato per conoscere e indagare lo scenario della grafica al femminile e dare visibilità ad un universo di eccellenze poco note. Il premio nasce all’interno di un percorso tracciato da Aiap attraverso la ricognizione del lavoro di tante progettiste che ha arricchito e continua ad arricchire il patrimonio del progetto grafico italiano. L’Aiap WDA ha lo scopo di portare alla luce la “grafica al femminile”, non con l’obiettivo retorico di celebrarlo, ma di ricercare linguaggi e approcci differenti al progetto grafico, altrimenti sconosciuti, così come di esaltare l’eccellenza, valorizzandone il carattere distintivo. * Nato da un’idea di Laura Moretti


Il premio vedrĂ la sua fase conclusiva attraverso la realizzazione di una mostra

Apertura

e di un primo catalogo ove saranno esposti

del bando

e pubblicati solo i progetti selezionati

coming soon.

da una apposita giuria internazionale.

Sede: via Amilcare Ponchielli, 3 20129 Milano | Tel. 02 29520590 | Fax 02 29512495 | aiap@aiap.it




In questo numero In this issue I. Nota Bene. Editoriale/Editorial

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II.Osservatorio / BirdWatching Strategia/Strategy Comunicare con (o senza?) linguaggio Communication with (or without?) language Gillo Dorfles

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è la memoria della scrittura a restituire la scrittura della memoria. It is the memory of writing which will restore the writing of memory.

Interni/Interiors Il corpo dell’arte The body of art Intervista ad Achille Bonito Oliva

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Il risveglio sta divenendo prossimo. The reawakening is upon us.

Rappresentazioni/Representations La memoria iperreale Hyper-real memory Fulvio Carmagnola

Talvolta per ricordare meglio, dobbiamo dimenticare qualcosa. Sometimes to remember well, we have to forget something.

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Viviamo sempre in differita. We are always behind.

Personale/Private La pornografia degli angeli Pornography of the angels Enrico Ghezzi

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Reality show Fuori fuoco Out of focus intervista ad Alessandro Bergonzoni

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Io della comunicazione sono stanco! I am tired of communication!

Immagini/Images Reset Marco Delogu

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Nascere ogni volta con un senso diverso. Born every time with a different sense.

III.Lifescapes 47

La memoria crede di essere vera, l’immaginazione sa, o dovrebbe sapere, di essere falsa. Memory believes it is true, the immagination knows, or should know, it is false.

Brainframes Matrice Matrix Menotti Calvani

Sopravvivenze/Survivals Le stanze della coscienza The rooms of consciousness intervista a Edoardo Boncinelli

La macchina da presa che è in noi, il noi che è nella macchina da presa. The movie camera that is in us, the us that is in the movie camera.

L’artista non è un inviato speciale della realtà, ma un inviato speciale contro la realtà. The artist is not a special correspondent of reality, he is a special correspondent against reality.

Visioni/Visions Della grandezza dei sogni On the greatness of dreams Ruggero Pierantoni

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La cultura fa parte della percezione. Culture is part of perception.

Fino a che punto il nostro patrimonio cognitivo è legato al problema della comunicazione? To what extent is our cognitive heritage linked to the problem of communication?

Scritture/Writings Script Giovanni Lussu

Sistemi/Systems Meccanismi Mechanisms Lamberto Maffei

Luoghi/Places Geografie dell’altrove The geographies of elsewhere intervista ad Antonio Moresco

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Se questo spazio sembra colonizzato e precluso, bisogna inventarcene un altro. If this space seems colonized and barred, we have to invent another one.

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Frontiere/Frontiers La città e la sua ombra The city and the its shadow Enrico Menduni La notte resta il dominio dell’altro. The night remains the dominion of the other.

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Transiti/Transits Senza fissa dimora No fixed address intervista a Marc Augé

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Lo spazio pubblico contemporaneo è uno spazio in cui non si conosce, ma si riconosce. Public space today is a space in which one does not know, but one recognises.

Forme/Shapes La città degli dèi The city of the gods intervista a Enzo Mari

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IV. Semafori / Traffic lights 195

La pubblicità ha diritto a una sua storia? Has advertising the right to its own story?

Adv Art La pubblicità fa bene, se fatta ad arte Advertising is a good thing, if it is artfully done Conversazione di Fulvio Caldarelli, Aldo Colonetti, Gillo Dorfles Eni e il bello della comunicazione. Eni and the beauty of communicating.

Parole/Words Il rosso dell’uovo The heart of the matter Intervista ad Andrea Camilleri

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Costumi/Uses Amarcord Enrico Cogno

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Memoria come macchina della metafora. Memory as a device for metaphor.

Disegnare per l’uomo significa rispettare il tempo e lo spazio delle nostre ventiquattro ore quotidiane. Designing for man means respecting the time and space of our daily twenty four hours.

Pubblicità/Advertising Annales Marco Vecchia

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La mia ambizione è assolutamente questa: essere un moderno cantastorie. My ambition really amounts to this: to be a modern storyteller.

Il marketing è l’esatto opposto della democrazia. Marketing is the exact opposite of democracy.

Evoluzioni/Evolutions Le ore del design Time of design Aldo Colonetti

Testo a fronte Tradurre Traslating Ilide Carmignani, Luis Sepùlveda

Senza traduttori saremmo tutti più lontani e soli. Without the translators we would all feel more distant and more alone.

Come cambia il paesaggio urbano. How the urban landscape changes.

Mappe/ Maps Don’t brand the city Intervista a Ruedi Baur

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Il jazz ha influenzato tutte le arti, anche quelle che sembrano non essersene accorte. Jazz influenced all the arts, even those which seem not to have noticied.

è necessario che gli artefici della città siano degli artisti. We need that the creators of the city to be artists.

Contorni/Outlines London, Zürich, Milano Reportage fotografico di Luigi Fiano

Note/Notes Il tasto giusto The right button intervista a Stefano Bollani

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Primo Piano/Close up Technological graveyard Alan Fletcher

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Nota Bene è un avvertimento antico. Un invito a soffermarsi su nuove relazioni di significato, un suggerimento a percorrere nuove direzioni di senso. Come in una reazione chimica, all’autarchia delle moli si contrappone la disponibilità al legame delle molecole di sapere. Questo nuovo numero segna la ripresa di un discorso interrotto, ma il cui messaggio - certamente ambizioso – rimane lo stesso: approfondire aspetti che reclamano la giusta attenzione con la complicità di competenze apparentemente distanti; tante quante sono ormai le componenti culturali e produttive coinvolte nella progettazione e nella realizzazione della società della comunicazione. E allora, Shake the wor(l)ds: agitare parole e mondi prima dell’uso. La selezione dei migliori contributi pubblicati sulle pagine di NB (1999-2010) e testi inediti. Il risultato: una nuova pozione di approfondimento sulla società della comunicazione, con il gusto della contaminazione. Perché lo stato delle cose funziona sempre più attraverso spinte molteplici - spesso anche contraddittorie - tanto che è impossibile venirne a capo se non abbracciamo una pluralità di visioni come promessa di conoscenza. Rischiamo sempre più di vivere nel nostro ‘appartamento’, cittadini di uno scenario urbano tanto sovramoderno quanto irreale. E quando percorriamo le nostre città, oscilliamo tra riflessi condizionati e istinti di ribellione alla cartografia di spazi strategicamente commercializzati e metodicamente prescrittivi: il branding urbano descritto da Ruedi Baur. Una città senza nome, orfana di una definizione condivisa nella quale le diverse soggettività possano riconoscersi e trovare cittadinanza. La città del passato, la città degli dei descritta da Enzo Mari, possedeva modelli culturali e linguistici peculiari che ne decretavano la particolare identità. A questa città se ne è aggiunta un’altra che accoglie in sé tutti i moderni centri abitati. Senza dubbio la lettura di un brano urbano è implicita, se non automatica. Ma in risposta al sovraffollamento di materiale simbolico,

rischia di divenire fin troppo selettiva ed autistica, e la città invivibile è, innanzitutto, un testo illegibile. Esistono poi tragitti obbligati che non possiamo scegliere di abbandonare perché non appartengono alla topografia dei centri urbani ma a quelli, altrettanto intricati, dei circuiti nervosi cerebrali. Di fatto, spiega Edoardo Boncinelli, la mente è sempre l’ultima a sapere. Ne emerge una vita costantemente in differita, un lifescape che nell’accelerazione di questa nostra epoca è in cerca di un’anima da dare a se stesso e ai suoi abitanti. In tempi di modernità liquida, proprio l’interazione e il dialogo rappresentano l’antidoto alla sterilità di certe pratiche di progetto. La nostra è la cultura del segno. Qualcuno pensa alle forme dell’arte, e immagina i primi graffiti, i primi vagiti dell’immaginazione senza tempo, senza luogo e senza parola. è questa l’immortalità di segni che sono muti ma che, in realtà, gridano tanto forte da essere capiti senza dover pensare. Forse l’immaginazione rimane ancorata a forme di espressività che sfuggono ad ogni tentativo di programmazione, perché essa sembra rifiutare il linguaggio matematico. La relazione che la lega alla sua espressione fisica è troppo sottile per essere condivisa esclusivamente con il linguaggio della logica. La sua connaturale irriducibilità a formule e dogmi è alla fine la sua forza: nascere ogni volta con un senso diverso. Come da tradizione, l’invito al nostro lettore è quello di prendere parte alla conversazione in sommario, per ritrovare convergenze inattese e registrare inconciliabili divergenze. Anche questa volta la composizione è polifonica e, nelle sue variazioni sul tema, non teme dissonanze e varietà di registri. Perché, a ben notare, complesso non vuol dire complicato.


Nota Bene’s message is an ancient one. An invitation to pause over new relations of meaning, a suggestion that we travel in new directions of sense. As in a chemical reaction, the autarchy of the moles contrasts with the willingness of the molecule bond to know. In this new issue we are resuming an initiative after an interrupted discourse whose message – ambitious, it is true – remains what it was, to look further into those aspects which demand the right attention together with the complicity of apparently distinct skills, as many, by now, as the cultural and productive components involved in the projecting and realisation of a communication society. And so, Shake the wor(l)ds: shakes words and worlds before use. A selection of the best entries published on the pages of NB (1999-2010) and texts never before published. The result: a new and in-depth look at the communications firm, one that likes contamination. It is increasingly obvious that the state of things tends to work by means of multiple, often contradictory, drives which we cannot sort out, unless we use an embrace a plurality of visions, a promise of knowledge. The risk is that increasingly we find ourselves living in our ‘apartment’, dwellers in an urban scenario as ultra-modern as it is unreal. And, passing through our cities, we oscillate between conditioned reflexes and instincts of rebellion against the cartography of strategically commercialised and methodically prescriptive spaces: the urban branding descripted by Ruedi Baur. A nameless city, deprived of a shared definition in which the different subjectivities might recognise themselves and find citizenship. The city of the past, the city of the gods descripted by Enzo Mari, possessed particular cultural and linguistic models which decreed the singularity of their identity. Another city has been added now which has received into itself all modern inhabited centres. Without doubt, the reading of an urban piece is implicit, if not automatic. But as a response to superabundance in symbolic material, it risks becoming just too selective, too autistic and a city which is not liveable is basically an illegible text. And then there are the inevitable passages which we can-

not choose to abandon because they do not belong to the topography of urban centres but those - just as intricate - of cerebral nerve circuits. In actual fact, Edoardo Boncinelli explains, the mind is always the last to know. What emerges is a life constantly deferred, is a lifescape desperately seeking a soul for itself and its inhabitants. Because in times of liquid modernity, it is indeed interaction and dialogue which act as antidotes to the sterility of certain practices concerning projects. Ours is the culture of the sign. Some think of forms of art and imagine the first graffiti, the first stirrings of the imagination outside time, without place and without the word. This is the immortality of signs which are mute but which in actual fact, are crying out so loud they are understood without thinking. Perhaps the imagination remains anchored to forms of expressivity which elude every attempt at programming, because they seem to reject mathematical language. The relation which joins it to its physical expression is too subtle to be shared exclusively with the language of logic. Its innate irreducibility to formulae and dogmas is, in the end, its strength. To be born every time with a different sense. As always, the reader is invited to participate in the conversation and rediscover unexpected convergences, register irreconcilable divergences. This time too, the composition is polyphonic and in its variations on a theme it is not afraid of dissonances and register varieties. To be sure, complex does not mean complicated. F.C, M.R.


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OSSERVATORIO BIRDWATCHING

_NB. Nuova serie, n.1, Anno III


–Strategia/Strategy

Comunicare con (o senza?) linguaggio Communication with (or without?) language Gillo Dorfles

Fino a che punto il nostro patrimonio cognitivo (o se preferiamo il nocciolo d’ogni nostra conoscenza) è legato al problema della comunicazione? E fino a che punto questa comunicazione dipende dalla conoscenza dei diversi linguaggi che ne sono alla base e dai mezzi in grado di trasmetterci tali linguaggi? Ecco solo alcuni dei tanti quesiti la cui risposta è già in parte scontata; ma che, tuttavia, richiedono un minimo di precisazione per raggiungere una giusta maniera di intendere il complesso e sempre mutevole problema della comunicazione. Due dei quesiti che spesso creano incertezza in questo settore e ne rendono problematica una chiara esegesi si possono identificare nei seguenti punti: 1) la convinzione che il fattore comunicativo sia già implicito nel vasto e sempre più pleonastico territorio dei mass media; 2) l’abbaglio di credere che le informazioni ottenute attraverso i normali canali di cui disponiamo (scrittura, stampa, telecomunicazioni, ecc.) coprano, già di per sé, ogni possibile e ipotizzabile area semantica. E cioè che non si dia una necessità di ammettere l’esistenza di quelle aree di solito trascurate tanto dai linguisti che dai semiologi, riferibili ad altre modalità informative e percettive: eidetiche, immaginative, rappresentative, simboliche, che pure costituiscono un decisivo quoziente informativo ed espressivo del nostro pensiero. Il primo abbaglio porta a prestare una fede cieca in quelli che sono i canali ormai consolidati d’ogni trasmissione massmediatica; senza tener conto di quell’immenso settore che sfugge a questi mezzi e che si trova inglobato in ambiti più nascosti: nell’ambito propriocettivo (più o meno inconscio), in quello cinesico, motorio, ecc.; spesso ignorati o non valutabili dai media in questione. Un secondo abbaglio è da ricondurre alla costante prevaricazione concessa al linguaggio verbale (scritto, stampato, parlato, ecc.) a sfavore di quelli visivo, figurativo, corporeo, che, invece, presentano molteplici e decisive estrinsecazioni (non solo oggi ovviamente, ma da sempre) e precisamente nel settore della musica, delle arti visive, della danza, ma anche della cinesica, nella grafica (pubblicitaria e non), nella notazione

