nb. I linguaggi della comunicazione/communication languages

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EAN 978-88-95962-03-0


Nota Bene risveglia l’emozione della conoscenza almeno tre volte l’anno. Il primo periodico italiano dedicato ai linguaggi della comunicazione torna con una nuova serie: corrispondenze, relazioni, interviste, reportage, case history. Nuove pagine di lettura del sapere contemporaneo.

Prendi nota: NB Nuova serie Abbonamento annuale 3 numeri 30,00 euro

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Vie d’u scit a.


_N.B.

NOTA BENE. I LINGUAGGI DELLA COMUNICAZIONE / COMMUNICATION LANGUAGES RIVISTA QUADRIMESTRALE / FOUR-MONTHLY REVIEW NUMERO / ISSUE 1 ANNO / YEAR II FEBBRAIO - MAGGIO 2010 EAN 978-88-95962-03-0 DIRETTORE / EDITOR FULVIO CALDARELLI CONDIRETTORE / CO-EDITOR MAURIZIO ROSSI ART DIRECTOR MICHELE A. TAVOLIERE DIRETTORE RESPONSABILE / MANAGING EDITOR NICOLA MAGGI COMITATO DI DIREZIONE / DIRECTION COMMITEE GILLO DORFLES, FRANCO FEDERICI, STEFANIA GIANNINI, EUGENIO IORIO, RENATO NICOLINI REDAZIONE / EDITORIAL STAFF VALENTINA AGRIESTI (LAYOUT), SANDRO CALDARELLI, ALESSIO COSMA, ERMINIA PALMIERI, MALICA WORMS IN QUESTO NUMERO HANNO SCRITTO/WRITERS IN THIS ISSUE NINO APREA, MARC AUGÉ, ALESSANDRO BERGONZONI, LUIGI BOITANI, STEFANO BOLLANI, EDOARDO BONCINELLI, ACHILLE BONITO OLIVA, SCOTT BURNHAM, SANDRO CALDARELI, CLAUDIA CASTELLUCCI, SILVIA CAVAZZA, RAFFAELLA GIORDANO, GIORGIO GOI, PAUL MIJKSENAAR, VALENTINA VEZZANI, LIU XIA. HANNO FOTOGRAFATO / THE PHOTOGRAPHERS IN THIS ISSUE SCOTT BURNHAM, PAUL MIJKSENAAR, GREGORIO DELUCA COMANDINI, LIU XIA ILLUSTRAZIONI / ILLUSTRATIONS FULVIO CALDARELLI, MICHELE A. TAVOLIERE, CRISTINA ZINNI TRADUZIONI / TRANSLATIONS COLIN SWIFT, ROBERTA TABOLACCI, DONNA DE VRIES-HERMANSADER/INOTHERWORDS. DIREZIONE E REDAZIONE/

In questo numero In this issue I.

Nota Bene. Editoriale/Editorial

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II.

Osservatorio Bird Watching

—Cattività/Captivity

Mente/Mind Vie d’u scit a.

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Cover 1: Inter lupum et canem. Così il mondo latino simboleggiava l’alba. Svariati secoli non sono bastati a liberarci dell’animalità del lupo come simbolo dell’istinto incoercibile. Mentre la nostra era si nutre ancora dell’eredità illuministica e positivistica, l’ombra del pensiero irrazionale continua ad allungarsi. Ma si fa strada un nuovo riconoscimento ad esso: la genuinità e la creatività di un agire che per rimanere vivo può e deve illuminarsi di se stesso, qualche volta senza la luce e la razionalità sacrale della cosidetta civiltà tecnologica. Inter lupum et canem. This is how the Latin world symbolised dawn. Many centuries later we are still unable to free ourselves of the animality of the wolf as a symbol of irrepressible instinct. While our era nourishes itself still on the legacy of enlightened thought and positivism , the shadow of irrational thought grows longer and longer. But a new recognition is gaining ground: the authenticity and creativity of action which, to remain alive, can and must enlighten itself, sometimes without the sacred light and rationality of our so-called technological civilisation. (© Corbis Engraving by Gustave Dore Depicting the Wolf Approaching Little Red Riding Hood from Little Red Riding Hood by Charles Perrault) Cover 2: Uomo in fuga Animali ragionevoli (mappe cognitive ed emotive alla mano) percorriamo, in una direzione piuttosto che in un’altra, gli imperativi delle nostre circonvoluzioni cerebrali, attenti a sopravvivere, senza perdere il filo della conoscenza. Man on the run Being reasonable animals (cognitive and emotional map in hand), choosing one direction rather than another, we follow the imperatives of our cerebral circumvolutions, bent on surviving, without losing track of consciousness.

Le stanze della coscienza The rooms of consciousness 8 Intervista a Edoardo Boncinelli Se spesso il nostro comportamento è il risultato della complementa-

rietà di istinto e raziocinio, altre volte tra le due istanze si genera un certo conflitto. Often, our behaviour is the result of the complementarity of instinct and reasoning, but at other times a certain conflict is generated between the two.

Frontiere/Frontiers

Il corpo dell’arte. The body of art Intervista ad Achille Bonito Oliva

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L’istinto artistico nasce sempre solitario e antagonista: l’artista non è un inviato speciale della realtà, ma un inviato speciale contro la realtà. The artistic instinct is always born solitary and is an antagonist, the artist is not a special correspondent of reality, he is a special correspon- dent against reality.

Transiti/Transits Fissa dimora. Fixed address 22 Intervista a Marc Augé Lo spazio pubblico contemporaneo è in parte questo: uno spazio

in cui non si conosce, ma si riconosce. Public space today is partly this, a space in which one does not know, but one recognises.

III.

Semafori Traffic Lights

—Stato brado/In the wild

Interazioni/Interactions Urban play 30 Reportage di Scott Burnham Per non perdere il filo www.faustolupettieditore.it

E se invece delle solite generazioni di urbanisti che scoraggiano l’intervento e l’interazione, esaminassimo una progettazione urbana che le stimoli? And what if instead of the usual breed of urban design which discourages intervention and interaction, we explored the urban design that invites it?


DIRECTION AND EDITORIAL OFFICE: VIA FILIPPO CASINI 8 - 00153 ROMA TEL. 0039 06 58303065 - 0039 06 58364105 - INFO@BLUEFORMA.COM - WWW.BLUEFORMA.COM ABBONAMENTI, DIFFUSIONE E AMMINISTRAZIONE / SUBSCRIPTIONS, DIFFUSION AND ADMINISTRATION LOGO FAUSTO LUPETTI EDITORE, VIA DEL PRATELLO, 31 - 40122 BOLOGNA TEL. 0039 051 5870786 WWW.FAUSTOLUPETTIEDITORE.IT PROMOZIONE E PUBBLICITA’/ PROMOTION AND ADVERTISING DANIELE@FAUSTOLUPETTIEDITORE.IT - REGISTRAZIONE PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA - REGISTRO DELLA STAMPA N.69/2010 DEL 16 MARZO 2010 - STAMPA / PRINTING RAGUSA GRAFICA MODERNA SRL, 70026 MODUGNO (BA) Z.I. - VIA DEI GLADIOLI - C.DA MACCHIA LAMPONE - LOTTO G6 — L’EDITORE È A DISPOSIZIONE DEGLI EVENTUALI PROPRIETARI DEI DIRITTI SULLE IMMAGINI RIPRODOTTE, NEL CASO NON SI FOSSE RIUSCITI

A REPERIRLI. THE PUBLISHER IS RESPONSIBLE FOR PURCHASING THE MAGAZINE’S COPYRIGHT IMAGES DURING THE PRINTING PROCESS IN CASE OF THE UNVAILABILITY OF THE COPYRIGHT HOLDER TYPEFACES DIN, PF DIN, ADOBE GARAMOND

Armonie/Harmonies Il tasto giusto. The right button 40 Intervista a Stefano Bollani Intendendo il jazz come un’estetica che trova nell’improvvisazione

la strategia per rinnovare, attraverso l’istinto, una struttura data. I see jazz as an aesthetics which finds its strategy for renewal of a given structure in improvisation, by means of instinct.

Danze/Dances Gesti sensibili. Sensitive gestures di Raffaella Giordano Il corpo per sapere deve esperire: toccare, sentire, vedere.

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La meccanica della rappresentazione si avvale di automatismi percettivi descritti dalla psicologia della forma e dalle altre teorie della percezione. What is sure is that in the visual arts, as in the theatre, the mechanics of the representation avail themselves of certain perceptive automatisms described by the psychology of the form and other theories of perception

Testo a fronte Glitch di Nino Aprea

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Reality show Fuori fuoco. Out of focus 58 Intervista ad Alessandro Bergonzoni L’uomo in questo momento antropologico di grande bassezza fa

dell’istinto strategia e della strategia l’istinto. At this anthropological moment of widespread baseness man makes strategy out of instinct and instinct out of strategy.

Sopravvivenze/Survival Homo homini lupus 66 Intervista a Luigi Boitani Potrei illustrare tutti i comportamenti che descrivono la socialità

Selezioni innaturali/Unnatural Selections Occhio al bersaglio. Watch out for the target 70 di Sandro Caldarelli Ciò che avviene durante la selezione di una persona che aspira a un

lavoro è paradigma di quell’eterno gioco che intercorre tra l’istinto e la razionalità. What happens during the selection of a person who aspires to a position acts as a paradigm of that eternal game which goes backwards and for wards between instinct and rationality.

Case-history Archivio di sapere. Knowledge archive 74 di Silvia Cavazza L’intuizione è stata quella di rinnovare i modi e le forme della divul-

Appunti Notebook

Senza catalogare, senza nominare. The body, to know, has to do, touch, feel, see. Without cataloguing, without naming.

Scene/Scenes A prima vista. At first glance Intervista a Claudia Castellucci

IV.

V.

gazione scientifica chiamando in causa anche gli esempi più alti del pensiero umanistico. The intuition at work was that of a renewal of scientific popularization, appealing to the most important names in humanistic thought.

La finestra Bow window

Cromoterapie/Chromotherapies Nell’intensità. In intensity 76 di Valentina Vezzani e Xia Liu È possibile usare il colore per definire l’identità di una città?

Can we use colour to define the identity of a city?

Orientamenti/Orientations You are here 84 di Paul Mijksenaar Ciò che vediamo oggi negli edifici è una totale noncuranza della

libertà potenziale di movimento del visitatore e nessuna possibilità di sviluppo di intuito spaziale. What we see in buildings today is complete disregard for the visitor’s potential freedom of movement and no opportunity for the development of spatial insight.

Primo piano/Close up Fatti salvo. Save yourself 92

del lupo impiegando gli stessi termini che userei per descrivere quella dell’uomo. I could illustrate all behaviour which expresses the sociality of the wolf using the same terms I would use to describe that of man.

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Lo stato delle cose funziona sempre più attraverso spinte molteplici, spesso anche contraddittorie, tanto che è impossibile venirne a capo se non abbracciamo con sguardo interdisciplinare una pluralità di visioni che è promessa di conoscenza. Accade così che dietro l’apparente contrapposizione di istinto e strategia, di intuizione e metodo, di celati imperativi inconsci e scelte consapevolissime scopriamo una complicità. Una qualità affatto lineare del nostro procedere quotidiano, una conversazione all’origine del discorso artistico e progettuale. Un confronto che può farsi ‘animato’ per sentenziare le ragioni del libero arbitrio e delle responsabilità di coscienza, oppure ‘sensibile’ per improvvisare in difesa dell’emozione del momento e dell’indeterminato. Le contraddizioni di un animale sociale che, oggi, nell’evitare gli altri sembra rispondere a un istinto di sopravvivenza. I paradossi di una società mediatica che anziché amplificare relazioni e rapporti, sostituisce alla lontananza la vicinanza, alla condivisione la solitudine. Come osserva Marc Augé, teorico dei non-luoghi, rischiamo sempre più di vivere nel nostro ‘appartamento’, cittadini di uno scenario urbano tanto sovramoderno quanto irreale. E quando percorriamo le nostre città, oscilliamo tra riflessi condizionati e istinti di ribellione alla cartografia di spazi strategicamente commercializzati e metodicamente prescrittivi. Salvo che la sorprendente capacità di adattamento all’ambiente e l’innata capacità umana di aggirare gli ostacoli non si traducano in tattiche di riappropriazione del territorio, come quelle descritte nelle pagine del reportage firmato da Scott Burnham. Trovare la direzione giusta è esercizio di innato senso dell’orientamento o capacità di decodificare segni convenzionali nella moltitudine di indizi? Sicuramente entrambe le cose ma, come suggerisce Paul Mijksenaar, non sempre istinti diffusi e strategie progettuali coincidono, anzi. Esistono poi tragitti obbligati che non possiamo scegliere di abbandonare perché non appartengono alla topografia dei centri urbani ma a quelli, altrettanto intricati, dei circuiti nervosi cerebrali. Ecco allora che la biografia si lega alla biologia, la libertà d’azione al vincolo genetico, la condotta personale all’istinto di conservazione della specie. Specie umana che non deve reputarsi riscattata dalla propria natura animale per riscoprire, come auspicato da Luigi Boitani, il rispetto per gli altri gruppi biologici e per l’ambiente che ci ospita. Edoardo Boncinelli spiega che l’albero decisionale di qualunque uomo affonda le proprie radici nelle aree più antiche del cervello. Di fatto, la mente è sempre l’ultima a sapere: valutazioni sensoriali ed emozionali sono percepite dalla coscienza solo dopo alcune frazioni di secondo, tanto che se le nostre risposte sono immediate non ci rendiamo conto del processo che le ha generate. Una vita costantemente in differita che nell’accellerazione di questa nostra epoca incorre in piccoli e grandi inganni, in tutte le illusioni cognitive analizzate dalla neuroeconomia. La ragione dell’intuito sembra continuare a sostenere il valore delle emozioni anche nelle logiche delle decisioni che si presumono soltanto razionali. Nella realtà aziendale, la selezione del personale da parte dei responsabili delle risorse umane appare davvero innaturale e, come osserva Sandro Caldarelli, le aspettative assolutamente contraddittorie. Istinto e strategia, dunque, indissolubili come il corpo e la mente. Un corpo, che attraverso le esplorazioni della danza contemporanea di

Raffaella Giordano, si fa strumento privilegiato di sapienza interiore e ulteriore. Fisicità che è vincolo morfologico come lo è altrettanto il patrimonio e l’ambiente culturale in cui nasciamo e cresciamo, per cui, come riflette Claudia Castellucci l’essere occidentali non ci consegna alla stessa visione dell’arte di chi è nato altrove. Senza dimenticare il vincolo antropologico che, nel bene o nel male, determina la nostra identità. La cosiddetta società della comunicazione, denuncia Alessandro Bergonzoni, si risolve nella presunzione di letture univoche e dogmatiche della realtà, in un lessico per addetti ai lavori che esclude l’alternativa del diverso. Strategia dell’ottundimento che si esaurisce nell’istinto di difesa delle proprie confortanti certezze e dell’efficienza produttiva della propria professione di ‘vita’. Rannicchiati nella rassegnazione abbassiamo lo sguardo per non rischiare di incontrare quello degli altri. Quando invece, come spiega Stefano Bollani, sono proprio l’empatia e le sfide dell’improvvisazione, a fare del jazz il genere musicale della contaminazione e della libertà di espressione. La stessa libertà artistica che ha condotto i protagonisti della Transavanguardia a trascendere recinti stilistici e di genere, per restituire le forme di quello che Achille Bonito Oliva definisce il ‘raffigurabile’. La rappresentazione di una realtà alternativa a quella esistente che John Ruskin avrebbe attribuito alla pura intuizione artistica perché, come scrive nelle pagine del suo Elementi del disegno, “non puoi decidere di predisporre un simile oggetto; puoi sempre vederlo e coglierlo, mai inventarlo laboriosamente”. Come da nostra tradizione, l’invito al lettore è quello di prendere parte alla conversazione in sommario, per ritrovare convergenze inattese e registrare inconciliabili divergenze. Anche questa volta la composizione è polifonica e, nelle sue variazioni sul tema, non teme dissonanze e varietà di registri. Perché, a ben notare, complesso non vuol dire complicato.

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[english] It is increasingly obvious that the state of things tends to work by means of multiple, often contradictory, drives which we cannot sort out, unless we use an interdisciplinary approach and embrace a plurality of visions, a promise of knowledge. So what happens is that behind the apparent opposition of instinct and strategy, intuition and method, veiled unconscious imperatives and fully conscious choices, we discover a complicity. A clearly linear feature of our daily affairs, a conversation at the origin of artistic and planning discourse. An encounter that can be ‘enlivened’ so as to rule upon free will and the responsibilities of consciousness or which can be ‘sensitive’ so as to improvise in defence of the emotion of the moment and the undetermined. The contradictions of a social animal who, today, in avoiding others seems to be reacting to an instinct for survival. The paradoxes of a ‘mediatic’ society which instead of stressing relationships, bonds, replaces the distant with the near, and sharing with solitude. As Marc Augé, theoretician of non-places, says, the risk is that increasingly we find ourselves living in our ‘apartment’, dwellers in an urban scenario as ultra-modern as it is unreal. And, passing through our cities, we oscillate between conditioned reflexes and instincts of rebellion against the cartography of strategically commercialised and methodically prescriptive spaces. Unless the surprising ability of human adaptation to the environment and the innate capacity to get round obstacles is not transformed into tactics of reappropriation of the territory, like those described by Scott Burnham. Is finding the right direction an exercise, exploiting an innate sense of orientation or is it a capacity to decode conventional signs to be found in a multitude of clues? Clearly both, but as Paul Mijksenaar points out, common instincts and planning strategies do not always coincide. On the contrary! And then there are the inevitable passages which we cannot choose to abandon because they do not belong to the topography of urban centres but those - just as intricate - of cerebral nerve circuits. Thus, biography ties up with biology, freedom of action with the genetic bond, personal conduct with the instinct for conservation of the species. A human species which should not consider itself redeemed by its animal nature but must, as Luigi Boitani hopes, rediscover respect for the other biological groups and the environment which hosts us. Edoardo Boncinelli explains that the decisional tree of any man has its roots in the oldest part of the brain. In actual fact the mind is always the last to know since sensorial and emotional assessments are perceived by the consciousness only after a number of seconds, so much so that if our reactions are immediate, we are not aware of the process which generated them. A life constantly deferred which, in the acceleration of our era runs into deceptions both small and large, in all the cognitive illusions analyzed by neuroeconomics. Intuition seems to go on sustaining the value of emotions also in a logic of decisions which are presumably just rational. In company thinking, the selection of personnel by human resources experts certainly appears unnatural, and expectations, as Sandro Caldarelli observes, are totally contradictory. So, instinct and strategy, indissolubile like the body and the mind. A body which, in the explorations of contemporary dance by Raffaella Giordano, becomes a favourite instrument of interior and further knowledge. Physicality, a morphological bond, as is the patrimony and cultural environment we are born into and which we grow up in. So as Claudia Castellucci

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observes, being western does not deliver us up to the same vision of art of those who are born elsewhere. Not to mention the anthropological bond which, for better or for worse, determines our identity. The so-called society of communication, Alessandro Bergonzoni reveals, resolves itself into the presumption of univocal and dogmatic readings of reality, in a lexis for insiders which excludes the alternative of the different. A strategy of dulling which consumes itself in the instinct for defence of one’s own comforting certainties and the productive efficiency of one’s own ‘life’ profession. Curled up in resignation, we lower our gaze, avoiding the risk of meeting that of others. Whereas, as Stefano Bollani explains, it is just the empathy and challenges of improvisation which make of jazz the musical genre of contamination and freedom of expression. The same artistic freedom which led the protagonists of the Transavanguardia to transcend stylistic and genre boundaries and to restore the forms of that which Achille Bonito Oliva defines the ‘depictable’. The representation of an alternative reality to that of the existent, which John Ruskin would have attributed to pure intuition on the part of the artist, as he writes in the pages of his Elements of Drawing, “you cannot set yourself to arrange such a subject; you may see it, and seize it, at all times, but never laboriously invent it…” As always, the reader is invited to participate in the conversation and rediscover unexpected convergences, register irreconcilable divergences. This time too, the composition is polyphonic and in its variations on a theme it is not afraid of dissonances and register varieties. To be sure, complex does not mean complicated.

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Osservatorio Bird Watching

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–Mente/Mind

Le stanze della coscienza The rooms of consciousness Nel descrivere la condotta umana si usa contrapporre all’impulso irrazionale il senno di poi, all’istinto la ragione. Quasi a suggerire che la riflessione dell’intelletto è confutazione del naturale sentire. La neuroeconomia ha messo poi allo scoperto quanto sia ingannevole la presunta razionalità di certe scelte, dimostrando che incorriamo sistematicamente in illusioni cognitive. La specie umana è davvero affrancata dalle predisposizioni che hanno origine nelle aree più antiche del nostro cervello? Almeno fino a centocinquantamila anni fa le strategie adottate dall’uomo erano quasi tutte suggerite tacitamente dall’istinto. Il mondo è cambiato e i problemi che l’uomo contemporaneo deve affrontare sono molto diversi rispetto a quelli di una volta. Se spesso il nostro comportamento è il risultato della complementarietà di istinto e raziocinio, altre volte tra le due istanze si genera un certo conflitto. Si tratta di una questione che le neuroscienze hanno affrontato approfonditamente nel corso degli ultimi trent’anni, arrivando alla conclusione interessante, ma pur sempre provvisoria, che nell’uomo esistono due diverse strategie decisionali. La prima corrisponde al cosiddetto Sistema Uno: un processo immediato e istintivo basato sulle prime apparenze ed espressione delle nostre naturali propensioni. Sebbene la velocità della scelta comporti un livello di approssimazione che spesso si traduce in inesattezza ed errore, si tratta di una modalità che utilizziamo continuamente nella vita di tutti i giorni. La stessa, ad esempio, che rende preferibile un prodotto che costa 9,99 euro rispetto a quello che riporta un prezzo di cartellino maggiore di un solo centesimo: riflettendoci, il risparmio è davvero insignificante ma la percezione immediata è che il primo sia decisamente più conveniente. La seconda strategia decisionale è detta Sistema Due: un processo razionale che, all’occorrenza, si contrappone e corregge la fallacia del Sistema Uno. D’istinto noi adottiamo sempre il primo sistema, perché non ci costa nessuno sforzo: è espressione di tutto il nostro corpo e trova la sua origine nell’area subcorticale del nostro cervello. Il Sistema Due è più rigoroso ma più elaborato e faticoso, richiede sforzo e impegno. L’istinto è parte dell’uomo ma, mentre negli altri animali è pressoché incontrovertibile, nella nostra specie può essere deviato, represso, se non invertito. Basti pensare che nonostante la paura istintiva del fuoco condivisa con gli altri animali, molti di noi si riuniscono con piacere attorno a un camino. A mediare fra la nostra spinta istintuale e la nostra capacità raziocinante interviene la capacità repressiva della corteccia cerebrale. Essa si basa sui principi dell’istinto ma accoglie anche ciò che abbiamo appreso attraverso l’esperienza e la cultura. Siamo dunque il risultato dell’interazione fra un’evoluzione biologica che ci conduce istintivamente in determinate direzioni e un’evoluzione culturale che ci introduce alla valutazione di aspetti diversi. Nella stragrande maggioranza dei casi le priorità dell’uomo di oggi sono complesse e non coincidono perfettamente con gli obiettivi dell’evoluzione biologica. In fondo la vita dell’uomo primitivo era governata da bisogni primari: scappare davanti a un predatore o affrontarlo, procurarsi da mangiare e trovare una partner per procreare. Neccessità che non sono scomparse, ma che la nostra cultura ha profondamente trasfigurato. Senza contare poi che l’artificiosità della nostra società ci porta a fare cose che a noi piacciono tantissimo, come andare al teatro o dedicarci all’arte, ma che dal punto di vista biologico non servono a niente. Attività che pur interessandoci e coinvolgendoci quanto le altre non sono contemplate dal nostro patrimonio genetico e non hanno un riscontro istintuale. Pertanto la strategie che interessano l’uomo contemporaneo sono ben altre da quelle della mera sopravvivenza. Che cos’è un’emozione? E che influenza ha nelle nostre scelte? Anche se inconsapevolmente, l’origine e il fine delle emozioni è strategico alle istanze di sopravvivenza. Hanno uno scopo ben preciso: farci vivere al meglio le

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Intervista a/interview with Edoardo Boncinelli

situazioni che ci troviamo ad affrontare. In altre parole, le emozioni ci indirizzano verso quello che sappiamo ci procurerà piacere e ci allontanano da quello che sappiamo ci darà dispiacere. Nel complesso sistema umano di elaborazione dei dati e delle scelte questa dinamica fondamentale e originaria non sempre è palese. Una visione essenzialmente utilitaristica della sfera emotiva che, di fatto, si scontra con la diffusa concezione tardo-romantica secondo cui le emozioni sono sempre gratuite e incomprensibili, massima espressione dell’ineffabilità dell’esistenza. In realtà, noi siamo saldamente incardinati al nostro corpo, strutturati sulle sue spinte. Se è pur vero che abbiamo la capacità di volare alto, di andare al di là di tutto questo, non dobbiamo mai dimenticare qual è l’impluso vitale all’origine della nostre scelte e delle nostre iniziative. Per millenni le emozioni sono state strettamente funzionali alla nostra sopravvivenza. Nel corso dell’evoluzione culturale sono state metabolizzate, sublimate e trasformate a tal punto da diventare quasi imperscrutabili. Tendiamo a rimuoverne l’origine, imputando la loro esistenza a quella regione immaginaria che gli inglesi chiamano out of the blue. Anche se l’uomo è libero di seguire condotte antibiologiche come il digiuno e la castità, gran parte delle nostre azioni continua ad avere una giustificazione biologica. Nel prendere una decisione, l’emozione vince sulla razionalità novantotto volte su cento, anche se in maniera più o meno consapevole. E se nel soppesare ragionevolmente i pro e contro di una scelta importante si arriva ad un impasse, la decisione finale spetta comunque all’emozione. In conclusione, rimaniamo ancora dei tipi molto emotivi. Esistono, allora, scelte pienamente consapevoli? Possiamo ancora parlare di responsabilità di coscienza e libero arbitrio? Su chi decide, non ho dubbi: decide il corpo. Il fatto è che la nostra tradizione culturale tende sempre a tenere separato il corpo dalla mente, attribuendo ad esso una funzionalità autonoma oggetto d’indagine della biologia. Mentre intediamo la psiche e l‘Io come una realtà dissociata dal corpo, terreno di indagine della psicologia, se non addirittura, della filosofia. È un atteggiamento assolutamente anacronistico, un errore che trova origine nella visione platonica dell’essere umano. Io sono il mio corpo. Per comodità posso parlare distintamente di emozione e ragione, di aree celebrali e di lesioni sottocorticali, ma in realtà tutto si tiene: non c’è nessuna netta separazione tra un aspetto e l’altro. È ormai evidenza scientifica (comprovata, ad esempio, dagli esperimenti di Benjamin Libet) che il nostro cervello prende una decisione diversi millesimi di secondo prima che io me ne renda effettivamente conto. Viviamo sempre in differita. Un preciso intervallo temporale separa la nostra consapevolezza del mondo da quella dei nostri sensi. La nostra coscienza giunge in costante ritardo. Può sembrare una limitazione della nostra libertà, ma è la natura dell’uomo e non possiamo sfuggirle. In fin dei conti, presa coscienza delle decisioni suggerite in prima battuta dal corpo, abbiamo la facoltà di accettarle o meno, e additirttura di sovvertirle. Se non c’è fretta, l’ultima decisione spetta sempre alla coscienza. Che origine ha la creatività? Nonostante si parli con molta disinvoltura di creatività e inventiva, in realtà, nessuno ha mai analizzato scientificamente questi fenomeni. Non sappiamo né dove né come nascano esattamente le nostre idee, soprattutto le nostre buone idee. Senza dubbio però nascono in un terreno che attinge tanto alle emozioni e all’istinto quanto alla nostra ragione e al nostro patrimonio di sapere. Quasi sempre la creatività nasce da una solida conoscenza. E dall’assenza di paura di essere diversi e di andare contro la tradizione. La natura della creatività è ibrida. Bisogna infatti fare attenzione a non privilegiare, impropriamente, soltanto la sfera emotiva. Per rompere gli schemi è prima necessario conoscerli profondamente. Nella scienza, nella filosofia, nell’arte, nella musica o nella letteratura il vero creativo è persona di grande cultura, con un interesse quasi ossessivo per la propria materia.

