Nota Bene risveglia l’emozione della conoscenza almeno tre volte l’anno. Il primo periodico italiano dedicato ai linguaggi della comunicazione torna con una nuova serie: corrispondenze, relazioni, interviste, reportage, case history. Nuove pagine di lettura del sapere contemporaneo.
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_N.B.
NOTA BENE. I LINGUAGGI DELLA COMUNICAZIONE / COMMUNICATION LANGUAGES RIVISTA QUADRIMESTRALE / FOUR-MONTHLY REVIEW NUMERO / ISSUE 0 ANNO / YEAR I OTTOBRE 2009-GENNAIO 2010 ISBN 978-8895962-45-0 DIRETTORI / EDITORS FULVIO CALDARELLI, MAURIZIO ROSSI ART DIRECTOR MICHELE A. TAVOLIERE DIRETTORE RESPONSABILE / MANAGING EDITOR MARIO MORCELLINI COMITATO DI DIREZIONE/ DIRECTION COMMITEE GILLO DORFLES, FRANCO FEDERICI, STEFANIA GIANNINI, EUGENIO IORIO, RENATO NICOLINI REDAZIONE/EDITORIAL STAFF SANDRO CALDARELLI, LUCA CICCIONI, ERMINIA PALMIERI GRAPHIC DESIGNERS MALICA WORMS (LAYOUT), VALENTINA AGRIESTI, IDA POTENZA IN QUESTO NUMERO HANNO SCRITTO/WRITERS IN THIS ISSUE ALBERTO ABRUZZESE, ANGELA BARBANENTE, GIORGIO BATTISTELLI, RUEDI BAUR, MARCO DELOGU, GILLO DORFLES, DANTE
FERRETTI, LUIGI FIANO, STEFANIA GIANNINI, EUGENIO IORIO, UGO LA PIETRA, LEO LIONNI, ENZO MARI, ANTONIO MORESCO, RENATO NICOLINI, RUGGERO PIERANTONI HAN-
In questo numero In this Issue I.
Nota Bene. Editoriale/Editorial
II.
Osservatorio Bird Watching
6
—I paralleli/The parallels Forme/Shapes La città degli déi/The city of the gods Intervista a Enzo Mari
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È necessario che gli artefici dei progetti che vanno a comporre la città siano degli artisti, come avveniva fino ad un passato piuttosto recente. We need the creators of projects who go and compose the city, to be artists, as used to happen up to a fairly recent past.
Cover 1: Luigia Capurso e Annamaria Gagliardi, Elaborazione da Carta Tecnica Regionale della morfologia del costruito dell'area della Puglia Centrale, 2006. In giallo sono segnalati gli interventi di edilizia pubblica. Elaborated from Carta Tecnica Regionale della morfologia del costruito dell'area della Puglia Centrale, by Luigia Capurso and Annamaria Gagliardi. Indicated in yellow: public building interventions. (Courtesy Archivio dell’ Istituto Autonomo delle Case Popolari di Bari) Cartografìa /kartogra’fia/ [comp. di carta e -grafia] s. f. : Insieme di conoscenze scientifiche, tecniche e artistiche finalizzate alla rappresentazione simbolica, ma veritiera, di informazioni su supporti cartacei in relazione al luogo geografico, o mentale, di appartenenza. Cartography /kartogra’fia/ [comp. di carta and -grafia] s. f.: Scientific, technical and artistic knowledge aimed at symbolic but true representation of information on paper support in relation to the original geographical or mental place.
Cover 2: Michele A. Tavoliere, La città senza nome, poster, 2009 (© blueforma) Esistono ancora città? Luoghi dall’identità univoca e certa, dai confini così nettamente distinti da ospitare una comunità riconosciuta e riconoscibile sotto il nome di cittadinanza. La cartografia del paesaggio contemporaneo appare costellata da città senza nome, orfane di una definizione condivisa in cui diverse soggettività possano riconoscersi e trovare cittadinanza. Do cities still exist? Places with a clear, certain identity, their confines so distinct as to host a community we might define as citizenship. The cartography of the contemporary landscape seems to be studded with cities without names, orphans of a shared definition in which different subjectivities are able to recognise themselves and discover citizenship.
Luoghi /Places Geografie dell'altrove The geographies of elsewhere Intervista ad Antonio Moresco
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Se questo spazio sembra colonizzato e precluso bisogna inventarcene un altro. If this space seems colonized and barred we have to invent another one.
Contorni/Outlines London, Zürich, Milano Reportage fotografico di Luigi Fiano
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Tre città. Tre diversi percorsi. Una ricerca comune per constatare e sorprendersi di come cambia il paesaggio urbano. Three cities. Three different itineraries. A common search noticing being surprised at how the urban landscape changes .
—I meridiani/The meridians Paesaggi mentali/Mindscapes La città senza nome/The nameless city di Franco Federici
33
Da vecchio neurologo propongo un processo di costruzione mentale dello spazio urbano, prima di diventare costruttori di case. As an old neurologist I propose a process of mental construction of urban space, before becoming house builders.
/DQ©MNM©ODQCDQD©HK©ȯKN www.faustolupettieditore.it
Azioni/Actions City senses Intervista ad Angela Barbanente
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Parliamo di una città viva, della civitas, non di un insieme di pietre. We are speaking of a live city, the civitas, not a pile of stones.
SI RINGRAZIA L'UNIONE EUROPEA E LA REGIONE PUGLIA PER IL CONTRIBUTO DATO A QUESTO NUMERO DELLA RIVISTA
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NO FOTOGRAFATO/THE PHOTOGRAPHERS IN THIS ISSUE MARCO DELOGU, LUIGI FIANO, SFEFANO LACU ILLUSTRAZIONI/ILLUSTRATION MICHELE A. TAVOLIERE FULVIO CALDARELLI TRADUZIONI/TRANSLATIONS COLIN SWIFT DIREZIONE E REDAZIONE/DIRECTION AND EDITORIAL OFFICE: VIA FILIPPO CASINI 8 – 00153 ROMA TEL. 0039 06 58303065 INFO@BLUEFORMA. IT DIREZIONE EDITORIALE, DIFFUSIONE E AMMINISTRAZIONE / EDITORIAL DIRECTION, DIFFUSION AND ADMINISTRATION LOGO FAUSTO LUPETTI EDITORE, VIA DEL PRATELLO, 31 – 40122 BOLOGNA TEL. 0039 051 5870786 WWW.FAUSTOLUPETTIEDITORE.IT PROMOZIONE E PUBBLICITA’/ PROMOTION AND ADVERTISING DANELIELELUPETTI@FASTWEBNET.IT SUPPLEMENTO COMUNICAZIONEPUNTODOC – REGISTRAZIONE PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO N.134 DEL 23-03-2009
Set Frames 43 Intervista a Dante Ferretti Pasolini mi ripeteva sempre che il pittore quando andava a ritrarre
sulla tela dipingeva solo l’essenziale per raggiungere l’essenza. Pasolini used to tell me over and over that the painter when he went to portray on the canvass he only painted the essential to achieve the essence.
Partiture/Scores Brani urbani/Urban pieces 47 Intervista a Giorgio Battistelli Se penso all’ascoltatore del nostro tempo, lo immagino
con un grande occhio e un piccolo orecchio. I imagine the listener of our times with a large eye and a small ear.
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geografie dello spazio collettivo. A narrative short-circuit capable of documenting the new geographies of collective space.
Testo a fronte Post-city age Alberto Abruzzese-Renato Nicolini
53
—L'esercizio della linea/The exercise of the line
V.
Visioni/Visions Della grandezza dei sogni On the greatness of dreams di Ruggero Pierantoni
63
L’abitudine a vivere ci insegna immediatamente che alcune cose che appaiono grandi in un contesto, sembrano insignificanti in un altro. The habit we have of living teaches us immediately that certain things which appear great in one context, seem insignificant in another.
_N.B. Nuova Serie, n. 0, Anno I
83
—Culture/Cultures Inter nos 89 di Stefania Giannini Aprirsi al resto del mondo e creare condizioni concrete
Appunti Notebook
—Linguaggi/Languages Public Camp Comunicazione di servizio Here is an announcement di Eugenio Iorio
Nowadays no artist can say "no day without a line".
77
Il marketing è esattamente l'opposto della democrazia. The marketing is the exact opposite of democracy.
Semafori Traffic Lights
senza preconcetti. Born every time with a different sense, with one's mind open, without preconceptions.
Progetti/Projects Don't brand the city Intervista a Ruedi Baur
III.
Sentenze/Sentences Tratto di carreggiata/Stretch of lane 57 Intervista a Gillo Dorfles Oggi nessun artista potrebbe dire “nessun giorno senza una linea”.
71
IV.
—Zenith
Supervisioni/Supervision Birdwatching Un cortocircuito narrativo in grado di documentare le nuove
Ritratti/Portraits Reset di Marco Delogu Nascere ogni volta con un senso diverso, con la mente aperta
di coesione e solidarietà sociale fra italiani e stranieri immigrati. Open up to the rest of the world and create the real conditions for social cohesion and solidarity between Italians and immigrant foreigners.
La finestra Bow window
—Urban design Ugo La Pietra. Esplorazioni/Explorations 91 di Gillo Dorfles Mi sono mosso spesso come l'esploratore si muove su di un territorio
da conquistare. I have acted often like an explorer acts in a territory to conquer.
Approdi/Landings Leo Lionni. L’immaginazione come mestiere The image inventory as métier di Franco Federici
95
Marinetti in persona lo aveva proclamato futurista. Marinetti in person proclaimed him a Futurist.
5
Nota Bene è un avvertimento antico. Un invito a soffermarsi su nuove relazioni di significato, un suggerimento a percorrere nuove direzioni di senso. Come in una reazione chimica, all’autarchia delle moli si contrappone la disponibilità al legame delle molecole di sapere. Una divulgazione aperta, in cui trame reticolari di conoscenze specialistiche assumono la fisionomia plastica e policentrica di geometrie fluide e variabili. Sulle pagine di NB, la collaborazione di più scritture vuol essere concretezza mediatica: l’intenzione è che le figure possano essere espansione della parola scritta, completamento e superamento dei contenuti dell’informazione; e viceversa. Questo numero zero segna la ripresa di un discorso interrotto, ma il cui messaggio - certamente ambizioso – rimane lo stesso: approfondire aspetti che reclamano la giusta attenzione con la complicità di competenze apparentemente distanti; tante quante sono ormai le componenti culturali e produttive coinvolte nella progettazione e nella realizzazione della società della comunicazione. Intenzione condivisa anche da blueforma, il nuovo centro interdisciplinare di design. Una realtà dove la collaborazione tra professionalità diverse genera una cultura strategica, alla ricerca delle forme di pensiero che formano le immagini, alla scoperta di immagini che cercano nuove forme. E’ la volontà di interpretare l’evoluzione del paesaggio che ha condotto blueforma a porsi l’interrogativo se esistono ancora città. La ricerca delle possibili risposte anima la seconda edizione del convegno internazionale di studi La città senza nome. Un invito alla riflessione rivolto a tutti coloro che intervengono nella stesura, più o meno consapevole, del complesso testo dei luoghi. Birdwatching, film documentario, è invece lo strumento di lettura complementare e obliquo capace di catturare e ricomporre frammenti di senso e significato. Nella convinzione che la fenomenologia urbana contemporanea sia refrattaria a una lettura trasparente e univoca. Ne emerge un territorio in cerca disperatamente di un’anima da dare a se stesso e ai suoi abitanti. Una città orfana di una definizione condivisa nella quale le diverse soggettività possano riconoscersi e trovare cittadinanza. E l’identità, per definizione, deve essere innanzitutto auto-intelleggibile. La città del passato possedeva modelli culturali e linguistici peculiari che ne decretavano la particolare identità. A questa città se ne è aggiunta un’altra che accoglie in sé tutti i moderni centri abitati nell’identico defilarsi di insegne, strutture commerciali e presenze architettoniche. Come attraverso la tecnica del montaggio cinematografico, il post-moderno ricompone frammenti stilistici di ogni area geografica, di ogni epoca storica, di ogni proiezione futuribile nella stessa prospettiva immaginifica. Senza dubbio la lettura di un brano urbano è implicita, se non automatica. Ma in risposta al sovraffollamento di materiale simbolico, rischia di divenire fin troppo selettiva ed autistica, e la città invivibile è, innanzitutto, un testo illegibile. Se la comunicazione è il viaggio di una differenza che contiene il senso dell’informazione, la comunicazione urbana esaspera queste differenze, le moltiplica, le fa coesistere e confliggere. È nella città che si affrontano i segni di tutti i poteri: burocratici, politici, commerciali. Il pluralismo dei codici espressivi in cui si declina
la comunicazione urbana rischia di strutturarsi in anarchia. Nelle grandi aree metropolitane è osservabile un fenomeno che sembrerebbe inarrestabile e senza soluzione: la commistione e il conflitto tra segno pubblico e segno privato. Le disfunzioni che ne derivano giocano quasi sempre a discapito dell’informazione di pubblica utilità. L’assenza di conoscenza nelle pratiche discorsive delle amministrazioni locali spesso si traduce nelle limitate prestazioni comunicative dell’emittente istituzionale, dando luogo a piccole catastrofi quotidiane nella vita dei cittadini. Pubbliche amministrazioni, come la Regione Puglia, testimoniano una volontà di cambiamento davvero importante: la comunicazione pubblica contemporanea si arricchisce della capacità di ascolto, mostrandosi sempre più circolare e attenta all’accoglienza di feedback da parte dei destinatari. Il cittadino è finalmente al centro di nuove geometrie di relazione, come recita il claim della seconda edizione di Public Camp, secondo meeting dei comunicatori pubblici. Perché, in tempi di modernità liquida, proprio l’interazione e il dialogo rappresentano l’antidoto alla sterilità di certe pratiche di progetto. La nostra è la cultura del segno. Qualcuno pensa alle forme dell’arte, e immagina i primi graffiti, i primi vagiti dell’immaginazione senza tempo, senza luogo e senza parola.È questa l’immortalità di segni che sono muti ma che, in realtà, gridano tanto forte da essere capiti senza dover pensare. Forse l’immaginazione rimane ancorata a forme di espressività che sfuggono a ogni tentativo di programmazione, perché essa sembra rifiutare il linguaggio matematico. La relazione che la lega alla sua espressione fisica è troppo sottile per essere condivisa esclusivamente con il linguaggio della logica. La sua connaturale irriducibilità a formule e dogmi è alla fine la sua forza: nascere ogni volta con un senso diverso. Perché ogni volta che rinasce noi siamo diversi. Gli uomini sono anche questo, almeno quelli che pensano e non si lasciano pensare. F.C, M.R.
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[english] Nota Bene’s message is an ancient one. An invitation to pause over new relations of meaning, a suggestion that we travel in new directions of sense. As in a chemical reaction, the autarchy of the moles contrasts with the willingness of the molecule bond to know. An open process of divulgation in which reticular textures of specialized consciousness assume the plastic and polycentric physiognomy of fluid, variable geometries. On the pages of NB, the collaboration of a number of writings indicates mediatic tangibility; the idea is that figures can be an extension of the written word, completing and going beyond the contents, the information, and vice versa. In this zero issue we are resuming an initiative after an interrupted discourse whose message – ambitious, it is true – remains what it was, to look further into those aspects which demand the right attention together with the complicity of apparently distinct skills, as many, by now, as the cultural and productive components involved in the projecting and realisation of a communication society. This intention is shared by blueforma, the new interdisciplinary centre of design. A reality in which a wealth of professionalism in collaboration generates a strategic culture in search of forms of thought which form images, in search of images which seek new forms. A desire to interpret the evolution of the landscape has led blueforma to ask itself if cities still exist? The search for possible answers will enliven the second edition of the international meeting La città senza nome. An invitation, a request for reflection on the part of all those who work, consciously, or not, in drawing up the complex text of places. Birdwatching, a documentary is instead a complementary reading tool, oblique, we might say, which captures and recomposes fragments of sense and significance. In the conviction that contemporary urban phenomenology is impervious to transparent, univocal reading. What emerges is a territory desperately seeking a soul for itself and its inhabitants. An city deprived of a shared definition in which the different subjectivities might recognise themselves and find citizenship. And identity, by definition, has to be, above all, intelligible to itself. The city of the past possessed particular cultural and linguistic models which decreed the singularity of their identity. Another city has been added now which has received into itself all modern inhabited centres in an identical parade of banners, commercial structures and architectural presences. As in cinema montage techniques, the postmodern recomposes stylistic fragments of every geographical area, every historical era, every feasible projection in the same highly imaginative prospect. Without doubt, the reading of an urban piece is implicit, if not automatic. But as a response to superabundance in symbolic material, it risks becoming just too selective, too autistic and a city which is not liveable is basically an illegible text. If communication is the journey of a difference which contains a sense of information, urban communication exasperates these differences, multiplies them, gets them to coexist and conflict. It is in the city that those signs representing power - bureacratic, political, commercial – are confronted. The pluralism of expressive codes in which urban communication is articulated risks anarchy in its structuring. In the great metropolitan areas we now see a phenomenon which seems to be unstoppable, it seems to have no solution, the mixture and conflict between public and private sign. The dysfunctions deriving from this conflict
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are almost always to the detriment of public information. The absence of knowledge in the discursive practices of local administrations often translates into limited communicative performance of the institutional emitter, giving way to small daily catastrophes in the lives of city-dwellers. Public administrations, as in the Regione Puglia, have shown a serious willingness to change. Contemporary public communication is enriched by the capacity to listen, showing that is is increasingly circular and sensitive to feedback on the part of those receiving the message. The citydweller is finally at the centre of new geometries of relation as recited by the claim of the second edition of Public Camp, the second meeting of public communicators. Because in times of liquid modernity, it is indeed interaction and dialogue which act as antidotes to the sterility of certain practices concerning projects. Ours is the culture of the sign. Some think of forms of art and imagine the first graffiti, the first stirrings of the imagination outside time, without place and without the word. This is the immortality of signs which are mute but which in actual fact, are crying out so loud they are understood without thinking. Perhaps the imagination remains anchored to forms of expressivity which elude every attempt at programming, because they seem to reject mathematical language. The relation which joins it to its physical expression is too subtle to be shared exclusively with the language of logic. Its innate irreducibility to formulae and dogmas is, in the end, its strength. To be born every time with a different sense. Because every time it is reborn we are different. This too is what men are, at least those who think and do not let themselves be thought. F.C, M.R.
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Osservatorio Bird Watching
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–Forme/Shapes
La città degli déi The city of the gods Enzo Mari: artista e designer, per parafrasare il titolo di un noto libro di Bruno Munari. Una relazione oggi indisgiungibile nell’attività di un protagonista della ricerca e del progetto come lei? Sono più di cinquanta anni che faccio questo lavoro. Inizialmente solo in qualità di artista. Ma già dai primi anni Sessanta, soffrendo la cattiva qualità formale di ciò che l’industria andava producendo, ho deciso di occuparmi del cosiddetto design. Mettere a disposizione della produzione seriale competenze e strumenti progettuali, per poi consentire all’industria il raggiungimento, anche autonomo, di qualità formali imprescindibili: questa la vocazione, probabilmente utopica, che ha segnato tutta la mia vita. E rendere attuale quanto imparato attraverso lo studio dei grandi maestri del passato. Maestri che, talvolta, non hanno un nome: coloro che nell’Antico Egitto, nella Magna Grecia o nel Rinascimento italiano hanno realizzato grandi capolavori. Modelli artistici di perfezione formale a cui dobbiamo ancora guardare non per elaborare sterili declinazioni neo classiche ma, più concretamente, per comprendere qual è il livello di qualità possibile da perseguire. Opere d’arte che hanno originato tutte le riflessioni e le successive dissertazioni relative all’estetica. E l’estetica, non solo per assonanza fonetica, rimanda sempre all’etica. Se personaggi come Gandhi rappresentano la forza eccezionale di una vita esemplare vissuta interamente all’insegna dell’impegno etico, vivere eticamente non significa necessariamente passare alla storia. Anche nella nostra attuale società, l’etica sopravvive ancora nella condotta di vita di persone come gli operai o i contadini che, quotidianamente, affrontano con dignità l’esistenza. Al contrario gran parte degli spazi che percorriamo, delle città che abitiamo e dei manufatti che utilizziamo sono totalmente privi di etica. Siamo circondati dalla banalità. Banale è ciò che all’interno di un certo periodo storico viene prodotto esclusivamente per soddisfare con superficialità il ‘gusto’ dell’epoca, per assecondare i rituali sociali imperanti. Certamente nessun manuale potrà mai insegnare razionalmente e pragmaticamente come pervenire alla qualità della forma. Soltanto la fruizione e la decodifica dei grandi capolavori dell’arte come della letteratura e della musica possono rappresentare l’unica lezione di estetica davvero utile. Confrontarsi con l’eccellenza è la strada da perseguire con severità per giudicare i nostri risultati progettuali: valutare se, davvero, la forma realizzata è l’unica forma possibile, se abbiamo colto l’essenza della forma. Oggi, al contrario, quando si parla di forma, non solo a livello generalistico ma anche a livello accademico, in realtà ci si riduce a parlare di formalismo: il contrario dell’essenza della forma. Il formalismo, di fatto, implica l’incrostazione della cosa che si sta costruendo. È riconducibile a un ‘abbellimento’ fine a se stesso, spesso ottenuto con la giustapposizione di segni appartenenti a culture differenti realizzata nella più totale ignoranza del significato profondo presentato da questi elementi nel loro contesto di origine. Il risultato, allora, è un insensato bisticcio di segni scelti esclusivamente in virtù della loro presunta ‘stranezza’ e delle loro valenze edonistiche. Quando, invece, design vuol dire disegnare e realizzare oggetti utili alla vita di tutti i giorni. La forma ha bisogno di tener presente la conoscenza di tutto il mondo, di tutto quello che esiste, e anche della conoscenza di quello che non esiste ancora, della proiezione sugli scenari possibili. Tuttavia, oggi, non esiste nel mondo un’università, un luogo di studio e preparazione professionale dove ci si occupi del globale. Certo, esistono finissimi intellettuali e grandi scienziati ma ciascuno primeggia nel recinto delle proprie competenze, nei limiti della propria disciplina. È proprio questo a rendere difficile qualsiasi dialogo sulla forma. Forma che nell’accezione più alta del termine è, per definizione, qualcosa di incomprensibile alla scienza. Perché uno scienziato deve fare necessariamente riferimento a un ambito di ricerca immediatamente possibile. Mentre il progettista è chiamato ad intervenire concretamente nel presente, senza però dover trascurare la dimensione utopica del suo intervento e cioè progettando in visione - e previsione - di un uomo e di una società che non esistono ancora. Per
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Intervista a/interview with Enzo Mari
poi trovare il giusto compromesso. Del resto, pur amandomi definire un utopista, di fatto, ho realizzato oltre duemila progetti dei quali ne sono andati in produzione quasi la metà. Ma nonostante le necessità di confrontarsi con le esigenze materiali del mondo della produzione, resta sempre importante pensare nell’ambito di una visione assolutamente globale. Ogni oggetto dovrebbe portare in sé la sua valenza monumentale. E non dimentichiamo che l’etimo della parola ‘monumentale’ è ‘ammonimento’. Un ammonimento che non subisce l’azione del tempo, che resta immutato nei secoli: la nostra società è profondamente diversa da quella antica ma, tuttavia, quando ci troviamo di fronte ai grandi capolavori dell’antichità la forma ci parla ancora. Nei secoli, continua ad essere un ammonimento. Città come forma, come codice di rappresentazione etica e civica di chi vi abita … Oggi ci si dimentica della Storia. È un grosso sbaglio, perché soltanto guardando agli eventi e alle dinamiche del passato possiamo farci meno ingenui nel giudicare il tempo presente. Dibattiti, opinioni, interventi si sovrappongono l’un l’altro continuamente in ogni media contemporaneo. Questa è l’epoca della globalizzazione, siamo circondati da una ridondanza infinita: leggiamo, ascoltiamo, vediamo di tutto e il contrario di tutto. Così, quando sono chiamato a progettare il nuovo, il mio sguardo si rivolge subito al passato, cercando di andare alle origini. E se penso alla città, ricordo subito che un tempo erano i sacerdoti ad indicare il luogo dove edificare il luogo dedicato alla divinità protettrice della città da fondare. La città doveva sorgere in un luogo ideale. Il solco dell’aratro segnava il perimetro su cui poi sarebbe sorta la cinta murararia di difesa. Oggi, sarebbe anacronistico pensare alle mura dell’urbe antica come presidio bellico, ma l’idea di segnare lo spazio entro cui accogliere la città non è del tutto insensata. Se guardiamo la conformazione urbana di città italiane come Milano, Roma e Bari che contano meno di un milione di abitanti, oppure di metropoli internazionali come New York, Città del Messico e Shangai con decine di milioni di abitanti ci rendiamo conto che le periferie continuano ad allargarsi a macchia d’olio, generando una situazione assurda. Intanto, oggi, andrebbe chiarito che cos’è la città: quali sono le caratteristiche distintive di ciò che appartiene e descrive la città, rispetto a ciò che ne sta al di fuori. Spesso si declama la possibilità di risiedere nei posti più sperduti del globo terrestre e, grazie alle moderne tecnologie, poter comunque essere connessi con il resto del mondo. Credo che il vero dialogo non possa prescindere dal rapporto diretto con i nostri interlocutori. E nella mia idea di città le persone si incontrano. Nella mia idea di città non esistono automobili, forse qualche mezzo pubblico. Nella mia città le persone camminano Forse non abbiamo ancora digerito bene l’insegnamento della modernità. Modernità che avrebbe potuto informare meglio la nostra contemporaneità... È chiaro perché non l’abbiamo affatto digerito. Provocatoriamente potrei dire che molti degli architetti di oggi sono diventati dei vetrinisti: appartengono alla sempre più diffusa categoria di addetti al mondo della merce. È decisivo comprendere che i produttori di merce non aspirano ad immettere sul mercato degli oggetti immortali. Gli antichi miravano a fare oggetti immortali, di lunga durata. Ai giorni nostri, lo status di merce che interessa tutti i prodotti determina la necessità continua di rinnovamento: si progettano oggetti che già sei mesi dopo la loro immissione sul mercato risultano superati, e devono essere nuovamente progettati. Tutti progettano merce in risposta alla banalità, finendo per progettare una vera e propria discarica. Sono banali gli obiettivi promozionali di una banca, sono banali gli obiettivi di immagine di una grande azienda, sono banali gli obiettivi di promozione sociale – l’oscenità del politicamente corretto – delle amministrazioni. Per non parlare
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Osservatorio Bird Watching
Enzo Mari, progetto di/project of "Sedici animali puzzle"
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–Forme/Shapes LA CITTÀ DEGLI DÉI THE CITY OF THE GODS della banalità della speculazione edilizia, e di tutto ciò che dovrebbe appartenere al codice penale. Parte di queste contraddizioni erano sicuramente presenti anche nell’antichità, ma certamente non con le forme di degrado di oggi. Il progetto si fa per l’Uomo, si fa per l’evoluzione dell’Uomo, non per soddisfare i bisogni più banali e immediati delle persone. La professione del designer dovrebbe corrispondere ad un progetto di tipo religioso. Il grande artista è colui che riesce, spesso soltanto intuitivamente, a realizzare qualcosa che magari non cambierà il mondo, ma sopravviverà al suo tempo come un monumento, continuando a raccontare le sue ragioni alle generazioni a seguire. Per questo, a dover progettare anche la forma di un edificio non possono essere genericamente dei laureati in architettura o dei tecnici portatori di visioni assolutamente parziali. È necessario che gli artefici dei progetti che vanno a comporre la città siano degli artisti, come avveniva fino ad un passato piuttosto recente. Non dimentichiamo il periodo del cosiddetto Grand Tour, quando i figli delle famiglie abbienti di America e di tutta Europa risiedevano, un anno o due, a Firenze come a Roma, formandosi sugli antichi. Lo stesso Le Courboiser a diciotto anni, prima ancora di iscriversi alla facoltà di architettura, trascorse mesi ad Atene a studiare l’acropoli. Tradizionalmente, c’è sempre stato questa sorta di passaggio del testimone da una generazione all’altra. È un modus operandi che bisognerebbe recuperare, perché nessun corso di laurea può insegnare davvero cos’è l’essenza della forma. E, in questo senso, ecco che la forma di una città non è altro che l’espressione del codice civile di una data comunità. Gli edifici dovrebbero rappresentare questo. Se dovessimo progettare una città nuova e ideale – chissà mai se sarà possibile…prima di costruire le fabbrichette e le case per dormire, andrebbero realizzati gli edifici degli dèi: gli edifici della religione tradizionale e quelli della religione laica, come le sedi delle istituzioni, le scuole, le biblioteche, i teatri. È impressionante come nelle città antiche le grandi architetture siano state prevalentemente quelle degli edifici religiosi. Oggi il concetto di laicità viene ricondotto a livello collettivo alla pura negazione della religione, dimenticando che l’essenza della laicità ha anch’essa una valenza profondamente religiosa. Costruire gli edifici della religione laica, dovrebbe rappresentare il modo moderno di parlare di religione. Mentre, negli ultimi duecento anni, il pensiero laico sembra non aver espresso autentici edifici. In tempi recenti, con lo sviluppo delle cosiddette città-satellite e dei grandi quartieri periferici si è cominciato subito con il costruire solo abitazioni. I luoghi di aggregazione, di lavoro, di vita sono rimasti quelli del centro storico e il nuovo tessuto urbano si è risolto in ghetto, teatro di forme di degrado sociale costosissime. Senza dubbio pianificare la costruzione del microclima urbano necessario, prima delle abitazioni, comporterebbe dei costi maggiori nell’immediato. Ma a lungo termine si presenterebbe come una scelta socialmente ed economicamente vantaggiosa: perché le persone vivrebbero meglio. Vivrebbero in luogo dove pulsa un cuore, e non in un dormitorio. Quali le sue esperienze di progetto per la città? Per molti anni mi sono tenuto lontano dall’architettura. Anche se, per un’evidente gerarchia, il segno architettonico influisce sempre, più o meno consapevolmente, sul design. Con il tempo mi sono reso conto che il degrado osservabile nel mondo del progetto delle forme interessava parimenti il mondo dell’architettura. La prima volta che mi sono occupato direttamente di progettazione architettonica è stato più di quindici anni fa, quando mi venne chiesto di occuparmi dell’arredo urbano di piazza del Duomo a Milano. Quando si parla di arredo urbano spesso si banalizza riducendo tutto a panchine e fioriere; per me, accettato con passione ed entusiasmo il compito, significava invece confrontarsi con due secoli di storia, con le contraddizioni e i vincoli del luogo pubblico per eccellenza, con le esigenze e le istanze dell’amministrazione comunale e dei comuni cittadini. Presentai tre soluzioni diverse, tre alternative culturali per affrontare la piazza. La critica immediata degli architetti ‘ufficiali’ fu che è sempre preferibile proporre un solo progetto! È stata allestita una grande mostra, pubblicato un volume sui tre progetti, e la situazione è rimasta immutata. Ma almeno posso ritenermi soddisfatto per aver conseguito quello che era il mio principale intento: aprire un dibattito, un confronto. Nel 2003 il sindaco di Gela mi chiamò per realizzare un monumento. Invitato per un sopralluogo mi rendo conto che l’opera sarebbe dovuta sorgere in un’immensa area degradata, contornata da un quartiere abusivo - o meglio - un quartiere il cui progetto urbanistico era abusivo, ma che era stato debitamente condonato. Pensare di intervenire in quell’area così com’era mi pareva completamente assurdo. Un luogo privo dei servizi più basilari: senza verde, negozi, sedi di lavoro. Chi vi abitava era costretto a camminare lungo l’autostrada per più di mezz’ora prima di
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arrivare al centro della città. Sono andato nella chiesa dove si riuniva la comunità dei residenti per conoscerli ed esprimere le mie perplessità circa l’idea di pensare ad un monumento prima che a tutto il resto. Ho raccolto le loro proteste, ho ascoltato i loro problemi. Ma la soluzione non poteva essere semplicemente quella di farmi portavoce con l’amministrazione affinché si risolvessero le situazioni più immediate, come le infiltrazioni di umidità negli edifici e cose del genere. Avrebbe voluto dire ‘accontentarli’ sulle urgenze presenti, ma non intervenire sostanzialmente su quella realtà. Mentre invece la mia sfida era rendere questo quartiere un modello per il futuro sviluppo della città. Gela è una città senza storia: si è sviluppata di fianco a una grandissima raffineria di petrolio tuttora in attività. Intervenire globalmente su quel quartiere può rappresentare l’occasione per definire un nuovo modello di sviluppo per l’intera città. Così, ho redatto una proposta molto articolata, discussa punto per punto con gli abitanti del quartiere. Contempla anche aspetti che potrebbero essere definiti utopizzanti: un museo archeologico, una sede espositiva, una ludoteca per i bambini, ristoranti, esercizi commerciali e poi ancora, un grande parco con gli alberi storici della Sicilia, un passaggio pedonale sopraelevato sulla ferrovia. E i cittadini hanno perfettamente capito e condiviso l’intenzione. Il progetto è stato approvato dall’amministrazione comunale. Ma siamo ancora in attesa che si passi alla fase esecutiva… Il design delle interfacce. Quali sono i parametri che possono conferire ai prodotti dell’attuale produzione elettronica lo status di oggetto di design? Perché non apprezzare un Iphone, così come si è apprezzato e celebrato in passato il televisore Brionvega disegnato da Marco Zanuso? Non dimentichiamo che tutto ciò che viene costruito diventa prodotto industriale. E diventa merce, con tutti gli aspetti degradati della merce. Per assurdo, oggi, sarebbe auspicabile smettere di ideare nuovi progetti di design: evitare di disegnare l’ennesino televisore, il centesimo modello di asciugacapelli. Un’affermazione certamente provocatoria ed eccessiva perché, in realtà, ci sarebbe ancora spazio per progetti di autentico design. Ma, per poterli attuare, bisognerebbe cambiasse la mentalità delle persone, il sentire collettivo. Quando cammino per le strade e mi guardo intorno, vedo prevalentemente cyborg, non persone. Il cyborg nella fantascienza è l’uomo-macchina, è l’uomo munito di protesi per soddisfare diverse funzioni. Il progresso tecnologico attuale consente indubbiamente di progettare protesi utili, in alcuni casi vitali. Ma le protesi-merce che affollano il mercato contemporaneo non appartengono a questa categoria: oggi la funzione più marginale dei telefonini cellulari è proprio quella di consentire una telefonata. Anche lo stesso computer è una grande invenzione del nostro tempo e ne ho rispetto. Ma sono fermamente contro la sua declinazione in oggetto-merce: il personal computer. Perché il personal computer porta in sé un messaggio pericolosissimo: con questa macchinetta tu puoi fare qualsiasi cosa, anche se tu non la sai fare. Non è importante saper fare un lavoro grafico o un lavoro di progettazione, ma avere l’impressione di saperlo fare e credere di farlo. L’uomo è l’animale che ha conquistato totalmente il mondo grazie alla sua capacità di realizzare protesi: dall’invenzione del fuoco, dell’amigdala scalfita nella selce all’invenzione della parola. All’inizio della nostra storia ogni protesi era il risultato di una lunga conquista intellettuale. Oggi, in tutto il mondo, vengono inventati quotidianamente nuovi dispositivi. E se prima erano le protesi ad essere utili all’uomo, adesso sono gli uomini stessi ad essere diventati protesi di un sistema cieco. Nella nostra società, la gente condivide un sogno – o meglio, un’illusionedi comodità infinita. Le nuove generazioni delle classi più abbienti escludono a priori la possibilità di una professione che non sia riconosciuta come ‘intellettuale’. Il risultato è che le industrie trovano difficoltà nel reperire falegnami o altri lavoratori artigiani, mentre migliaia di laureati si dichiarano disoccupati. Uno degli aspetti più eclatanti di questa società composta di protesi: uomini inconsapevoli di appartenere ormai al totalizzante meccanismo di parcellizzazione della merce. È urgente riabituare le persone a rimboccarsi le maniche per conquistare il mondo, costi quello che costi. [english] Enzo Mari: artist and designer, to paraphrase the title of a well-known book by Bruno Munari. Is this relation indissoluble now, as far as the activity of a protagonist of research and the project like you is concerned? I have been doing this job for more than fifty years. At the beginning, as an artist only. But already from the beginning of the 1960s, tired of the bad quality of that which industry was producing, I decided to concern myself with so-called design. Making project skills and instruments available for serial production, so as then to allow industry to achieve, also autonomously, the essential formal qualities - this is the vocation, Utopian
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Ambrogio Lorenzetti, Affresco del Buon Governo/A fresco of Buon Governo
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–Forme/Shapes LA CITTÀ DEGLI DÉI THE CITY OF THE GODS probably, which has influenced my whole life. And making what we have learnt by studying the great masters of the past, meaningful today. Masters who sometimes have no name, those of Ancient Egypt, Magna Graecia or the Italian Renaissance realised masterpieces. Artistic models of formal perfection which we should still be looking at, not to elaborate sterile neoclassical declinations but, in more realistic terms, to comprehend what the possible level of quality to pursue is. Works of art which produced all aesthetic reflections and the dissertations which followed on from them. And aesthetics, not only in terms of phonetic assonance, always recalls ethics. If characters like Gandhi represent the exceptional strength of an exemplary life lived entirely for ethical commitment, living ethically does not necessarily mean going down in history. In our present-day society too, ethics survives still in the conduct of life of people like workers and farmers who handle existence on a daily basis with dignity. Whereas most of the spaces we cross, the cities we live in and the objects we use are totally devoid of ethics. We are surrounded by triteness. The trite is that which is, within a certain historical period, produced exclusively to satisfy superficially the ‘taste’ of an era, to pander to reigning social rituals. Certainly, no handbook will ever be able to teach rationally and pragmatically how to achieve quality of form. Only fruition and decodification of great masterpieces of art, like literature and music, represent the only aesthetics lesson of any real use. Observing excellence is the road to follow, single-mindedly, to judge our project results, evaluate whether, really, the form realised is the only form possible, if we have actually grasped the essence of form. Nowadays, on the contrary, when one speaks of form, not only on a generalistic plane but also academically, in actual fact we are reduced to talking about formalism, the opposite of the essence of form. Formalism, in fact, implies the encrustation of the thing which is being built. It can be traced back to a ‘beautifying’ for its own sake, often obtained thanks to the juxtaposition of signs belonging to different cultures realised in the most total ignorance of the deep significance these elements have in their original context. Thus, the result is a nonsensical mixture of signs chosen exclusively for their presumed ‘strangeness’ and hedonistic values. When, however, design means designing and realising objects which are useful to everyday life. Form needs to take account of knowledge concerning the whole world, all that exists, and also knowledge of that which does not yet exist, projection on to possible scenarios. However, today, there is no university anywhere in the world, no place of study, professional preparation in which the global is dealt with. Of course, there are extremely refined intellectuals and great scientists but each excels within the enclosure of his own skills, within the limits of his own discipline. It is just this which makes it difficult to partecipate in any dialogue concerning form. Form, in the highest sense of the word is, by definition, something of incomprehensible to science. Because a scientist has necessarily to refer to a sphere of research which is immediately possible. Whereas the project designer is called upon to intervene in real terms, in the present,without however, neglecting the Utopian dimension of his intervention, i.e., projecting in terms of a vision – and prevision - of man and society which do not exist yet. And then have to find the right compromise. Moreover, even though I love the idea of calling myself a Utopian, in fact, I have signed more than two thousand projects, all unfailingly realised. But despite the need to deal with material needs of the world of production, it is still always important to think within a sphere of an absolutely global vision. Every object should carry within itself its monumental value. And let us not forget that the etymon of the word ‘monumental’ is ‘admonition’. An admonition which does not undergo the action of time, which remains unaltered over the centuries. Our society is very different indeed to the ancient one but, nevertheless, when we find ourselves in front of the great masterpieces of antiquity, form still speaks to us. Over the centuries, it continues to be an admonition. City as form, as the ethical and civic code of representation of those who live there… Nowadays we forget history. This is a big mistake, because only by looking at the events and the dynamics of the past can we become less naïve in judging the present time. Debates, opinions, interventions are superimposed on each other constantly in every contemporary media. This is the era of globalization, we are surrounded by superabundance, we read, listen, see everything and the opposite of everything. Thus, when I am called upon to project the new, my eye appeals to the past, trying to go back to the origins. And if I think of the city, I remember immediately that at one time, it was the priests who indicated where the building housing the patron divinity of the city was to be built. The city had to rise in an ideal place. The furrow of the plough traced out the perimeter on which the defensive city walls were to rise. Today, it would be anachronistic to think of the walls of the ancient urbe as a garrison, but the idea to trace out the space inside which the city is to grow is not altogether foolish. If we look at the urban conformation of Italian cities like Milan, Rome and Bari which
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have fewer than a million inhabitants, or international metropoli like New York, Mexico City and Shanghai, with tens of millions of inhabitants we become aware of the fact that the suburbs continue to spread like wildfire, generating absurd situations. In the meantime, today it is necessary to clarify what the city is, what are the distinctive features of that which belongs to and describes the city, compared to what we find outside. Often we recite the possibility of residing in the most out-of-the-way spots on the planet and, thanks to modern technology, of being able to connect with the rest of world. I think the real dialogue cannot avoid the direct connection with our interlocutors. And in my idea of the city people meet. In my idea of the city there are no cars, perhaps there is public transport. In my city people walk. Perhaps we have not digested the teaching of modernity very well. A modernity which could have shaped our contemporaneity better… It is obvious why we have not actually digested it. As a provocation, I might say that many architects today have become window dressers, they belong to the increasingly widespread category of goods handlers. It is essential to understand that goods producers do not aspire to marketing immortal objects. The ancients aimed at making immortal objects, of long duration. In our day, the status of goods - all products - determines the continuous need to renew: objects are projected which, six months after their arrival on the market are out of date, they have to be projected once more. Everyone projects goods in response to banality, and the result is projecting nothing other than rubbish. The promotional objectives of a bank are trite, the objectives of images of a large company, the objectives of social promotion – the obscenity of the politically correct – of administrations. Not to mention the banality of building speculation and all that which should pertain to the Penal Code. Some of these contradictions were certainly present in antiquity too but certainly not with the forms of degradation we have today. Projects are for men , they are done for the evolution of man, not to satisfy the most trite and immediate needs of people. The profession of designer should correspond to projects of a religious type. The great artist is he who manages, often only intuitively, to realise something which perhaps will not change the world but will survive its time, like a monument, continuing to recount its meaning to generations to come. For this reason, those who project even the form of a building should not, generically, be graduates in architecture or technical personnel, carriers of absolutely partial visions. We need the creators of projects who go and compose the city, to be artists, as used to happen up to a fairly recent past. We should not forget the period of the so-called Grand Tour, when the children of wealthy American families and from all over Europe stayed, for a year or two, in Florence or Rome, educating themselves by observing the ancient masters. Le Corbusier himself at 18, before even enrolling in the faculty of Architecture, spent months in Athens studying the Acropolis. Traditionally there has always been this sort of passage of the witnesses from one generation to another. It’s a modus operandi which we need to get back, because no degree course can really teach what the essence of form is. And, in this sense, here we have the form of a city which is nothing other than the expression of a civil code of a given community. The buildings should represent this. If we had to project a new and ideal city – who knows whether it will be possible … before we build the factories and the houses to sleep in, we need to realize the buildings of the Gods, the buildings of traditional religion and those of secular religion, like the institutional sites, schools, libraries, theatres. It is amazing how in ancient cities the great architecture was prevalently that of religious buildings. Today the concept of secularity is led back to a collective level, the pure negation of religion, forgetting that the essence of secularity has, this too, a deeply religious value. Constructing buildings of the secular religion, should represent the modern way of speaking about religion. Whereas, in the last two hundred years, secular thought seems not to have expressed authentic buildings. Now, with the development of the so-called satellite-cities and the large suburban areas, only dwellings are built. The places of aggregation, work, life, remained those of the historical centre and the new urban tissue resolves itself inro ghettos, incredibly expensive forms of social degradation. Without doubt, planning the construction of the necessary urban microclimate, before the dwellings, would mean higher costs at the beginning. But in the long run it would be a socially and economically advantageous choice, because people would have better lives. They would live in a place where a heart beats and not in a dormitory. What are your experiences, project-wise as far as the city is concerned? For many years I stayed away from architecture. Clearly, a hierarchy is at work which means the architectural sign always has an influence on design, whether we are aware of this or not. Over the years I became aware that the degradation to be seen in the world of form projects affected the world of architecture in the same way.