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ideogrammatica, musicale, ecc. Questa rivista - proprio perché ideata come un trait d’union posto a cavallo tra livello verbale e visivo - cercherà di colmare il gap esistente tra parola scritta e ‘voce parlante’ (la phoné di Carmelo Bene); tra grafica, come mezzo di immediata informazione visiva e persuasiva, e pittura, scultura, architettura, considerate come forme artistiche a sé stanti e il cui valore comunicativo è spesso minore ai nostri giorni di quanto non fosse in passato, proprio per l’usura cui è andato incontro il loro linguaggio specifico rispetto a quelli del video, del film, della TV, del design. Ecco, dunque, perché l’intenzione e la speranza degli ideatori di questa rivista sono quelli di poter finalmente illuminare molte di quelle zone oscure entro cui la normale comunicazione multimediale di solito non interviene; e, al tempo stesso, di perfezionare la comprensione e di precisare i limiti entro i quali i linguaggi ormai codificati di cui ci serviamo hanno ancora sempre una loro prevalenza, o per contro mostrano già alcune inevitabili e inarrestabili deficienze. È solo in questo modo che i dati della linguistica, della semiotica, della critica d’arte, potranno diventare ‘complici’ dei massmedia e delle loro diverse categorie ma anche fautori d’una attività creativa, vuoi entro l’universo della comunicazione di massa, che in quello - ancora in parte ‘manuale’ e non totalmente tecnologizzato - della grafica, dell’artigianato e delle arti corporee. [english]To what extent is our cognitive heritage (or if we prefer, the kernel of our knowledge) linked to the problem of communication? And to what extent does this communication depend on a knowledge of the different languages which constitute its foundation and the means which transmit such languages? These are only some of the many problems whose solution we can partially take for granted, but which require some explanation if we wish to arrive at a clear understanding of the complex and ever-changing problem of communication. Two of the problems which often create uncertainty in this sector and make a clear interpretation difficult can be identified in the

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Iscrizione Maya su legno (Michael D Coe e Justin Kerr, The art of the Maya Scribe, Harry N.Abrams, New York, 1998) Maya inscription on the wood

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–Scritture/Writings

Script Ben consolidata, nella nostra cultura, è l’idea che la scrittura abbia a che fare con la memoria. È Platone, in un celebre passo, che ha reso indissolubile questa associazione, pur se in chiave radicalmente negativa. Ecco come Socrate, nel Fedro, racconta il mito egiziano dell’invenzione della scrittura. Il dio Theuth porta vari doni all’umanità, ma Thamus re di Tebe, che li riceve, dopo aver apprezzato i numeri, la geometria e il gioco dei dadi, rimane perplesso di fronte alla scrittura:“Col non far esercitare la mente essa produrrà l’oblio nell’animo di chi studia; confidando nella scrittura, egli non ricorderà le cose dal di dentro, pensandoci di per sé, ma dal di fuori, per mezzo di impressioni esterne. Quel che hai inventato non è quindi il farmaco che dà la memoria, ma solo uno strumento per far tornare in mente le cose; non sostanza di sapienza, ma solo apparenza”. Trasferendo la memoria su un supporto esterno, intendeva Platone, non si sarebbe più addestrata alla corretta conoscenza questa qualità sostanziale dell’intelletto. Il tanto abusato adagio verba volant scripta manent esemplifica però il rapido e definitivo capovolgimento della critica di Platone. Con la diffusione della scrittura e poi della stampa tramontano infatti le sofisticate tecniche mnemoniche tramandate dall’antichità, come ci ha così fascinosamente raccontato “L’arte della memoria” di Frances Yates, e questo metodo di rappresentazione grafica che è la scrittura assume il senso che oggi ci è familiare, di protesi della mente. Ma è proprio vero che le parole si involano e che gli scritti permangono? Non sarà forse che sempre sono le parole a essere comunque ricordate, con i loro suoni piuttosto che con le loro forme? Non sarà che, quando si legge, i segni vengono uditi piuttosto che visti? Si pensi a quanta poca memoria si ha in realtà della scrittura: quanti lettori, anche appassionati ed esperti (e tanto più, forse, se appassionati ed esperti) sono in grado di ricordare qualcosa della forma delle lettere che hanno appena letto? Non sarà allora che Platone avesse un po’ ragione, che avesse precocemente individuato uno specifico difetto del sistema alfabetico in questa presunzione

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Giovanni Lussu

che gli è propria di voler rappresentare il discorso parlato, in questo ossessivo quanto illusorio tentativo di fissare una corrispondenza tra lettera e suono? A cosa serve poi oggi, a ben vedere, l’aspetto trascrittivo della scrittura? Non abbiamo invece bisogno, al contrario, di organizzare e strutturare la comunicazione, ben aldilà dei limiti del discorso verbale? La scrittura, a ben vedere, è un’altra cosa. La scrittura sta tutta proprio nell’avere una forma, una forma visibile, e nel dispiegare bidimensionalmente i propri segni, nel frantumare e scavalcare il ristretto vincolo lineare e monodirezionale che è proprio della lingua parlata; et par des traits divers de figures tracées, donner de la couleur & du corps aux pensées (e per mezzo di tratti diversi di figure tracciate, dare colore e corpo ai pensieri), come scriveva Pierre-Simon Fournier nel 1764 in apertura del suo Manuel typographique. Non sarà che ancora dobbiamo capirla, ancora dobbiamo imparare a utilizzarla, questa capacità della scrittura di estendere la mente, di dare colore e corpo ai pensieri? Ci si potrà arrivare solo sbarazzandoci del pregiudizio alfabetico, abbandonando i frusti schemi che pongono l’alfabeto all’apice imperfettibile di un presunto progresso evolutivo, cominciando a riconoscere che altri sistemi di scrittura (quelli mesoamericani, certo, ma anche quello cinese, ad esempio, così vitale e dinamico, e quello coreano, così ben organizzato e funzionale) hanno assai più del nostro sviluppato sintesi sostanziali tra pensiero e forma. Ci si potrà arrivare solo costruendo un nuovo paradigma, che consenta di separare la scrittura dalla lingua parlata e di reinserirla pienamente nel suo ambito naturale, nell’universo dei sistemi di rappresentazione grafica. Ci si potrà arrivare solo imparando a guardare, e in particolare a guardare caratteri e lettere. È un processo in atto, portato avanti proprio (e quasi per paradosso) dalle tecnologie elettroniche che anni fa sembravano averlo bloccato: l’ampliamento dei 256 segni dello standard ASCII con i 65.536 di quello Unicode (compresi cinese, coreano, devanagari, tibetano, giapponese ecc., ecc.),

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Leon Battista Alberti, Basilica di S. Maria Novella, Firenze. Leon Battista Alberti, Basilica di S. Maria Novella, Florence.

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–Interni/Interiors

Il corpo dell’arte The body of art Intervista a/interview with Achille Bonito Oliva

Istinto d’artista. La forze che generano un’opera d’arte sono ben altro del colpo di genio? La mia è una formazione e un’avventura intellettuale che trae origini dal pensiero negativo, dalla filosofia tedesca e dallo strutturalismo francese. Il senso di questa domanda è quanto mai attuale: definire quali siano le dinamiche che descrivono un’opera d’arte, sia nella sua fase di produzione che di fruizione, è ancora oggetto di discussione. Una mia possibile risposta è ancora sintetizzata nel titolo del primo libro che ho pubblicato quarant’anni fa, Il territorio magico, con l’intenzione di proporre una lettura dell’arte sia nella prospettiva interna di colui che la produce sia nella prospettiva esterna del pubblico e della società a cui si rivolge. Senza dubbio l’arte risponde in prima istanza a un istinto individuale dell’artista che poi, all’esterno, incontra una lettura capace di contestualizzare e allargare l’impulso soggettivo all’intera società. L’arte ha una valenza antropologica: è il tentativo da parte dell’artista di ‘riparare’ col suo gesto a una parzialità in cui il mondo lo sottopone, per restituire un legame all’idea di totalità e ricongiungersi con il mondo. Attraverso l’atto creativo, l’artista elabora il lutto di un distacco. Perché l’arte rifonda una speranza, un desiderio di totalità. Arte come produzione biologica... O come respiro biologico. Sulla biologia dell’arte ha scritto dei bellissimi testi Rosario Assunto, filosofo solitario e coraggioso che ha saputo restituire molto bene questa idea dell’arte che ripara a un lutto, del gesto creativo che restituisce totalità al soggetto che lo compie. L’arte, attraverso i suoi specifici strumenti e il suo linguaggio, si pone sempre in rapporto dialettico con il mondo esterno. “L’arte puntata sul mondo”, per citare Picasso. In questo senso l’arte possiede una costante e inevitabile valenza politica che però non assume la forma del ‘ricalco’: non passa attraverso l’emulazione o il complesso di inferiorità che invece colpì molti artisti e intellettuali nel ’68. Persuasi che l’arte fosse una risposta, una soluzione ai problemi dell’umanità, moltissimi

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in quel periodo divennero angeli custodi del ciclostile. Mentre l’arte è una domanda sul mondo. E tende sempre a risposte problematiche. Proprio in virtù delle problematicità sollevate l’arte assume una valenza politica. Perché, in un contesto anestetizzato dalla spettacolarizzazione telematica, l’arte è chiamata a catturare l’attenzione e scuotere l’immaginario collettivo. Un’opera deve massaggiare il muscolo anestetizzato e atrofizzato di una contemplazione collettiva che si è ridotta a quella che io chiamo ‘sensibilità pellicolare’. L’arte buca l’indifferenza e riveglia criticità assopite. è come un sistema di allarme: ci interroga su ciò che vogliamo percepire e allerta su ciò che non decidiamo di consumare. Il linguaggio artistico promuove perciò nuovi processi di conoscenza e, in questo senso, pur nascendo nell’istintualità di un gesto asociale diventa, poi, un gesto sociale. Parafrasando l’affermazione provocotaria di Kokoschka “Assassino, speranza delle donne”, in passato ho scritto “Artista e assassino, speranza della vita”. L’istinto artistico nasce sempre solitario e antagonista: l’artista non è un inviato speciale della realtà, ma è un inviato speciale contro la realtà. Egli non svolge un ruolo calmiere o infermieristico, ma necessariamente allarmato e allarmante. E dunque l’atto iniziale propositivo della creazione è un’atto di autodifesa da parte dell’artista: egli produce bellezza e la bellezza – come scriveva Leon Battista Alberti – è una forma di difesa nella vita. Oppure – come sosteneva Baudelaire – la bellezza è una promessa di felicità. Per questo l’arte è a colori. Non è affatto quaresimale come andavano proponendo nel Sessantotto tanti designer e sentinelle del Nulla, perpretando un riduzionismo autopenalizzante da fioretto controriformistico. Anche se l’arte nasce da una negatività come impluso all’elaborazione di un lutto, il grande miracolo è che supera la dimensione solitaria dell’individuo per diventare un gesto capace di agganciare il sociale e magari sgambettarlo! La grandezza del linguaggio dell’arte risiede proprio in questa sua capacità di arrivare a intercettare la vita e la società. L’arte ha bisogno dello sguardo: è sanamente narcisista. E il narcisismo è il motore ecologico di tutta l’umanità, rap-

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–Visioni/Visions

Della grandezza dei sogni On the greatness of dreams Ruggero Pierantoni

Esiste una variabile assai elementare che interviene continuamente nella nostra percezione del mondo: l’estensione fisica degli oggetti. Se chiamiamo questa variabile, più familiarmente, con la parola “grandezza” non rischiamo troppo. Ma è già abbastanza curioso che la parola italiana scelta, ma questo accade anche in altre lingue, sia “grandezza” e non “piccolezza”. L’abitudine a vivere ci insegna immediatamente che alcune cose che appaiono grandi in un contesto, sembrano insignificanti in un altro. E reciprocamente. Ma non sempre simmetricamente. E questo, anche se le nostre dimensioni corporee non sono mutate tra la prima e la seconda esperienza percettiva con lo stesso oggetto in due diversi contesti. Una serie di condizioni ambientali interviene immediatamente a complicare la questione. Variabili come la distanza, la limitata visibilità, il movimento reciproco, il contrasto luminoso con lo sfondo, il contesto spaziale, la presenza o assenza di un orizzonte riconoscibile come tale, tutto interferisce con il giudizio, che si sarebbe voluto semplice e “puro”. Se, quindi, si tiene conto, e come non si potrebbe?, del resto del mondo le due categorie appaiono confuse e situate in una allarmante continuità o, addirittura, non separabili tra di loro. In questa fase molto preliminare è opportuno introdurre un secondo livello linguistico senza stabilire il quale finiremmo per creare altri “paradossi di Zenone” che intralcerebbero (faciliterebbero?) il nostro cammino. Questo secondo livello ha a che fare con la differenza tra le cose e le loro rappresentazioni. Cioè tra la caraffa di cristallo sul mio tavolo e una sua “rappresentazione”. Per esempio una fotografia, un dipinto, una incisione, una simulazione in Auto-Cad, un fotogramma, un tumb nail in JPG, che “rappresenta” la caraffa di cristallo. Tutte queste rappresentazioni avranno una caratteristica comune; guardandole, vi riconosceremmo la caraffa. Tito Lucrezio Caro sarebbe soddisfatto di questo. Più di duemila anni dopo utilizziamo un concetto che è alla base del suo “De Rerum Natura”: l’idea di “eidola”. Un “eidolon” è una sorta di copia di un oggetto, copia conforme all’originale che, forse, ne condivide le dimensioni. La natura, la forma,

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la consistenza, i movimenti di questi “eidola” suggeriscono in modo irresistibile alcune caratteristiche strutturali di ciò che, adesso, noi chiamiamo “immagini”. Proviamo, ancora una volta, a semplificare il glossario: “figure” saranno le rappresentazioni fisiche di un oggetto, “immagini” le rappresentazioni mentali di un oggetto. È evidente che questo nostro “figure” è analogo all’inglese “pictures”, mentre “immagini” è abbastanza vicino alla parola “images”. Per continuare l’esempio: un dipinto a olio su tela o una fotografia, ma anche un file d’immagini che genera la caraffa su di uno schermo, sarà una “figura”, una “picture” di quell’oggetto specifico. Quello che “vedo” se chiudo gli occhi e immagino la caraffa è una “immagine”. Torniamo alle dimensioni fisiche degli oggetti. La caraffa è misurabile con un regolo. Per esempio, le affianco un regolo metallico centimetrato poggiato con una estremità sullo stesso tavolo su cui poggia la caraffa e lo tengo verticale e immobile. Quindi, io collego la bocca della caraffa con il regolo metallico mediante un elemento rigido orizzontale, come una squadra scorrevole, e sulla scala incisa sul regolo leggo 26 centimetri. Se intendo misurare anche il tappo, anche esso in cristallo e piuttosto significativo, ripeto l’operazione e leggo 34 centimetri. Un tappo di 8 centimetri! La caraffa è una caraffa con tappo o no? Lasciamo queste trappole e questi tappi lungo la strada altrimenti non arriviamo mai a destinazione. È stato assai facile rendersi conto di come la descrizione verbale dell’operazione di misura si sia fatta piuttosto complessa, anche lessicalmente e non solo sintatticamente, perché è stata introdotta una serie di nuove “idee”: orizzontalità, verticalità, contatto meccanico, allineamento, immobilità, ecc. E, alla fine, sarà assai saggio chiudere un occhio sulla scala “incisa in metallo”, altrimenti, davvero, non finiremmo mai di misurare la caraffa e Achille non supererà mai la tartaruga. E Zenone ne sarà contento. Il nostro scopo è individuare, almeno, il problema sulla dimensione delle immagini. Come visto prima si può, con una certa ragionevolezza, stabilire un confine classificatorio tra