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Osservatorio Bird Watching


LE STANZE DELLA COSCIENZA The Rooms of Consciousness Se come tutti gli altri animali siamo stati forgiati per affrontare i rischi e i contrattempi di un ambiente circostante ostile e infido, l’innaturale senso di sicurezza garantito dal progresso rischia in parte di destabilizzarci? Il nostro è un corpo assetato di emozioni. Da sempre il nostro sistema nervoso, come anche il nostro sistema endocrino, è talmente abituato alle emozioni da esserne quasi assuefatto. La mancanza di movimenti emotivi genera uno straniamento. Anche se l’uomo contemporaneo continua a provare emozioni, queste sono di tipo diverso e generalmente non sono così forti come in passato. Nessuno vuole negare che il non dover stare sempre in allerta di imminenti pericoli o di non dover difendere la propria vita e quella del propri cari da predatori e avversari costituisca un grande progresso. Ma il nostro corpo e, di conseguenza, la nostra mente si ritrovano un po’ avviliti dalla carenza di emozioni totalizzanti e capaci di produrre adrenalina. È una situazione esistenziale che non era stata prevista dalle diverse componenti del nostro patrimonio genetico, e noi ne paghiamo lo scotto a livello psicologico. L’uomo per rispondere a questo stato delle cose ha due opportunità. Quella meno auspicabile consiste nel subire passivamente una simile repressione emotiva, percependo tutto il vuoto di una vita senza senso: è la cosiddetta depressione, la cosa peggiore che possa accadere perché toglie il fulcro alla leva dell’esistenza, immobilizzando l’uomo. L’altra è quella di imparare a reinventare le emozioni, ad esempio, dedicandosi a un’attività sportiva che comporta competizione, giocando in Borsa con tutti i rischi del caso o impressionandosi nel guardare un film horror. Insomma, come si dice comunemente, cercare di dare un senso alla nostra vita. È l’equilibrio che l’umanità sta cercando di trovare ricercando le emozioni giuste, sia individualmente che collettivamente. In un mondo tanto prevedibile e relativamente sicuro, è sempre importante non dimenticare di emozionarsi ancora, trasfigurando in senso umano le emozioni di una volta. L’ideale sarebbe poterle convertire tutte, trasformando quelle evocate da questioni di vita o di morte in emozioni risvegliate da interessi, divertimenti, passioni. Dobbiamo continuare a permetterci una vita emotiva intensa, anche se un poco più rarefatta e astratta. Magari lasciandoci emozionare dall’ascolto di un brano musicale o appassionandoci a una bella rappresentazione teatrale. Ecco, passione è una parola chiave: senza passione non si vive. L’essere umano di oggi è il risultato di una lotta culturale per l’affermazione di valori estranei all’istinto animale e che predilige il dubbio alla certezza della semplificazione, per non escludere dalle nostre categorie mentali il diverso, l’altro, la paura? Oppure, provocatoriamente, un valore etico come l’altruismo è mascheramento delle stesse strategie di sopravvivenza della specie che subordinano le ragioni del singolo alla salvezza del gruppo? Attenzione: non ha senso parlare dell’uomo di oggi come se fosse diverso da quello di ieri. Non ci dimentichiamo che il nostro primo scopo è sopravvivere e, quindi, qualsiasi cosa facciamo sostanzialmente ha lo scopo di farci tirare avanti. In buona parte certi aspetti della realtà non li vediamo semplicemente perché c’è una limitatezza di percezioni. E poi, ovviamente, c’è una certa tendenza a buttarsi dietro le spalle le cose più spiacevoli. Un’inclinazione che, quando più quando meno, è anche indotta dall’ambiente circostante e che varia molto da individuo a individuo come da una fase all’altra della sua esistenza. Culturalmente ci possono essere lievi modifiche della nostra spontaneità biologica. Sempre lievi, perché la storia dimostra che al momento opportuno l’uomo ritorna ad essere l’animale che è sempre stato. Appena si allenta il tessuto sociale, appena si allenta la presa dei cosiddetti valori, oppure quando è la società stessa a sviluppare valori diversi, ritorna la spontaneità, cioè la biologia. E il sentimento umano per eccellenza, l’amore? L’uomo è protagonista di un periodo infantile che, in pratica, non finisce mai. Un’osservazione emersa tante volte, ma la cui portata a mio avviso non è stata ancora sufficientemente percepita. Mentre a mio avviso rappresenta una delle caratteristiche fondamentali in grado di segnare la differenza tra la specie umana e le altre specie animali. Di fatto, da quando nasciamo fin quando diventiamo potenzialmente riproduttivi passano circa quindici anni. Nella società occidentale poi, il momento riproduttivo ritarda ancora di qualche anno. Pertanto, un po’ per conformazione biologica, un po’ per formazione culturale, l’uomo resta bambino molto a lungo. Del resto, il nostro cervello è talmente grande e complesso da richiedere uno sviluppo lento, che si protrae per molti anni dalla nascita. Questo lunghissimo periodo nel quale impariamo tante cose e facciamo un po’ i cucciolotti approfittando delle cure della famiglia e delle istituzioni, rappresenta anche un prolungamento smisurato del rapporto madre-figlio. Un legame che invece

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–Mente/Mind nel resto del mondo animale dura normalmente qualche mese o, al massimo, un anno e mezzo. La conseguenza è che gli uomini tendono a proiettare il rapporto figlio-madre, ma anche quello madre-figlio, su una serie di situazioni per le quali non era concepito. Per esempio, siamo in grado di riconoscere le persone una per una durante tutto il corso della nostra esistenza, mentre la maggior parte degli animali selvatici può farlo soltante durante il periodo dell’allattamento, quando il cucciolo deve necessariamente saper individuare la madre e viceversa. La vita dell’uomo è segnata dall’attaccamento nei confronti dell’altro, versione tutta umana del rapporto tra individui della stessa specie. Un fenomeno strettamente correlato alle istanze sessuali e riproduttive. Se è assolutamente evidente che, alla stregua di tutti gli altri animali, anche l’uomo adulto tende a cercare partner dell’altro sesso per riprodursi, la differenza sta nel fatto che questo bisogno può passare in secondo piano, assumendo elaborate forme indirette. Secoli di letteratura raccontano dell’amore come un sentimento che trascende la materialità delle nostre esistenze. In realtà oggi sappiamo benissimo che è una trasfigurazione specificatamente umana di processi di attaccamento correlati alla procreazione. Un matrimonio del tutto speciale tra i bisogni dell’infanzia e i bisogni della riproduzione. [english] When describing human behaviour we tend to oppose irrational impulse and hindsight, instinct and reason. Almost as if to suggest that the reflection of the intellect is the confutation of natural feeling. Neuroeconomy has led us to discover how deceptive the presumed rationality behind certain choices is, demonstrating that we systematically run into cognitive illusions. Is the human species really freed of predispositions which originated in the oldest parts of our brain? At least up until a hundred and fifty thousand years ago the strategies adopted by man were almost all suggested tacitly by the instinct. The world has changed and the problems that contemporary man has to face are very much different to those in the past. Often, our behaviour is the result of the complementarity of instinct and reasoning, but at other times a certain conflict is generated between the two. This is a question which the neurosciences have studied a great deal the last thirty years, arriving at the interesting but temporary conclusion that in man two different decisional strategies exist. The first corresponds to the so-called System One, an immediate instinctive process based on the first appearance and expression of our natural inclinations. Though the speed of the choice implies a level of approximation which often translates into inexactness and error, we utilize it continuously in everyday life. For example, we are using it when we see a product priced at 9,99 euro which we find preferable to10,00 euro. Obviously what we save is really insignificant but the immediate perception is that the first is decidedly cheaper. The second decisional strategy is called System Two, a rational process which. when needed, counters and corrects the fallaciousness in System One. Instinctively, we adopt the first system always, because it costs us nothing in terms of effort. It is the expression of our whole body and originates in the subcortical area of our brain. Systen Two is more rigorous but more elaborate and tiring, it requires effort and commitment. Instinct is part of man but, whereas in other animals it is practically incontrovertible, in our species it can be deviated, repressed, or even inverted. For example, despite the instinctive fear of fire shared with other animals, many of us like gathering around a fire. Mediating between our instinctive drive and our rational capacity, a repressive capacity of the cerebral cortex intervenes. It is based on the principles of instinct but it also welcomes that which we have learned through experience and culture. Thus, we are the result of the interaction between biological evolution which leads us instinctively in certain directions and a cultural evolution which introduces us to evaluation of other aspects. In most cases the priorities of man nowadays are complex and do not coincide perfectly with the objectives of biological evolution. Basically the life of primitive man was governed by primary needs, escaping from a predator or facing one, getting food to eat and finding a partner, i.e., procreation. Needs which have not disappeared but which our culture has transformed significantly. Not to mention the fact that the artificiality of our society leads us to do things we like a lot, like going to the theatre or dedicating ourselves to art but which from a biological viewpoint we don’t need. Activities which, although interesting us and involving us, like others, are not contemplated by our genetic patrimony and have no instinctive justification. So the strategy which concerns contemporary man goes way beyond those of mere survival. What is an emotion? And how does it influence our choices? Albeit unconsciously, the origin and the end of emotions is strategic and concerns survival. They have a clear scope, i.e., making the best of the situations we have to face. In other words, emotions direct us towards what we know will procure pleasure for us and keep us away from what we know causes displeasure. In the complex human system of data elaboration and choices, this fundamental, original dynamic is not always clear.

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2.5 minutes (from 18-28 to 18-31), Il groviglio sullo sfondo è rappresentazione grafica, generata dal software di elaborazione dati IOGraph, dei movimenti del mouse (linee) e delle pause (punti) che hanno condotto alla composizione del frame in primo piano. 2.5 minutes (from 18-28 to 18-31), The tangle in the background is a graphical representation - generated by IOGraph data elaboration software - of the movements of the mouse (lines) and pauses (dots) producing the composition of the frame in the foreground.

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LE STANZE DELLA COSCIENZA The Rooms of Consciousness A basically utilitarian vision of the emotional sphere which actually clashes with the widespread late-Romantic conception according to which emotions are always free and incomprehensible, maximum expression of the ineffability of existence. In fact, we are solidly grounded in our bodies, structured in its drives. Whereas it is true that we are able to fly high, to go beyond all this, we should never forget what is the vital impulse behind our choices and our initiatives. For thousands of years emotions were strictly linked to our survival. During cultural evolution they have been metabolized, sublimated and transformed so much that they have become almost incomprehensible. We tend to remove their origins, imputing their existence to that imaginary region the English call out of the blue. Even though man is free to behave in an anti-biological way like fasting or chastity, most of our actions continue to have a biological justification. In taking a decision the emotion beats rationality 98 times out a 100, though in a more or less conscious fashion. And in weighing reasonably the pros and cons of an important choice one arrives at an impasse - the final decision in any case awaits the emotion. In short, we remain still very emotional individuals. So, do fully conscious choices really exist? Can we still speak of conscious responsibility, free will? About who decides, I have no doubts: the body. The fact is that our cultural tradition tends always to keep separate the body from the mind, attributing to it an autonomous functionality, the object of biological investigation. While we consider the psyche and the I as a reality dissociated from the body, the investigative ground of psychology, or even philosophy. It is totally anachronistic, an error which derives from the Platonic vision of the human being. I am my body. To make things easier I can speak clearly of emotion and reason, cerebral areas and subcortical lesions but actually everything holds: there is no clear separation between one aspect and the other. There is now scientific evidence (proven for example by the experiments of Benjamin Libet) that our brain takes a decision some thousandths of a second before I actually become aware of it. We are always behind. An exact temporal interval separates our awareness of the world from that of our senses. Our consciousness is always arriving late. It might seem a limitation of our freedom but it is the nature of man and we cannot escape it. In the end, becoming aware of the decisions suggested first by the body, we have the ability to accept them or not and even subvert them. If there is no rush, the ultimate decision always awaits consciousness. What is the origin of creativity? Though we speak with a certain flippancy about creativity and inventiveness, in fact, no-one has ever analysed these phenomena scientifically. We do not know where or how our ideas are born exactly, above all our good ideas. However, they are born into a condition which draws equally on the emotions and instinct as much as reason and our patrimony of knowledge. Almost always, creativity comes from solid knowledge. And from the absence of fear of being different and of going against tradition. The nature of creativity is hybrid. We need in fact to be careful not to favour, improperly, only the emotional sphere. To break the patterns it is first necessary to know them well. In science, philosophy, in art, music and in literature, the really creative individual is a person of great culture with an almost obsessive interest in his own subject. If, like all other animals, we have been moulded to face the risks and setbacks of a hostile, treacherous surrounding environment, does the unnatural sense of security guaranteed by progress risk destabilizing us partially? Ours is a body thirsting for emotions. It has always been the case that our nervous system, like our endocrine system, is so used to emotions to be almost inured. The lack of emotional movement generates estrangement. Though contemporary man continues to feel emotions, these are different and generally not as strong as in the past. No-one wishes to deny that not being on the alert all the time in the expectation of danger or not having to defend our own lives and our dear ones from predators and enemies, has been a great step ahead. But our body and consequently, our mind, find themselves a little dejected by the lack of totalizing emotions, capable of producing adrenalin. It is an existential situation which the different components of our genetic patrimony do

–Mente/Mind not expect and we pay the penalty on a psychological level. Man, to react to this state of things has two opportunities. The one less to be desired is undergoing passively such an emotional repression, perceiving all the void of a life without sense. This is so-called depression, the worst thing that can happen because it removes the fulchrum at the lever of existence, immobilizing man. The other is that of learning to reinvent the emotions, for example, dedicating oneself to sports, which imply competition, betting on the Stock Exchange with all its risks, or scaring ourselves watching a horror film. Basically, trying to give a sense to our lives. It is the equilibrium which humanity is trying to find by seeking the right emotions, individually and collectively. In such a predictable, and relatively safe world it is always important to remember to be moved still, transforming in a human sense the emotions of the past. The ideal would be to be able to convert all of them, transforming those evoked by life or death questions into emotions awoken by interests, amusement, passion. We have to continue to allow ourselves an intense emotional life, even though more rarefied and abstract. Perhaps being moved by listening to a piece of music or getting passionate about a theatrical production. So, passion is a keyword, without passion we do not live. Is the human being today the result of a cultural struggle to give animal instinct alien values: preferring doubt to the certainty of simplification so as not to exclude from our mental categories the different, the other, or fear, even? Or, as a provocation, does an ethical value like altruism simply mask the survival strategies themselves of the species which subordinates the needs of the individual to the salvation of the group? We must be careful! It makes no sense to speak of today’s man as if he were different to yesterday’s. Don’t forget that our primary scope is survival and therefore whatever we do, basically, is done because it allows us to cope. On the whole, we don’t see certain aspects of reality simply because perception is limited. Then, obviously, there is a certain tendency to throw out the most unpleasant things. An inclination which, sometimes more sometimes less, is also prompted by the surrounding environment and which varies a great deal from one individual to the next , as when he passes from one phase to another of his existence. Culturally there can be slight modifications of our biological spontaneity. Slight, though, because history has shown that at the right moment man goes back to being the animal he has always been. As soon as the fabric of society loosens, as soon as the grip of so-called values loosens, or when it is society itself which develops different values, spontaneity, i.e., biology, returns. And the human sentiment par excellence, love? Man is protagonist in an infantile period which in practice never ends. An observation which has emerged many times, but whose importance I think has not yet been sufficiently perceived. Whereas I think it is one of the fundamental characteristics, it signals the difference between the human species and others. From our birth until we become potentially reproductive about 15 years go by. In western societies the reproductive moment is delayed some years. Therefore, partly because of cultural formation, man stays a child a long time. Anyway our brain is so big and complex it requires slow development, which is prolonged for many years after birth. This very long period, in which we learn so many things and behave a little like cubs taking advantage of the safety of the family and institutions, is also a huge prolongation of the mother-child relation. A tie which, in the rest of the animal world lasts normally a few months or at most a year and a half. The result is that men tend to project the child-mother relation but also the mother-child one on to a series of situations for which it had not been conceived. For example we are able to recognise people one by one during the whole course of existence while most wild animals can do it only during the period of suckling when the baby necessarily has to know how to recognise the mother and vice versa. The life of man is distinguished by attachment to the other, an entirely human version of the relation between individuals of the same species. A phenomenon closely associated with sexual and reproductive activity. While it is certainly clear that unlike all other animals the adult man tends to seek out his partner from the other sex to reproduce, the difference is in the fact that this need can be put aside, and elaborate indirect forms can be assumed. Centuries of literature tell of love as a sentiment which transcends the materiality of our existences. In fact, today we know very well that it is a specifically human transformation of processes of attachment linked to procreation. A totally special matrimony between the needs of childhood and the needs of reproduction. a cura di/by Maurizio Rossi

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Leon Battista Alberti, Basilica di S. Maria Novella, Firenze. Leon Battista Alberti, Basilica di S. Maria Novella, Florence.


–Frontiere/Frontiers

Il corpo dell’arte The body of art L’istinto dell’artista. La forze che generano un’opera d’arte sono ben altro del luogo comune dell’intuizione immediata e del colpo di genio? La mia è una formazione e un’avventura intellettuale che trae origini dal pensiero negativo, dalla filosofia tedesca e dallo strutturalismo francese. Il senso di questa domanda è quanto mai attuale: definire quali siano le dinamiche che descrivono un’opera d’arte, sia nella sua fase di produzione che di fruizione, è ancora oggetto di discussione. Una mia possibile risposta è ancora sintetizzata nel titolo del primo libro che ho pubblicato quarant’anni fa, Il territorio magico, con l’intenzione di proporre una lettura dell’arte sia nella prospettiva interna di colui che la produce sia nella prospettiva esterna del pubblico e della società a cui si rivolge. Senza dubbio l’arte risponde in prima istanza a un’istinto individuale dell’artista che poi, all’esterno, incontra una lettura capace di contestualizzare e allargare l’impulso soggettivo all’intera società. L’arte ha una valenza antropologica: è il tentativo da parte dell’artista di ‘riparare’ col suo gesto a una parzialità in cui il mondo lo sottopone, per restituire un legame all’idea di totalità e ricongiungersi con il mondo. Attraverso l’atto creativo, l’artista elabora il lutto di un distacco. Perché l’arte rifonda una speranza, un desiderio di totalità. Arte come produzione biologica.... O come respiro bilogico. Sulla biologia dell’arte ha scritto dei bellissimi testi Rosario Assunto, filosofo molto solitario e coraggioso che ha saputo restituire molto bene questa idea dell’arte che ripara a un lutto, del gesto creativo che restituisce totalità al soggetto che lo compie. L’arte, attraverso i suoi specifici strumenti e il suo linguaggio, si pone sempre in confronto e in rapporto dialettico con il mondo esterno. “L’arte puntata sul mondo”, per citare Picasso. In questo senso l’arte possiede una costante e inevitabile valenza politica che però non assume la forma del ‘ricalco’: non passa attraverso l’emulazione o il complesso di inferiorità che invece colpì molti artisti e intellettuali nel Sessantotto. Persuasi che l’arte fosse una risposta, una soluzione ai problemi dell’umanità, moltissimi in quel periodo divennero angeli custodi del ciclostile. Mentre l’arte è una domanda sul mondo. E tende sempre a risposte problematiche. Proprio in virtù delle problematicità sollevate l’arte assume una valenza politica. Perché in un contesto anestetizzato dalla spettacolarizzazione telematica l’arte è chiamata a catturare l’attenzione e scuotere l’immaginario collettivo. Un’opera d’arte deve massaggiare il muscolo anestetizzato e atrofizzato di una contemplazione collettiva che si è ridotta a quella che io chiamo ‘sensibilità pellicolare’. L’arte buca l’indifferenza e riveglia criticità assopite. È come un sistema di allarme che solleva il problema di ciò che noi vogliamo percepire e allerta su ciò che non decidiamo di consumare. Il linguaggio artistico promuove perciò nuovi processi di conoscenza e, in questo senso, pur nascendo nell’istintualità di un gesto asociale diventa poi un gesto sociale. Parafrasando l’affermazione provocotaria di Kokoschka “Assassino speranza delle donne”, in passato ho scritto “Artista e assassino speranza della vita”. L’istinto artistico nasce sempre solitario e antagonista: l’artista non è un inviato speciale della realtà, ma è un inviato speciale contro la realtà. Egli non svolge un ruolo calmiere o infermieristico, ma necessariamente allarmato e allarmante. E dunque l’atto iniziale propositivo della creazione è un’atto di autodifesa da parte dell’artista: egli produce bellezza e la bellezza – come scriveva Leon Battista Alberti – è una forma di difesa nella vita. Oppure – come sosteneva Baudelaire – la bellezza è una promessa di felicità. Per questo l’arte è a colori. Non è affatto quaresimale come andavano proponendo nel Sessantotto tanti designer e sentinelle del Nulla, perpretando un riduzionismo autopenalizzante da fioretto controriformistico. Anche se l’arte nasce da una negatività come impluso all’elaborazione di un lutto, il grande miracolo è che supera la dimensione solitaria dell’individuo per diventare un gesto capace di agganciare il sociale e magari sgambettarlo! La grandezza del linguaggio dell’arte risiede proprio in questa sua capacità di arrivare a intercettare la vita e la società. L’arte ha bisogno

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Intervista a/interview with Achille Bonito Oliva

dello sguardo: è sanamente narcisista. E il narcisismo è il motore ecologico di tutta l’umanità, rappresenta quella pulsione affermativa di vita che induce ognuno di noi a restituire una cifra stilistica, una forma, un’immagine, una scrittura del nostro passaggio. Mentre la vanità è soltanto il pret-à-porter del narcisismo. E la Transavanguardia quale pulsione propone rispetto al concetto di avanguardia? Ho adottato proprio il prefisso trans- proprio per segnalare un’idea di transizione dell’arte in un contesto di post-modernità: la volontà e la capacità di recuperare il passato senza ricadute nostalgiche. In primo luogo recuperarando la pittura come linguaggio, pur se all’insegna di un matrimonio morganatico tra Picasso e Duchamp. La Transavanguardia ha rappresentato il recupero dell’espressività e della soggettività insita nella pittura. Ma la citazione di stili del passato assume la forma del ready-made. Così all’erotismo materico del linguaggio pittorico, si accompagna comunque un aspetto concettuale. E dunque non rappresenta un ribaltamento dell’idea sperimentale delle avanguardie, ma il superamento di quell’ideologia del darwinismo linguistico che implicavano. All’origine delle avanguardie storiche c’è un’idea evoluzionistica lineare e progressiva dell’arte: ogni movimento, in virtù delle nuove tecniche e dei nuovi materiali sperimentati, rappresenta il superamento progressivo di quello precedente. Come se l’arte consistesse di sola techne. La Transavanguardia, attraverso il riconoscimento della soggettività dell’artista, formula una risposta all’impersonalità e all’oggettività che ha caratterizzato correnti di origine nord americana come la Minimal Art e l’Arte Concettuale, e recupera attraverso la memoria un genius loci e una specificità che, per lunghezza d’onda, solo l’arte europea poteva - e può tuttora- proporre. Non a caso, con la Transavanguardia c’è un ribaltamento miracoloso anche degli equilibri del sistema dell’arte. Più volte, infatti, mi trovo a definirla come il primo movimento no-global perché, rispetto ai movimenti statunitensi, promuove istanze glocal sintetizzando identità soggettiva, genius loci e superamento dei confini. Una visione lontanissima da quella di alienazione globalizzante che, tuttavia, non ripiega neanche nel localismo territoriale. Di fatto, mantiene la capacità di coniugarsi in linguaggio internazionale mantenendo quello che De Saussure avrebbe definito idioletto, ovvero l’accento personale del soggetto. Perciò transavanguardia non significa anti-avanguardia. Coniando questo termine e sviluppandone la teoria critica ho voluto oppormi a quelle che erano le mode del momento, quando accanto al sostantivo arte si adoperavano aggettivi come concettuale o povera. Il poverismo non era altro che la riposta moralistica e francescana alla società dell’opulenza: moralismo che non puntava affatto sull’autonomia dell’arte, ma sulla sua eteronomia e dipendenza consociale. Invece l’urgenza dell’arte, a mio avviso, è quella di collegarsi con l’esterno attraverso un antogonismo che è frutto di una fuoriuscita dall’originaria solitudine fin verso la contemplazione da parte dello sguardo altrui, la socializzazione e il consumo dell’arte. Se il risultato della precettistica dell’Arte Concettuale è un’opera d’arte smaterializzata nell’anoressia, la produzione della Transavanguardia le restituisce corpo, fisicità e forme attraverso nomadismo ed eclettismo stilistico. Con la sua idea di transito ha superato anche in architettura l’impasse del post-modernismo, là dove il prefisso post- era proprio in polemica con il modernismo e il razionalismo architettonico. Trans è invece un prefisso ancora attualissimo in tempi in cui complessità e ambiguità continuano a dimostrarsi necessarie. E se in passato l’influenza della Transavanguardia ha reso meno monocromatica l’Arte Povera, i progetti di tante archistar contemporanee continuano a declinare la pratica della contaminazione, della riconversione e del nomadismo. Dare un nome all’indicibile. Come si concilia l’istinto contingente dell’atto creativo con la fase della titolazione? Prima che critico d’arte, sono stato poeta visivo. Provengo dalla letteratura, dal Gruppo 63. Ogni volta che scrivo un libro dedico grande attenzione al titolo,

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Hugo Ball recita una poesia sonora al Cabaret Voltaire, 1916. Hugo Ball reciting a sound poem in the Cabaret Voltaire, 1916.

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IL CORPO DELL’ARTE The Body of Art perchè rappresenta l’illuminazione iniziale sul pensiero che verrà esposto. E, senza presunzione, credo di aver scelto sempre dei bellissimi titoli. Con il poverismo l’artista per mortificare l’accento soggettivo della sua immaginazione e afferamare il valore processuale dell’opera si era ridotto all’anonimato e al Senza titolo. A testimoniare che l’opera non era la forma finale, non era il risultato, bensì il suo ‘farsi’ come processo attivo di associazione di materiali. L’artista della Transavanguardia sviluppa invece un ulteriore passaggio, a mio avviso, più coraggioso: recupera l’orgoglio del tentativo di approdare alla forma, al finale dell’opera. Opera che, come un qualsiasi bambino che viene al mondo dopo mesi di gestazione, ha infine bisogno di un nome. In astratto o, attraverso l’immagine figurativa, l’opera d’arte conferma un suo aspetto finale, forma conclusa di valori estetici che negli anni Sessanta venivano combattuti e visti come peccatti veniali di un artista che invece era chiamato a mortificarsi e penalizzarsi. A metà degli anni Settanta, dopo la crisi del linguaggio esclusivamente concettuale, l’arte recupera le ragioni del soggetto: la Transavanguardia riscopre l’autonomia dell’opera e, quindi, la sua nominazione. Al di là dell’astrattismo e del figurativismo. Perché davanti a un’opera di De Dominicis, di Chia o di Cucchi posso chiudere il giudizio facendo riferimento a queste due categorie di appartenenza. Sono convinto che esista un’altra categoria alternativa alla figurazione, quella del ‘figurabile’: un linguaggio che slitta, retrocede e si sposta perché liquido. E la Transavanguardia ha prodotto un figurabile che ha più a che fare con la disponibilità al movimento della materia liquida che alla staticità dei solidi. Land Art. Paesaggio non indifferente e nuove mappe mentali. Quale relazione tra spazio privato, spazio pubblico e spazio sociale? La Land Art è un linguaggio straordinario nato in America negli anni Sessanta e, solo successivamente, sperimentato anche da noi in Italia. Se la Pop Art è l’arte urbana - la società dei consumi che trova classicità attraverso il suo Raffaello che è Andy Whorol - la Land Art ne rappresenta l’antitesi. Le opere di esponenti come Morris, Smithson e Oppenheim sono espressione dell’antropologia pioneristica dell’uomo americano e di un’idea dell’innocenza della natura. Un rapporto della dimensione umana in scala con il paesaggio, attraverso interventi che necessitano di grandi spazi e tecnologie. In Christo la sensibilità europea incontra la dimensione americana: l’occultamento (procedimento mutuato da Man Ray e dal Surrealismo) trova applicazione sul building d’oltreoceano, celando/segnalando la costa californiana. La forza dell’imprevisto. Il gesto d’arte nello scenario urbano, tra interazioni fuori programma e gioco collettivo. Alla base di tutto questo, c’è la grande lezione delle avanduardie storiche. Basti pensare alle serate futuriste, dove la rissa era uno scontro che voleva arrivare – senza nessuna metafora - al corpo a corpo, nel tentativo di intervenire su ogni aspetto del reale per smuovere dall’immobilismo la civiltà contadina di un’Italia ancora pre-industriale, introducendo valori come velocità e aggressività. I futuristi, e per primo Marinetti, sono stati interventisti per antonomasia e per quindici anni hanno svolto un ruolo rivoluzionario autonomo e indipendente, per poi invece consegnarsi nel 1922 all’abbraccio mortale con il Fascismo. Del resto, lo stesso Antonio Gramsci sulle pagine del secondo numero di Ordine Nuovo, rivista diretta da Pietro Gobetti definiva i futuristi autentici artisti di avanguardia per il rinnovamento prodotto nel linguaggio e creativi rivoluzionari perché produttori di un’arte nuova, adatta a quella classe - il proletariato - per la quale gli artisti e gli intellettuali della sinistra non facevano nulla. Senza dimenticare il Dadaismo, il movimento che forse amo di più proprio per quel suo nichilismo attivo. Un’avanguardia dichiaratamente intransigente e che produce anti-arte, sperimentando nelle serate del Cabaret Voltaire la prima forma moderna di creatività interdisciplinare e multimediale: la performance. E poi, naturalmente, il Surrealismo: il recupero dell’effetto sorpresa, l’emergere dell’inconscio e delle pulsioni interne. Il teatro di Artaud che riaffiorerà poi nelle rappresentazioni del Living Theatre. Tutte premesse che condurranno all’happening americano e agli eventi collettivi con cui il Gruppo Fluxus irromperà nella routine dello scenario urbano. Una stagione che ha come nume tutelare John Cage e che vede protagonisti artisti come Patterson, Schmit, Gosewitz, Maciunas. Interventi che, nella geometria produttiva delle città, richiamano la partecipazione del pubblico per esercitare un’azione creativa: non funzionale e fuori da ogni logica economica. Gesti capaci di scuotere e di bucare la disattenzione diffusa, introducendo l’improvvisazione, l’inatteso e lo sgambetto chiamando direttamente in causa lo spettatore. Per rinnovare l’utopia ereditata dalle avanguardie storiche: la riduzione della distanza tra arte e vita.