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–Forme/Shapes LA CITTĂ€ DEGLI DÉI THE CITY OF THE GODS The first time I got directly involved in architectural projects was more than 15 years ago when I was asked to work on urban decoration in the Piazza del Duomo in Milan. When we speak of urban decoration we often simplify, reducing everything to benches and flower pots. I think that once the task was accepted it meant dealing with two centuries of history, the contradictions and ties of the public place par excellence, the needs and requests of the town council and normal city-dwellers. I presented three different solutions, three cultural alternatives for the work in the piazza. The immediate reaction of the ‘official’ architects was that it is always preferable to propose a single project! A big exhibition was organized, a book was published on the three projects and the situation remained the same. But at least I can say I was satisfied because I achieved my main goal, to launch a debate. In 2003 the mayor of Gela called me about the realisation of a monument. Invited to go and inspect the site I realised that it would have to positioned in an immense degraded area, surrounded by an unauthorized constructed area – or rather – an area where the town-planning project had been unauthorized but later condoned. The idea of intervening in that area as it was seemed totally absurd. It was lacking in the most basic, no green, no shops, no workplaces. Those who lived there had to walk half an hour along the motorway to get to the city centre. I went to the church where the community of residents were meeting to get to know them and express my perplexity about the idea of a monument before the other things. I gathered their protests, listened to their problems. But the solution couldn’t just be that of making myself a spokesman for them vis-Ă -vis the administration until the most immediate problems were solved, like the infiltration of humidity in the buildings, etc. It would have meant ‘making them happy’ concerning present urgency but without intervening substantially in that reality. It should be a model area of the city. Gela is a city without a history, it has developed alongside an enormous oil refinery which is still open. Intervening globally in this area might be an occasion to define a new model of development for the entire city. Thus I drew up a rather elaborate proposal, which I talked about, point by point, with the people living there. It also includes aspects which might be defined Utopian : an archaeological museum, an exhibition site, a toy library for the children, restaurants, commercial activities and then a large park with the historical trees of Sicily, a pedestrian crossing over the railway. And the people understood and shared the intention. The project has been approved by the city council but we are still waiting to go on to the realization phase‌
Design of interfaces. What are the parameters which might confer on the products of present-day elcetronic production the status of design objects? Why not appreciate an iphon, as a Brionvega television designed by Marco Zanuso was appreciated and celebrated. Let’s not forget that all that which is built becomes an industrial product. And becomes goods, with all the degraded features goods have. Absurd as it seems nowadays it would be a good idea to stop creating new design projects, avoid designing the umpteenth television, the hundredth hairdryer model. Yes I’m overdoing it, in actual fact, there is space still for projects of authentic design. But to carry them out we need to change the mentality of the people, the collective sentiment. When I walk along the street and look around me, I see cyborgs mainly, not people. The cyborg of science fiction is a man-machine, it is a man with ‘artificial limbs’, it satisfies different functions. Present-day technological progress without doubt allows us to project useful ‘artiticial limbs’, in certain cases vital. But the ‘limbs-goods’ which crowd the contemporary market do not belong to this category. Today, the most marginal function of cell phones is allowing you to make a phone call. The computer too is a great invention of our times, I have respect for it. But I am firmly against its decline into object-goods. Because the personal computer carries within itself a very dangerous message – with this machine you can do whatever you like even though you don’t know how. It is not important if you don’t know how to do a graphic work or a design work, you just need the impression of knowing how and believing you know how. Man is the animal who has conquered the whole world thanks to his capacity to realize ‘limbs’. From the invention of fire, flint scratched into the stone, to the invention of the word. At the beginning of our history every limb was the result of a long intellectual conquest. Today, all over the world, new devices are being invented every day. And while before it was the limbs which were useful to man now it is men themselves who have become limbs for a blind system. In our society people share a dream – or rather an illusion – of infinite comfort. The new generations of the wealthier classes exclude a priori the possibility of a profession which is not recognised as ‘intellectual’. The result is that industry has difficulties in finding carpenters or other artisans, while thousands of graduates declare themselves unemployed. It is one of the most striking aspects of this society made up of ‘limbs’, men unaware they belong by now to the totalizing mechanism of parcellization of goods. It is urgent we get people used to rolling up their sleeves once more, to conquer the world, at whatever the cost. a cura di/by Fulvio Caldarelli
ARTISTA E DESIGNER
ARTIST AND DESIGNER
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Enzo Mari, who was born in Novara in 1932, and works in different fields, focussing upon meanings of form and project. This activity began in the 1950s with research into visual perception. He is one of the exponents of Arte Programmata and Cinetica. Parallel to this artistic research, through individual formal research, he began work as a designer, concerning himself also with graphics and architecture. He has received a number of prizes for his work in research and projects, among which four Compasso d’Oro. He has participated in the Biennale Internazionale d’Arte in Venice. He has organized a number of exhibitions, among which: Il lavoro al centro, Centre d’Art Santa Monica, Barcelona in 1999, which was then continued at the Triennale di Milano in 2000 and the great exhibition which has recently finished: Enzo Mari, L’Arte del Design, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Turin in 2008. Examples of his works and design objects are to be found in important collections in museums like the MOMA in New York and the Louvre in Paris.
UTILITY
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–Luoghi/Places
&DNFQ@ȭDÊCDKKa@KSQNUD The geographies of elsewhere Centri commerciali e outlet di periferia come nuove cattedrali della religione del consumo, mete di pellegrinaggio e di affollate liturgie domenicali per famiglie al completo. Centri storici convertiti a rassicuranti ed edulcorati parchi tematici abitati da comparse in costume di ordinanza che, alla sera, lasciano le scenografie da Italiain-miniatura per raggiungere, pendolari, le periferie dormitorio di residenza. Villette a schiera con giardino, sette nanetti e trent’anni di mutuo. Palazzine di parabole dai campanelli affittati a cognomi extracomunitari. Decoro urbano, ronde, illuminazione notturna dei quartieri turistici: queste le pre-occupazioni di tante amministrazioni comunali. Questo il paesaggio urbano di un paese, come scrive lei, “in preda a confusione mentale, perdita della memoria, regressione, restaurazione, particolarismo, razzismo, criminalità, cattiveria, egoismo. Spaventato, deprogrammato, regredito, azzerato” (Che fare?, Il primo amore n.5, marzo 2009, Effigie). Davvero l’identità dello spazio pubblico condiviso è ormai inadeguata ad accogliere le vere priorità della nostra presenza nel mondo? Il rischio è quello di compromettere permanentemente i nostri sguardi e le nostre capacità di giudizio? Il paesaggio generale è questo, e sembra un paesaggio da dopo-bomba, anche se tutto è rimasto in piedi, i muri, le case, gli ipermercati, gli allevamenti umani, i circhi equestri, gli schermi, le dentature perennemente in mostra… L’Italia si è dimostrata ancora più labile e fragile del previsto, ma è anche l’intero pianeta e l’intera specie umana a non rendersi conto di quanto sta succedendo e della necessità di un cambiamento epocale. In un contesto simile, come se non bastasse, in casa nostra siamo alle prese con qualcosa che pareva addirittura inimmaginabile solo pochi anni fa: il restringimento crescente degli spazi di ciò che resta di quella cosa chiamata ‘democrazia’, la dimensione economica e commerciale, la corruzione e il controllo centralizzato dei media televisivi che paiono avere colonizzato e intossicato tutto, l’uso depistante del particolarismo e del razzismo, minacce continue di secessione di zone del territorio nazionale da parte di forze politiche comunque di minoranza, la nascita dei primi embrioni di gruppi paramilitari, dietro il pretesto di ronde adibite al controllo del territorio dai nuovi venuti criminalizzati su base collettiva, regressione, cattiveria, grettezza. Neppure l’unità politica, geografica e linguistica del paese, conquistata così in ritardo e così a duro prezzo, sembra più una certezza. Non si sa cosa può succedere di qui a un po’. Il male che è stato fatto è enorme e non ha trovato una reazione proporzionale da parte delle forze che avrebbero dovuto fare argine a tutto questo e che invece si sono dimostrate deboli e gregarie, quando non impotenti e sotto ricatto. La situazione è questa. E allora occorre non solo un contromovimento orizzontale e speculare ma un movimento impensato, alieno. Gli spazi, anche quelli architettonici, non sono una cosa separata e inerte, sono animati, sono messi in movimento e in proiezione anche dal fervore e dalla tensione interattiva delle persone che ci vivono dentro e che si inventano la propria vita. Se no sono solo delle scatole vuote, contenitori di frustrazioni, muri che si guardano in faccia. È il piccolo animale che vi è contenuto a secernere il materiale calcareo che forma una conchiglia. Ma se la conchiglia non è più abitata da un organismo che ha vita, che ha proiezione, anche la conchiglia rimane immobile e inerte in fondo all’oceano. Però, in mezzo a tutto questo orrore, c’è anche dell’altro. Se non ci fosse anche dell’altro non si capirebbe come fa il nostro paese a continuare a stare in piedi nonostante tutto. C’è un gran numero di persone che si svegliano di mattina presto anche se magari non hanno dormito bene, si lavano la faccia, escono dalle loro case e vanno a fare la loro parte. Ci succede continuamente di incontrarne e quasi ci meravigliamo nel constatare come esistano ancora delle singole persone e una struttura della vita associata che sono rimaste al loro posto, non sono state spezzate. Qualche mese fa, per esempio, mi è capitato per alcuni giorni di passare
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Intervista ad/interview with Antonio Moresco
molte ore in un ospedale dove mia figlia ha messo al mondo una bambina e mi si è presentata una realtà del tutto diversa, quasi un universo parallelo. Continui arrivi di donne incinte, per lo più extracomunitarie, europee dell’est, zingare. La nursery piena di neonati italiani, africani, asiatici, sudamericani con grandi chiome e già con un accenno di basette, i corridoi pieni di gente di tutti i continenti nell’ora delle visite. L’affratellante e ansiosa attesa nella saletta di genitori e compagni della partoriente, egiziani, peruviani, madri arabe con il velo e italiani, che si lasciano andare a confidenze e che si confortano, tutti accumunati dal timore e dall’euforia per quanto stava avvenendo dietro la porta, intenti a cogliere il primo grido polmonare della vita. Ma anche la gentilezza e la calma degli ostetrici e delle ostetriche che pure devono far fronte a un lavoro umanamente così impegnativo e così coinvolgente, seguendo anche più parti al giorno, ciascuno diverso dall’altro e imprevedibile. La forza umana di tutte queste persone che escono di mattina presto da casa, uguali a mille altre sulle vetture della metropolitana, ma che poi entrano in una dimensione simile. E questo non una volta tanto, ma ogni giorno, ogni giorno. La loro partecipazione e la loro forza durante il travaglio che dura a volte anche delle ore. L’ostetrico dalle braccia interamente tatuate, che a vederlo potrebbe sembrare un tagliagole ma che invece riesce a infondere serenità, dolcezza e coraggio anche nelle situazioni più estreme. “Ma da dove vengono tutte queste meravigliose persone che vivono sconosciute in mezzo a noi e che riusciamo a intercettare solo di tanto in tanto?” mi chiedevo “Come hanno fatto -nella situazione in cui ci troviamo- a conservare una simile umanità? Come hanno fatto a salvarsi?” “Lo spazio non è solo orizzontale, è anche verticale. Le dimensioni non sono solo quelle dentro le quali ci hanno insegnato (o obbligato) a pensare che si svolga la nostra vita. Anche lo spazio orizzontale residuale del mondo è saturato e colonizzato. Bisogna muoversi dentro uno spazio verticale”. (Che fare?, Il primo amore n.5, marzo 2009, Effigie). D’accordo; ma non è anche urgente e necessario riconquistare anche quello spazio orizzontale che fa da contesto al nostro agire quotidiano? La città potrebbe essere anche luogo di decompressione e relazione. Lo spazio interiore del nostro abitare non dovrebbe tornare ad essere permeabile allo spazio esteriore: non dovremmo poter spalancare le finestre e aprire il portone che da sulla strada? Sono d’accordo. Quando parlo di spazio verticale non intendo questo tipo di spazio in contrapposizione con quello orizzontale, voglio semplicemente dire che se questo spazio sembra colonizzato e precluso bisogna inventarcene un altro, che le dimensioni possibili sono tante e che non è detto che alla fine non interagiscano le une sulle altre e non si influenzino. Perché a volte, per essere più profondamente qui, bisogna avere il coraggio di andare da un’altra parte. Cercherò di farmi capire con un esempio. Da circa trent’anni io cammino a lungo attraverso la città, tutte le notti, in ogni stagione, con qualunque tempo, anche a ferragosto quando ci sono trentacinque gradi e la città è completamente deserta, anche in inverno, sotto la pioggia, la neve, la grandine. E mentre cammino sono ormai così concentrato e nello stesso tempo così estraneo a me stesso che, a volte, quando ritorno a casa non ricordo neppure dove sono stato e che cosa ho fatto. Però, forse, è proprio questo spostamento non solo orizzontale ma anche verticale che mi permette di essere più profondamente dentro me stesso e dentro la polpa della città dove vivo e non solo dentro i suoi simulacri. Proprio per questo stato di semicoscienza, per questo vuoto, per questo essere altrove riesco a percepire ogni minima variazione che avviene attorno a me, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Le strade buie dove una ventina di anni fa venivo buttato per terra e rapinato, dove mi veniva spruzzato qualcosa di accecante negli occhi, adesso sono molto più illuminate, ci sono capannelli di ragazze e ragazzi e di uomini e donne davanti alle porte dei ristoranti e delle enoteche che hanno aperto via via,
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GEOGRAFIE DELL'ALTROVE THE GEOGRAPHIES OF ELSEWHERE con il calice di vino in mano in attesa che si liberi il posto per loro, vestiti come figure televisive, sempre un po’ sopra le righe, molto caricati e forse anche sniffati, le ragazze penosamente in bilico sui filiformi tacchi d’ordinanza che ci sono adesso. E mi arriva distintamente anche tutto l’enorme, inutile sforzo, tutto il mattatoio dei desideri e dei sogni, tutta la penosa, cieca, frustrante recita genetica e riproduttiva. E poi la distruzione del precedente tessuto urbano, i piccoli negozi di alimentari che davano da mangiare a una o due famiglie sostituiti dalle banche e dalle agenzie immobiliari, la progressiva invasione pubblicitaria e il suo crescente spazio tragico non percepito, le prime avvisaglie di enormi spostamenti di popolazioni. Dopo una certa ora, se hai bisogno di chiedere un’indicazione a qualcuno, nella città deserta e sprangata, puoi intercettare solo il ragazzo egiziano o sudamericano che fuma in piedi sulla porta del centro telefonico in attesa della comunicazione dal Cairo o da Cuzco, che ti risponde a tono e ti indica con precisione la via col suo accento straniero e spiazzante. Sulla metropolitana, nelle ultime corse, ci sono solo extracomunitari, sudamericane che tornano dai lavori nelle imprese di pulizie, così piccole che non arrivano neanche a toccare coi piedi il pavimento sotto il sedile, i neri che tornano con grandi sacche piene delle loro povere mercanzie taroccate nelle case dove vivono in promiscuità, ragazzi arabi col naso rotto e il borsone del centro pugilistico dove vanno dopo il lavoro in cerca di una loro strada nel mondo. Spesso sono l’unico ‘bianco’ della vettura o dell’intero treno. Bianco per modo di dire, dato che mi chiamo Moresco, e questo significa che i miei antenati non sono venuti di certo dalla Svizzera, ma da posti molto più lontani, più a sud, come tutti quelli che adesso arrivano sui gommoni… Io mi sento più vicino a loro, che stanno combattendo e soffrendo per cercare un loro posto nella vita e nel mondo, che non a quei poveri incattiviti che difendono con le unghie e coi denti la loro brutta e povera vita stanziale. Anch’io ho dovuto soffrire e combattere nella mia vita, fin da quando ero bambino e ragazzo, ho cambiato molte case, ho vissuto in diverse città, presso affittacamere, in monolocali affittati, in condizioni di promiscuità e di rischio, in case occupate, prima ancora in grandi case aliene, in istituti. Il mio cuore è con loro. Quando li vedo di fronte a me sui sedili della metropolitana, capisco dalle loro facce quello che stanno provando, quello che stanno pensando le loro donne con la testa ricoperta dal velo, quello che si dicono quando sono a tavola, a letto. E provo una grande emozione e mi sento onorato quando li sento parlare con i loro accenti strani e i loro strafalcioni nella nostra lingua, nella mia lingua, quella che uso anch’io come scrittore. Spero di avere risposto in qualche modo alla sua domanda. Pasolini nel film documentario La forma della città afferma “Il regime è un regime democratico (...) però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha, che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distruggendo, in realtà, l’Italia; allora posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia”. In tempi di non-luoghi, non è più necessario difendersi dall’identico piuttosto che dall’altro? Pasolini è sempre molto libero, coraggioso e acuto. Ma le cose non sono andate esattamente come lui prevedeva. Ad esempio, lui pensava che la scomparsa del mondo contadino e della sua millenaria civiltà e l’irrompere di nuovi meccanismi e di nuovi pervasivi poteri politici, sociali, culturali e mediatici avrebbe portato a una generale omologazione. Non più il mondo preindustriale e i contadini col loro tessuto connettivo arcaico, non più le borgate sottoproletarie con le loro baracche di lamiera, con la loro piccola criminalità ma anche con la loro libertà, da un certo punto in poi solo l’espandersi esponenziale di una piccola borghesia e classe media omologate e acculturate, un nuovo fascismo consumistico peggiore ancora di quello vecchio… Invece le cose non sono andate così, o meglio non sono andate solo così. Il gioco, che sembrava prevedibile e chiuso anche a molti altri critici dell’esistente, è stato sparigliato, i miserabili sono tornati, sono venuti da tutti gli angoli della terra e hanno innescato dinamiche imprevedibili. Le città si sono riempite di migranti poveri, di clandestini e di miserabili, extracomunitari, zingari, europei dell’est… E poi ci sono le nuove emergenze planetarie e di specie, che abbiamo di fronte oggi con la loro drammatica, ultimativa evidenza. La storia non è finita nell’orribile, benestante e alienante torpore che immaginavano anche le migliori menti critiche del Novecento e gli ideatori delle sue utopie negative. In un certo senso è infinitamente peggio da come essi concepivano il futuro, ma perlomeno
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la situazione è aperta, il dramma è aperto, si ripropone con le sue forme successive e nello stesso tempo anteriori, arcaiche. I miserabili gettati a riva dai processi di industrializzazione e urbanizzazione messi in scena dagli scrittori dell’Ottocento (Hugo, Dickens…) e poi archiviati come qualcosa di ingenuo e di superato dai successivi teorici culturali e sociali anche di matrice marxista, che sarebbero stati inevitabilmente soppiantati dalle nuove aggregazioni di classe e dalle loro nuove dinamiche sociali, sono invece tornati, sono qui, più numerosi e ingombranti che mai, con le loro eterne facce da poveri, i loro afrori, anche se non erano più contemplati dalle nuove panoramiche sociali dove c’era posto solo per i grandi capitalisti, i borghesi grandi piccoli e medi, i proletari e al massimo i sottoproletari. Ora invece vediamo ogni giorno nelle nostre strade giovani ucraine e ragazzi africani e asiatici che sorreggono italiani decrepiti che non si reggerebbero in piedi da soli. Si sta ripresentando persino, sotto altre forme, il dramma terribile e la vergogna della schiavizzazione. I miserabili sono tornati, ci sono sempre stati, erano solo un po’ spostati rispetto al nostro raggio culturale e visivo. E forse sono solo un primo, piccolo avamposto delle masse umane molto più estese che si sposteranno sempre più nel futuro, sospinte dai mutamenti ambientali e climatici e dalla lotta per l’esistenza. Contro le quali poco potranno le soluzioni di chiusura superidentitaria e razzista e neppure quelle più autoritarie e scopertamente militari, plebiscitarie e neofasciste che forse qualcuno tiene in serbo per il futuro. Ma ora vorrei concludere con una piccola riflessione sui ‘non-luoghi’. Quella di ‘non-luoghi’, riferita ai nuovi spazi dove si sperimenta al massimo grado lo spaesamento, lo sradicamento e l’alienazione cui sono sottoposti le donne e gli uomini della nostra epoca, è una definizione molto brillante e che ha avuto immediata ricezione e successo, ma che a me pare contenga anche il limite di essere più che altro descrittiva e autodescrittiva e di superficie, di avere introiettato lo stesso sguardo annichilente, la stessa descrizione della realtà che ci fornisce la realtà stessa, di farci vedere le cose non con i nostri occhi ma con gli occhi di chi ci sta a sua volta guardando. E poi -mi domando- non saranno esistiti anche nel passato luoghi in cui gli uomini sperimentavano, solo in forme diverse, la stessa alienazione e lo stesso spossessamento? Persino quando enormi quantità di corpi erano ammassate prima delle battaglie campali, durante le deportazioni e in tutte le situazioni dove una profonda, obnubilante atonia era una forma di difesa dallo shock dello sradicamento da se stessi e della percezione della nostra infinita piccolezza all’interno delle enormi forze che ci contengono e che ci oltrepassano? Anche qui è molto peggio, mi pare, ma nello stesso tempo, pur nella tragedia, è molto meglio. Anche i non-luoghi sono luoghi. Dentro quelle strutture architettoniche e quell’abbagliamento luminoso e musicale e quelle miriadi di interazioni che fanno pensare a un acceleratore di particelle sta avvenendo qualcosa di epocale e di enorme. Non ci sono non-luoghi o forse, se ci sono, sono fuori dalla nostra dimensione e dalla nostra portata. Se potessimo scorgere la struttura intima della materia, vedremmo che, mentre grandi quantità di uomini si muovono sradicate e abbagliate nei grandi centri commerciali e negli areoporti, all’interno dei loro corpi tenuti ancorati al suolo dalla forza di gravità avvengono miriadi di operazioni che rendono possibile la vita fino all’interno delle molecole che li compongono, fenomeni di attrazione e di repulsione delle particelle elementari, duplicazioni continue, sdoppiamenti, attività di elettroni, protoni, neutroni… Intanto, sugli schermi che circondano le pareti di questi luoghi e che fasciano da ogni parte le persone che vi si aggirano dentro, arriva una luce composta da fotoni creati dagli elettroni, i quali a loro volta sono mossi da campi elettrici e magnetici. E molte di queste presunte ‘non-persone’ che si spostano in questi presunti ‘non-luoghi’ hanno magari appena subito una grave perdita umana, un abbandono, qualcuna di esse sta portando in giro all’interno del proprio corpo, tra i banconi carichi di merci o mentre fa la fila al metal detector prima dell’imbarco, dolori e catastrofi personali e famigliari, cellule cancerogene, fibromi, magari porta un cappello molto calcato in testa per nascondere gli effetti devastanti della chemioterapia… Non ci sono non-luoghi, un non-luogo vuol dire un luogo che non esiste, vuol dire separare e astrarre la dimensione psichica e culturale dell’uomo da quella esistenziale, biologica e fisica. Vuol dire che una visione culturale o culturalistica del mondo si è sovrapposta a ogni altra cosa e si è mangiata tutto. Non sono non-luoghi i grandi centri commerciali e gli aeroporti, come non sono non-luoghi le baraccopoli dei nuovi miserabili e qualsiasi altro spazio dove si brucia e si consuma la vita umana, vegetale, animale. Le baracchine degli zingari accampati tra i ruderi della ex Snia Viscosa di Pavia, che mi è capitato di vedere da molto vicino, con i cumuli di macerie e immondizie, coi grandi topi che andavano di notte a morsicare i neonati e che si vedevano schiacciati qua e là a colpi di pietra, coi loro fili elettrici scoperti e i loro improvvisati, arcaici fornelli di mattoni, non
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–Luoghi/Places GEOGRAFIE DELL'ALTROVE THE GEOGRAPHIES OF ELSEWHERE sono meno non-luoghi dei centri commerciali dove gli uomini sono preda di una tirannica dimensione economica e commerciale dell’esistenza e dove ogni cosa, anche la loro stessa vita, è percepita come merce interscambiabile. Di qua grandi concentrazioni di capitali divoranti e progetti architettonici puramente funzionali a questi accelleratori di particelle e a questo abbagliamento. Di là agglomerati di casine e di baracchine come sorte nel cratere di un vulcano, costruite e architettate con materiali di scarto, cartone, vecchie assi impregnate di calce e recuperate dalle discariche, una baracchina fatta esclusivamente di vecchie finestre, i materassi buttati per terra uno attaccato all’altro. E poi le case degli zingari che ho visto nel sud della Romania e al confine con la Bulgaria. Case fatte letteralmente di terra e di fango e tenute assieme da poche assi, buche scavate direttamente nel terreno dove uomini, donne e bambini vivono come in tane animali. Tutto questo non in qualche sperduta regione dell’Africa, ma qui, adesso, nel cuore della nostra Europa. Di che cosa si tratta? Sono rimasugli di antiche e miserabili architetture del passato da cui è meglio distogliere lo sguardo o avvisaglie di qualcosa a venire? D’altronde, saranno state molto diverse da queste le prime abitazioni addossate le une alle altre come le cellette sotterranee delle metropli e dei vivai di alcune specie di insetti che avranno costruito i miserabili e i fuggiasci che hanno poi dato vita anche nel passato a nuove città e metropoli dell’antica Europa, dell’ Africa, della Mesopotamia e dell’Asia Minore? O le colonie di microrganismi e conchiglie che si formano in fondo agli oceani? Quelle piccole, miserabili, futuribili e arcaiche abitazioni sono le conchiglie che i loro corpi sono riusciti a secernere. Lo so che tutto non può ridursi a questo, alle conchiglie umane, che la soluzione non può essere questa o solo questa, che c’è bisogno di un enorme allargamento -anche architettonico- di tensione e di sguardo, che sia proporzionale alla situazione che stiamo vivendo. Che dovrebbero nascere -pur nello strangolamento economico e funzionale che sembra imprigionare ogni cosa in questa epoca- le prime forme di una progettualità e di un’invenzione moltiplicativa e un sogno architettonico nuovo per una specie che si sta avvicinando al proprio limite o al proprio passaggio. E che questo potrà diventare possibile solo attraverso uno spostamento radicale di piani e un terremoto esistenziale, culturale e sociale mai visto prima. Un’architettura pulsante e mobile, individuale e collettiva, di specie, in mezzo alle altre specie e forme viventi, che faccia carovana assieme a tutto il resto in questo misterioso viaggio che stiamo compiendo verso chissà dove. [english] Shopping centres and outlets in the suburbs like new cathedrals of the religion of consumption, shrines, pilgrimages, Sunday liturgies for crowds of entire families. Historical centres transformed into reassuring, sweetened theme parks inhabited by bit-part actors in official costumes who, after a day's work, leave their Italy-in-miniature sets and return, as commuters, to their dormitory homes in the suburbs. Little terraced villas with gardens, seven dwarfs and a 30-year mortgage. Satellite-dish buildings with bell-towers, rented to extra-community immigrants. Urban décor, patrols, nocturnal illumination of tourist areas: these are the things so many city councils have to deal with. This is the urban landscape of a country, as you put it, "prey to mental confusion, loss of memory, regression, restauration, particularism, racism,. criminality, malice, egoism. Frightened, deprogrammed, regressed, wiped out" (Che fare? Il primo amore n.5, March 2009, Effigie). Is it really true that the identity of shared public space is by now inadequate, is not able to deal with the real priorities of our presence in the world? Is there a risk of compromising permanently our vision and our ability to judge? This is what the overall landscape is like and it seems to be a landscape after a bombardment, although everything remains standing, walls, houses, hypermarkets, human breeding grounds, equestrian circuses, screens, dentures constantly shown off…Italy has shown itself to be more transient and fragile than was expected but it is the entire planet and the entire human species which is unaware of what is happening, the need for an epoque-making change. In such a context, as if this weren't enough, we are dealing with something that would have been unthinkable only a few years ago: the growing restrictions on the spaces of what remains of the thing called "democracy", the economic and commercial dimension, corruption and centralized control of television media which appear to have colonized and intoxicated everything, particularism and racism to throw us off the scent, constant threats of secession of areas of national territory by political forces which are in any case just minority groups, the birth of the first embryonic paramilitary groups, passed off as vigilante patrols for the protection of territory from occupation by the newly arrived, criminalized on a collective basis - regression, malice, pettiness. Not even the political, geographic and linguistic unity of the country,
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conquered so late and at such a high price, seems now guaranteed. We do not know what might happen In the near future. The wrong that has been done Is enormous and has not found a considered reaction on the part of those forces which should have created a buffer against all this and who, on the contrary, have proved their feebleness, impotency even, their subjection to blackmail. This is the situation. So what is needed is not only a horizontal and specular countermovement but an unexpected movement, alien. Spaces, architectural too, are not separate and inert, they are animated, they are given movement and projection also by the fervour and interactive tension of the people who live there and who invent their own lives. If not, they are empty boxes, containers of frustrations, walls to look at. It is the small animal contained therein which excretes the calcareous material which forms a shell. But if the shell is no longer inhabited by an organism which has life, or projection, the shell too remains immobile and inert In the depths of the ocean. However, in all this horror, there are also other things. If there were not other things we couldn't understand how our country could have survived, despite all that has happened. There is a large number of people who wake up early, even though they have perhaps not slept well, wash their face, leave home and go and do their part. It happens all the time, we meet them and we are almost amazed to see single people still existing - and the structure of associated life - who have remained in their place, who have not been broken. A few months ago for example, I had to spend hours and hours in a hospital where my daughter was expecting a child and I came to know a reality of a completely different nature, almost a parallel universe. Pregnant women arriving all the time, mostly extra-community immigrants, eastern Europeans, gypsies. The nursery full of newly born, Italians, Africans, Asiatic, south Americans with large manes and hints at sideboards already, the corridors full of people from all continents in the visiting hours. The anxious waiting in the room by parents and partners, Egyptians, Peruvians, veiled Arab mothers and Italians, relaxing, exchanging confidentialities, comforting each other, all brought together by the fear and euphoria of what was happening behind the door, intent upon seizing the first pulmonary shout of life. But also the gentleness and calm of the obstetricians doing a job which is in human terms so heavy-going, involving, following so many births each day, each one different, unpredictable. The human force of all these people who leave home in the early morning like thousands of others on the underground, but who then enter into a similar dimension. All this, not from time to time, but every day, every day. Their participation and their force during the labour which sometimes lasts hours even. The obstetrician, tattoos all over his arms, who looks like he might be a cut-throat but who, on the contrary, manages to inspire serenity, sweetness and courage, even in the most extreme situations. "Where do all these marvellous people come from, who live unknown in our midst and whom we manage to intercept only every now and then?" I ask myself "How did they manage - in the situation we find ourselves in - to preserve such humanity? How did they manage to save themselves?" "Space is not only horizontal, it is also vertical. Dimensions are not only those inside which, they have taught us (or obliged us) to think, our life takes shape. Horizontal space too, residual of the world, is saturated and colonised. We have to move Inside a vertical space". (Che fare?, Il primo amore n.5, March 2009, Effigie). OK; but is it not also urgent and necessary to reconquer that horizontal space which acts as a context to our daily actions? The city could also be a place of decompression and relation. The interior space of our living, shouldn't it go back to being permeable to external space: shouldn't we throw open the windows and open the front door on to the street? I agree. When I speak of vertical space I do not wish to oppose this to horizontal space, I simply want to say that if this space seems colonised and barred we have to invent another one, that the possible dimensions are many and it is not necessarily the case that in the end one does not interact with the other and does not influence it. Because at times, to be here in a deeper way, we need to have the courage to go somewhere else. I'll try to explain with an example. For about thirty years I have been walking through the city, every night, in all seasons, in whatever weather, at ferragosto too when the temperature is 32 degrees and the city is completely deserted, in winter too, in the rain, snow, hail. And while I walk I am by now so focussed and at the same time so extraneous to myself that, sometimes when I get back home I can't even remember where I have been and what I have done. However, it is perhaps this shifting, not only horizontal but also vertical which allows me to be more deeply within myself and inside the flesh of the city where I live and not only inside its simulacra. It is precisely because of this state of semi-consciousness, this void, this being elsewhere that I am able to perceive the smallest of variations which takes place around me, day after day, year after year. The dark streets where, twenty years or so ago I was knocked down and robbed, where
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–Luoghi/Places GEOGRAFIE DELL'ALTROVE THE GEOGRAPHIES OF ELSEWHERE they maced me, now they are more lit up, there are knots of young women and men, older women and men, in front of the doors of restaurants and wine bars which have opened a little at a time, with a glass in their hand while awaiting a place inside, dressed like television characters, always a bit over the top, pumped up, maybe they've even "snorted", the young women distressingly doing a balancing act on those heels required dress code nowadays. And I suddenly get it, the whole enormous, useless effort, the whole slaughterhouse of desires and dreams, all the distressing, blind, frustrating, genetic and reproductive recital. And then the destruction of the previous urban tissue, the small food shops which kept one or two families going, replaced with banks and estate agents, the progressive advertising invasion and its growing tragic non-perceived space, the first signs of enormous shifts of population. After a certain time, if you need to ask for directions in the street, in a city, deserted, bolted up, you only encounter the Egyptian youth or South American, smoking, leaning against the door of the telephone centre, awaiting the call from Cairo or Cuzco, who responds, indicating, with precision, the road, the foreign accent throwing you off guard. On the underground, on the last rides of the night, there are only extra-community immigrants, South American women coming back from their cleaning jobs, so small they are not able to touch the floor under the seat with their feet, the black people returning with large sacks full of poor fake merchandise to the houses where they live, all together, young Arabs with their noses broken and the bag from the boxing club where they go after work in search of a direction in the world. Often, I am the only "white" person in the wagon or even the entire train. White, so to speak, given that my name Is Moresco - clearly my ancestors were not from Switzerland( !) but from much further off, to the south, like all those arriving these days on dinghies…I feel closer to them, who are fighting and suffering to find their place in life and in the world, rather than those poor malicious people who defend to the hilt their ugly, poor sedentary lives. I too have had to suffer and struggle in my life, even when I was a boy, I changed home so many times, I lived in different cities, often renting, in bed-sits, together with others, taking risks, in occupied buildings. Even before, in large alien buildings, in institutes. My heart is with them. When I see them in front of me on the underground, I understand from their faces what they are feeling, what their women are thinking, with their faces veiled, what they say when they are at dinner, in bed. And I feel great emotion, I feel honoured when I hear them talk, with their strange accents and their blunders in our language, in my language, the one I too use as a writer. I hope I have answered your question, in some way. Pasolini in the documentary film La forma della città states "The regime is a democratic regime (…) but that acculturation, that homologation which Fascism had in no way managed to obtain, the powers that be nowadays, i.e., the civilisation of consumption, manage to obtain perfectly well, destroying a variety of particular realities, removing reality from the variety of ways of being men that Italy has, that Italy has produced in an historically very differentiated manner. So it is this acculturation which is in fact destroying Italy. I might say that without doubt true Fascism is precisely this consumption civilisation which is destroying Italy. In times of non-places, isn't it more necessary to defend ourselves from the identical rather than from the other? Pasolini is always so free, courageous and penetrating. But things have not gone exactly as he predicted. For example he thought that the disappearance of the world of the peasant and his thousand-year civilisation and the outburst of new mechanisms and new pervasive powers - political, social, cultural and mediatic - would have led to a general homologation. No longer the pre-industrial world and the country folk with their archaic connective tissue, no longer the underproletariat of the suburbs with their tin shacks, and mini-criminality but also their liberty, but at a certain stage, only the exponential expansion of a petit bourgeois and a homologated and accultured middle class, a new consumistic Fascism even worse than the original one… But things didn't go like that.. or rather they didn't only go like that. The game, which seemed predictable and closed off to many other critics of the existent, was mismatched, the abject poor have returned, they have arrived from all the corners of the earth and they have triggered unpredictable dynamics. The cities have filled up with poor migrants, illegal immigrants and the abject poor, immigrants, gypsies, Eastern Europeans… And then there are new planetary emergencies and those of species which we have ahead of us today in all their dramatic, peremptory evidence. History has not finished in the horrible, wellbeing and alienating torpor which we all imagined, even the critical minds of the 1900s and the creators of its negative Utopias. In a way it is infinitely worse
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than they conceived the future, but at least the situation is open, the drama is open, it is being reproposed in its succeeding forms, but at the same time they are anterior, archaic. The abject poor thrown ashore by the processes of industrialisation and urbanisation recounted by the writers of the 19th century (Hugo, Dickens…) and then deposited in the archives like something of disingenuous and outdated by later cultural and social theoreticians, also Marxists, to be inevitably supplanted by new class aggregations and their new social dynamics, have In fact returned, they are here, more numerous and intrusive than ever, with their eternal faces of the poor, their body odours, even though they were not contemplated by the new social overviews, where there was only a place for the great capitalists, the bourgeois, big, small, medium, the proletariat and at most the under-proletariat. Now. however, we see every day in our streets, young Ukranian girls and young African and Asiatic men holding up doddering Italians who are not even able to stand on their own. The abject poor have returned, they have always been with us, they were just a little outside our cultural and visual spectrum. And perhaps they are only a first small outpost of the human masses, even more extensive, who will be shifting even more in the future, pressed by environmental and climatic alterations and the struggle to survive. Against whom not much will be possible, in terms of super-identity creating racist, closure solutions, not even those which are most authoritarian and openly military, unanimous and neofascist, which some are keeping in store for the future. But now I would like to conclude with a small reflection on "non-places". That of "non-places", referring to new spaces where disorientation at its worst is experienced, the uprooting and alienation to which women and men of our era are subjected, is a very brilliant definition which has had immediate success but which seems to me contains limits too, those of being more than anything else descriptive and self-descriptive, superficial, which have absorbed the same crushing glance, the same description of reality which supplies us with reality itself, to let us see things not with our eyes but only through the eyes of those who, in turn, are watching us. And then - I ask myself - didn't they exist in the past these places in which men experienced, but just in different forms, the same alienation and the same dispossession? Even when vast quantities of bodies were massed together before pitched battles, during deportations and in all the situations where a deep, obnubilating atony was a form of defence from the shock of uprooting and the perception of our infinite smallness within enormous forces which contain us and which go beyond us. Here too it is much worse, it seems, but at the same time, albeit in a tragic fashion, it is much better. Non-places are places too. Inside those architectural structures and that luminous and musical dazzling and those myriads of interactions which remind us of a particle accelerator, something of epoch-making and enormous is happening. There are no non-places or perhaps, if there are, they are outside our dimension and our reach. If we could see the intimate structure of material, we would see that while large numbers of men move around uprooted and dazzled in the great shopping centres and aeroports, inside their bodies, kept anchored to the ground by the force of gravity, myriads of operations happen which make life possible, inside the molecules even which compose them, phenomena of attraction and repulsion of elementary particles, continuous duplications, doubling, electron activity, protons, neutrons… In the meantime, on the screens which surround the walls of these places and which swaddle the people from all over, walking around inside, a light arrives which, made up of photons created by electrons, are in turn moved by electric and magnetic fields. And many of these "non-people" who move in these presumed "non-places" have perhaps undergone a serious human loss… an abandonment, some of them are carrying around inside their own body, between the counters full of goods or while they queue up at the metal detector before embarkation, pain and personal and family catastrophes, cancerogenous cells, fibromas, perhaps they carry a hat pulled well down over their head to hide the devastating effects of chemiotherapy…There are no non-places, a non-place means a place which does not exist, it means separating and abstracting the psychic and cultural dimension of man from the existential, biological and physical. It means that a cultural or culturalistic vision of the world has been superimposed on every other thing and has devoured all.They are not non-places those great shopping centres and aeroports, just as they are not non-places, those shanty towns of the new abject poor and any other space where human - vegetal, animal - life is burnt and consumed. The huts of gypsies camping in the ruins of the ex-Snia Viscosa In Pavia, which I happened to see from close up, with the piles of rubble and rubbish, rats biting the newly born at night and which you can see crushed here and there by stones; with their bare electric wires and their improvised, archaic stone fires; these are no less non-places than the commercial centres where men are prey to a tyrannous economic and commercial dimension of existence and where every thing, even their own lives, is perceived as goods to be exchanged. Here, large concentrations of devouring capital and architectural projects used purely like particle accelerators and this dazzling. There, agglomerates of houses and huts as if
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–Luoghi/Places GEOGRAFIE DELL'ALTROVE THE GEOGRAPHIES OF ELSEWHERE emerging from the craters of a vulcano, constructed and concocted with leftover materials, cardboard, old boards full of plaster and recovered from dumps, a hut made exclusively of old windows, mattresses thrown on the ground one next to the other. And then the gypsies' houses I saw in the south of Romania and on the border with Bulgaria. Houses made entirely of earth and mud and kept up with a few beams , holes dug directly into the earth where men, women and children live as if in animal dens. All this is not in some lost region of Africa, but here, now, in the heart of our Europe. What's it all about? Are they remnants of ancient architecture of the past which we should avoid looking at, or signs of things to come? What's more, were they so different to these, the first dwellings propped one against the other like underground cells of metropoli and the breeding grounds of certain species of insects, those which the abject and the fugitives built, which later gave life in the past too, to new cities and metropoli of ancient Europe,
Africa, Mesopotamia and Asia Minor? Or the colonies of microorganisms and shells which form on ocean floors? Those small miserable feasible and archaic dwellings are the shells which their bodies managed to excrete. I know that not everything can be reduced to this, to human shells, that the solution cannot be this or that, that we need a vast broadening - architecturally too - of tension and looking, which is proportional to the situation we are experiencing. What should be born - albeit in the economic and functional strangulation which seems to imprison everything in this era - the first forms of a "projectuality" and a multiplicative invention and a new architectural dream for a species which is approaching its own limit or its own passage. And that this might become possible only through a radical shift of planes and an existential, cultural and social earthquake never before seen. A pulsating, mobile architecture, individual and collective, of species, in the midst of other species and living forms, and let it join into a caravan together with all the rest in this mysterious journey we have undertaken towards who knows what destination. a cura di/by Maurizio Rossi
Antonio Moresco è nato a Mantova nel 1947 e vive a Milano. Tra gli autori più interessanti del panorama narrativo contemporaneo, dopo una lunga serie di rifiuti editoriali, ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Clandestinità (Bollati Boringhieri 1993). Sono poi seguiti, tra gli altri: La cipolla (Bollati Boringhieri, 1995), Lettere a nessuno (Bollati Boringhieri 1997), Gli esordi (Feltrinelli, 1998), La visione (con Carla Benedetti, KKP, 1999), Il vulcano (Bollati Boringhieri, 1999), Storia d’amore e di specchi (Portofranco, 2000), L’invasione (Rizzoli, 2002), Lo sbrego (Holden Maps - Rizzoli, 2005), Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno (Fanucci, 2005) e Merda e Luce (Effigie, 2007) che raccoglie le cinque incursioni nel mondo della drammaturgia teatrale portate in scena dalla Compagnia Teatro Aperto e dalla Socíetas Raffaello Sanzio. La rivista Primo Amore (Ed. Effigie), è invece il quadrimestrale di ‘sconfinamento’ fondato da Antonio Moresco insieme ad altri scrittori, critici e intellettuali. L’ultimo romanzo pubblicato è il risultato di una stesura durata quindici anni: assume la sua forma definitiva soltanto adesso, con una terza e ultima parte che si aggiunge alle prime due pubblicate rispettivamente da Feltrinelli nel 2001 e da Rizzoli nel 2003. Del tutto rivisto nelle prime due parti e, dunque, finalmente concluso, Canti del caos (Mondadori, 2009) si presenta in tutta la sua assoluta singolarità. Nella sua gigantesca macchina realistica e metaforica vengono macinati e trascesi i codici, i generi e gli orizzonti letterari di questa epoca: la fantascienza, il poliziesco, il comico, la pornografia, il fantasy, l'horror, il romanzo d'amore, il saggio scientifico e filosofico, la meditazione religiosa e mistica. Il romanzo-mondo di Antonio Moresco chiede molto al lettore, ma molto dà in cambio: una lettura avvincente, un percorso attraverso i grandi archetipi della letteratura dell'Ottocento e del Novecento e la prefigurazione del nuovo millennio, la relazione intima e profonda che si instaura tra chi lancia una sfida e chi ha il coraggio di raccoglierla.