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–Rappresentazioni/Representations

La memoria iperreale Hyper-real memory Fulvio Carmagnola

Partiremo da un’immagine. Nel film Prima della pioggia, che presenta una notevole variante di struttura narrativa basata su un modello di circolarità e di intersezione temporale, c’è una scena nella quale un monaco pronuncia una frase di profonda saggezza: “il tempo non torna mai su se stesso, il cerchio non si chiude”, dice il monaco. Questa sentenza ricorre tre volte, a scandire il racconto e a sottolineare l’intrico temporale della vicenda. La saggezza del monaco induce a sua volta a una riflessione sulla nostra volontà di dominio, che si esprime anche in una manipolazione tecnologica della memoria. C’è la sensazione che proprio l’autopercezione della fragilità, dell’infondatezza e della pluralità delle possibilità che abbiamo visto come caratteristiche del rapporto tra il soggetto e il mondo attuale si capovolga, con la complicità della tecnologia, in una estrema prova di forza con il tempo. Si tratterebbe di una specifica hybris che rifiuta il passaggio, l’accettazione di un depositarsi del presente nel passato che fa parte del fondo primordiale di una memoria del sé biologicamente radicata. è possibile che uno dei versanti della cultura postmoderna esprima questa pulsione di rifiuto, affermando invece una sorta di dominio tecnologico sul tempo attraverso una specifica dimensione della memoria, che ha a sua volta un precipitato fisico in nuove generazioni di oggetti. è iperreale quella memoria che fraintende il suo potere di ricostruzione, violando la posizione naturale del passato, e sono iperreali gli oggetti che presentificano in se stessi un tempo senza tempo, o che sono specificamente progettati, in quell’ora nevrotica di cui si è parlato, per illuderci di far rivivere il passato nella loro presenza . Questi oggetti diventano iperreali perché il loro passato non è impresso nelle loro fibre: sono fatti ora, sono attuali, e insieme viene sottratta la possibilità di posizionarli in un punto preciso del fiume del tempo, di assegnare loro una temporalità, una densità, una memoria precisa1. Che cos’è la memoria? Non una semplice facoltà di raccolta e di archiviazione, ma una facoltà attiva e ricostruttiva grazie alla

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quale non solo il passato viene richiamato, ma viene formato il senso stesso del tempo: “Un punto cruciale su cui convergono diverse ipotesi neuroscientifiche recenti riguarda l’idea stessa di memoria biologica, intesa sempre meno come ‘archivio’, sempre più come processo che riattiva, reimpasta, ritraduce”osserva Furio Di Paola2. Su questa base Di Paola costruisce un acuto percorso di interpretazione che associa il concetto freudiano di memoria psichica come “posteriorità che attiva e ricompone” (Nachtraeglichkeit) alla teoria della memoria biologica di Gerald Edelman, intesa a sua volta come processo “ri-categorizzante” e “culmine di una incessante attività riorganizzativa”. Ci interessano qui pero’ gli aspetti culturali, sociali, di questa attività della memoria intesa come ricostruzione attiva del senso. Anche Paul Ricoeur, da un punto di vista assai differente (ma che in modo significativo converge a sua volta sul corpus freudiano) sottolinea il “carattere selettivo della memoria” per introdurre una riflessione fortemente critica sulle sue attuali patologie sociali. La memoria in quanto facoltà attiva non ritrova le cose “come erano” ma le ricostruisce, le modifica anche. Non solo “memoria privata e pubblica si costituiscono simultaneamente”, ma addirittura l’aspetto ricostruttivo della memoria assume caratteri paradossali dal momento che “i nostri pretesi ricordi sono in realtà spesso presi a prestito da racconti ricavati da altri”3. Viene in mente la scena straordinaria di Blade Runner, dove il detective cacciatore di androidi, rovistando nell’appartamento dei replicanti, scopre un fascio di fotografie di infanzia di uno di loro – un’infanzia fittizia: esempio estremo di una ricostruzione alienata, di una memoria completamente imposta , di una documentazione vissuta come vera e personale – ma della quale noi spettatori sappiamo che è inventata. La memoria iperreale puo’ spingersi al punto di far sì che noi ricordiamo cose che non ci sono mai avvenute … Alcuni aspetti della riflessione di Ricoeur ci interessano particolarmente nel presente contesto. La memoria, spiega Ricoeur, dovrebbe mettere a frutto l’assenza – come l’immaginazione

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–Brainframes

Matrice Matrix Menotti Calvani

Definire la memoria è più difficile di quanto si pensi, malgrado ognuno di noi ne abbia una cognizione istintiva. Quando parliamo di memoria quasi sempre ci riferiamo alla possibilità di raccontare cose che abbiamo visto, udito o vissuto in precedenza. Ci riferiamo cioè alla capacità di fare emergere esperienze da un archivio presente da una qualche parte della nostra mente; in realtà, questa è solo una delle proprietà della memoria. Avere memoria significa ad esempio essere attenti e quindi inserire nel nostro archivio le informazioni, fare in modo che esse siano utilizzabili a volontà e che non vadano distrutte. Nella realtà, tutta la nostra esperienza quotidiana viene inserita nell’archivio, ma non tutta è recuperabile. Ci ricordiamo, ad esempio, accadimenti o visi incontrati cinque minuti prima, ma abbiamo dimenticato molte delle cose accadute solo alcune ore fa. Le stesse esperienze vengono ricordate da alcuni e dimenticate da altri. Gli psicologi amano parlare di memoria a breve termine e a lungo termine e, in effetti, poniamo nell’ archivio storico del nostro cervello solo una piccola parte delle cose che viviamo nella quotidianità. Questo gruppo selezionato di “cose da ricordare” viene vagliato, con diverse modalità, dalla carica emotiva che le accompagna e dalla novità che le contraddistingue, ovvero della necessità che abbiamo di poterle riutilizzare e soprattutto del nostro interesse. Ricordiamo, ad esempio, il primo giorno di scuola molto meglio del secondo o del terzo, così come ricordiamo il primo amore spesso in maniera molto vivida e similmente dovremmo ricordare la tabellina della tavola pitagorica o il numero di telefono della nostra abitazione; le necessità quotidiane, infatti, ci inducono a ricordare il numero segreto per utilizzare il Bancomat o il codice di accesso del nostro computer. La tonalità emotiva che accompagna il nostro ricordare dovrebbe privilegiare però, cose a noi piacevoli ed inibire il recupero dalla memoria di cose non gradite; ed è per questo che ricordarsi del compleanno o dimenticare la data del matrimonio spesso suscita risposte di approvazione o di disappunto nella persona “ricordata” o “dimenticata”.

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La Fabbrica della Memoria Le tabelline e il primo amore sono memoria, ma quanto lavoro per le prime e quanta naturalezza per il secondo! Talvolta dobbiamo imporre a noi stessi il ricordo, talaltra tutto accade con spontaneità indipendentemente dalla nostra volontà. Questa osservazione piuttosto banale fa parte, in realtà, dell’uso stesso della memoria. “Memento homo…”, “ricordati di santificare le feste”, sono ordini che vengono incisi nella nostra mente e diventano essi stessi memoria, una memoria che viene “utilizzata” per poter “utilizzare” la memoria, una sorta di programma che serve da linea guida, perché sono ordini che vengono anch’essi memorizzati ed entrano nella organizzazione dei nostri ricordi. Se riflettiamo, il nostro modo di ricordare si avvale di modalità che sono anch’esse apprese. Il più tipico esempio è la modalità con la quale dettiamo il nostro numero di telefono; alcuni scandiscono cifra per cifra, altri lo leggono a coppie di numeri, altri lo raggruppano a terzine, non facendo altro che esplicitare la modalità con la quale ciascuno di noi ha immagazzinato l’informazione che a sua volta ci rivela l’esistenza di una vera a propria strategia mnemonica. Il nostro cervello non riesce a memorizzare serie di numeri o di oggetti che siano superiori a 5-7 unità per volta ed ecco che numeri telefonici di sette cifre possono essere memorizzati e ricordati come serie di 7 elementi o come serie di quattro coppie o di tre triplette, utilizzando in quest’ultimo caso una piccola quantità delle nostre capacità. Il numero della polizia ad esempio può essere: uno, uno, tre oppure centotredici e non è una sorpresa, a questo punto, che quasi tutti noi preferiamo la seconda modalità. Ma la strategia per ricordare può essere ancora migliorata. Si possono ad esempio attribuire ai numeri i significati della smorfia napoletana, in modo da sostituire i numeri con parole che possono essere utilizzate per creare un breve racconto. Similmente, si possono dare ai numeri dei significati; ad esempio un signore nato nel 1947 ricorda tuttora il numero di targa della macchina di famiglia (841865), perché nella

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–Sistemi/Systems

Meccanismi Mechanisms Lamberto Maffei

Tutti gli eventi mentali alla base del pensiero, per il fatto stesso che richiedono un tempo, anche se minimo, di elaborazione cerebrale, al momento che si trasformano in linguaggio o in muta riflessione, fanno già parte del passato e quindi della memoria. Tutta la conoscenza è memoria. Senza memoria non è possibile pensare, ma neanche fantasticare perché gli elementi di questi eventi mentali fanno già parte del corredo cerebrale. (“…non fa scienza/sanza lo ritenere aver inteso”. Paradiso, Canto 5). Il primo ricercatore a ottenere evidenza che la memoria è localizzata in particolari zone del cervello fu il neurochirurgo Wilder Penfield. Tra il 1940 e 1950 il Penfield cominciò ad usare la stimolazione elettrica delle zone cerebrali che doveva asportare per prevenire pericolosi attacchi epilettici. Si accorse che la stimolazione del lobo temporale produceva quella che chiamò “experiential response” cioè un armonico ricordo che poteva comprendere immagini visive, parole, ma anche odori e altre sensazioni di fatti avvenuti nel passato. L’interpretazione scientifica di questi risultati fu che la stimolazione elettrica risuscitava dal magazzino della memoria avvenimenti lì depositati. Un caso famoso fu quello di un paziente operato di asportazione bilaterale dei lobi temporali dal Penfield e studiato da una famosa neuropsicologa, Brenda Milner. Si trattava di un uomo giovane, che soffriva di attacchi insopportabili di epilessia fin da bambino. L’operazione migliorò in modo sostanziale la sindrome epilettica, ma produsse un fatto inaspettato, enormi deficit di memoria. Si era evidentemente asportato materiale importante dal magazzino dei ricordi. In questo paziente la memoria a breve termine si mantenne normale. Va chiarito subito che la memoria viene normalmente distinta in una a breve termine e in una a lungo termine. La prima può durare minuti fino ad ore e la seconda, ore, giorni, mesi, anni. La prima porta a variazioni funzionali del cervello che sono di regola transitorie, la seconda a variazioni strutturali, prodotte dall’accensione di geni e quindi dalla produzione di nuove proteine.

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Un’altra suddivisione della memoria, basata sul contenuto del ricordo, è quella tra semantica e procedurale. La memoria semantica o dichiarativa si riferisce a quel tipo di informazione che può essere esplicitata, da cui anche il nome di memoria esplicita. è una memoria cognitiva che si basa su di un codice astratto collegato al nostro metodo principe di comunicare, cioè il linguaggio. è una memoria che appare tardivamente nell’evoluzione, possibilmente a partire dai mammiferi superiori e anche nello sviluppo ontologico, ha nel bambino uno sviluppo relativamente tardivo. Il suo mantenimento sia quantitativo che qualitativo dipende dallo stato fisiologico della corteccia nella quale risiede ed è relativamente labile. è la prima a risentire dell’invecchiamento e in particolare della patologia spesso associata ad esso. è severamente compromessa nel morbo di Alzheimer. La memoria procedurale che riguarda principalmente i movimenti per fare, per agire è una memoria di fatti, non collegata con concetti astratti. è una memoria di servizio che guida il comportamento. è questa la memoria delle abitudini, delle routine principalmente motorie e percettive ed è richiamata inconsciamente; è una forma di memoria più primitiva che compare precocemente nell’evoluzione ed è presente fin dagli organismi più primitivi. Nello sviluppo del bambino è già presente nel feto. è una memoria solida, molto resistente e anche nell’invecchiamento e nella sua patologia è l’ultima a risentirne. Dopo anni che non si va in bicicletta si risale in sella e si pedala felicemente senza particolari difficoltà! Le routine motorie sono probabilmente essenziali per la sopravvivenza in quanto basilari nella fuga dai pericoli e nell’approvvigionamento del cibo e quindi non è sorprendente che siano biologicamente più protette. Le due memorie hanno diverse sedi cerebrali, la prima, la dichiarativa, è principalmente corticale mentre la seconda, la procedurale, sottocorticale o cerebellare. I vari tipi di memoria hanno localizzazioni separate a livello cerebrale. L’ippocampo che si trova nella parte profonda del lobo temporale è particolarmente coinvolto nelle memorie

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–Sopravvivenze/Survivals

Le stanze della coscienza The rooms of consciousness Intervista a/interview with Edoardo Boncinelli

La specie umana è davvero affrancata dalle predisposizioni che hanno origine nelle aree più antiche del nostro cervello? Almeno fino a centocinquantamila anni fa le strategie adottate dall’uomo erano quasi tutte suggerite tacitamente dall’istinto. Il mondo è cambiato e i problemi che l’uomo contemporaneo deve affrontare sono molto diversi rispetto a quelli di una volta. Se spesso il nostro comportamento è il risultato della complementarietà di istinto e raziocinio, altre volte tra le due istanze si genera un certo conflitto. Si tratta di una questione che le neuroscienze hanno affrontato approfonditamente nel corso degli ultimi trent’anni, arrivando alla conclusione interessante, ma pur sempre provvisoria, che nell’uomo esistono due diverse strategie decisionali. La prima corrisponde al cosiddetto Sistema Uno: un processo immediato e istintivo basato sulle prime apparenze ed espressione delle nostre naturali propensioni. Sebbene la velocità della scelta comporti un livello di approssimazione che spesso si traduce in inesattezza ed errore, si tratta di una modalità che utilizziamo continuamente nella vita di tutti i giorni. La stessa, ad esempio, che rende preferibile un prodotto che costa 9,99 euro rispetto a quello che riporta un prezzo di cartellino maggiore di un solo centesimo: riflettendoci, il risparmio è davvero insignificante ma la percezione immediata è che il primo sia decisamente più conveniente. La seconda strategia decisionale è detta Sistema Due: un processo razionale che, all’occorrenza, si contrappone e corregge la fallacia del Sistema Uno. D’istinto noi adottiamo sempre il primo sistema, perché non ci costa nessuno sforzo: è espressione di tutto il nostro corpo e trova la sua origine nell’area subcorticale del nostro cervello. Il Sistema Due è più rigoroso ma più elaborato e faticoso, richiede sforzo e impegno. L’istinto è parte dell’uomo ma, mentre negli altri animali è pressoché incontrovertibile, nella nostra specie può essere deviato, represso, se non invertito. Basti pensare che nonostante la paura istintiva del fuoco condivisa con gli altri animali, molti di noi si riuniscono con piacere attorno a un camino. A mediare fra la nostra spinta istintuale e la nostra capacità