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–Frontiere/Frontiers

Lei ha frequentato e condiviso la vita di molti artisti oggetto della sua attività di critico d’arte. Quanto è importante l’istinto e la strategia di colui che interpreta i fenomeni? Ho scelto di dar corpo al critico e di conferire protagonismo alla sua figura attraverso i tre livelli di scrittura che, a mio avviso, è tenuto a praticare: quello saggistico tramite i libri, quello espositivo tramite le mostre, quello comportamentale tramite la propria vita. Quest’ultimo livello era del tutto assente: il critico era un servo di scena, una figura laterale che ancora accettava supinamente la tradizionale gerarchia rispetto all’artista. Come insegnava il sapere scolastico, prima veniva l’intuizione oscura dell’artista e poi la riflessione critica. Ebbene, io credo che in una società come quella attuale dove vige la divisione del lavoro intellettuale, l’artista e il critico siano figure complementari: colui che crea e colui che riflette. Già nel 1962 avevo teorizzato il sistema dell’arte, questa sorta di catena di Sant’Antonio che mette necessariamente in relazione più soggetti, ciascuno portatore di una propria professionalità: l’artista, il critico, il gallerista, il collezionista, il direttore di museo, i media e, infine, il pubblico. Negli anni si sono poi aggiunte le aste e le fiere internazionali, configurando un sistema dell’arte globale. In un simile contesto il critico, come credo di aver dimostrato, è portatore di una doppia parola: la prima nella solitudine della propria attività di teorizzazione e scrittura, la seconda nella convivialità socratica del vivere con gli artisti. Frequentare gli artisti è stata una mia necessità. Ma non come medico condotto dell’anima artistica o angelo custode, piuttosto come angelo sterminatore. Mi piace stare con gli artisti con cui ho in comune lo scambio della parola, la verifica, il senso del gioco, la costruzione di un’avventura intellettuale che può prendere la forma di una mostra, di una teoria, di un movimento. Rappresento l’affermazione di protagonismo del critico d’arte. Ho cominciato curando la prima mostra Amore mio a Montepulciano: nel catalogo dell’esposizione ogni artista aveva a disposizione nove pagine e io ho scelto di pubblicare su nove pagine una mia stessa fotografia scattata da Mulas, accompagnadola con una riflessione sulla morte ripresa da Nietzsche. Dopo la mia autosegnalazione su Bolaffi Arte, nel 1988-89 i miei nudi sulla rivista Frigidaire hanno reso visibile il corpo del critico messo a nudo dall’arte. La mia avventura professionale ormai quarantennale si è sempre sviluppata intorno a questa idea di critica che condivide con l’arte uno stesso impulso creativo. Se quest’ultima risponde al proprio istinto attraverso la produzione di immagini, la critica esprime la propria creatività attraverso la scrittura e le altre attività attinenti. Tuttavia, sia l’arte che la critica sviluppano un rapporto conflittuale con l’esterno, guidate dal desiderio di un dialogo maturo con il mondo che le circonda. L’arte puntata sul mondo – per concludere citando ancora Picasso – non è un’arte che spara per colpire: il mondo è il suo bersaglio ma solo in virtù di un moto di autodifesa che contrappone il Bello come promessa di felicità. E così, abbiamo finito in bellezza. [english] The instinct of the artist. Are the forces which a work of art generates so different to the cliché of immediate intuition and the stroke of genius? My background has been an intellectual adventure and has its origins in negative thought, German philosophy, French structuralism. The importance of this question is more relevant than ever and defining what the dynamics which describe a work of art are, in both the phase of production and then enjoyment, is still under discussion. One possible answer is still synthesized in the title of the first book I published forty years ago, Il territorio magico, in which I suggested an interpretation of art as concerning both the internal perspective of the one who produces it and the external perspective of the public and the society it appeals to. Certainly, art responds to the individual instinct of the artist who then, externally, encounters an interpretation able to contextualize and widen the subjective impulse to society as a whole. Art has an anthropological significance, it is an attempt on the part of the artist to ‘repair’, with his gesture, a partiality to which the world subjects him, so as to restore a relation to the idea of totality and reconnect with the world. By means of the creative act, the artist elaborates the mourning of a detachment. Because art re-establishes hope, a desire for totality. Art as biological production… Or as biological respiration. On the biology of art, Rosario Assunto wrote some very interesting books. A solitary philosopher, courageous, he knew a lot about how to restore this idea of art which reacts to mourning, the creative gesture which restores totality to the subject making the gesture. Art, by means of specific tools and a specific language places itself constantly face to face with the external world, dialectically. “Art pointing at the world” to quote Picasso. In this sense art possesses a constant, inevitable political significance which, however, does not assume the form of ‘tracing’. It does not pass through emulation or that inferiority complex which actually affected many artists and intellectuals of the 1968 generation. Convinced that art was an answer, a solution to humanity’s problems, many people at the time became guardian angels of the cyclostyle.

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Max Ernst, The punching ball or the imortality of Buonarroti, 1920. Photomontage, gouache, and ink on photograph. George Maciunas, Sonderdruck Fluxus, 1963.

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IL CORPO DELL’ARTE The Body of Art Whereas art is a question about the world. And tends always towards problematic answers. Precisely in virtue of the issues raised, art assumes a political importance. Because in a context anaesthetized by telematic spectacularization, art is called upon to capture attention and shake up the collective image inventory. A work of art has to massage the muscle anaesthetized, atrophied by a collective contemplation reduced to that which I call ‘pellicular sensitivity’. Art punches a hole in indifference and awakens dulled critical activity. It is like an alarm system which raises the problem of that which we want to perceive and alerts us about what we decide not to consume. Thus, artistic language promotes new processes of knowledge and in this sense, albeit born in the instinctiveness of an asocial gesture, it later becomes a social gesture. Paraphrasing the provocative statement by Kokoschka “Assassin hope for women”, in the past I wrote “Artist and assassin, hope for life”. The artistic instinct is always born solitary and is an antagonist, the artist is not a special correspondent of reality, he is a special correspondent against reality. He does not have a calming role, he is no nurse, he is by definition alarmed and alarming. Thus the initial propositional act of creation is an act of self-defence by the artist, he produces beauty and beauty – as Leon Battista Alberti wrote – is a form of defence in life. Or – as Baudelaire suggested – beauty is a promise of happiness. This is why art is coloured. It is by no means Lenten as so many designers and the sentinels of Nothingness were proposing in 1968, perpetrating a selfpenalizing reductionism, counter-reformation fencing. Even though art is born from a negativity as an impulse towards the elaboration of mourning, the great miracle is that it goes beyond the solitary dimension of the individual to become a gesture capable of getting in touch with the social and perhaps even tripping it up! The greatness of the language of art resides in just this capacity to arrive at and intercept life and society. Art needs the gaze: it is healthily narcissistic. And narcissism is the ecological engine of the whole of humanity, it represents that affirmative pulsion of life which induces all of us to restore a stylistic figure, a form, an image, some form of writing, indicating our passage. Whereas vanity is only the pret-à-porter of narcisism. And the Transavanguardia? What pulsion does it offer compared to the avantgarde? I adopted the prefix trans- to indicate an idea of transition of art in a context of postmodernity, the willingness and capacity to recover the past without nostalgic fallback. In the first place, in recuperating painting as language, albeit as a morganatic matrimony between Picasso and Duchamp. The Transavanguardia represented the recovery of expressivity and subjectivity innate to painting. But citing styles of the past takes on the form of the ready-made. Thus, the material eroticism of pictorial language is in any case accompanied by a conceptual aspect. And therefore, does not represent an overturning of the experimental idea of the avant-gardes, but goes beyond that ideology of linguistic Darwinism which they implied. At the origin of historical avant-gardes there is a linear and progressive evolutionary idea of art: every movement, in virtue of new techniques and new materials experimented on, represents the progressive overcoming of the previous one. As if art consisted only of techne. The Transavanguardia, through the recognition of the subjectivity of the artist, formulates an answer to the impersonality and the objectivity which have characterised currents with north-American origins like Minimal art and Conceptual Art, and recovers, by means of memory, a genius loci and a specificity which, on the same wavelength, only European art could – and still can – propose. It is not by chance that with the Transavanguardia there is a miraculous overturning also of the equilibria of the system of art. Actually I often find myself defining it as the first no-global movement because, with respect to American movements, it promotes glocal instances, synthesizing subject identities, genius loci and going beyond borders. A vision light years away from that of the globalising alienation which, however, does not withdraw even in territorial localism. In fact, it maintains the capacity to conjugate itself in an international language maintaining that which De saussure would have defined idiolect, or personal accent of the subject. Therefore, Transavanguardia does not mean anti-avanguardia. Coining this term and developing its critical theory I wanted to oppose those who were fashionable then, when alongside the noun art, adjectives like conceptual or poor were employed. Poversimo was nothing other than the moralistic, Franciscan response to the society of opulence, a moralism which in no way aimed at the autonomy of art, but its heteronomy and consocial dependence. But the urgency of art, as I see it, is that of relating to the outside through antagonism which is the result of a leakage from the original solitude towards contemplation on the part of the gaze of others, the socialization and consumption of art. If the result of the precepts of Conceptual Art is a work of art dematerialized into anorexia, Transavanguardia production restores body to it, physicality and forms through nomadism and stylistic eclecticism. With its idea of transit it overtook, in architecture too, the impasse of postmodernism, where the prefix post-

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–Frontiere/Frontiers was in controversy with architectural modernism and rationalism. Trans- is a prefix which is still very relevant in times in which complexity and ambiguity continue to be necessary. And if , in the past, the influence of the Transavanguardia has made Arte Povera less monochromatic, the projects of so many contemporary megastars continue breaking down the practice of contamination, reconversion and nomadism. Giving the unsayable a name. How do you reconcile the contingent instinct of the creative act with the naming phase? Before I became an art critic I was a visual poet. My origins are literature, from Gruppo 63. Every time I write a book I take great care with the title, because it represents the initial illumination of the thought which will be exposed. And I don’t think I’m overdoing it when I say that I think I have always chosen beautiful titles. With poverism the artist, to mortify the subjective accent of his imagination and assert the procedural value of the work ,was forced to accept anonymity and the Senza titolo. Testifying to the fact that the work was not the final form, the result, it was rather his ‘doing’ as an active process of association of materials. The artist of the Transavangardia on the other hand, develops a further passage, in my opinion, which is more courageous. He retrieves the pride of the attempt to arrive at form, the finale of the work. A work which, like any baby who comes into the world after months of gestation, needs, in the end, a name. In abstract, or through the figurative image, the work of art confirms one of its final aspects, a concluded form of aesthetic values which in the Sixties were combated and seen as the venal sins of an artist who, rather, was called upon to mortify, penalise himself. Half way through the 1970s, after the crisis of exclusively conceptual language, art retrieved the subject, the Transavanguardia rediscovered the autonomy of the work and therefore, its naming. Beyond astrattismo and figurativismo. Because looking at a work by De Dominicis, Chia or Cucchi I can close the judgement by referring to these two categories of belonging. I am convinced that another, alternative category exists to figuration, that of the ‘figurable’, a language which slips, recedes and shifts because it is liquid. And the Transavanguardia produced something figurable which has more to do with willingness to move on the part of liquid material than the immobility of solids. Land Art. A landscape which is not indifferent and new mental maps. What is the relation between private space, public space and social space? Land Art is an extraordinary language which was born in America in the 1960s and only experimented by us later. If Pop Art is urban art – the consumer society which finds classicality through its Raphael, Andy Warhol – Land Art represents its antithesis. Works by exponents like Morris, Smithson and Oppenheim are an expression of the pioneering anthropology of the American man and an idea of the innocence of nature. A rapport of the human dimension in scale with the landscape through interventions which necessitate large spaces and technology. In Christo the European sensitivity encounters the American dimension. Concealment (a procedure borrowed from Man Ray and Surrealism) found an application in the building from beyond the ocean, concealing/indicating the Californian coast. The force of the unpredictable. The gesture of art in an urban scenario: unplanned interactions and collective game. Behind all this, we have the great lesson of the historical avant-garde. Consider the Futurist evenings where a riot was a clash – no metaphor here – wishing to arrive at hand to hand combat in an attempt at intervening in every aspect of the real, to shake up the ‘immobilism’ in the peasant civilization of an as yet pre-industrial Italy, introducing values like speed and aggressivity. The Futurists, and Marinetti above all, were interventionist by definition and for fifteen years had an autonomous, independent revolutionary role but then gave themselves up to the mortal embrace with Fascism. Antonio Gramsci himself in the pages of the second issue of Ordine nuovo, a journal edited by Pietro Godetti, defined the Futurists as authentic artists of the avant-garde because of the renewal produced in their language, and creative revolutionaries because they were producers of a new art appropriate for that class – the proletariat – for whom the artists and intellectuals of the left were doing nothing. Not to mention Dada, the movement I perhaps love the most because of its active nihilism. An openly intransigent avant-garde which produced anti-art, experimenting, in the Cabaret Voltaire evenings, the first modern form of interdisciplinary and multimedia creativity, the performance. And then, obviously, Surrealism, recovering the effect of surprise, the emergence of the unconscious and internal drive. The theatre of Artaud which was to turn up again in the Living Theatre. All, preambles which led to the American happening and the collective events, with the Gruppo Fluxus breaking into the routine of the urban scenario. A season whose tutelary deity was John Cage with characters like Patterson, Schmit, Gosewitz, Maciunas. Initiatives which in the productive geometry of the city appeal to the participation of the public to

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Da sinistra: Achille Bonito Oliva con Enzo Cucchi. Achille Bonito Oliva con Rossana Palma e Cesare Tacchi (© Photo Salvatore Piermarini). Achille Bonito Oliva con Pio Monti e Mario Pieroni (© Photo Flavio Costa). Achille Bonito Oliva con Hermann Nitsch (© Photo Rino Palma). From the left: Achille Bonito Oliva with Enzo Cucchi. Achille Bonito Oliva with Rossana Palma and Cesare Tacchi (© Photo Salvatore Piermarini). Achille Bonito Oliva with Pio Monti and Mario Pieroni (© Photo Flavio Costa). Achille Bonito Oliva with Hermann Nitsch (© Photo Rino Palma).

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IL CORPO DELL’ARTE The Body of Art exercise a creative action, non-functional and devoid of any economic logic. Gestures capable of shaking up and piercing widespread disattention, introducing improvisation, the unexpected and the ‘trip up’, appealing directly to the spectator. So as to renew the Utopia inherited by the historical avant-gardes, the reduction of the distance between art and life You frequented and shared the life of many artists who were the subject of your critical activity. How important is the instinct and strategy of those who interpret phenomena? I decided to beef up the critic and to confer ‘protagonism’ upon him through the three levels of writing which, I believe, it is his job to do. The essayist by means of books, the exhibiton-organizer through exhibitions, the behavioural role using his own life. This last level was totally absent , the critic was a servant on the stage, a lateral figure who still accepted passively the traditional hierarchy with respect to the artist. As the scholars taught, first there was the obscure intuition of the artist and then the critical reflection. Well, I believe in a society like today’s where division of intellectual work counts, the artist and the critic are complementary figures, the one who creates and the one who reflects. Already in 1962 I had theorised the system of art, this sort of St Anthony’s chain which necessarily brings together different agents, each of them carriers of their own professionalism: the artist, the critic, the gallery-owner, the collector, the museum curator, the media, and finally the public. Over the years auctions and international

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–Frontiere/Frontiers fairs have joined up, shaping a system of global art. In such a context the critic, as I think I managed to show, is carrier of a double word, the first in the solitude of his own activity with theorization and writing, the second in the Socratic conviviality of living with artists. Frequenting artists has been a necessity for me. But not as a doctor of the artistic soul or custodian angel - rather the angel of death. I like being with those artists with whom I have in common an exchange of words, verification, the sense of the game, the construction of an intellectual adventure which can take the form of an exhibition, a theory, a movement. I represent the assertion of protagonism of the art critic. I began curating my first exhibition Amore mio in Montepulciano: in the exhibition catalogue each artist had at his disposal nine pages and I decided to publish on nine pages a photograph of myself taken by Mulas, accompanying it with a reflection on death, taken from Nietzsche. After my self-signalling in Bolaffi Arte, in 1988-89 my nudes in the magazine Frigidaire made visible the body of the critic stripped by art. My professional adventure, forty years long by now, has always developed around this idea of criticism which shares with art the same creative drive. If art responds to its own instinct through the production of images, criticism expresses its own creativity through writing and other relevant activities. However, both art and criticism develop a conflictual rapport with the exterior, guided by the desire for a mature dialogue with the world surrounding it. Art pointing at the world – to conclude, by quoting Picasso – is not an art which shoots to hit, the world is its target but only in that it is an act of self-defence which counterpoises the Beautiful as a promise of happiness. So there we are – we’ve finished, out with a bang! a cura di/by Fulvio Caldarelli

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–Transiti/Transits

Fissa dimora Fixed address Quando un luogo può dirsi accogliente e generoso? Quali strategie di programmazione sociale potrebbero promuovere l’ambiente urbano come spazio di relazione? Ho l’impressione che in città come Parigi le persone siano sempre più isolate e sole, e che la vita si svolga tra individui che non comunicano tra loro. Non ci sono sentimenti di generosità, di accoglienza, di solidarietà. Nella quotidianità della città, l’idea di ospitalità è assente. Ognuno percorre la propria strada con un sentimento di solitudine e isolamento che tocca tutti. Non credo sia una questione che riguarda soltanto gli urbanisti, poiché non è sufficiente orientare in forma diversa le strade o modificare spazio e architettura per generare della socialità, della generosità e della solidarietà. Si tratta di una questione molto più ampia, che richiede una riflessione più generale sulla società. Più le persone sono felici, maggiore è la loro capacità di accoglienza. L’architettura e gli urbanisti rappresentano comunque una parte della soluzione nel momento in cui possono rendere meno infelici, predisponendoci a relazionarci agli altri in maniera diversa. I trasporti rappresentano uno degli aspetti più importanti delle infrastrutture urbane. È inaccettabile che la grande maggioranza delle persone sia costretta a trascorrere così tante ore al giorno sui mezzi di trasporto, in condizioni disagevoli, per raggiungere il proprio posto di lavoro. È naturale che tutte le energie si concentrino sul viaggio e che non vi sia più la forza di guardare gli altri. Parigi è piena di mendicanti che tendono la loro mano lungo le strade, all’uscita dei negozi e nei vagoni della metropolitana. Tutte queste persone non sono ben viste, forse perché troppo numerose: la richiesta di elemosina si ripete continuamente. Di tanto in tanto, però, accade qualcosa che mi colpisce: quando chi chiede l’elemosina offre in cambio una prestazione artistica di qualità, come certi sudamericani che improvvisano un concerto in metropolitana, ecco che l’interesse dei passanti si risveglia e viene data qualche moneta. Le persone decidono di fare l’elemosina senza guardare alla povertà, ma perché apprezzano quello spettacolo. Quello spettacolo piace loro perché gli riporta qualcosa, è un momento piacevole di buona musica che, tutto a un tratto, investe di allegria il vagone. Tutte le volte che si tratta di un’esecuzione artistica di una certa qualità, quasi tutti i viaggiatori che occupano lo scompartimento danno dei soldi. E penso che, in verità, la ricompensa non sia per l’esecuzione in se stessa, ma per il momento di allegria arrecato. Attraverso l’arte e la cultura è passato un qualcosa che ha cambiato l’atteggiamento delle persone. È solo un piccolo esempio che tuttavia ho visto ripetersi più volte e che credo possa insegnarci qualcosa. Penso infatti che l’unico modo di promuovere generosità nelle relazioni sociali sia offrire qualità. E la qualità non passa che attraverso la cultura, attraverso tutto quello che consente alle persone di trascendere dalla propria condizione esistenziale e dalla misera realtà di tutti i giorni. In altre parole, si tratta di restituire la capacità di essere generosi facendo appello all’attività intellettuale e al gusto culturale, per risvegliare la voglia di uscire dalla quotidianità. Certamente non è semplice. Credo che in parte le istituzioni ne siano consapevoli. È infatti sempre più diffuso il tentativo di creare animazione culturale attraverso diversi indirizzi operativi. Ma pur essendoci l’intuizione di questa necessità, i risultati si dimostrano ancora insufficienti. Bisogna restituire un po’ di felicità alle persone, affinché ognuno possa pensare a rendere felice il prossimo. Cosa può ancora oggi segnalare la differenza tra lo spazio pubblico e lo spazio privato? È ancora valida una simile distinzione? La distinzione tra spazio pubblico e spazio privato è una questione sempre più delicata, nella misura in cui questa distinzione non è più così netta. Tradizionalmente i sociologi definiscono lo spazio pubblico come lo spazio in cui si forma l’opinione pubblica. In passato la piazza è stata non solo luogo deputato alle attività pubbliche, ma teatro del dibattito e del confronto. Oggi è ben evidente che l’agorà dell’antichità è stato sostituito da altri spazi, soprattutto mediatici. L’informazione avviene in gran parte attraverso i media, principalmente con la televisione che

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Intervista a/interview with Marc Augé

trasmette quotidianamente notizie e con il computer che permette di ricercarle e scambiarle anche tra interlocutori sconosciuti. Esiste dunque uno spazio che pur essendo immateriale è altrettanto reale e che, letteralmente, prende il posto dello spazio pubblico nella formazione dell’opinione pubblica: è lo spazio dell’immagine. Senza dubbio, nella costituzione delle opinioni i moderni media tecnologici rivestono un ruolo nettamente superiore rispetto a mezzi tradizionali come la carta stampata. Anche nel significato comune di spazio pubblico come luogo in cui tutti si incontrano e si ritrovano, lo schermo sembra ancora una volta aver sostituito gli spazi fisici. Attraverso quest’ultimo si ha l’impressione di avere una certa familiarità con le persone più note e influenti, anche se in realtà non le conosciamo affatto. Intratteniamo presunti rapporti di familiarità non soltanto con uomini politici, ma anche con grandi artisti: persone che riconosciamo senza conoscerle. Lo spazio pubblico contemporaneo è in parte questo: uno spazio in cui non si conosce, ma si riconosce. E una simile modalità di riconoscimento ha delle ripercussioni sconcertanti sulla conoscenza, poiché non conosciamo noi stessi ma nel momento in cui abbiamo l’occasione di passare dall’altra parte dello schermo, ci riconosciamo e siamo riconosciuti dagli altri. Oggi l’importante è essere riconosciuti, ovvero, vivere nell’immagine. Tuttavia non è nell’assolvimento di questa funzione di riconoscimento che possiamo pensare di distinguere spazio pubblico da spazio privato. Il cuore della dimora, il focolare domestico, non è più consacrato a Estia, la dea del fuoco protettrice dell’intimità domestica, ma piuttosto a Hermes, dio della soglia, che un tempo presidiava i punti di incontro, le piazze, i luoghi pubblici. Adesso al centro della casa campeggiano tv e computer, i due dispositivi tecnologici attraverso cui lo spazio pubblico declina le proprie prestazioni come spazio di riconoscimento. In altre parole, si assiste sempre più alla compenetrazione tra spazio pubblico e spazio privato, un fenomeno interessante quanto sconcertante. Credo che lo sconcerto sarà totale quando – ne abbiamo già avuto anticipazioni - saremo invitati a votare da casa trasmettendo le nostre preferenze elettorali attraverso il computer, direttamente dalla nostra camera o dal nostro ufficio. Da quel momento, la confusione tra lo spazio privato e spazio pubblico sarà totale. Scomparirà anche l’ultimo luogo pubblico certo e dichiarato: il posto in cui ci siamo sempre recati alle urne non esisterà più, perché assimilato dal nostro spazio privato. Se immaginiamo il futuro sviluppo dei media, possiamo prevedere uno scenario in cui l’individuo sarà sempre più circondato da strumenti che lo proiettano all’esterno. La nostra identità è destinata a comporsi al di fuori di noi stessi, nella contaminazione di spazio pubblico e spazio privato. Di fatto, la difficoltà a distinguere le due nature dello spazio non è che un aspetto di quello che potremmo definire un triplo decentramento. Innanzitutto il decentramento della città che esce da sé stessa per esistere solo in funzione delle relazioni che intrattiene con il mondo intero. La città contemporanea esiste attraverso i suoi aeroporti, le sue autostrade, le sue grandi vie di comunicazione. Il suo baricentro è al di fuori di essa: il centro della città, un tempo sede dell’agorà diventa scenario di uno spettacolo, cartolina ricordo per i turisti che vengono da fuori. In secondo luogo, il decentramento dell’abitazione privata che trova il proprio fulcro nella relazione con l’esterno imposta dai media. E, infine, il decentramento dell’individuo rispetto a se stesso per mezzo delle protesi tecnologiche con cui passa il proprio tempo a parlare con persone che non ha davanti e che sono lontane. Così penso che la confusione tra spazio pubblico e spazio privato non sia che espressione di quanto avviene su scala territoriale: tutto il mondo è ormai urbanizzato, ma abbiamo perso la città. E se lo spazio delle nostre dimore è anche quello con cui comunichiamo con il resto del mondo, questo si riflette inevitabilmente nel cuore della nostra individualità. In altre parole, è necessario collocare il problema della distinzione sempre più sottile tra spazio pubblico e spazio privato nell’ambito della generale condizione di decentramento che interessa tutte le attività umane.

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Cristina Zinni, Fili, 2003.