Antonio Moresco was born in Mantua in 1947 and lives in Milan. One of the most interesting writers in the contemporary narrative panorama, after a long series of editorial refusals, published his first collection of stories Clandestinità (Bollati Boringhieri 1993). Others followed La cipolla (Bollati Boringhieri, 1995), Lettere a nessuno (Bollati Boringhieri 1997), Gli esordi (Feltrinelli, 1998), La visione (with Carla Benedetti, KKP, 1999), Il vulcano (Bollati Boringhieri, 1999), Storia d’amore e di specchi (Portofranco, 2000), L’invasione (Rizzoli, 2002), Lo sbrego (Holden Maps - Rizzoli, 2005), Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno (Fanucci, 2005) and Merda e Luce (Effigie, 2007) which brings together the five incursions into the world of theatrical dramaturgy brought to the stage by the Compagnia Teatro Aperto and the Socíetas Raffaello Sanzio. The journal Primo Amore (Ed. Effigie), is, on the other hand the fourth-monthly issue of ‘sconfinamento’ founded by Antonio Moresco with other writers, critics and intellectuals. The last novel published is the result of a work which took fifteen years. It has assumed its definitive form only now, with a third and last part which join the first two published respectively by Feltrinelli in 2001, Rizzoli in 2003. Completely revisited in the first two parts and then, finally concluded Canti del caos (Mondadori, 2009) presents itself in all its absolute singularity. In its gigantic realistic and metaphoric machine, codes, genres and literary horizons of this era are ground up and transcended: science fantasy, detective, comic, pornographic, fantasy, horror, romantic novel, scientific and philosophical essay, religious and mystical meditation. The novel-world of Antonio Moresco asks much of the reader, but gives a lot in exchange. A gripping read, an itinerary through great archetypes of 19th and 20th century literature and the prefiguration of the new millennium, the intimate and profound relation which establishes itself between those who throw down the challenge and those who have the courage to gather it up
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UTILITY
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Osservatorio Bird Watching
_N.B. Nuova Serie, n. 0, Anno I ORE 18.19 - 15 AGOSTO 2009 / SKYLINE DELLA CITY (LONDON)
–Contorni/Outlines
LUIGI FIANO. LONDON, ZÜRICH, MILANO
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Osservatorio Bird Watching
ORE 11.57 - 14 AGOSTO 2009 / PETTICOAT LANE (LONDON)
ORE 09.06 - 27 AGOSTO 2009 / TURRO (MILANO)
ORE 10.51 - 22 AGOSTO 2009 / VEDUTA DEL CENTRO STORICO (ZÜRICH)
ORE 15.39 - 15 AGOSTO 2009 /THAMES - VEDUTA DI CAMBERWELL (LONDON)
_N.B. Nuova Serie, n. 0, Anno I
–Contorni/Outlines
Tre città. Tre diversi percorsi. Una ricerca comune per constatare e sorprendersi di come cambia il paesaggio urbano man mano che ci si allontana dalla ‘City’, cuore pulsante della vita economica e sociale, dirigendosi verso la periferia, passando attraverso quelle zone di confine dove questo passaggio è a volte più evidente e marcato altre meno. Tre città che con la loro conformazione e organizzazione suggeriscono, indirizzano a seguire determinati percorsi lungo delle direttrici ben definite. Così ben definite da poter essere sintetizzate graficamente in tre segni: un tratto orizzontale, una X e una circonferenza. In quest’ottica la città di Londra è assimilabile a un tratto orizzontale. È proprio lungo questa direttrice che si muove il Tamigi in un percorso tortuoso da ovest a est tagliando l’intera città ed è in questa direzione che la ricerca fotografica è stata sviluppata. Partendo dalla zona industriale di West Acton, nella periferia ovest di Londra, passando per la City e i suoi grattacieli, proseguendo per l'East End e le Dockslands fino ad arrivare a Stratford (sede dei cantieri delle prossime Olimpiadi del 2012) e ancora oltre verso Ilford. L'East End è la zona di confine dove è più visibile la sovrapposizione tra vecchio e nuovo, tra la città tecnologica e i suoi grattacieli e le vecchie caratteristiche case di mattoni. Zurigo vista dall'alto ha la forma di una X. Ogni braccio di questa X ha delle caratteristiche distintive. Il braccio nord-ovest è quello che costeggia la principale ferrovia, una zona che diventa industriale man mano che ci si allontana dal centro. È lungo questo braccio che si estende la Limmatt, il fiume della città. Lungo il braccio nord-est si sviluppa una zona residenziale che diventa più popolare man mano che ci si allontana dal centro, terminando in grandi complessi abitativi. I due bracci meridionali sono separati dallo Zurichsee, il lago di Zurigo. Il braccio sudest è la zona collinare, per lo più popolata da ville signorili e famiglie benestanti. Il braccio sue-ovest è una zona residenziale adagiata ai piedi della parte più alta della città che supera la quota di 800m. Nonostante i cambiamenti tra queste macro aree siano evidenti, si possono individuare delle zone di passaggio molto più nette e definite. Una di queste è quella di confine tra le zone abitative e i numerosi boschi che popolano Zurigo. Nel cuore della città, nell’arco di pochi metri, il paesaggio muta e l’edilizia residenziale si dilegua lasciando spazio ad ampie distese boschive dove non è difficile vedere cervi e altri animali selvatici muoversi in libertà. Allo stesso modo anche la Limmat e lo Zurichsee rappresentano un importante luogo di confine, non geografico in questo caso ma di passaggio dall’individualità alla socialità ‘allargata’. Fiume e lago, soprattutto nelle giornate di sole, diventano luoghi di raduno, di convivenza sociale, più difficilmente individuabili in altri contesti cittadini. Il segno che più si addice a Milano è senz'altro la circonferenza. Massima semplificazione di quell'insieme di strade che dà vita alla Circonvallazione, una netta zona di confine che divide tutto tra ciò che è dentro e ciò che è al di fuori di essa. Nominata sede del prossimo Expo del 2015, Milano è una città in trasformazione. Questa ricerca fotografica, lungi dall’essere esaustiva, getta uno sguardo nuovo sulla realtà di tre importanti città europee molto diverse tra loro con lo scopo di voler riaprire una discussione sulla Città e i suoi confini.
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[english] Three cities. Three different itineraries. A common search noticing being surprised at how the urban landscape changes as, little by little we get further away from the ‘City’, pulsating heart of economic and social life, heading towards the suburbs, passing through those areas, borderlands, where this passage is at times more marked, at times less. Three cities whose conformations and organization prompt us to follow given itineraries along well-defined lines. So well defined they are able to be synthesized graphically into three signs: a horizontal stroke, an x and a circumference. In this perspective, the city of London is comparable to the horizontal stroke. It is along just this line that the Thames follows a tortuous course from west to east cutting through the entire city and it is in this direction that photographic research has been developed. Beginning in the industrial zone of West Acton, in the western suburbs of London, passing through the City and its skyscrapers, going on to the East End and the Docklands and reaching Stratford (site of the next Olympics in 2012) and even beyond, towards Ilford. The East End is the borderland where the superimposition between old and new, between the technological city and its skyscrapers and the old characteristic brick houses is more visible. Zurich, seen from above has the shape of an X. Each branch of this X has distinctive features. The north-west branch is that which runs alongside the main railway, a zone which becomes more industrial as one gets further away from the centre. It is along this branch that the river Limmatt flows. Along the north-eastern branch a residential area extends which becomes more working class the further away one gets from the centre, terminating in large built up complexes. The two southern branches are separated by the Zurichsee, the city’s lake. The south-eastern branch is the hilly zone, mostly populated by more exclusive villas and wealthier families. The south-western branch is a residential area sitting at the feet of the highest part of the city which is over 800m. Despite the fact that the changes from one macro-area to another are clear, one can still single out zones of passage which are much clearer, more definite. One of these is the borderland between the dwelling areas and the many woods to be found in Zurich. In the heart of the city, in the span of a few metres, the landscape alters and the residential building thins out, leaving space to wide forested stretches where it is not difficult to see deer and other wild animals living in freedom. In the same way the Limmat too and the Zurichsee constitute an important borderland, not geographical in this case but a passage from individuality to a ‘widened sociality’. River and lake, above all on sunny days, become gathering places, social sharing areas, more difficult to single out in other city-dweller contexts. The sign which most becomes Milan is undoubtedly the circumference. Maximum simplification for the sets of streets which enliven the Circonvallazione, a clear borderland which divides everything between that which is inside and that which is outside. Nominated site for the next Expo in 2015, Milan is a city undergoing transformation. This photographic research, far from being exhaustive, is a new way of looking at the reality of three important European cities which are very different, one from the other. The objective Is to try to reopen a discussion about the City and its confines. Luigi Fiano
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Osservatorio Bird Watching
LONDON
ORE 13.29 - 14 AGOSTO 2009 / ALDGATE EAST
ORE 18.13 - 16 AGOSTO 2009 / BRICK LANE
ORE 13.49 - 17 AGOSTO 2009 / ILFORD
ORE 11.33 - 14 AGOSTO 2009 / WENTWORTH STREET
ORE 16.09 - 15 AGOSTO 2009 / ISLE OF DOGS
ORE 12.23 - 14 AGOSTO 2009 / WHITE’S ROW
ORE 16.57 - 16 AGOSTO 2009 / STRATFORD - CANTIERE OLIMPIADI 2012
ORE 18.55 - 21 AGOSTO 2009 / HEINRICHSTRASSE
ORE 19.04 - 21 AGOSTO 2009 / LIMMATSTRASSE
ORE 10.00 - 20 AGOSTO 2009 / WERDHÖLZLI
MILANO
ORE 15.08 - 19 AGOSTO 2009 / LANDIWIESE – ZURICHSEE
ORE 12.20 - 22 AGOSTO 2009 / UNTER-AFFOLTERN
ORE 10.39 - 26 AGOSTO 2009 / ROGOREDO
ORE 10.59 - 26 AGOSTO 2009 / PORTO DI MARE
ORE 11.35 - 31 AGOSTO 2009 / VIA NOVARA
–Contorni/Outlines
ORE 13.44 - 7 AGOSTO 2009 / AILFORD PARKING
ORE 10.48 - 16 AGOSTO 2009 / NORTH ACTON
ORE 16.04 - 15 AGOSTO 2009 / LIMEHOUSE LINK
ORE 12.18 - 16 AGOSTO 2009 / WHITE CITY
ORE 17.23 - 16 AGOSTO 2009 / STRATFORD
ORE 15.16 - 15 AGOSTO 2009 / CABLE STREET
ZÜRICH
ORE 17.28 - 20 AGOSTO 2009 / LIMMAT
ORE 18.35 - 21 AGOSTO 2009 / GEROLDSTRASSE
ORE 12.17 - 21 AGOSTO 2009 / FLUNTERN ORE 11.44 - 22 AGOSTO 2009 / HOLZERHURD
ORE 10.20 - 27 AGOSTO 2009 / VIA SAMMARTINI STAZIONE CENTRALE
ORE 10.04 - 27 AGOSTO 2009 / VIA TOFANE – MARTESANA
31 ORE 11.25 - 27 AGOSTO 2009 / ZARA
ORE 10.13 - 6 SETTEMBRE 2009 / PORTA GARIBALDI
ORE 19.01 - 29 AGOSTO 2009 / QT8 - VIALE RENATO SERRA
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_N.B. Nuova Serie, n. 0, Anno I
–Paesaggi mentali/Mindscapes
La città senza nome The nameless city Si può allestire oggi una teoria della città, largamente accettata e che superi la accezione pratica e concettualmente inutile di growth machine ? Tra il marxismo umanistico e filosofico di H. Lefebvre e la political economy statunitense, per dirla nella maniera più rischiosamente approssimativa ma, per intenderci a tutti i costi , le case e i luoghi dell’esistere, dell’incontro e dello scambio, delle regole e della gestione degli abusi, dell’organizzazione della vita e dello spazio per l’arte… che cosa furono, che cosa sono, che cosa diverranno? Ritengo che si debbano fare i conti con vari fattori, che è complicato perfino elencare, ma con i quali bisogna pur lavorare. In primo luogo, il cervello dell’uomo è un viscere ontologico e, studiandolo (dal neurone alle strutture del comportamento), anche noi del mestiere dimentichiamo o forse trascuriamo che, se il cervello pensa, è il ‘nostro’, ma se sta sotto il microscopio (tomografie e risonanze funzionali incluse), è quello dell’uomo, per dire così, ‘altro’; In secondo luogo, non è in campo soltanto un semplice pensiero olistico, del quale ci si può fidare solo un po’, ma l’ evoluzione delle quattro basi del Dna , da non dimenticare, perché adenina, citosina, guanina, timina hanno determinato sequenze variabili e possibile futuro biologico degli abitanti di questo pianeta . Infine, l’aggiornamento del sé e del sé nel mondo, che riguarda milioni di uomini i quali stanno mutando comportamenti e modelli di vita in relazione al passato che c’è e al futuro, fatto dalla storia che è compendio. I trasporti a basso costo energetico e la comunicazione a distanza, così come la presenza in città di sempre maggiori popolazioni di non residenti, aprono il problema dell’ inflazione identitaria, che può ridurre il cittadino a essenziale comunicatore. Siamo arrivati senza scampo alla città digitale, con le difficoltà di portarci subito dentro l’uso di immaginazione e di pensiero. È l’utopia del progresso e della città umanamente attesa. Viene il desiderio di ripensare e riflettere anche alla vecchia maniera, di tornare all’importante convegno romano, che metteva insieme, come del resto si sta facendo qui, opinioni usando li con il linguaggio e la dimensione della storia, che forse la Città Eterna imponeva d’ufficio. Françoise Choay, che Gillo Dorfles definiva, presentando la relazione da lei inviata, come una delle punte massime della cultura metropolitana urbanistica per i suoi corsi alla Sorbona, i suoi libri, le sue antologie sull’urbanistica, in occasione dell'incontro romano Segni e segnali della città moderna, titola il proprio contributo Dal nome della città all’immagine della non città. Questa studiosa dell’urbanistica moderna ha fatto riferimenti e riflessioni sulle strategie capaci di migliorare il rendimento e dunque la vita di chi c’è dentro, di quell’ ‘oggetto tecnico detto città’, anche in riferimento a Roma. Al momento attuale sono argomenti di ‘marketing’ urbano nel quale giocano un ruolo importante gli architetti, gli economisti, i designer e gli esperti di comunicazione. Nessuna di queste qualifiche mi appartiene, ma è impossibile non notare che si usano sempre parole come ‘città’, ‘identità’, ‘immagine’, e in queste o un po’ mi sento coinvolto. La Choay ricorda che si tratta di parole polisemiche predilette da politici e tecnocrati, usate soprattutto per rassicurare sé stessi. Infatti rimandano a temi importanti della sociologia, abusati ma per certi versi ancora occulti, perché, pur non essendo strettamente di natura tecnica sono imposti dalle tecniche costruttive. Di fatto riguardano problemi della ‘società’ che si rifanno ad un’ antropologia di base che è fondamentale. Attualmente vi sono infrastrutture a rete che hanno statuto di manufatti tecnici e investono allo stesso modo città antiche e antiche campagne disaggregando le une e le altre. Dice ancora la Choay che la parola è ambigua poiché, in quanto, la città si è trasformata ed al suo posto si trovano configurazioni incerte e instabili, che non sono più rette da una logica di articolazione legata alla storia e al territorio,
_N.B. Nuova Serie, n. 0, Anno I
ma obbediscono ad una logica di ‘giusta posizione’ di oggetti tecnici. Si è soliti dire con Melvin Webber che si tratta di ‘post-city age’ per mostrare questo divorzio consumato fra urbs e civitas. Nella città tradizionale queste due identità (urbs e civitas) erano solidali e conferivano all’istituzione urbana il suo statuto antropologico. De Chirico scrisse un giorno che “ci sarà un tempo non molto lontano che si riconosceranno le città come si riconoscono due gemelli, per qualche segno particolare: San Pietro distinguerà Roma da Milano, il Vesuvio Napoli da Torino”. Tale assimilazione di un frammento, così immaginabile visivamente, a una totalità urbana è un cattivo privilegio conferito ai monumenti storici, perché alla identità simbolica delle città è opportuno corrisponda un nuovo statuto dell’architettura. Questo tipo di riferimenti rincorrono un processo di rappresentazione per ‘segni’, ma non esprimono più, e non producono più, un senso, con il rischio di trascinare l’architetto a diventare un tecnico dell’apparenza, un inventore di logo, che soddisfa la necessità di rappresentare singole identità, magari anche quando propone una sua nuova opera. Questo tentativo di fondare un nome su una icona (giardino per vecchi o bambini, asilo, scuola, ospedale) e il ruolo di questo simulacro, così facile da comunicare e da consumare, è strumentale ma non funzionale per la vita, la storia e l’anima della città! In uno scritto di Munari si legge che la necessità del quotidiano sfugge al lavoro intelligente. Henry Laborit ne L’homme et la ville propose un rapporto tra lo sviluppo delle città e il cervello degli uomini che le vivono. Se ne poteva evincere che la città è anche, per ogni cittadino, uno strumento di comunicazione e di prospettazione delle rispettive futuribilità. Era sostanzialmente un’ analisi critica del rischio della politica politicante nella Parigi degli anni ’60, quando si sottovalutarono i criteri umanistici e umani dell’intervento nel rapporto uomo-territorio. E il ‘68 non fu risposta esauriente. Modernità e tradizione debbono essere anima e storia del processo di costruzione della città, a condizione di conservare una visione progettuale. Quando Renzo Piano costruisce un grattacielo alto trecento metri a Londra, che sarà ragionevolmente agito da cinque-seimila persone, calcola quarantatre posti macchina perché il progetto prevede anche un’efficiente mobilità alternativa, o la non necessità di mobilità. La struttura sempre più è legata alla comunicazione e il linguaggio della comunicazione cambia la città come cambia il rapporto tra gli uomini. Il rischio che la gestione delle città fabbrichi piccoli mondi operativi chiusi impone l’obbligo morale di progettare sistemi efficaci di aperture. In un articolo sull’argomento Ridolfi dice che essa è una condizione che tende a fabbricare piccoli gruppi di riferimento per i quali si pone l’urgenza, per ‘loro’ di aprirsi, e per gli ‘altri’ di dialogare. Non si deve correre il rischio di non dare rappresentanza e confronto alle idee che si svolgono su questi argomenti, perché c’è un processo culturale che è cambiato e bisogna assumerne consapevolezza. Se le periferie sono soltanto la costruzione di belle case, si può correre il rischio che il circuito comunicativo possa sfumare e languire se manca una offerta di società. Non basta solo parlarne, bisogna concordemente sforzarsi per costruirla. Il che vuol dire che si può incappare nell’errore della prevalenza della ricerca di consenso, a rischio della carenza degli strumenti di dialogo e comunicazione. Questi non possono essere sostituiti dagli uffici, ma da un senso diffuso di reale partecipazione. I gruppi dirigenti non possono correre il rischio di assumere posizioni dominanti, che limitano il confronto e la utilizzazione di progetti, magari di valore, ma valutati come estranei e questo non accade quando la gestione urbanistica della città e la politica istituzionale sono capaci di una positiva ed intelligente integrazione. Sense and Design devono diventare idee per una lettura fenomenologica del progetto di sviluppo della città. La eco-edilizia insomma deve ragionevolmente porsi il compito di come usare le nuove e moderne tecnologie ambientali, per rinnovare soprattutto gli edifici pubblici, ovviamente non quelli storici: è essenziale che questo
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–Paesaggi mentali/Mindscapes LA CITTÀ SENZA NOME THE NAMELESS CITY non accada solo nelle strutture, ma anche nelle teste. Passeggiando attualmente per le aree periferiche della città, capita di riflettere qualche volta sull’uso riduttivo che si può fare dell’idea di spazio, se ci si dimentica della fenomenologia percettiva dello spazio stesso, del contesto visivo che si offre e di come lo si sta disegnando per progettarci dentro nuove strutture. Insomma da vecchio neurologo propongo un processo di costruzione mentale dello spazio urbano, prima di diventare costruttori di case; cioè di confrontare pareri non secondo la logica, per lo più in uso, delle opinioni contrapposte, ma secondo quelle dell’ascolto e del raziocinio, che è sempre libero, per caratteristica interna dello stesso termine, dalla domanda “ma questi a che tribù appartengono?” Credo che ci siano idee, volontà, possibilità, serietà e impegno in circolazione. Non è proprio il momento di sprecarli. James Joyce organizzò Ulisse assegnando le varie forme urbane, mura, strade, edifici pubblici e ‘media’ ai diversi organi fisici. Questo parallelo tra la città e il corpo gli permise di stabilire un secondo parallelo tra l’antica Itaca e la moderna Dublino e di creare un senso profondo dell’unità umana aldilà della storia. Dice Marshall McLuan che l’uomo alfabeta ha accettato una teoria analitica di frammentazione e non è certo vicino ai modelli cosmici come l’uomo tribale, per il quale gli spazi (tenda, capanna, igloo, grotta) non erano ‘chiusi’ nel senso visivo, ma seguivano linee di forza dinamiche che erano racchiuse nelle forme. Dal 1970 una legge ponte regolamenta la costruzione dei parcheggi nelle strutture urbane. In Italia si stabilisce che, rispetto alle abitazioni, il numero dei posti di parcheggio non deve essere meno di... In Europa si precisa che si possono costruire fino a… Chi li vuole allora i parcheggi? Il privato che lo costruisce e ci guadagna addirittura a termine di legge e magari chi fabbrica e vende automobili.? Il 30% della popolazione richiede un tipo di casa e il 70% un tipo di casa diversa. Come si mettono dentro un progetto nella vostra testa di architetti questi elementi se non c’è una visione generale? È utile un confronto di opinioni che per argomenti globali e futuribili come questi, non riportino costantemente soltanto criteri di appartenenza. Ci si può perdere nell’immediato e diventa difficile pensare al futuro quando si deve rispondere alle richieste delle varie componenti, che alla fine giudicano, anche mediante il meccanismo del voto e delle possibilità di influenzamento. Chi progetta, chi costruisce, chi programma, si chiede costantemente dove sta andando tra varie lobbies e il problema dell’oggetto tecnico la cui costruzione è in ogni caso da concludere. Come si coniugano nell’agire le regole cogenti con l’invenzione? L’identità popolare radicata nei quartieri e quella aristocratica dei palazzi ne potrebbero trarre vantaggio in una storia possibile che progetta, cambia, e si fa futuro, costruendo il nuovo, forte anche delle proprie radici. [english] Can we come up with a theory of the city today, accepted by most which goes beyond the practical and conceptually useless meaning of growth machine? Between humanistic and philosophical Marxism and American political economy, to put it in the riskiest, most approximate way, but to make it clear, the houses and places of existence, meeting and exchange, regulations and handling abuse, the organization of life and space for art …what were they, what are they, what will they become? I think we have to consider a number of factors which it is difficult even to list, but with which we do have to work. In the first place, man’s brain is an ontological internal organ and in studying it (from the neurone to behavioural structures), even we who work in this business forget or perhaps we neglect the fact that if the brain thinks, it is ours, but if it is under the microscope (including tomography and functional resonances) it is that of man, to put it like this, other. In the second place, we are not dealing only with a simple holistic thought, which we can only rely on a little, but the evolution of the four bases of DNA, we shouldn’t forget, because perché adenine, cytosine, guanine, timida have produced variable sequences and the possible biological future of the inhabitants of this planet. Finally, the updating of the self and of the self in the world, which concerns millions of men, who are altering behaviour and life models in relation to the past and to the future. Made of history which is a synthesis. Low-energy cost transport and communication at a distance, as well as the presence in the city of increasingly larger populations of non-residents, open up the problem of identity-creating inflation, which can reduce the city-dweller to essential communicator. We have arrived hopelessly at the digital city with the difficulties of bringing inside,
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immediately the use of imagination and thought. It is the Utopia of progress and the city humanely expected. We are tempted to rethink and reflect also upon the old style, to go back to the important Roman convention which brought together, as in fact we are doing here, opinions, using them, the language and dimension of history which perhaps the Eternal City imposed by law. Françoise Choay, who Gillo Dorfles defined, when presenting the paper she had sent, as one of the best in the urbanistic metropolitan culture because of her courses at the Sorbonne, her books, her anthologies on town-planning, entitled her own contribution for the Roman meeting Segni e segnali della città moderna Dal nome della città all’immagine della non città. This scholar of modern town-planning has referred to strategies able to improve the yield and thus the life of those who are inside, that ‘technical object called city’ also in reference to Rome. At the present moment there are urban marketing issues in which architects, economists, designers and communication experts play an important role. None of these qualifications is mine but it is impossible not to note that words like city, identity, image are used always and in these words I find myself involved to a certain extent. Choay recalls that these are polysemic words preferred by politicians and technocrats, used above all to reassure themselves. In actual fact they recall important issues like sociology, abused but in certain ways still occult, because albeit not strictly of a technical nature they are imposed by constructive techniques. They concern problems of society which go back to a basic anthropology, which is fundamental. Currently there are network infrastructures which have the statute of technical artefacts and they concern in the same way ancient cities and ancient countryside disaggregating the one and the other. Choay says that the word is ambiguous because, in that it is discrete space, the city has been transformed and in its place there are uncertain and unstable configurations, which are no longer sustained by a logic of articulation linked to history and the territory but obey a logic of right position of technical objects. We usually say with Melvin Webber that we have a ‘post-city age’ to display this divorce between urbs and civitas. In the traditional city these two identities (urbs and civitas) were united and gave the urban institution its anthropological statute. De Chirico said one day that “there will come a time, before long, in which cities will be recognised as we recognise two twins, according to some particular sign: St Peter’s will distinguish Rome from Milan, The Vesuvius, Naples from Turin”. This assimilation of a fragment, so unimaginable visually to an urban totality is a bad privilege conferred on historical monuments, because it is a good idea to match the symbolic identity of the city with a new statute for architecture. This type of reference concerns a process of representation by ‘signs’ but it no longer expresses, and no longer produces a sense, with the risk of forcing the architect to become a technician of appearance, an inventor of logic, who satisfies the need to represent single identities, perhaps also when he proposes a new work. This attempt to found a name on an icon (garden for old people or children, nursery, school, hospital) and the role of this simulacrum, so easy to communicate and consume is instrumental but functional for the life, history and the soul of the city! In an essay by Munari we read that the need for the daily eludes intelligent work. Henry Laborit in L’homme et la ville suggests a link between the development of the city and the brain of men who inhabit it. We might have inferred that the city is also. For every city-dweller an instrument of communication and ‘prospectation’ of respective feasibilities. It was basically a critical analysis of the risk of politics in the Paris of the 1960s when the humanistic and human criteria of the intervention in the man-territory rapport were underestimated. And ’68 was not an exhaustive response. Modernity and tradition have to be soul and history of the process of construction of the city, if we preserve a project vision. When Renzo Piano builds a skyscraper three hundred metres high in London, which will reasonably be accessible to five-six thousand people, we imagine forty three parking spaces because the project also envisages an efficient alternative mobility, or the non-necessity for mobility. The structure increasingly linked to communication and the language of communication changes the city as it changes the rapport between men. The risk that the handling of the city produces small closed operative worlds imposes the moral obligation to project systems capable of opening. In an article on this issue Ridolfi says that it is a condition which tends to produce small groups of reference for which urgency is asked for ‘them’ to open up, and for ‘others’ to dialogue. We must not run the risk of not giving representation and comparison to the ideas which are expressed on these arguments, because there is a cultural process which has changed and we need to be aware of it. If the suburbs are only the construction of nice houses, we might run the risk that the comunicative circuit might fade away and languish if the demand of society is missing.
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–Paesaggi mentali/Mindscapes LA CITTÀ SENZA NOME THE NAMELESS CITY It is not enough to simply to speak about it, we need to agree on making an effort to build it. This means that we might make the mistake of the prevalency of searching for consensus, risking a lack of dialogue and communication instruments. These cannot be replaced by offices, but by a widespread sense of real participation. The establishment cannot run the risk of assuming dominant positions which limit the comparison and the utilization of projects, perhaps of value, but valued as extraneous and this does not happen when town-planning handling of the city and institutional policies are capable of a positive and intelligent integration. Sense and Design have to become ideas for a phenomenological reading of the project of development of a city. Eco-building has to give itself the task of knowing how to use the new, modern environmental technologies, to renew above all public buildings, obviously not the historical ones – it is essential that this does not happen only in the structures but also in people’s heads. Walking through the outskirts of the city it happens that you reflect sometimes upon the reductive use one can make of the idea of space, if you forget perceptive phenomenology of the space itself, the visual context which is offered and how it s being designed to protect us inside new structures. In short as an old neurologist I propose a process of mental construction of urban space, before becoming house builders. I.e., comparing opinions not according to the logic in use, of opposed opinions, but according to those of listening and reasoning, which is always free, according to the internal feature of the term itself, the demand “but these, which tribe do they belong to?” I think there are ideas, willingness, possibilities, seriousness and committment in circulation. It is not the time to waste them.
James Joyce organized Ulysses assigning the different urban forms, walls, streets, public buildings and ‘media’ to different physical organs. This parallel between city and body allowed him to establish a second parallel between the ancient Ithaca and modern Dublin and to create a deep sense of human unity beyond history. Marshall McLuan says that alphabetical man accepted an analytical theory of fragmentation and he is certainly not close to cosmic models like tribal man, for whom spaces (tent, hut, igloo, cave) were not ‘closet’ in the visual sense but followed dynamic force lines which were closed within forms. Since 1970 a bridging law has been regulating the construction of carparks in urban structures. In Italy it has been established that, with respect to dwellings, the numbers of parking places must not be fewer than…In Europe the rule is that we canonly build up to… So who is it who wants carparks? The private individual who builds them and earns from it by law even and perhaps those who manufacture and sell cars.…… 30% of the population requests a type of house and 70% a different type of house. How do you put into a project your head architects head these elements if not with a general vision? A comparison of opinions is useful for global and feasible issues which, like these, do not constantly recall only criteria of belonging. We can lose ourselves in the immediate and it becomes difficult to think of the future when you have to answer the requests of the different components, which in the end judge, also through the mechanism of the vote and the possibilities of being influenced. Those who project, build, plan ask themselves constantly where the different lobbies are going and the problem of the technical object whose construction is in any case to conclude. How are they to be joined in acting the cogent rules with the invention? Popular identity rooted in areas, and the aristocratic identity could find an advantage in a possibile history which projects, changes and makes a future for itself, building the new, sure, also of its own roots. Franco Federici
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–Azioni/Actions
City senses Spesso si declama che gli usi e i costumi degli immigrati rischiano di compromettere irrimediabilmente l’integrità culturale e l’identità delle nostre città. Non è maggiormente necessario promuovere la conservazione di un’identità polifonica e in divenire? Si, credo sia così. In fondo quale società non ha sperimentato un’identità multipla e il ‘diverso’? Nella lunga storia del Mediterraneo si sono sempre mescolate civilizzazioni e identità: in una terra che nasce crocevia di flussi non è possibile parlare di identità come fissità. Le civiltà mediterranee nascono polifoniche, in esse l’accoglienza è sempre stata un valore caratterizzante. La nostra regione in particolare è stata capace di accogliere grandi ondate migratorie, quale ad esempio quella delle popolazioni albanesi, e trarne scambi fertili e proficui. Sia in qualità di amministratore sia di progettista, quali sono gli aspetti che oggi definiscono l’identità di una città? Nel contesto europeo i segni più forti di un’identità credo siano individuabili nella parte storica dei nuclei abitativi: nonostante soprattutto negli ultimi cinquant’anni si sia operato costantemente all’insegna dell’omologazione e della cancellazione di questi segni. Tali identità però, mi ripeto, non devono mai essere percepite in modo statico: devono essere interpretate come oggetto di continue trasformazioni, evoluzioni e ibridazioni. Ed è altresì importante che in quelle zone della città moderna che sono prive di un passato e di segni distintivi, come le periferie, l’identità venga costruita: ognuno di noi ne ha bisogno. In epoca di omologazione gli individui cercano comunque la diversità come fattore identitario, e laddove il pubblico non è in grado di guidare e orientare il processo di costruzione di un sentire collettivo, la risposta della città si manifesta nell’agire dei singoli, spesso con scelte estetiche sulle abitazioni i cui mediocri esiti tutti conosciamo. In un contesto in cui i segni epigrafici, tipografici e rappresentativi si fagocitano tra loro, come possono coesistere segno pubblico e privato? Quali possono essere le scelte urbanistiche in grado di consentire ai cittadini di interagire spontaneamente entro il proprio spazio al riparo dagli interessi commerciali e di certi ‘produttori di paesaggio’? Per tutelare i cittadini da questo dilagare pervasivo della mercificazione è necessario un grande investimento in formazione e cultura. Troppo spesso le pubbliche amministrazioni affidano la propria interpretazione della realtà territoriale esclusivamente a norme che non hanno il dovuto legame con la cultura profonda dei luoghi. Ormai ci siamo eccessivamente sbilanciati verso l’aspetto normativo del progetto: come possono i nostri giovani, i nostri studenti, curare e trasformare un territorio rispettandone le regole più profonde, quelle storiche e culturali, se non lo conoscono e non lo studiano a fondo? Ritiene che esistano dispositivi di qualità strategici e operativi in grado di tracciare una distinzione tra le città del sud e quelle del resto d’Italia? A questa domanda posso rispondere che tanti colleghi che sono venuti nella nostra terra si sono stupiti per il livello ancora elevato di socialità che sopravvive nelle nostre città. Non è solo una questione climatica, ma anche di spazi di socializzazione. Tanto le nostre città quanto i nostri piccoli centri colpiscono per la loro grande vitalità: sono spazi abitati e animati, nei quali la comunità si ritrova per interagire consumando i propri riti. Al sud la separazione tra pubblico e privato, tra interno ed esterno, non è netta come altrove: qui gli architetti e gli urbanisti dovrebbero lavorare molto non solo sull’aspetto materiale dell’abitare, ma anche su queste straordinarie e peculiari pratiche d’uso, che sono ancor più decisive nel definire i connotati del territorio. L’architetto e l’urbanista hanno smarrito quella capacità di immergersi nei contesti di vita delle nostre città e di coglierne il senso più profondo. Parliamo di una città viva, della civitas, non di un insieme di pietre. Quindi che significato ha per lei il termine spazio pubblico? Lo spazio pubblico non è solo uno spazio fisico ma implica anche una dimensione sociale, psicologica e antropologica. Oggi si riducono gli spazi pubblici fisici, intesi come spazi di relazione, di condivisione e di socializzazione, perché si riduce lo
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Intervista all’Assessore Angela Barbanente Interview with Councillor Angela Barbanente
spazio pubblico nella politica e nella società. E la città rispecchia questa perdita. Serve una riflessione che parta dalla ricostruzione di una sfera pubblica. Rimaniamo nella sfera dell’individuo. Qual è il segmento anagrafico della cittadinanza che ritiene che sia maggiormente trascurato nelle scelte urbanistiche di oggi? Tutte le cosiddette fasce deboli sono trascurate nell’urbanistica contemporanea. Una città che si costruisce seguendo la logica del profitto è una città che trascura i desideri, le aspirazioni, gli obiettivi e i bisogni di chi non ha la forza di essere rappresentato. I bambini non hanno per definizione rappresentanza e quindi sono forse la fascia sociale maggiormente esclusa. Nella riqualificazione delle periferie abbiamo rivolto particolare attenzione proprio a loro, perché una città più accogliente per i bambini e le bambine è una città più ospitale per tutti. Non dimentichiamoci che i tempi di trasformazione della città sono talmente lunghi che i bambini di oggi saranno gli abitanti che un domani risentiranno maggiormente dei cambiamenti attuali. Quali sono le scelte più immediate per poter migliorare concretamente la vita quotidiana di una città? La cosa più importante da fare, l’obiettivo zero, è ascoltare con umiltà chi esprime bisogni e disagio, e sollecitare a parlare chi non ne ha avuto la possibilità in passato. Il paradosso della società contemporanea è che, nonostante i mezzi di comunicazione siano diventati tanto potenti da metterci tutti in contatto con luoghi remoti, non riusciamo più ad attuare questo esercizio dell’ascolto, che io giudico doveroso per qualsiasi amministratrice e amministratore. Credo che gli errori peggiori siano proprio imputabili all’assenza di ascolto: per questo nella mia esperienza personale ho sempre cercato di non dimenticarmene. Soprattutto a livello nazionale questa attitudine si è persa, e si sono isolate regioni, parti sociali ed altri interlocutori. Molti suoi colleghi disegnatori che detengono e presidiano questo ambito, non ultime archistar come Koolhaas, Gregotti o Siza, stanno affrontando problematiche anche molto concrete. Perché a volte non esiste un vero dialogo con le amministrazioni e perché a volte agiscono solo in superficie? Io penso che la progettazione, non solo quella architettonica, sia una sorta di esercizio di riflessività in azione. Il progetto di architettura non è un’opera d’arte da contemplare, ma qualcosa da vivere: nel momento in cui viene usato, spesso in modi inimmaginabili in sede di progettazione, suggerisce delle risposte impertinenti all’idea iniziale dell’architetto. Ritengo che l’implicazione deteriore della deriva verso l’archistar system sia proprio che, lavorando contemporaneamente a molti progetti su scala mondiale, si perda la possibilità e la voglia di riflettere per individuare questi feedback emergenti. La dimensione e il gusto dell’ascolto andrebbero recuperati come fattori in grado di perfezionare un progetto in divenire relazionandolo al contesto territoriale e culturale. Sono rimasto estremamente colpito dal Piano Paesaggistico Territoriale della Puglia. Mi sembra voglia essere un vero e proprio dispositivo semiotico oltre che naturalmente operativo, progettuale e politico, vero? Siamo molto impegnati in questo che non è un mero atto tecnico, ma soprattutto una grande sfida culturale. Il paesaggio non si progetta, il paesaggio non è un giardino o un parco che possa essere disegnato: piuttosto si trasforma continuamente ad opera di una miriade di persone che lo producono, lo abitano, lo vivono. È possibile modificarlo con forme di smaltimento dei rifiuti alternative e con un certo orientamento del turismo, ma è soprattutto possibile e doveroso curarlo. Il grande sforzo che stiamo profondendo è principalmente proprio nella cura del paesaggio e nella costruzione di una nuova consapevolezza degli abitanti affinché recuperino quel legame perduto che per millenni ha accomunato popolazioni, attività e luoghi. Strumenti utili a questo scopo possono essere eco-musei e mappe di comunità, ma anche uno spazio internet che diventi un fulcro per l’interazione e la collaborazione di chi abita e difende tali luoghi. Questo piano paesaggistico è una grande scommessa per ricostruire una coscienza di luogo nella nostra regione.