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raziocinante interviene la capacità repressiva della corteccia cerebrale. Essa si basa sui principi dell’istinto ma accoglie anche ciò che abbiamo appreso attraverso l’esperienza e la cultura. Siamo dunque il risultato dell’interazione fra un’evoluzione biologica che ci conduce istintivamente in determinate direzioni e un’evoluzione culturale che ci introduce alla valutazione di aspetti diversi. Nella stragrande maggioranza dei casi le priorità dell’uomo di oggi sono complesse e non coincidono perfettamente con gli obiettivi dell’evoluzione biologica. In fondo la vita dell’uomo primitivo era governata da bisogni primari: scappare davanti a un predatore o affrontarlo, procurarsi da mangiare e trovare una partner per procreare. Neccessità che non sono scomparse, ma che la nostra cultura ha profondamente trasfigurato. Senza contare poi che l’artificiosità della nostra società ci porta a fare cose che a noi piacciono tantissimo, come andare al teatro o dedicarci all’arte, ma che dal punto di vista biologico non servono a niente. Attività che pur interessandoci e coinvolgendoci quanto le altre non sono contemplate dal nostro patrimonio genetico e non hanno un riscontro istintuale. Pertanto la strategie che interessano l’uomo contemporaneo sono ben altre da quelle della mera sopravvivenza. Che cos’è un’emozione? E che influenza ha nelle nostre scelte? Anche se inconsapevolmente, l’origine e il fine delle emozioni è strategico alle istanze di sopravvivenza. Hanno uno scopo ben preciso: farci vivere al meglio le situazioni che ci troviamo ad affrontare. In altre parole, le emozioni ci indirizzano verso quello che sappiamo ci procurerà piacere e ci allontanano da quello che sappiamo ci darà dispiacere. Nel complesso sistema umano di elaborazione dei dati e delle scelte questa dinamica fondamentale e originaria non sempre è palese. Una visione essenzialmente utilitaristica della sfera emotiva che, di fatto, si scontra con la diffusa concezione tardo-romantica secondo cui le emozioni sono sempre gratuite e incomprensibili, massima espressione dell’ineffabilità dell’esistenza. In realtà, noi siamo

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–Personale/Private

La pornografia degli angeli Pornography of the angels Enrico Ghezzi

“Se fossi un pellerossa, e sempre pronto, e sempre vibrante sopra il cavallo in corsa, cavalcando, sulla terra che vibra, fino a non servirmi degli speroni, poiché non c’erano speroni, fino a buttar via le redini, poiché non c’erano redini, e vedessi appena la terra davanti a me come un prato mietuto di fresco, già senza collo di cavallo e testa di cavallo.” Nulla di psicologico nell’analisi con cui Kafka folgora il movimento del desiderio. Non è una logica, è la forma stessa del desiderio che si produce solo mentre si annulla. Stupisce che tutta la fisica del secolo (micro o macro, nucleare o astrale), dall’apparire/scomparire dei fantasmi dell’elettrone e dell’antimateria si dedichi al tentativo di far apparire un istante particelle ipotizzate o virtuali, subito scomparse? E che il vorticare di esse, il loro letterale essere ferme e in moto e qui e altrove, il loro baluginare e pullulare costituisca e permetta la solidità della materia e la forma degli oggetti...?... Naturale che nel tramonto dell’oggi (si, proprio ‘naturale’, col senso di innaturale che ci brucia la bocca e la mente nell’azzardare la parola) l’oggetto che più di tutti appare e scompare, il set pi ù evidente del design, sia il corpo stesso, l’oggetto che ci portiamo addosso e che ci porta, che siamo e che ci è, che vorremmo essere di più o non essere. Vertiginosa, la convergenza verso il biologico (bioingegneria, mutazione, durata della vita individuale...), verso il luogo fisico supposto del soggetto, come condensazione in un umanismo paradossale di un doppio rimbalzo dalla profondità astrale e da quella del subliminale subelettronico subfotonico neuronale... Vertigine e convergenza del secolo, avvertita da Kafka (e, tra gli altri, da valery, benjamin, proust, joyce, nietzsche, per restar lì, lontano dagli ‘oggetti’, o appena sotto il loro apparire, dove si agitano la chimica della scrittura e la fisica della voce...) proprio nella precisione paradossale di un haiku che si disfa, nell’immaginedesiderio che nell’attimo stesso in cui si manifesta si sgretola e decade (e anzi quella rapidissima assolvenza/dissolvenza da nero e verso nero (o bianco) è l’istante

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stesso, il riconoscimento goduto e temuto e svanito che lo spazio esista…’prima (e dopo) del tempo’...). Naturalmente (di nuovo...) già baudelaire e rimbaud (con monet e cezanne) hanno trovato o sperimentato la allucinazione ossessiva che costituisce le forme e gli oggetti e la visione stessa del soggetto (a sua volta ondivago, corpuscolare, i n termittente); e si può rimontare da jean paul e holderlin, goethe, novalis attraverso la lotta tra (il battito di?) coscienza e incoscienza nell’idealismo tedesco e in kant, e il geniale disperdersi dei lumi, giù e su fino al dubbio decisivo e costitutivo e iperfilmico (oh, la seconda ‘meditazione metafisica’) di descartes. Forse trovando in edgar allan poe, nella sua chimica dell’immaginario, nel suo ‘landscape gardener’, in ‘eureka’, nel suo sostituire la figura del maelstrom a quella del maestro, l’allargamento decisivo nella scala degli oggetti: il mondo stesso –non solo il pianeta- è un ‘oggetto’ che si forma si beve si sforma trangugia dissolve nell’allucinazione che è il soggetto. Ma è quasi inutile o troppo rudimentale rimontare oltre il secolo. Da poco più di un secolo una macchina (peraltro essa stessa di chimica e fisica rudimentalissime e semplici, e fino a oggi o l’altroggi rimasta sostanzialmente immutata) permette tecnicamente questa ‘rimonta del tempo’, muta lo spazio in tempo e ne consente la riproduzione registrazione accumulazione (perfino, oltre la ritualità da caverna e sala oscura, la addomesticazione del mondo per via televisiva, il rendersi a domicilio del mondo in rete...). è lampante, fino a negarci la propria stessa evidenza, quanto il processo filmico (oltre la sua spoglia di genere drammaticonarrativo) abbia reso (nonostante la relativa saltuarietà randomizzata del suo intervenire e prodursi) l’idea stesso di tempo e di storia un oggetto, un insieme imbobinato e sbobinabile , continuo anniversante ritorno (quasi senza andata) di cui si gode e soffre lo spettacolo in una continua terribile rutilante soffice carezzevole celebrazione. Lanterna magica. Cortocircuito qui, appena la si strofina, tra desiderio (di nuovo; ovviamente), cinema (l’oggetto ‘lanterna magica’ è tra i prodromi più costantemente evocati e mostrati

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Alessandro Bergonzoni, Illustrazioni tratte da/illustrations from Bastasse grondare, Libri Scheiwiller, 2009.

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–Reality show

Fuori Fuoco Out of focus Intervista a/interview with Alessandro Bergonzoni

È istintivo chiudere gli occhi davanti alla complessità, spaventati dall’incertezza dell’esistenza? L’uomo in questo momento antropologico di grande bassezza fa dell’istinto strategia e della strategia l’istinto. Si para, si difende ed essendo impaurito fa un lavoro di istinto strategico: sta calmo, per poter stare nel proprio calduccio e non sentire freddo. Un calore che non è energia positiva, non è fuoco, ma tepore orrendo. È il tepore che porta a non voler vedere ciò che non si vede, a non voler sapere ciò che non si riesce a conoscere, a non voler concepire l’inconcepibile. L’arte si occupa dell’inconcepibile. Ma istintivamente e strategicamente viene fatto un lavoro di normalizzazione, attualizzazione e concretizzazione che uccide l’idea stessa di arte, e mette il cuore in pace. Una pace del buio che non è pace interiore, ma vuoto interiore. È l’assonanza di pace e tace, il tacere. Chi vuole della pace l’idea di solo tepore e silenzio ne fa una strategia per far sì che vi sia il dominio necessario a controllare le menti delle persone. Tepore, paura e pace/tace sono le parole chiave della strategia del comando, di chi usa mezzi sedanti per poter far sì che la gente non pensi. È la tattica di chi non vuole la potenza, ma il potere. Possiamo subirla o diventare soggetti attivi, facendo arte e leggendola con altre traduzioni. Ma interessa a qualcuno andare oltre? Mezzi di distrazione di massa ottundono, ledono, fanno scoppiare i cervelli e le anime delle persone. Chi dovrebbe essere il referente di questo cambiamento? Forse chi detiene il potere? Oppure a compiere un’operazione rivoluzionaria e di rivelazione deve essere l’individuo, non tanto l’Ego e l’Io, ma il Sé? Allora la rabbia, questa famosa rabbia che vediamo in tutto e in tutti, dove deve essere direzionata? Qual è la strategia della rabbia? Alle volte mi sembra soltanto un basso istinto. Io mi rivolgo alla piazza interiore, al governo interiore, ai parlamenti personali. Tutti quelli che sembrano convinti che solo le proprie creazioni artistiche siano la risposta e il racconto, dovrebbero avvertire una spinta d’obbligo per non fermarsi a parlare soltanto attraverso le loro opere: credo che ora ci sia l’urgenza di un altro tipo di ricerca.

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Per far saltare le alte cariche dello ‘stato’ delle cose? Il punto è: di quale carica stiamo parlando? Di una forza dinamitica che può esplodere? O di cariche come carichi e pesi? Invece di spendere tempo sullo Stato, sulle nazioni, sui governi, sull’economie e sulle finanze dobbiamo parlare dello ‘strato’ delle cose. Le componenti pluristratificate dell’essere non sono solo l’economia per l’economia, la finanza per la finanza, la salute per la salute, la scienza per la scienza. Anzi! È un discorso di connessione, di coagulo. Come si fa a parlare dello stato vegetativo soltanto con voce legale o scientifica? Non è più possibile parlare dello stato economico, della distruzione della finanza e del capitalismo senza andare a parlare delle condizione degli animi e del Sé! Tutto questo non è che la parte finale, la punta di un iceberg. E perché nessuno si preoccupa di indagare da dove, e perché, questo spunzone è uscito fuori? Perché bisogna andare troppo sotto, in una zona troppo gelida, o forse, troppo dentro, in una zona troppo violenta. Accettiamo la violenza in superficie, ma non vogliamo andare a cercare quella violenza che potrebbe raccontarci altri perché. Se mi chiedi se questo è istinto o strategia, ti rispondo che credo si tratti di un grandissimo istinto di conservazione del becero e della propria condizione ‘teporica’. Ma, allo stesso tempo, si tratta anche della strategia di chi mantiene intenzionalmente questa condizione di bassezza, per condurre alla crisi che è fatta di gente che urla, strilla e ha bisogno di comandanti. E quando il capitano interiore non esiste più, demandiamo agli altri. Continuiamo a parlare di ‘tumori’ e a cercare di guarirli, ma il tema fondamentale è l’anamnesi: l’origine e la genesi delle metastasi intellettuali, di cui non ci occupiamo perché rifuggiamo la complessità. Ma se desideriamo vedere oltre, inevitabilmente, dobbiamo chiedere oltre. Altrimenti stiamocene seduti e sedati. Una simile condizione di chiusura e devastazione antropologica non può essere interdetta o interrotta solo attraverso le opere, e i silenzi, degli artisti che compongono il loro mestiere nella speranza che possa servire a qualcosa. Dovrebbe esserci un collegamento tra queste azioni d’arte e chi compone lo strato della Terra.

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© Marco Delogu

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–Immagini/Images

Reset Nascere ogni volta con un senso diverso. Parto da queste poche parole che ho letto nella presentazione della rivista Nota Bene per parlare delle fotografie che illustrano questo testo e che ho realizzato negli ultimi anni, le nature bianche negli ultimi mesi. Il prossimo 15 ottobre a Villa Medici (Roma 15 ott. - 9 dic. 2008, n.d.r.) aprirà una mia mostra che si intitola Noir et blanc: a partire da questo titolo che sfiora la banalità, ma che non ha paura della banalità, e che nell’accezione francese, come in quella inglese, pone il nero prima del bianco, ho scelto un percorso narrativo all’interno della mostra, da cui ho tratto le sei foto per questo progetto. Negli anni ho quasi sempre fotografato partendo da un fondo nero – “Delogu, fotografo minerale di volti, estrae dalla compattezza del nero i suoi giacimenti di facce” ha scritto una volta a proposito di un mio lavoro Erri De Luca –, sí mi piacevano i volti e le figure che uscivano dal buio profondo. Molte volte provavo a mettere un fondale bianco, ma dopo poco lo toglievo e il nero riappariva alle spalle dei miei soggetti. Nascere ogni volta con un senso diverso, con la mente aperta senza preconcetti. Negli ultimi anni ho assoluto bisogno di bianco, banalmente, ma anche qui come nel titolo della mostra senza aver paura della banalità, è un bisogno che nasce da un’idea di solarità e dalla ricerca di un sentimento di gioia nelle fotografie, da un’idea di continuità e di esplorazione, e non ultimo nasce da una sorta di ritorno all’infanzia, un ritorno difficile, come una volta ha detto Brancusi. Credo che in questi ultimi anni il mio processo d’immaginazione torni spesso all’infanzia, a quello che mi piaceva da bambino, in particolar modo alberi, rami e cavalli, e passo dai pennarelli indelebili degli anni sessanta alla macchina di grande formato con cui ricreo tratti definiti e indefiniti sullo stesso piano. Poche fotografie attese per molto, aspettate con pazienza, viste e riviste dentro la mia testa per moltissimo tempo, anni e anni, e alla fine arrivate perché le ho sapute aspettare. Ora nella testa ho altre fotografie ma non so se le aspetterò o se

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Marco Delogu

le vorrò aspettare; sono qui dentro la mia mente e non so se sopravviveranno, se alcune diventeranno carta e saranno viste da altri e sicuramente nell’attesa nasceranno con un senso diverso, e non so se avranno un fondo chiaro o scuro, non so dirlo e non so prevedere la mia vita che è sempre così legata alle mie fotografie. Mi riallaccio alle parole scritte sempre nella presentazione di questo progetto: “L’immaginazione rimane ancorata a forme di espressività che sfuggono a ogni tentativo di programmazione, essa rifiuta il linguaggio matematico”. Da bambino ero portato e attratto dalla matematica, amavo fare i calcoli, le espressioni, la logica matematica e la geometria, amavo il loro controllo e la logica di programmazione: forse solo da poco tempo ho mollato completamente la logica matematica e geometrica di controllo, che nel mio caso trovano il riflesso più immediato nel controllo dell’inquadratura e del progetto, e lascio che le cose si compongano anche con casualità dentro la mia fotografia: uva rara si muove, i fiori e le piante delle nature bianche si muovono incontrollati. In questo ultimo periodo ho bisogno di tutto questo, ho bisogno di un non controllo, di luce bianca: aspetto le nuove fotografie e il loro senso diverso. [english]To be born every time with a different sense. I’m beginning with these few words which I read in the editorial of this magazine, to speak about the photographs which illustrate these pages and which I have taken in recent years, Nature bianche, in the last few months, for my retrospective at Villa Medici (Rome, 15 Oct. - 9 Dec. 2008), entitled Noir et blanc. Starting with this title, which borders on the trite, but which is not afraid of triteness and which in French, as in English, puts black before white, I have chosen a narrative itinerary from which I have taken the six photos for this project. Over the years I have almost always started with a black background - “Delogu, mi­neral photo of faces, extracts from the compactness of the black its deposits of faces”, Erri De Luca wrote once about a work of mine - yes I liked the faces and figures