FISSA DIMORA Fixed Address In epoca di globalizzazione la nostra residenza geografica è ancora in grado di descrivere parte della nostra identità? Dobbiamo fare attenzione a non lasciarci ingannare dalle apparenze. Molte persone che come me hanno il privilegio di poter viaggiare molto per lavoro possono senz’altro avere l’impressione che il mondo sia davvero piccolo. Appartengo anch’io a quella categoria di individui che non sanno dire con certezza a quale luogo appartengano, perché la loro esistenza è radicata in più luoghi. Grandi artisti e sportivi, come gli stessi uomini politici, mostrano una modalità sostanzialmente delocalizzata di rapportarsi al mondo. Ma questa non è l’esperienza della maggior parte delle persone. Se consideriamo ad esempio la realtà di un Paese come la Francia, possiamo rilevare che oltre la metà dei francesi non parte mai per le vacanze. Impossibilità che riguarda soprattutto i giovani dei quartieri più difficili, in gran parte abitati da immigrati di prima e seconda generazione. Questi ragazzi sono relegati nelle loro zone di residenza, non escono quasi mai da quell’ambiente. Da questo punto di vista, credo che vi sia stato un passo indietro rispetto alle conquiste della prima metà del Ventesimo secolo, quando una popolazione di operai ebbe modo di scoprire il mare per la prima volta. È evidente che nella vita di molti, la mobilità continua ad essere una piccolo lusso. Ho visto che recentemente associazioni di beneficenza organizzano delle giornate al mare per i figli delle famiglie povere del nord della Francia, bambini che pur abitando al massimo a un centinaio di chilometri dalla costa vedono una spiaggia per la prima volta. Questo genere di stanzialità contrasta chiaramente con la mobilità che solo una parte della popolazione può vantare. Esistono poi forme di mobilità imposte. Quando certi stabilimenti industriali chiudono a causa della crisi economica, una certa quota di operai viene reintegrati per lavorare in un’altra sede che magari è distante centinaia di chilometri dalla loro abitazione. Un autentico dramma che costringe le persone a indebitarsi per acquistare una casa vicino al nuovo posto di lavoro. L’impossibilità allo spostamento è una difficoltà che interessa ancora molte fasce della popolazione perché, di fatto, solo alcune classi sociali possono permettersi di raggiungere tranquillamente l’altra faccia della Terra in qualità di turisti. Il turismo è una parte di mondo che visita l’altra. In un certo senso, la mobilità correlata ai viaggi turistici è espressione della dominazione di una porzione del mondo sull’altra. La stessa cosa avviene anche nell’ambito della mobilità legata alle competenze tecnologiche: vi sono tecnici giapponesi che lavorano in Africa, ma non tecnici africani che lavorano in Giappone, in ogni suo aspetto la mobilita restituisce una visione della società planetaria suddivisa in classi molto distinte e distanti tra loro. Se molti possono consumare terre straniere all’insegna di un esotismo, altrettanti hanno vite lavorative segnate da residenza obbligata e forme di mobilità durissime. A questo proposito, non dobbiamo tralasciare un altro aspetto doloroso e talvolta drammatico della mobilità: la migrazione. Quando parliamo di migrazione da un punto di vista europeo si pensa immediatamente al flusso di immigrati provenienti dal sud del mondo, una particolare forma di mobilità più o meno clandestina. Ma è necessario comprendere che miseria, guerre e discriminazioni provocano già all’interno del continente africano o dell’America Latina, un enorme spostamento della popolazione in direzione delle grandi città e da un territorio nazionale all’altro. Dobbiamo riflettere su tutto questo per abbandonare questa immagine un po’ superficiale e facile di mondo in movimento costellato di grandi centri planetari dove tutti si ritrovano mescolati gli uni con gli altri. In realtà, forme gloriose di mobilità globale come il fenomeno di alcune cittadelle universitarie americane, capaci di attirare e accogliere ‘cervelli’ provenienti da ogni parte del mondo, rappresentano solo la punta di un iceberg che contempla situazioni ben più difficili e dolorose. L’uomo di oggi è più solo rispetto al passato? Alcuni sociologi nel descrivere la società attuale hanno introdotto l’espressione ‘uomo relazionale’, attribuendo così un’importanza fondamentale a tutta quella serie di relazioni interpersonali che gli ultimi ritrovati dello sviluppo tecnologico consentono di intrattenere. Sembrerebbe allora che oggi, a dispetto delle apparenze, l’uomo sia molto meno solo che in passato. In effetti, a partire dalla nascita, il processo di definizione dell’identità di un individuo non può prescindere dalla relazione con gli altri, dal rapporto con l’alterità. Non per niente, l’etnologia classica ha evidenziato il ruolo determinante degli universi simbolici che governano le relazioni sociali delle comunità nella formazione dell’identità individuale. In simili società, la condivisione di simili contratti simbolici è talmente forte da mettere in discussione il significato stesso di libertà individuale. Del resto, anche nella nostra società dei consumi la libertà goduta dagli individui è essenzialmente formale e, dunque, ugualmente limitata. I moderni mezzi di comunicazione agiscono profon-

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–Transiti/Transits damente sulla costituzione della natura stessa dell’individuo, sempre più dipendente dalle protesi tecnologiche che utilizza per entrare in relazione con gli altri. In più, il genere di relazioni promosse da Internet, come dallo spettacolo quotidiano delle immagini televisive, non ha niente in comune con le relazioni simboliche che caratterizza le società pre-mediatiche. Un vagone della metropolitana rappresenta un interessante ambiente di indagine: le persone pur essendo l’una accanto all’altra, si isolano e cercano di non incontrare mai lo sguardo altrui. In quel particolare contesto, guardare qualcuno negli occhi è vissuto come inopportuno, quasi un atto provocatorio. I giovani ascoltano la loro musica in cuffia, conversano al telefono o guardano qualche filmato sul display del loro cellulare, isolati nel loro angolo. Tutti siedono gli uni accanto agli altri nella propria solitudine. Probabilmente questo è il grande paradosso del mondo attuale: l’aumento dei mezzi a nostra disposizione per entrare in contatto con qualcun altro che magari si trova dall’altra parte del mondo, di fatto, ha avuto l’effetto di aumentare la nostra solitudine. Un aspetto della crisi che interessa le società più sviluppate al quale non abbiamo ancora prestato la dovuta attenzione. Il paesaggio urbano contemporaneo riflette questa crisi antropologica? Il paesaggio, in particolar modo il paesaggio urbano, riflette senza dubbio la natura del mondo attuale. La città è cambiata. Del resto la scenario urbano da sempre è territorio di decostruzione e ricostruzione. Nell’ultime pagine di Papà Goriot di Balzac, dalle alture del cimitero di Père-Lachaise, il protagonista Rastignac contempla la città di Parigi gettando il suo sguardo tra la colonna di place Vendôme e la cupola degli Invalides. Il panorama è quello di un mondo aggrovigliato, di un labirinto tortuoso posato sulla Senna. Anche la Parigi moderna descritta da Baudelaire è una distesa di architetture diverse, testimonianze del succedersi dei periodi storici che si confondono nell’unità ritrovata del paesaggio leggibile sotto i suoi occhi. In quell’epoca la capitale francese viveva una vera e propria rivoluzione del tessuto urbano. “La Parigi di un tempo non esiste più” scriverà il poeta che affacciato alla finestra, osservava con occhi a volte critici, altre volte romantici, la modernità di una città in cui le ciminiere fumanti delle fabbriche condividevano il cielo con gli antichi campanili delle chiese. Ma la stratificazione visibile dei diversi periodi storici, la coesistenza di stili, la coabitazione di antico e nuovo non caratterizza più il paesaggio urbano contemporaneo. La sensazione è che quel genere di modernità non sia più proponibile. La tendenza è quella di isolare i quartieri storici nella loro purezza, facendone dei cosiddetti musei a cielo aperto. La parte vitale della città è dislocata all’esterno. A Parigi, per esempio, si è avvertito il bisogno di inventare una nuova Parigi: il quartiere futuristico della Défense che si trova qualche chilometro a ovest della metropoli, un mondo artificiale con pochissime abitazioni e che non possiamo abbracciare con lo sguardo se rivolti verso il panorama storico della città. Abitiamo sempre più un mondo di giustapposizioni anziché di coniugazioni. Solo in rarissimi casi possiamo continuare a osservare paesaggi urbani che possono evocare la modernità della Parigi di Baudelaire. Nel centro di Chicago si è avuto l’idea geniale di continuare a costruire i nuovi grattacieli accanto a quelli innalzati agli inizi del Ventesimo secolo: le architetture si mescolano nell’armonia di brani urbani perfettamente integrati. Mentre la tendenza generale è quella che potremmo definire ‘dubaizzazione’ del mondo, ovvero lo sviluppo di isole urbane ipermoderne accanto alle città storiche, come nel deserto. Abbiamo perso lo spirito di quella modernità che, senza soluzione di continuità, si ricongiungeva alla storia attraverso l’accumulazione. Noi occupiamo un’altra dimensione storia, a debita distanza dal passato. [english] When can a place be described as welcoming and generous? What social planning strategies might promote the urban environment as a space of relation? I have the impression that in cities like Paris, people are increasingly more isolated and alone and that life goes on around people who do not communicate with each other. There is no generosity, welcome or solidarity. In the daily life of cities, the idea of hospitality is absent. Everyone goes his own way in his own solitude and isolation, which, however, touches everyone else. I do not think it is a question which only concerns town-planners, because it is not enough to change the direction of the roads or modify spaces and architecture to generate sociality, generosity and solidarity. The problem goes deeper, it requires a more general reflection about society. The happier the people are the greater is their capacity to welcome. Architecture and town planners are, however, a part of the solution when they are able to make people happier, preparing us to relate to others in a different way. Transport is one of the most important aspects of urban infrastructure. What is unacceptable is that so many people wh have to travel to work are forced to pass so many hours of the day on public transport, in such uncomfortable conditions. All their energy is taken up on the journey, there’s none left for the people around them.

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Frame dal film documentario Birdwatching (blueforma 2009). Birdwatching, documentary film (blueforma 2009). Frame Š Iaquoneattilii studio.

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FISSA DIMORA Fixed Address Paris is full of beggars, in the streets, outside shops, on the underground, stretching out their hands. The are not looked upon kindly, perhaps because there are so many of them, the requests for handouts are so constant. However, from time to time something unusual happens. When the person doing the asking carries out some performance in exchange, like certain south Americans who improvise a concert on the underground. In this case, the interest of the passers-by is awakened and out comes the money. People decide to make an offer despite the poverty they see, because they appreciate the performance. This performance appeals because it gives them something, it is a nice moment with good music, all of a sudden filling the compartment with cheer and almost all the travellers offer something. And I think actually, the reward is not for the performance in itself but for the moment of happiness achieved. Through art and culture something has happened which has changed the attitude of the people present. It is only a small example which, however, I have seen over and over again and which I think can teach us something. I think that the only way to promote generosity in social relations is to offer something of quality. And quality only comes with culture, all that which allows people to transcend their own existential condition and the depressing reality of daily life. In other words, giving back the capacity to be generous by appealing to intellectual activity and cultural taste, reawakening the desire to step outside the daily routine. Of course it is not simple. I believe that the institutions are aware of this, to a certain extent. In fact, what is becoming increasingly common is the attempt to create cultural animation through different operational objectives. But although the intuition concerning this need exists, the results are still disappointing. We need to give back a little happiness to people, so that each person can think in turn about making his fellow man happier. What is it that might indicate today the difference between public and private space? Is such a distinction still valid? The distinction between public and private space is an increasingly delicate question to the extent that the distinction is not so clear. Traditionally, sociologists have defined a public space that in which public opinion takes shape. In the past, the piazza was not only a place intended for public activities, but the theatre for assembly and debate. Today it is very clear indeed that the agora of antiquity has been substituted by other spaces, above all media-like spaces. Information takes place mostly through the media, mainly television which broadcasts news daily and the computer which allows news to be sought out and exchanged, even between interlocutors who do not know each other. Therefore, a space exists which, though immaterial, is equally real and which literally takes the place of the public space in the formation of public opinion, the space of the image. Without doubt, in the forming of opinions, modern technological media carry out a role which is clearly superior to that of traditional means like printed paper. In public spaces too, as commonly understood, i.e., a place in which everyone meets up, the screen seems, once more to have replaced physical spaces. Through the screen one has the impression of having a certain familiarity with people who are more well-known, and influential, although in actual fact we don’t not know them at all. We participate in supposed familiar relations not only with political leaders but also with great artists, people we recognise without knowing them. The public space today is partly this, a space in which one does not know, but one recognises. And such a recognition has baffling consequences for consciousness since we do not know ourselves but when we have the chance to pass to the other side of the screen, we recognise and are recognised by others. Nowadays, what is important is being recognised, or rather living in the image. However, it is not in carrying out this role of recognition that we get to distinguish public and private space. The heart of the dwelling, the domestic hearth is no longer consecrated to Hestia the God of the protective fire of domestic intimacy, it is rather, Hermes, God of the threshold who once presided over the places of encounter, squares, public places. Now in the centre of the house it is the TV and computer which stand out, the technological devices which allow public space to dictate its performance as a space of recognition. In other words, we are increasingly seeing the compenetration between public and private space, an interesting, though bewildering phenomenon. I think that the bewilderment will be complete – and we have already had hints of this – when we will be invited to vote from home, transmitting our electoral preferences through the computer, directly from our room or from our office. From that moment on, confusion between private and public space will be total. The last certain, clearly defined public place will also disappear, the place in which we have always gathered will no longer exist because it will have been assimilated by our private space. Thinking of the future development of the media, we might imagine a scenario in which the individual will be increasingly surrounded by instruments which project him towards the outside. Our identity is destined to compose itself outside ourselves in the contamination of public and private space. In fact, the difficulty in

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–Transiti/Transits distinguishing the two natures of space is only one aspect of what we might define a triple decentralization. First of all, the decentralization of the city which leaves itself so as to exist only to bring about the relations it has with the whole world. The contemporary city exists through its airports, motorways, its large communications networks. It barycentre is outside this: the centre of the city, once the site of the agora becomes the scenario of a performance, a postcard for tourists who come from outside. In the second place, the decentralization of private dwellings which finds its own fulchrum in the relation with the outside imposed by the media. And finally, the decentralization of the individual with respect to himself by means of the technological prostheses he passes his time with, speaking to people who are not there with him, who are to be found at a distance. Thus, I think that the confusion between public and private space is only an expression of what happens on a territorial scale. The whole world is by now urbanized but we have lost the city. And if the space of our dwellings is also that in which we communicate with the rest of the world, this is reflected inevitably in the heart of our individuality. In other words, we need to place the problem of an increasingly more subtle distinction between public and private space in the general condition of a decentralization of all human activities. In an era of globalization is our geographical residence still able to describe part of our identity? We should not let ourselves be fooled by appearances. Many people who, like me, are privileged enough to be able to travel a lot for their work might certainly get the impression that the world is really small. I too belong to that category of individuals who do not know how to say with certainty what place they belong to, because their existence is rooted in a number of places. Great artists and sportsmen, like politicians, have a basically delocalized way of relating to the world but this is not what most people experience. Consider for example the reality of a country like France, where more than half the people never go on holiday. And this concerns above all young people in difficult neighbourhoods, mostly inhabited by first and second generation immigrants. These young people are confined to their residence areas, they almost never leave this environment. From this viewpoint, I think that there has been a step backwards compared to the first half of the 20th century when a population of workers discovered the sea for the first time. It is clear that in the lives of the many, mobility continues to be a small luxury. I heard recently that charitable associations have been organizing days to the sea for the families of the poor in the north of France, children who, even when they live, at most, a hundred kilometres from the coast, will be seeing a beach for the first time. This type of immobility is in clear contrast with the mobility that only a part of the population can boast. Then there are forms of mobility which are imposed. When certain factories close because of the economic crisis a certain proportion of the workers shifted to another site will perhaps find themselves at two hundred kilometres from their homes. A real drama which forces people to get into debt to buy houses near their new place of work. The impossibility of moving is a difficulty which still concerns many people because actually only a few social classes can allow themselves to go and visit the other side of the world as tourists. Tourism is one part of the world visiting another. In a sense, mobility correlated with tourist travel is an expression of the domination of one part of the world by another. The same thing happens in the sphere of mobility linked to technological skills. There are Japanese technicians who work in Africa, but not African technicians who work in Japan. In all its aspects mobility restores a vision of planetary society subdivided into classes with many distinctions and distances between them. While many are able to consume foreign lands in search of the exotic, just as many others have working lives marked by forced residency and very harsh forms of mobility. Here, we should not neglect another painful and sometimes dramatic feature of mobility, i.e., migration. When we speak of migration, from a European point of view, we immediately think of the flow of more or less illegal immigrants. But we need to understand that poverty, wars and discrimination are already causing an enormous shift in populations inside the African or Latin American continents towards large cities and from one national territory to another. We have to reflect on all of this and abandon the rather facile, superficial image of a world on the move, constellated by large planetary centres where everyone finds himself mixed with others. Indeed, glorious forms of global mobility like the phenomenon of certain American university towns capable of attracting ‘brains’ coming from all over the world are only the tip of an iceberg concealing much more painful and difficult situations. Is today’s man more alone than in the past? Certain sociologists, in describing today’s society, have introduced the expression relational man, attributing a basic importance to the whole series of interpersonal relations which the latest findings of technological development allow us. It would seem that

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FISSA DIMORA Fixed Address today, despite appearances, man is much less alone than in the past. In fact, from birth, the process of definition of the identity of an individual cannot be isolated from relations with others, the relation with otherness. It was not for nothing that classical ethnology pointed up the crucial role of symbolic universes which rule social relations of communities in the formation of individual identity. In such societies the sharing of such symbolic contracts is so strong that it questions the meaning itself of individual freedom. In any case, in our consumer society too the freedom enjoyed by individuals is essentially formal and thus, equally limited. Modern means of communication deeply influence the constitution of the nature itself of the individual, who is increasingly dependent on the technological prostheses he uses to relate with others. What’s more, the type of relations promoted by the Internet, like the daily spectacle of television images, has nothing in common with the symbolic relations which characterize pre-media society. An underground train is an interesting environment for investigation. People, although sitting next to each other, isolate themselves and try never to look at other people. In this particular context, looking at someone in the eye is seen as inopportune, almost provocatory. Young people listen to their music with their earphones, converse on the telephone or watch some film on their cell phone, isolated in their corner. All sit next to each other, in their solitude. Probably, this is the great paradox of the world today, i.e., the increase in those available means which allow us to enter into contact with others who, perhaps, are to be found on the other side of the world, has in fact had the effect of increasing our solitude. An aspect of the crisis which affects the most developed societies and to which we have still not dedicated enough attention. Does the contemporary urban landscape reflect this anthropological crisis? The landscape, especially the urban landscape, clearly reflects the nature of the world today. The city has changed. The urban scenario has in any case always been a territory

–Transiti/Transits of deconstruction and reconstruction. In the last pages of Pére Goriot by Balzac, from the heights of the cemetery, Père Lachaise, the main character Rastignac contemplates the city of Paris, looking down, his gaze falling between the column of place Vendôme and the dome of Les Invalides. The panorama is that of a world entangled, a tortuous labyrinth resting on the Seine. Modern Paris too, described by Baudelaire is an expanse of different architectures, testifying to the succession of historical periods mixing in the unity rediscovered of the legible landscape under his nose. At that time the French capital was going through what amounted to a revolution in the urban fabric. “The Paris of the past no longer exists” writes the poet looking from his window, observing with a critical, but also romantic eye, the modernity of a city in which the smoking chimneys of the factories shared the sky with the ancient bell-towers of the churches. But the visible stratification of the different historical periods, the coexistence of styles, the cohabitation of old and new, no longer characterise the contemporary urban landscape. The sensation is that of isolating historical neighbourhoods in their purity, making open-air museums of them. The vital part of the city has been transferred outside. There are absurd examples of this. In Paris the need was felt to invent a new city, the futuristic Défense area which is to be found a few kilometres west of the metropolis, an artificial world with very few houses and which we cannot embrace, with our gaze fixed on the historical Parisian panorama. We are living increasingly in a world of juxtapositions rather than conjugations. Only in very rare cases can we continue to see urban landscapes which might evoke the modernity of the Paris of Baudelaire. In Chicago they had the brilliant idea of building the new skyscrapers alongside those erected at the beginning of the 20th century. The architectures blend in a harmony of urban pieces, perfectly integrated. Whereas the general tendency is that of a ‘Dubaization’ of the world, the development of hyper-modern urban islands alongside historical cities, as in the desert. We have lost the spirit of that modernity which, without interruption, joins up with history through accumulation. We occupy another historical dimension, keeping a due distance from the past. a cura di/by Fulvio Caldarelli

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Stefan Sagmeister, Obsession makes my life worse and my work better (Š Photo Jens Rehr).

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Scott Burnham

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–Interazioni/Interactions Sul volo per Bari, in Italia, dove dovevo fare un intervento al convegno La città senza nome, ho guardato fuori dal finestrino mentre l’aereo decollava e mi sono messo a osservare il panorama di Londra disteso sotto di me. Era una bella giornata e una rotta aerea insolita ci ha portato oltre il centro di Londra a una quota relativamente bassa. Tutti i passeggeri seduti accanto al finestrino schiacciavano il viso contro il vetro per godersi questa rara vista di Londra. Una coppia seduta nella fila davanti alla mia ha iniziato a percorrere Londra attraverso i punti di riferimento più ovvi: il London Eye, il Parlamento, Trafalgar Square e così via, provando un piacere immenso nel riuscire a distinguerli e riconoscerli. Inizia a svilupparsi una narrazione di turisti che tornano dalle vacanze. Dietro di me, un uomo diceva “guarda laggiù, si può vedere il Lord’s”, riferendosi al famoso stadio di cricket nella zona Oval di Londra, piuttosto distante dai luoghi turistici sotto di noi ma, per lui, lo stadio di cricket in lontananza era il punto d’interesse. “E guarda la rotatoria laggiù, una volta mi si è rotta la macchina proprio lì in mezzo, ho avuto auto che mi giravano intorno per un’ora mentre aspettavo che qualcuno venisse a darmi una mano”. Quindi in questo caso la narrazione ha iniziato a rivelare un londinese nativo (e appassionato di cricket), la cui conoscenza di Londra era tale da fargli seguire le strade che si allontanavano da Londra per identificare ciò che per lui era importante, da stadi famosi a episodi di vita personale. Questa discrepanza tra le due narrazioni, due fra i tanti scambi intorno a me, mi ha fatto pensare profondamente all’idea della città senza nome, visto che stavo per trascorrere due giorni a discutere proprio di questo. Tutte le città sono ‘senza nome’ a un certo punto della nostra vita e dipende da noi se vogliamo dar loro un nome, sia attraverso le icone famose recitate a memoria dai turisti sia attraverso interessi personali, storie di eventi sportivi e guasti sul ciglio della strada. Narrazione pubblica e narrazione privata, e combinazioni delle due.

[english] On the flight to Bari, Italy to speak at The nameless city conference, I looked out the window as the plane took off and watched the landscape of London stretch out below. It was a beautiful day, and a rare flight path brought us over central London at a relatively low altitude. Everyone with a window seat was pressing their face against the glass to enjoy this rare view of London. A couple in the row in front of me began navigating London by the most obvious of landmarks – the London Eye, Houses of Parliament, Trafalgar Square, and so on, taking immense delight that they could distinguish and identify them. A narrative of tourists returning from holiday began to unfold. Behind me, a man was saying “look way over there – you can see Lords”, referencing the famed cricket grounds in the Oval area of London. Oval was a fair distance from the tourist sites below us, but for him, the cricket grounds in the far distance was the site of interest. “And you see that roundabout over there,” he said, referring most likely to the Elephant and Castle junction slightly closer in view. “I once broke down right in the middle of that. Cars were going around me for an hour while I waited for someone to help.” So here, the narrative began to unfold of a native Londoner (and cricket fan), whose knowledge of London was such that they were following the routes stretching away from London to identify what mattered to them, from famed sports arenas to moments of personal history. These two variances of narrative, two of many exchanges surrounding me, made me think deeply about the idea of the nameless city, as I was about to spend two days discussing just that. All cities are 'nameless at some point in our lives, and it is up to us to name them, either through famous icons recited by tourists, or through personal interests and histories of sporting events and roadside breakdowns. Public narrative and personal narrative, and combinations of the two. How do we battle against the nameless city? By repositioning the city not as the end result of our achievements, but as a platform for ones yet to come. A platform for play,

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Come combattiamo la città senza nome? Riposizionando la città non come il risultato delle nostre scoperte, ma come una piattaforma per le novità ancora da scoprire. Una piattaforma per sperimentare esperienze eccezionali, la forza dell’imprevisto, e interazioni inattese. La stazione Angel della linea nord della metropolitana di Londra vanta la scala mobile più lunga in Europa. Questo fatto apparentemente banale appare sullo schermo all’inizio di un breve video su YouTube, realizzato con la visuale di una persona sulla scala mobile di Angel in salita che porta con sé un paio di sci. Le urla dei vigilanti della stazione aumentano dietro di lui non appena iniziano a realizzare cosa sta per succedere e l’uomo inizia a sciare giù per la scala mobile. A un certo punto, un individuo ha deciso di voler attribuire alla scala mobile una funzione alternativa: la funzione prestabilita della scala mobile identificava un senso per il suo utilizzo, ma questa persona ne ha scelto un altro che si avvicinava di più ai suoi desideri. Possiamo chiamare questo uso desiderato al di fuori dell’uso corrente un ‘sentiero del desiderio’ che dirige un elemento della città verso una direzione diversa dalla sua funzione abituale. Milioni di residenti urbani esercitano questo stesso principio ogni giorno nelle varie città del mondo senza mai considerarsi sostenitori radicali di una realtà urbana alternativa. In quasi tutti i parchi pubblici e spazi verdi di una città esiste un percorso pedonale consumato dall’uso che devia dal marciapiede o dai vialetti in pietra. Il progettista originario del paesaggio o l’urbanista ha costruito dei passaggi per imporre il movimento e l’uso delle aree verdi, ma i loro utilizzatori reali, invece di camminare in linea dritta e fare una curva di novanta gradi per raggiungere la destinazione finale, come stranamente fanno molti passaggi pedonali, hanno deciso di camminare tra l’erba in linea diretta. Spesso questi percorsi sono molto più organici e naturali nel loro fluire rispetto a quelli imposti. Nel tempo, questi percorsi generati dall’uso abbassano l’erba e formano sistemi di circolazione alternativi: sentieri del desiderio dello spazio. exceptional experiences, the strength of the unforeseen, and unexpected interactions. Angel station on London’s Underground Northern Line boasts the longest escalator in Europe. This seemingly banal fact curiously pops up on the screen at the beginning of a short YouTube clip, the video filmed from the perspective of someone ascending the Angel escalator, carrying a pair of skis. The shouts of station guards rise behind him as they begin to piece together what is about to take place as he proceeds to ski down the escalator. At one point, an individual decided that they wanted the escalator to perform an alternate function – the predetermined function of the escalator identified one direction for its use, but this person had chosen another which fit his desires more closely. You could call this desired use beyond its current use a 'desire pathwhich' leads an element of the city a different direction than that of its usual function. Millions of urban residents exercise this same principle every day in cities around the world without ever considering themselves to be radical proponents of an alternate urban reality. In almost every public park and grassed space in a city, there exist a worn footpath that deviates from the pavement or stone walkways. The original landscape designer or urban planner built the paths to dictate movement and use of the green area, but its actual users decided that instead of walking in a straight line and turn at a ninety degree angle to get to their eventual destination – as strangely, many walkways do – they were going to walk across the grass in a direct line. Often, these paths are much more organic and natural in flow than the one dictated to them. Over time, these user-generated pathways wear down the grass and form visible alternate traffic flows: the desire paths of the space. Alternate narratives are being created in almost every city in the world outside of the planned systems and structures of urban municipalities. In the exploration of the dilemma of the “Nameless City”, a new breed of urban citizens are taking it upon themselves to ensure that our shared urban environments do not go nameless nor succumb to the prescribed narrative of urban planners, and are instead imbued with new desire paths showing how individuals want the aesthetics of the city to function. To go back to the

In alto/top: Mark Jenkins, Traffic go round. In basso da sinistra/bottom from the left: Window display, Urban Play. Nothing Design Group, Fish in the Sky. Poster, Urban Play.