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–Azioni/Actions CITY SENSES
[english] We often hear that immigration and the uses and customs of immigrants are a serious threat to the cultural integrity and identity of our cities. Shouldn’t we promote the preservation of a polyphonic identity now and think about the problem of protection in the future? Yes I think so. After all, what society has not experimented with multiple identity and that which constitutes the ‘different’? And in your opinion, as both an administrator and as designer, what are the aspects which define the identity of a city today? The concept itself of identity is difficult to define. In a European context the strongest signals of an identity are, I think, to be singled out in the historical part of the dwelling nuclei. Despite the fact that especially in the last fifty years the homologation and deletion of the signs of a long history have been constant, the past in some way always survives, creating those specificities which still today characterise European cities. However, once more, such identities must never be perceived as static. They have to be interpreted as objects in continuous transformation, evolution and hybridization. And it is equally important that in those areas of modern-day cities which are deprived of a past and distinctive signs, the suburbs for example, identity is constructed. We all need it. In an age of homologation, individuals always seek diversity as an identity-creating factor and where the public is not able to guide the process of construction of a collective sentiment, the response of the city is manifested in the action of single individuals, often with aesthetic choices about dwellings whose mediocre outcomes we all know. This reminds me of Zygmunt Barman who, talking about liquid thought, refers to a sort of full individualism which, combined with a weakening of the idea of solidarity, is changing the city… Certainly It seems that it is as a result of just this attitude that an inexorable change of form takes place. In a context in which epigraphic, typographic and representative signs swallow each other up, how can public and private signs coexist? What town-planning choices can be made which allow citizens to interact spontaneously in their own space, sheltered from commercial interests and those of certain ‘landscape producers’? To protect city-dwellers from this pervasive spread of commodification we need big investments in education and culture. I think this is a key point, which does not get enough attention. All too often, public administrations entrust their interpretation of territorial reality exclusively to regulations which do not bond with the traditional culture of the places. Nowadays, we are excessively biased towards the normative aspect of the project:. How can our young people, our students, take care of and transform an area, respecting the most important rules, historical and cultural, if they do not know the area and have not studied it in depth? Here’s a provocative question!. Do you think there are strategic and operative devices which can trace out a distinction between the cities of the south and those of the rest of Italy? I can answer this question by saying that many foreign colleagues who come to Italy are amazed at the high level of social relations which survives in our cities. It is not only a question of climate, but socialization spaces too. Both our cities and our small centres strike us with their liveliness. They are inhabited spaces, animated, in which the community meets up to interact, performing its rites. In the south the separation between public and private, inside and outside, is not as clear as it is elsewhere. Here, architects and town-planners should be working not only on the ‘dwelling factor’ but also on those extraordinary, peculiar practices, which are even more decisive in defining territorial connotations. Almost the opposite of that which, according to Françoise Choay Giorgio De Chirico used to say - that the architect has to possess himself of the sign once more, and less of the sense… Well I do not share this interpretation. I think the architect and the town-planner have lost that capacity to immerse themselves in the contexts of life in our cities and grasp the deeper sense. We are speaking of a live city, the civitas, not a pile of stones. So what does public space mean as far as you are concerned? Public space is not only a physical space, it implies a social dimension too, psychological and anthropological. Nowadays, physical public spaces, to be understood as spaces for relations, sharing and socialization are reduced because public space in politics and in society have been reduced. And the city reflects this loss. We need a reflection which starts with the reconstruction of a public sphere. An example - more and more often, competitions for ideas are organized for the realization and planning of squares, and yet many of these competitions fail miserably…And the reason? Precisely that absence of a profoundly political project in such an individualistic society.
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Yes, let’s stay in the sphere of the individual. Which stratum of city-dwellers do you think is neglected the most in town-planning choices nowadays? Well, the so-called underprivileged are neglected in contemporary town-planning. A city which is constructed following the logic of profit is a city which neglects the desires, aspirations, objectives and needs of those who do not have the power to be represented. Yes, it’s a problem of representation, only those who are able to get themselves heard tend to count. Children, by definition, have no representation and therefore they are the social stratum most excluded. In restructuring city suburbs we have taken children into consideration especially. because a more welcoming city for children is a city more hospitable for all. We should not forget that the times of transformation of the city are so long that the children of today will be the adult inhabitants tomorrow – those who will feel current changes most. As an administrator, tell me, what are the most immediate choices to make if we wish to improve, in real terms, the daily life of a city? What can we do or what is being done at a national level? The most important thing to do, the zero objective, is, on the one hand, to listen humbly to those who express their needs and unease and on the other, to encourage those who did not have the chance in the past, to talk. The paradox for contemporary society is that, despite the fact that means of communication have become so powerful that they connect us with remote places in the world, we are no longer able to exercise the practice of listening which I feel is a duty for any administrator. I believe that the worst errors are indeed to be attributed to the fact that we don’t listen. This is the reason why in my personal experience I have always sought to keep it in mind. Above all, at a national level this habit has been lost and regions, and other participating associations have become isolated. Your willingness to stop and reflect reminds me of that process which leads from a mental representation to a figured one; the practice of listening which is transformed first, into politics and then into ‘the line’…Gregotti too comes to mind when he speaks of the sign of the suburbs and an almost uncontrolled exponential growth of the cities in China and the theme of a functional and highly productive return to modern, rather than contemporary, thought…. Yes, certainly… Many of your designer colleagues who hold - or preside over -positions, not least of which the ‘stars’ like Koolhaas, Gregotti or Siza, are taking on even very concrete problems. Why is it that sometimes there is no real dialogue with the administrations and why do they sometimes only act on the surface? Choay says that they are the military wing of a thought, a strategy… I think that preparing a project, not only the architectural one, is a sort of exercise in reflectiveness in action. The architectural project is not a work of art to contemplate, it is something to live - at the moment in which it is used, often in unimaginable ways at a project phase, it suggests answers which have little to do with the initial idea of the architect. I feel that the inferior quality of the drift towards the star system is that working simultaneously on many projects on a world scale, we lose the possibility - and the desire - to reflect upon something, to single out these emerging feedbacks. The dimension and the taste for listening should be recovered as factors capable of perfecting a project coming into being, relating it to the territorial and cultural context. I was struck by the Piano Paesaggistico Territoriale (Territorial Landscape Plan) for Puglia. It seems to be basically a semiotic device, besides being operative, a project and also political, don’t you think? I quite agree! I have to say that we are very much involved in this - it is not a mere technical act but rather a great cultural challenge. The landscape is not projected, it is not a garden or a park which can be designed. Rather it is transformed constantly by a myriad of people who produce it, inhabit it, live it. We can alter it with forms of alternative refuse disposal, we can provide a direction for tourism, but above all we have to care for it. The great effort we are insisting upon is mainly that of protection of the landscape and the construction of a new awareness of the inhabitants so that they can recover that lost link which for thousands of years has brought together populations, activities and places. What are useful tools in this sense might be eco-museums and maps of communities but also an Internet space which becomes a fulcrum for interaction and collaboration of those who inhabit and defend such places. This landscape plan is a great challenge for the reconstruction of a consciousness of place in our region. a cura di/by Fulvio Caldarelli
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Š Eduardo Montaina
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–Set
Frames La città-set è costituita da un flusso di immagini in movimento: lo sguardo cinematografico è sempre più assimilabile allo sguardo quotidiano di un cittadino che fa esperienza dello spazio urbano? Nei primi tempi del mio trasferimento a Roma, mi spostavo sempre con i mezzi pubblici per raggiungere i vari quartieri della capitale. Quando un giorno, finalmente, ho cominciato a spostarmi a piedi; finalmente perché, fino ad allora, non avevo mai alzato lo sguardo. Non avevo ancora capito che certe visioni dal basso di alcune strade romane riuscivano a catturare come nessun altro sguardo l’estetica che contraddistingue la città eterna. Avevo già collaborato ad alcune pellicole dove mi era stato chiesto di ricostruire alcuni pezzi di città, ma avevo sempre fatto ricorso all’uso della fotografia: mi recavo a fare il sopralluogo e scattavo istantanee degli ambienti che mi interessavano per la realizzazione della scenografia. Non avevo ancora scoperto che solo camminando e percorrendo con lentezza una città è possibile entrare in comunione intima con la sua anima. E che soffermare lo sguardo sugli certi scorci educa la nostra visione alla natura imperfetta del reale: la sovrapposizione spontanea di stili architettonici, di incrostazioni temporali a volte dissonanti, dimostra che in realtà, niente è mai perfetto. Invece, quando si fa cinema, è molto facile cadere nella trappola del ‘perfettamente’ reale, nel tentativo di ridurre al minimo qualsiasi incongruenza o imprecisione stilistica. Con l’esperienza ho capito che, viceversa, è fondamentale compiere degli errori. Perché l’errore rende tutto più vero, più autentico. Non dico che prima di progettare una ricostruzione non si debba studiare nel dettaglio tutto quanto: dal singolo cornicione di un palazzo all’insegna del negozio; tuttavia, le strade delle città reali sono il risultato dell’avvicendarsi di segni discordanti, di scelte non ortodosse. E quindi in una scenografia il risultato migliore spesso si ottiene contemplando proprio degli sbagli: errori che, nel complesso, rendono l’atmosfera più credibile e quindi più magica. Le è mai capitato, in alternativa alle grandi scenografie di ricostruzioni storiche che noi conosciamo (Gangster of New York, piuttosto che il Barone di Maunchausen), set urbani di città contemporanee? Solitamente nel caso di ambientazioni cinematografiche contemporanee preferisco affidarmi alle location vere, magari intervenendo direttamente su di esse per amplificare un’esigenza narrativa o per ricreare una particolare atmosfera. Il posto dove si gira il film è fondamentale per la storia. E non necessariamente deve trattarsi di un’immagine artificiale o fittizia. Quello che conta moltissimo è proprio il modo di inquadrare le cose. Uno stesso luogo può generare visioni diverse. A volte è sorprendente come l’apposizione di una particolare luce e la semplice presenza di figuranti in costume riescano a trasmettere un’atmosfera completamente diversa a un’ambientazione reale lasciata in tutto il resto immutata. Magari non cambiano le evidenze architettoniche, ma cambia il paesaggio mentale. Durante le riprese del film Tito di Julie Taymor ho suggerito di procedere attraverso la contaminazione di due periodi storici lontanissimi: oltre ai siti archeologici del periodo storico contemporaneo alle vicende del protagonista Tito Andronico, è stato utilizzato anche l’Eur. Una sovrapposizione che trova forse un senso nel fatto che anche quest’ultima è espressione architettonica delle ambizioni di un presunto impero, quello fascista. Senza dimenticare che, a Roma, molti chiamano questo emblema del razionalismo italiano il ‘colosseo quadrato’. Nella ricostruzione a Cinecittà di una delle strade di New York, Scorsese le disse ‘Sei andato oltre la mia immaginazione’. Al di là della corretta ricostruzione filologica c’è, magari inconsciamente, un’immagine mentale di città che lei persegue e le appartiene? Senza dubbio, in questa mia attività di scenografo, soddisfo anche una necessità
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Intervista a/interview with Dante Ferretti
terapeutica. Si tratta di una professione assolutamente camaleontica. Per ricostruire gli ambienti di un determinato periodo storico non bisogna copiare l’esistente. Si tratta invece di immedesimarsi e di rivivere in prima persona quell’epoca, fingendo di essere un architetto del tempo. Per questo non ha senso una ricostruzione filologica inappuntabile del paesaggio urbano: pur esistendo un canone, uno stile architettonico di riferimento, un architetto immaginario avrebbe comunque realizzato degli edifici con un suo stile personale. E questa riflessione rende immotivate eventuali critiche da parte di storici dell’arte che potrebbero trovare inesatte e non coerenti certe mie creazioni scenografiche. La giustificazione è che si tratta non di ricostruzioni, ma di progetti originali a firma del sottoscritto: quell’architetto che attraversando i secoli, gioca di volta in volta a prendere le parti di un esponente dello stile barocco piuttosto che dello stile gotico. Con un vantaggio non indifferente: le scenografie, per definizione, sono architetture effimere. Se sono riuscite possono imprimersi nella memoria degli spettatori per sempre - basti pensare all’immaginario urbano lasciato in eredità da un film come Metropolis - in caso contrario possono passare inosservate e cadere nell’oblio. Nel caso dell’architettura reale, la questione è ben più critica. Per questo preferisco l’effimero: perché se non funziona si può cambiare, tagliare, demolire, distruggere. Ogni paesaggio urbano comunica valori simbolici e, in un film, ogni luogo deve necessariamente tramutarsi in immagine. La città della fiction cinematografica sviluppa la sua carica simbolica attraverso la poetica della trasfigurazione. Quale la priorità attribuita all’immagine? Racconto e immagine sono indissolubili: questa una delle tante lezioni che ho appreso lavorando con Pasolini nel corso degli otto film realizzati insieme. Certamente l’immagine di città che apparteneva a Visconti era molto lontana da quella di Pasolini, anche se in film come Rocco e i suoi fratelli o La terra trema il paesaggio assumeva le tinte del neorealismo. La città di Pasolini era la città delle periferie sub-urbane, della terra edificata strappata alla campagna fuori porta. Quelli erano i luoghi dei protagonisti delle storie di borgata che voleva raccontare. Seguiva con attenzione ogni scelta scenografica, sia che si trattasse di riprese dal vero che di ricostruzioni in teatro di posa. Ogni immagine era ricondotta alla pittura. I modi e le forme di questa forma espressiva che rappresentava il modello, il parametro di giudizio di ogni inquadratura. Pasolini mi ripeteva sempre che il pittore quando andava a ritrarre sulla tela toglieva tutte quelle le cose che non servivano: dipingeva solo l’essenziale per raggiungere l’essenza. E allora, pensando all’ambientazione degli interni del Decamerone si immaginava la scenografia, ad esempio, di una camera da letto stilando un elenco minimo di oggetti: un letto, una sedia, un comodino e una candela. Poi, di fatto, andavano ad aggiungersi altri dettagli. Ma l’intenzione era sempre quella di guardare all’aspetto ‘grafico’ della realtà. [english] The city-set is made up of a flow of images in movement: is the cinematographic eye increasingly comparable to the daily eye of a city-dweller who gains experience from urban space? Shortly after I moved to Rome, I used to get around with public transport. Finally, one day I began to go on foot, finally I say because up to that point I had never raised my head and looked up. I had not yet understood that certain views from below of certain Roman roads managed to capture like no other the aesthetics which marks the eternal city. I had already collaborated in the making of several films in which I had been asked to reconstruct pieces of the city but I had always counted on photographs. I went to inspect a site and took snapshots of the places which inetersted me for the realization of the set. I had still not discovered that it was only by walking through the city slowly could I achieve an intimate communion with its soul. And that stopping
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–Set FRAMES one. Without forgetting that in Rome, many call this emblem of Italian rationalism the ‘square Colosseum’. and fixing the eye on certain angles habituates our view to the imperfect nature of the real. The spontaneous superimposition of architectural styles, temporal encrustations sometimes dissonant, shows that in reality, nothing is ever perfect. However, when you make a film it is very easy to fall into the trap of the ‘perfectly’ real, in the attempt to reduce to a minimum whatever stylistic incongruency or imprecision. With experience I understood that vice versa, it is fundamental to make mistakes. Because the mistake makes everything more real, more authentic. I’m not saying that before projecting a reconstruction you don’t have to study everything in detail, from the single cornice to the shop sign. However, the roads in real cities are the result of the bringing together of discordant signs, unorthodox choices. Thus, in a set the best result often is to be obtained contemplating just the errors, mistakes which overall make the atmosphere more credible and thus more magical. It’s almost a therapy, that of reconstructing, educating the eye against what is recorded…beyond the eclecticism or the Roman architectural style – as opposed to that of other cities… But everything is a therapy, the action of reconstructing things. You need so much time. When you walk, travel to see things, it’s enough to look around: styles, historical periods, all that you perceive according to which city you are in, which city you live in. I’m speaking of Rome now but Milan too, or Palermo, Naples, New York. That is to say everyone has his style, or more than a style, he has …because it’s not as if there is one style …there is no ‘Roman’ style, or I say Rome is marvellous for what it is; I mean, if it was an area of Rome, that works as well, it’s ok for that historical period, or for that historical period and then social in that moment it was created for. Things change though I think it is fundamental to look, absorb and then each one reconstructs them credibly and as he wishes, or at least this is what I think, it’s my personal opinion. Did you ever -, as opposed to the great sets of historical reconstruction that we know (Gangsters of New York, rather than Baron von Maunchause)- create urban sets of contemporary cities? Usually in the case of contemporary cinematographic settings I prefer relying on real locations, maybe intervening directly on them to amplify a narrative requirement or to ricreate a particular atmosphere. The place where a film is shot is fundamental for the plot. And it doesn’t necessarily mean an artificial or fake image. That which counts a lot is just the way you frame things. The same place might generate different views. At times it is surprising how the apposition of a particular light and the simple presence of figures in costume manage to transmit a completely different atmosphere to a real setting left unchanged in everything else. Perhaps the architectural evidence does not change but the mental landscape yes. During the shooting of the film Titus by Julie Taymor I suggested proceeding through the contamination of two very different historical periods. Beside the archaeological sites of the contemporary historical period of Titus Andronicus, we used EUR also. A superimposition which has sense in that the latter too is an architectural expression of the ambitions of a presumed empire, the Fascist
In the reconstruction at Cinecittà of one of New York’s streets, Scorsese told you “You’ve gone beyond my imagination’. Apart from the tight philological reconstruction is there, perhaps, unconsciously, a mental image of the city which you pursue and which belongs to you? Without doubt, in this work of mine as set-designer I satisfy a therapeutic need too. It’s a totally chameleon-like profession. To reconstruct the settings of a given historical period you shouldn’t copy the existent. You have to blend in and relive the era in the first person, pretending to be an architect of the time. It makes no sense to have an impeccable philological reconstruction of the urban landscape for this. Even though a canon exists, an architectural style you can refer to, an imaginary architect would in any case have realized the buildings in a personal style. And this reflection makes eventual criticism by art historians, who might find inexact, inconsistent, certain of my set creations groundless. The justification is that we are dealing not with reconstructions but original projects with my signature on them. That architetct who, crossing the centuries, plays from time to time, at taking the part of an exponent of the Baroque style rather than the Gothic style. With a significant advantage, i.e., the set by definition is ephemeral architecture. If they have worked they can imprint themselves in the memory of the public for ever – just think of the urban image inventory left in inheritance by films like Metropolis. In the opposite case they might pass unobserved and fall into oblivion. In the case of real architecture the question is much more critical. This is why I prefer the ephemeral, because if it doesn’t work one can change, cut, demolish, destroy. Every urban landscape communicates symbolic values and in a film every place has necessarily to trnslate into images. The city of cinematographic fiction develops its symbolic charge through the poetics of transfiguration. What is the priority attributed to the image? Story and image are indissolubile, this is one of the many lessons that I learned working with Pasolini in the eight films we worked on together. Certainly, the image of the city which belonged to Visconti was far from that of Pasolini even though in Rocco e i suoi fratelli or La terra trema the landscape took on colours of neo-realism. Pasolini’s city was that of the suburbs, the built-up land torn from the countryside outside the city. These were the places of the protagonists of the poor outskirts he wanted to recount. He followed every set choice, both shooting live and reconstructions in the theatre. Each image went back to painting. The ways and the forms of this expressive form which represented the model, the parameter of judgement of every framing. Pasolini used to tell me over and over that the painter when he went to portray on the canvass, removed all those things which were useless. He only painted the essential to achieve the essence. So, thinking about the indoor settings in the Decameron we imagined a set, for example, a bedroom, drawing up a minimum list of objects, like a bed, a chair a cupboard and a candle. Then in fact we added other details. But the intention was always that of looking at the ‘graphic’ aspects of reality. a cura di/by Fulvio Caldarelli
Dante Ferretti Sei volte candidato all'Oscar, Dante Ferretti e' nato a Macerata il 26 febbraio 1943. A soli 12 anni gia' sognava di realizzare scenografie per il cinema, e dopo aver studiato all'Accademia delle Belle Arti ed essersi laureato in architettura presso l'Universita' di Roma, Ferretti inizia la sua carriera come assistente scenografo nel film di Pier Paolo Pasolini "Il Vangelo secondo Matteo" (1964). Sue le scenografie dei maggiori film di Pasolini: "Medea" (1970), "Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972), "Il fiore delle mille e una notte" (1974) e "Salo' o le 120 giornate di Sodoma" (1975). Ha poi collaborato con molti altri grandi registi italiani, tra cui Elio Petri, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Luigi Comencini. Riuscendo abilmente a passare dal forte e brutale realismo di Pasolini agli artifici onirici di Fellini ha firmato la scenografia di "Prova d'orchestra" (1979), "La citta' delle donne" (1980), "E la nave va" (1983), "Ginger e Fred" (1986) e "La voce della luna" (1990), Nella meta' degli anni Ottanta Ferretti inizia la sua esperienza internazionale che lo portera' a Hollywood. Il 1986 è la volta de’ "Il nome della rosa" di Jean-Jacques Annaud, seguito nel 1989 da "Le avventure del Barone di Munchausen" di Terry Gilliam e l'"Amleto" (1990) di Franco Zeffirelli, film che gli hanno procurato, una dopo l'altra, le candidature all'Oscar per miglior scenografia e arredamento con la moglie, Francesca Lo Schiavo, sua abituale collaboratrice. La scenografia de "L'eta' dell'innocenza" (1993) di Martin Scorsese gli è valsa la terza candidatura all'Oscar. Dopo una breve pausa che l'ha portato a fianco di Neil Jordan per la scenografia di "Intervista con il vampiro" (1994), sua quarta candidatura all'Oscar), Ferretti ha continuato la sua collaborazione con Scorsese, fino al recente "Gangs of New York", per cui ha ricostruito interamente nei teatri di posa di Cinecitta' la New York fine Ottocento.
Dante Ferretti Six Oscar nominations for Dante Ferretti who was born in Macerata the 26th February 1943. When he was only 12 he was already dreaming of realising set designs for the cinema and, after studying at the Accademia delle Belle Arti and graduating in architecture at the University of Rome, Ferretti began his career as assistant set designer in Pier Pasolini’s film "Il Vangelo secondo Matteo" (1964). The set designs of Pasolini’s films are his : "Medea" (1970), "Decameron" (1971), "I racconti di Canterbury" (1972), "Il fiore delle mille e una notte" (1974) and "Salo' o le 120 giornate di Sodoma" (1975). He then collaborated with many other great Italian directors among whom, Elio Petri, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Luigi Comencini. Skillfully managing to pass from the powerful and brutal realism of Pasolini to the dreamlike films of Fellini. He designed sets for "Prova d'orchestra" (1979), "La citta' delle donne" (1980), "E la nave va" (1983), "Ginger e Fred" (1986) and "La voce della luna" (1990). In the mid-1980s , "The Name of the Rose" by Jean-Jacques Annaud, followed in 1989 by "Barone von Munchausen" by Terry Gilliam and “Hamlet” (1990) by Franco Zeffirelli, films which earned him Oscar nominations, one after the other. for best set-design and furnishing with his wife Francesca Lo Schiavo, his habitual collaborator. “The Age of Innocence” (1993) by Martin Scorsese earned him his third Oscar nomination. After a brief pause working with Neil Jordan in "Interview with a vampire" (1994), , his fourth Oscar nomination, Feretti went back to working with Scorses , up to "Gangs of New York", for which he entirely reconstructed in the studios at Cinecittà the New York of the end of the 19th century.
UTILITY
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Beatles, The Rooftop Concert
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–Partiture/Scores
Brani urbani Urban pieces L’intervallo perduto. Anche in musica, lo spazio diastemico è elemento imprescindibile del processo percettivo: dispositivo funzionale all’attribuzione di discretezza all’interno del flusso sonoro. Il paesaggio urbano contemporaneo produce spesso in chi vi abita un patologico horror pleni; anche la sensibilità del compositore di musica contemporanea avverte la diffusa urgenza di ristabilire intervalli perduti? L’orrore del silenzio, di un vuoto che è anche portatore di ambiguità, spesso non ha ragione di essere: paradossalmente, oggi, siamo circondati dal silenzio. Di fatto, un eccesso di densificazione del suono produce silenzio. È qui che l’intervallo può rivestire una funzione di equilibrio. E l’intervallo è sempre una conquista. Un’architettura musicale è sempre una relazione tra un precedente e un conseguente. La questione non risiede tanto nella densità del pieno e del vuoto, quanto piuttosto nella percezione dell’apparenza dell’esserci o del non esserci. Sicuramente il sistema percettivo di dell’ascoltatore contemporaneo è profondamente cambiato rispetto anche a soli venti anni fa. La modalità di ascolto si è spostata da una percezione diacronica orizzontale a una posizione verticale: siamo in grado di ascoltare composizioni che appartengono a un passato molto remoto e, allo stesso tempo, produzioni musicali del nostro presente. L’ascolto, svincolato da prospettive temporali e spaziali, si è fatto verticale. Se penso all’ascoltatore del nostro tempo, lo immagino con un grande occhio e un piccolo orecchio. Direi che più che la paura del silenzio, la questione cruciale è che non siamo più capaci di ascoltare, non soltanto a causa dell’ipertrofia e dell’abnorme produzione di suoni che ci circonda. Il punto è che non possediamo più gli strumenti per penetrare attraverso il suono. E quindi l’ascolto viene completamente divorato e fagocitato dalla visione. Senza dubbio stiamo vivendo una trasformazione culturale e antropologica dell’ascolto velocissima. Non soltanto perché si sono annullate queste prospettive storiche, ma anche in virtù delle nuove modalità di fruizione e delle nuove dimensione rituali riconducibili alla musica. Ancora oggi, assistere a un concerto è una scelta intenzionale molto precisa, tuttavia, ad essere cambiate radicalmente sono le aspettative di ascolto. Il nostro orecchio è ormai tridimensionale. I dispositivi tecnologici hanno viziato la nostra abilità sensoriali: un’alterazione del sistema percettivo che non interessa soltanto le performance live di musica pop o rock, ma che deforma anche le aspettative del pubblico della musica classica e della cosiddetta ‘musica alta’. Di fatto, abituati ad ascoltare musica con sistemi di riproduzione e diffusione ad Alta Fedeltà, recandoci a un concerto, rischiamo di rimanere delusi dalla mancanza di profondità e ricchezza del suono tipica della riproduzione tecnologica. Probabilmente, poi, è cambiata anche la concezione e la funzione di rumore. Nella musica d’arte occidentale, il rumore è stato sempre considerato quell’entità sonora che vive al di fuori del sistema temperato. Il sistema temperato è quel sistema su cui è costruita tutta la musica occidentale: sono i dodici suoni razionalizzati da Bach ricondotti successivamente a sistema dodecafonico da Arnold Schoenberg nel secondo decennio del Novecento. Tutti i suoni che si muovono al di fuori di questo sistema sono stati considerati finora ‘rumori’. Oggi, invece, si considera ‘rumore’ tutto ciò che interrompe una comunicazione. Se durante la nostra conversazione arrivasse alle nostre orecchie il suono di un violino, quelle note così struggenti non sarebbero altro che un’interferenza: un elemento che disturba il nostro processo comunicativo. La sensibilità è figlia della conoscenza. In questa società dell’informazione, la diffusa accessibilità del sapere può contribuire alla nascita di una nuova coscienza dell’ascolto? A questo proposito, mi piace ricordare una citazione di Roland Barthes “Abbiamo perduto la sapienza per la conoscenza”. Ecco, a mio avviso, recentemente abbiamo perso la conoscenza per l’informazione. L’informazione ha prodotto un’omogeneizzazione della percezione più che un innalzamento qualitativo delle
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Intervista a/interview with Giorgio Battistelli
nostre capacità di ascolto. La speranza è che tutte queste possibilità di conoscenza a nostra disposizione possano invece determinare una profonda rivalutazione del livello espressivo, anche a discapito dell’eccessiva attenzione rivolta al livello tecnico. Spesso ci si sofferma troppo sugli aspetti tecnici, trascurando l’aspetto fondamentalmente intuitivo del momento espressivo: a volte, attraverso la forza espressiva di un gesto o di una dinamica si possono rendere assolutamente insignificanti e marginali certe carenze tecniche. Del resto, quando mi trovo di fronte a un’opera di Francis Bacon quello che mi colpisce immediatamente non è l’elemento tecnico, ma l’elemento espressivo che predomina. Qual è la forza immaginifica dello scenario urbano proposto da un’opera scritta per andare in scena nel 2011, come rilettura del saggio An Inconvenient Truth di Al Gore sulle conseguenze climatiche globali dell’inquinamento del Pianeta? In una Scomoda verità la città sarà presente come entità totale. E quindi col proprio respiro, coi propri suoni, con le proprie immagini, con la propria vita, con la propria dinamica. Sarà proprio questa presenza multiforme ad essere interiorizzata dal teatro. L’architettura e il movimento delle persone che vivono la città raggiungeranno il palcoscenico del Teatro della Scala. Per una delle sezioni elettroniche dell’opera ho deciso di sperimentare delle telecamere e dei sensori acustici che, collocati un alcuni punti di Milano, cattureranno immagini e suoni per riportarli, in presa diretta, all’interno del teatro. Questi segni e segnali entreranno in relazione con alcuni elementi dell’orchestra e modificheranno così il suono live. Forse una scelta dettata dal mio desiderio di trasformare tutta la realtà in musica: la mia volontà di tradurre un presente sempre più misterioso, perché in continua trasformazione. Devo confessare che quando mi è stato commissionato questo progetto, mi sono subito posto l’interrogativo se avesse ancora senso nel XXI secolo scrivere un’Opera e, soprattutto, attraverso quale registro narrativo: epico e mitologico? Oppure sarebbe stato più opportuno seguire le orme del romanzo post-moderno? Tra l’altro il progetto che mi veniva affidato, sarebbe stato presentato nel 2011 in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia. Alla fine ho scelto di proiettare l’Italia in una dimensione globale, attraverso dei contenuti che mettessero al riparo da prese di posizione puramente ideologiche o da logore diatribe politiche. In altri termini, se la mia opera doveva poter comunicare al pubblico di Sydney come a quello di Bombay: il tema doveva essere necessariamente universale, anzi, tragicamente universale. E il rapporto tra l’uomo e l’ambiente mi è sembrato il tema perfetto, anche da un punto di vista drammaturgico. Il testo di Al Gore mi ha subito affascinato. E non è la prima volta che arrivo a convincermi che la scrittura saggistica stimoli l’immaginario collettivo più della poesia e della prosa. La saggistica offre oggi un perimetro immaginario spesso più ampio rispetto alla letteratura, forse più lenta nell’appropriarsi delle questioni che riguardano l’attualità. Quasi che il romanzo abbia esaurito gran parte della sua forza immaginifica di proiezione. [english]The lost interval. In music too, the diastematic space is fundamental in the perceptive process, a functional device for the attribution of discretion within the sound flow. The contemporary urban landscape often produces in those who inhabit the space, a pathological horror pleni. Thanks to his sensitivity the contemporary music composer is also aware of the widespread sense of urgency, the need to re-establish lost intervals The horror of silence, a void which is also a carrier of ambiguity, often has no reason to exist; paradoxically, nowadays we are surrounded by silence. Actually, an excess of sound densification produces silence. This is where the interval can act in offering equilibrium. And the interval is always a conquest. The question is not so much in the density of the full and the empty, rather it is in the perception of the appearance
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–Partiture/Scores BRANI URBANI URBAN PIECES of being there or not. Certainly, the perceptive system of the contemporary listener has changed radically compared to only twenty years ago. How people listen has shifted from a horizontal diachronic perception to a vertical position. We are able to listen to compositions which belong to a very remote past and, at the same time, musical productions of our own time. Listening, freed of temporal and spatial perspectives, has become vertical. I imagine the listener of our times with a large eye and a small ear. I would say that rather than fear of silence, the crucial question is that we are no longer capable of listening, not only as a result of of hypertrophy and the abnormal production of sounds all around us. The point is that we no longer possess the instruments to penetrate sound. Thus, listening is completely devoured, swallowed up by vision. Without doubt we are living through a cultural and anthropological transformation of very fast listening. Not only because these historical perspectives have been annulled, but also in virtue of the novelty in fruition and the new ritual dimensions which lead back to music. Still today, being present at a concert is a very precise intentional choice; what has changed radically are the expectations which accompany listening. Our ear is by now three-dimensional. Technological devices have corrupted our sensorial abilities. An alteration in the perceptive system, not only as far as live performances of pop and rock music are concerned, but which also deforms the expectations of a classical music audience and so called ‘elevated music’. We are now used to listening to music with high fidelity reproduction and distribution systems, so going to a concert, we risk being disappointed by the lack of depth and richness of technological reproduction. And then probably the conception and function of noise has changed too. In western music noise has always been considered that sonorous entity which lives outside the tempered system. The tempered system is that on which all western music is founded – the twelve sounds rationalised by Bach which become the dodecaphonic system conceived by Arnold Schoenberg in the 1920s. All the sounds which move outside this system have been considered up to now ‘noises’. Nowadays, though, what is considered ‘noise’ is all that which interrupts communication. If, during our conversation the sound of a violin reached our ears, those all-consuming notes would be nothing other than an interference, an element which disturbs our communicative process. Sensitivity is the child of knowledge. In this information society, can the widespread accessibility of knowledge contribute to the birth of a new consciousness of listening? In this respect, I would like to recall a quotation by Roland Barthes “We have lost wisdom for knowledge”. The way I see it, we have recently lost knowledge for information. Information has produced a homogenization of perception rather than a
qualitative increase in our capacity to listen. The hope is that all these possibilities for knowledge at our disposal might actually lead to a deep revaluation of the expressive level, even to the detriment of the excessive attention given to the technical aspect. Often we concentrate too much on technical aspects, neglecting the fundamentally intuitive aspect of the expressive moment. At times, by means of the expressive force of a gesture or a dynamic we can render completely insignificant and marginal, certain technical deficiencies. Moreover, when I find myself looking at a work by Francis Bacon, that which strikes me immediately is not the technical but the expressive element. What is the imaginative strength of the urban scenario offered by an opera written to be performed in 2011, as a rereading of Al Gore’s essay An Inconvenient Truth on the global climatic consequences of pollution for the planet? In An Inconvenient Truth the city will be present as a total entity. And thus, with its own spirit, its own sounds, images, life, its own dynamics. It will be precisely this multiform presence which will be interiorized by the theatre. Architecture and the movement of the people who live the experience of the city will also have a place on the stage at the Teatro della Scala. For one of the electronic sections of the work I have decided to experiment with cameras and acoustic sensors which will be arranged at certain points around Milan and will capture images and sounds and bring them, live, inside the theatre. These signs and signals will come into contact with certain elements of the orchestra and will thus modify the live sound - perhaps a choice dictated by my desire to transform the whole reality into music. What I want is to translate the present, ever more mysterious because it is in continuous transformation. I have to admit that when I was commissioned this project I immediately asked myself if it still made sense in the 21st century to write an opera and above all in what narrative register, epic or mythological? Or would it have be better to follow in the tracks of the postmodern novel? And the project is to be presented in 2011 on the occasion of the celebration of the 150th anniversary of the Unification of Italy. In the end I have chosen to show Italy in a global dimension, using contents which avoid the arrival at purely ideological positions or hackneyed political diatribe. In other words, if my opera was to be able to communicate say to the public of Sydney like the public of Bombay, the theme had necessarily to be universal, tragically universal even. And the relation between man and the environment seemed to me the perfect theme, from a dramaturgical viewpoint also. Al Gore’s book fascinated me from the start. And it is not the first time that I have managed to convince myself that essay writing stimulates the collective image inventory more than poetry or prose. Essay writing nowadays offers us an imaginary perimeter often wider with respect to literature, perhaps slower in the appropriation of those questions which concern topicality. Almost as if the novel had exhausted most of its imaginary force of projection. a cura di/by Fulvio Caldarelli
Pagina 48_Il sistema tonale temperato, o scala cromatica , è il risultato storico di una secolare pratica occidentale di codificazione del suono. Ciascuna ottava comprende dodici suoni, magari chiamati con nomi diversi ma non più di dodici i quali, collocati a distanza di semitono l'uno dall'altro, dividono esattamente l'ambito tonale in dodici semitoni uguali. Johann Sebastian Bach è stato uno dei primi grandi compositori ad adottare metodicamente il sistema temperato..
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Page 48_The equal-tempered tonal system, or chromatic scale, is the historical result of a centuries-long Western tradition of codification of the sound, Each octave includes twelve sounds, perhaps called by different names, but no more than twelve which, arranged into semitones, one after the other, divide the tonal area into exactly twelve equal semitones. Johann Sebastian Bach was one of the first great composers to adopt systematically the equaltempered system.