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LIFESCAPES

Milano Š Luigi Fiano

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–Luoghi/Places

Geografie dell’altrove The geographies of elsewhere Intervista a/interview with Antonio Moresco

Centri commerciali e outlet di periferia come nuove cattedrali della religione del consumo, mete di pellegrinaggio e di affollate liturgie domenicali per famiglie al completo. Centri storici convertiti a rassicuranti ed edulcorati parchi tematici abitati da comparse in costume di ordinanza che, alla sera, lasciano le scenografie da Italia-in-miniatura per raggiungere, pendolari, le periferie dormitorio di residenza. Villette a schiera con giardino, sette nanetti e trent’anni di mutuo. Palazzine di parabole dai campanelli affittati a cognomi extracomunitari. Decoro urbano, ronde, illuminazione notturna dei quartieri turistici: queste le pre-occupazioni di tante amministrazioni comunali. Questo il paesaggio urbano di un paese, come scrive lei, “in preda a confusione mentale, perdita della memoria, regressione, restaurazione, particolarismo, razzismo, criminalità, cattiveria, egoismo. Spaventato, deprogrammato, regredito, azzerato” (Che fare?, Il primo amore n.5, marzo 2009, Effigie). Davvero l’identità dello spazio pubblico condiviso è ormai inadeguata ad accogliere le vere priorità della nostra presenza nel mondo? Il rischio è quello di compromettere permanentemente i nostri sguardi e le nostre capacità di giudizio? Il paesaggio generale è questo, e sembra un paesaggio da dopo-bomba, anche se tutto è rimasto in piedi, i muri, le case, gli ipermercati, gli allevamenti umani, i circhi equestri, gli schermi, le dentature perennemente in mostra… L’Italia si è dimostrata ancora più labile e fragile del previsto, ma è anche l’intero pianeta e l’intera specie umana a non rendersi conto di quanto sta succedendo e della necessità di un cambiamento epocale. In un contesto simile, come se non bastasse, in casa nostra siamo alle prese con qualcosa che pareva addirittura inimmaginabile solo pochi anni fa: il restringimento crescente degli spazi di ciò che resta di quella cosa chiamata ‘democrazia’, la dimensione economica e commerciale, la corruzione e il controllo centralizzato dei media televisivi che paiono avere colonizzato e intossicato tutto, l’uso depistante del particolarismo e del razzismo, minacce continue di secessione di zone del territorio nazionale da parte di forze politiche comunque di minoranza,

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la nascita dei primi embrioni di gruppi paramilitari, dietro il pretesto di ronde adibite al controllo del territorio dai nuovi venuti criminalizzati su base collettiva, regressione, cattiveria, grettezza. Neppure l’unità politica, geografica e linguistica del paese, conquistata così in ritardo e così a duro prezzo, sembra più una certezza. Non si sa cosa può succedere di qui a un po’. Il male che è stato fatto è enorme e non ha trovato una reazione proporzionale da parte delle forze che avrebbero dovuto fare argine a tutto questo e che invece si sono dimostrate deboli e gregarie, quando non impotenti e sotto ricatto. La situazione è questa. E allora occorre non solo un contromovimento orizzontale e speculare ma un movimento impensato, alieno. Gli spazi, anche quelli architettonici, non sono una cosa separata e inerte, sono animati, sono messi in movimento e in proiezione anche dal fervore e dalla tensione interattiva delle persone che ci vivono dentro e che si inventano la propria vita. Se no sono solo delle scatole vuote, contenitori di frustrazioni, muri che si guardano in faccia. È il piccolo animale che vi è contenuto a secernere il materiale calcareo che forma una conchiglia. Ma se la conchiglia non è più abitata da un organismo che ha vita, che ha proiezione, anche la conchiglia rimane immobile e inerte in fondo all’oceano. Però, in mezzo a tutto questo orrore, c’è anche dell’altro. Se non ci fosse anche dell’altro non si capirebbe come fa il nostro paese a continuare a stare in piedi nonostante tutto. C’è un gran numero di persone che si svegliano di mattina presto anche se magari non hanno dormito bene, si lavano la faccia, escono dalle loro case e vanno a fare la loro parte. Ci succede continuamente di incontrarne e quasi ci meravigliamo nel constatare come esistano ancora delle singole persone e una struttura della vita associata che sono rimaste al loro posto, non sono state spezzate. Qualche mese fa, per esempio, mi è capitato per alcuni giorni di passare molte ore in un ospedale dove mia figlia ha messo al mondo una bambina e mi si è presentata una realtà del tutto diversa, quasi un universo parallelo. Continui arrivi di donne incinte, per lo

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–Frontiere/Frontiers

La città e la sua ombra The city and its shadow Enrico Menduni

Dagli scavi di via dell’Abbondanza a Pompei emergono, in un tratto di cinquecento metri, duecentottantacinque lampade per l’illuminazione notturna, mentre trecenonovantasei sono quelle collocate nei cinquecentosettantasei metri della seconda via cittadina. La strada maestra per Stabia, settecento metri di lunghezza, conta cinquecento lampade. Il Vesuvio coprirà tutto di cenere e lapilli, le vie delle città torneranno al calar della notte buie come il cielo, dentro le porte serrate, nel tentativo di lasciare fuori da sé i padroni del buio, i briganti, i barbari, i malintenzionati, i vagabondi. Tentativo vano. Mentre chi ha lavorato duramente di giorno raggiunge finalmente il riposo, vagano per le strade ubriachi e giovinastri, incuranti delle ronde; qua si accende una rissa, là scintilla la lama di un pugnale. La città ripete così il dualismo tra bene e male, tra luce e tenebre, tra giorno e notte. Il trionfo della ragione si chiamerà “illuminisimo”, il suo il “secolo dei lumi”. Il grande sforzo di illuminare le città alla fine del secolo XIX, prima con il gas poi finalmente con l’elettricità, è un tentativo di ricacciare indietro un male (l’irrazionalità, l’irregolarità) che la scienza positivista, codificando lo spazio e il tempo (i fusi orari, il metro e le unità di misura) crede di poter annullare. È una luce diversa da quella che Luigi XIV aveva collocato nelle strade di Parigi, che era un simbolo del potere come le luminarie che da sempre i regnanti avevano offerto in occasioni speciali ai loro sudditi. La luce dell’Ottocento è l’incarnazionee la pubblicità del progresso, un’illuminazione irradiata da un servizio a rete, alimentata e industrializzata dai tubi del gas e dai cavi della luce, costante, uniforme, centralizzata, scenografica. Una notte bianca. Maupassant (Claire de lune): Tout était clair dans l’air léger, depuis les planètes jusqu’aux becs de gaz. Tant de feux brillaient là-haut et dans la ville que les ténèbres en semblaient lumineuses. Les nuits luisantes son plus joyeueses que les grans jours de soleil. La luce artificiale è anche controllo, ordine pubblico, tentativo di contenere le classes dangereux dell’universo urbano. Reprimere quell’oscurità da sempre associata alla devianza, al pericolo, al rischio, in opposizione con le calvinistiche attività economiche che si svolgono “alla luce del sole”, nella società

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del lecito, di giorno. Il buio viene “colonizzato” dalla luce artificiale come la ferrovia ha colonizzato il West americano. Man mano che procede l’annessione al giorno di porzioni della notte, ormai illuminate, si creano nuovi insediamenti (come i carri dei coloni che seguivano la conquista del West): le fabbriche aperte di notte e rischiarate dalle lampade ad arco, gli edifici dei giornali illuminati in cui si prepara l’edizione dell’indomani, tram e treni che viaggiano con i fari accesi in quello che fu il buio. La giornata non è più sufficiente a contenere gli ambiti in continua espansione della vita produttiva e sociale, che debordano verso la notte. Questo sconfinamento tuttavia - ed è il punto più importante - non è riuscito a cancellare la distinzione, di ordine culturale ed etico, fra attività diurne e notturne, fra eventi del giorno e della notte. Non poteva uccidere la propria ombra. La maggiore praticabilità della metropoli nelle ore in cui i lavoratori diurni cercano il riposo, fatta di luce, trasporti pubblici, negozi e ritrovi aperti, è servita a traghettare nel mondo notturno molto del bisogno di altro, di trasgressione, di ludus, di sperimentazione che un assetto fordista, da etica protestante, dell’organizzata città diurna non può esprimere. Ha favorito, piuttosto che reprimere, l’ombra. La colonizzazione della notte è sostanzialmente fallita, come è fallita la pretesa positivista, mascherata da scienza, di dominare lo spazio e il tempo in modo totalitario. Nell’era della mobilità di massa, in cui milioni di persone e di giovani non lavorano in modo così stancante da non poter uscire di notte (o non lavorano affatto) la notte resta il dominio dell’altro. Nel territorio della notte si addensano i controluoghi, dove tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti (Foucault). Si tratta di varcare una soglia, di andare “di là”, attraverso speciali riti ingressivi, verso una notte che sempre più si connota come un “evento unico” che talvolta riesce a prendere di contropiede il giorno, effettuando sortite, colonizzando a sua volta porzioni del tempo diurno come il week end, inglobato fra la notte del venerdì e quella della domenica.

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–Transiti/Transits

Senza fissa dimora No fixed address Intervista a/interview with Marc Augé

Quando un luogo può dirsi accogliente e generoso? Ho l’impressione che in città come Parigi le persone siano sempre più isolate e sole, e che la vita si svolga tra individui che non comunicano tra loro. Non ci sono sentimenti di generosità, di accoglienza, di solidarietà. Nella quotidianità della città, l’idea di ospitalità è assente. Ognuno percorre la propria strada con un sentimento di solitudine e isolamento che tocca tutti. Non credo sia una questione che riguarda soltanto gli urbanisti, poiché non è sufficiente orientare in forma diversa le strade o modificare spazio e architettura per generare della socialità, della generosità e della solidarietà. Si tratta di una questione molto più ampia, che richiede una riflessione più generale sulla società. Più le persone sono felici, maggiore è la loro capacità di accoglienza. L’architettura e gli urbanisti rappresentano comunque una parte della soluzione nel momento in cui possono rendere meno infelici, predisponendoci a relazionarci agli altri in maniera diversa. I trasporti rappresentano uno degli aspetti più importanti delle infrastrutture urbane. È inaccettabile che la grande maggioranza delle persone sia costretta a trascorrere così tante ore al giorno sui mezzi di trasporto, in condizioni disagevoli, per raggiungere il proprio posto di lavoro. È naturale che tutte le energie si concentrino sul viaggio e che non vi sia più la forza di guardare gli altri. Parigi è piena di mendicanti che tendono la loro mano lungo le strade, all’uscita dei negozi e nei vagoni della metropolitana. Tutte queste persone non sono ben viste, forse perché troppo numerose: la richiesta di elemosina si ripete continuamente. Di tanto in tanto, però, accade qualcosa che mi colpisce: quando chi chiede l’elemosina offre in cambio una prestazione artistica di qualità, come certi sudamericani che improvvisano un concerto in metropolitana, ecco che l’interesse dei passanti si risveglia e viene data qualche moneta. Le persone decidono di fare l’elemosina senza guardare alla povertà, ma perché apprezzano quello spettacolo. Quello spettacolo piace loro perché gli riporta qualcosa, è un momento piacevole di buona musica che, tutto a un tratto, investe di allegria il vagone. Tutte le volte che si tratta di un’esecuzione artistica di una certa qualità, quasi tutti i viaggiatori che

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occupano lo scompartimento danno dei soldi. E penso che, in verità, la ricompensa non sia per l’esecuzione in se stessa, ma per il momento di allegria arrecato. Attraverso l’arte e la cultura è passato un qualcosa che ha cambiato l’atteggiamento delle persone. È solo un piccolo esempio che tuttavia ho visto ripetersi più volte e che credo possa insegnarci qualcosa. Penso infatti che l’unico modo di promuovere generosità nelle relazioni sociali sia offrire qualità. E la qualità non passa che attraverso la cultura, attraverso tutto quello che consente alle persone di trascendere dalla propria condizione esistenziale e dalla misera realtà di tutti i giorni. In altre parole, si tratta di restituire la capacità di essere generosi facendo appello all’attività intellettuale e al gusto culturale, per risvegliare la voglia di uscire dalla quotidianità. Certamente non è semplice. Credo che in parte le istituzioni ne siano consapevoli. È infatti sempre più diffuso il tentativo di creare animazione culturale attraverso diversi indirizzi operativi. Ma pur essendoci l’intuizione di questa necessità, i risultati si dimostrano ancora insufficienti. Bisogna restituire un po’ di felicità alle persone, affinché ognuno possa pensare a rendere felice il prossimo. Cosa può ancora oggi segnalare la differenza tra lo spazio pubblico e lo spazio privato? È ancora valida questa distinzione? La distinzione tra spazio pubblico e spazio privato è una questione sempre più delicata, nella misura in cui questa distinzione non è più così netta. Tradizionalmente i sociologi definiscono lo spazio pubblico come lo spazio in cui si forma l’opinione pubblica. In passato la piazza è stata non solo luogo deputato alle attività pubbliche, ma teatro del dibattito e del confronto. Oggi è ben evidente che l’agorà dell’antichità è stato sostituito da altri spazi, soprattutto mediatici. L’informazione avviene in gran parte attraverso i media, principalmente con la televisione che trasmette quotidianamente notizie e con il computer che permette di ricercarle e scambiarle anche tra interlocutori sconosciuti. Esiste dunque uno spazio che pur essendo immateriale è altrettanto reale e che, letteralmente, prende il posto dello

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–Forme/Shapes

La città degli dei The city of the gods Intervista a/interview with Enzo Mari

Enzo Mari: artista e designer, per parafrasare il titolo di un noto libro di Bruno Munari. Una relazione oggi indisgiungibile nell’attività di un protagonista della ricerca e del progetto come lei? Sono più di cinquanta anni che faccio questo lavoro. Inizialmente solo in qualità di artista. Ma già dai primi anni Sessanta, soffrendo la cattiva qualità formale di ciò che l’industria andava producendo, ho deciso di occuparmi del cosiddetto design. Mettere a disposizione della produzione seriale competenze e strumenti progettuali, per poi consentire all’industria il raggiungimento, anche autonomo, di qualità formali imprescindibili: questa la vocazione, probabilmente utopica, che ha segnato tutta la mia vita. E rendere attuale quanto imparato attraverso lo studio dei grandi maestri del passato. Maestri che, talvolta, non hanno un nome: coloro che nell’Antico Egitto, nella Magna Grecia o nel Rinascimento italiano hanno realizzato grandi capolavori. Modelli artistici di perfezione formale a cui dobbiamo ancora guardare non per elaborare sterili declinazioni neo classiche ma, più concretamente, per comprendere qual è il livello di qualità possibile da perseguire. Opere d’arte che hanno originato tutte le riflessioni e le successive dissertazioni relative all’estetica. E l’estetica, non solo per assonanza fonetica, rimanda sempre all’etica. Se personaggi come Gandhi rappresentano la forza eccezionale di una vita esemplare vissuta interamente all’insegna dell’impegno etico, vivere eticamente non significa necessariamente passare alla storia. Anche nella nostra attuale società, l’etica sopravvive ancora nella condotta di vita di persone come gli operai o i contadini che, quotidianamente, affrontano con dignità l’esistenza. Al contrario gran parte degli spazi che percorriamo, delle città che abitiamo e dei manufatti che utilizziamo sono totalmente privi di etica. Siamo circondati dalla banalità. Banale è ciò che all’interno di un certo periodo storico viene prodotto esclusivamente per soddisfare con superficialità il ‘gusto’ dell’epoca, per assecondare i rituali sociali imperanti. Certamente nessun manuale potrà mai insegnare razionalmente e pragmaticamente come pervenire alla qualità della forma. Soltanto la fruizione e la decodifica dei grandi capolavori dell’arte come della let-