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窶的nterazioni/Interactions

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Semafori Traffic lights

URBAN PLAY In quasi tutte le città del mondo vengono create narrazioni alternative, fuori dai sistemi programmati e dalle strutture delle municipalità urbane. Nell’esplorazione del dilemma della città senza nome, una nuova discendenza di cittadini urbani si sta impegnando per fare in modo che gli ambienti comuni delle città non diventino senza nome né soccombano alla narrazione stabilita degli urbanisti, ma che siano invece intrisi dei nuovi sentieri del desiderio, per mostrare come gli individui vogliono che funzioni l’estetica della città. Per ritornare ai passeggeri dell’aereo diretto a Bari, la città può volere che guardiamo le attrazioni turistiche, ma nello stesso spazio i suoi residenti quotidiani creeranno le proprie narrazioni. Per Mark Jenkins sia gli spazi sia i residenti si intrecciano gli uni con gli altri per creare la narrazione. Una delle sue opere più famose è Traffic-go-round, una sorta di giostra del traffico, un’installazione composta da una serie di cavalli da giostra collocati sui lampioni stradali in mezzo ad una rotatoria. Uno spettacolo piacevole in se stesso e quando si considerano le automobili che girano intorno ai lampioni si comprende che l’opera è stata creata per gli automobilisti, che guardano dal finestrino e si rendono conto che le loro auto sono il mezzo di animazione, dando vita al cerchio di cavalli. Il San Francisco Collective Rebar è un altro esempio modello di persone che rielaborano la città esistente per creare nuove narrazioni e sentieri del desiderio per i residenti. La maggior parte dei membri di questo collettivo è composta da progettisti del paesaggio e architetti specializzati, che hanno i canali professionali per lavorare all’interno della struttura burocratica della città, ma che hanno preso la decisione consapevole di lavorare all’esterno di essa per creare delle risposte più dinamiche ai bisogni dei residenti. Uno dei loro progetti più famosi è la creazione di spazi Park(ing). Frustrati dalla mancanza di aree verdi nella città in cui vivono, un giorno i membri hanno messo insieme rotoli di prato pronto, alberi, una panchina e una manciata di cambiamento per trasformare la struttura della loro città nel microlivello. Inserendo le monete nel parchimetro, hanno preso in affitto un posto auto e hanno cominciato a trasformarlo in un parco cittadino in miniatura con l’erba, gli alberi e una panchina. Ogni anno, il 18 settembre, si festeggia la giornata mondiale del Park(ing) e in quella data svariate città, da Hong Kong a Johannesburg, godono di un improvviso aumento delle aree verdi locali grazie ai residenti che replicano l’evento. Dalle fermate degli autobus ai tabelloni pubblicitari, le immagini commerciali della città plasmano profondamente la nostra esperienza estetica della città stessa. Come devono essere, dove devono essere collocate o cosa devono trasmettere le immagini pubbliche degli annunci pubblicitari, è una decisione presa non da chi le troverà nella vita di tutti i giorni. Le persone stanno prendendo l’iniziativa per rielaborare queste immagini pubbliche in un’estetica più piacevole sul piano personale. Come con la maggior parte delle cose, il linguaggio visivo della città è in costante cambiamento. E come cambia il linguaggio pubblicitario della città, così cambia la risposta ad esso. Nel tentativo di aumentare l’attenzione delle persone verso i messaggi commerciali e di introdurre un mezzo meno soggetto alle intromissioni pubbliche, diversi anni fa New York City ha proposto dei tabelloni video in cima alle fermate della metropolitana. È arrivato così il Pixelator di Jason Eppink, che nascondeva il tabellone con una griglia di quadrati semi-opachi, creando un foglio gigante di blocchi pulsanti di colore con lo scorrere del video. Facendo fare un altro passo allo spirito open source di questo nuovo approccio al design urbano, Eppink ha reso disponibili on line le istruzioni e i dettagli tecnici della sua opera. Questi interventi, nel loro profondo, sono più di un gioco creativo tra l’artista e la città fisica e possono essere visti come una forma nascente di progettazione urbana ‘fai da te’. Essi sono il segnale di un salto di qualità nella relazione tra il potere dell’individuo e l’estetica della città. Se considerassimo questo dialogo urbano di progettazione come un linguaggio visivo, nella stessa luce in cui vediamo li linguaggio verbale, allora proprio come la terminologia da strada e lo slang hanno riempito i vuoti del nostro linguaggio formale, la progettazione da strada ha sviluppato il proprio vernacolo per riempire i vuoti del design formale della città. Questo nuovo linguaggio di progettazione da strada trasforma lo scenario fisso della città in una piattaforma per nuove narrazioni. Per me l’energia e l’innovazione di questa attività al di fuori del controllo della città rappresentava una sfida: sarebbe possibile creare queste piattaforme all’interno della città formalmente, in modo da dare alle persone la possibilità di alterare e riproporre le cose come vogliono e non semplicemente di usarle nel modo che è stato loro indicato. In risposta a questa sfida autoimposta, nel 2008 ho creato a Amsterdam Urban Play. © Lorem ipsum lorem ipsum lorem ipsum lorem ipsum lorem ipsum

people on the plane on they way to Bari, the city may want you to look at the tourist attractions, but its daily residents will create their own narratives in the same space. For Mark Jenkins, both the spaces and the residents weave with one another to create the narrative. One of his most famous pieces is traffic-go-round, a piece consisting of a series of bright merry-go-round horses placed on street lamps in the middle of a roundabout. A pleasing spectacle in itself, when one considers the cars going in circles around the lamps, you realise that this was created for the drivers as they look out their window and realise that their cars are the animation vehicle, making the circle of horses come to life. The San Francisco collective Rebar are another model example of those reworking the existing city to create new narratives and desire paths for its residents. Most members of the collective are trained landscape designers and architects who have the professional channels to work within the tiered bureaucracy of the city, but have made the conscious decision to work outside of it to create more dynamic responses to the needs of its residents. One of their most famous projects is the creation of Park(ing) spaces. Frustrated by the lack of green space in their home city, one day the members gathered rolls of pre-grown grass, trees, a park bench and a handful of change to change the fabric of their city at the micro level. Feeding a parking meter with quarters, they hired a parking space and set about transforming it into a miniature city park with the grass, trees, and bench. Today, each 18 September is celebrated as worldwide Park(ing) day, and on that day cities from Hong Kong to Johannesburg enjoy a bump in local green spaces as local residents replicate the event. From bus stops to billboards, the commercial visuals of the city shape our urban aesthetic experience profoundly. While the decision of what the public visuals of the adverts say or look like, and where they are placed, are decisions made not by those who experience them in their daily lives. People are taking their own initiatives to rework these public visuals into a more personally pleasing aesthetic. As with most things, the visual language of the city is constantly changing. And as the advertising language of the city changes, so does the responses to it. In an effort to increase people’s attention to commercial messages and to introduce a medium less susceptible to public intervention, several years ago New York City introduced video billboards atop their subway stations. Then came Jason Eppink’s Pixelator, masking the billboard with a grid of semi-opaque squares, creating a giant sheet of pulsating blocks of colour as the video ran beneath. Taking the open source spirit of this new approach to urban design one step further, Eppink made the instructions and technical details of his work available online. These interventions, at their core, are more than a creative play between the artist and the physical city, and could be seen as a nascent form of DIY urban design. They signal a step-change in the relationship between the power of the individual and the aesthetics of the city. If we were to consider this urban dialogue of design as a visual language in the same light that we do our spoken language, then just as 
street-level terminology and slang has filled in the gaps of our formal language, street-level design has developed its own 
vernacular to fill the gaps in the city’s formal design. This new street-level language of design transforms the fixed landscape 
of the city into a platform for new narratives. For me, the energy and innovation of this work outside of the control of the city presented a challenge – would it be possible to create these platforms within a city formally, so that people were given an opportunity to alter and repurpose things as they wished, and not to simply experience them as they are told. In response to this self-imposed challenge I created Urban Play in Amsterdam in 2008. In partnership with Droog Design as part of the Experimenta Design Biennale, Urban Play was created to extend the energy an inventiveness inherent in individuals when given the freedom to change elements of the physical city as they wished. “And what if,” I asked the city of Amsterdam, “instead of the usual breed of urban design which discourages intervention and interaction, we explore urban design that invites it?” Urban Play was about creating a design democracy in the streets of the city – enabling people to shape, alter and creatively intervene with the shared objects and areas of the city, re-defining urban design as an open public process, not a fixed product. There were no instructions offered for the city’s residents of what to do with the new designs, or what was right or wrong, simply a map of where they were located. For Marti Guixe’s Sculpt Me Point, people encountered a massive cube of easily carved cement, allowing them to personally create a public sculpture. The only creative guidance they were given were the hammers and chisels tethered to the centre of the huge cement cube. Within hours of its installation, people would stop, stare, and seconds later would be chiselling away, carving out words, faces and other sculptural forms. With NL Architects’ Moving Forest, people were given access to a vast array of trees, shrubs, plants and other greenery in trolleys, which they could move around and reposition

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窶的nterazioni/Interactions

NL Architects, Moving forest (ツゥ Photo Scott Burnham).

Rebar, Park(ing).

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Semafori Traffic lights

Jason Eppink, Pixelator.

© Lorem ipsum lorem lorem ipsum lorem ipsum lorem ipsum Marti Guixe, Sculpt Me ipsum (© Photo Scott Burnham).


URBAN PLAY

In collaborazione con Droog Design come parte della Biennale Experimenta Design, Urban Play è stata creata per estendere l’energia e l’inventiva insite negli individui quando viene data loro la libertà di cambiare gli elementi della città fisica nel modo che preferiscono. “E se”, ho chiesto alla città di Amsterdam, “invece delle solite generazioni di urbanisti che scoraggiano l’intervento e l’interazione, esaminassimo una progettazione urbana che le stimoli?” Urban Play riguardava la creazione di una democrazia di progettazione nelle strade della città, consentendo alle persone di dare forma, alterare e interferire creativamente con gli oggetti e aree comuni della città, ridefinendo il design urbano come un processo pubblico aperto e non un prodotto stabilito. Non c’erano istruzioni per i residenti della città su cosa fare con i nuovi progetti, o cosa fosse giusto o sbagliato, ma c’era semplicemente una mappa che indicava dove si trovavano. In Sculpt Me Point di Marti Guixe le persone si imbattevano in un enorme cubo di cemento facile da incidere, che dava loro la possibilità di creare personalmente una scultura pubblica. L’unica guida creativa che veniva fornita loro erano martelli e scalpelli legati al centro dell’immenso cubo di cemento. Qualche ora dopo la sua installazione le persone si fermavano, lo osservavano e qualche secondo più tardi si mettevano a scolpire, intagliando parole, facce e altre forme scultoree. Con Moving Forest degli NL Architects, le persone avevano accesso a un vasto assortimento di alberi, arbusti, piante e altra vegetazione posti in dei carrelli che potevano spostare e riposizionare come volevano, consentendo ai residenti urbani di collocare questa vegetazione in punti diversi della città e organizzare uno spazio verde in base alle loro preferenze. Se alla persona o al gruppo successivo che arrivava alla foresta mobile non piaceva la sistemazione, potevano riorganizzarla loro stessi. Nell’installazione del Nothing Design Group Fishes in the Sky, dei pesci nuotavano nel cielo quando il vento soffiava, le persone potevano prenderli e attaccarli sulle loro biciclette e interagire con essi sui ponti pubblici. Come con tutti gli esperimenti, alcune cose non vanno secondo i piani. Per Urban Play è stata la frase interattiva di Stefan Sagmeister contenente 300.000 monete da un centesimo a diventare in diversi sensi lo spettacolo dell’esperienza del gioco urbano. Oltre 150 volontari hanno impiegato una settimana a creare la frase da una montagna di monete, collocando meticolosamente ogni moneta in una grande piazza della città per comporre la frase ‘Le ossessioni rendono peggiore la mia vita e migliore il mio lavoro’. Le monete, dipinte di blu su un lato, non erano fissate per terra per consentire alle persone di capovolgerle e mischiare il colore generale e la sfumatura di questa frase elaborata, poiché il rame e la tonalità blu avrebbero alterato la visione d’insieme. E sì, sapevamo che alcune sarebbero state rubate. Ciò era parte della natura organica del lavoro: quale parte sarebbe stata presa per prima? Come si sarebbe degradata la frase? Era un esperimento nell’esperimento. Ciò che non ci aspettavamo era di andare a osservare la frase la mattina dopo l’apertura per trovare solo una piazza completamente vuota, non si vedeva neanche una moneta. Diversi dialoghi con i residenti locali e telefonate alla polizia hanno lentamente rivelato che un residente aveva segnalato che qualcuno stava “rubando un’opera d’arte” prelevando alcune monete nel cuore della notte. La polizia aveva reagito doverosamente e, per prevenire ulteriori furti aveva provveduto a “mettere al sicuro l’opera d’arte” raccogliendola in sacchetti della spazzatura. Sebbene fosse piuttosto divertente avere una dozzina di sacchetti di monete nella sede generale del progetto come promemoria del suo svolgimento, era anche un triste memento che, a volte, anche le autorità con le migliori intenzioni possono avere un effetto deleterio quando reagiscono in modo tradizionale a situazioni inusuali. Un pensiero finale sull’idea della città senza nome è che con la riluttanza mostrata in molte città verso il modificare il design urbano, con una globalizzazione di identità e offerte commerciali e con una crescente omogeneizzazione dei paesaggi urbani, il rischio di ritrovarsi in una città senza nome esiste sempre. Dobbiamo tenere a mente che le maggiori narrazioni create nelle città sono ricordate solo dai turisti. Per il resto di noi, i nomi e i significati che diamo ai luoghi provengono dalle narrazioni che creiamo noi stessi. Sia attraverso interventi di progettazione individuali che empirici, la città è piena di sentieri del desiderio che differiscono dalle intenzioni prefissate della città. Alcuni progettisti del paesaggio hanno lasciato i parchi senza vialetti finché non si sono creati dei sentieri del desiderio attraverso i movimenti naturali delle persone nello spazio, per creare poi dei vialetti che seguono queste linee del desiderio. Le città dovrebbero fare lo stesso.

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–Interazioni/Interactions as they liked, allowing the city’s residents to place greenery in different locations in the city and arrange a green space as they liked. If the next person or group to come across the Moving Forest didn’t like how it was arranged, they could re-do it themselves. In Nothing Design Group’s Fishes in the Sky, fish that swam in the sky when the wind blew, and people could take and attach to their bikes and interact with on public bridges. As with all experiments, some things don’t go as planned. For Urban Play, it was Stefan Sagmeister’s interactive sentence containing 300,000 euro cent coins which became the spectacle of the Urban Play experience in more ways than one. Over 150 volunteers spent a week creating the sentence from a mountain of coins, each coin meticulously placed across a large square in the city to spell the sentence ‘Obsessions make my life worse and my work better’. The coins, which were painted blue on one side, were not fixed to the ground, to allow people to flip them over and begin remixing the overall colour and tone of the ornate sentence as copper and blue hues would begin altering the overall visual. And yes, we knew that some would be stolen. That was part of the organic nature of the work – which areas would be taken first? How would the sentence degrade? It was an experiment within an experiment. What we did not expect is to visit the sentence the morning after it was launched, only to find a completely empty square – not a single coin in sight. Discussions with local residents and phone calls to the police slowly revealed that a resident had reported that someone was “stealing an artwork” by pocketing some coins in the middle of the night. The police dutifully responded, and, to prevent any further theft, proceeded to “secure the artwork” by sweeping it up into trash bags. While it was slightly amusing to have a dozen bags of coins in the project headquarters for the remainder of its run, it was also a sad reminder that at times, even well-intentioned authorities can have a damaged effect when they respond to unusual situations in traditional ways. A final thought on the idea of the nameless city is that with reluctance being shown in many cities to take chances with urban design, a globalisation of commercial identities and offerings, and an increasing homogenisation amongst urban landscapes, the danger of finding ourselves within a nameless city is always there. We must remember that the narratives created at the top in cities are only remembered by the tourists. For the rest of us, the names and meaning we give places are made by the narratives we create ourselves. Whether experiential or through individual design interventions, the city is full of desire paths which differ from the prescribed intentions of the city. Some landscape designers have left parks without paths until the desire paths are created by people’s natural movements through the space, and then create paths to follow these desire lines. Cities should do the same. www.scottburnham.com

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–Armonie/Harmonies

Il tasto giusto The right button Il linguaggio musicale è un istinto innato? Tutti hanno talento musicale, la differenza sta nel fatto che alcuni riescono a tirarlo fuori ed esercitarlo con maggiore facilità. Al di là di programmi di insegnamento più o meno validi, esistono buoni insegnanti e cattivi insegnanti. C’è chi plasma l’allievo a propria immagine e somiglianza, disinteressandosi completamente della sua personalità. Ricordo che a nove anni, ho preso coraggio e ho chiesto alla mia maestra di musica classica se mi insegnava a suonare Pianofortissimo di Renato Carosone. Molti docenti mi avrebbero messo a tacere, liquidando quel brano come una banale canzonetta senza dignità che non aveva niente a che fare con la musica ‘seria’. Lei invece non ha mostrato pregiudizi e mi ha fatto suonare una canzone che non conosceva neanche. Quasi sempre la didattica della musica segue una rigida impostazione nel rispetto di regole prestabilite, senza preoccuparsi degli interessi e delle inclinazioni degli studenti. Il conservatorio, come testimonia il nome, è una realtà assolutamente conservatrice. Ci sono cose che ritengo aberranti: sono convinto che molti bambini proseguirebbero lo studio della musica se non incontrassero per prima cosa sulla loro strada il dogma del solfeggio. E’ un’assurdità pretendere di insegnare a un bambino come si chiamano, si scrivono e si leggono correttamente le note, prima ancora che abbia preso in mano uno strumento e ne abbia scoperto il suono. Sarebbe come insegnare al proprio figlio, che ancora non sa parlare, la scrittura della parola ‘albero’ senza che ne abbia visto almeno uno, quantomeno in foto o in disegno. La musica è un linguaggio e, come nell’apprendimento del linguaggio verbale, lettura e scrittura andrebbero insegnate a coloro che hanno già iniziato a parlare. Come avviene in tante altre culture non occidentali, bisognerebbe che le persone incontrassero la musica prima di tutto suonandola. Noi invece abbiamo abolito questo primo approccio diretto e spontaneo alla musica: autorizziamo a parlare soltanto chi sa leggere e scrivere. Siamo sopravvissuti in tanti a una simile didattica della musica, ma sono convinto che abbia prodotto i suoi danni: molte più persone, anche se non sarebbero diventate comunque dei musicisti professionisti, avrebbero potuto avere una relazione più profonda e consapevole con il mondo della musica. Quanto istinto e quanta strategia c’è nel musicista jazz? Intendo il jazz come un’estetica che trova nell’improvvisazione la strategia per rinnovare, attraverso l’istinto, una struttura data. Al di là di qualsiasi ideale di perfezione, vive soprattutto in relazione al mood del momento. L’improvvisazione, pur non nascendo nel jazz, ne è l’autentica prerogativa. Anche se al conservatorio non viene raccontato, improvvisavano già i musicisti barocchi, sebbene in maniera più limitata e in sudditanza di determinate categorie estetiche. Di fatto, nello studio della musica classica si è deciso di bandire l’istinto unicamente a favore della strategia, quella di definire ogni dettaglio dell’interpretazione di un brano assolutamente prima della sua esecuzione. Si insegna a suonare seguendo accuratamente un copione prefissato, senza lasciare spazio all’istinto musicale del momento. Ma, guarda caso, i grandi musicisti classici di solito non hanno mai mostrato gran sintonia con i precetti dell’accademia. Ed è proprio questa estetica dell’imperfezione il vero contributo del jazz al Novecento. L’imperfezione non deve essere rinnegata perché è sintomo di ricerca. Il jazz non vuol essere celebrazione di una forma compiuta. Quando l’obiettivo è quello di perseguire un’interpretazione definitiva e raggiungere una forma perfetta, non c’è spazio per i rischi dell’improvvisazione e l’errore. E siccome un’esecuzione interamente soddisfacente non c’è mai, la sala di registrazione diventa allora uno strumento strategico per catturare le note giuste, assicurare i passaggi desiderati e aderire quanto più possibile alla forma idealizzata. E così un’incisione di sette minuti può contare oltre trecento tagli da parte del tecnico del suono. Evan Eisenberg, nelle pagine del libro L’angelo con il fonografo, spiega molto bene come l’avvento del disco abbia cambiato il modo di comporre e concepire la musica, anche quella classica. Glenn Gould è un vero stratega del

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Intervista a/interview with Stefano Bollani

lavoro in studio e della volontà di lasciare incisioni dove niente è lasciato al caso. Se l’intento è quello di firmare un’interpretazione di Bach che corrisponda il più perfettamente possibile alle decisioni stilistiche prese, è ovvio che la presenza del pubblico può essere solo di disturbo e che l’imprevisto come l’istinto debbano essere esclusi. Il melting pot che è all’origine del jazz (e dell’ America tutta) ha fatto sì che diventasse quasi subito non solo un genere musicale ma un vero e proprio linguaggio aperto utilizzato dalle culture più diverse. Il jazz ha influenzato in maniera più o meno dichiarata tutte le arti, anche quelle che sembrano non essersene accorte. Se la beat generation di Allen Ginsberg e Jack Kerouac si è ispirata direttamente al linguaggio jazz, anche esperienze apparentemente distanti come le rappresentazioni del Living theatre o l’action painting di Pollock ne ripropongono lo spirito. Un linguaggio che ha però una grammatica e delle regole che possono essere insegnate e apprese. Se c’è una cosa che il jazz ha sempre cercato di fare è quella di coniugare istinto e strategia. Nonostante la convenzionalità dei media lo descriva solo e soltanto come istinto allo stato puro. Leggenda vuole che i più grandi musicisti jazz siano pressoché analfabeti, con storie di emarginazione sociale e povertà, insomma, dei selvaggi miracolati dalla musica. Questa mistificazione della realtà ha portato a far diventare paradigmatici aneddoti come quello di Bix Beiderbecke incapace di leggere uno spartito, di Ella Fitzgerald geniale autodidatta che non ha seguito una sola lezione di canto o di Freddie Keppard che non ha mai inciso un disco per paura che gli altri potessero copiare il suo stile. Un po’ come il mito di Mozart bambino prodigio e genio senza regole. In realtà molti di questi artisti la musica la conoscevano e, soprattutto, la pensavano. Neanche icone della generazione maudit come Chet Baker e Charlie Parker possiamo pensare salissero sul palco come tossicomani invasati dal demone del jazz e improvvisassero guidati da un’istinto animale. I due sapevano perfettamente cosa e come suonare, il punto è che non lo sapevano spiegare in termini musicali, o meglio nei termini musicali canonici della musica europea. Come non dobbiamo cadere nella presunzione di affermare che c’è un solo modo di conoscere la vita, così non dobbiamo credere che esista un solo modo di pensare la musica. Parker non ha mai teorizzato in vita quali fossero le scale ben definite che in maniera del tutto consapevole utilizzava, ma individuate dai suoi adepti sono poi diventate la grammatica basilare del jazz moderno. Ancora oggi il jazz detiene il primato di linguaggio musicale più libero? Alla morte di qualcuno che in vita ha fatto cose importanti si erige un monumento alla sua memoria, anche se magari era il primo a scagliarsi contro le celebrazioni. Spesso nella storia della musica i musicisti più anti-accademici sono poi diventati emblemi intoccabili della musica accademica. È anche il caso di molti jazzisti che, mediaticamente e musicalmente, sono diventati paradigmi assoluti del jazz. Gli ultimi capolavori di riferimento incisi da grandi maestri come Wayne Shorter appartengono agli anni Novanta. Dopodiché è difficile trovare personalità simili; anche i musicisti più bravi si rifanno nella grammatica e nell’estetica a un determinato periodo storico rendendo il jazz un genere inevitabilmente accademico. È vero che improvvisano, ma continuano a improvvisare con le regole degli anni Cinquanta: stanno eseguendo una performance filologicamente corretta, come se stessero esguendo una ballata di Chopin. Pensare come Wynton Marsalis, direttore del prestigioso Lincoln Center, che al jazz debba essere riconosciuto ufficialmente lo status di nuova musica classica (con regole e grammatiche scritte una volta per tutte) significa, di fatto, privarlo di vitalità rinnegandone le evoluzioni presenti e future. In altre parole così si va a scegliere un momento storico del jazz e si decide che da lì in poi, il jazz è morto. Un errore in cui, prima o poi, tutti i cosiddetti ‘puristi’ del jazz incorrono. Ma se il jazz non è un genere musicale ma un linguaggio, individuarne la data di morte non ha senso. È una realtà multiforme che intelligentemente si è insidiata in tante altre realtà, anche se in maniera non dichiarata,

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IL TASTO GIUSTO The right button e proprio per questo sopravvive e non si lascia incasellare in una ‘storia del jazz’ scritta a suon di correnti musicali ed eroi. Contraddizioni in termini: un’improvvisazione è tanto convincente da sembrare composizione scritta e un’esecuzione è tanto autentica da sembrare illuminazione del momento? Un giorno ascoltando la radio ho sentito suonare al piano un brano che non avevo mai sentito: poteva essere Keith Jarrett che improvvisava dal vivo o un musicista classico che eseguiva uno spartito; proseguendo con l’ascolto mi sono convinto che si trattasse della prima ipotesi: chiunque fosse, stava suonando trasmettendo un’impressione di autentica spontaneità. Soltanto alla fine ho scoperto di essere stato tratto in inganno: quello che avevo ascoltato erano i Preludi di Debussy eseguiti da Jörg Demus. Anche se in questo caso, parte dell’inganno era stato teso - ahimé - dalla mia ignoranza, realizzare l’illusione della spontaneità non richiede necessariamente che istinto e strategia siano mascherati. Un attore che recita un’opera famosissima come l’Amleto non può mentire con il pubblico sulla spontaneità delle sue battute: lo spettatore già le conosce prima ancora che siano pronunciate. Tuttavia anche nella consapevolezza che si tratta di finzione perché tutto è già scritto su un copione, un bravo attore convince e commuove. Anche in musica non possiamo assistere stupefatti all’esecuzione di brani noti, abbiamo già delle aspettative e anticipiamo mentalmente il divenire del brano. Più è conosciuta l’opera che viene recitata o suonata, maggiore è la difficoltà dell’interprete. L’impressione che Demus mi aveva trasmesso era quella di un musicista che stava componendo sul momento, che esitava nel procedere scegliendo di volta in volta la strada da seguire. Di fatto, invece, si trattava di scelte calibratissime concepite a tavolino da un compositore straordinario che oltre mezzo secolo fa aveva fissato sul pentagramma il divenire di ogni nota. Ma l’applauso va anche a chi, improvvisando veramente, riesce a costruire una cosa talmente bella formalmente da non poter pensare che sia stata improvvisata. Questo forse è il vero colpo di genio, il risultato massimo della giusta combinazione di istinto e strategia. E il merito dei grandissimi musicisti è che non te le fanno pesare, non ti fanno intuire la complessità dello sforzo creativo del momento. Spesso mi viene chiesto a che cosa io pensi quando sto suonando: semplicemente, penso alla musica. Valuto quale accordo fare, che direzione intraprendere. È proprio perché sto improvvisando che devo pensare bene a ogni dettaglio musicale di quello che sto per fare. A volte subentrano degli automatismi delle mani, altre vengo trascinato dalla frase di un musicista che suona con me, arrivando a cambiare totalmente il discorso che mi ero prefigurato. Improvvisare non significa ignorare le regole, tutt’altro. La vera libertà è quella di conoscerle ma applicarle in maniera sempre diversa e, talvolta, sovvertirle. Una libertà che non promette la certezza del risultato e che, dunque, può anche spaventare. La volontà di rileggere e improvvisare su una composizione trova a volte qualche ostacolo obiettivo? Certa musica funziona proprio in virtù della sua forma. Ad esempio, inizialmente avevo pensato il mio disco Piano solo come un omaggio interamente dedicato a Prokofiev, ma poi ho rinunciato, lasciando una sola improvvisazione intorno a un tema del grande compositore sovietico. Gran parte della musica classica del Novecento è costruita su architetture ponderatissime in cui la melodia ha un ruolo marginale: manca la materia prima per poter sviluppare un variazione sul tema. Scomporre e ricomporre la struttura significa sconfessarne l’essenza. Una cellula melodica individuata in Mozart consente invece esercizi sorprendenti. E poi mi scontro sempre con la difficoltà di suonare e improvvisare sui brani che mi piacciono di più. In questo non tengo fede a quello che è invece il mio istinto dichiarato: risuonare una musica non per renderla migliore ma, semplicemente, diversa. Ma con certi pezzi musicali vengo sopraffatto dalle manie di perfezione e comincio a ripetermi che è inutile toccarli perché l’atmosfera era già perfetta, il suono del disco era già quello giusto...e così, paradossalmente, mi ritrovo a improvvisare su una ‘canzonetta’ di Riccardo Del Turco e raramente sul repertorio dei miei adorati Beatles, perché magari non riesco a immaginare i loro brani diversi da come sono, da come li ho amati. Esiste un valore aggiunto nell’identità culturale raccolta dal jazz italiano? Il jazz italiano di oggi sfugge a una sola definizione: presenta più anime, dalle correnti legate al formalismo classico ai musicisti memori della tradizione delle bande paesane. Così come esistono molte definizioni per il jazz europeo, territorio di culture molto diverse tra loro. In generale, si è deciso che l’apporto principale