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–Supervisioni/Supervisions
Birdwatching Forme di relazione, processi di percezione e sistemi di comunicazione. Percorrere uno spazio significa incrociare una moltitudine di prescrizioni che si relazionano, si sovrappongono, si isolano o si contrastano. In un’alternanza fra memoria e oblio, fra censura e affioramento, lo scenario urbano veicola significati che, come in qualsiasi altro sistema linguistico, mutano nel tempo e nelle circostanze. E lo scenario contemporaneo è quanto mai policromo, polifonico e polimorfo. L’identità sfuggente di un luogo è soprattutto territorio di immagini mentali, di percezioni, di vissuti esperienziali. La città del passato possedeva modelli culturali e linguistici peculiari che ne decretavano la particolare identità. A questa città se ne è aggiunta un’altra, una città senza nome, che accoglie in sé tutti i moderni centri abitati nell’identico defilarsi di insegne, strutture commerciali e presenze architettoniche. Poiché i produttori di paesaggio si configurano sempre più come soggetti internazionali, l’immaginario di riferimento diventa metaterritoriale. Il paesaggio non è oggetto materiale, è organismo vitale. Nonostante l’assenza di un progetto strutturante e visionario, il paesaggio è in continua evoluzione. Si trasforma per effetto di intenzionalità politiche ed economiche, più o meno lungimiranti, come per la contingenza spontanea dell’agire dei suoi abitanti. Perché ognuno non solo vive ‘nella’ città, ma è anche vissuto ‘dalla’ città. In tempi di modernità liquida, i tratti minimi significanti dello spazio collettivo parlano ai suoi abitanti nel muto clamore dello spazio riempito. Laddove tutto è transitorio, modificabile e reversibile emergono nuove urgenze progettuali e nuovi strumenti con cui affrontarle. Birdwatching è il film documentario prodotto da blueforma design consultants: una caccia alle immagini, in posizione mimetica, delle nuove geografie dello spazio collettivo. La frammentazione dell’esperienza si ricombina e si sedimenta nell’occhio dell’osservatore, in un insieme accessibile solo alla percezione estetica. Se la comunicazione è il viaggio di una differenza che contiene il senso dell’informazione, la comunicazione urbana esaspera queste differenze, le moltiplica, le fa coesistere e confliggere. Un cortocircuito narrativo in grado di documentare le nuove geografie dello spazio collettivo, dissipando le opacità che disorientano lo sguardo contemporaneo. Visioni, architetture di senso dell’identità urbana: uno sguardo obliquo capace di raccogliere frammenti di paesaggio. E stabilire tra loro relazioni, attraverso cui sia possibile far dialogare una pluralità di significati. Le coordinate territoriali si dissolvono nel succedersi di sequenze onnivore, di close up tematici in forma di video-intervista, di fotogrammi grafici. Tra le riflessioni raccolte in questa ‘supervisione’ dello scenario urbano contemporaneo, le voci di: Enzo Mari (artista e designer), Dante Ferretti (scenografo), Giorgio Battistelli (compositore), Angela Barbanente (urbanista e assessore all’Assetto del Territorio della Regione Puglia), Renato Nicolini (architetto), Alberto Abruzzese (sociologo).
[english] Forms of relationship, processes of perception, and systems of communication. To traverse space means engaging a panoply of prescriptions that are dialectical, overlaying, isolationist or even conflictual. In the alternation between memory and oblivion, censure and surfacing, the urban scene, like any other linguistic system, harnesses meanings that change over time and according to circumstance. And the contemporary scene is nothing but multi-tinted, polyphonic, and polymorphic. The elusive identity of place is above all the territory of mental imagery, of perception, of lived experiences. The city of the past possessed separate cultural and linguistic models that decreed their particular identity. But to these cities has been added another, the nameless city, that absorbs within itself all modern inhabited centres within the same parade of signage, commercial structures and architectural presences. Since landscape is generated by ever more international entities, the range of reference has now become meta-territorial. The landscape is not a material object, it is a vital organism. Despite the absence of any overriding vision, the countryside evolves continually regardless. It is transformed by political and economic intentions, of great and small import, as well as the spontaneous contingency of its active inhabitants. An invitation to reflect on all those participants in penning the palimpsest of place. Because every person not only lives ‘in’ the city, but is also lived ‘by’ the city. In a culture of liquid modernity – where all is transitory, modifiable, reversible – new design imperatives emerge and new tools with which to confront them. Birdwatching è il film documentario prodotto da blueforma design consultants: una caccia alle immagini, in posizione mimetica, delle nuove geografie dello spazio collettivo. The fragmentation of experience is reassembled and decanted in the eye of the observer, a totality accessible only to aesthetic perception. If communication is the special voyage that makes sense of information, then urban communication exasperates these differences, multiplies them, and allows them to coexist and conflict. A narrative short-circuit capable of documenting the new geographies of collective space, and dissipating the opacities that disorient the contemporary gaze.. Visions, the architectures of sense of urban identity: to suck into a panoptical scope the fragments of landscape; to establish their mutual relations, and thereby it forge a dialectic between the plurality of meanings. The territorial coordinates dissolve into a succession of omnivorous sequences, thematic close-ups in the form of video interviews, and graphic stills. Alongside the thoughts gathered in this ‘supervision’ of the contemporary urban scenario, the voices of Enzo Mari (artist and designer), Dante Ferretti (set designer), Giorgio Battistelli (composer), Angela Barbanente (town-planner and councillor at the Assetto del Territorio della Regione Puglia), Renato Nicolini (architect), Alberto Abruzzese (sociologist).
Una produzione Blueforma design consultants / A Blueforma design consultants production
Birdwatching (2009) di / by Fulvio Caldarelli
SOGGETTO / STORY: Erminia Palmieri CON LA SUPERVISIONE / WITH SUPERVISION: Maurizio Rossi, Michele A. Tavoliere MUSICHE / MUSIC: Gregorio De Luca Comandini, Luca Spagnoletti REGIA / DIRECTOR: Fabio Iaquone, Luca Attilii In collaborazione con / In collaboration with: Short-cut Productions
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Post-city age [Alberto Abruzzese] I_Il sentimento della città che svanisce o della città che ci fa soffrire, che ci fa fuggire, che ci fa essere presenti ma, allo stesso tempo, assenti non è prerogativa del presente. Nonostante venga sempre riproposto come una nuova urgenza, il tema della fine città è un tema antico. Di fatto, la città moderna nasce sulle ceneri della città antica: il processo di metropolizzazione dell’Ottocento distrugge la vecchia città e le sue dimensioni. Tutti i media nascono proprio per compensare la fine della città tradizionale e hanno come matrice la vita metropolitana. Oggi, naturalmente, questo tema raggiunge dei livelli parossistici perché alla distruzione fisica della città - cioè allo sventramento dell’equilibrio della città rinascimentale, centralizzata, simmetrica ed esteticamente perfetta - si è aggiunta l’operatività dei media. Se la metropoli comporta lo sconfinamento al di là delle mura della città, anche la nostra stessa vita quotidiana vissuta attraverso i media rappresenta, sempre e comunque, un abbattimento delle mura della città. Stanno crollando e franando valori che sono stati prodotti dalla città storica, come il valore di cittadinanza, di solidarietà sociale... II_La grande città novecentesca è una città che ha per modello ideale la metropoli e per modello di esperienza urbana la rappresentazione della metropoli attraverso il cinema, soprattutto quello degli esordi. Esiste anche una certa corrispondenza tra la rappresentazione cinematografica della città - realizzata attraverso la sintesi temporale e spaziale di azioni quotidiane e di dinamiche e conflitti sociali, e la città stessa. Questo processo tipico della riduzione cinematografica appare però in qualche modo organico, ovvero legato alla città fisica e reale. Esiste un rapporto tra il cinema che si svolge nelle sale, edifici che occupano una zona urbana, e la realtà urbana rappresentata sugli schermi. Se all’inizio dell’Ottocento erano state sfondate le mura della vecchia città, sconfinando nella terra dei lupi, con la televisione, ad essere infranta è la parete di casa: una rottura irreversibile. Oggi tutto l’immaginario metropolitano, tutte le narrazioni della modernità narrazioni in gran parte pubbliche, spettacolari e ostentative - entrano dentro le case, nel vissuto quotidiano, nel privato. III_La messa in scena della città, ha sempre fatto ricorso a marchi, denaro e potere. Le grandi città del Rinascimento sono pervase da emblemi e stendardi del potere. Palazzi, chiese, e piazze rappresentano l’assoluta ostentazione dell’economia politica del tempo. Oggi il territorio si articola in modo diverso: la messa in scena urbana assume le forme della messa in scena televisiva, attraverso l’ostentazione delle merci del marketing. E tutti gli interventi urbani
che prima immaginavamo soprattutto di tipo fisico, oggi, sono di tipo immateriale. Un continuo ridisegnare la città in base alle fluttuazioni del mercato e all’orientamento dei consumi. Non sarei tanto critico su questo aspetto che, del resto, mi sembra far parte del destino del sistema occidentale. Piuttosto nutro seri dubbi sulla possibilità che gli schieramenti politici siano davvero in grado di contrapporre presunti valori estetici a quello che identificano come conseguenza della capacità di corruzione ad opera del mercato. Temo che dietro questo atteggiamento, dietro il design urbano, si raccolga una società di privilegiati, una società che dal politico sino al professionista raccoglie chi da un sistema di estetizzazione della vita quotidiana trae i maggiori vantaggi. Mi sembra che non ci sia un autentico pensiero della crisi. Oggi un pensiero della crisi deve guardare ben al di là della crisi della civiltà urbana, è necessario pensare su scala globale e porsi l’interrogativo drammatico tra la distanza che separa quella che è la tradizione delle nostre professioni e la sofferenza del mondo. La globalizzazione è questo. In genere pensiamo alla globalizzazione come all’estendersi del capitale e della tecnologia su scala mondiale; cerchiamo, invece, di pensare alla globalizzazione come all’estendersi della tragedia su di noi. VI_Città futura, uno slogan legato alla tradizione umanistica ripreso poi dalla tradizione comunista italiana. Io credo che non sia più tempo di utopie e la città, sicuramente, ha sempre avuto una sua natura utopica. Penso che interrogarsi sul futuro voglia dire sostanzialmente interrogarsi sul nodo cruciale della nostra epoca: la disgregazione delle identità collettive, a partire da quelle nazionali. Stiamo assistendo all’immersione dell’individuo in una situazione glocal che è allo stesso tempo globale e locale. Questo comporta delle lacerazioni fortissime tra la tradizione che ci abbandona, la città che ci frana sotto i piedi e il riemergere di alcuni bisogni come, ad esempio, il localismo. Dinamiche che talvolta volte fanno desiderare il ritorno alla vecchia città o, addirittura, al villaggio. Ma il vero tema drammatico è che in questo franare della città, c’è il franare dell’umanesimo: il pensiero che ha creato la nostra idea di città e che è alla base delle tradizionali politiche per la città. Diventa allora preminente un’interrogazione sul piano filosofico, sul versante del post-umano e cioè l’idea che l’individuo stia perdendo i caratteri della modernità per sviluppare al proprio interno, attraverso le protesi tecnologiche, sensibilità che riportano a molto prima. Per fare un esempio, la dimensione religiosa cede il passo alla dimensione del sacro.Porsi il tema del sacro oggi è credo una questione di non poco rilievo. C’è tutta una letteratura delle politiche e dei canoni
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I_Esistono ancora le città? Cos’è che le fa sembrare oggi un oggetto materiale confuso piuttosto che un organismo vitale? II_Il passaggio dai mass media tradizionali ai nuovi media digitali ha inciso in modo importante sulla forma del paesaggio urbano, sul sistema delle relazioni. Cos’è cambiato nella rappresentazione, sia mentale che oggettiva, della città? III_La città delle luci, delle parole e delle immagini. L’eterno conflitto tra segni pubblici e segni privati. Le false promesse del marketing e del commercio spesso disattendono il progetto sociale della città? VI_La città del futuro è quella che stiamo vivendo, oppure non è stata ancora disegnata? I_Do cities still exist? Why is it that today it seems such a confused material object rather than a vital organism? II_The passage from traditional mass-media to new digital media has significantly influenced the form of the urban landscape, the system of relations. What has changed in the representation, both mental and objective, of the city? III_The city of lights, words and images. The eternal conflict between public and private signs. Do the false promises of marketing and commerce often disregard the social project of the city? IV_Is the city of the future that which we are living, or has it not been designed yet?
[Renato Nicolini] I_L’immagine mentale della città ha sempre avuto un ruolo fondamentale. In passato la parola città ha evocato pensieri di libertà: durante il Fascismo, gli italiani erano confinati nel luogo dove erano nati poi, con la Liberazione, Roma e altre città sono diventate sinonimo di nuova vita. Nel dopoguerra il nostro Paese è stato attraversato dall’immigrazione interna, dal processo di inurbamento di tanti nostri connazionali del Sud verso i centri economici del Settentrione. La città allora era un luogo di speranza, di nuove opportunità. Oggi, invece, la parola città evoca una confusa immagine di pericolo, un luogo dove è temibile smarrirsi. Quando invece, per conoscere davvero una città bisogna perdere l’orientamento perché, proprio come auspicavano i surrealisti cantori della deriva umana, è bellissimo smarrirsi nella città. Il paesaggio urbano riserva sempre tante sorprese. Ricordo quando alla periferia di Roma fu scoperta una sorta di città nella città, abitata da immigrati che avevano trovato rifugio in un ex-pastificio. Come in una scena del film Dogville di Lars von Trier, al suo interno nessuna parete divisoria, a segnare il confine invisibile tra le ‘stanze’ private soltanto dei materassi. Forse la città ideale è quella dove si può scegliere di starsene da soli senza correre alcun pericolo, come si può scegliere di stare in compagnia senza diventare un elemento del branco. II_I mass media hanno avuto grande importanza nel definire la cultura della città. Molti conoscono ragazzi delle generazioni passate hanno conosciuto New York attraverso i fumetti di Spider man, e il cinema, la televisione ci hanno fatto conoscere le grandi città di tutto il mondo. Tanto che, adesso, le città vogliono somigliare alla propria immagine a fumetti o alla propria immagine fictional, e questo ha dei risvolti perversi. Tuttavia ho l’impressione che la breve epoca della spettacolarizzazione del paesaggio urbano, inaugurata dal Guggenheim Museum di Bilbao di Frank Gehry si stia già chiudendo: i grattaceli inclinati dell’Expo di Milano non hanno prodotto lo stesso effetto che avrebbero riscosso un tempo. Non credo che la possibilità di progettare con l’ausilio di software e rendering digitali cambi la sostanza dell’architettura: quando, alla fine del 2010, la Nuvola del nuovo centro congressi di Roma si ancorerà a terra, tozza e pesante, si capirà quanto è lontana l’evidenza architettonica dall’immagine eterea e senza peso disegnata da Fuksas. Fine di un’epoca. Invece, diventa sempre più attuale la prospettiva aperta nel passato recente da opere come il Centre Pompidou a firma di Piano e Rogers: un’architettura che non ha vergogna di mostrare i propri elementi di servizio, le proprie componenti funzionali.
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III_La meraviglia della sorpresa: questo è l’essenza della città. Progettare lo spazio urbano come luogo di prescrizione non ha senso, la città rischia di diventare come una farfalla infilzata da uno spillo: bella, ma priva di vita. La barbarie non risiede nelle periferie, ma piuttosto nei centri storici ormai privi di botteghe artigiane e di piccoli negozi, monopolizzati dai punti vendita monomarca delle griffe internazionali. La città sta perdendo sempre più i propri spazi di servizio, quando bisognerebbe invece pensare a un’equivalente contemporaneo di luoghi pubblici storici come le piazze. La piazza deve essere rivalutata in termini non conformistici: deve essere il luogo dell’incontro, della relazione, dello spettacolo e, perché no, dell’imprevisto. Contrariamente a quanto si possa pensare, in megalopoli come Tokyo l’affermazione della dimensione metropolitana non ha ridotto il cittadino a una figura indistinta nella folla: il Giappone è un paese dove gli stivali sono fatti a macchina, ma le pantofole sono fatte ancora dagli artigiani. Nonostante i teatri si trovino al ventesimo piano dei grattacieli, i quartieri sono costellati da tantissime piccole botteghe, da sushi bar che ospitano al massimo una decina di persone. Nel Vecchio Continente come nelle capitali africane invece, la tendenza è quella di replicare il modello dei villaggi Potëmkin: edulcorate scenografie urbane di cartapesta animate da cittadini-comparse che fingono di vivere nel migliore mondo possibile. Si nasconde la polvere sotto il tappeto. Si progettano solo luoghi di rappresentanza, da parata. E il resto è come se non esistesse. VI_Nella nostra percezione del presente sembra che il futuro non esista. Credo che per leggere il futuro della città si debba, ancora una volta, fare riferimento alla fenomenologia degli spazi pubblici. Perché la città, di fatto, nasce in funzione di bisogni pubblici: le grandi piazze ottocentesche sono concepite come luoghi dimensionati a una cittadinanza sempre più numerosa. Oggi la socialità ha espressioni completamente diverse: passiamo molto tempo davanti agli schermi e, probabilmente, in un futuro prossimo le nostre abitazioni coincideranno ancora di più con la nostra sede di lavoro e di svago. Proprio in previsione di questo è urgente lavorare agli spazi pubblici, perché se non creiamo le piazze del nuovo millennio le occasioni di socialità saranno ben poche. Le esperienze più recenti di autoritarismo forsennato di certi regimi - penso all’America di Bush e penso anche all’Italia dei nostri giorni – dovrebbero insegnarci che il contatto diretto con gli altri, il ritrovarsi in spazi condivisi, è davvero fondamentale per una democrazia sempre più a rischio. La città contemporanea non è più teatro di conflitto, e questo mi preoccupa.
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professionali costruita sul conflitto tra la povertà dei consumi e la ricchezza dei valori originali della modernità, del progresso, della solidarietà. Credo che questa sia una dialettica molto povera, molto fragile ormai. Si tratta invece di tentare di trovare un terreno da cui ripartire, magari ridefinendo anche alcune professionalità, per pensare a soluzioni sul piano urbanistico che possano rendere più vivibile una città. Sono convinto che non si può fare riferimento ai vecchi valori del progressismo e, quindi, a tutta la paccottiglia ideologicopolitica o anche professionale che stiamo attraversando. Forse può tornare utile proprio il rifiuto delle vecchie corazze identitarie, per cogliere meglio cosa si nasconde davvero dietro la vita quotidiana. Un approccio più profondamente legato al tema dell’abitare, termine che preferisco rispetto a città o metropoli. Perché il termine abitare illustra immediatamente quel senso del luogo che ciascuno di noi possiede e che è non rappresentato semplicemente dal luogo fisico, ma dalle relazioni che determinano quel luogo. [english] I_The sensation of the city disappearing, the city which wounds us, makes us want to escape, makes us feel present but at the same time absent, is not a prerogative of the present. Though it is always being proposed as a new urgency the idea of the end of the city goes way back. Actually, the modern city was born on the cinders of the ancient city. The process of metropolization of the 19th century destroys the old city and its dimensions. All media are born just to compensate for the end of the traditional city and their origins are metropolitan life. Nowadays, obviously, this theme has reached feverish levels because in addition to the physical destruction of the city – i.e., the gutting of the equilibrium of the Renaissance city, centralized, symmetric and aesthetically perfect – there is the operativeness of the media. If the metropolis means the outflowing beyond the walls of the city, our daily life itself too through the media is, always and in any case, a demolition of the walls of the city. Values which were produced by the historical city are collapsing and crumbling: the value of citizenship, social solidarity… II_The great 20th century city is one which models itself ideally on the metropolis and for a model of urban experience on the representation of the metropolis in cinema, above all cinema at its origins. There is also a certain correspondence between cinematographic representation of the city – realized through the temporal and spatial synthesis of daily actions and social dynamics and conflicts and the city itself.. However, this typical process of cinematographic reduction appears in some way organic, or linked to the physical and real city. There is a rapport between the cinema in movie houses, buildings which occupy an urban area and urban reality represented on the screen. While, at the beginning of the 19th century the walls of the old city had been broken down, flowing out into the land of the wolves, with television, what is shattered are the walls of the home, an irreversible rupture. Nowadays, the whole metropolitan image inventory, all the narrations of modernity – narrations which are mostly public, spectacular and ostentatious – enter homes, daily living, the private. III_The mise-en-scène of the city has always appealed to brands, money and power. The great cities of the Renaissance were pervaded with emblems and banners of power. Palaces, churches and piazza constitute the absolute ostentation of political economy of the time. Nowadays the territory is shaped differently: the urban mise-en scène takes on the forms of the television mis-en-scène through ostentation of marketed goods. And all the urban interventions which before we imagined above all of a physical type, today are of an immaterial type. A continuous redesigning of the city
based on the fluctuations of the market and the orientation of consumption. I wouldn’t be so critical about this aspect which, moreover, seems to be part of the destiny of the western system. However, I have serious doubts about the possibility that political movements are in fact able to pit presumed aesthetic values against that which they identifiy as a consequence of the market’s capacity to corrupt. I fear that behind this attitude, behind the urban design, a society of privilege is gathered, a society which, from politicians down to professionals, brings together those who, from a system of aestheticization of daily life, gets the biggest advantages. It seems to me that there is no authentic thought concerning the crisis. Today, a thought about the crisis has to look well beyond the crisis of urban civilisation, we need to think on a global scale and ask ourselves the dramatic question about the distance separating that which is the tradition of our professions and the suffering of the world. This is what globalization is. In general, we think about globalization as an extension of capital and technology on a world scale; we seek, rather, to think about globalization as if extending tragedy to us. IV_Future city, a slogan associated with a humanistic tradition, taken up later by an Italian communist tradition. I think that it is no longer a time for Utopias and the city, certainly, has always had a Utopian nature of its own. I think that asking oneself about the future means basically asking oneself about the crucial dilemma our era has to face up to. Disgregation of collective identity, starting with the national ones. We are witnessing the immersion of the individual into a glocal situation which is at the same time global and local. This means extreme laceration between the tradition which abandons us, the city which crumbles under our feet and the re-emergence of certain needs like, for example, localism. Dynamics which sometimes make us wish we could return to the old city or even the village. But the real dramatic theme is that in this crumbling of the city there is the crumbling of humanism: the thought which created our idea of city and which is the basis of traditional policies for the city. What becomes pre-eminent is a question concerning the philosophical plane, the post-human aspect, i.e., the idea that the individual is losing the characteristics of modernity to develop within himself, by means of a technological prosthesis, sensitivities which go back to long before. To take an example, a religious dimension gives way to a sacred dimension. Considering the theme of the sacred nowadays is, I believe, a question of some importance, There is a whole literature of the professional policies and canons constructed on the conflict between the poverty of consumption and the wealth of the original values of modernity, progress, solidarity. I think this is very poor as a dialectics, very fragile by now. But here we are trying to find common ground which can depart from, perhaps redefining certain professionalities too, so as to think of solutions on a townplanning level which might make a city more visible. I am convinced that we cannot refer to the old values of progressivism and thus all the ideological-political or even professional junk we are undergoing. Perhaps we might find it useful to refuse even the old identity-creating armour so as to get a better grasp on what is really hidden behind daily life. An approach which is linked, more in-depth to the theme of dwelling, a term I prefer with respect to a city or a metropolis. Because the term dwelling illustrates immediately that sense of place which each of us possesses and which is not represented simply by the physical place, but by the relations which determine that place.
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Abbiamo sbagliato molte cose. Non abbiamo avuto nessun rispetto della particolare natura urbanistica delle città italiane: da grande giardino d’Europa sono diventate dei grandi parcheggi in movimento. Fino a non molto tempo fa, uscendo dalle mura cittadine, i quartieri perdevano lentamente densità fino a lasciare spazio all’aperta campagna. Adesso quasi non ci accorgiamo se stiamo entrando, o uscendo, da un centro urbano; è diventato addirittura difficile intuire a quale amministrazione urbana appartengono certi ‘quartierisatellite’. Molti definiscono questa realtà ‘paesaggio metropolitano’. Ma queste presunte metropoli non hanno niente a che vedere con le visioni futuriste di Antonio Sant’Elia. [english]I_The mental image of the city has always had a fundamental role. In the past, the word city evoked thoughts of liberty. During Fascism, Italians were confined to the place where they were born, with the Liberation, Rome and other cities became synonomous with new life. After the war, Italy underwent internal migration, the movement into towns of many of our fellow countrymen from the south towards the economic centres of the north. The city at the time was a place of hope. New opportunities. Today, on the other hand, the word city evokes a confused image of danger, a terrible place to get lost in. However, to really get to know a city, you have to lose yourself in it because, just as the surrealists – those bards of human drift –hoped, getting lost is a wonderful experience in a city. The urban landscape always has so many surprises. I remember the time when, in the suburbs in Rome, a sort of city within the city was discovered, inhabited by immigrants who had found refuge in an ex-pasta factory. Like a scene in the film Dogville by Lars von Trier, inside there were no dividing walls, to signal invisible borders between private ‘rooms’, just mattresses. Perhaps the ideal city is that in which one can choose to be on one’s own without running any risk, as when you choose to be in company without becoming a member of the gang. II_The mass-media have had a great influence in defining the culture of the city. Many young people of past generations got to know New York thanks to the Spiderman comics and the cinema and television have allowed us to get to know large cities all over the world. So much so that, now, cities want to resemble their own image in comics or their own fictional image and this has had perverse implications. However, I have the impression that the brief era of spectaculrization of the urban landscape, inaugurated by Frank Gehry’s Guggenheim Museum in Bilbao is already coming to an end. The inclined skyscrapers of the Expo in Milan have not had the same effect they once would have had. I don’t think that the possibility of projecting with the help of digital software and rendering, changes the substance of the architecture. When, at the end of 2010 the Nuvola of the new congress centre in Rome will be anchored to the ground, squat and heavy, we will know how far off architectural evidence of the ethereal weightless image (designed by Fuksas) is. The end of an era. However, what is becoming ever more concrete is the perspective opened up in the recent past by works like the Centre Pompidou by Piano and Rogers, an architecture which is not ashamed to show off its own service elements, its own functional components.
monopolized by monobrand outlets of international designer labels. The city is losing more and more its own service spaces, when it should actually be thinking of a contemporary equivalent of historical public places like piazzas. The piazza has to be revalued in non-conformist terms, it has to be the place for encounter, relation, spectacle and, why not, the unexpected. As opposed to what one might think in megalopoli like Tokyo the statement of the metropolitan dimension has not reduced the city-dweller to an indistinct figure in the crowd. Japan is a country where boots are made by machines, but slippers are still made by artisans. Despite the fact that theatres are to be found on the twentieth floor of skyscrapers, areas of the city are studded with lots of small workshops, sushi bars for a maximum of ten or so people. In the old continent as in African capitals, on the other hand, the tendency is to replicate the Potëmkin villages model – sweetened urban sets of papier maché animated by city-dweller cinema extras who pretend they are living in the best of worlds. Dust is swept under the carpet. What is projected are places of mere representation, parades. And the rest seems not to exist. IV_In our perception of the present it seems that the future does not exist. I think that to read the future of the city we must, once more, refer to the phenomenology of public spaces. Because the city in actual fact is born to deal with public needs. The large 19th century piazzas were conceived as places whose size was meant for an ever larger number of city-dwellers. Today sociality has completely different expressions, we pass a lot of time in front of screens and, probably, in the near future our homes will coincide even more with our work and leisure place. In foreseeing this it is urgent we work on public spaces, because if we don’t create the piazzas of the new millennium the occasions for sociality will be very few indeed. The most recent experiences of frenzied authoritarianism of certain regimes – think of Bush’s America and the Italy of our times – should teach us that direct contact with others, finding ourselves once more in shared places, is really important for a democracy which continues to be in danger. The contemporary city is no longer a theatre of conflict, and this worries me. We have made many mistakes. We have had no respect at all for the particular urbanistc nature of Italian cities, from the great garden of Europe they have become great carparks in movement. Up to a short time ago going out of the city walls, areas became less and less dense, slowly, until open countryside appeared. Now, we almost do not notice if we are entering or leaving an urban centre. It has even become difficult to imagine to which urban administration certain ‘satellite suburbs’ belong. Many define this reality as ‘metropolitan landscape’. But these presumed metropoli have nothing in common with the futurist visions of Antonio Sant’Elia.
III_The wonder of surprise, this is the essence of the city. Projecting the urban space as a place of prescription does not make sense, the city risks becoming like a butterfly transfixed on a pin, beautiful but without life. Barbarism is not to be found in the suburbs but rather in historical centres which are now devoid of artisans’ workshops and small shops,
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Tratto di carreggiata Stretch of lane Il percorso mutevole, ma sempre fecondo, del design del Novecento (dalle avanguardie storiche alle ultime alleanze con l’industria) ha fatto raggiungere significativi traguardi culturali e sociali anche sul piano dei metodi e delle pratiche che taluni autori attuavano e trasmettevano nei loro contesti sociali e progettuali. A volte si è trattato di un vero e proprio patrimonio spirituale, come nel caso di Coco Chanel, dove a mediare il rapporto tra immaginazione e rappresentazione dell’idea vi erano sorprendenti racconti grafici. Una comunicazione visiva fatta di sketch e prototipi, ‘anteprime’ dei prodotti accessori e sartoriali. Oggi cosa è cambiato? È cambiato molto l’approccio e per varie ragioni. Intanto perché sono venute alla luce delle forme di progettazione elettronica, e dico elettronica per comprendere un po’ tutto quello che prima non esisteva. Ad esempio, il telefono con la ghiera dei numeri da girare con l'indice si è trasformato in quel diabolico strumento sul quale si può leggere l’ultimo articolo apparso sul giornale come le ultime notizie trasmesse dalla televisione. Ecco quindi la grande trasformazione. Ma non solo, c’è stata anche un grande cambiamento nel rapporto tra gli individui: in passato eravamo noi a decidere se comunicare e quando farlo, oggi, le persone camminano per la strada comunicando e ricevendo comunicazioni. Questo furto della comunicazione è una novità assoluta degli ultimi dieci anni. E poi, anche la comunicazione grafica è diventata virtuale. Una volta c’era il manifesto, una grafica direttamente ammannita o creata, mentre oggi, anche in questo campo, si registra l’invasione della virtualità: una rivoluzione di grande portata, probabilmente paragonabile a quella di Gutemberg.
Intervista a/interview with Gillo Dorfles
Ma oggi la loro presenza è più frequente di quanto non fosse una volta. Molte delle nozioni del tutto generali di cui è fornito l’uomo sono state raccolte in forma subliminale. Un esempio su tanti: i giornali free-press, gratuiti, che ormai vengono distribuiti in tutte le grandi città. Di solito non contengono quasi niente, si tratta per lo più di poche pagine ‘vuote’ di contenuti, salvo che di pubblicità. Tuttavia in queste pagine vuote sopravvivono dei frammenti di notizia che vengono assorbiti da chi legge il giornaletto per poi buttarlo via dopo pochi minuti. Così, pur nella generalizzata carenza di una vera attività di lettura da parte del pubblico, si è prodotta un’induzione alla lettura molto più importante di quanto non si possa pensare. È una pratica che possiamo collegare alle sue profetiche riflessioni circa la lettura delle pause, del pieno e del vuoto, raccolte nel libro L’intervallo perduto... Sì, credo sia stato un lavoro che ha prodotto un buon risultato. Tra poco uscirà un altro mio libro dal titolo Horror pleni. L’(in)civiltà del rumore. La civiltà attuale è una civiltà distrutta e, nello stesso tempo, creata dal rumore(ovvero dall’opposto della comunicazione). Secondo la teoria dell’informazione, il rumore è esattamente l’opposto dell’informazione. E, purtroppo, viviamo in una civiltà dove c’è una prevalenza del rumore. Su questo la comunicazione può svolgere una funzione pedagogica. Senz’altro. E in misura maggiore se la comunicazione è sviluppata bene e in maniera specialistica.
Questa trasformazione aiuta a far crescere l’immaginazione? Direi che aiuta a far crescere l’informazione, ma non credo aiuti a sviluppare l’immaginazione perché il fatto di non avere la possibilità di fabbricare immagini autoctone, autoprodotte, priva di quello sforzo immaginifico che, un tempo, era necessario per creare qualsiasi forma sia artistica che comunicativa. Bisogna perciò fare attenzione a obliterare le proprie capacità immaginative affidandosi esclusivamente alle tecnologie, ai cosiddetti new media. E certamente, siamo in un’altra era anche per quel che riguarda la moda. La maledetta globalizzazione, che è un altro degli epifenomeni di quanto è avvenuto negli ultimi quarant’anni, se da un lato ha ampliato immensamente le possibilità di conoscenza, dall’altro ha prodotto la riduzione, se non l’abolizione, delle caratteristiche individuali e settoriali. Ad esempio, il fatto che oggi in Europa si sia costantemente al corrente dell’enorme trasformazione cinese, immediatamente, fa venir meno tutti quei sobbalzi di stupore e quell’effetto sorpresa che fino a pochi anni fa, simili novità, avrebbero suscitato. Questo di fatto agisce sulla percezione da parte della gente, dell’individuo…la cosiddetta ‘visione intelligente’ a cui fa riferimento Arnheim. Ho l’impressione che questa venga guidata maldestramente dai new media, che venga manipolata... Senz’altro si tratta di uno di quei fenomeni con risvolti positivi quanto, allo stesso tempo, negativi. In compenso c’è stata una maggior diffusione su tutti i livelli di quella che possiamo chiamare ‘modernità’ mentre una volta la settorializzazione del sociale impediva certe forme comunicative. Quindi direi che, sotto questo punto di vista, vi è stato un progresso: oggi non c’è più lo stupore per le manifestazioni visive sia pubblicitarie che artistiche; perché il pubblico, anche a sua completa insaputa, viene informato in maniera subliminale su molte cose e quindi finisce per esserne a conoscenza. Un aspetto importante, da non trascurare: i messaggi subliminali sono sempre esistiti nella comunicazione pubblicitaria.
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Questa mattina passeggiando per le strade di Milano, nelle vicinanze del Duomo ho notato come alcuni cartelli pubblicitari e una sequenza di altre comunicazioni (Pirelli) si lasciassero percepire con maggiore interesse. Un raro esempio di equilibrio tra segni privati e segni pubblici: tra architetture, arredi urbani, strade, camminamenti e immagini fotografiche, parole, forme che le contengono. La si potrebbe definire una composizione fatta di pause di suoni e di immagini, dove si ha la possibilità di leggere fino ai titoli di coda, senza che nessuno ti interrompa... In tal senso vi sono delle importanti realizzazioni architettoniche, nuove e di estremo interesse, dove però quasi sempre manca la coordinazione necessaria a renderle fruibili e integrate con il territorio: non ci sono più l’armonia, il disegno, la progettazione che c’erano una volta. Tutto diventa più caotico. Circa le nuove tecnologie, si è forse superata l’immagine del computer o dei sistemi avanzati di rappresentazione quali protesi strumentali. Oggi attribuiamo ad essi un’importanza risolutrice confrontandoli con le vecchie pratiche di progetto, con le realizzazioni pittoriche e generalmente manuali... Lo stesso strumento del computer non ha bisogno dell’abbellimento di cui avevano bisogno le precedenti forme di comunicazione, esso è già ridondante di immagini. L’immaginazione può intendersi come esperienza, legarsi con l’intuizione o con l’ingenuità: possiamo considerarla una componente insita nei progetti di livello? Credo che l’immaginazione sia sottoposta al tipo di stimoli che, in un certo senso, ognuno di noi è indotto ad avere. Mi sembra logico che Giotto disegnasse una ‘O’ e non certamente un carroarmato o un velivolo stratosferico, come neanche lo schema grafico del Dna genetico. Quindi, da questo punto di vista, anche la mancanza di sollecitazioni può determinare la povertà dell’immagine. Oggi con la sovrabbondanza di stimolazioni, alle volte, l’immagine viene soffocata anziché
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–Sentenze/Sentences TRATTO DI CARREGGIATA STRETCH OF LANE stimolata. Perché c’è gia troppo apporto. Quindi essere sollecitati visivamente, ma anche acusticamente o tattilmente, da troppe sollecitazioni, ottunde l’immaginazione. Prendiamo il caso del video gioco, un fenomeno da noi sviluppato ma non certamente quanto in Giappone, dove mi pare abbia ottuso la straordinaria capacità immaginativa della popolazione. Immaginare è anche prefigurare, costruire scene in cui entrare: mi riferisco al consumatore che fruisce passivamente, che metabolizza le rappresentazioni. Se pensiamo alla qualità di un oggetto, o anche ad un progetto editoriale, possiamo vedere tutto come il frutto di una negoziazione tra chi lo immagina e chi lo pensa in modo altrettanto vivo... Questo vale anche per l’arte vera e propria. Oggi se guardiamo una mostra ci accorgiamo che il prodotto è basato sulla novità della presentazione più che sulla novità dell’ideazione del prodotto stesso. Un esempio potrebbe essere quello di un video che usa la pornografia: non in senso sessuale ma nel senso di un’immagine, per così dire, stuprata. Mentre una volta si ricercavano forme espressive attraverso il colore, il disegno… nel Museo di Berna troviamo una famosa massima di Klee: “Nessun giorno senza una linea”. Mi sembra un'affermazione paradigmatica… L’artista che ogni giorno crea un’immagine, un ideogramma, che inventa comunque qualcosa.
[english]The changing but always fecund itinerary of the design of the 1900s (ranging from the avant-gardes to the latest alliances with industry) has achieved significant cultural and social objectives also in terms of methods and practices which certain authors carried out and transmitted in their social and project contexts. At times it was nothing less than a spiritual patrimony, as in the case of Coco Chanel, where, mediating the rapport between imagination and representation of the idea there were surprising graphic accounts. A visual communication made up of sketches and prototypes, "previews" of accessory and sartorial products. Today, what has changed? The approach has changed a lot and for a number of reasons. First because forms of electronic projecting have emerged and when I say electronic I include a bit of everything. Before , they did not exist, then that which was the telephone with numbers to dial transformed itself Into that diabolical instrument on which we can read the latest article which has appeared in the newspaper or the latest news broadcast by the television. Here, therefore we have the great transformation, but not only, there is the transformation in inter-individual relations due, once more , to electronic means, or the person who goes into the road who communicates or is communicated to, whereas he was the person who decided to communicate or not. So I would say that this theft of communication is an absolute novelty of the last ten years. Then we have graphic communication which has become virtual, or once there was a poster, graphics prepared or created directly, whereas today also we see the invasion of the virtuality of the image and I'd say therefore that there has been a singular transformation, perhaps like that of Gutenberg. Does this transformation help imagination to grow?
Credo che sia andato perduto quel senso di configurazione, nel senso di una progettazione che sia corrispondente ad una utilità… Questo è vero. Oggi nessun artista potrebbe dire “nessun giorno senza una linea”, perché Catellan oggi fa i fantocci appesi, che sono una trovata; dopo un mese fa il Papa colpito da un meteorite che è anch'essa una trovata intelligente. Ma non c’è continuità. Non c’è più l’esercizio della linea. Rispetto al concetto della ‘linea’ mi sembra che ci si possa spostare su altri piani disciplinari … Negli ultimi anni ho fatto parte di molte giurie in Italia, Spagna, ecc. A Trieste c’è stata un concorso di design che riguardava Paesi dell’Est come Bulgaria, Romania, Polonia e Croazia. Ho rilevato scarsissima inventiva. Direi che le proposte sono state deludenti rispetto agli anni passati. Li posso definire progetti elementari. Dunque parlerei di una sorta di ottundimento. Per concludere, io penso sia individuabile una sosta o, forse, si può parlare di una vera battuta d’arresto se pensiamo a ciò che è stato prodotto ormai un secolo fa… Credo di sì. In questi ultimi due o tre anni non c’è stato un progresso, ma piuttosto un’involuzione. Soltanto negli ultimi due o tre anni?
I'd say that it helps information to grow and I don't believe it helps to develop the imagination because the fact of not having the chance to produce autocthonous images removes that effort of imagination which once was necessary to create any form, either artistic or communicative. So we have to be careful not to obliterate our own imaginative abilities entrusting ourselves exclusively to technology, the so-called newmedia. Obviously, we are In another era also concerning fashion. The damned globalisation which is another of those epiphenomena that has taken place in the last forty years is another problem where there is an enormous improvement in consciousness but with a reduction or diminution if not abolition of individual and sectorial characteristics. For example, the fact that in Europe today we are aware of the enormous Chinese transformation immediately removes those characteristics of novelty or amazement which once , still only a few years ago, existed. This acts actually in the perception people have, the individual…the so-called "intelligent vision" Arnheim refers to. My impression is that this is guided, clumsily by the so-called newmedia, that it is manipulated... It seems to me it is without doubt one of the positive-negative phenomena. On the other hand, there has been a greater diffusion of that which we might call modernity at every level whereas once sociological sectoriality impeded certain communicative forms. So from this angle I would say there has been some progress, nowadays there Is no longer the amazement for visual manifestations, both In advertising, and artistic, because the public in their complete ignorance too, is Informed subliminally about many things and thus ends up being aware of them.