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teratura e della musica possono rappresentare l’unica lezione di estetica davvero utile. Confrontarsi con l’eccellenza è la strada da perseguire con severità per giudicare i nostri risultati progettuali: valutare se, davvero, la forma realizzata è l’unica forma possibile, se abbiamo colto l’essenza della forma. Oggi, al contrario, quando si parla di forma, non solo a livello generalistico ma anche a livello accademico, in realtà ci si riduce a parlare di formalismo: il contrario dell’essenza della forma. Il formalismo, di fatto, implica l’incrostazione della cosa che si sta costruendo. È riconducibile a un ‘abbellimento’ fine a sé stesso, spesso ottenuto con la giustapposizione di segni appartenenti a culture differenti realizzata nella più totale ignoranza del significato profondo presentato da questi elementi nel loro contesto di origine. Il risultato, allora, è un insensato bisticcio di segni scelti esclusivamente in virtù della loro presunta ‘stranezza’ e delle loro valenze edonistiche. Quando, invece, design vuol dire disegnare e realizzare oggetti utili alla vita di tutti i giorni. La forma ha bisogno di tener presente la conoscenza di tutto il mondo, di tutto quello che esiste, e anche della conoscenza di quello che non esiste ancora, della proiezione sugli scenari possibili. Tuttavia, oggi, non esiste nel mondo un’università, un luogo di studio e preparazione professionale dove ci si occupi del globale. Certo, esistono finissimi intellettuali e grandi scienziati ma ciascuno primeggia nel recinto delle proprie competenze, nei limiti della propria disciplina. È proprio questo a rendere difficile qualsiasi dialogo sulla forma. Forma che nell’accezione più alta del termine è, per definizione, qualcosa di incomprensibile alla scienza. Perché uno scienziato deve fare necessariamente riferimento a un ambito di ricerca immediatamente possibile. Mentre il progettista è chiamato ad intervenire concretamente nel presente, senza però dover trascurare la dimensione utopica del suo intervento e cioè progettando in visione - e previsione - di un uomo e di una società che non esistono ancora. Per poi trovare il giusto compromesso. Del resto, pur amandomi definire un utopista, di fatto, ho realizzato oltre duemila progetti dei quali ne sono andati in produzione quasi la metà. Ma nonostante le necessità

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ore 18.19 - 15 agosto 2009 / skyline della city (LONDON)

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–Contorni/Outlines

LUIGI FIANO. LONDON, ZÜRICH, MILANO

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Sistema di segnaletica dell’aereoporto di KÖln Bonn Signage system of KÖln Bonn © Ruedi Baur et Ass./Intégral

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–Mappe/Maps

Don’t brand the city Intervista a/interview with Ruedi Baur

Spesso in Italia si denuncia l’assenza di adeguate forme di marketing territoriale o si rimprovera la trascuratezza della comunicazione visiva urbana. La città rappresenta forse l’ennesimo prodotto in vendita? È una questione che mi sta molto a cuore e con cui mi confronto quotidianamente nell’esercizio della mia professione. Credo che si tratti di una riflessione obbligata per chi, come me, è chiamato a intervenire sui luoghi pubblici. La prima osservazione da fare è che nessuno di noi può non dirsi cittadino e che qualsiasi città, per definizione, deve essere prima di tutto uno spazio condiviso e fruibile da tutti. La mediocrità che contraddistingue oggi gran parte dei paesaggi urbani, a mio avviso, è sostanzialmente imputabile alle logiche commerciali che debordano al di fuori del loro contesto originario, l’unico in cui possano dirsi accettabili: gli spazi privati. Sempre più, invece, si sta configurando una situazione davvero paradossale: i luoghi pubblici diventano sfacciatamente marketing oriented, mentre gli spazi commerciali privati hanno la presunzione di diventare luoghi di servizio pubblico. Ma, attenzione, non facciamoci ingannare dalle apparenze: la realtà dei fatti dimostra che il marketing è esattamente l’opposto della democrazia. Tutte le esternazioni del marketing sono riconducibili, più o meno dichiaratamente, a un unico obiettivo finale: la vendita di un prodotto. Penso che le modalità comunicative dettate da interessi puramente commerciali siano assolutamente in contrasto con le forme di relazione e di condivisione sociale che dovrebbero essere garantite dall’ambiente cittadino. Trovo che questo modo di rivolgersi al cittadino con la precisa volontà di indirizzarlo verso certe idee nasconda una pericolosa carica di aggressività. La trasformazione dei centri commerciali in cattedrali del consumo e parchi del divertimento sembra anche all’origine della diffusa spettacolarizzazione dello scenario urbano. Nella messain-scena della comunicazione visiva e degli allestimenti segnaletici, cosa mette al riparo dal kitsch e dall’effetto luna-park? Penso che fondamentalmente il fattore discriminante sia l’at-

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teggiamento che si mantiene rispetto all’identità del luogo. A fare la differenza, è soprattutto il legame con il contesto. Personalmente non sono affatto contro l’aspetto scenografico dell’identità visiva, come testimoniano molti miei interventi in ambito urbano e pubblico. La messa-in-scena diventa però poco interessante nel momento in cui diventa una falsa copia della realtà. Quando, cioè, l’intenzione è quella di riproporre atmosfere tipiche di altre città o di allestire un ambiente come riproduzione di un altro. In questi casi si tratta di pura seduzione e di sterile compiacimento estetico. Purtroppo, oggi, questa è la tendenza. E il rischio è di ricondurre tutto alla categoria di parco d’attrazione. Sono ben consapevole che, soprattutto ai nostri giorni, è necessario arrivare agli utenti degli spazi pubblici in maniera forte e incisiva, ma è altrettanto necessario trovare il giusto registro espressivo. Io stesso cerco sempre di entrare prima di tutto in relazione emotiva con i destinatari dei miei interventi, ma nella consapevolezza che gli spazi pubblici devono essere luogo di condivisione, e non di imposizione. E che nessun ambiente pubblico è fatto per essere venduto. La linea di confine è difficile da individuare. Ma deve continuare ad esserci qualcosa che ci permetta ancora di percepire che ci troviamo in un luogo pubblico e non in uno spazio artificiale di vendita. Ogni volta che viene commissionato un intervento allo studio Intégral, la prima cosa che faccio con i miei collaboratori è cercare di comprendere e confrontarci con i particolari bisogni da soddisfare in relazione a quella determinata situazione: un’approfondita fase di contestualizzazione del progetto. L’obiettivo che perseguiamo è quello di dare luogo a delle soluzioni direttamente legate alla specificità del posto e alla sua identità pregressa. Un approccio progettuale che, di fatto, va in direzione diametralmente opposta alla replicabilità seriale di gran parte degli attuali spazi commerciali: punti vendita assolutamente impermeabili alle suggestioni esterne, sempre identici a sé stessi in qualsiasi città. Al contrario, la mia intenzione è quella di realizzare soluzioni – letteralmente – singolari. La volontà è quella di consentire massima libertà di azione alle

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–Evoluzione/Evolution

Le ore del design Time of design Aldo Colonnetti

Gli artefatti hanno sempre accompagnato gli uomini, in tutte le fasi dell’evoluzione sociale, individuale e collettiva. Disegnare oggetti, immagini e luoghi perché la nostra giornata abbia un significato, sia sul piano estetico che su quello semantico-operativo, rappresenta una delle attività che più di altre condiziona la nostra percezione della realtà; come scrive Abraham Moles, “l’oggetto, nella nostra civiltà non è mai naturale. Non si parla di una pietra, di una rana o di un albergo come di un oggetto, ma piuttosto come di una cosa. La pietra diventa oggetto solo quando le si fa assumere la funzione del fermacarte”. Sempre su questo tema, fondamentale per la cultura progettuale contemporanea, già Gillo Dorfles, nel suo saggio, Artificio e natura (1986), scriveva che “mentre le cose della natura sono date una sola volta, l’uomo si raddoppia, in quanto esiste di per sé come oggetto naturale, ma poi esiste anche in quanto riesca a creare a sua volta altri oggetti, che non sono necessariamente oggetti artistici, ma che sono trasformazioni della natura: entità che non esistono in natura, ma che sono oggettualizzazioni di qualcosa”. Certamente sempre più l’artificio domina l’organizzazione della vita quotidiana, declinando inesorabilmente le nostre ore, quasi che la percezione del tempo come dello spazio (la categoria interna e la categoria esterna della conoscenza, secondo l’analisi kantiana) siano fondate sul sistema degli oggetti che ci circondano, piuttosto che sulla coscienza dell’io. E il tutto accade attraverso un processo di “reificazione” sempre più accellerato, e quindi difficilmente analizzabile razionalmente. Si potrebbe affermare che ciascuno di noi vive 24 ore di design, nel senso che ogni oggetto, strumento, o esperienza urbana transita, prima di arrivare alla nostra “attenzione”, all’interno di tutte quelle discipline progettuali che danno una forma significante al mondo; più che essere protagonisti di questo mondo, siamo attori che recitano su un palcoscenico, dietro il quale, il regista è il progettista. Deriva da questa centralità, etica e politica, del progettista una serie di doveri e di diritti, rispettivamente, del designer e del cittadino; forse è prematuro indicare una sorta di “tavola delle

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leggi” da sottoporre al progettista, anche perché si presterebbe a strumentalizzazioni ideologiche che già la storia del secolo scorso ci ha presentato drammaticamente. È, comunque, necessario riflettere su questo tema, non soltanto dal punto di vista economico e sociologico, ma anche sul piano della cultura del progetto. Da un lato, emerge il problema delle regole da sottoporre a chi progetta, dall’altro lato esiste la necessità, ma direi soprattutto il dovere, da parte di chi usufruisce del sistema degli artefatti, di conoscere la cultura e quindi le finalità di chi “costruisce” la forma delle cose. Come scrive George Kubler, nel suo saggio Le forme del tempo, “la storia delle cose intende riunire idee e cose sotto la rubrica di forme visive, includendo in questo termine sia i manufatti che le opere d’arte, le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni: in breve, tutte le materie lavorate dalla mano dell’uomo sotto la guida di idee collegate e sviluppate in sequenza temporale. Da tutte queste cose emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile dell’identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione. Questo autoritratto riflesso delle cose serve al gruppo come guida e punto di riferimento per il futuro e diviene finalmente il ritratto tramandato ai posteri”. 24 ore di design significa soprattutto questo: produrre nuove conoscenze perché l’idea di comfort sia più diffusa, nel rispetto della nostra “forma del tempo”, come definisce Kluber la rappresentazione dell’identità collettiva. Molto utile, “very usefull to me”, commentava Robinson Crusoe dopo il naufragio quando rinveniva un arnese necessario alla propria sussistenza nell’isola deserta; ma come commenta Alberto Ronchey, nella società contemporanea, non è ancora disponibile l’arnese più necessario, “da lungo tempo allo studio dei laboratori tecnologici. Fuel cell è il nome della cosa, la pila per la trazione a idrogeno, che dovrebbe sostituire i carburanti e muovere gli automezzi a costi economici senza più scarichi di gas venefici”. Disegnare per l’uomo significa rispettare il tempo e lo spazio delle nostre ventiquattrore quotidiane, senza dimenticare che il contesto di riferimento di tutte le “cose” è la natura, intesa come il principio e la fine di ogni energia progettuale.

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–Pubblicità/Advertising

Annales Il Duemila che ormai si approssima avrà molti eventi da celebrare, a cominciare dalla fine del millennio (e poco importa che la data esatta sia il 2000 o il 2001), per passare al Giubileo, e alla fine di un secolo XX che già da solo ha molti motivi per essere celebrato. Forse le occasioni sono fin troppe se persino il Teatro alla Scala, nella sua stagione bimillenaria ha deciso di rievocare il percorso dell’opera del Novecento, scordando apparentemente che, nell’anno che viene, ricorre anche il quarto centenario della nascita del melodramma: anniversario, se si crede agli anniversari, della massima importanza soprattutto per l’Italia e che invece sarà assai poco festeggiato, certo meno del centenario del Milan A.C. Poco celebrata, a giudicare dalla mancanza di qualsiasi preparativo, sembra che finirà con l’essere anche una attività caratteristica di questo secolo che si chiude e che, se è stato certamente il secolo della comunicazione, è stato altrettanto il secolo della pubblicità. Anzi, gran parte dello sviluppo dei mezzi di comunicazione, dalla radio alla stampa giornalistica, dalla televisione a internet è stata ed è tuttora finanziata dalla pubblicità commerciale, o dalla comunicazione aziendale, come oggi si ritiene più politicamente corretto dire. Che questa particolare branca della comunicazione abbia profondamente interagito con la cultura del Novecento, sia a livello popolare che a livello alto, è innegabile. Ha trasformato l’aspetto del paesaggio, soprattutto urbano e soprattutto della parte più moderna dei centri urbani; ha condizionato sin dal loro nascere i linguaggi televisivi sottomettendoli a palinsesti che devono innanzitutto tener conto delle inserzioni e delle interruzioni pubblicitarie; ha rivoluzionato la struttura e l’aspetto delle riviste; ha modificato, arricchendolo da una parte e impoverendolo dall’altra, il linguaggio quotidiano; ha influito sulla narrazione cinematografica in un rapporto di dare e avere di difficile analisi; ha contribuito pesantemente, anche se spesso inconsciamente, alla riscoperta della retorica (altro merito del secolo che muore); si è fatta arte popolare, ricevendo dalla cultura ufficiale

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Marco Vecchia

quello stesso atteggiamento di interesse curioso e distacco spregiativo che altre forme di arte popolare – dal feuilleton al poliziesco, dall’avanspettacolo al fumetto – avevano già conosciuto; ha profondamente trasformato, creando anche non indifferenti problemi etici e giuridici, le pratiche della propaganda politica; ha contribuito sostanzialmente allo sviluppo e al progresso delle ricerche sociodemografiche e psicografiche e della psicologia sociale; è diventata arma formidabile per lo sviluppo della società dei consumi. E si potrebbe andare avanti a lungo in questo che non vuole essere un elenco di meriti, ma solamente un richiamo a quanto la pubblicità abbia cooperato in questo secolo a fare della nostra società quello che essa è oggi, per il bene o per il male. La mancanza di celebrazioni corrisponde d’altronde a un’altra lacuna: non esiste ancora una autorevole ed esaustiva storia dello sviluppo della attività pubblicitaria, dai primi reperti pompeiani alla vera e propria esplosione del nostro secolo. I motivi possono essere molti. Da una parte si può pensare, come fanno alcuni degli stessi pubblicitari, che si tratti di materia del tutto inadatta alla storicizzazione. Quella pubblicitaria sarebbe una produzione effimera per natura, finalizzata a rispondere a esigenze del qui e dell’oggi e destinata a scomparire non appena quelle esigenze siano superate. Che cosa interessa oggi sapere come la Camel accompagnasse l’affermazione del femminismo e quindi del fumo femminile, o sfruttasse l’affetto dei familiari dei soldati sui fronti della seconda guerra mondiale? Oggi tutto questo è lontano, la Camel deve far fronte a ben altri problemi e questi riguardano solo i suoi attuali comunicatori. Le vecchie pubblicità sarebbero a questo punto solo degli indizi utili a indagini sulla vita quotidiana di altri tempi, o tutt’al più materiali di studio per addetti ai lavori e per gli studenti delle proliferanti scuole e università di comunicazione, come le arringhe degli avvocati del passato nulla dicono oggi al di fuori dell’ambito strettamente professionale. I più estremisti arrivano sino ad aggiungere che la pubblicità

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SEMAFORI TRAFFIC LIGHTS

memoria e futuro

© Bristol

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–Advertising art

La pubblicità fa bene, se fatta ad arte Advertising is a good thing, if it is artfully done Conversazione tra / conversation between Fulvio Caldarelli, Aldo Colonetti e Gillo Dorfles.