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–Armonie/Harmonies è l’algidità, una caratteristica che in parte è conseguenza della classicità attribuita al jazz in un continente storicamente così ricco di tradizione musicale. Una concezione che però tradisce il pregiudizio che contrappone un’adeguata preparazione accademica e intellettuale alla preparazione approssimativa e alla presunta ignoranza diffusa dell’America dei neri. Ma se il jazz europeo può essere definito più intellettuale è per altri motivi: quasi da subito ha lasciato i locali da ballo per essere suonato nei teatri e questo, inevitabilmente, ha influenzato anche l’atteggiamento dei musicisti. E sebbene il catalogo di una casa discografica prestigiosa e rappresentativa come la ECM sia molto variegato, l’immagine del jazz europeo contemporaneo che arriva presso il grande pubblico è parziale: quella della purezza formale evocata dalle incisioni di musicisti nordici e scandinavi. In effetti, da oltre quarant’anni, Manfred Eicher dirige l’etichetta di Monaco di Baviera con una strategia ben precisa: sviluppare un vero e proprio progetto artistico a cui, di volta in volta, prendono parte i diversi musicisti in catalogo. Le scelte di produzione non rispondono a necessità commerciali, ma alle istanze di una visione autoriale. E così le uscite discografiche a marchio ECM non vogliono essere una rassegna esaustiva del jazz dei nostri giorni, ma l’opera riconoscibile di un artista guidato dal proprio gusto musicale. Il jazz più intellettuale di tutti è senza dubbio quello francese: i primi ad ascoltare jazz in Europa sono stati grandi protagonisti della scena intellettuale come Sartre e Boris Vian, e quando poi è diventato la colonna sonora della nouvelle vague di Truffaut e di Godard ha acquisito lo status di un genere certamente conosciuto e riconoscibile, ma non popolare. In Italia per molto tempo non è stata neanche una musica di élite perchè censurata dal Fascismo come musica negroide, e soltanto più tardi pochissimi artisti lo hanno amato, ne hanno subito l’influenza, ne hanno parlato. In me spesso fa capolino un’idea del jazz vicina a quella delle sue origini: una musica nata nella strada da un popolo emarginato, con una spontanea visione di ‘collettivo’ che arriva direttamente dall’Africa. Una musica inizialmente suonata nei postriboli. Con il jazz si ballava, si faceva l’amore e anche si sparava. Una musica che continua anche ad essere spettacolo, entertainment, termine intraducibile se non con ‘intrattenimento’, termine sotto sotto piuttosto spregiativo e che rimanda al piano-bar. Il tuo recente incontro con il repertorio brasiliano appare molto istintivo e divertito, soprattutto se paragonato all’attegiamento decisamente cerebrale e occidentale di Sakamoto che interpreta i classici di Jobim... Con Carioca ho perso la mia identità. Pianista europeo, mi sono improvvisamente ritrovato a suonare come un brasiliano. In parte una sconfitta, perché in realtà l’intento è sempre quello di portare una lettura diversa, sviluppando anche un solo accordo che a un pianista del posto non sarebbe potuto venire in mente. Il fatto è che si è trattata di un’operazione all’insegna della spontaneità, priva di qualsiasi intento strategico. Ho selezionato i brani con il solo criterio del mio gusto personale, sviluppandone l’arrangiamento senza voler realizzare una coerenza comune: poteva succedere qualsiasi cosa e, di fatto, ogni pezzo suona in maniera completamente diversa dall’altro. Alla base di operazioni come quella proposta nei due album di Sakamoto intitolati Morelenbaum traspare invece un intento programmatico ben preciso. La scelta estetica è stata quella di rendere volutamente marginale l’elemento basilare della cultura musicale brasiliana: il ritmo. Tutto è stato orchestrato per suonare in un determinato modo. Un atteggiamento lontanissimo dal mio. Sei applauditissimo interprete degli standard di Gershwin, ma anche sceneggiatore delle strisce che hanno per protagonista il tuo alter ego a fumetti, Paperfano Bolletta, sulle pagine di Topolino. Un musicista fuori dagli schemi con il guizzo della migliore tradizione cabarettistica italiana. A dispetto di ogni strategia di immagine? Fin da piccolo sono sempre stato un po’ giullare e santimbanco, è la mia personalità. Alcuni pensano che alla base delle mie scelte ci sia la volontà di sfuggire dalle definizioni. In realtà a me sembra di fare sempre e comunque la stessa cosa: comunicare, e con entusiasmo. Quando dopo essermi diplomato al Conservatorio Cherubini di Firenze, grazie alla stima di Enrico Rava, sono potuto uscire dal tunnel pop degli anni passati da turnista dedicandomi con sincerità a quello che mi piace fare veramente…Quando ho scritto un romanzo o fatto parodie in una trasmissione televisiva… quando gioco con il mio pubblico o conduco una trasmissione radiofonica lo faccio utilizzando sempre quello che credo essere un solo linguaggio. Il bello del mio lavoro è che, ormai da molti anni, posso decidere liberamente di fare quello che voglio, senza pormi problemi di immagine e lasciandomi guidare dall’ istinto e dal piacere. [english] Is musical language an innate instinct? Everyone has a talent for music, the difference is that some manage to draw it out and practice it with more ease. There are good teachers and bad teachers, apart from the

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IL TASTO GIUSTO The right button syllabus, which might be more or less valid. There are those who mould the student into their own image and resemblance, entirely ignoring the student’s personality completely. I remember that when I was nine I asked my classical music teacher to teach me to play Pianofortissimo by Renato Carosone. A lot of teachers would have just ignored me, passing this piece off as a silly song devoid of dignity which had nothing to do with ‘serious’ music. However, she had no any prejudice about it and she got me playing a song which she probably didn’t even know. Almost always, music teaching is tightly structured with respect to pre-established rules, and does not bother with the interests and inclinations of the students. The academy of music, as its name in Italian – conservatorio – suggests, is very conservative body indeed. There are things I consider aberrant, I am sure that many children would take up studying music if they didn’t come up against the dogma of solfeggio at the beginning. It is absurd to expect a child to learn what notes are called, how they are written and how they are to be read – correctly, even before they have come into physical contact with an instrument and discovered the sound it makes. It would be like teaching one’s own child, who has not even begun talking, how to write and pronounce the word ‘tree’ before he has even seen one. Music is a language and as in the learning of verbal language, reading and writing should be taught to those who have already begun to speak. As happens in so many other non-western cultures, we need people to encounter music above all by playing it. We, on the other hand, have abolished this first direct, spontaneous approach to music and I am convinced that this has damaged us. Many more people, even though they wouldn’t have become professional musicians, would have been able to have had a deeper relation with, and more awareness of, the world of music. How much instinct and strategy is there in the jazz musician? I see jazz as an aesthetics which finds its strategy for renewal of a given structure in improvisation, by means of instinct. Separate from any ideal of beauty and necessity, only the relation to the mood of the moment. Improvisation, even though it did not begin with jazz, is its authentic prerogative. Though they don’t tell you this at the academy, Baroque musicians were already improvising, even though in the sphere of a limited number of bars and in subjection to given aesthetic categories. In fact, in the study of classical music the decision was taken to banish instinct in favour of strategy, that of defining every detail of the interpretation of a piece before its execution. One teaches to play, following accurately a prearranged script, leaving nothing to the musical instinct of the moment. But paradoxically the great classical musicians have never, on the whole, been in tune with the precepts of the academy. Jazz does not wish to be the celebration of a finished form. And it is just this aesthetics of imperfection which is jazz’s real contribution to the 1900s. Imperfection which should not be denied because it is a symptom of research. When the objective is that of pursuing a definitive interpretation and achieving a perfect form, there is no room for the risks of improvisation and the error. Since a completely satisfying execution does not exist, the recording studio becomes a strategic instrument for capturing the right notes, assuring the desired passages and adhering as much as possible to the idealised form. Thus, a seven-minute recording might undergo three hundred cuts by the sound engineer. Evan Eisenberg, in his book L’angelo con il fonografo explains very well how the advent of the record changed the way music was composed and conceived, classical music too. Glenn Gould is an authentic strategist, concerning work in the studio and the desire to make recordings in which nothing is left to chance. If the aim is to offer an interpretation of Bach, which most corresponds to the stylistic decision taken, it is obvious that the presence of the public can only be a disturbance and that the unexpected as instinct has to be excluded So the melting pot, which is the origin of jazz (and the whole of America) led to it becoming, almost immediately, not only a musical genre but nothing less than an open language in itself, used by a variety of cultures. Jazz influenced all the arts in more or less obvious ways, even those which seem not to have noticed. While the beat generation of Allen Ginsberg and Jack Kerouac was directly inspired by jazz, experiences which were apparently distant, like the representations of the Living theatre or Pollock’s action painting, re-proposed its spirit. A language however, which has a grammar and rules which can be taught and learned If there is one thing that jazz has always tried to do it is to conjugate instinct and strategy, despite the conventionality of the media in describing it only as an instinct of a pure nature. This mystification of reality has led to false legends, for example about Bix Beiderbecke who couldn’t read sheet music or Ella Fitzgerald as a self-taught genius who never took a single singing lesson or Freddie Keppard who never recorded because he was afraid others might copy his style. In actual fact, all these artists knew and above all thought about music. Not even icons of the maudit generation like Chet Baker and

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–Armonie/Harmonies Charlie Parker. Drug addicts getting up on the stage possessed by the jazz demon and improvising. Both knew perfectly well what and how to play, the point is that they did not know how to explain, in musical terms or rather in the canonical musical terms of European music. Just as we shouldn’t fall into the trap of presuming that there is only one way of knowing about life, we must not believe that there exists only one way of thinking about music. Parker never theorised in his life about the well defined scales which he, unaware, was using but once singled out by his followers, they later became the basic grammar of modern jazz. Does jazz still today hold the record for the freest musical language? When someone who in life did important things dies, a monument is dedicated to his memory even though he would have been the first to rebel against such celebrations. Often in the history of music, the most anti-academic musicians then became untouchable emblems of academic music. This is also the case with many jazzmen who, in media terms and musically have become absolute paradigms of jazz. The latest masterpieces recorded by great musicians like Wayne Shorter belong to the 1990s. After which it is difficult to find such characters. Even the most talented musicians look to a certain historical period in the grammar and aesthetics, making jazz an inevitably academic genre. It is true that they improvise, but they continue to improvise following the rules of the 1950s. They are executing a philologically correct performance as if they were playing a ballad by Chopin. To think, like Wynton Marsalis, director of the prestigious Lincoln Centre, that Jazz has to be officially acknowledged with the status of new classical music (with rules and grammars written once, to be used by all) actually means depriving it of vitality, denying it present and future evolution. In other words, we go and choose a historical moment in jazz and decide that from then on jazz is dead. A mistake which sooner or later all the so-called jazz ‘purists’ risk making. But if jazz is not a musical genre but a language, singling out the date of death has no sense. It is a multiform reality which has intelligently inserted itself in many other realities, though without declaring it and just for this it survives and does not let itself be pigeonholed in a ‘history of jazz’ written to the beat of musical currents and heroes. Contradictions in terms: is an improvisation so convincing as to seem a written composition and is an execution so authentic as to seem illumination of the moment? One day, while listening to the radio, I heard a piece on piano I had never heard before, it could have been Keith Jarret improvising live or a classical musician following a score - I kept on listening and I became convinced that it was the first, whoever it was, playing and transmitting an impression of authentic spontaneity. Only at the end did I discover that I had been tricked since I had in fact been listening to the Preludes by Debussy played by Jörg Demus. Even though in this case , part of the trick was due – alas – to my ignorance, achieving the illusion of spontaneity does not necessarily require instinct and strategy to be masked, An actor doing a famous play like Hamlet cannot lie to the public about the spontaneity of his lines, the spectator already knows them before they are pronounced. And yet, even in the awareness that we are dealing with fiction because everything is written in a script, a good actor convinces and moves. In music too we cannot stand by amazed at the execution of known pieces, we already have expectations and we see before, mentally, the becoming of the piece. The more the work being recited or played is known, the greater is the difficulty of the performer. The impression which Demus left was that of a musician who was composing at that moment, who was hesitating in proceeding, choosing one at a time the paths to follow. In fact, they were well-balanced choices conceived theoretically by an extraordinary composer who, more than half a century ago had fixed on the musical staff the becoming of every note. But we should also applaud whose who, by really improvising, manage to construct something so beautiful, formally, that we do not think of it as improvised. This is the real stroke of genius, the greates result of the right combination of instinct and strategy. And it is thanks to the talent of the great musicians that you do not feel it as a burden, they do not let you realize the complexity of the creative strength of the moment. Does the desire to re-read and improvvise on a composition sometimes come up against certain objective obstacles? Some music works precisely in virtue of its form. For example, initially I thought of my Piano solo as a homage dedicated entirely to Prokofiev, but then I decided to let it go, leaving only one improvisation on a theme of the great Soviet composer. Most of the classical music of the 1900s is built upon a well thought out architecture in which melody has a marginal role. The raw material with which to develop a variation on a theme is missing. Breaking down and recomposing the structure means disavowing its essence. Whereas a melodic cell singled out in Mozart allows us surprising exercises.

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–Armonie/Harmonies

IL TASTO GIUSTO The right button And then I’m always coming up against the difficulty of playing and improvising on pieces which I like best. Here, I am not faithful to that which is my declared instinct, playing music again not to make it better but simply different. But with certain musical pieces I am overwhelmed by the mania for perfection and I begin to repeat to myself that that it is useless to touch them because the atmosphere was already perfect, the sound of the record was already right…and thus, paradoxically, I find myself improvising on a ‘canzonetta’ by Riccardo Del Turco and seldom on the repertory of my beloved beatles, because maybe I can’t imagine their pieces being different to what they are, to how I loved them Is there an added value in the cultural identity taken up by Italian jazz? Italian jazz nowadays eludes only one definition: it presents a number of souls, ranging from the currents linked to classical formalism to the musicians mindful of the traditions of small town bands. Just as there are many definitions for European jazz, a territory of cultures with big differences between them. In general, what was decided on was that the main contribution is algidity, a characteristic which is partially a consequence of classicality attributed to jazz in a continent historically so rich in musical traditions. A conception which, however, betrays the prejudice which counterpoises an adequate academic and intellectual preparation to the approximate preparation and the presumed ignorance spread in America by negroes. But while European jazz can be defined as more intellectual and above all for other reasons - almost immediately it left the dance halls to be played in theatres and this inevitably, influenced the attitude of the musicians too. And though the catalogne of a prestigious, representative recording label like ECM has a lot of variety, the image of contemporary European jazz which gets to the public at large is partial. That of formal purity evoked by the recordings of Nordic and Scandinavian musicians. In fact for more than forty years Manfred Eicher has headed the Munich label with a very clear strategy in mind, i.e., developing a veritable artistic project in which, one at a time, the different musicians in the catalogue take part. The production choices do not necessarily respond to a commercial need but to the demands of an authorial vision. And so ECM record releases do not wish to be an exhaustive collection of the jazz of our times, but the recognisable work of an artist guided by his own musical taste. Clearly, the most intellectual of all jazz is French. The first people to listen to jazz in Europe were great intellectuals like Sartre and Boris Vian and when it became the soundtrack of the nouvelle vague of Truffaut and Godard it became, it is true, a wellknown, but not popular, genre. In Italy for a long time it was not even music for the elite because it was censured by Fascism as Negroid and only later, a very few artists like

Modigliani loved it, underwent its influence, spoke of it. Often the idea of jazz which is dear to me is much closer to that of the origins, a music born in the streets from an emarginalised people with a spontaneous vision of the ‘collective’ which arrived directly from Africa. Accompanied by jazz one danced, one made love one even fired guns. A music which also continues to be spectacle, entertainment, impossible to translate into Italian, a term which deep down is rather derogatory, ‘piano bar’ springs to mind. This recent encounter of yours with a Brasilian repertoire seems very instinctive and amused, above all if compared to the decidedly cerebral and western attitude of Sakanoto, who plays Jobim’s classical pieces… With Carioca I totally lost my identity. A European pianist, I suddenly found myself playing like a Brasilian. Partly this was a defeat, because in actual fact the intent has always been to bring a different interpretation, also developing a single chord which would not have come to a pianist of the place. The fact is that it was about an operation as a spontaneous act, devoid of any strategic intent. I selected the pieces with the only criteria being my personal tastes, developing their arrangements without wishing to achieve a common consistency. Anything could have happened and in fact, every piece sounds completely different to the others. Behind operations like that offered in the two albums by Sakamoto entitled Morelenbaum what emerges is, however, a very precise programmatic intent. The aesthetic choice was that of making the basic element of Brasilian musical culture – rhythm - deliberately marginal. Everything was orchestrated to be played in a certain way. This attitude is a far cry from my own. You are much admired as an interpreter of Gershwin’s standards but also as scriptwriter of a comic, in which your alter ego is the main character, Paperfano Bolletta in Topolino. A mould-breaking musician with the sparkle of the best Italian cabaret tradition. In defiance of every image strategy? Since I was small I have always been something of a jester and acrobat, it’s my personality. Some think that behind my choices there is a desire to escape definitions. Actually, it seems to me I’m always doing the same thing, communicating, with enthusiasm. After graduating from the Conservatorio Cherubini in Florence, thanks to the esteem of Enrico Rava, I was able to emerge from the pop tunnel of the years spent as session musician, dedicating myself sincerely to that which I really like…When I was writing the novel or when I do parodies of a television broadcast …when I play with my public or present a radio programme, I always do it using that which is I think is a single language. The nice thing about my work is that now, after many years, I can decide freely to do what I want to do, I don’t have to worry about my image and I let myself be guided by instinct and pleasure. a cura di/by Maurizio Rossi

STEFANO BOLLANI

STEFANO BOLLANI

All’età di sei anni comincia a studiare pianoforte. A quindici esordisce professionalmente. Dopo una breve esperienza come turnista nel mondo della musica pop si consacra al jazz, collaborando con musicisti come Richard Galliano, Pat Metheny, Bobby McFerrin, Chick Corea ed Enrico Rava, suo mentore. In ambito teatrale ha curato, tra l’altro, le musiche degli spettacoli di Maurizio Crozza e Lella Costa, non risparmiando incursioni nel mondo della danza contemporanea. Eletto dai critici della rivista Allaboutjazz di New York fra i cinque musicisti più importanti del 2007, accanto a mostri sacri come Ornette Coleman e Sonny Rollins, il pianista toscano è anche solista di orchestre sinfoniche come la Filarmonica del Regio di Torino, la Verdi di Milano e la Santa Cecilia di Roma. Dopo aver realizzato il disco Carioca, nel dicembre 2007 è stato il secondo dopo A.C.Jobim, a suonare un piano a coda in una favela di Rio de Janeiro. Dal 2006 è ideatore e conduttore insieme a David Riondino del dissacrante programma radiofonico Dottor Djembé su Radio RaiTre (Premio Microfono d’argento 2007). Con il romanzo La sindrome di Brontolo si ‘improvvisa’ scrittore, regalando una favola per adulti che incanta e rapisce. Stone in the water è l’ultimo disco della sua vasta discografia, uscito per l’etichetta ECM e inciso a New York con il trio formato da Jesper Bodilsen al contrabasso e Morten Lund alla batteria.

At six, he began studying piano. At fifteen he made his début. After a brief period as session musician he devoted himself to jazz, collaborating with musicians like Richard Galliano, Pat Metheny, Bobby McFerrin, Chick Corea and Enrico Rava, his mentor. In the theatre he has overseen the music in shows by Maurizio Crozza and Lella Costa and others, and has not shunned contemporary dance. Elected by the critics of the New York magazine Allaboutjazz as among the five most important musicians of 2007, alongside superstars Ornette Coleman and Sonny Rollins, the Tuscan pianist is also a soloist in symphonic orchestras like the Filarmonica del Regio di Torino, the Verdi di Milano and Santa Cecilia di Roma. After recording Carioca in 2007, he was the second, after A.C. Jobim, to play a grand piano in a Rio de Janeiro favela. From 2006 he has been author and host, together with David Riondino, of the debunking radio programme Dottor Djembé on Radio RaiTre (Premio Microfono d'argento 2007). In the novel La sindrome di Brontolo he ‘improvises’ as a writer , presenting a fable for adults which enchants and enraptures. Stone in the water is the latest record in a long discography, which came out for ECM and was recorded in New York; in the trio, Jesper Bodilsen on double bass and Morten Lund on drums.

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UTILITY

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Raffaella Giordano in Fiordalisi, 1995 (Š Photo Alex Erik Pfingsttag). Illustrazione/illustration: Cristina Zinni, Fili .lorem ipsum lorem ipsum Š Lorem ipsum lorem ipsum lorem ipsum


–Danze/Dances

Gesti sensibili Sensitive gestures Forse, la ferita più grande, il maggiore spaesamento nella mia vita è vedere come fra dire e fare ci sia sempre una distanza così incolmabile. Osservare come tutta la saggezza e l’intelligenza che gli individui sono stati capaci di elaborare verbalmente e intellettualmente sia tanto spesso disattesa nell’azione. Ma, ancora di più, constatare come il sapere, in sé, non determini la sua fattibilità: il sapere non è mai certificato perché calato in un continuo processo di variabili, in rapporto all’altro da sé, al contesto, al susseguirsi degli infiniti presenti. È la peculiarità della vita, del suo essere in movimento. Il corpo per sapere deve esperire: toccare, sentire, vedere. Senza catalogare, senza nominare. Nella pratica si genera l’esperienza che costituisce il vissuto e la memoria che continuano a plasmare l’organismo vivente. Per questo, il processo ideativo è inteso come un grande sistema di ‘ascolto variabile’ e non come la messa in atto di un metodo lineare ben definito, di una ferma strategia. Nella mia storia, il momento creativo è spesso tragicamente legato alla contingenza del mio cammino personale: se in alcune fasi dell’esistenza ho sentito di dover compiere un viaggio in solitaria, subito dopo, ho avvertito la necessità di incontrare gli altri. Il processo creativo segue questa stessa alternanza, percorrendola senza soluzione di continuità. È una dinamica circolare che rielabora continuamente l’una e l’altra esperienza per misurare con il mondo esterno quanto emerge dall’intimità silenziosa. Il luogo della creazione delle cose è quello spazio che sta fra gli individui, fra me e gli altri. Quasi che l’identità risieda in quella indefinibile terra di mezzo che si espande ai confini di soggettività diverse. Pur nascendo in risposta all’affiorare di una particolare urgenza del mio vissuto, le creazioni si fondano su una premessa, su un assunto che probabilmente rimane sempre uguale a sé stesso, perché il mio/nostro corpo è, allo stesso tempo, strumento e causa del dire. E allora le logiche dell’estetica mi interessano solo se si conciliano o sono subordinate a valori forti che non sposano un’idea astratta di bellezza, scavando nel corpo della persona affinché azione e movimento rispondano ad una credibilità e ad un’urgenza profonda. Un rapporto di lealtà nei riguardi delle funzioni, dei moventi e delle aree tematiche affrontate senza pregiudizi. In altre parole, premessa di ogni creazione è la modulazione delle frequenze del proprio campo ricettivo. Ogni gesto può essere valido in un processo che prescinde dalla volontà di adesione a stili e codici predeterminati. Ma prima del lavoro sul gesto, l’attenzione si concentra sulla totalità della presenza. Perché ogni corpo è già di per sé un racconto, prima ancora di agire. Ogni persona emana qualità di presenza uniche e mostra evidenze strutturali e fisiognomiche che anticipano il suo patrimonio comunicativo. L’interpretazione soggettiva prende forma come conseguenza naturale dell’incontro fra una severa oggettivazione delle cose e una rigorosa pratica che metta dapprima in discussione la propria idea di sé. Penso al corpo come a un ‘tutto’ costituito nella reciprocità delle cose, una centralità partecipe di forze vitali e dimensioni che sfondano continuamente le barriere del separatismo. La frontiera della pelle del corpo non separa la relazione dei corpi nello spazio e nel tempo; il campo di forza che si genera nella compresenza di più individui è maggiore della semplice somma di quello dei singoli e restituisce e racconta capacità altrimenti insvelabili. Così quando mi trovo a scegliere una persona con cui condividere un progetto, ho bisogno di sentire l’urgenza del suo volersi incamminare verso direzioni che richiedono molta umiltà, coraggio e senso di responsabilità. La mia attenzione è rivolta solo parzialmente alle sue abilità tecniche: la percezione nei suoi confronti deve suggerirmi una promessa. La promessa di un avvenire. Nasce una sorta di ‘innamoramento’: sono innamorata di stare vicino a quella entità perchè è qualcosa che non capisco. Ognuno di noi compone un segreto e la danza è anche un incontro di segreti. È la grandezza di un architettura vivente che deve la sua forza espressiva a qualcosa di oggettivamente inafferrabile. Come è inafferabile quella sorta di coscienza collettiva, di memoria condivisa, che consente

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Raffaella Giordano

a una creazione - personale risultato di una specifica biografia individuale - di estendere la propria trama di relazioni alla storia di tutti gli uomini, allargandosi per cerchi concentrici. Siamo sempre figli di qualche cosa. La materia è generata, inevitabilmente, da una non-materia e comporta la sussistenza di un canale aperto di interazione con la dimensione da cui ha tratto origine. L’immateriale viene immaginato nonostante sia assottigliamento della materia fino alla sua invisibilità. È necessario rivolgersi al corpo come luogo di intelligenza, come luogo di riferimento per costruire la coscienza generatrice di senso. La sensibilità del nostro organismo è molto alta e va ben al di là della nostra comune percezione: una cultura di cui siamo figli, a partire da un certo periodo storico, ha bandito il corpo in virtù di una netta separazione con l’ordine spirituale. Credo invece che proprio abbracciando la fisicità si possa trascendere la sua evidenza. La percezione è fortemente legata all’istinto, una qualità animale che fa parte del nostro bagaglio costitutivo e che attraverso l’umanizzazione assume la forma intuito, ovvero, la capacità non mediata dal raziocinio di ‘vedere dentro’. Un potere che, va al di là della nostra facoltà analitica e proprio per questo può condurre a una possibile autenticità nella comprensione. Nel lavoro, dunque, possiamo accendere un processo specifico di studio che ci aiuta ad accordare la nostra qualità percettiva a frequenze sempre più sottili e impalpabili, sviluppando così l’accesso all’intuizione. L’intuizione ha la capacità di riunire nell’immediatezza sollecitazioni esterne e interne in modo del tutto peculiare. Permette una qualità di risposta che afferma l’esistenza di legami complessi e corrispondenze profonde fra i diversi ordini del sistema vivente. Il piccolo e l’infinitesimo hanno un valore fondamentale: il lavoro con il corpo è una continua sollecitazione di attenzione sensibile verso misure minime. Come in ogni forma di esperimento, sia lo sguardo che l’azione sono molto specifici e meticolosi: si osserva e si ascolta con puntigliosità estrema immergendosi in misure di riflessione sempre piu’ piccole. Più si tiene conto delle entità minime, più se ne riconosce l’apporto e l’operato nelle loro manifestazioni progressivamente esponenziali. Senza nulla togliere alle grandezze maggiori. La disciplina dell’osservazione conduce a una consapevolezza che non sempre si accorda all’istinto. Possiamo però scoprire che nel momento in cui l’essere tocca con mano un certo ordine di categoria sensibile, immediatamente, questa prospettiva entra a far parte del suo vissuto e nel circolo del suo agire. Il dialogo vitale fra istinto, intuito e consapevolezza, si scontra inevitabilmente con la durezza monolitica e dualistica di un’idea di sé e del mondo. Il linguaggio verbale puo’ indicare ma non riesce a dare il senso compiuto di ciò che genera l’esperienza corporea. Come in un grande racconto collettivo la vita dell’umanità ha come protagonista un corpo unico che si declina nell’agire individuale della nostra esistenza. E come nella circostanza creativa di una piccola comunità artistica, ciascuno attraverso la propria presenza e le proprie azioni è parte integrante di un’architettura ancora più grande e partecipa responsabilmente all’opera, sul palco come nella vita. Presente a se stesso, il corpo lascia emergere con più chiarezza parole, emozioni e azioni smascherando trabocchetti e costruzioni concettuali edificate fuori da un contesto originario. Le parole si intrecciano al corpo come radici, affondano in una radicalità di ascolto che ristabilisce equità alla responsabilità di ognuno. Difese e paura cessano di essere barriere per diventare opportunità costruttive. Nella consapevolezza corporea le parole vengono ricevute e generate in maniera diversa, perché non mediate e filtrate dalla paura, sentimento vissuto sotto una luce diversa. L’intelligenza del corpo ha la facoltà di non determinare un ordine di giudizio e di poter coniugare nel gesto ciò che invece a parole rimane un contrario, un opposto, una contraddizione in termini e per questo di ricucire i significati rielaborando significanze nuove. Credo sia la potenzialità riunificatrice e antibinomica del corpo. Inteso come veicolo ricettivo il corpo è crocevia polifonico: convoca un insieme

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Raffaella Giordano in Senza titolo, 2002 (Š Photo Pietro Bologna).