Sì. Parlerei di due o tre anni. Quindi possiamo parlare di una vera e propria involuzione: non si percepisce più quella genialità, quella lungimiranza progettuale che mi fa pensare a Munari… Per quanto riguarda il design industriale, la grande vampata dovuta all’incontro con l’industria non poteva durare a lungo. Dopo tante tappe importanti c’è stato un rallentamento. Rispetto ad anni fa, oggi, assistiamo ad una sorta di mattanza delle nuove forme espressive. Se è vero che l’arte, dal Futurismo alla II Guerra Mondiale, ha prestato molto al design in termini di soggetti, possiamo dire che al contrario oggi si tende a ‘separare’ in qualche modo… Certo. Non esiste più un cammino congiunto. Piuttosto è vero che ci sono stati fenomeni parzialmente negativi come Alchimia, Memphis. Come anche il tentativo di far intervenire dei pittori a fare il progetto di un mobile: è stato disastroso.
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This thing I've said just by chance is not to be treated lightly. I'm referring to subliminal messages which have always existed in advertising communication. But nowadays it is more frequent than it was once. Many of the things which are wholly general which man is supplied with come to him in a subliminal form. One example is enough, that of free-press newspapers, which are now distributed in all large cities. Usually they contain practically nothing, four or eight "empty" pages except for the advertising they contain, but in these empty pages news fragments exist which are absorbed by those who read the thing and who throw them away after a few minutes. Thus, in the overall lack of reading on the part of the public there has been a non-obligation to read which is much more Important than is generally believed. It is a practice we might link to the prophetic reflections about reading of pauses, the full and the empty, brought together in the book "L'intervallo perduto". Yes, I think it was work which produced good results. So, I might mention that soon another book of mine will be coming out Horror pleni. L’(in)civiltà del rumore.
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–Sentenze/Sentences TRATTO DI CARREGGIATA STRETCH OF LANE Toady's civilisation is a civilisation destroyed and at the same time created by noise, i.e., by the opposite of communication. Noise considered also according to the theory of Information, i.e., the opposite of information. We live In a civilisation where there Is a prevalence of noise.
we sought expressive forms through the colour, the design…in the Museum of Berne we find a famous maxim of Klee: "No day without a line". It sounds paradigmatic… The artist who, every day, creates an image, an ideogram, who, in any case, invents something.
Communication might carry out a pedagogical function here. It is much more important if communication is developed well and in a specialist fashion. This morning, walking through the streets of Milan, in the neighbourhood of the Duomo I noticed how certain advertising signs and a sequence of other communications (Pirelli) left themselves to be perceived with greater interest. One episode, not at all frequent but with a certain equilibrium between private signs and public signs: architecture, urban furniture, streets and itineraries but also photographic images, words, forms which contain them. One might define it a composition made up of sound pauses and images where you have the chance to read as far as the credits, without anyone interrupting you.
I think that we have lost a sense of configuration, in the sense of a projecting which corresponds to a utility… You're right…nowadays no artist can say "no day without a line", because Catellan today does his hanging dummies, which are a find after a month he does the pope strucked by a meterorite which is an intelligent gimmick, but there is no continuity. There is no longer the exercise of the line. Concerning the concept of the "line" it seems to me that you can shift on to other disciplinary planes…
In such a way there are important architectural realisations, new and of great interest too, where however, almost always the coordination which would make it usable and integrated into the territory is missing, there is no longer harmony, design, the projecting there was once, so everything becomes more chaotic.
In recent years I have participated on juries in Italy, Spain…in Trieste there was a competition which concerned the countries of the east, Bulgaria, Romania, Poland, Croatia. I noticed very little creativity. I'd say that the ideas were disappointing compared to past years. I might define them elementary projects. Therefore, I would speak of a sort of dulling.
Concerning new technologies, we have perhaps gone beyond the image of the computer or advanced systems of representation as instrumental prostheses. Today we attribute to them a resolutive importance comparing them to the old practices of project, with pictorial and generally manual realisations…
To conclude, I think we might single out a pause…but perhaps we might speak of nothing less than a setback if we consider that which was produced a century or so ago..
The instrument itself, the computer, does not need the beautifying which previous forms of communication necessitated, it is already full of images.
I think so. In the last two or three years there has been no progress, rather an involution… You think just the last two or three years?
The imagination - can it be understood as experience, link up with intuition or naïvety, can we consider it an innate component in important projects? I think the imagination undergoes the type of stimuli one has to have. It seems logical for Giotto to draw an "O" and obviously not a tank or a stratospheric aeroplane or the graphic sheme of genetic DNA. Thus, In a certain sense, the lack of solicitation too can create the poverty of the image, today, with the superabundance of stimulations at times the image Is suffocated rather than being stimulated because there is already too much there, so to be solicited visually but also acoustically or in a tactile fashion by too many solicitations in a sense dulls the Imagination. Just think of videogames, developd by us but not like in Japan, for example, where I understand It has dulled the extraordinary imaginative capacity of the people. Imagining is also prefiguring, constructing scenes in which to enter…I am referring to the consumer who uses passively …who metabolizes representations. If we consider the quality of objects or even an editorial project we can see everything as the fruit of a negotiation between those who Imagine it and those who think it in an equally lively fashion. This also goes for art in a strict sense. Nowadays if we see an exhibition we notice that the product is based on the novelty of the presentation more than on the novelty of the creation of the product itself. One example might be that of a video which uses pornography: not in a sexual sense but in the sense of an image that has been raped so to speak…whereas once
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Yes, I'd say two or three years. So, we might speak of nothing less than an involution…we no longer perceive that genius, that long-sightedness in projects which makes me think of Munari… As far as industrial design is concerned the great burst due to the encounter with industry couldn't last long. After so many important steps there has been a slowdown…compared to years ago today we are witnessing a sort of slaughter of new expressive forms. If it is true that Art from Futurism to the 2nd World War has given much to design in terms of subjects, we can say today that we tend to "separate" in some way… Yes, certainly. There no longer exists a single itinerary. Rather, it is certain that there have been partially negative phenomena like "Alchimia", "Memphis"…like that attempt at getting painters to come up with a project for furniture. But it was a disaster. a cura di/by Fulvio Caldarelli
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La casualità delle forme e la necissità dell’ immaginazione. Esiste una variabile assai elementare che interviene continuamente nella nostra percezione del mondo. L’estensione fisica degli oggetti. The randomness of formsand the necessity of the imagination. There exists a rather elementary variable which intervenes constantly in our perception of the world. The physical extension of objects.
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–Visioni/Visions
Della grandezza dei sogni On the greatness of dreams Esiste una variabile assai elementare che interviene continuamente nella nostra percezione del mondo: l’estensione fisica degli oggetti. Se chiamiamo questa variabile, più familiarmente, con la parola ‘grandezza’ non rischiamo troppo. Ma è già abbastanza curioso che la parola italiana scelta, ma questo accade anche in altre lingue, sia ‘grandezza’ e non ‘piccolezza’. L’abitudine a vivere ci insegna immediatamente che alcune cose che appaiono grandi in un contesto, sembrano insignificanti in un altro. E, reciprocamente. Ma non sempre simmetricamente. E questo, anche se le nostre dimensioni corporee non sono mutate tra la prima e la seconda esperienza percettiva con lo stesso oggetto in due diversi contesti. Una serie di condizioni ambientali interviene immediatamente a complicare la questione. Variabili come la distanza, la limitata visibilità, il movimento reciproco, il contrasto luminoso con lo sfondo, il contesto spaziale, la presenza o assenza di un orizzonte riconoscibile come tale, tutto interferisce con il giudizio, che si sarebbe voluto semplice e ‘puro’. Se, quindi, si tiene conto, e come non si potrebbe?, del resto del mondo le due categorie appaiono confuse e situate in una allarmante continuità o, addirittura, non separabili tra di loro. In questa fase molto preliminare è opportuno introdurre un secondo livello linguistico senza stabilire il quale finiremmo per creare altri ‘paradossi di Zenone’ che intralcerebbero (faciliterebbero?) il nostro cammino. Questo secondo livello ha a che fare con la differenza tra le cose e le loro rappresentazioni. Cioè tra la caraffa di cristallo sul mio tavolo e una sua ‘rappresentazione’. Per esempio una fotografia, un dipinto, una incisione, una simulazione in Auto-Cad, un fotogramma, un tumb nail in JPG, che ‘rappresenta’ la caraffa di cristallo. Tutte queste rappresentazioni avranno una caratteristica comune; guardandole, vi riconosceremmo la caraffa. Tito Lucrezio Caro sarebbe soddisfatto di questo. Più di duemila anni dopo utilizziamo un concetto che è alla base del suo De Rerum Natura: l’idea di ‘eidola’. Un ‘eidolon’ è una sorta di copia di un oggetto, copia conforme all’originale che, forse, ne condivide le dimensioni. La natura, la forma, la consistenza, i movimenti di questi ‘eidola’ suggeriscono in modo irresistibile alcune caratteristiche strutturali di ciò che, adesso, noi chiamiamo ‘immagini’. Proviamo, ancora una volta, a semplificare il glossario: ‘figure’ saranno le rappresentazioni fisiche di un oggetto, ‘immagini’ le rappresentazioni mentali di un oggetto. È evidente che questo nostro ‘figure’ è analogo all’inglese ‘pictures’, mentre ‘immagini’ è abbastanza vicino alla parola ‘images’. Per continuare l’esempio: un dipinto ad olio su tela o una fotografia, ma anche un file d’immagini che genera la caraffa su di uno schermo, sarà una ‘figura’, una ‘picture’ di quell’oggetto specifico. Quello che ‘vedo’ se chiudo gli occhi e immagino la caraffa è una ‘immagine’. Torniamo alle dimensioni fisiche degli oggetti. La caraffa è misurabile con un regolo. Per esempio, le affianco un regolo metallico centimetrato poggiato con una estremità sullo stesso tavolo su cui poggia la caraffa e lo tento verticale e immobile. Quindi, io collego la bocca della caraffa con il regolo metallico mediante un elemento rigido orizzontale, come una squadra scorrevole, e sulla scala incisa sul regolo leggo 26 centimetri. Se, intendo misurare anche il tappo, anche esso in cristallo e piuttosto significativo, ripeto l’operazione e leggo 34 centimetri. Un tappo di 8 centimetri! La caraffa è una caraffa con tappo o no? Lasciamo queste trappole e questi tappi lungo la strada altrimenti non arriviamo mai a destinazione. È stato assai facile rendersi conto di come la descrizione verbale dell’operazione di misura si sia fatta piuttosto complessa, anche lessicalmente e non solo sintatticamente, perché sono state introdotte una serie di nuove ‘idee’: orizzontalità, verticalità, contatto meccanico, allineamento, immobilità, ecc. E, alla fine, sarà assai saggio chiudere un occhio sulla scala ‘incisa in metallo’, altrimenti, davvero, non finiremmo mai a misurare la caraffa e Achille non supererà mai la tartaruga. E, Zenone, ne sarà contento. Il nostro scopo è di individuare, almeno, il problema sulla dimensione delle immagini. Come visto prima si può, con una certa ragionevolezza, stabilire un confine
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classificatorio tra ‘immagini’ e ‘figure’. Le figure, tutto sommato, sono degli oggetti e, da questo punto di vista misurare una caraffa di cristallo non dovrebbe essere concettualmente differente del misurare la Pietà Vaticana scolpita dal giovane Michelangelo. Misurare un ologramma, che dovrebbe forse essere una ‘figura’, già rappresenterebbe un problema non male. Infatti un ologramma, che pure può rappresentare con estrema chiarezza una caraffa di cristallo o Biancaneve o, proprio, la Pietà Vaticana, è composto esclusivamente di luce ed è visibile sotto particolari condizioni di illuminamento e di direzione di osservazione. Ma stavamo cercando di ‘misurare una ‘immagine’ ossia ‘quello che vedo quando, dopo aver chiuso gli occhi, voglio vedere una caraffa, o Biancaneve’. Stiamo tentando di ‘misurare’ un fatto mentale. È possibile, è pensabile, è legittimo, è ragionevole? Ma, soprattutto, serve a qualcosa? Per rispondere occorre ritornare ad un momento, diciamo ad un periodo tra gli anni 70 - 80 in cui questo problema fu intensamente dibattuto e che produsse alcuni straordinari, ma anche stranissimi, risultati sperimentali. Per familiarizzarsi pensiamo ad uno degli esperimenti più famosi di allora e che, direttamente, ha a che fare con il problema delle dimensioni delle immagini mentali. Un psicologo, cognitivista?, mentalista? di nome Stephen Kosslyn, nel 1975 vi invita gentilmente a rispondere ad una sua solerte assistente in camice candido che vi chiede: “Caro Soggetto, la prego di immaginare uno accanto all’altro un elefante e un coniglietto. Riesce a vedere i baffi del coniglietto?”. L’ esperimento continua. “Grazie, caro Soggetto. La prego, adesso, di immaginare una mosca vicino al coniglietto di prima. Riesce a vederne la sua proboscide? La psicologa, nel suo camice immacolato, prende nota di qualcosa sul suo computer. Ma, adesso, viene la prova risolutiva, quella da cui, voi pensate, dipenderà l’assunzione nella Corporation dei vostri sogni. “Molte grazie, caro Soggetto. La prego, adesso, di immaginare un gatto vicino al coniglietto. Vede le vibrisse del gatto?” Il dato che voi avete consegnato alla psicologa era, molto semplicemente, un ‘tempo di risposta’. Vi hanno misurato il tempo che intercorreva tra la sua domanda e la vostra risposta: “Dottoressa, i baffi, dice?... ecco adesso vedo bene i baffi del coniglietto!” oppure “Aspetti un poco, la proboscide, diceva? Ma, non so… accidenti, eccola”, oppure, nella prova del nove “Ma certo! Le vibrisse del gatto le vedo benissimo. Anzi le devo dire che le ho viste subito”. Sarà che, molto probabilmente, la cosa è andata così: Primo caso: Elefante contro Coniglietto, tempo di risposta = 3.5 sec Secondo caso: Coniglietto contro Mosca = 3.2 sec Terzo caso: Coniglietto contro Gatto = 1.5 sec Avrete facilmente notato la presenza del coniglietto in tutte e tre le prove. È sin troppo chiaro che si tratta di una ‘unità di misura’ comune a tutto l’esperimento nel suo complesso. Cosa vogliono dire i dati? L’interpretazione è estremamente ingegnosa e intelligente. Immaginiamo di star vedendo una figura con un elefante e un coniglietto vicini tra loro. Se ci chiedono di vedere il dettaglio dei baffi del coniglietto dobbiamo avvicinarci, guardar meglio, magari ingrandire l’immagine o eseguire una serie di azioni ognuna delle quali impegna un certo tempo per essere completata. Adesso ci fanno vedere un bel dipinto di un coniglietto, magari lo stesso di prima, con vicina una mosca. E ci chiedono: “E, la proboscide della mosca, la vede bene? “Ancora una volta indaghiamo con attenzione, usiamo una lente d’ingrandimento, controlliamo…ecco la proboscide ma anche gli occhi sfaccettati, un dettaglio dei peli delle zampe, ecc. Prima di vedere questi dettagli ci mettiamo un bel po’ di tempo. Ma, al terzo caso, nel quale ci viene presentato un bel quadretto, magari una fotografia del nostro vecchio amico coniglietto e di un bel gatto le sue vibrisse le vediamo subito. Non abbiamo bisogno di ingrandimenti, di avvicinarsi, di isolare
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–Visioni/Visions DELLA GRANDEZZA DEI SOGNI ON THE GREATNESS OF DREAMS zona specifiche della ‘figura’. Questo esperimento, che all’inizio appariva un po’ ridicolo e quasi insensato, ci ha mostrato che le immagini sembrano condividere alcuni elementi in comunione con le figure. Un elemento almeno sembra proprio comportarsi in modo analogo: la dimensione spaziale. Adesso, lo psicologo si chiama Roger Shepard. Vi viene mostrata una figura, questa volta. Un disegno geometrico che rappresenta molto chiaramente un solido sospeso nello spazio e composto di tre bracci di eguale lunghezza, ciascuno ad angolo retto con il precedente. Il disegno è, per le nostre convenzioni occidentali con cui noi rappresentiamo oggetti tridimensionali, assolutamente inequivocabile. Adesso ci si chiede di ‘ruotarlo nella nostra mente’ sino a fargli assumere una posizione definita e finale. La ‘rotazione mentale’ può essere eseguita ad occhi chiusi, aperti, e sotto tutta una varietà di variabili assai ben controllate. Al momento in cui il solido è ‘arrivato’ nella posizione finale richiestaci e da noi decisa, pigiamo un bottone. I risultati furono spettacolari e tuttora sono alla base del capitolo Mental Rotation di ogni manuale di percezione visiva. Ancora una volta, un elemento dimensionale costituito dalla messa in paragone di una ‘figura’ iniziale e da una ‘immagine’ finale si è trasformata in tempo. Angoli in secondi, in questo caso. La bellezza dell’esperimento di Shepard è che, deliberatamente, utilizza un dato fisico, esterno, ecologico, un segno su di un substrato, una ‘figura’ contro una ‘immagine’ mentale: la nostra interna, privatissima, silenziosa ‘immagine’ del solido ruotato e fatto fermare alla posizione prestabilita. Il valore della velocità di rotazione, circa 60 gradi al secondo, come potete facilmente immaginare, gioca di per sé un ruolo estremamente importante. Ma, qui la cosa si inoltra in un campo assai specifico e molto tecnico e ci giova, per concludere, tornare indietro. Magari di moltissimi anni. E sfiorare, ma silenziosamente per non destarci, il mondo dei sogni. È buona pratica ricordare che il secolo passato è iniziato, anche, con il Die Traumdeutung, L’interpretazione dei sogni, di Sigmund Freud. Magari la cronologia esatta è diversa perché il libro fu stampato ancora nel 1899 da parte dell’editore Franz Deuticke. Ma, poiché passiamo da quelle parti una osservazione ‘laterale’ non ci starebbe male. Nell’edizione dell’anno 1932 - IX della Enciclopedia Treccani la voce ‘Freud’ è di 30 righe, la voce ‘Frescobaldi Gerolamo’ di 300 righe e la voce ‘Fresa’ di 250 righe. Mentre nella Piccola Treccani del 1995 ‘Freud’ totalizza 320 righe, il povero ‘Frescobaldi Gerolamo’ si vede ridotto a solo 65 e la ‘Fresa’ arriva malamente a 100 righe. ‘Sciut transit Gloria Mundi’. Ma torniamo ai sogni, e in fretta, poiché il risveglio sta divenendo prossimo. Naturalmente non è il caso di ricordare il quadro interpretativo del sogno nella ‘interpretazione’ del Freud di allora e che ha subito e continua a subire intensi e giustificati attacchi. Quello che, qui, potrebbe interessare è un sospetto sugli aspetti dimensionali e temporali del sogno. Se il sogno è produzione schiettamente e unicamente endogena della corteccia visiva, in cooperazione, ovviamente, con tutti gli altri distretti cerebrali, non possiamo evitare la questione: quanto costa, in termini energetici o metabolici, un buon sogno di qualche decina di secondi? In accordo alle nostre modestissime definizioni, il sogno deve ricadere nella classe delle ‘immagini’ e non, certo, in quella delle ‘figure’. Secondo Kosslyn, Shepard, Finke e altri psicologi le ‘immagini’ avrebbero una natura percettivo-ottica, ossia si ‘comporterebbero’ come se alla loro origine ci fossero delle cose o delle ‘figure’. Naturalmente, le retine del dormiente non stanno trasferendo dati alle cortecce perché su di esse non si stanno proiettando ‘immagini ottiche’ di oggetti fisici. Quindi, quello che ‘vediamo’ nei sogni è di natura immediatamente endogena. L’origine di natura mnemonica, associativa, evocativa, ecc è ovvia e banale e deve essere integrata nell’interpretazione, anche non psicanalitica, del sogno in atto. Ma restano dei problemi. Un sogno a colori, con molti eventi, di una durata anche breve, popolato di ‘immagini’ in movimento, di forme, individui anche ben riconoscibili e quindi evocabili al momento del risveglio, deve poter contare su una sorgente di energia molto significativa. In termini di bit/sec ci si dovrebbe trovare in presenza di un ‘file d’immagine’ enormemente pesante ma anche ‘scaricato’ in tempi brevissimi. Da dove proviene lo stream, in che codice è scritto, dove è ‘scritto’, fisicamente, il programma, quanto costa in termini di posizioni di memoria occupata, sono presenti forme di compressione dei dati, lo ‘schermo’ viene ‘rinfrescato’ ogni quanti decimi o centesimi di secondo, esiste un meccanismo di reply, dove vengono memorizzati i dati alla fine del sogno? ecc. Naturalmente, questa non è una ingenua speranza che le procedure in uso nella informatica d’immagine possano essere travasate semplicemente e felicemente in questo campo o problema. Non
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si potrebbe essere più superficiali e rozzi di così. Ma resta il problema. Circa venti anni fa, però, Sir. Francis Henry Compton Crick, il co-autore della decifrazione del codice del DNA nel 1962 assieme a J.D. Watson e M. F. H. Wilkins, creò nel Sud della California un Istituto per le Neuroscienze. Un lavoro, firmato proprio da Crick mi interessò assai, allora. Si trattava di uno stranissimo articolo, assai più teorico che sperimentale, in cui il Premio Nobel insisteva nel ritenere i sogni come una sorta di procedura di cancellazione stocastica, semi-automatica, delle ‘memorie parassite’ che, secondo Crick avrebbero finito per paralizzare l’attività cerebrale conscia, continua e necessariamente efficiente dello stato di veglia. Non ho nessuna intenzione né competenza per ‘giudicare’ il lavoro teorico di Sir Francis Crick, naturalmente e questa idea della ‘cancellazione delle memorie parassite’ ha decisamente qualcosa di freudiano anche se rivestita da panni attinenti alle Neuroscienze e alla allora albeggiante informatica. Un ultimo ‘codicillo’ prima di lasciare definitivamente l’argomento ma senza il quale la presentazione delle esperienze di Kosslyn, Shepard, Finke e compagni sarebbe troppo unilaterale ed ingiusta. Si tratta del povero Zenon Pylyshyn, un nome che è sempre meglio copiare letteralmente più che citare, rischiosamente, a memoria e sulla base della sola ‘immagine’. Ho scritto ‘povero’ con ammirazione e partecipazione ma anche indicando la definitiva vittoria dei ‘perfezionisti-ottici’ nella controversia che ha infuriato per tutto il decennio 1970-1980 e che si è conclusa, per il momento, con la vittoria di costoro e la sconfitta del ‘povero Zenone’. In breve, e come abbiamo veduto, i dati sperimentali sembravano indicare con insistenza che le ‘immagini mentali’ fossero una sorta di copia analogica di quelle che si vengono a generare, e ancora non sappiamo bene come, nelle cortecce visive in conseguenza dei segnali riversati dalle retine, via il Corpo Genicolato Laterale, su di esse. Il dottor Pylyshyn è filosofo, linguista, logico al contrario dei competitori che erano, sostanzialmente, fisiologi, psico-fisiologi, psicologi tout court. E da filosofo dice la sua, che non era poi, così male. La vividezza delle immagini mentali, la loro ottima e spesso coerente organizzazione spaziale, la loro evocabilità a richiesta, la stessa precisa e misurabile rotazione mentale non derivano queste loro caratteristiche incontrovertibili (e sino ad un certo punto secondo il filosofo che non aveva poi tutti i torti) da una base fisiologico-percettiva. Non era il ripetersi, in ambiente interno, di una procedura utilizzata sino allora e soltanto per il processing dei dati di origine visiva e quindi ecologica. Non era il processo parallelo su di un altro, non individuato, canale di dati originati in sostanza da una grandissima banca dati di origine ottico-percettiva. No! Si trattava di costruzioni di origine squisitamente linguistica. Le ‘immagini’ erano la conseguenza di una elaborazione di dati astratti provenienti da banche dati di tipo nominale, ‘numerico’, ma soprattutto ‘pro-posizionale’. L’ultima parola non è italiana, ovviamente, ma indica che la vera natura del processo costruttivo della ‘immagine mentale’ è di tipo linguistico comunicativo, lo stesso che sta alla base della costruzione del discorso vero e proprio. E, seguendo il quale si giunge alla costruzione delle ‘pro-posizioni’. Quindi l’accostamento tra Elefante e Coniglietto non sarebbe quello tra due ‘figure’ che finiscono per generare una ‘immagine mentale’ ma quello tra due ‘parole’ o meglio due ‘configurazioni linguistiche’. Il tempo di risposta che aumenta con la differenza dimensionale tra le due ‘immagini’ altro non sarebbe che il tempo di consultazione di una banca dati incrociata in cui sono presenti i nomi degli animali ma anche le loro dimensioni relative, i dettagli del loro corpo. Tanto più diverse le entries tanto più lungo il tempo di consultazione. Coraggio: Maestra Carla Fracci! la Piccola Treccani le dedica nel 1995 esattamente lo stesso numero di righe che la Grande Treccani dedicava, nel 1932 a Sigmund Freud: solo 30. Forse nella Piccolissima Treccani del 2070 Lei avrà conquistato 300 righe. Per il momento sia lui che Lei siete onorati con una fotografia che mostra la vostra reciproca ‘immagine’. Lei, bellissima, misteriosamente sospesa sulle punte nella sua Giselle durante il Festival dei Due Mondi a Spoleto nel 1980. Lui, le spalle di profilo il volto di fronte, gli occhi che scrutano nel fondo di chissà quali pozzi perduti della coscienza umana: la morte a due passi. [english] There is a very basic variable which is always intervening in our perception of the world: the physical extension of objects. Should we call this variable, in more familiar terms, ‘greatness’ , we are not risking too much, but it is already rather strange that the chosen Italian word - but this happens in other languages too - is ‘greatness’ and not ‘smallness’. v And vice versa. But not always symmetrically. And this occurs even if our corporal dimensions do not alter between the first and the second perceptive experience, with the same object in two different contexts. A series of environmental conditions intervenes immediately to complicate the issue. Variables like distance, limited visibility, mutual movement, the luminous contrast with the background, the spatial context, the presence or absence of a recognisable horizon as such, everything interferes with judgement, which one would have liked to be simple and ‘pure’. Thus,
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–Visioni/Visions DELLA GRANDEZZA DEI SOGNI ON THE GREATNESS OF DREAMS if we take account - and how can we not? - of the rest of the world, the two categories seem confounded and are situated in an alarming continuity or even, inseparable, one from the other. In this very preliminary phase it would be of use to introduce a second linguistic level and should we not establish it, we will end up creating other ‘paradoxes of Zeno’ which would hinder (facilitate?) our itinerary. This second level has to do with the difference between things and their representations. i.e., between the crystal jug on my table and a ‘representation’ of it. For example a photograph, a painting, an engraving, a simulation in Auto-Cad, a photogram, a JPG thumbnail, which ‘represents’ the crystal jug. All these representations will have a common feature; looking at them, we will recognise in them the jug. Titus Lucretius Carus would be satisfied with this. More than two thousand years later we use a concept which is a basis for his De Rerum Natura, the idea of eidola. An ‘eidolon’ is a sort of copy of an object, the same as the original, which perhaps shares its dimensions. The nature, the form, the consistency the movements of these ‘eidola’ clearly suggest certain structural characteristics of that which, now, we call ‘images’. Let us try, once more, to simplify the glossary: ‘figures’ will be the physical representations of an object, ‘images’, the mental representations of an object. It is clear that this ‘figure’ of ours is analogous to the English ‘pictures’ whereas ‘immagini’ is rather close to the word ‘images’. To go on with the example: an oil painting on canvass or a photograph, but also a row of images which generates the jug on a screen, will be a ‘figure’, a ‘picture’ of that specific object. That which I ‘see’ if I close my eyes and imagine the jug is an ‘image’. Let us return to the physical dimensions of objects. The jug is measurable with a ruler. For example, I put beside it a metal ruler placed on one end of the same table the jug is on and I leave it vertical and immobile. Then I connect the mouth of the jug and the metal ruler by means of a rigid horizontal element, like a set square, and on the scale cut into the ruler I read 26 centimetres. If I wish to measure the cork too, this too in crystal, and rather significant, I repeat the operation and read 34 centimetres. A cork of 8 centimetres! Is the jug a jug with a cork or not? Let us leave these traps and these corks by the way otherwise we will never get to our destination. It was rather easy to realise how the verbal description of the operation of measurement got to be rather complex, also lexically and not only syntactically because a series of new ‘ideas’ were introduced: horizontality, verticality, mechanical contact, alignment, immobility, etc. And, in the end, it will be rather wise to turn a blind eye to the scale ‘cut into metal’, otherwise, really, we will never be able to measure the jug and Achilles will never overtake the tortoise. And Zeno will be happy. Our intention is to single out at least the problem of the dimension of the images. As we saw before, we can, reasonably, establish a classificatory border between ‘images’ and ‘figures’. Figures, more or less, are objects and from this point of view measuring a crystal jug should be no different, conceptually, to measuring the Pietà Vaticana sculpted by a young Michelangelo. Measuring a hologram, which should perhaps be a ‘figure’, is already quite a problem. Actually a hologram, which can still represent with extreme clarity a crystal jug or Snow White or indeed the Pietà Vaticana is make up exclusively of light and is visible in particular lighting conditions and an observation direction. But we were trying to ‘measure an image’ or that which I see after I have closed my eyes - I want to see a jug or Snow White. We are attempting to ‘measure’ a mental fact. Is this possible , thinkable, legitimate, reasonable? But above all, Is it worth it? To answer this question, we have to go back a moment to a period between the 1970s and ‘80s in which this issue was being intensely debated and which produced certain extraordinary but also very strange experimental results. To familiarise ourselves with one of the most famous experiments of the time which bears directly upon the problem of the dimensions of mental Images. A psychologist, cognitivist?, mentalist? named Stephen Kosslyn in 1975 politely invites you to respond to a diligent assistant of his dressed in a candid white shirt who asks you: “Dear Subject, try to imagine an elephant next to a small rabbit. Are you able to see the rabbit’s whiskers? The experiment goes on. “Thank you dear Subject. Please now would you imagine a cat next to the rabbit. Can you see the cat’s vibrissae?” The Information you have given psychology was very simply an ‘answer time’. They measured the time which passed between the question and your answer: “Doctor, the whiskers you say? ….now I see the rabbit’s whiskers well!” or “Wait a moment, the trunk you said? I don’t know…damn, there it is”, or in the litmus test “Yes, surely! the cat’s vibrissae I can see them perfectly well. Actually, I must say, I saw them immediately”. Probably what happened was this:
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First case: Elephant versus Rabbit, answer time = 3.5 secs Second case: Rabbit versus Fly = 3.2 secs Third case: Rabbit versus Cat = 1.5 secs You will surely have noticed the presence of the rabbit in all three of the trials. It is obvious that we are dealing with a ‘measuring unit’ common to the experiment as a whole. What is this data telling us? The interpretation is extremely ingenious and intelligent. Imagine we are looking at a figure with an elephant and a small rabbit next to it. If they ask us to look for the detail of the whiskers we have to get nearer, look harder, perhaps enlarge the image or carry out a series of actions, each of which takes up a certain amount of time. Now they let us see a nice painting of a rabbit, perhaps the same as before, next to a fly. And they ask us: “And the proboscis of the fly, can you see it clearly?” Once more, we look carefully, we use a magnifying lens, we check…there is the proboscis but also the multi-faceted eyes, a detail of the hairs on the legs, etc. Before seeing these details we take some time. But in the third case, we are presented with a nice picture, perhaps a photograph of our old friend the rabbit and a nice cat whose vibrissae we see immediately. We don’t need enlargements, or to get closer, to isolate particular areas of the ‘figure’. This experiment, which at first seemed a little ridiculous, practically senseless, shows us that images seem to share certain elements in common with figures. One element at least seems indeed to behave in analogous fashion: the spatial dimension. Now the psychologist is Roger Shepard. This time you are shown a figure. A geometric design which clearly represents a solid suspended in space and made up of three arms of an equal length, each at right angles to the previous one. The design follows our western conventions according to which we represent to ourselves three-dimensional objects - absolutely unequivocal. Now we are asked to ‘rotate it in our minds’ to the extent that we make it assume a definite, final position. The ‘mental rotation’ can be carried out with our eyes closed, and with a variety of rather well controlled variables. At the moment in which the solid has ‘arrived’ at the final position asked of us and decided by us, we press a button. The results were incredible and are still the basis of the chapter Mental Rotation of every handbook of visual perception. Once more, a dimensional element made up of the comparison of an initial ‘figure’ and a final ‘image’ is transformed into time. Angles into seconds in this case. The beauty behind Shepard’s experiment is that, deliberately, he uses physical, external, ecological data, a sign on a substratum, a ‘figure’ versus a mental ‘image’: our internal, very private, silent ‘image’ of the rotated solid made to stop in the pre-established position. The level of the speed of rotation, about 60 degrees per second as you may easily imagine, plays in itself an extremely important role. But here the thing is forwarded to a rather specific and very technical field and it helps, to conclude, to go back. Perhaps many years back. And silently touch upon - so as not to awaken ourselves - the world of dreams. It is useful to recall that the last century also began with Die Traumdeutung, The Interpretation of Dreams by Sigmund Freud. Perhaps the exact chronology is different because the book was printed in 1899 by the editor Franz Deuticke. But since we are going that way, a ‘lateral’ observation wouldn’t be a bad idea. In the 1932 edition - IX of the Enciclopedia Treccani the heading ‘Freud’ is 30 lines, the heading ‘Frescobaldi Gerolamo’ is 300 lines and the heading ‘Fresa’, 250 lines. While in the 1995 Piccola Treccani ‘Freud’ gets 320 lines - poor ‘Frescobaldi Gerolamo’ goes down to only 65 and ‘Fresa’ only just gets 100 lines. Sciut transit Gloria Mundi. But let’s get back to dreams, and we should hurry because the reawakening is upon us. Obviously we should recall the interpretative outline of the dream In Freud’s ‘Interpretation’ at the time and which underwent and continues to undergo intense and justified assault. That which might interest us here is a suspicion about the dimensional and temporal aspects of the dream. If the dream is a bluntly and uniquely endogenous product of the visual cortex, cooperating, obviously with all the other cerebral zones, we cannot avoid the question: how much in terms of energy or metabolism does a good ten-second dream cost? In accordance with our very modest definitions, the dream has to fall within the range of ‘images’ and certainly not that of ‘figures’. According to Kosslyn, Shepard, Finke and other psychologists ‘images’ have a perceptive-optical nature, or they ‘behave’ as if at their origins there were things or ‘figures’. Obviously the retina of the sleeper is not transferring data to the cortex because ‘optical images’ are not projecting physical objects on to them. Thus, what we ‘see’ in dreams is by definition immediately endogenous. That the origin is of a mnemonic, associative, evocative, etc. nature is obvious, trite even, and has to be integrated in the interpretation, non-analytical too, of the dream going on. But problems remain. A dream in colour, with many events, of even a short duration, populated with ‘images’ in movement, forms, individuals, even those most recognisable and thus evocable at the moment of
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–Visioni/Visions DELLA GRANDEZZA DEI SOGNI ON THE GREATNESS OF DREAMS waking up, has to be able to count on a very significant source of energy. In terms of bit/sec we should find ourselves in the presence of ‘rows of images’ which are terribly heavy but also ‘downloaded’ in very short times. Where does the stream come from, what code is it written in, where is it ‘written’ physically, the programme, how much does it cost in terms of positions of memory taken up, are forms of data compression present, is the ‘screen’ ‘refreshed’ every how many tenths or hundredths of a second, does there exist a reply mechanism, where are the data memorised at the end of the dream? etc. Obviously this is not a naïve hope - that the procedures of use, in informatics, of the image can be transferred simply and happily into this field or issue. Nothing could be more superficial or vulgar. But the problem remains. However, about twenty years ago Sir Francis Henry Compton Crick , the co-author of the decyphering of the DNA code in 1962, together with J.D. Watson and M. F. H. Wilkins, established an Institite for Neurosciences in southern California. One work, signed indeed by Crick, was of great interest to me at the time. It was a very strange article, rather more theoretical than experimental in which the Nobel prizewinner insisted on maintaining that dreams as a sort of procedure of stochastic, semi-automatic deletion of ‘parassitic memories’ has definitely got something Freudian about it, if seen in the guise of neurosciences and what was then a dawning information science. One last codicil before we leave this argument definitely but without which the presentation of Kossyln’s, Shepard’s, Finke’s and friends’ experiences would be unilateral and unfair. We have poor Zenon Pylyshyn, a name it is always better to copy literally rather than quote, from memory and on the basis of just the ‘image’. I have written ‘poor’ with admiration and participation but also indicating the definitive victory of the ‘perfectionist-opticists’ in the controversy which flared during the 1970s and which has finished, for the moment with their victory and the defeat of ‘poor Zenone’. In short, and as we have seen, the experimental data seemed to indicate insistently that the ‘mental images’ were a sort of analogical copy of those which come to be generated and we still do not know very well how, in the visual cortex, as a result of the signals transferred by the retina, via the lateral geniculate
body on to them. Doctor Pylyshyn is a philosopher, linguist, logician, as opposed to his opponents who were basically physiologists, psycho-physiologists, pyschologists tout court. And as a philosopher, he said what he thought, which was not actually so bad. The vividness of the mental images, their excellent and often coherent spatial organisation, their evocability on request, the precise and measurable mental rotation itself, do not derive these incontrovertible characteristics of theirs (and up to a certain point the philosopher, who was not actually mistaken entirely) from a physiological-perceptive origin. It was not the repetition, in an internal environment, of a procedure used up to then and only for the processing of data of a visual and thus ecological origin. It was not the process, parallel to another, not singled out, a channel of data which originated basically in a vast data bank of an optical-perceptive origin. No! They were constructions of a decidedly linguistic nature. The ‘images’ were the consequence of an elaboration of abstract data coming from nominal-type, ‘numerical’, but above all ‘pro-positional’ data banks. The final word is not Italian, obviously, but indicates that the true nature of the constructive processes of the ‘mental Image’ is of a comunicative-linguistic type, the same which is the basis of the construction of the discourse itself. And, following which we arrive at the construction of the ‘pro-positions’. Therefore, the pairing of Elephant and Rabbit is not that between two ‘figures’ which end up generating a ‘mental image’ but that between two ‘words’ or rather two ‘linguistic configurations’. The answer time which increases with the dimensional difference between the two ‘images’ is nothing other than the time of consultation of a reciprocated data bank in which are present the names of the animals but also their relative dimensions, the details of their body. The longer the entries the longer the time of consultation. Courage, Maestra Carla Fracci! in 1995 the Piccola Treccani dedicated to her exactly the same number of lines that the Grande Treccani dedicated to Sigmund Freud in 1932: only 30. Perhaps in the Piccolissima Treccani in 2070 you will have conquered 300 lines. For the moment both of you will be honoured with a photograph showing your mutual ‘image’. You, beautiful, mysteriously suspended on your toes in your Giselle during the Festival dei Due Mondi in Spoleto in 1980. You, in profile, the face frontal, the eyes scrutinising the depths of who knows which lost pools of the human consciousness: death two feet away. Ruggero Pierantoni
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–Ritratti/Portraits
Reset Nascere ogni volta con un senso diverso. Parto da queste poche parole che ho letto nell'editoriale di questa rivista, per parlare delle fotografie che illustrano questa pagine e che ho realizzato negli ultimi anni, le Nature bianche negli ultimi mesi, per la mia retrospettiva di Villa Medici che si intitolava Noir et blanc: a partire da questo titolo che sfiora la banalità, ma che non ha paura della banalità, e che nell’accezione francese, come in quella inglese, pone il nero prima del bianco, ho scelto un percorso narrativo da cui ho tratto le sei foto per questo progetto. Negli anni ho quasi sempre fotografato partendo da un fondo nero -“Delogu, fotografo minerale di volti, estrae dalla compattezza del nero i suoi giacimenti di facce” ha scritto una volta a proposito di un mio lavoro Erri De Luca -, si mi piacevano i volti e le figure che uscivano dal buio profondo. Molte volte provavo a mettere un fondale bianco, ma dopo poco lo toglievo e il nero riappariva alle spalle dei miei soggetti. Nascere ogni volta con un senso diverso, con la mente aperta senza preconcetti. Negli ultimi anni ho assoluto bisogno di bianco, banalmente, ma anche qui come nel titolo della mostra senza aver paura della banalità, è un bisogno che nasce da un’ idea di solarità e dalla ricerca di un sentimento di gioia nelle fotografie, da un’ idea di continuità e di esplorazione, e non ultimo nasce da una sorta di ritorno all’infanzia, un ritorno difficile, come una volta ha detto Brancusi. Credo che in questi ultimi anni il mio processo d’ immaginazione torni spesso all’infanzia a quello che mi piaceva da bambino, in particolar modo alberi, rami e cavalli, e passo dai pennarelli indelebili degli anni sessanta alla macchina di grande formato con cui ricreo tratti definiti e indefiniti sullo stesso piano. Poche fotografie attese per molto, aspettate con pazienza, viste e riviste dentro la mia testa per moltissimo tempo, anni e anni, e alla fine arrivate perché le ho sapute aspettare. Ora nella testa ho altre fotografie ma non so se le aspetterò o se le vorrò aspettare; sono qui dentro la mia mente e non so se sopravviveranno, se alcune diventeranno carta e saranno viste da altri e sicuramente nell’attesa nasceranno con un senso diverso, e non so se avranno un fondo chiaro o scuro, non so dirlo e non so prevedere la mia vita che è sempre così legata alle mie fotografie. Mi riallaccio alle parole scritte sempre nella presentazione di questo progetto: “l’immaginazione rimane ancorata a forme di espressività che sfuggono a ogni tentativo di programmazione, essa rifiuta il linguaggio matematico”. Da bambino ero portato e attratto dalla matematica, amavo fare i calcoli, le espressioni, la logica matematica e la geometria, amavo il loro controllo e la logica di programmazione: forse solo da poco tempo ho mollato completamente la logica matematica e geometrica di controllo, che nel mio caso trovano il riflesso più immediato nel controllo dell’inquadratura e del progetto, e lascio che le cose si compongano anche con casualità dentro la mia fotografia: uva rara si muove, i fiori e le piante delle nature bianche si muovono incontrollati. In questo ultimo periodo ho bisogno di tutto questo, ho bisogno di un non controllo, di luce bianca: aspetto le nuove fotografie e il loro senso diverso.