Colonetti In tempi non sospetti, grandi imprese italiane come Olivetti ed Eni hanno compreso che per poter parlare di prodotto e di servizi era necessario affidare un ruolo strategico non soltanto alla cultura della comunicazione, ma anche alla cultura nell’accezione più vasta del termine. Uno slancio utopistico che ha saputo però produrre alleanze concrete tra il mondo dell’arte e il mondo dell’impresa. Caldarelli Basti pensare che erano i tempi in cui la direzione dell’house organ di Eni, Il Gatto Selvatico, era affidata ad Attilio Bertolucci: la cultura e la divulgazione assumevano un ruolo centrale, tutt’altro che accessorio. Colonetti La questione è se oggi, mutato il contesto storico e il pubblico di riferimento, è ancora perseguibile una simile alleanza tra impresa e cultura, tra impresa e conoscenza... Dorfles Non dimentichiamo, però, che in Italia la coscienza del valore artistico della pubblicità si è affermata tardivamente. Se le esperienze della Scuola Svizzera e della Scuola di Ulm diretta da Max Bill non avessero dato prova che la grafica pubblicitaria possedeva uno status artistico indipendente dal figurativismo, probabilmente nel nostro Paese avremmo perseverato ancora con tutte quelle pubblicità pittoriche. Di fatto, fino agli anni Sessanta, la pubblicità italiana era realizzata da pittori dell’epoca, come Leonetto Cappiello e Marcello Dudovich, che si servivano della loro arte per comporre manifesti e annunci stampa. Caldarelli E questo dimostra la grande lungimiranza di Enrico Mattei nell’indire già nel 1952 un concorso di idee per il marchio dei prodotti AgipGas e Supercortemaggiore, incaricando Giò Ponti di guidare la commissione composta da designer e artisti come Mario Sironi, Mino Maccari, Antonio Baldini e Silvio Negro. Dietro quel “cane a sei zampe fedele amico dell’uomo a quattro ruote” (questo il fortunato slogan ideato da Ettore Scola) immaginato dallo scultore Brogini e presentato da Guzzi, si cela un potenziale favolistico e simbolico che arriva fino ad oggi.

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Dorfles L’aspetto fondamentale, soprattutto in questo caso, è che il Cane a sei zampe non è solo una bella figura pittoricamente ben risolta e pubblicitariamente efficace, ma è un’invenzione narrativa a tutti gli effetti. Colonetti La sua forza sta nel fatto che non è stata pensata come immagine didascalica dell’identità aziendale: non richiama subito alla mente l’impresa petrolifera. Ed è proprio in virtù di quest’autonomia dell’invenzione che oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, l’immagine del Cane a sei zampe sopravvive al suo tempo e può trasmettere nuovi messaggi. Come tutte le invenzioni narrative, si presta ad essere interpretata da lettori diversi: oggi, ieri e domani. Dorfles Certamente è ancora possibile rilevare aspetti che la legano allo spirito del tempo in cui è stata concepita. Tuttavia, anche se oggi il marchio Eni non rappresenta più quei valori di cui si connotava allora, continua ad averne altri. A differenza di altre immagini prodotte in passato, appassite anche in ragione del progresso tecnologico: quello che cinquanta anni fa poteva essere l’emblema della velocità, oggi paradossalmente potrebbe esserlo della lentezza. Caldarelli Le recenti scelte di Eni in termini di strategia di comunicazione sembrano rivalutare la figura dell’artista come colui che ha la facoltà di vedere oltre. E questo sembra rimettere in discussione i vincoli di una concezione anglosassone dell’immagine coordinata, per lasciare maggiore spazio all’interpretazione fantastica. Dopo il primo restyling affidato negli anni Settanta a Bob Noorda che ne disciplinò anche l’impiego nel sistema di immagine coordinata e l’ultima revisione di pochi anni fa, nelle ultime campagne si è voluto che il marchio fosse reinterpretato liberamente dalla visionarietà immaginifica di giovani artisti come la sand artist israeliana Ilana Yahav. Non un’iniziativa spot, ma un progetto strutturato attorno alla comunità di enizyme, il collettivo di musicisti, attori e artisti visivi che ha firmato la stagione più recente della co-

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–Note/Notes

Il tasto giusto The right bottom Intervista a/interview with Stefano Bollani

Il linguaggio musicale è un istinto innato? Tutti hanno talento musicale, la differenza sta nel fatto che alcuni riescono a tirarlo fuori ed esercitarlo con maggiore facilità. Al di là di programmi di insegnamento più o meno validi, esistono buoni insegnanti e cattivi insegnanti. C’è chi plasma l’allievo a propria immagine e somiglianza, disinteressandosi completamente della sua personalità. Ricordo che a nove anni, ho preso coraggio e ho chiesto alla mia maestra di musica classica se mi insegnava a suonare Pianofortissimo di Renato Carosone. Molti docenti mi avrebbero messo a tacere, liquidando quel brano come una banale canzonetta senza dignità che non aveva niente a che fare con la musica ‘seria’. Lei invece non ha mostrato pregiudizi e mi ha fatto suonare una canzone che non conosceva neanche. Quasi sempre la didattica della musica segue una rigida impostazione nel rispetto di regole prestabilite, senza preoccuparsi degli interessi e delle inclinazioni degli studenti. Il conservatorio, come testimonia il nome, è una realtà assolutamente conservatrice. Ci sono cose che ritengo aberranti: sono convinto che molti bambini proseguirebbero lo studio della musica se non incontrassero per prima cosa sulla loro strada il dogma del solfeggio. È un’assurdità pretendere di insegnare a un bambino come si chiamano, si scrivono e si leggono correttamente le note, prima ancora che abbia preso in mano uno strumento e ne abbia scoperto il suono. Sarebbe come insegnare al proprio figlio, che ancora non sa parlare, la scrittura della parola ‘albero’ senza che ne abbia visto almeno uno, quantomeno in foto o in disegno. La musica è un linguaggio e, come nell’apprendimento del linguaggio verbale, lettura e scrittura andrebbero insegnate a coloro che hanno già iniziato a parlare. Come avviene in tante altre culture non occidentali, bisognerebbe che le persone incontrassero la musica prima di tutto suonandola. Noi invece abbiamo abolito questo primo approccio diretto e spontaneo alla musica: autorizziamo a parlare soltanto chi sa leggere e scrivere. Siamo sopravvissuti in tanti a una simile didattica della musica, ma sono convinto che abbia prodotto i suoi danni: molte più persone, anche se non sarebbero diventate comunque dei musicisti professio-

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nisti, avrebbero potuto avere una relazione più profonda e consapevole con il mondo della musica. Quanto istinto e quanta strategia c’è nel musicista jazz? Intendo il jazz come un’estetica che trova nell’improvvisazione la strategia per rinnovare, attraverso l’istinto, una struttura data. Al di là di qualsiasi ideale di perfezione, vive soprattutto in relazione al mood del momento. L’improvvisazione, pur non nascendo nel jazz, ne è l’autentica prerogativa. Anche se al conservatorio non viene raccontato, improvvisavano già i musicisti barocchi, sebbene in maniera più limitata e in sudditanza di determinate categorie estetiche. Di fatto, nello studio della musica classica si è deciso di bandire l’istinto unicamente a favore della strategia, quella di definire ogni dettaglio dell’interpretazione di un brano assolutamente prima della sua esecuzione. Si insegna a suonare seguendo accuratamente un copione prefissato, senza lasciare spazio all’istinto musicale del momento. Ma, guarda caso, i grandi musicisti classici di solito non hanno mai mostrato gran sintonia con i precetti dell’accademia. Ed è proprio questa estetica dell’imperfezione il vero contributo del jazz al Novecento. L’imperfezione non deve essere rinnegata perché è sintomo di ricerca. Il jazz non vuol essere celebrazione di una forma compiuta. Quando l’obiettivo è quello di perseguire un’interpretazione definitiva e raggiungere una forma perfetta, non c’è spazio per i rischi dell’improvvisazione e l’errore. E siccome un’esecuzione interamente soddisfacente non c’è mai, la sala di registrazione diventa allora uno strumento strategico per catturare le note giuste, assicurare i passaggi desiderati e aderire quanto più possibile alla forma idealizzata. E così un’incisione di sette minuti può contare oltre trecento tagli da parte del tecnico del suono. Evan Eisenberg, nelle pagine del libro L’angelo con il fonografo, spiega molto bene come l’avvento del disco abbia cambiato il modo di comporre e concepire la musica, anche quella classica. Glenn Gould è un vero stratega del lavoro in studio e della volontà di lasciare incisioni dove niente è lasciato al caso. Se l’intento è quello di firmare un’interpretazione di Bach che corrisponda

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Senza traduttori ricadremmo nella barbarie. La traduzione è una delle ultime trincee dell’altro aspetto dell’universalità. Senza traduttori saremmo tutti più lontani e più soli.

Tradurre Translating Tradurre nasce da trans ducere, trasportare oltre, al di là: il traduttore trasporta il testo al di là della barriera rappresentata da una lingua sconosciuta, rendendolo così accessibile a quanti non conoscono quell’idioma. La traduzione è quindi essenzialmente un atto di comunicazione che si articola in due momenti ben distinti: la decifrazione del messaggio, lì dove il traduttore è l’interprete per antonomasia, e la sua riformulazione secondo un nuovo codice, quello della lingua di arrivo, quando il traduttore passa dal ruolo di lettore a quello di scrittore. Decifrare la ricchezza di messaggi implicita in un testo, specie se letterario, non è compito facile. Il traduttore dovrà districare le sottili trame che uniscono il testo al contesto, cioè alla selva di testi a cui questo si affianca sia in senso sincronico che diacronico; dovrà seguire i mille fili, spesso invisibili, che legano l’opera alla situazione storica, sociale, geografica, culturale in senso lato che l’ha prodotta, e dovrà infine analizzarne i registri, cioé le varie lingue presenti in una lingua, come il linguaggio accademico o quello infantile, il gergo mili-taresco o quello burocratico. In altre parole, il traduttore dovrà comprendere e volgere nella propria lingua non un semplice testo, ma un’intera cultura, assumendo un ruolo di mediatore tanto più difficile quanto più grande è la distanza fra i due mondi. La sua lettura sarà inevitabilmente personale e quindi discutibile e parziale, ma non perché il traduttore sia, come recita l’adagio, un traditore. La drammatica antinomia fra universalità e soggettività impedisce anche al lettore madrelingua di apprezzare appieno il messaggio formulato dall’autore in una lingua plasmata dalle sue personalissime esperienze e quindi,

in questo senso, straniera anche a chi parla lo stesso idioma. È evidente che in realtà qualsiasi atto di comunicazione implica una traduzione e che splendori e miserie di quest’arte riflettono semplicemente pregi e limiti del linguaggio. Se decifrare un testo, vincere almeno in parte la sua irriducibile alterità è una prova ardua, ricrearlo nella propria lingua lo è ancora di più, specie nel caso dell’opera letteraria. Le difficoltà offerte da un saggio di economia o da un trattato di matematica, grazie alla loro formulazione tecnica, saranno relative; la poesia col suo indissolubile intreccio di forma e senso presenterà naturalmente ostacoli assai maggiori. Il traduttore letterario dovrà allora coltivare una grande familiarità con l’autore sino a raggiungere una profonda consonanza che, sottraendolo all’insensato dilemma “Brutta fedele, bella infedele”, guiderà la sua penna verso l’irraggiungibile modello della traduzione ideale, quella che crea l’illusione di essere stata scritta direttamente dall’autore. Ogni traduzione porterà inevitabilmente traccia del suo traduttore, nello stesso modo in cui una melodia, pur restando sempre la stessa, cambia in modo radicale a seconda del musicista che la esegue. Ma l’autore, seppur ‘tradito’, sarà ricompensato: la sua opera, sinora lettera morta fuori dai suoi confini e dal suo tempo, acquisterà nuova vita raggiungendo altri mondi e altri lettori. Ilide Carmignani (Traduttrice italiana/Italian translator of di Luis Sepúleda, Almudena Grandes e Paco Ignacio Taibo II)

tratto da/from NB. Numero/Issue 1, Anno/Year I - dicembre 1999 - marzo 2000

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–Testo a fronte Sin traductores volveriamos a la barbarie. La traducción es una de las ultimas trincheras de la otra manera de la universalidad. Sin traductores todos estariamos mas lejos y mas solos.