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GESTI SENSIBILI Sensitive gestures di forze, agisce su di esse e, allo stesso tempo, ne è agito. Il presupposto è sempre una vigile presenza e un’atteggiamento di accoglienza e apertura che tuttavia non diventa mai abbandono passivo: il corpo va concretamente sostenuto. Ma la consapevolezza che entra in gioco è afferente a un livello di pensiero di ordine diverso. Mentre danzo dimentico tutto: le intelligenze e il sapere. Perché sono, con estrema cura, totalmente dedicata all’azione e questo non mi permette di pensare a me stessa. Agisco. E non voglio più sapere cosa è giusto o sbagliato mentre sto agendo. Procedo in una dimensione di assolutezza che non trova un suo senso nella successione lineare di passato, presente e futuro. Tutto inizia a prendere forma. E nella forma si radica la concezione e la ‘visione’ linguistica che rispecchia la mia qualità di rapporto con la rappresentazione. La forma è anche sostanza. Nel processo creativo, l’intuizione è in stretto rapporto con la volontà autoriale di perseguire con rigore la composizione formale attraverso una scrittura attenta a tempi, tonalità e relazioni spaziali. Una concezione di forma che non si traduce solo nella rappresentazione codificata di figure coreografiche, ma nella autenticità di un sentire introiettato nella carne. E per questo un’opera non può essere mai descrittiva. La narrazione è un divenire che non segue le cadenze logiche di una storia: i racconti sono molteplici e si intrecciano l’un con l’altro su livelli diversi. Certamente c’è bisogno di una prima leggibilità delle situazioni, di un primo piano di comprensibilità. Ma la vera potenza di una composizione coreografica risiede nel fatto che ogni spettatore può leggervi una storia diversa che non può essere raccontata a parole. C’è molta violenza nella comunicazione intesa come potere seduttivo e come volontà di indurre il ricevente ad una sola lettura sottolineata con forza. Uno spettacolo non può essere offerto togliendo al pubblico la possibilità di connettersi con ciò che lo riguarda, imponendo un messaggio univoco e un unico significato alla rappresentazione. Chiedere al corpo di recitare una sola storia significherebbe dissimulare le sue potenzialità e assistere a uno spettacolo senza anima. Nella sua estensione al di fuori del quotidiano, il movimento è prova di vita in quanto tale; la persona che agisce è forma e sostanza, persona presente, noi, tutti. Danza e corpo sono indissolubili: il corpo è la risorsa primaria, la danza un bene comune profondamente attuale e arcaico. Sorprendentemente abbandonata, la danza è ancora in larga misura immaginata da un pensiero borghese, spesso legato a una inclinazione estetica che difende sicurezze e persuasioni, solide impalcature del nostro commercio. La comunità fatica a riconoscerne il valore e le possibilità se non come un gesto televisivo o appartenente al secolo scorso. È una questione di cultura. La danza è un linguaggio autonomo. E il corpo è autonomo nel suo linguaggio: già nell’esplosività sensuale della sua presenza atona, narra. Con questo non voglio negare le possibilità di arti come la danza classica: colui che si diceva essere il migliore danzatore del mondo, non solo era in grado di arrivare ad una forma quasi perfetta, ma sapeva superarla per restituire altro. È importante portare molto rispetto per tutto ciò che ci ha preceduto: non dimentichiamo che anche di quella forma siamo debitori. Personalmente, però, sento che non posso più muovermi in quell’ordine di rapporto, tra idea di bellezza e sublime. Nonostante si tratti di un linguaggio legato ad un determinato momento storico, riconosco che la danza classica possa ancora trasmettere costanti universali e senza tempo. Agli inizi del Novecento la danza ha vissuto forti rivoluzioni; i pionieri del Secolo hanno accolto - e non senza dure lotte - nuove e diverse forme di pensiero all’interno del linguaggio coreutico spostando valori e trasformando l’estetica classica. In questo momento ci sono innumerevoli forme di danza, anche se purtroppo molte non le conosciamo: nel nostro Paese abbiamo visto molto poco di quello che è stato fatto negli ultimi decenni e di quello che si sta producendo oggi. In un simile contesto di democratizzazione della scrittura, chiunque è autorizzato a distruggere i codici e sovvertire le gerarchie provocando a volte disastri, a volte capolavori. Vicina alla mia natura, riconosco la danza come un linguaggio poetico e struggente, che illumina sé stessi e gli altri ponendo l’essere umano al centro della sua osservazione. Una danza che celebra e unisce parlando al di là delle convenzioni, libera da dominanze indotte. La danza ha sempre cercato di indagare il sacro mistero dell’esistenza, di svelare legami forti e imprescindibili fra l’alto e il basso, fra il mondo interno e il mondo esterno. È messaggera di forza e di grazia ad un tempo e attraversa regioni dell’anima e ambiti della conoscenza altrimenti intangibili. Un dono puro che raccoglie nella semplice complessità di un gesto il miracolo dell’esistenza. [english] Perhaps the deepest wound, the greatest disorientation in my life is seeing how, between saying and doing, there is always this unbridgeable distance. Observing how

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–Danze/Dances all the wisdom and intelligence which individuals have been able to elaborate verbally and intellectually is so often disregarded in action. But what is even more is seeing how knowledge in itself does not determine its feasibility. Knowing is never certified because it is drawn into a continuous process of variables related to the other, the context, the succession of present infinites. It is the peculiarity of life, its being in movement. The body, to know, has to do, touch, feel, see. Without cataloguing, without naming. In practice, what is generated is experience which makes up the ‘lived’ and memory, which continue to mould the living organism. For this reason the creative process is intended as a great system of ‘variable listening’ and not the realization of a well defined linear method, a fixed strategy. In my life the creative moment is often tragically linked to the contingency of my personal path. If in certain phases of existence I felt I had to go on a journey alone, right afterwards, I sensed the need to meet others. The creative process follows the same alternation, making my way along, with no end. It is a circular dynamics which constantly re-elaborates both experiences to calculate with the external world that which emerges from silent intimacy. The place for the creation of things is that space which is between individuals, between me and the others. Almost as if identity resides in that undefinable middle ground which expands to the borders of different subjectivities. Although born as a reaction to the flowering of a particular urgency of my life, the creations are based on a premise, an assumption which is probably always the same as itself, because my/our body is both instrument and cause of the act of saying. So the logic of aesthetics interests me only if it is conciliated or subordinated to strong values which do not embrace an abstract idea of beauty, digging into the body of the person so that action and movement respond to a deep credibility and urgency. A relation of loyalty with respect to the functions, motives and the thematic areas taken on without prejudice. In other words, the premise for every creation is the modulation of the frequencies of one’s own receptive field. Every gesture can be a valid one in a process which exists irrespective of the willingness to adhere to predetermined styles and codes. But previous to work on the gesture, attention concentrates on the totality of the presence. Because every body is already a story, even before it acts. Every person emanates qualities of unique presence and displays structural and physiognomic evidence which anticipate his communicative patrimony. Subjective interpretation takes shape as a natural consequence of the encounter between a strict objectivization of things and a rigorous practice which questions from the start one’s own idea of oneself. I think of the body as an ‘all’ made up in the reciprocity of things, a centrality participating in the vital forces and dimensions which constantly break down the barriers of separatism. The border of the body’s skin does not separate the relation of bodies in space and in time. The force field which is generated in the coexistence of a number of individuals is greater than the simple sum of that of the single ones and restores and recounts abilities which are equally unrevealable. Like when I have to choose someone with whom to share a project, I need to feel the urgency of his wanting to make his way towards directions which necessitate a great deal of humility, courage and a sense of responsibility. I look only partially at his technical abilities and the perception with respect to him has to suggest a promise. The promise of a future. A sort of ‘love story’ is born, I am in love with being near that entity because it is something I don’t understand. Every one of us composes a secret and the dance is also encountering secrets. It is the greatness of a living architecture which owes its expressive force to something which is objectively unseizable. As is unseizable that sort of collective consciousness, shared memory, which allows a creation – personal result of a specific individual biography – to extend its own network of relations to the history of all men, getting wider in concentric circles. We are always the children of something. Material is generated, inevitably from a nonmaterial and implies the existence of an open channel of interaction with the dimension from which it originated. The immaterial is imagined although it is the attenuation of material up to its invisibility. We have to refer to the body as a place of intelligence, as a place of reference, to build the generating consciousness of sense. The sensitivity of our organism is very high and goes well beyond our common perception. A culture whose children we are, from a certain historical period onwards banished the body in virtue of a net separation with the spiritual order. I believe however that just by embracing physicality we can transcend its evidence. Perception is closely linked to instinct, an animal quality which is part of our makeup and which, through humanization assumes the intuitive form or the capacity, nonmediated by reasoning, of ‘seeing inside’. A power which goes beyond our analytical faculty and just for this reason can lead to a possible authenticity in comprehension. Thus, in work we can activate a specific process of study which helps us to reconcile our perceptive qualities to ever more subtle and impalpable frequencies, thus developing an access to intuition. Intuition is the capacity to reunite in immediacy external and internal

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Raffaella Giordano in Quore, 1999 (© Photo Sandro Carnino). Scenografia di/ set design of Cuocere il mondo, 2007 (© Photo Andrea Macchia) Raffaella in Senza 2002 (© lorem Photo Pietro © Lorem Giordano ipsum lorem ipsumtitolo, lorem ipsum ipsum Bologna). lorem ipsum

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–Danze/Dances

GESTI SENSIBILI Sensitive gestures urging in a completely particular way. It allows a quality of response which asserts the existence of complex ties and deep correspondences between the different orders of the living system. The small and the infinitesimal have a fundamental value - work with the body is a continuous urging of sensitive attention towards minimum measures. As in all forms of experiment, both the gaze and the action are very specific and meticulous, we see and we listen with extreme obstinacy plunging into measures of ever decreasing reflection. The more we take account of the minimum entity the more we recognise the significance and the actions in their progressively exponential manifestations. Without wishing to diminish the greater units. The discipline of observation leads to an awareness which does not always agree with instinct. However, we might discover that in the moment in which the being experiences at first hand a certain type of sensitive category, immediately, this perspective comes to be part of his life and the circle of his acts. The vital dialogue between instinct, intuition and awareness, clashes inevitably with the monolithic and dualistic toughness of an idea of itself and the world. Verbal language might indicate but is not able to provide the completed sense of that which corporeal experience generates. Like in a great collective story, the life of humanity has the main character of a single body which is broken down into the individual acting of our existence. It is like in the creative circumstance of a small artistic community, each one through his own presence and his own actions is an integral part of an even larger architecture and participates responsibly in the work, on the stage as in life. Present to itself the body allows the emergence with more clarity, of words, emotions and actions, unmasking snares and conceptual constructions edified outside an original context. Words intertwine with the body like roots, sinking into a ‘radicality’ of listening which re-establishes fairness for the responsibility of everyone. Defences and fear cease to be barriers and become constructive opportunities. In corporeal awareness words are received and generated in a different way, because they are not mediated and filtered by fear, sentiment lived in a different light. The intelligence of the body has the opportunity to not determine an order of justice and be able to conjugate, in the gesture, that which in words remains a contrary, an opposite, a contradiction in terms and for this reason repairing the meanings by re-elaborating new meanings. I think it is the reunifying and anti-binomic potentiality of the body. Understood as receptive vehicle the body is a polyphonic crossroads, it summons an ensemble of forces, it acts on them and at the same time is acted upon. The presupposition is always a watchful presence and an attitude of welcome and opening which, however, never becomes passive abandonment: the body is to be sustained, in concrete terms. But the awareness which comes into play refers to a level of thought of a different type. While I’m dancing I forget everything, intelligence and knowledge. Because I am, with a great deal of care, totally dedicated to action and this does not allow me to think about myself. I act. And I no longer want to know what is right or wrong while I am acting. I proceed in a dimension of absoluteness which does not find its sense in the linear succession of the past, present and future. It all begins to take shape. And in the form, what is rooted is the conception and the linguistic ‘vision’ which reflects the quality of my rapport with the representation. Form is also substance. In the creative process, intuition is in close rapport with the

authorial will to pursue rigorously the formal composition through writing which takes account of times, tonalities and spatial relations. A conception of form which is not only translated into the codified representation of choreographic figures but in the authenticity of a feeling introjected into the flesh. This is why a work can never be descriptive. Narration is a becoming which does not follow the logical cadences of a story, the stories are multiple and they mix, one with the other on different levels. Certainly, we need an initial legibility of the situations, an intial plane of comprehension. But the true power of a choreographic composition resides in the fact that every spectator can read there a different story, which cannot be told in words. There is a great deal of violence in communication intended as seductive power and as the will to induce the receiver to a single reading, emphasized with force. A performance cannot be offered taking from the public the chance to connect with that which concerns him, imposing a single message and a single significance to the representation. Asking the body to recite a single story would mean dissimulating its potentialities and watching a performance without soul. In its extension outside everyday life, movement is a test of life as such. The person who acts is form and substance, present person, us, all of us. Dance and body are indissoluble, the body is the primary resource, dance a common asset deeply relevant and archaic. Surprisingly abandoned, dance is still to a large extent imagined by a bourgeois thought, often tied to an aesthetic inclination which defends safety and persuasion, solid scaffolding of our commerce. The community finds it hard to recognise its value and the possibilities unless as a televised gesture or belonging to the last century. It is a question of culture. Dance is an autonomous language. And the body is autonomous in its language. Already in the sensual explosivity of its atonic presence, it narrates. I’m not denying here the possibility of arts like classical dance. He who said he was the best dancer in the world, was not only able to arrive at an almost perfect form but knew how to go further so as to restore something else. It is important to have great respect for all that which has gone before us. Let’s not forget that we are also indebted to that form. Personally, however, I feel that I can no longer be in that class of relations, between ideas of beauty and the sublime. Despite the fact that it is a language linked to a certain historical moment, I recognise that classical dance can still transmit universal constants, without time. At the beginning of the 20th century dance witnessed significant revolutions. The pioneers of the century welcomed – and not without a struggle – new and different forms of thought within the dancing language, shifting values and transforming classical aesthetics. At this time there are many forms of dance although unfortunately we do not know many of them. In our country we have seen very little of that which has been done in recent decades and that which is being produced today. In such a context of democratization of writing, anyone is authorised to destroy the codes and subvert the hierarchies, sometimes causing disaster, sometimes producing masterpieces. Close to my nature, I recognise dance as a poetic, acute language which illuminates itself and others, placing the human being at the heart of its observation. A dance which celebrates and unites, speaking beyond conventions, free of induced dominances. Dance has always tried to investigate the sacred mystery of existence, reveal close unbroken links between the high and low, between internal and external worlds. It is a messenger of strength and grace at one time and through regions of the soul and settings of knowledge which are otherwise intangible. A pure gift which gathers in the simple complexity of a gesture the miracle of existence.

RAFFAELLA GIORDANO

RAFFAELLA GIORDANO

Premio Speciale UBU 2000 per aver gettato col suo Quore. Per un lavoro in divenire uno sguardo critico sulla realtà e più in generale per il coraggio e l’intensità delle scelte coreografiche da lei operate nel suo teatro−danza aldilà della danza, Raffaella Giordano è stata diretta in qualità di interprete da Carolyn Carlson e Pina Bausch. Autrice negli ultimi anni, di assoli come Tu non mi perderai mai (2005) ispirato al Cantico dei Cantici, Ama fì (2008) dedicato al mondo dell’adoloscenza e di spettacoli come Cuocere il mondo (2007) che affronta il tema dell’Ultima Cena nel dipinto di Leonardo Da Vinci. Dirige con Giorgio Rossi l’associazione culturale Sosta Palmizi, crocevia di produzioni e attività seminariali. Protagonista di un’attività formativa ormai ventennale, è responsabile artistico del corso biennale per lo sviluppo e la sensibilizzazione delle arti corporee, Scritture per la danza contemporanea, progetto sostenuto da Teatro Stabile di Torino e L’arboreto Teatro Dimora di Mondaino.

Raffaelle Giordano won the Premio Speciale UBU 2000 for Quore. Per un lavoro in divenire in which she casts a critical eye at reality, and in more general terms known for the courage and intensity of her choreographic choices in her theatre-dance, beyond dance, she has been directed as a performer by Carolyn Carlson and Pina Bausch. An authoress in recent years of solos like Tu non mi perderai mai (2005) inspired by The Song of Solomon, Ama fì (2008) dedicated to the world of adolescence and performances like Cuocere il mondo (2007) which looks at the theme of The Last Supper in Leonardo da Vinci’s painting. She directs alongside Giorgio Rossi, the cultural Association Sosta Palmizi, a crossroads of seminar productions and activities. She has been active in teaching for twenty years and is artistic director of the biennial course for development and sensitivization of corporeal arts, Scritture per la danza contemporanea, a project backed by the Teatro Stabile of Turin and the Teatro Dimora di Mondaino.

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Compagnia di ballo Stoa/ Stoa's Dance company in Ballo individuale in circostanze costrette (Š Photo Carlo Bragagnolo).


–Scene/Scenes

A prima vista At first glance La creazione di una realtà alternativa a quella esistente, è forse istinto di autodifesa che si manifesta in ogni forma d’arte? Nella porzione di terra che noi abitiamo, fin dall’antichità, l’arte assume una connotazione di complicazione. Attraverso l’arte il vedere e il fare smettono di essere atti prefigurati e prefissati dal bisogno, o meglio, divengono atti che inventano un altro bisogno: la necessità della complicazione. In altre parti della Terra, come l’Africa, la quotidianità è circonfusa di arte perché circondata di manufatti decorati che complicano ogni gesto minimo. Dal nostro punto di vista, si tratta solo di artigianato, perché la cultura artistica occidentale persegue una complicazione che, al contrario, conduce all’emancipazione dalla quotidianità. L’opera d’arte è sacralizzata e contemplata al di fuori della vita, come prodotto eminentemente intellettuale. Una concezione, questa, che trae le sue origini in una visione monoteista e cristiana che auspica la rivolta contro l’evidenza del reale. È invece importante abbandonare la presunzione di essere in possesso dell’unica definizione possibile di arte. Perché un’immagine ci tocca più di altre? La forza di un immagine è imputabile a codici culturali o coinvolge le circonvoluzioni più antiche della nostro cervello? Entrambe le cose. Anzi l’abilità dell’artista è far sì che il primo aspetto favorisca l’altro e viceversa. Perché, se consideriamo l’arte figurativa, è evidente che vi sono all’interno di una superficie geometrica situazioni percettive che attraggono automaticamente lo sguardo; e il pittore ne è consapevole. Anche nell’arte scenica tutto deve essere condotto in modo tale che si verifichi uno spostamento di carichi, un flusso di pesi che, di volta in volta, si attesta nel punto esatto in cui troverà luogo l’immagine principale del momento. All’interno di un quadro (pittorico o scenico) campeggiano elementi di natura diversa, ciascuno in grado di svolgere un ruolo differente. Pavel Florenskij, matematico teologo russo del secolo scorso, ha evidenziato come nelle icone russe siano presenti elementi di contemplazione, punti in cui lo sguardo necessariamente si sofferma, ed elementi di salto, di fatto invisibili, ma che conducono lo sguardo lungo traiettorie predefinite. Senza dubbio la meccanica della rappresentazione si avvale di automatismi percettivi descritti dalla psicologia della forma e dalle altre teorie della percezione. Tuttavia, l’arte non è un semplice gioco meccanico e simili dispositivi sensoriali rappresentano solo una piccola parte dell’opera. L’arte è campo di forze universali fruibili dall’uomo di qualsiasi società e di qualsiasi tempo? All’apparenza, un’opera di Andy Wharol è universalmente comprensibile. Ma per comprendere il significato rivoluzionario della Pop Art devo necessariamente considerare e conoscere il contesto storico in cui si è sviluppata. Solo così, nonostante possa lasciarmi emotivamente indifferente, posso apprezzarne il valore generativo. Paradossalmente, una tela di Rothko è maggiormente comprensibile perché riesce a toccare chiunque la osservi. L’essere edotti sul contesto storico in cui è stata dipinta, non è una condizione necessaria alla relazione con essa. Sebbene non vi sia raffigurato nulla di riconoscibile, la comprensione avviene immediatamente. Una delle ragioni è che Rothko dettava regole rigide di illuminazione, altezza e disposizione per l’esposizione delle sue opere: il contesto percettivo partecipa quindi alla forza esclusiva e pertinente della pittura, a prescindere dal riferimento raffigurativo con la realtà.

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Intervista a/interview with Claudia Castellucci

[english] Is the creation of a reality alternative to the one we have an instinct of self-defence, perhaps, which is to be found in every form of art? In the portion of land we have been inhabiting since ancient times, art has taken on a connotation of complication. Through art, seeing and doing cease to be prefigured and fixed in advanced according to needs, or rather they become acts which invent another need – the need for complication. In other parts of the world, like Africa, daily life is suffused by art because it is surrounded by decorated objects which complicate the smallest of gestures. From our viewpoint this is only the work of craftsmen, because western artistic culture pursues a complication which, on the contrary, leads to emancipation from daily life. The work of art is sacralized and contemplated outside life as an eminently intellectual product. This conception derives from a monotheist and Christian vision which hopes for a revolt against the evidence of the real. It is however, important to abandon the presumption of being in possession of the only possible definition of art Why does one image move us more than others? Is the strength of an image to be attributed to cultural codes or does it involve the oldest circumvolutions of our cerebral mass? Both. Indeed, the talent of the artist is in seeing that the first aspect favours the other and vice versa. Because, concerning figurative art, it is clear that there are, in a geometric surface, perceptive situations which attract the gaze automatically and the painter is aware of this. In scenic art too, everything has to be conducted so as to verify a shift in charges, a flow of weights which, one at a time, settle in the exact point at which the main image of the moment will find a place. Inside a painting (pictorial or scenic) elements of varying nature stand out, each capable of carrying out a different role. Pavel Florenskij, Russian mathematician and theologian of the last century, pointed out how in Russian icons there are elements of contemplation, points at which the gaze necessarily comes to a halt and elements which leap out, invisible actually, but which lead the gaze along predefined trajectories. What is sure is that in the visual arts, as in the theatre, the mechanics of the representation avail themselves of perceptive automatisms described by the psychology of the form and other theories of perception. However, art is not a simple mechanical game and similar sensorial devices amount only to a small part of the work. Is the work of art a field of forces which are universally usable by man at any time and in any society? A work by Andy Warhol would seem to be universally comprehensible. But to understand the revolutionary significance of Pop Art I have to take into account - know something about - the historical context in which it developed. Only in this way, though it might leave me emotionally indifferent, can I appreciate its generative value. Paradoxically, a canvas by Rothko is more comprehensible because it manages to move whoever observes it. Being acquainted with the historical context in which it was painted is not a necessary condition in relating to it. Even though nothing recognisable is represented, the comprehension takes place immediately. One of the reasons is that Rothko dictated strict rules concerning illumination and the height and placing of his works in an exhibition. The perceptive context thus participates in the exclusively pertinent force of the painting, regardless of the representative reference to reality. a cura di/by Erminia Palmieri

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Dialogo tra un pennello e una nota sul calcestruzzo di Parigi. Nino Aprea

[Roma, 27.11.09 ore 16.00] Perso il treno e assalito un taxi, arriviamo all’aeroporto appena in tempo per l’imbarco. Al controllo bagagli scatta la perquisizione e trovano attrezzature di ogni tipo, ma niente di terroristico: solo microfoni, colori, pennelli, videocamere. Saliamo sull’aereo. Posto: vicino al finestrino. Decollo, occhi chiusi...

[Rome, 27.11.09, 16.00] Missed the train and assailed a taxi, arrived at the airport just in time for boarding. At baggage control, there’s a search and they find equipment of every kind, but nothing indicating terrorism: only microphones, colours, brushes, video cameras. We board the plane. Place: window seat. Takeoff, eyes closed...

[Parigi, 27.11.09 ore 17.50] Atterraggio riuscito. Ritiro bagagli. Direzione: casa!

[Paris, 27.11.09, 17.50] Landing successful. Bagagge claim, Direction - home!

[Parigi, 28,29.11.09] Istinto Ci perdiamo nella città. Prendiamo nota di qualsiasi cosa: sguardi, atteggiamenti, dinamiche e relazioni all’interno dei diversi quartieri. Uno scenario metropolitano fascinosamente complesso e assolutamente multietnico, dove si riscontra una buona integrazione. Osserviamo, ascoltiamo e registriamo quello che avviene.

[Paris, 28,29.11.09] Instinct. We get lost in the city. We note every single thing: looks, behaviour, dynamics and relations in different neighbourhoods. A metropolitan scenario fascinatingly complex and totally multiethnic, where we come across an integration which is working. We observe, listen and take note of what happens.

[Parigi, 29.11.09 ore 21.30] Strategia È deciso, la nostra azione troverà luogo in un punto di passaggio obbligato. Il terreno d’applicazione: lo spazio di vita delle relazioni umane. Parole chiave: interazione e interdipendenza (leggasi Kurt Lewin, Teoria del campo, 1951). Dall’utopia dell’arte si passa alla visione dell’arte come dispositivo generatore di microtopie, qui e ora. Coordinate: Il luogo della città scelto è borderline. Una linea di confine, una soglia di attraversamento. Da una parte, il quartiere magrebino di Parigi che ospita un mercato frequentatissimo e variopinto, intenso teatro di vita quotidiana. Dall’altra, un semi-interno, una quieta zona residenziale dai ritmi rilassati e rassicuranti.

[Paris, 29.11.09, 21.30] Strategy. We’ve decided! Our action will take place at a point where passing-by is obligatory. The terrain of application: the living space of human relations. Keywords: interaction and interdependency (read Lewin, Teoria del campo, 1951). From Utopia to art we pass on to the vision of art as generating device of micropias, here and now. Coordinates: The place of the city chosen is borderline. A border, a threshold to cross. On one side, the Maghreb neighbourhood in Paris which has a market, busy and multicoloured, intense theatre of daily life. On the other, a semi-interior, a calm residential area with relaxed, reassuring rhythms.

[Parigi, 30.11.09 ore 12.30] Azione. Ci dirigiamo verso il posto convenuto e ci prepariamo: su una parete applichiamo dei microfoni che a contatto con una superficie sono in grado di lavorare sulle frequenze sonore generate dall’attrito e dallo sfregamento. In questo modo è possibile la sonorizzazione delle pennellate che, per mezzo di una scheda audio, vengono immesse in una macchina e attraverso alcuni software per la lavorazione musicale sono trasformate in suoni, poi restituiti alla dimensione intorno. L’intento è quello di generare curiosità e distrazione sia sonora che visiva. L’interazione con la gente avviene attraverso la partecipazione live.

[Paris, 30.11.09, 12.30] Action We head for the agreed place and begin preparations. On a wall, we apply microphones which, in contact with a surface are able to work on sound frequencies generated by friction and rubbing. In this way can trace the sound of brushstrokes and by means of a sound card insert them into a machine and using software for musical processing, transform them into sounds, which are then given back to the dimension around. The objective is to generate curiosity and distraction, sonorous and visual. Interaction with people takes place through live participation.