Marco Delogu è nato a Roma, dove vive e lavora, nel 1960. La sua ricerca si concentra su ritratti di gruppi di persone con esperienze o linguaggi in comune, traendo sempre spunto da elementi della propria vita. All’attività di fotografo, affianca quella di editore e curatore di mostre. Nel 2002 ha ideato FotoGrafia - festival internazionale di Roma, di cui è il direttore artistico. Nel 2003 ha fondato la casa editrice Punctum. Ha pubblicato oltre venti libri ed esposto in gallerie e musei come: il Palazzo delle Esposizioni, Roma; Warburg Institute, Londra; Henry Moore Foundation, Leeds; IRCAM - Centre George Pompidou, Parigi; Musée de l'Elysee, Losanna; PhotoMuseum, Mosca. www.marcodelogu.com www.punctumpress.com
[english]To be born every time with a different sense. I'm beginning with these few words which I read in the editorial of this magazine, to speak about the photographs which illustrate these pages and which I have taken in recent years, Nature bianche, in the last few months, for my retrospective at Villa Medici, entitled Noir et blanc. Starting with this title, which borders on the trite, but which is not afraid of triteness and which in French, as in English, puts black before white, I have chosen a narrative itinerary from which I have taken the six photos for this project. Over the years I have almost always started with a black background - "Delogu, mineral photo of faces, extracts from the compactness of the black its deposits of faces", Erri De Luca wrote once about a work of mine - yes I liked the faces and figures which emerged from the deep dark. Often I tried using a white background but after a while I removed it and black reappeared behind my subjects. Born every time with a different sense, with one's mind open, without preconceptions. In recent years I desperately need white, it's so trite, but here too as in the title of the exhibition, I'm not afraid of triteness, it is a need which originates with an idea of radiance and the search for a sentiment of joy in the photographs, from an idea of continuity and exploration, and last but not least, it derives from a sort of return to childhood, a difficult return, as Brancusi said once. I think that in recent years my process of imagination often returns to childhood, to those things which I liked as a child, especially trees, branches and horses and I range from the indelible markers of the 1960s to a large format camera which I use to recreate definite and indefinite traces on the same plane. A few photos, awaited for a long time, with patience, seen and re-seen inside my head for such a long time, years and years and in the end, which arrive because I have known how to wait for them. Now, in my head I have other photos but I don't know if I will wait for them or if I want to wait for them. They are here inside my mind and I don't know if they will survive, if any of them will become paper and will be seen by others and certainly while awaiting them they will be born with a different sense, and I don't know if they will have a light or a dark background, I don’t know how to say it and I can't foresee my life, which is always so bound to my photographs. I return to the words written in the presentation of this project: “imagination remains anchored to forms of expressivity which elude every attempt at programming, it refuses mathematical language”. When I was a child I was good at and attracted by mathematics, I loved doing calculations, formulae, mathematical logic and geometry, I loved their control and the logic of programming. Perhaps only a short time ago I abandoned the control of mathematical and geometrical logic completely, which in my case finds its closest reflection in the control of the framing and the project and I leave things to compose themselves with randomness too inside my photography. Grapes move, the flowers and plants of the nature bianche move uncontrolled. In recent times, I need all this, I need a non-control, white light. I’ll wait for the new photographs and their different sense. Marco Delogu
Marco Delogu was born in 1960 in Rome, where he still lives and works. His work focuses on portraits of groups of people who have experiences and languages in common. Alongside his work as a photographer, Delogu also works as a publisher and exhibition curator. In 2002 he created the first FotoGrafia - international festival of photography in Rome, of which he is still artistic director. In 2003 he founded the publishing house, Punctum. He has published more than twenty books and he has exhibited in museums and galleries like: Palazzo delle Esposizioni, Rome; the Warburg Institute, London; the Henry Moore Foundation, Leeds; IRCAM - Centre George Pompidou, Paris; the Musée de l'Elysee, Lausanne; PhotoMuseum, Moscow. www.marcodelogu.com www.punctumpress.com
UTILITY
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–Ritratti/Portraits RESET
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–Ritratti/Portraits RESET
LOREM
Pagina/page 72_Francesca Woodman, 2007 - pagina/page 76_Uva Rara, 2007 (Quattro studi di cavalli). In uno studio a luce naturale costruito nell’ippodromo delle Capannelle, un ambiente che ricreava la tipica luce diffusa del nord, Marco Delogu ha fotografato cavalli purosangue liberi su fondo bianco, in una logica di totale sospensione, sottrazione e asciuttezza, che si trasforma quasi in astrazione quando con uno sguardo ancora più intimo ritrae poi altri cavalli su un fondo nero con primi piani strettissimi. I purosangue ritratti prendono il nome dei maggiori artisti contemporanei. (Four studies of horses). In a studio with natural light built in the Capannelle racetrack a setting which recreated the typical diffuse light of the north, Marco Delogu, has photographed free thoroughbred horses on a white background, in total suspension, subtraction and dryness, is transformed almost into the abstract, and with an even more intimate gaze he then portrays other horses on a black background with extremely narrow foregrounds. The thoroughbreds portrayed take the name of the biggest contemporary artists. Pagine/pages 74-75_Shuja Graham, 2007 (Ex condannati a morte). Uno dei venti “dead men” riconosciuti innocenti e liberati, l’anno scorso, alla vigilia della giornata mondiale contro la pena di morte. Un dittico: occhi chiusi e poi aperti, come a ricordare il mondo che finalmente è dato vedere.
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(Ex death row inmates). One of the twenty "dead men" acknowledged as innocent and released, last year, world day against the death penalty eve. A dyptich: eyes closed and then opened, as if reminding the world that one can finally see. Pagina/page 77_Matias, 2008 (DREAM). Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition, è il programma ad approccio globale per curare l’AIDS in Africa. La IV conferenza Internazionale Dream, che si è tenuta a Roma il 15 maggio 2008, ha visto la presenza di oltre cento attivisti, provenienti dai paesi africani coinvolti nel progetto. Marco Delogu li ha ritratti nel bianco di un’inquadratura che restituisce tutta l’ampiezza del loro impegno, consapevole e proiettato nel futuro. (DREAM). Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition, is a programme with a holistic approach to treating AIDS in Africa. Over 100 activists from the African nations involved in the project participated in the Fourth International DREAM Conference, held in Rome on 15 May 2008. Marco Delogu portrayed them against a white ground, conveying the broad scope of their conscious commitment, projected towards the future. Pagina/page 77_Natura bianca # 17, 2008 (Nature) (Natures)
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Sistema di segnaletica dell’aeroporto di Köln Bonn Signage system of Köln-Bonn airport © Ruedi Baur et Ass./Intégral
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–Progetti/Projects
Don't brand the city Spesso in Italia si disserta sulla mancanza di una pianificazione unitaria, si denuncia l’assenza di adeguate forme di marketing territoriale o si rimprovera la trascuratezza della comunicazione visiva urbana. La città rappresenta forse l’ennesimo prodotto in vendita nel mercato competitivo del branding urbano? È una questione che mi sta molto a cuore e con cui mi confronto quotidianamente nell’esercizio della mia professione. Credo che si tratti di una riflessione obbligata per chi, come me, è chiamato a intervenire sui luoghi pubblici. La prima osservazione da fare è che nessuno di noi può non dirsi cittadino e che qualsiasi città, per definizione, deve essere prima di tutto uno spazio condiviso e fruibile da tutti. La mediocrità che contraddistingue oggi gran parte dei paesaggi urbani, a mio avviso, è sostanzialmente imputabile alle logiche commerciali che debordano al di fuori del loro contesto originario, l’unico in cui possano dirsi accettabili: lo spazio privato. Sempre più, invece, si sta configurando una situazione davvero paradossale: i luoghi pubblici diventano sfacciatamente marketing oriented, mentre gli spazi commerciali privati hanno la presunzione di diventare luoghi di servizio pubblico. Ma, attenzione, non facciamoci ingannare dalle apparenze: la realtà dei fatti dimostra che il marketing è esattamente l’opposto della democrazia. Tutte le esternazioni del marketing sono riconducibili, più o meno dichiaratamente, a un unico obiettivo finale: la vendita di un prodotto. Penso che le modalità comunicative dettate da interessi puramente commerciali siano assolutamente in contrasto con le forme di relazione e di condivisone sociale che dovrebbe essere garantite dall’ambiente cittadino. Trovo che questo modo di rivolgersi al cittadino con la precisa volontà di volerlo indirizzare verso certe idee nasconda una pericolosa carica di aggressività. Il marketing esperenziale di matrice statunitense che ha segnato la trasformazione dei centri commerciali in cattedrali del consumo e parchi del divertimento, sembra anche all’origine della diffusa spettacolarizzazione dello scenario urbano. Nella messa-inscena della comunicazione visiva e degli allestimenti segnaletici, cosa mette al riparo dal kitch e dall’effetto luna park? Fondamentalmente, penso che il fattore discriminante sia l’atteggiamento che si mantiene rispetto all’identità del luogo. A fare la differenza, è soprattutto il legame con il contesto. Non sono affatto contro l’aspetto scenografico dell’identità visiva, come testimoniano molti miei interventi in ambito urbano e pubblico. La messain-scena diventa però poco interessante nel momento in cui diventa una falsa copia della realtà. Quando, cioè, l’intenzione è quella di riproporre atmosfere tipiche di altre città o di allestire un ambiente come riproduzione di un’altro. In questi casi, si tratta di pura seduzione e di sterile compiacimento estetico. Purtroppo, oggi, la tendenza è esattamente questa. E il rischio di ricondurre tutto alla categoria di parco d’attrazione è molto frequente. Sono ben consapevole che, rispetto al passato, è necessario arrivare agli utenti degli spazi pubblici in maniera più forte e incisiva, ma è altrettanto necessario trovare il giusto registro espressivo. Così cerco sempre di entrare prima di tutto in relazione emotiva con i destinatari dei miei interventi, nella consapevolezza che gli spazi pubblici devono essere luogo di condivisione, e non di imposizione. Perché nessun ambiente pubblico è fatto per essere venduto. La linea di confine è difficile da individuare, ma deve pur continuare ad esserci qualcosa che ci consenta di percepire chiaramente che ci troviamo in un luogo pubblico, e non in uno spazio artificiale di vendita. Ogni volta che viene commissionato un progetto allo studio Intégral, la prima cosa che facciamo è cercare di comprendere i bisogni e le necessità che gli utenti reclamano in quel determinato ambito d'intervento: un’approfondita fase di contestualizzazione è la premessa di qualsiasi nostra scelta progettuale. L’obiettivo che perseguiamo è di dare luogo a delle soluzioni direttamente riconducibili alla specificità del posto e alla sua identità pregressa. Un approccio che, di fatto, va in direzione diametralmente
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Intervista a/interview with Ruedi Baur
opposta alla replicabilità seriale di gran parte degli allestimenti degli attuali spazi commerciali: punti vendita assolutamente impermeabili alle suggestioni esterne, rigorosamente identici a se stessi in qualsiasi città. Al contrario, la mia intenzione è quella di realizzare soluzioni - letteralmente - singolari. La volontà principale è quella di consentire massima libertà di azione alle persone che si trovano ad attraversare quel luogo. Se la ricerca e l’applicazione di codici visivi universali deve essere disattesa, quali forme può assumere il linguaggio visivo, in una comunità sempre più multitetnica e multiculturale , per garantire parità di accesso alle informazioni e ai servizi pubblici condivisi? Nel corso degli anni mi sono convinto che un eccesso di univeralismo è molto spesso controproducente. Credo che la risposta alla necessità di una comunicazione che superi le barriere linguistiche e culturali non si esaurisca unicamente nella sottrazione di segni e nel minimalismo. A mio avviso la sfida è proprio quella di progettare e realizzare interventi in funzione di realtà strettamente contestuali e, quindi, locali; realtà che oggi, beninteso, non possono che essere assolutamente multiculturali. Tuttavia si tratta di soddisfare bisogni che trovano una loro espressione proprio in virtù dell'identità che contraddistingue e descrive lo spazio in cui vengono avvertiti. Tanto che, quasi sempre, la singolarità di questi bisogni è direttamente imputabile al particolare momento di vita collettiva in cui si manifestano. Oppure, sono individuabili in relazione a un contesto talmente circoscritto da essere riconducibile più alla fenomenologia di un determinato quartiere che alla città nella sua totalità. In una stessa realtà urbana possono esserci frammenti di paesaggio diversissimi. Del resto l’Italia vanta una lunga tradizione di cultura visiva che ha sempre individuato come prioritaria la relazione con il contesto e il rispetto del luogo. Ecco, sento di appartenere più a questa scuola di pensiero che all’idea di universalismo elaborata nella seconda metà del secolo scorso dalla Scuola di Ulm. Non c’è bisogno di mostrare a tutti gli stessi segni per essere comprensibili. Sicuramente non è sbagliato proseguire questo genere di ricerche ma, allo stato dei fatti, credo che non abbia senso spogliare i segni delle loro connotazioni evocative ed estetiche nella convinzione che questo ne migliori la leggibilità e ne favorisca la decodifica. Come se in tipografia, ricondotto un elemento tipografico a una famiglia di caratteri, non si tenessero più in considerazione le sue infinite declinazioni e le innumerevoli combinazioni di dimensione, colore, spaziatura, etc. Trovo che il mondo della grafica attuale sia troppo condizionato da una sorta di dogma diffuso: la ripetizione di elementi sempre identici. Avete parlato di minimalismo ingiustificato, di povertà espressiva. Ma l’uomo urbano viene raggiunto quotidianamente, senza soluzione di continuità, da sollecitazioni visive... La necessità di ristabilire un vuoto, uno spazio diastemico, nello spazio grafico è una questione sicuramente da non trascurare. Tuttavia trovo che il design abbia intrapreso la strada sbagliata per governare e gestire il caos: una semplificazione che tende alla sottrazione esasperata, una pulizia formale che diventa estetica dell’asettico. Sicuramente questa condotta è funzionale alla richiesta di standard universali facilmente replicabili; è la risposta ideale alla continua domanda di multipli in questa epoca di globalizzazione. Ma credo che il vero cosmopolitismo coincida, al contrario, con l’accoglienza della molteplicità e della complessità. E credo anche che il ruolo del design sia quello di valorizzare la complessità e di favorire la compresenza armonica di forme differenti. La missione che gli riconosco in ambito urbano è quindi quella di orchestrare l’armonia tra le diverse attitudini compresenti in una stessa città, salvaguardando esigenze e istanze tanto diversificate. In altre parole: il design deve saper relazionare le differenze. Non può esserci un linguaggio polivalente e trasversale riproponibile in luoghi differenti. Il discorso, il
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Sistema di segnaletica della Città Universitaria Internazionale di Parigi Signage system of the International University Campus in Paris © Ruedi Baur et Ass./Intégral
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–Progetti/Projects DON'T BRAND THE CITY dialogo deve essere modulato sulla situazione e, quindi, concepito appositamente per quella particolare sede. So benissimo che viviamo in una realtà globale e che le città devono essere percepite come delle entità metaterritoriali, ma questo non deve avvenire esclusivamente nell’ottica delle strategie di marketing. La mia visione di identità discreta e distinta da salvaguardare non conduce affatto al concetto di esclusività, tutt’altro. L’identità di una città non impedisce agli ‘altri’ di essere attraversata, ma continua a parlar loro della propria storia, del proprio territorio e delle sue evoluzioni future. La questione è: per chi sono concepiti i progetti urbani? Per la politica, per il commercio o per la città? È essenziale sviluppare una vera cultura di solidarietà sociale. Le attività economiche sono certamente importanti, ma rappresentano soltanto un aspetto dello sviluppo di una città. L’attualità rivela che è necessario lavorare soprattutto sulle cattive relazioni e sulle dinamiche tra cittadini. Quali sono i primi risultati della sua ricerca condotta presso l’ENSAD di Parigi sulle esternazioni del potere politico nell’ambiente urbano, definite scritture cerimoniali? Abbiamo avuto conferma che le scritture cerimoniali hanno una lunga storia e che in certi periodi hanno segnato profondamente il paesaggio in maniera fortemente politica. Basti pensare che nelle aule delle nostre scuole campeggia ancora oggi il motto repubblicano Liberté, Égalité, Fraternité. Mettendo a confronto questa particolare forma di comunicazione pubblica in relazione ai diversi dispositivi utilizzati si osserva che la qualità espressiva è direttamente proporzionale alla dimensione temporale del medium. Gli esempi più deboli si riscontrano infatti nei siti web: anche le pagine istituzionali delle più grandi capitali europee sono di una mediocrità avvilente, impensabile sui supporti durevoli utilizzati in passato come le inscrizioni. Si tratta di una tendenza al disvalore che caratterizza comunque tutte le attuali esternazioni pubbliche in ambito urbano e stiamo conducendo proprio adesso degli studi per approfondire questo aspetto. Sto osservando con attenzione la mia città per decodificare il modo in cui essa comunica. E quando si comincia a guardare la città in questa prospettiva ci si accorge chiaramente dove la generosità esiste ancora e dove è invece totalmente assente. Purtroppo ho constatato che negli spazi pubblici la generosità è sempre più rara. E la comunicazione stessa manca di generosità. L’atteggiamento delle amministrazioni è assolutamente demagogico e populista, molte esternazioni dei politici fanno davvero paura. Dietro l’ipocrisia di chi ci governa si cela la totale indifferenza verso la distruzione dello spazio pubblico. Se senza trasformazione non c’è design, allora la qualità del design è direttamente correlata alla qualità della trasformazione che ha saputo generare. È ancora possibile trasformare la città e, di conseguenza, la vita quotidiana dei cittadini che la abitano? L’urban design non può risolversi in un banale camuffamento dei luoghi. Un ambiente aggressivo si macchia della stessa mediocrità riscontrabile in quegli spazi anonimi e impersonali che vengono definiti non-luoghi. In Francia, le ricerche di Marc Augé si sono occupate a fondo di questi temi, trasformando giustamente il concetto di non-luogo in un paradigma. Ma, a mio avviso, gli interrogativi da doversi porre sono anche altri: dove abita la generosità? dove possiamo sentirci a nostro agio? quali sono i luoghi in cui davvero abbiamo l’impressione di trovarci in uno spazio pubblico, in un ambiente che ci offre un servizio o ci aiuta a fare qualcosa? Sono convinto che l’attitudine alle relazione e alla condivisione di una determinata comunità dipende direttamente dall’identità del contesto ambientale: una società si dimostra generosa e partecipativa quando abita spazi generosi e partecipativi, mentre diventa aggressiva ed egoista quando è costretta ad abitare spazi puramente funzionali e privi di qualsiasi altra connotazione. Luoghi che non ci comunicano nient’altro che utilitarismo e che, inevitabilmente, non lasciano alcuna traccia nella nostra memoria. Sembra che di tutto questo, l’attuale classe politica non abbia la minima coscienza. Allora il design per assolvere alla sua funzione sociale deve disattendere le aspettative di assoluto pragmatismo richiesto da certa committenza pubblica e arricchirsi di valori ritenuti generalmente dispersivi e anti-economici... Se si affronta la questione della segnaletica e dell’informazione visiva secondo un’ottica esclusivamente funzionalista, certamente ci si assicura un immediato riconoscimento internazionale e si raccoglie facilmente il plauso della committenza. Progetti esemplari di un approccio puramente funzionale ma, secondo la mia concezione, troppo legato all’intenzione di voler dare delle risposte dirette e univoche. Interventi che non vanno al di là della funzione istituzionale che sono stati chiamati assolvere. Quindi, anche se complessivamente rappresentano
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casi emblematici della volontà di razionalizzare al massimo modi e forme della comunicazione, descrivono un’estetica che rischia di degenerare nella perdita di umanità, vera patologia del nostro secolo. Se guardiamo alla storia dell’arte, invece, possiamo constatare che maggiore è l’effetto sorpresa e il superamento delle attese, maggiore è la qualità dell’opera e le sue valenze sociali. Vi sono altre cose che è necessario comunicare all’interno di un’ ambiente pubblico, al di là delle informazioni di servizio. Un aeroporto, ad esempio, oltre ad essere ovviamente un luogo dove ci si reca per prendere un mezzo di trasporto, è anche il primo posto che visitiamo della città straniera in cui siamo atterrati oppure il primo posto che ritroviamo della nostra città. Troppo spesso si tratta di ambienti serializzati e seriosi, di non-luoghi per antonomasia. Sono convinto che l’ambiente aeroportuale deve anche essere territorio di leggerezza. Così nel progetto realizzato per l’aeroporto di Colonia Bonn, humor e dimensione ludica caratterizzano un sistema visivo che disattende tutte le comuni attese di austerità e sobrietà conformi a questo genere di luogo. L’uso del colore e la scelta dei pittogrammi e dei caratteri descrivono un approccio disinvolto, che non teme l’autoironia e il divertimento. Quello che io chiamo visual idiom, ovvero, il risultato della contaminazione tra l’immaginario della città e la cultura del viaggiatore. Ma, riuscire a convincere committenti cresciuti all’insegna dell’economia e del marketing che la parola chiave deve essere generosità e leggerezza, non è affatto semplice. E così, si continuano a produrre luoghi assolutamente artificiali. [english] In Italy we often talk about the lack of a unitary planning, we hear complaints about inadequate forms of territorial marketing or the neglect of urban visual communication. Is the city, perhaps, yet another product, an item on sale, in an increasingly more competitive market of urban branding? It is a question I have very much taken to heart and which I deal with every day in my job. I believe that we all have to think carefully about this issue, all those who, like me, are called upon to intervene in public places. The first observation is that none of us can say they are not a city-dweller, the second is that any city, by definition, has to be, above all, a shared space, to be used by all. Today the mediocrity which characterizes most urban landscapes, I think, is basically the result of commercial logic which goes beyond the original context, the only one acceptable – private spaces. Increasingly, however, a really paradoxical situation is taking shape. Public places are becoming shamelessly marketing-oriented, while private commercial spaces claim to be places of public service. But we should be careful not to be fooled by appearances. The reality of the facts shows that marketing is the exact opposite of democracy. All outward manifestations of marketing lead, more or less openly, to a single final objective – selling a product. I think that communicative modes, dictated by purely commercial interests contrast totally with forms of relation and social sharing which should be guaranteed by a city-dweller environment. I find this way of consulting the citizen with the precise intention of directing him towards certain ideas hides a dangerous aggression. Experiential marketing, originally American, which has marked the transformation of shopping centres into consumption cathedrals and amusement parks, seems also to be behind a widespread spectacularization of the urban scenario. In the mise-en-scène of visual communication and sign systems, what is it that protects us from kitsch and the effect of the amusement park? I think basically the discriminating factor is the attitude we maintain with respect to the identity of place. What makes the difference is above all the connection with the context. Personally I am not in any way against the scenic aspect of visual identity, as will be seen in many of my interventions in an urban and public setting. However, the mise-en-scène becomes of little interest at the moment in which it becomes a fake copy of reality. I.e., when the intention is that of proposing an atmosphere which is typical of other cities or setting up a scene as a reproduction of another. In these cases, we are talking about pure seduction and sterile aesthetic complacency. Unfortunately, today, this is the tendency. And the risk is that everything gets led back to the category of attraction park. I am well aware that, above all, nowadays, we need to get to users of public spaces in a big way, forcefully but it is equally necessary to find the right expressive register, I myself always try to create an emotional relation with thse who are on the receiving end of my work but in the awareness that public spaces have to be places of sharing, not imposition. And that no public environment is made to be sold. The borderline is difficult to detect. But there has to be something which tells us we are in a public place and not in an artificial place, where selling takes place. Every time an intervention is requested from the Itégral study, the first thing I do with my collaborators is try and understand the particular needs to satisfy in relation to that given situation - an in-depth phase of contextualization of the project. The objective we are pursuing
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Sistema di segnaletica dell’aeroporto di Köln Bonn Signage system of Köln-Bonn airport © Ruedi Baur et Ass./Intégral
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is that of finding solutions directly linked to the specificity of the place and its previous identity. A project approach which actually goes in a diametrically opposite direction to the serial replicability of most of today’s commercial spaces – sales points which are totally impermeabile to external suggestions, identical one with the other in any city. On the other hand, my intention is to realise literally singular solutions. The desire is to allow maximum freedom of action to people who find themselves crossing these places. If research and the application of universal visual codes has to be disregarded, which forms might assume visual language, in a community which is increasingly multi-ethnic and multicultural to guarantee equality of access to information and shared public services? Over the years I have become convinced that an excess of universalism is, very often, counter-productive. I think that the response to the need for a communication which gets over the linguistic and cultural barriers is not exhausted uniquely in the removal of signs and in minimalism. In my opinion the challenge is that of projecting and realising interventions linked to strictly contextual needs concerning that place. Needs which today, obviously, cannot but be totally multicultural. However, we are talking about needs which find their expression in virtue of the particular space in which they are felt. Almost always the singularity of these needs is directly attributable to the particular moment of collective life which concerns them. Or they are to be singled out in relation to such a circumscribed context that it can be ascribed more to the identity of a given area than to the city as a whole. In the same urban reality there can be completely different contexts. Moreover, Italy boasts a long tradition of visual culture which has always had as a priority relation with the context and respect for the place. So, I think I belong more to this school of thought than the idea of universalism elaborated in the second half of the last century by the School of Ulm. There is no need to show everyone the same signs to be understandable. Certainly it is no mistake to pursue this type of research but, as things are, I think it is useless to strip signs of their evocative and aesthetic connotations in the conviction that this improves their legibility and benefits decodification. As if, in typography, a typographic element were ascribed to a family of characters and we no longer took into account its infinite declinations and the countless combinations of dimension, colour, spacing, etc. I find that the world of graphics today is too conditioned by a sort of dogma: the continuous repetition of identical elements. You have spoken about unjustified minimalism, espressive poverty. But if urban man is reached on a daily basis, with no interruption, visually solicited… The need to re-establish a void, a diastematic space, in the graphical space is surely a question we cannot ignore. However, I find that design has taken the wrong road to govern and handle the chaos, a simplification which reaches the sign less, a formal cleaning which becomes aesthetics of the ascetic. Certainly, this conduct responds to the request for easily replicable universal standards, it is the ideal response to the continuous demand for multiples in this era of globalization. But I think that the real cosmopolitanism coincides, on the contrary, with welcoming the multiplicity and the complexity. And I believe also that the role of design is that of favouring the coexistence of multiple forms and valorizing complexity. The mission I recognise in an urban setting is therefore that of orchestrating harmony between the different attitudes coexisting in the same city, safeguarding needs which are so diversified. In other words, design has to relate differences. There cannot be a catch-all and transversal language represented in different places. The discourse, the dialogue has to be modulated on the situation and thus conceived just for that particular site. I know very well that we are living in a global reality and that cities have to be perceived as meta-territorial entities, but this should not happen exclusively in the perspective of marketing strategies. My idea of discrete vision, distinct from safeguarding does not lead at all to the concept of exclusivity, on the contrary. The identity of a city does not hinder ‘others’ from being crossed, it continues to speak to them of its own history, its own territory and future evolution. The question is, for whom are urban projects conceived? For politics, for commerce, or for the city? It is essential to develop a real culture of social solidarity. Economic activity is certainly important but it represents only one aspect of the development of a city. Topical issues reveal that we need to work above all on the bad relations and dynamics between city-dwellers. What are the initial results of your of research concerning the ‘Cerimonial Writing’ carried out at the ENSAD in Paris on the expressions of political power in the urban environment?
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We have had a confirmation that cerimonial writing has a long history and that in certain periods it has left a deep mark on the landscape in forcefully political terms. Just think that in schoolrooms there is still the saying Liberté, Égalité, Fraternité. Looking at this particular form of public communication vis-à-vis the different devices used, we observe that expressive quality is directly proportional to the temporal dimension of the medium. The weakest examples are to be found on websites. Institutional pages too of the great European capitals are depressingly mediocre, unthinkable on the lasting supports used in the past, like inscriptions. This is a negative tendency which characterizes all current public expressions in an urban setting and we are carrying out studies right now which look further into this aspect. I observe my city carefully to decodify the way it communicates. And when we begin to look at the city in this perspective we realise clearly where generosity still exists and where it is totally absent. Unfortunately, I have seen that in public spaces generosity is increasingly rare. And the communication itself lacks generosity. The attitude of public administrations is totally demagogic and populist, so many manifestations of the politicians are really frightening. Behind the hypocrisy of those governing us there is total indifference concerning the destruction of public space. If, without transformation there is no design, the quality of the design is directly correlated to the quality of the transformation it has generated. Is it still possible to transform the city and as a result, the daily life of city-dwellers living there? Urban design cannot limit itself to a trite concealment of places. An aggressive environment is stained with the same mediocrity we find in the anonymous and impersonal spaces which are defined non-places. In France, Marc Augé’s in-depth research is concerned with this issue, rightly transforming the concept of non-place into a paradigm. But I think the questions we must ask are others too – where does generosity live? Where can we feel at ease? which are the places where we really have the impression of finding ourselves in a public space, in an environment which offers us a service or helps us to do something? I am convinced that the attitude concening relation and sharing of a given community depends directly on the environmental context. A society shows itself generous and participatory when it inhabits generous and participatory spaces, whereas it becomes aggressive and egoistic when it is forced to inhabit purely functional spaces, devoid of any other connotation. Places which communicate nothing to us other than utilitarianism and which, inevitably leave no trace in our memory. It seems that the current political class knows absolutely nothing about all this. So, design, to carry out its social function has to disregard the expectations of absolute pragmatism requested by a certain public clientele and enrich itself with values considered generally dispersive and anti-economic… If we look at the question of sign systems and visual information in an exclusively functionalistic perspective, certainly we are assured immediate international recognition and we easily get the applause of the client. Exemplary projects using a purely functional approach but, according to my conception, too bound up with the intention to provide direct and univocal answers. Interventions which do not go beyond the institutional function which they have been called upon to absolve. If we look at the history of art, however, we see that the greater the success in overcoming expectations and the surprise effect, the greater is the quality of the work and its social qualities. Thus, although on the whole they are emblematic cases in terms of clarity and efficiency, they describe an aesthetics which risks degenerating into the loss of humaneness, the great pathology which afflicts our century. If there are other things we need to communicate within a public environment, beyond service information. For example, besides being obviously a place where we go to, say, take a bus, it is also the first place we visit in a foreign city we have landed in, or the first place we see, returning to our own city. All too often, airports are serialized and serious, non-places par excellence. But I am convinced that the airport environment should also be a territory of lightness. So in the project realised for the airport of Colonia Bonn, humour and a playful dimension characterize a visual system which disregards all the common expectations of austerity and sobriety which conform to this type of place. The use of colour and the choice of pictograms and characters constitute a laidback approach, which does not fear self-irony and amusement. That which I call visual idiom, or the result of contamination between image inventory of the city and the culture of the traveller. But being able to convince the client, who has matured according to economy and marketing standards, that the key word has to be generosity and lightness is not at all simple. And thus, we continue to produce totally artificial places. a cura di/by Maurizio Rossi
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–Public Camp
Comunicazione di servizio Here is an announcement Tutte le società hanno vissuto dentro e attraverso immaginari. Il discorso contemporaneo sul bisogno individuale ha occupato il posto dell’immaginario collettivo, ha ricostruito sull’assenza di memoria storica un’epifania imprevedibile e fondante per fermare l’immaginazione sul presente. La televisione ed internet hanno desacralizzato l’immagine, proprio come la stampa aveva desacralizzato la parola. L’avvento della televisione, la privatizzazione delle telecomunicazioni e la convergenza tecnologica hanno cambiato la relazione fra comunicazione e potere: governi e network concorrono di significato nella mente delle persone, mentre contese politiche sono combattute sui media a colpi di scandali secondo il formato dell’infotainment. L’ascesa della società in rete coincide con l’autocomunicazione di massa: siti, blog, vlog, social network consentono a milioni di persone la definizione autonoma di messaggi e contenuti; l’orizzontalità di Internet entra così in conflitto con la verticalità del potere economico e politico. I media sono lo spazio dove si decide la lotta politica fra attori, idee ed interessi contrapposti nell’Era dell’informazione. Le élite politiche e i grandi media cercano di imporre i propri frames interpretativi e, quindi, le proprie strategie di priming sugli eventi riportati dai giornali e dai notiziari, la comunicazione via web e via cellulare consente la diffusione virale di messaggi alternativi che svelano i silenzi dei media e le bugie del potere, dando luogo a opposizione sociale ai sistemi statali di controllo e alle logiche capitalistiche di networking. La crisi della democrazia rappresentativa e lo sviluppo di nuove forme di partecipazione dal basso attraverso Internet sono due processi che, in barba alle previsioni dei profeti della ‘democrazia elettronica’, sembrano progredire parallelamente, senza trovare un punto di convergenza1 . L’interesse dei ‘cittadini della Rete’ si concentra sulla democratizzazione dell’economia e sulle relazioni personali più che sulla politica, la quale viene vissuta come ostacolo alla libera evoluzione della tecnica, del mercato e di nuovi stili di vita, più che come arena in cui impegnarsi per promuovere gli interessi della società civile. La diffusione dei nuovi media favorisce, inoltre, la tendenza alla privatizzazione dello spazio pubblico, alimentando l’illusione che si possa fare a meno della politica. Un’illusione che non solo non contribuisce a indebolire il potere politico, ma ne determina l’imbarbarimento, favorendo derive carismatiche e populiste. Il Berlusconismo non ha vinto nelle urne, ha vinto in cucina, in salotto, nella camera da letto, ha vinto perché ha - e in questo c’è la sua genialità - interpretato una fase del cambiamento radicale storico-globale e ha imposto una unica identità a questa Italia. Ha vinto nei sogni degli Italiani. Niente più sogni collettivi, solo sogni individuali. Sogni che riguardano il lavoro per un figlio, la propria promozione sociale o un migliore status personale nelle relazioni private2. “Una guerra dei sogni” direbbe Augé3. È così che si va instaurando un nuovo regime di fiction, di "finzione" mediatica che agisce sulla vita sociale al punto di far dubitare della realtà. E a ben guardare la nostra televisione incombe il grave rischio che, prima o poi, si ritornerà tutti quanti analfabeti, perderemo ogni forma di spirito critico e ci appiattiremo verso gli sterili linguaggi proposti dallo spicciolo marketing dei produttori televisivi4. I reportage televisivi prendono sempre più forma di fictions e queste ultime mimano il reale. Alle mediazioni che consentono lo sviluppo dell'identità, la presa di coscienza dell'alterità e dei legami sociali si sostituiscono i media della solitudine. Si altera la circolazione tra l'immaginario individuale (il sogno), l'immaginario
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collettivo (i miti, i riti, i simboli) e la finzione narrativa. Si confondono questi tre poli distinti dell'immaginario e si sfaldano le frontiere specifiche istituite da ogni cultura tra sogno, realtà e finzione. E in questa confusione la libertà intesa come privatizzazione del mondo, è un prodotto artificiale di plastica. La libertà berlusconiana è entrare nel mondo e accorgersi che è stato ridotto ad una specie di ipermercato, e la libertà consiste nel fatto che sei libero di scegliere quale dei prodotti di questo mondo commerciale puoi comperare, e cioè quale barattolo di omologazione puoi comperare. Tutti i messaggi equivalenti subliminalmente al citius, altius, fortius della divisa olimpica creano una politica dei corpi, ma senza politica; una normalizzazione senza norme, un rincretinismo di massa emulativo. L’io finzionale è incessantemente minacciato di assorbimento da parte della finzioneimmagine che si presenta come immaginario collettivo e allo stesso tempo come finzione, mentre la finzione immagine deve la sua esistenza alla loro eliminazione, alla scomparsa della storia e dell’autore. Le immagini acquistano tutto il loro senso all’interno di sistemi simbolici condivisi, la maniera in cui esse si riproducevano e a volte si modificavano attraverso la realtà rituale. Sono le condizioni di circolazione fra l’immaginario individuale, l’immaginario collettivo e la finzione che sono cambiate. La relazione con il mondo sotto il segno dell’istantaneità e dell’ubiquità, ma che provocano allo stesso tempo l’apparire di corpi umani solitari, immobili e irti di protesi, di città di disurbanizzate, non luoghi, e di società destoricizzate, senza memoria storica, in una presentizzazione del tempo storico5. Ma cosa centra tutto questo con la comunicazione pubblica e delle Istituzioni? Molto. Nelle trasmutazioni dei rapporti di potere e di sapere nella società, le Istituzioni luogo per eccellenza ‘simulacro’ del potere subiscono anch’esse processi di necessaria evoluzione/involuzione e di opportuna innovazione/regressione. L’evoluzione tanto invocata a partire dagli anni ’90 e oggi usata come megafono dal governo nazionale per cantare i propri inni politici non può non passare innanzitutto da un processo di apertura della Pubblica Amministrazione. Perché innovazione non è solo l’introduzione o l’adozione di una nuova tecnologia: perché innovazione è soprattutto un nuovo modo per ‘fare le cose’, un metodo che si crea sostenendo la nascita e il consolidamento di reti che coinvolgono alla pari soggetti pubblici e privati, nodi di scambio di competenze che condividono obiettivi di crescita e cambiamento. L’innovazione si coniuga soprattutto con una migliore qualità della vita. Non può essere solo economica la direttrice per l’evoluzione di una comunità: lo sviluppo è reale se riguarda anche la socialità, il territorio, la mobilità, l’ambiente, la cultura. Non si lavora sul territorio o sulle città senza pensare alle persone, alla loro vita, all’eredità trasmessa al futuro. Come in democrazia la forma è sostanza, il metodo innovativo è parte stessa delle cose che genera. E la comunicazione ha un ruolo importante in tutto questo. È il grado di ricostruzione di ciò che chiamiamo sacralità delle istituzioni, del loro significato per la collettività. E nel significato più vero di civil servant, servitore della collettività, che va trovata la ragione del lavoro dei comunicatori pubblici. Perché prima che l’adozione di nuove tecnologie e di nuovi comportamenti, infatti, credo sia necessario ricostruire il senso di sacralità delle Istituzioni nel cittadino. Senza questo mutuo riconoscimento, senza la ricostruzione di una autorevolezza della voce istituzionale, è molto difficile che il cittadino scelga consapevolmente il
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–Public Camp COMUNICAZIONE DI SERVIZIO HERE IS AN ANNOUNCEMENT dialogo con l’amministrazione pubblica, a prescindere da quanti e quali strumenti vengano adottati. Il problema si pone quindi nei termini di cessione del diritto, nell’ottica della trasparenza, della rappresentatività e dell’uguaglianza dei cittadini. La più che vituperata immagine della P.A. come ‘casa di vetro’ deve cedere il tempo a una idea di cessione di potere dell’informazione. È terribilmente difficoltoso prendere sul serio i cittadini, quello che percepiscono sulla realtà, sulle cose che possono considerarsi buone pratiche e su quelle che, invece, non vanno. Nel senso comune della burocrazia, ma anche della politica, spesso i cittadini sono considerati problemi. A volte non hanno nulla di interessante da dire, altre volte si lamentano solamente. Dicono cose o banali o incomprensibili. Eppure così non è. Tutti i cittadini sono esperti almeno dell'ambiente che vivono quotidianamente, dello spazio che abitano, delle vicende di cui sono protagonisti: conoscono un pezzo della realtà che i burocrati e i politici non vivono. E quando si elabora una politica pubblica, cioè la risposta ad un problema complesso, bisogna accumulare una notevole quantità di conoscenze perché la risposta contenuta in quella politica sia adeguata e incida. La maggior parte delle politiche pubbliche e decisioni si rivelano inefficaci perché inadeguate. Attuare politiche di e-democracy, istituendo gli strumenti di partecipazione più adeguati, significa prendere sul serio i cittadini, ricucendo la frattura tra le istituzioni e la società ma anche sbagliare di meno. E per sbagliare di meno bisogna confrontarsi tra Pubbliche Amministrazioni, cittadini e imprese. Bisogna parlarsi e capire oggi, nel pieno di una nuova era digitale, come migliorare la reciproca comprensione. Comprendere i media, allora, perché “I media sono la sostanza ontologica della modernità, […] sono le cose del mondo: comprendere i media per comprendere il nostro mondo: i media per la filosofia”6. Ma comprendere soprattutto la società che cambia e come attraverso la ricostruzione della sacralità delle istituzioni è possibile reimmaginare un sogno collettivo. Gli autori delle note sono presenti con altri esperti di comunicazione (Derrick De Kerchove, Gianluca Nicoletti, Claudio Caprara, Alessandro Rovinetti, Gianroberto Casaleggio, Michelangelo Tagliaferri, Rolando Gualerzi, Francesco Gallucci, Paul Cappelli, Alex Giordano e tanti altri ancora ) alla seconda edizione del Public Camp. http://comunicazione.regione.puglia.it. [english] All societies have lived inside and through image inventories . Contemporary talk about individual need has occupied the place of the collective image inventory, it has reconstructed on the absence of historical memory an unpredictable and founding epiphany to halt the imagination of the present. The television and the Internet have desacralized the image, just as printing had desacralized the word. The advent of television, the privatization of telecommunications and technological convergence have changed the relation between communication and power; governments and networks compete in the minds of people, while political disputes are fought out in the media by means of scandals according to the format of infotainment. The rise of the network society coincides with mass self-communication: sites , blogs, vlogs, social networks allow millions of people the autonomous definition of messages and contents; the horizontality of the Internet in this way comes into conflict with the verticality of economic and political power. Media are the spaces where the political struggle between conflicting components, ideas and interests is decided in the era of information. The political elite and big media seek to impose their own interpretative frames and thus their own strategies of priming of the events reported by newspapers and by news bulletins, communication via the web and via cell phones allows a viral diffusion of alternative messages which unveil the silences of the media and the lies of the powers that be, resulting in social opposition to the state systems of control and the capitalistic logic of networking. The crisis in representative democracy and the development of new forms of participation from below through the Internet are two processes which in defiance of the expectations of the prophets of ‘electronic democracy’, seem to progress in parallel fashion, without finding a point of convergence1. The interest of ‘Networking citizens’ concentrates upon the democratization of the economy and personal relations more than on politics, which is experienced as an obstacle to the free evolution of technique, of the market and of new lifestyles, more of an arena in which we get involved to promote the interests of civil society.