–Paco Ignacio Taibo II

Cuál es el papel que juega la traducción en una obra literaria? La traducción y la obra literaria son dos cosas diferentes. Un escritor no escribe pensando en una posible traducción. Sin embargo, para la literatura la traducción tiene una importancia enorme, porque es lo que permite universalizar la obra de los escritores; en otras palabras, la traducción es como un gran puente que permite ampliar el camino de la obra del escritor. Una novela traducida conserva la identidad del original? No necesariamente, eso depende de la calidad de la traducción y de la profesionalidad del traductor o de la traductora. Pero creo que todas las buenas traducciones tienen la virtud de acercar la obra literaria extranjera a la particularidad del idioma al que es traducida. Ello supone una aproximación cultural y una aproximación semántica, y exige un gran dominio lingüístico para encontrar las equivalencias; así pues, no creo que exista una traducción literalmente fiel, porque una traducción literal no tiene sentido. Una traducción literal carece de valor. Pero lo que sí existe es la ‘traslación’ de algo escrito en un idioma a otro idioma con todos sus valores y todas sus equivalencias. Considera que existe una lengua extranjera que, por recíproca afinidad, tenga mayor capacidad para captar y evocar los efectos rítmicos y sonoros y las características de su escritura? Tengo la fortuna de poder leer algunas de mis traducciones a los idiomas que conozco y reviso las versiones francesas, alemanas, italianas, portuguesas e inglesas de mis obras. Naturalmente, el idioma que siento más vecino es el portugués, pero indudablemente en todos los casos hay un juego de equivalencias que siempre es interesante. Yo escribo en un idioma que cabría definir como latinoamericano, es decir que se nutre de palabras argentinas, uruguayas, ecuatorianas, colombianas... Y al traducirlo a cualquier otra lengua, ese vocabulario se reduce solamente al de un idioma. Indudablemente se da una pérdida en ese proceso. Pero al mismo tiempo aprecio siempre por partes de los traductores un gran esfuerzo por mantener la frescura de la escritura, la frescura del uso del idioma. Cómo se relaciona el profesionalismo del traductor con respecto a la figura del autor? La figura del traductor es de primordial importancia. Sin el traductor, que suele ser de norma un personaje anónimo, sería imposible que conociéramos la literatura universal. Es

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sabido que la gente que lee en otros idiomas es una minoría. Me parece que el trabajo de los traductores está injustamente oculto, creo que es una profesión muy hermosa, pero al mismo tiempo muy ingrata. No se reconoce la parte creativa del trabajo de la traducción. En muchos países ni siquiera se pagan los honorarios de la traducción, lo que es una injusticia desde cualquier punto de vista. Por todo ello, yo soy, pues, un gran defensor del traductor, del trabajo de la traducción, porque conozco lo que significa traducir bien y se lo ingrato que resulta el no recibir la retribución correspondiente, la que es justa. Siempre he considerado que es fundamental que los escritores y los traductores formemos una suerte de frente común. Tiene una relación de efectiva colaboración con sus traductores? Yo tengo una relación de gran amistad y reciprocidad con muchos de mis traductores, e insisto siempre en querer participar, colaborando en todo lo que sea posible, en la traducción. Por ejemplo, ayudando a entender cosas que el traductor posiblemente no pueda comprender, sea porque se trate de giros muy herméticamente latinoamericanos, sea porque hay cosas de nuestra historia personal que no tiene porque conocer todo el mundo. En resumen, mi relación con los traductores es la de un trabajo compartido muy intenso. Considera que la mayor dificultad que presenta la traducción de idiomas parecidos, haya sido el elemento que en el pasado obstaculizó la difusión y la afirmación de la literatura latinoamericana? No lo sé, creo que hay dos grandes literaturas destinadas a ser ampliamente traducidas: por un lado, la literatura anglosajona y, por el otro, la literatura que proviene del mundo hispanoamericano, de España y de Latinoamérica. Sin embargo, el mundo de la traducción en Europa es mucho más amplio y rico que en los países anglosajones y los países de habla hispana. Es decir, que los autores italianos o franceses, por ejemplo, no encuentran con facilidad buenos traductores en España, donde el campo de la traducción no está muy desarrollado. Y en los países anglosajones es mucho más pequeño aún: en Inglaterra, de cada cien libros, solamente cinco son traducciones. En cambio en Europa central (Alemania, Holanda, Italia, Francia, etc.) el panorama de la traducción es mucho más rico. Intervista a/interview with Luis Sepúlveda a cura di/by Maurizio Rossi.

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Nino Friscia. I quadri del cantastorie Nino friscia. The storyteller’s paintings

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–Parole/Words

Il rosso dell’uovo The heart of the matter Intervista a/interview with Andrea Camilleri

Qual è stata la priorità progettuale che l’ha guidata nella direzione artistica della rassegna “Suoni di versi. Catania e le Città del Mondo”? In passato ho provato più di una volta quasi un senso di ribrezzo nel veder rappresentati spettacoli estivi all’aperto, con le loro brave scenografie dipinte e costruite, perché spesso il risultato finale dell’allestimento che avevamo progettato, appariva letteralmente ‘contro’ l’architettura delle facciate retrostanti. Per quanto riguarda invece l’esperienza catanese, prima ancora di avere dei testi in mente da far recitare e da mettere in scena, sono andato direttamente sui luoghi. Così sono stati proprio alcuni luoghi di Catania, a suggerirmi le strade per raggiungere certi testi. Ad esempio, il Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati, è un romanzo quasi totalmente ambientato in via Etnea, così ho proposto di far chiudere la via e di farlo rappresentare proprio lì, in mezzo ai passanti. Lo stesso è accaduto per Le Città del Mondo di Elio Vittorini, messo in scena nel Cortile Platamonte, e per tutti gli altri spettacoli in cartellone ad eccezione de La Messa della Misericordia, l’unico testo nato e pensato esplicitamente per il teatro, e dunque allestito nel sagrato della splendida Chiesa S. Niccolò l’Arena. Credo che Michael Nymann, direttore della sezione musicale dell’evento, in fondo, abbia fatto lo stesso mio percorso, valutando che alcune musiche non potevano assolutamente concordare con l’architettura e l’atmosfera della città. Così abbiamo lavorato di comune accordo in questa direzione. Quasi sempre il pretesto alle trame dei suoi romanzi è un episodio, apparentemente marginale, dell’integrazione siciliana all’unità d’Italia. Se vi sono, quali sono le altre costanti? In effetti, la maggior parte delle storie narrate nei miei romanzi sono ambientate nel periodo immediatamente successivo all’unità d’Italia, un momento storico che mi sta particolarmente a cuore. Generalmente c’è una notizia che leggo, un fatto storico che mi colpisce e da cui traggo ispirazione. Tuttavia non definirei le mie opere dei veri e propri romanzi storici, ma delle microstorie che prendono solo uno spunto dagli avvenimenti, poiché al di

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là di una suggestione iniziale, raccolgo pochissime informazioni e mi documento minimamente su quanto è realmente accaduto. Quando mi trovo a scrivere una storia che trova il suo pretesto in un fatto di cronaca, la mia scrittura procede in modo singolare: l’episodio che mi ha colpito, e da cui parto, è come il rosso dell’uovo: la zona centrale attorno alla quale, per cerchi concentrici, costruisco l’intero romanzo. Quindi la stesura non procede affatto, cronologicamente e linearmente, dal primo all’ultimo capitolo. Così il nucleo originario, che è stato il punto di stimolazione iniziale, non è detto che occupi la parte centrale del corpo narrativo definitivo: può darsi infatti, che la scrittura non si sviluppi in forma di cerchio ma di ellisse, e che quindi il punto di partenza si trovi, nella collocazione finale, ampiamente decentrato rispetto all’architettura dell’intero romanzo. Certamente così non ottengo una cronologia temporale perfetta, ma è proprio un’alterazione del tempo narrativo ciò che mi interessava sperimentare in un romanzo come Il birraio di Preston, dove gli episodi narrati parallelamente, si svolgono in realtà in tempi diversi. Addirittura La concessione del telefono è un mio tentativo di eliminare totalmente il narratore, lasciando il lettore solo, di fronte a lettere, documenti e brani di dialogo. Ma se nei romanzi del cosiddetto ciclo storico, mi sono permesso di effettuare una certa ricerca strutturale, mi sono voluto confrontare anche con quel genere di romanzo che lo stesso Sciascia riconosceva come l’unico in grado di ricondurre lo scrittore ad una rigida ingabbiatura logico-temporale: il romanzo giallo. È stata dunque una scommessa con me stesso, cominciare a scrivere La forma dell’acqua, il mio primo romanzo giallo. Ha rappresentato una sorta di autodisciplina personale, scrivere partendo proprio dal primo capitolo e seguendo un preciso ordine cronologico, senza alterare in nessun modo tempi logici e tempi narrativi: il giallo ti obbliga a non barare. Il suo stile contempla spesso il paradosso della battuta, il dialogo vivo e una intitolazione dei paragrafi che funziona come conclusione, posta in testa anziché in coda, della storia narrata.

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–Costumi/Uses

Amarcord Me lo ricordo bene, quando si viveva nella civiltà della fame, o se vogliamo essere più corretti, nella società della scarsità. La comunicazione, al confronto di oggi, quasi non esisteva e non ce ne accorgevamo neppure. Pochi amici con il telefono, pochissimi con il televisore, alcuni con la Vespa, solo i figli di papà con l’auto. Si parlava, si camminava, si ascoltava musica. Lontani anni luce dal diluvio informativo di oggi, dai cellulari che trillano come cicale in ogni luogo, che mandano messaggi cifrati (T.V.M.B. io di + 6 bella). Era meglio, era peggio? Era diverso. Certo, più scomodo, molto più silenzioso, più raccolto, meno sguaiato. Se confronto la comunicazione degli anni di guerra, con le notizie sullo sbarco degli alleati captati di nascosto da Radio Londra, con i quattro colpi di tamburo che riprendevano l’inizio della Quinta di Beethoven (un ritmo cupo che metteva i brividi, soprattutto se passavano nei pressi delle pattuglie tedesche che avrebbero fucilato chiunque fosse stato trovato all’ascolto) e lo paragono con le immagini delle Twin Towers che crollano in diretta, le emozioni sono identicamente forti, mentre i due sistemi di comunicazione sono chiaramente all’opposto. Le immagini, in radio, erano quelle della fantasia, in TV, quelle della realtà. Ma non sempre la fantasia perde, nel confronto. Ma lo strumento di comunicazione che in quel giorno, quel maledetto storico e trasformante 11 settembre, ha dimostrato di aver perso, è stato Internet: almeno in quelle ore, chi poteva ha spento il computer ed ha acceso la televisione, al limite, la radio. Poi si è attaccato al cellulare per dirlo agli altri, sperando di arrivare per primo, quasi godendo dell’essere per primo messaggero di una catastrofe. Negli anni in cui ascoltavo Radio Londra di nascosto non sapevo quale fosse la differenza tra informazione e comunicazione. Non mi era chiaro che si comunica sempre e che se anche si cerca di non comunicare, si comunica lo stesso. Non sapevo che invece non sempre si fa informazione, perché se non si informa, l’informazione davvero non c’è. Allora non sapevo che la memoria fosse così importante.

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Enrico Cogno

La usavo, in quei tempi, solo come tecnica di studio, e quello era l’uso che consideravo serio, in alternativa all’uso gioioso, per ricordare cose gradevoli, per rivivere dei momenti belli. Non conoscevo la distinzione tra memoria a lungo termine, quella di tipo emozionale, eterna, e la memoria labile, quella che usavo per leggere dei testi mal scritti da recitare in esami sgradevoli. La memoria l’avevo ridotta a strumento utile per ottenere un voto di sufficienza, non sapevo nulla dell’emisfero sinistro e di quello destro del cervello, non sapevo che gli ermeneuti greci e i docenti della Roma antica sapevano giocare con la memoria come Cirano con le parole, sapevano trarne il massimo profitto, visto che scrivere, all’epoca, era poco agevole e che tanti erano gli analfabeti. Ho incominciato a capire che cosa volesse dire saper fare davvero comunicazione quando, nella mia prima visita romana, mi imbattei nelle lastre di marmo di via dei Fori Imperiali che mi mostravano, tavola dopo tavola, il successivo espandersi dell’impero. Pensateci: senza Internet, senza fax, senza telefono, senza giornali, senza radio, senza TV, il sistema di comunicazione degli antichi romani teneva saldamente collegato quasi tutto il mondo. Era più lento, ma doveva funzionare perfettamente, visti i risultati. Credo che il fattore determinante fosse la capacità, certo maggiore di quella attuale, di memorizzare. Non per nulla noi, mammiferi umani di lentissima crescita, impieghiamo ben 25 anni per giungere ad una relativa maturità e ne trascorriamo altrettanti a dormire: assommando, nella vita media di un individuo, le ore di sonno a quelle del tempo che gli occorre per diventare psicologicamente maturo, ogni persona impiega 50 anni, quindi ben oltre la metà della sua vita media. Di quello che gli resta, una grande parte, soprattutto verso la fine, la passa a ricordare. Non abbiamo più bisogno di usare la memoria per ricordare cose che una banca dati può custodire meglio della nostra materia grigia; dobbiamo invece incominciare ad usare la memoria come macchina della metafora, come generatore di nuovi sistemi di relazione.

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PRIMO PIANO CLOSE UP


Technological graveyard by Alan Fletcher


NB. NOTA BENE. I LINGUAGGI DELLA COMUNICAZIONE/ COMMUNICATION LANGUAGES. NUMERO/ISSUE 1 ANNO/YEAR III NOV 2011 EAN 9788895962368 DIRETTORI/EDITORS FULVIO CALDARELLI, MAURIZIO ROSSI. DIRETTORE RESPONSABILE/MANAGING EDITOR NICOLA MAGGI. COMITATO DI DIREZIONE/DIRECTION COMMITEE GILLO DORFLES, ALDO COLONETTI, STEFANIA GIANNINI, RENATO NICOLINI, ERMINIA PALMIERI. ART DIRECTOR MICHELE A. TAVOLIERE. REDAZIONE/EDITORIAL STAFF VALENTINA AGRIESTI (LAYOUT), ALESSIO COSMA. IN QUESTO NUMERO/IN THIS ISSUE: MARC AUGÉ, RUEDI BAUR, ALESSANDRO BERGONZONI, STEFANO BOLLANI, EDOARDO BONCINELLI, ACHILLE BONITO OLIVA, MENOTTI CALVANI, ANDREA CAMILLERI, FULVIO CARMAGNOLA, ILIDE CARMIGNANI, ENRICO COGNO, ALDO COLONETTI, GILLO DORFLES, ENRICO GHEZZI, GIOVANNI LUSSU, LAMBERTO MAFFEI, ENZO MARI, ENRICO MENDUNI, ANTONIO MORESCO, RUGGERO PIERANTONI, LUIS SEPùLVEDA, MARCO VECCHIA. PHOTO MARCO DE LOGU, LUIGI FIANO, ALAN FLETCHER. ILLUSTRAZIONI/ILLUSTRATIONS VALENTINA AGRIESTI, BRISTOL, MICHELE A. TAVOLIERE, CRISTINA ZINNI. TRADUZIONI/TRANSLATIONS STUDIO M. M. BERNET, MAURIZIO ROSSI, COLIN SWIFT.

In copertina: Senza titolo (particolare), Cristiano Pintaldi, 1997. Cristiano Pintaldi è nato nel 1970 a Roma dove vive e lavora. Nella serie di opere Aliens, Pintaldi riproduce fotogrammi tratti da vecchi film di fantascienza dipingendone i pixel attraverso una tecnica manuale lunga e laboriosa, retaggio di altri tempi. L’inquietante grazia dei volti di bambini dallo sguardo rapito sembra nascondere una natura perversa, tutt’altro che umana: la stessa ingannevolezza dell’attuale universo mediatico e delle realtà simulacro che lo abitano. Cover: Senza titolo (detail), Cristiano Pintaldi, 1997. Cristiano Pintaldi was born in Rome in 1970, where he lives and works. In the series Aliens, Pintaldi reproduces certain frames taken from old science fantasy movies, with a laborious manual execution, a legacy of times gone by. But the disquieting grace of children’s faces, their stolen glances, seem to hide a perverse nature, which has nothing to do with what is human: the same deceptiveness of the current media universe and the sham realities inhabiting it.

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