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The spread of the new media moreover, favours the tendency towards privatization of public space, nourishing the illusion that we can do without politics. An illusion that not only does not contribute to weakening political power but determines its barbarization, favouring charismatic and populist drift. ‘Berlusconismo’ did not win at the urn, it won in the kitchen, in the living room, in the bedroom, it won because – and the genius here is this - it interpreted a phase of radical historical-global change and has imposed a single identity on this Italy. It won in the dreams of Italians. No more collective dreaming, only individual. Dreams that concern work for a child, one’s own social promotion or a better personal status in private relations2. “A war of dreams” Augé might say3. And this is how a new fiction regime is being established, a mediatic ‘pretence’ which acts upon social life so much so it makes us doubt reality. And looking closely our television faces the serious risk that , sooner or later, we will all go back to being illiterate, we will lose every form of critical spirit and we will flatten ourselves out in the sterile language which the cheap marketing of television producers offer us4. Television documentaries are increasingly taking the form of fictions and the latter mime the real. Mediations which allow the development of identity, consciousness of the otherness and social ties are replaced by the media of solitude. The circulation between the individual collective image inventory (the dream), the collective one (myths, rites, symbols) and narrative pretence is altered. These three distinct poles of the image inventory get mixed up and the specific borders set up by every culture between dream, reality and pretence are broken down. And in this confusion freedom understood as privatization of the world, is an artificial plastic product. Freedom à la Berlusconi amounts to entering the world and realising that it has been reduced to a sort of hypermarket and the freedom consists in the fact you are free to choose which of the products of this commercial world you can purchase i.e., which jar+of homologation you can buy. All the messages which are the equivalent in subliminal terms to citius, altius, fortius of the Olympic uniform create a politics of the body, but without politics; a normalisation without norms, an emulative mass re-cretinising. The fictional I is incessantly threatened with absorption by the fiction-image which presents itself as collective image inventory and at the same time as fiction, while the fiction image owes its existence to their elimination, to the disappearance of history and the author. The images acquire their whole sense inside the shared symbolic systems, the manner in which they are reproduced and at times altered themselves through ritual reality. They are the condition of circulation between individual image inventory collective image inventory and the pretence that they have changed5. But what has all this got to do with public communication and the Institutions? A lot. In the transmutations of relations of power and knowledge in society, the institutions, a place par excellence ‘simulacrum’ of power undergo, these too, processes of necessary evolution/involution and opportune innovation/regression. The evolution which was invoked so much from the 1990s on and used nowadays as a megaphone by the national government to sing its own political praises cannot not pass, above all, from a process of opening up of the state administration. Because innovation is not only the introduction or adoption of a new technology: because innovation is above all a new way to ‘do things’, a method which is created sustaining the birth and the consolidation of networks which involve on a par public or private subjects knots of exchange of skills which share objectives of growth and change. Innovation combines above all with a better quality of life. It cannot only be economic, the directrix for the evolution of a community: development is real if it concerns sociality too, the territory, mobility, the environment, culture. We do not work on the territory or on cities without thinking about people, their lives, the inheritance transmitted to the future. As in democracy form is substance, the innovative method is a part itself of the things it generates. And communication has an important role in all this. It is the degree of reconstruction of that which we call sacrality of the institutions, their meaning for the collectivity. It is in the meaning most true of the civil servant, he who serves the collectivity, that we will find the meaning of the work of public communicators. Because before the adoption of new technologies and new behaviour, in fact, I think we need to reconstruct the sense of sacrality of the institutions in the citizen. Without this reciprocal recognition, without the reconstruction of an authoritativeness
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–Public Camp COMUNICAZIONE DI SERVIZIO HERE IS AN ANNOUNCEMENT of the institutional voice it is very difficult for the citizen to choose, with awareness, the dialogue with the state administration, apart from how many and which instruments are to be adopted. The problem therefore is to be considered in terms of the cession of rights, in a perspective of transpareny, representativity and equality of citizens. The more than reviled image of the P.A. as a ‘house of glass’ has to cede time to an idea of cession of power over information. It is terribly difficult to take citizens seriously, that which they perceive of reality, the things they might consider good practices and those which, on the contrary, are no good. In what we call bureaucracy but also politics, often citizens are considered problems. Sometimes they have nothing interesting to say, other times they just complain. The things they say are trite or incomprehensible. And yet, this is not the problem. All citizens are experts at least about the environment they experience daily, the space they inhabit, the events they are involved in: they know a piece of the reality which the bureaucrats and the politicians do not live. And when a public policy is elaborated i.e., the response to a complex problem, we need to accumulate a significant amount of knowledge for the response contained in that policy to be adequate and have an effect. Most public policies and decisions turn out to be inefficacious because they are inadequate. Carrying out e-democracy policies, instituting the most adequate instruments of participation, means taking citizens seriously, mending the fracture between the institutions and society but also making fewer mistakes. And to make fewer mistakes we have to make a comparison between State Administration, citizens and business. We need to talk and understand today, in the fullness
of a new digital era, how to improve mutual comprehension. Understanding the media, therefore, because “The media are the onthological substance of modernity, (…) they are the things of this world”: understanding the media to understand our world: media for philosophy” 6. But above all understanding society which is changing and how through the reconstruction of the sacrality of the institutions it is possible to re- imagine a collective dream. The authors are present with other communication experts (Derrick De Kerchove, Gianluca Nicoletti, Claudio Caprara, Alessandro Rovinetti, Gianroberto Casaleggio, Michelangelo Tagliaferri, Rolando Gualerzi, Francesco Gallucci, Paul Cappelli, Alex Giordano and many others) at the second edition of Public Camp. http://comunicazione.regione.puglia.it. Eugenio Iorio
1 Formenti Carlo, Se questa è democrazia. Problemi e paradossi della politica on line, Manni Editore, 2009 2 Vendola Nichi, Comizio elettorale 4 giugno 2009, Bari 3 Augè Marc, La guerra dei sogni, Eleuthera, 1998 4 Abruzzese Alberto, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Bevivino Editore, 2008 5 Iorio Eugenio, Corso di Comunicazione Politica, Università di Bari anno 2008/2009. 6 Cristante Stefano, Media Philosophy. Interpretare la comunicazione-mondo, Liguori, 2005
Public Camp 2009. Nuove geometrie di relazione (Bari, 19-23 ottobre 2009)
Public Camp 2009. New geometries of relation (Bari, 19-23th October 2009)
Anche quest’anno Bari ospita il meeting dei comunicatori pubblici organizzato dalla Regione Puglia, con il patrocinio dell’Unione Europea, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e Istituzionale. Non si lavora sul territorio o sulle città senza pensare alle persone, alla loro vita, all’eredità trasmessa al futuro. In Puglia, la comunicazione istituzionale è protagonista del nuovo corso dell’amministrazione: un vivace e strategico laboratorio di idee che valorizza l’immagine ODQBDOHS@© D© CHȮTR@© @KK DRSDQMN © FDRSHRBD© HK© ȰTRRN© CH© HMENQL@YHNMD© UDQRN© H© LDCH@ © @BBDMCD© HK© CH@KNFN© BNM© H© cittadini e gli operatori interni. E siccome le migliori idee sono proprietà di tutti, con orgoglio, Public Camp OQNLTNUD© KN© RB@LAHN© D© K@© CHȮTRHNMD© CH© BNMNRBDMYD© D© BNLODSDMYD© ODQ© HMRS@TQ@QD © BNLD© QDBHS@© HK© BK@HL© CH© questa seconda edizione, nuove geometrie di relazioni. Traguardi raggiunti, cambiamenti in corso, risultati attesi. Espressioni di una democrazia partecipativa, in cui dovere di informare e diritto di sapere disegnano un processo comunicativo circolare. Modi e forme di un’eccellenza nel comunicare che ha già una sua storia, un suo percorso da raccontare e condividere. http://comunicazione.regione.puglia.it.
This year too Bari is hosting the meeting of public communicators from the Regione Puglia, under the patronage of the European Union, the Presidenza del Consiglio dei Ministri and the Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e Istituzionale. We cannot work on the territory or on the city without thinking about people, their lives, the inheritance to transmit to the future. In Puglia, institutional communication is the main character in the new course of the administration. A lively, strategic laboratory of ideas working to enhance the image perceived and diffused externally, manage the flow of information towards the media, trigger dialogue with city-dwellers and internal operators. And since the best ideas are the property of all, Public Camp is roudly promoting the exchange and diffusion of knowledge and skills, to establish - as the claim of this second edition recites - new geometries of relations. Goals achieved, changes taking place, results expected. Expressions of a participatory democracy in which the duty to inform and the right to know indicate a circular communicative process. Ways and forms of an excellency in communicating which already has its own history, its own itinerary to recount and share. http://comunicazione.regione.puglia.it.
Eugenio Iorio, classe 1974: la nuova generazione della comunicazione pubblica. In qualità di dirigente del Servizio Comunicazione Istituzionale della Regione Puglia è stato premiato come Miglior innovatore dell’anno 2009 nell’ambito del concorso Protagonisti dell’innovazione indetto in occasione del Forum nazione della Pubblica Amministrazione. Insegna Comunicazione Politica e Pubblica all’Università di Bari e presso la Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione. Tra i suoi interessi, le esperienze sperimentali sulle potenzialità dei new media digitali e la comunicazione politica. www.eugenioiorio.it
Eugenio Iorio, 1974: the new generation of public communication. As a director of the Servizio Comunicazione Istituzionale della Regione Puglia he was awarded the prize Miglior innovatore dell’anno 2009 on the occasion of the Protagonisti dell’innovazione competition which took place at the Forum nazione della Pubblica Amministrazione . He teaches Comunicazione Politica e Pubblica at the University of Bari and at the Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione. His interests include experimental experiences concerning the potentialities of the new digital media and political communication. www.eugenioiorio.it
UTILITY
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Courtesey: www.poetiesognatori.com
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–Culture/Cultures
Inter nos Dialetto e approfondite conoscenze di storia e cultura locale per studenti e insegnanti, per rimarcare con penna e calamaio del legislatore quel puzzle raro e affascinante di differenze e dissonanze, anche microscopiche, che compongono l’identità italiana, dal paesaggio al clima, dalla cucina alla lingua. Nell’Italia del burro, così come in quella dell’olio beninteso, si torni a valorizzare i tratti autoctoni, a partire dalla lingua. Questo, in estrema sintesi, il messaggio politico della Lega di Bossi, che al di là delle esternazioni ad effetto da Ponte di Legno, potrebbero diventare disegno di legge in tempi brevi. La serie di proposte (dialetto, inno nazionale, immigrazione, gabbie salariali) assomiglia sempre più a un vero e proprio progetto culturale. Torniamo alla lingua e ai dialetti. Battaglia di retroguardia o colpo di reni innovativo, a rinforzo tattico della visione concreta del federalismo leghista? Il tema è caldo, dicevamo, e molto complesso. Possibile tuttavia, e spero utile, fare chiarezza, in poche mosse. Prima mossa. Il quadro storico-linguistico dell’Italia moderna, dall’Unità ad oggi, è chiaro e irreversibile. L’unità linguistica, che fa dell’italiano lingua nazionale e ufficiale in tutti i contesti pubblici e formali e in gran parte di quelli informali, soprattutto per le ultime generazioni, è il risultato di un lungo processo di evoluzione storica e culturale. L’italiano non è l’esperanto. Ne sono stati protagonisti, nell’ordine: la scuola pubblica (nell’insegnamento e nella valorizzazione della grande tradizione letteraria nazionale), la leva militare obbligatoria, la radio e la televisione. Si tratta di una conquista fondamentale ai fini della costruzione di una coscienza nazionale unitaria, la cui forza politica è più facilmente misurabile guardando all’immagine dell’Italia all’estero, come spesso accade. L’italiano è in crescita come lingua di studio nel mondo (nella sola area mediterranea oltre 20.000 gli studenti ad oggi, con un incremento che sfiora il 30% annuo, in paesi come Turchia, Libano, Egitto e Israele). L’italiano ci identifica come superpotenza culturale nel mondo, in quanto lingua dell’arte e della musica, ma ormai anche come lingua di interscambi commerciali sempre più fitti ed estesi. Si punti, allora, al miglioramento delle competenze linguistiche dell’italiano per gli italofoni (ce n’è bisogno!) e per gli stranieri e si potenzi quella politica di promozione linguistica e culturale, che ha fatto della Francia e della Gran Bretagna modelli e punti di riferimento politico e culturale in vaste aree del pianeta. Seconda mossa. Le politiche linguistiche di un paese devono essere di lungo respiro e in sintonia con il disegno politico generale. Due priorità in agenda, su cui il governo si sta impegnando intensamente: internazionalizzare e integrare, cioè aprirsi al resto del mondo (nelle imprese, nelle università, nelle istituzioni) e creare condizioni concrete di coesione e solidarietà sociale fra italiani e stranieri immigrati. La lingua nazionale, in entrambi i casi è strumento fondamentale, direi necessario, perché i due processi in atto, di apertura e di accoglienza, siano efficaci e duraturi. Terza ed ultima mossa. I programmi e i metodi di insegnamento della scuola devono rispondere agli obiettivi educativi condivisi ed essere commisurati alle risorse disponibili. Degli obiettivi si è detto. Della scarsità di risorse ben sappiamo. Non dimentichiamo, in questo quadro, l’ ‘emergenza lingue straniere’: siamo ancora un paese fondamentalmente monolingue e Bruxelles ci chiede almeno due lingue per tutti. Dobbiamo continuare a investire quindi, di più e meglio, nell’insegnamento delle lingue straniere nella scuola. Non vorremmo che fossero i nostri figli a pagare il prezzo di questo ritardo. Per i nostri figli, c’è da augurarsi, infatti, un futuro di mobilità, fisica e intellettuale, che non confligge affatto col rafforzamento dei legami con le proprie radici territoriali, anzi. Cassoela o orecchiette, barolo o sagrantino, dialetto veneto o napoletano, l’italianità continua ad essere espressa al meglio per via sintetica più che per frammentazione analitica. Ragion per cui, di fronte alla Gioconda di Leonardo, così come nell’ascolto della Tosca di Puccini o della Traviata di Verdi, continuiamo a sentirci tutti indistintamente e orgogliosamente Italiani. E vorremmo continuare a farlo, in Italia e nel mondo.
[english] In Italy, an urgent educational issue seems to be that of dialect as a subject in Italian schools. Dialect and in-depth knowledge of local history and culture for students and teachers, which indicate - with the pen and ink of the legislator - that rare and fascinating puzzle of differences and dissonances - microscopic too – which make up the Italian identity, from the landscape to the climate, from cuisine to language. In the Italy of butter, as in that of oil, the object is to enhance authochthonous features, starting with language. This is, in short, the political message of the Northern League of Umberto Bossi, which, aside from the rhetoric of the Ponte di Legno speeches, could end up becoming law before long. The series of proposals (dialect, national anthem, immigration, salary cages) increasingly resemble nothing less than a cultural project. It is important to speak of this, also outside the political arena because cultural projects create the premises for growth and development of a country - or for its decline. Back to language and dialects. Rearguard action or innovative turning point, a tactical reinforcement of the concrete vision of Northern League federalism? The issue is a hot one, we were saying, and complex. I hope we can clarify it, in a few moves. First move. The historical-linguistic framework of modern Italy, from Unification up to today, is clear, irreversible. Linguistic unity - which makes of Italian a national language and an official one, in all public, formal contexts and in most of the informal ones, above all, for the younger generation - is the result of a long process of historical and cultural evolution. Italian is not Esperanto. The main contributory factors have been, in the following order: state school (in the teaching and enhancement of the great national literary tradition), the draft, radio and television. A fundamental conquest, with the aim of constructing a national unitary consciousness, whose political force is more easily measurable looking at the image of Italy abroad, as often happens. Italian is growing as a language in the world (in only the Mediterranean area more than 20,000 students today, with an increase touching 30% annually, in countries like Turkey, Lebanon, Egypt and Israel). Italian identifies us as a cultural superpower in the world, as a language of art and music, but now, as a language of commercial interchange too, and it is becoming more and more widespread. So we are wagering on the improvement of the linguistic skills of Italian for Italophiles (we need it!) and for foreigners and as a result. the politics of linguistic and cultural promotion is reinforced - that which has made of France and Great Britain models and political and cultural focus points over vast areas of the planet. Second move. The linguistic policies of a country have to be long-sighted and in harmony with the overall political design. Two priorities, on which the government is working intensely: internationalize and integrate, i.e., open up to the rest of the world (in companies, universities, institutions) and create the real conditions for social cohesion and solidarity between Italians and immigrant foreigners. The national language, in both cases, is a fundamental tool, necessary I’d say, for the two processes, that of openness and reception, to be efficient and lasting. Third and final move. Teaching programmes and methods at school have to respond to shared educational objectives and correspond to available resources. Of objectives we have already spoken. We know about scarcity of resources. Let’s not forget, in this framework, the ‘foreign language emergency’: we are still fundamentally a monolanguage country and Brussels asks of us at least two languages for everyone. Thus, we have to continue to invest, more and better, in the teaching of foreign languages in schools. We don’t want our children to pay the price for this delay. For our children we hope for a future of mobility, physical and intellectual, which does not clash at all with a reinforcement of bonds with our own territorial roots - on the contrary. Cassoela or orecchiette, Barolo or Sagrantino, Veneto dialect or Neapolitan, the Italian spirit continues to be expressed at best synthetically more than by analytical fragmentation. So, in front of the Gioconda by Leonardo, as well as in listening to Tosca by Puccini or Verdi’s La Traviata, we continue to feel indiscriminately and proudly Italian. And we want to continue to do so, in Italy and in the world. Stefania Giannini
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–Urban design
Ugo La Pietra. Esplorazioni Explorations Sono ormai quasi vent’anni che la ricerca di Ugo La Pietra si appunta sopra un settore in apparenza vago e dai limiti indistinti, ma in realtà riconducibile al comune denominatore della Vita nella città: ossia allo studio degli elementi urbani - ma anche oggettuali, decorativi, artigianali, artistici - che ne fanno parte; e sempre con la precisa intenzione di definire meglio il modo di vivere nella città (non solo di ‘usare’ la città, ma di abitarla; dunque di farla propria) quello che in definitiva potremmo chiamare il ‘vissuto urbano’ In realtà, gli studi di La Pietra - ed è questo che va subito precisato - anche se appaiono alle volte molto specialistici, minuziosi, tecnologici, o, altre volte, in apparenza dispersivi, vaghi, generalizzanti, mirano tutti a offrire al lettore -all’uomo della strada come all’architetto, al sociologo come all’urbanista - quegli strumenti che gli permettano di migliorare le condizioni ambientali del singolo e della comunità, attraverso una riconsiderazione del modo di vivere di interagire, di ‘essere creativi’, della e nella società odierna. Lo slogan di cui spesso La Pietra si è valso: “abitare vuol dire essere dovunque a casa propria”, ci dice già molto di quelle, che erano e sono le sue intenzioni e le sue ambizioni: far sì che l’uomo si senta inserito nell’habitat; non si senta estraneo ad esso; ne faccia parte integrante; anche se per ottenere ciò dovrà costruire con le sue mani delle pseudo-abitazioni fatte di lamiera e di legno nelle periferie cittadine; anche se dovrà tracciarsi nuovi sentieri che vincano la monotonia dei percorsi usuali, resi obbligatori dal succedersi dei cortili e dei terreni vaghi che circondano i falansteri periferici in cui è costretto ad abitare. E, per ottenere ciò, La Pietra propone - ed ha proposto in questi ultimi anni - una serie di accorgimenti diversi, aiutandosi con i grafici, i disegni, i brevi filmati (come La riappropriazione della città e II monumentalismo del 1972), con volumetti ironici e giocosi (come Istruzioni per l’uso della città del 1979; Il sistema disequilibrante del 1968-1969; Promemoria del 1982; ecc.); con mostre paradossali (come quella sulla Sinestesia delle arti 1962-1965; Campo urbano a Como del 1969; Il video-comunicatore, 1971; ecc.); sempre attento, tuttavia, a offrire una visione molto precisa e molto documentata della città nella quale oggi viviamo. Già a partire dagli anni sessanta, infatti, l’autore aveva affrontato il tema della sinestesia delle arti, (quale superamento dell’antico slogan corbusiano della “Integration des arts”), proponendo interventi urbani attraverso il rapporto con opere d’arte di diversi artisti (Fontana, Azuma, ecc.). Se però, in quei casi la ricerca d’una strutturazione cittadina avveniva attraverso l’utilizzazione di elementi formali altrui, attraverso l’inserimento di opere plastiche o programmate nel contesto urbano; in un secondo tempo l’attenzione di La Pietra si rivolgeva piuttosto a sue esperienze autonome: la messa a punto di alcune esemplificazioni plastiche, luminose, idriche, pubblicitarie, monumentali, (vedi Le immersioni 1967-1968) sempre in funzione d’una vitalizzazione della città e soprattutto d’un incrinatura delle strutture urbane e territoriali ormai cristallizzate e coartanti. È da queste ricerche che prendeva l’avvio (attorno al 1967) quella che doveva essere una delle più originali ricerche dell’autore: ossia la messa a punto d’un ‘Sistema disequilibrante’, con cui mirava a rompere il malefico equilibrio di molte situazioni cittadine divenute ormai fonte di nevrosi e di vera e propria alienazione. È proprio, a proposito di queste azioni disequilibranti, che - nel mio volume Dal significato alle scelte (1973) - scrivevo: “Nei suoi Interventi disequilibranti sul territorio La Pietra ha svolto lo studio e la progettazione di modelli morfologici a scala urbana. Con questi modelli veniva saggiata la possibilità d’una interazione tra le proposte spaziali e la struttura urbana preesistente. In questo modo i fattori disequilibranti valevano come denuncia d’una situazione aberrante in cui si trova coinvolta la nostra civiltà massificata. Nell’intenzione di La Pietra si trattava di ottenere che l’attiva partecipazione degli individui potesse avere la capacità di introdurre modifiche strutturali nell’organizzazione della società urbana rompendo ‘quel processo di uniformità e di pianificazione formale’,
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tipica delle nostre città, attraverso una serie di ‘elementi segnale’ di orientamento”. Questi principi di una liberazione formale si ipotizzavano come attuabili attraverso interventi a qualsiasi scala: tanto nella produzione di oggetti, quanto in esperimenti urbani veri e propri (già realizzati, ad es. negli interventi effettuati a Como, a Zafferana Etnea). Ma il periodo più intenso e più fecondo anche dal punto di vista delle realizzazioni pratiche, aveva inizio quando l’architetto si accingeva a progettare alcune strutture dal videocomunicatore il ciceronelettronico fino alle luminarie e a evidenziare alcune situazioni spontanee o semispontanee da parte degli abitanti delle città e soprattutto delle periferie cittadine. L’osservazione, ad es. di alcuni tentativi di ‘gestire in proprio’ il proprio habitat, sia pure entro i limiti concessi dal prepotere burocratizzato delle borgate dell’era tecnologica, ne è una testimonianza illuminante. Così lo studio sulla ‘comunicazione urbana’ realizzata a Parigi (1974) attraverso un sistema di segnali spontaneamente messi a punto dagli abitanti usando i tubi di scarico delle acque piovane, così lo studio di ‘spazio interno-esterno ’ a Berlino (1981) così L’informatorino ossia un mezzo di segnalazione stradale che permetta una quotidiana informazione decentrata e spettacolare. “Lo scopo fondamentale (dell’urbanistica)” - ha scritto La Pietra nel suo ‘promemoria” - sembra proprio quello di isolare gli individui nella cellula abitativa familiare, di ridurre le loro possibilità di scelta all’interno di un ridotto numero di comportamenti ‘preordinati’, di integrarli in pseudo-collettività, che...consentono il loro controllo e la loro manipolazione”. Mi sembra che, proprio qui, stia, in definitiva, il nocciolo del problema cui Ugo La Pietra, da ormai parecchi anni, sta impegnandosi: cercare di risollevare l’uomo, l’abitante, il cittadino, dalla condizione di ‘servaggio’ fisico e psichico nel quale la società burocratica e tecnocratica dei nostri giorni lo ha rinchiuso: cercare, dunque, di rendere l’uomo cosciente di questa condizione di asservimento; e, al tempo stesso, valersi dei nuovi mezzi - e dei nuovi media - messi a nostra disposizione dalla più avanzata tecnologia, - dall’informatica dalla telematica - per permettere al cittadino una maggiore libertà d’azione, e una maggiore possibilità d’informazione di quella che normalmente possiede. Saper valersi, insomma, degli apporti d’una civiltà iper-scientifica come la nostra, ma non per manipolare sempre di più e soffocare sempre di più a fondo l’individuo, ma anzi per consentirgli, attraverso i nuovi mezzi elettronici, di raggiungere quella pienezza dell’informazione e quella libertà espressiva di cui ognuno dovrebbe essere partecipe e che potrebbe fare, di ogni individuo, una pedina attiva e creativa nel panorama confuso e troppo spesso coartante della nostra società. Gillo Dorfles (tratto dal libro Abitare la città, Ed. Alinea, Firenze, 1982) [english] By now it is almost twenty years since Ugo La Pietra has been working in a sector which appears vague and of indistinct limits but in actual fact we can trace back to the common denominator of Inhabiting the City, the study of urban – but also ‘objectual’, decorative, artisan, artistic - objects which are a part of the city. Wishing to more clearly define the way we live in the city (not only ‘using’ the city, but inhabiting it, thus making it our own), what we might call ‘urban life as it is lived’. La Pietra’s studies – we can’t stress this enough – although sometimes they appear very specialized, elaborate, technological and at other times, dispersive, vague, generalizing, they all aim at offering the reader, the man in the street, as well as the architect, the sociologist as well as the town-planner, those tools which allow us to improve the environmental conditions of the single individual and the community, by means of a reconsideration of the way we live, interacting, ‘being creative’ with , and in, today’s society. The slogan La Pietra uses : “inhabiting means being everywhere in your own home”, tells us a lot about those that were and are his intentions and ambitions – making
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Appunti Notebook
Ugo La Pietra, fotomontaggio/photomontage, 1975 (coll. FRAC Centre, OrlĂŠans)
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–Urban design UGO LA PIETRA. ESPLORAZIONI EXPLORATIONS sure that man feels a part of his habitat, that he doesn’t feel extraneous, that he feels an integral part of it, even when this means he has to build with his own hands the pseudo-dwellings made of metal sheets and wood, in certain city suburbs. Even though he has to trace out new paths to defeat the monotony of habitual itineraries, made obligatory by the succession of vague courtyards and terrain which surround the outlying phalanstery in which he is forced to live. And, to obtain this, La Pietra has been suggesting for years a series of different contrivances,with the aid of graphics, designs, short films (like La riappropriazione della città and II monumentalismo 1972), short, ironic, playful books (like Istruzioni per l'uso della città 1979; Il sistema disequilibrante 1968-1969; Promemoria 1982; etc.); with paradoxical exhibitions (like that on the Sinestesia delle arti, 1962-1965; Campo urbano in Como 1969; Il video-comunicatore, 1971; etc.) however always careful to offer a very precise, very well documented vision of the city in which we live. Already from the 1960s the author had been dealing with the issue of synaethesia of the arts (going betond Le Corbusier’s ancient slogan of the “Integration des arts”), suggesting urban interventions, alongside works of art by different artists (Fontana, Azuma, etc.). If however, in these cases, research of a citizen structuring take place with the utilization of the formal elements of others, through the insertion of plastic or programmed works into the urban context, later, La Pietra’s attention focussed rather on his autonomous experiences – the reworking of certain exemplifications – plastic, light, water, advertising, monumental (see Le immersioni 1967-1968) to achieve an enlivening of the city and above all cause all a rift in the urban and territorial structures which were by then crystallized, undergoing coarctation. It is this research that produced one of the most original projects of the author, (around 1967), a Sistema disequilibrante, with which he wished to break the evil equilibrium of so many city-dweller situations which had become by then a source of neuroses and alienation. Of these disequilibrium-causing actions I wrote in my book Dal significato alle scelte(1973): “In his territorial disequilibrium-causing interventions La Pietra has studied and projected morphological models on an urban scale. With these models he wanted to test the possibility of an interaction between spatial suggestions and preexistent urban structures. In this way the disequilibrium-causing factors worked as a denouncement of the aberrant situation in which our standardized civilisation finds itself involved. La Pietra’s
idea was to see that the active participation of individuals could introduce structural modifications in the organisation of urban society, breaking ‘that process of uniformity and formal planning, typical of our cities, by means of a series of ‘signal elements’ of orientation”. These principles of a formal liberation were hypothesized as practicable with interventions on any scale, in the production of objects, in real urban experiments (already carried out, for example in the work at Como, Zafferana Etnea). But the most intense, most fecund period, also from the point of view of practical realisations, began when the architect decided to project certain structures , ranging from the videocomunicatore the ciceronelettronico to the luminarie and stress certain spontaneous or semi.spontaneous situations on the part of city-dwellers and above all in the suburbs. The observation for example of certain attempts to ‘deal in person’ with one’s own habitat, even within the limits allowed by bureaucratized arrogance in the poorer suburbs of the technological era, is a clear testimony. Thus the study of ‘urban communication’ realized in Paris (1974) by means of a system of signals spontaneously arranged by the inhabitants using drainpipes, the study of ‘spazio interno-esterno’ in Berlin (1981) , the L'informatorino or a street signal device which allows daily information, decentralized and spectacular. “The fundamental scope (of town-planning) – La Pietra wrote in his ‘promemoria’- seems indeed to be that of isolating individuals in their family dwelling cell, reducing their possibility to choose from a reduced number of ‘preordained’ behavioural patterns, integrate them in pseudo-collectives, which means they can be controlled and manipulated’. It seems that this is the real problem, on which Ugo La Pietra, for years now, has been working – trying to raise man, the inhabitant, the city-dweller, up from his condition of physical and psychic ‘serfdom’ in which the bureaucratic and technocratic society of our days has imprisoned him. Trying therefore to make man aware of this condition of servitude and at the same time make use of the new media – now available thanks to advanced technology – informatics, telematics, to allow the city-dweller a greater freedom of action and a greater access to information than he normally possesses. Knowing how to use the services of a hyper-scientific civilization like ours, but not to increasingly manipulate and increasingly suffocate individualism but rather allow man, by means of new electronic means, to achieve that fullness of information and that expressive liberty in which everyone should participate and which could make of every individual an active, creative player in the confused and all too often compressed panorama of our society. Gillo Dorfles (from Abitare la città, Ed. Alinea, Florence, 1982)
Abitare è essere ovunque a casa propria
Inhabiting is being at home everywhere
Ho sempre pensato che un essere umano garantisce la propria sopravvivenza attraverso la modificazione dell'ambiente in cui vive ed opera, non solo ma ho sempre creduto che abitare un luogo vuol dire poterlo capire, amare, odiare, esplorare. Io non ho mai avuto un territorio in cui riconoscermi e riconoscere il mio passato, sono nato in un paesino del meridione e ho sempre vissuto in città. La città è quindi il luogo in cui ho cercato di espandere la mia personalità, è il luogo che ho cercato di amare che ho cercato di coinvolgere nei miei itinerari di vita e di lavoro, nel quale mi sono mosso spesso come l'esploratore si muove su di un territorio da conquistare. www.ugolapietra.com
I’ve always thought that a human being guarantees his own survival by means of the modification of the environment in which he lives and works, not only this but I have always believed that inhabiting a place meas being able to understand, love, hate , explore. I have never had a territory in which I can recognise myself and recognise my past, I was born in a small town in the south and I have always lived in the city. The city is therefore the place in which I have tried to extend my personality, it is the place I have tried to love, which I have tried to involve in my life’s itineraries and work, in which I have acted often like an explorer acts in a territory to conquer. www.ugolapietra.com
UTILITY
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Semafori 4RA˜C¨LIGHTS
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–Approdi/Landings
Leo Lionni. L’immaginario come mestiere The image inventory as métier L’italiano di Leo è sempre impeccabilmente idiomatico con una quasi impercettibile leggera cadenza ligure come accade a quei signori della zona che stentano a impadronirsi del gutturalismo ‘tosco-valchianino’. Anche il suo inglese-New Yorkese è impreziosito da una lieve intonazione olandese come per ricordare che il vecchio nome di New York era New Amsterdam. Lionni proviene da una famiglia olandese di origine sefardita. La sua era una famiglia di intagliatori e mercanti di diamanti e di collezionisti di arte moderna. Sviluppa il suo lavoro negli Stati Uniti, Belgio, Italia. Poco più che adolescente Leo aveva cominciato a dipingere quadri astratti come conveniva a un giovane della sua età e del suo tempo e Marinetti in persona lo aveva proclamato futurista. Nel 1931 il giovane ‘aeropittore’ viene presentato infatti da Marinetti. Nel 1939 già affermato a Milano come artista grafico si rifugia in America con la sua famiglia sia a causa delle persecuzioni razziale sia perché l’incombente conflitto lo avrebbe reso in quanto olandese cittadino di un paese nemico sia perché si era già esposto in attività antifasciste per le quali suo suocero era stato imprigionato e mandato al confino. Ritrova Steimberg già compagno di biliardo a Milano, Calder appena tornato da Parigi e comincia quello straordinario cammino dell’immaginario come mestiere. Gaudenzi, Farfa, Fillia, Prampolini, Lombardo, Mazzotti, sono i suoi primi riferimenti italiani. Nel 1963 Raffaele Carieri ricordando quel gruppo definisce Persico una specie di fachiro e in riferimento a Leo ricorda : “l’olandese non somigliava a nessuno di noi... aveva una testa logica di straordinaria forbitezza. Guardava come i tiratori il tiro a segno e faceva sempre centro. Ma senza spavalderia per semplice amor di precisione. I suoi lunghi silenzi attraversavano le nostre conversazioni arruffate come uno spillone di platino.” Mentre è studente a Zurigo va a preparare gli esami a Cavi di Lavagna nella casa di famiglia di Nora. Zavattini, Paci, Sereni; De Grada. Come si è detto nel 1939 per sfuggire alle persecuzioni razziali decise di emigrare in America: “Nel 1939 partii solo alla ventura con 75 dollari in tasca Nora e i bambini erano rimasti in Italia perché non avevano ottenuto il visto essendo italiani, mio padre mi accompagnò dall’Olanda a New York. Leon Karp mi ha insegnato un sacco di cose in fondo io ero un autodidatta”. Leo diceva di avere un unico rimpianto quello di non aver imparato a suonare il flamenco con la chitarra perché il Morbo di Parkinson gli impediva di continuare a praticare gli insegnamenti del suo grande maestro gitano. Nell’ ultimo segmento della sua vita non segmentabile Lionni dipinge, disegna, tiene conferenze, scrive, e, ancora è ossessionato da curiosità insoddisfatte soprattutto riguardo ai meccanismi di memorizzazione delle immagini. E così Leo non smette di lavorare. “Ho cercato di capire perché faccio quello che faccio...io non posso stare senza fare niente”.
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[english] Leo's Italian was always impeccably idiomatic with an almost imperceptibly slight Ligurian cadence as happens to those men of the area who have difficulty mastering the ‘tosco-valchianino’ gutturalism. His New York English too was adorned with a slight Dutch intonation as if to recall the fact that the old name of New York was New Amsterdam. Lionni came from a Dutch family of Sephardic origins. His was a family of diamond cutters and merchants and collectors of modern art. He matured professionally in the United States, Belgium, Italy. Little more than adolescent Leo began to paint abstract pictures, as was fitting for a young man of his age and his times and Marinetti in person proclaimed him a Futurist. In 1931 the young ‘aeropainter’ was in fact introduced by Marinetti. In 1939, already successful in Milan as a graphic artist, he sought refuge in America with his family because of racial persecution and because of the impending conflict since he was Dutch, i.e., from an enemy country and because he had already been involved in anti-Fascist activity for which his father-In-law had been imprisoned and interned. He came across Steimberg once more, his old billiards companion In Milan, and Calder who had just returned from Paris and began that extraordinary journey of the image inventory as métier. Gaudenzi, Farfa, Fillia, Prampolini, Lombardo, Mazzotti were his first Italian reference points. In 1963 Raffaele Carieri, recalling this group, defined Persico a sort of fakir and in reference to Leo recalled: “the Dutchman did not resemble any of us …his mind was of a logic of extraordinary elegance. He looked at the target like a marksman and always got bullseye. But without boasting, It was simply a love of precision. His long silences cut across our muddled conversations like a platinum pin.” While he was a student In Zurich he went to prepare his exams in Cavi di Lavagna In Nora's family home. Zavattini, Paci, Sereni; De Grada. As we said, in 1939 to escape racial persecution he decided to emigrate to America: “In 1939 I left, alone, on an adventure, with 75 dollars in my pocket , Nora and the children stayed in Italy because they had not been able to get a visa, since they were Italian; my father accompanied me from Holland to New York. Leon Karp taught me a lot of things, basically I was the self-taught one”. Leo said he only had one regret, that of not having learnt to play the flamenco on the guitar because Parkinson's disease had prevented him practising the teachings of his great Gypsy master. In the last segment of his non-segmentable life Lionni painted, drew, held conferences, wrote and he was still obsessed by unsatisfied curiosity, above all concerning mechanisms of memorisation of images. Thus Leo did not stop working. “I have tried to understand why I do what I do …I can't spend my time not doing anything.” Franco Federici
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ABRUZZESE AUGÈ BORRELLI CAPPELLI CAPRARA COMIN CRISTANTE DE DONNO DEL FORNO FATTORI
NUOVE GEOMETRIE DI RELAZIONE 19-23.10.2009
FORMENTI GALLUCCI GUALERZI GUIDI IORIO LATTANZIO MOMBELLI MOROSINI NICOLETTI NOTO PALLERA PANIZZA PAVARINI PEDONE PETRUCCI PIRA RISSO SOMAYNI SUSCA TAGLIAFERRI VICERÈ
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Comunicare il servizio pubblico significa rinnovare il patto di fiducia tra istituzioni e cittadini. E dialogare è il modo migliore per scambiarsi informazioni, conoscenze e know-how. Tutto questo è Public Camp, occasione formativa unica per i professionisti della comunicazione pubblica. Per fare il punto della situazione, condividere le migliori pratiche e far circolare esperienze. Incontro all’innovazione. L’appuntamento è con i protagonisti della comunicazione istituzionale, sociale e politica italiana e del pensiero contemporaneo internazionale.
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