[Parigi, 30.11.00 ore 17:00] Risultato Risposta formidabile da parte dei tanti passanti che si sono lasciati distrarre. Chi, interdetto, si fermava cercando di capire; chi irrompeva in maniera creativa, magari ballando; chi, semplicemente, ha assistito interessato al compiersi dell’opera.

[Paris, 30.11.00, 17:00] Result Incredible reaction on the part of lots of passers-by who have let themselves be distracted. Those who stopped because, bewildered, they wished to understand. Those who burst in creatively, maybe dancing; those who simply looked on, interested in the work taking place.

Programma. L’intenzione è quella di concertare altri eventi come questo per perlustrare gli sviluppi possibili di un’arte collettiva, libera dalle leggi di mercato e che trova nel valore della condivisione la sua unica quotazione.

Programme. The intention is to arrange other events like this one, to seek possibile developments of a collective art, free of market logic and which finds in the value of sharing its only quotation.

NINO APREA E GREGORIO DELUCA COMANDINI

NINO APREA AND GREGORIO DELUCA COMANDINI

Nino Aprea e Gregorio Deluca Comandini sperimentano nuove ipotesi di arte contemporanea all’insegna dell’ibridazione di tecnologie, arti e linguaggi. Il progetto presentato in queste pagine, nato con il nome di Tela sonora, è stato poi intitolato Glitch, termine che descrive il suono di una disconnessione elettronica. Azione artistica, dunque, come momento programmatico di dis-connessione, finalizzato alla produzione di un’opera interattiva capace di provocare distrazione nell’ambiente urbano. L’intento è mettere in pratica micro-modelli attivi di socialità, in riposta all’interrogativo: cosa emergerebbe se l’arte si facesse macchina, diventando così strumento di produzione per nuove soggettività?

Nino Aprea and Gregorio Deluca Comandino experiment new hypotheses of contemporary art with hybrization of technologies, arts and languages in mind. The project presented here was originally given the name Tela sonora, but it then became Glitch, a term which describes the sound of an electronic disconnection. Artistic action, therefore, as planned moment of disconnection, aimed at production of an interactive work capable of provoking distraction in the urban environment. The objective is to put into practice micro-models alive with sociality, in answer to the question: what would emerge if art made a machine out of itself, becoming in this way an instrument of production for new subjectivities?

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–Testo a fronte

Glitch.

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Alessandro Bergonzoni, Illustrazioni tratte da/illustrations from Bastasse grondare, Libri Scheiwiller, 2009.

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–Reality show

Fuori fuoco Out of focus È istintivo chiudere gli occhi davanti alla complessità, spaventati dall’incertezza dell’esistenza? L’uomo in questo momento antropologico di grande bassezza fa dell’istinto strategia e della strategia l’istinto. Si para, si difende ed essendo impaurito fa un lavoro di istinto strategico: sta calmo, per poter stare nel proprio calduccio e non sentire freddo. Un calore che non è energia positiva, non è fuoco, ma tepore orrendo. È il tepore che porta a non voler vedere ciò che non si vede, a non voler sapere ciò che non si riesce a conoscere, a non voler concepire l’inconcepibile. L’arte si occupa dell’inconcepibile. Ma istintivamente e strategicamente viene fatto un lavoro di normalizzazione, attualizzazione e concretizzazione che uccide l’idea stessa di arte, e mette il cuore in pace. Una pace del buio che non è pace interiore, ma vuoto interiore. È l’assonanza di pace e tace, il tacere. Chi vuole della pace l’idea di solo tepore e silenzio ne fa una strategia per far sì che vi sia il dominio necessario a controllare le menti delle persone. Tepore, paura e pace/tace sono le parole chiave della strategia del comando, di chi usa mezzi sedanti per poter far sì che la gente non pensi. È la tattica di chi non vuole la potenza, ma il potere. Possiamo subirla o diventare soggetti attivi, facendo arte e leggendola con altre traduzioni. Ma interessa a qualcuno andare oltre? Mezzi di distrazione di massa ottundono, ledono, fanno scoppiare i cervelli e le anime delle persone. Chi dovrebbe essere il riferente di questo cambiamento? Forse chi detiene il potere? Oppure a compiere un’operazione rivoluzionaria e di rivelazione deve essere l’individuo, non tanto l’Ego e l’Io, ma il Sé? Allora la rabbia, questa famosa rabbia che vediamo in tutto e in tutti, dove deve essere direzionata? Qual è la strategia della rabbia? Alle volte mi sembra soltanto un basso istinto. Io mi rivolgo alla piazza interiore, al governo interiore, ai parlamenti personali. Tutti quelli che sembrano convinti che solo le proprie creazioni artistiche siano la risposta e il racconto, dovrebbero avvertire una spinta d’obbligo per non fermarsi a parlare soltanto attraverso le loro opere: credo che ora ci sia l’urgenza di un altro tipo di ricerca. Per far saltare le alte cariche dello ‘stato’ delle cose? Il punto è: di quale carica stiamo parlando? Di una forza dinamitica che può esplodere? O di cariche come carichi e pesi? Invece di spendere tempo sullo Stato, sulle nazioni, sui governi, sull’economie e sulle finanze dobbiamo parlare dello ‘strato’ delle cose. Le componenti pluristratificate dell’essere non sono solo l’economia per l’economia, la finanza per la finanza, la salute per la salute, la scienza per la scienza. Anzi! È un discorso di connessione, di coagulo. Come si fa a parlare dello stato vegetativo soltanto con voce legale o scientifica? Non è più possibile parlare dello stato economico, della distruzione della finanza e del capitalismo senza andare a parlare delle condizione degli animi e del Sé! Tutto questo non è che la parte finale, la punta di un iceberg. E perché nessuno si preoccupa di indagare da dove, e perché, questo spunzone è uscito fuori? Perché bisogna andare troppo sotto, in una zona troppo gelida, o forse, troppo dentro, in una zona troppo violenta. Accettiamo la violenza in superficie, ma non vogliamo andare a cercare quella violenza che potrebbe raccontarci altri perché. Se mi chiedi se questo è istinto o strategia, ti rispondo che credo si tratti di un grandissimo istinto di conservazione del becero e della propria condizione ‘teporica’. Ma, allo stesso tempo, si tratta anche della strategia di chi mantiene intenzionalmente questa condizione di bassezza, per condurre alla crisi che è fatta di gente che urla, strilla e ha bisogno di comandanti. E quando il capitano interiore non esiste più, demandiamo agli altri. Continuiamo a parlare di ‘tumori’ e a cercare di guarirli, ma il tema fondamentale è l’anamnesi: l’origine e la genesi delle metastasi intellettuali, di cui non ci occupiamo perché rifuggiamo la complessità. Ma se desideriamo vedere oltre, inevitabilmente, dobbiamo chiedere oltre. Altrimenti stiamocene seduti e sedati. Una simile condizione di chiusura e devastazione

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Intervista a/interview with Alessandro Bergonzoni

antropologica non può essere interdetta o interrotta solo attraverso le opere, e i silenzi, degli artisti che compongono il loro mestiere nella speranza che possa servire a qualcosa. Dovrebbe esserci un collegamento tra queste azioni d’arte e chi compone lo strato della Terra. Ognuno di noi fa le proprie cosine, i propri libri, i propri spettacolini, e poi se ne va. Non resta a comporre quel ponte di barche, quel tragitto, per arrivare a mettere in comunicazione le cose. Qualcuno, se non noi stessi, può fare da artificiere per poter fare deflagrare qualcosa che ponga in comunicazione tutto questo? Oppure dobbiamo rimanere isolette a sé stanti, come piccoli iceberg che galleggiano qua e là o possiamo rivedere la formazione di questo pack sotterraneo? Ma, abbiamo davvero voglia di affondare le mani per estirpare il tema alla radice? Sono sempre esterrefatto dagli Umberto Eco, dalle Abramovich, da queste menti, da questi corpi. A queste intelligenze domando: dovete soltanto chiamarci ai vostri musei e ai vostri congressi o potete farvi voi stessi crescita, allungamento, allargamento? Finito il congresso ognuno ha finito le proprie relazioni: tutti tornano a casa con i ponti rotti. E la relazione tra le relazioni? La follia di questo tempo è il dogmatismo, l’unicità, il monosenso che porta a dire “io racconto la mia”. Gli scienziati, come i religiosi, ascoltano solo la loro voce. Com’è possibile affrontare il tema del Vero se tutti hanno solo un Vero? Io di tutte le cose voglio fare tesoro, voglio fare oro. Non voglio fare unicità. E mi domando: possiamo ancora parlare di camorra e di mafia senza parlare dello stato degli animi? Quando un uomo mette nell’acido un bambino, è un’azione mafiosa, un’azione politica, un’azione delinquenziale o c’è qualcosa di più? Qui c’è un tema più grande che è quello di un’analisi universale, cosmica, interstellare. È questo che strategia e istinto dovrebbero analizzare speleologicamente. Nota Bene nasce proprio con questa volontà interdisciplinare di perlustrare territori, al di là dei recinti disciplinari, nella consapevolezza che soltanto la convergenza di sguardi diversi può fotografare la molteplicità del reale... Apprezzo il fatto che si miri all’approfondimento e non si tratti della solita rivista ‘bignami’. Complesso non vuol dire complicato, ma osservare la varietà delle verità. Il tema è la conoscenza, non la comunicazione; non il lato umano, ma quello sovraumano. Invece l’essenza e il trascendentale li lasciamo a coloro che onoriamo come morti, che ormai hanno lasciato il loro codice a relatori che spesso lavorano per sette. Difficilmente le conoscenze vengono messe in relazione anche negli ambienti ‘sbagliati’. A volte la parola strategia è specificatamente collegata alla parola comunicazione. Allora perché staccarsi dalla comunicazione se forse potrebbe essere un buon mezzo per arrivare alla televisione o sui giornali? Perché quando certi temi vi arrivano è in maniera superficiale, modaiola e istintuale, nell’accezione più triste e semplicistica del termine. Io della comunicazione sono stanco! La poesia si mischia alla comunicazione, la comunicazione viene violentata, la canzone si mischia all’autorialità, l’autore scompare, appare l’interprete, l’interprete si vende, l’interprete venduto fa pubblicità, la pubblicità diventa... Problemi esterni? Ma, alla fine, diventano problemi interni! La più grossa forma di pornografia non è quella dei film a luci rosse, ma quella delle bassezze da postribolo della comunicazione, di chi pornografizza costantemente le persone. Almeno, davanti a un film porno, sappiamo di non essere davanti alla summa delle arti cinematografiche e non esclamiamo “Come recita bene quell’attore!”. Il mercato della pornografia non dichiarata e subdola è altrettanto fiorente: non la compri, non la vuoi, non l’accetti e la credi addirittura letteratura, cinema, arte, canzone, poesia. Quando spesso siamo davanti a veri pornoattori della politica, della comunicazione, dell’arte. Corpi pagati. Cosa spiego a mio figlio sull’amore, la pena, la comprensione, dopo che si è visto una trasmissione televisiva della domenica? Cosa gli spiego quando miriadi di ore di sport in tv devastano la cultura dello sport e portano alla cultura dell’agonismo,

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Alessandro Bergonzoni, Senza titolo.

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FUORI FUOCO Out of focus se non dell’antagonismo? Di quale innocuo senso parliamo? I mezzi di distrazione di massa muovono un istinto strategico che è quello del voler semplificare. E la gente infatti cosa fa? Semplifica. Benissimo, tutti gli sceneggiati su Basaglia, va tutto bene! Purché non significhi imbottigliare informazione da custodire in cantina, da collezionare nella propria videoteca. I tappi vanno continuamente aperti, i contenuti bevuti e sorseggiati. Questi liquidi devono allagare altri spazi, e mescolarsi. Perché il tema di Basaglia si rifà al tema fondamentale dell’accettazione della diversità e della follia che è in ognuno di noi, al tema della paura. Lo stesso vale per il tema delle carceri. Le persone che dicono “buttiamo via la chiave” si devono rendere conto che a forza di buttar via le chiavi di queste persone disperate che hanno ucciso e stuprato, buttiamo le chiavi per poi aprire eventualmente i problemi e capirli. Una persona coercizzata, chiusa in un manicomio carcerario o in un carcere manicomiale, è una persona che i nostri nipoti ritroveranno con la stessa potenza negativa e la stessa energia maledetta, per sempre. Ma, ripeto, questo interessa veramente a qualcuno? Credo che in questo momento storico non solo al cittadino, ma allo stesso essere umano, tendenzialmente non interessi. Adesso c’è un interessamento soltanto terreno e demaniale alle cose. Non interessano le regioni della mente, ma le Regioni dove abitiamo: se sono napoletano mi interessa la camorra, se sono siciliano mi interessa la mafia, se sono milanese mi interessa la finanza, se sono haitiano mi interessa il terremoto... Tutto questo può essere organizzato in maniera più complessa e visitato costantemente da un cittadino che deve farsene carico? Chi ha voglia, tutti i giorni, di vivere vite altrui? E quando parlo di arte parlo anche di questo: vivere vite altrui. Non solo poesia altrui, quadri altrui, sculture altrui; ma visioni altrui, ispirazione altrui, follia altrui. La gente invece pensa al proprio posto di lavoro, ai propri figli, ad arrivare alla fine del mese e tutto questo, nella perversione del termine, è giustissimo. Cose per cui è lecito andare in piazza. Ma se non lavoriamo sulla piazza interiore, fra cento anni, avremo gli stessi problemi. Caro onorevole, bisogna che ti renda conto che i cittadini che tu amministri sono esseri umani che hanno bisogno della tua presenza. Hanno bisogno di farti capire che - in questa vita, nelle prossime vite, in un altro giro di antropologica missione – tu sarai uno di loro. Non posso lasciare solo al cristianesimo il concetto del ‘siamo gli stessi’: lo devo chiedere anche alla filosofia, all’antropologia, all’uomo che governa questo tipo di spostamento. Quando si parla di stato vegetativo bisogna andare a vedere queste persone, come sono, che alito emanano, che fisicità esiste. Bisogna andare veramente a conoscere la parte della donna, del bambino, dell’immigrato e a toccare con mano la forza degli eventi, della malattia, della morte. Esiste una costituzione prima della Costituzione che è la costituzione della ricerca interiore. Se non fai questo tipo di lavoro non sarai mai un uomo nuovo, un politico nuovo: perché giochi una partita sotto vetro che è semplicemente finanziaria, gestionale ed economica. Perché se scrivi libri, finito di scrivere non è finito il tuo mestiere di uomo. È assurdo finire di fare il proprio mestiere e non cominciare il mestiere di donna, di bambino, di immigrato, di malato... Non puoi più parlare di malattia se stai facendo solo il medico e non cominci a fare il malato. Uno degli autori del libro Dall’altra parte racconta di aver capito cos’è la malattia, dopo trent’anni di primariato e tanti bei saggi di medicina, soltanto quando da ammalato ha cominciato a bussare alla porta di un dottore che non era lui. Allora io mi domando: dobbiamo tutti ammalarci, andare sotto le macerie di un terremoto, diventare donne ed essere stuprati per capire altre condizioni? La strategia dominante è quella del ‘finché non mi capita’. L’istinto invece mi deve portare a farlo prima: ad ammalarmi senza ammalarmi, a morire senza morire. È inutile spendere del tempo su delle opere di Picasso se dentro di esse non cerchiamo quel tanto di follia, quel tanto di anima che siano ponte tra la detenzione e la morte, tra la deformazione fisica e l’amputazione, tra l’altrove e la bellezza della non-bellezza. Senza questo non può esserci prima una rivelazione e poi la rivoluzione che tutti dicono di volere. Ogni cittadino vuole la rivoluzione del proprio stipendio, della propria sanità, della propria casa, della propria vita. Ma da dove arriva questa energia se non la andiamo a cercare dentro di noi? Se non cominciamo a farlo dall’asilo? Ho iniziato a fare degli incontri nelle scuole elementari per andare a raccontare altri corpi, altre possibilità. Non nelle scuole medie inferiori e superiori, o addirittura nelle università: lì ormai è troppo tardi, c’è già una deviazione mediatica e una potenza genitoriale sul groppone. Tutti i mercati lo sanno che con i bambini c’è più facilità di presa, e sono infatti attesi al varco. Mi piacerebbe poter raccontare a una classe che non è solo attraverso la perdita del fratellino o del genitore che si può capire la mancanza di un caro o di una

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–Reality show guida nella vita. Ma è anche attraverso il racconto degli altri e l’immedesimazione. Un racconto che tocca corde molto scomode e faticosissime. Se vogliamo, anche una forma di violenza, perché toglie una parte di istinto e si anticipa l’esperienza. Si tratta però di un investimento a lungo termine su una ricerca interiore fatta di complessità. Ma a chi interessa il ‘tempo’? Interessa agli ammalati che si sono appena ammalati, ai genitori che hanno appena avuto dei figli stuprati, a coloro che hanno perso il lavoro: a chi ha subito danni sulla propria pelle. E agli altri? Gli altri conducono la propria vita mediatico-comunicativa. Senza rendersi conto che è un circolo vizioso che produce e alimenta sé stesso con il seme della volgarità più assoluta, della banalità non innocua. Altro che la violenza degli stadi! La violenza degli stadi non è pari alla violenza dello stadio umano. Sicuramente usciti da una conversazione come questa, come da un tuo spettacolo, si esce con la cosiddetta pulce nell’orecchio. Anche se c’è sempre bisogno di somministrare una nuova dose... Le dosi però possono essere veramente deleteree se non c’è un percorso di smitizzazione degli altri e di vera carica interna. L’autoproduttore deve essere lo spettatore che deve diventare un autospacciatore di più verità. Ci deve essere un lavoro di azione, una strategia e un istinto di creazione di ulteriore. Letto un libro, visto uno spettacolo, visitato un museo non devi avere un idolo. Devi cercare la tua vita che non hai e la testa che non vedi. Io credo che noi siamo dei pessimi Dio, siamo delle divinità atrofizzate, delle divinità monche. Ci crediamo Dio se produciamo, ci crediamo Dio se abbiamo potere. Ma non ci crediamo Dio come potenza. E poi c’è la tremenda legge dell’imitazione, come imitazione e limitazione. Siamo nati con il bisogno di imitare: la gente adesso ama i propri drammatici eroi nell’emulazione di chi possiede denaro, donne, successo. Perché per noi la vita è produttiva, la vita è azione, la vita è bellezza unica. La mia domanda è: interessa a qualcuno raccontare un altro tipo di corpo, un altro tipo di azione? No! Perchè la scienza risponde: non è quella la vita della vita. È questa secondo me la strategia: decidere qual è la dignità e obbligare ai propri dogmi gli altri e, automaticamente, comandare. Possiamo invece dare voce anche all’informe, al non bello, al problema, al violento, a tutto quello che ci ottunde la serenità? Qui sta la differenza tra comandare e domandare: chi comanda non si domanda chi comanda, comanda e basta. La differenza è tra comandanti e domandanti. E tra potere e potenza: la potenza delle domande è fortissima, il potere del dominio è letale. Le persone adesso subiscono il dominio con gioia. Ancora una volta il problema è quello della strategia del ‘solo’: va bene Nembo Kid, va bene Zorro, va bene Superman, ma, posso pensare anche ad altri racconti? In questo momento, no. A meno che non stia per morire, a meno che non abbia un figlio in stato vegetativo, a meno che non abbia una figlia stuprata, a meno che non abbia un parente ucciso in una strada da un extracomunitario. Solo allora mi sveglio e metto in atto la strategia dell’istinto: rispondo istintualmente a un dramma e comincio a cercar di conoscere. Il tema è quando nasciamo? Nasciamo solo con l’esperienza negativa? Sono devastato da questa strategia degli esperienti e degli esperitori! Una storia fatta di guerre e devastazioni dimostra che il risveglio avviene per disperazione e per dramma. Dobbiamo forse rassegnarci al fatto che le persone si rinnovano soltanto con un cambio di coscienza obbligato da un’umiliazione natural-bellica? Noi conosciamo solo attraverso l’esperienza diretta. È ovvio che non sono contro l’esperienza: è la strategia del ‘solo’ che vorrei smontare. Non è forse auspicabile che si arrivi alla conoscenza attraverso l’intelletto e l’immedesimazione, per una forma di rispetto di altre vite? È un lavoro che deve fare la nazione intima, quella interna ad ognuno di noi. Ma chi è che si veste di altre vite? Ognuno difende quasi in maniera scafandrica la propria. Il punto è che le piste di atterraggio delle persone sono corte, mentre i temi sono aerei con un’apertura alare devastante che hanno bisogno di centinaia e centinaia di metri per poter atterrare. E noi, avendo delle piste corte, non li teniamo: l’aereo tocca terra e poi deve subito ripartire. E difatti molti temi essenziali non riescono ad atterrare dentro di noi. [english] Is it instinctive to look the other way when faced with complexity, frightened of the uncertainty of existence? At this anthropological moment of widespread baseness man makes strategy out of instinct and instinct out of strategy. He fends off, defends himself and, being afraid, fulfils his task, that of strategic instinct. He keeps calm, so he can shelter in his own snugness and not feel the cold. A warmth which is not positive energy, not fire, but horrrendous tepor. It is tepor which leads him not to want to see that which is not seen, and not to want to know that which we are not able to know and not to want to conceive the inconceivable. Art deals with the inconceivable. But instinctively and

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Mr.Potatohead Š Hasbro, Playskool.

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FUORI FUOCO Out of focus strategically a job of normalization is carried out, modernization and concretization, which kills the idea itself of art and puts the heart to rest. A peace of darkness which is not interior peace but interior void. It is the assonance of peace, to be silent. Those who want from peace the idea of mere tepor and silence, make a strategy out of it to get the necessary dominion to control the minds of the people. Tepor, fear and peace/be silent, are the keywords of the strategy of command, of those who use sedation to make sure that people do not think. It is the tactics of those who do not want strength but power. We can undergo it or become active participants, making art and reading it with other translations. But is anybody interested in going further? Means of mass distraction dull us, wound us, people’s brains, souls, explode. Who should be the referent of this change? Perhaps those who have power? Or should it be the individual, who carries out this task, not so much the Ego and the I, but the self? Anger, then, this famous anger we see in everything and everyone, where should it be aimed ? What is the strategy of anger? Sometimes it seems just a base instinct. I appeal to the interior piazza, the interior government, personal parliaments. All those who seem convinced that only their own artistic creations are the answer and the story, should sense an obligatory thrust so as not limit themselves to talking only with their works. I think that now the need is for an urgency for another type of research. So as to undermine those 'in charge' of the ‘state’ of things? The point is, which 'charge' are we talking about? A dynamitic force which might explode? Or like loads and weights? Rather than spending time on the State, on nations, governments, the economy and on finance we should be talking about the ‘state’ of things. The pluristratified components of the being are not only the economy for the economy, finance for finance, health for health, science for science. On the contrary! It is a question of connection, coagulation. How can we talk of a vegetative state with only a legal or scientific voice? It is no longer possible to speak of the economic state, the distribution of finance and capitalism, without speaking of the condition of souls and the Self! All this is only the final part, the tip of the iceberg. And why is it that no-one is concerned about where this bodkin came from, and why ? Because we have to go too underneath, into a frozen zone or perhaps too inside, into a zone which is too violent. We accept the violence on the surface but we do not want to seek that violence which might tell us of other ‘whys’. If you ask me if this is instinct or strategy I will answer that I think it is an enormous instinct for conservation of the boorish and one’s own ‘tepid’ condition. But, at the same time, it is also the strategy of those who maintain this condition of baseness intentionally, so as to lead us into crisis, made up of people who shout, scream and who need commanders. And when the interior captain no longer exists, we refer to others. We’re always talking about ‘tumours’ and seeking to cure them but the basic theme is anamnesis, the origin and genesis of intellectual metastases, which we are not concerned about because we shy away from complexity. But if we wish to see beyond, inevitably, we have to ask beyond. Otherwise, we remain seated and sedated. Such a condition of closure and anthropological devastation cannot be forbidden or interrupted only by means of the work - and the silences - of artists who compose their trade in the hope that it might serve something. There has to be a connection between these art actions and those who compose the stratum of the Earth. Each of us does his own little things, his own books, his own little performances and then he leaves. He does not stay around to build that bridge of boats, that stretch, which will communicate things. Who, if not we ourselves, will be the artificer who blows something up to bring about communication between all this ? Or do we have to remain islands to ourselves, like little icebergs floating here and there, or can we re-see the formation of this underground pack? But do we really want to thrust our hands in to extirpate the theme at the roots. I am always amazed by the Umberto Ecos and the Abramoviches, these minds, these bodies. I ask these intelligences: should you be just calling us to your museums and your congresses or can you come up with growth, lengthening, widening? Once the conference is over, everyone has made his own contribution, everyone goes back home with broken bridges. And the relation between the contributions? The madness of this time is dogmatism, uniqueness, the monosense which leads us to say “I speak of mine”. Scientists, like religious thinkers, only listen to their own voice. How can we face up to the theme of the Truth if all have only one Truth? I want to treasure everything, I want gold. I do not want to create uniqueness. And I ask myself, can we still speak of camorra and mafia without speaking about the state of souls? When a man puts a child into acid is it a mafia act, a political act, an act of delinquency or is there something else? Here there is a greater theme, that of a universal analysis, cosmic, interstellar. This is what strategy and instinct should analyze speleologically.

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–Reality show

Nota bene was born with just this interdisciplinary desire to seek out territories, outside disciplinary boundaries, in the awareness that only the convergence of different gazes can photograph the multiplicity of the real... I appreciate the fact that one is aiming at closer examination, and that it is not the usual ‘manual’. Complex does not mean complicated, it means observing the variety of truths. The theme is consciousness, not communication, not the human side, but the superhuman. Instead, the essence and the transcendental, we leave them to those who honour the dead, who have by now left their code to speakers who often work for sects. It is difficult to find knowledge brought into relation, also in ‘mistaken’ environments. Sometimes the word strategy is specifically linked to the word communication. So why detach ourselves from communication if it could perhaps be a way to get on television or in the newspapers? Because when certain themes arrive at you, they arrive superficially, trendily and it is instinctive, in the saddest and most simplistic sense of the word. I am tired of communication! Poetry blends with communication, communication is raped, the song blends with authoriality, the author disappears, the performer appears, the performer sells himself, the sold performer does advertising, advertising becomes … External problems? But in the end, they become internal problems! The worst form of pornography is not that of blue movies, it is that of the brothel-like baseness of communication, of those who constantly pornographize people. At least, watching a porn movie, we know we are not looking at the summa of cinematographic arts and we do not exclaim “How well that actor recites!” The underhand, non-explicit, pornography market is equally flourishing. You do not buy it, you do not want it, you don’t accept it and you even believe it to be literature, cinema, art, song, poetry. When often we are in the presence of real porn actors of politics, communication, art. Paid bodies. What can I explain to my son, about love, pity, comprehension, after he has seen a Sunday television programme? What do I explain to him when a multitude of hours of sport devastate the culture of sport and lead to the culture of competitiveness if not antagonism? Of which innocuous sense are we talking? Means of distraction of the masses drive a strategic instinct which is that of wanting to simplify. And people, what in fact do they do? Simplify. Great! All the TV serials on Basaglia, all fine! As long as it doesn’t mean bottling information to be guarded in the cellar, to collect in one’s video library. The corks should be continuously removed, the contents drunk and sipped. These liquids should flood other spaces and blend with them. Because Basaglia’s theme concerns the basic theme of the acceptance of the diversity and madness which is in every one of us, the theme of fear. The same goes for the theme of prisons. The people who say “throw away the keys” should be aware that in throwing away the keys of these desperate people who have killed or raped, we throw away the keys which will eventually open the problems and understand them. A person coerced, locked up in a lunatic asylum is a person our grandchildren will rediscover, with the same negative strenght and the same negative, infernal energy, for ever. But I repeat, does this really interest anyone? I think that at this historical moment not only the citizen but also the human being, is basically not interested. At the moment there is only a ground-like, property-like interest in things. The regions of the mind are of no interest, but Regions we inhabit, yes: if I am Milanese, finance interests me, if I’m Haitian the earthquake interests me…All this, can it be organized in a more complex manner and visited constantly by a citizen who has taken charge of it? Who wants, every day, to live others’ lives? And when I speak of art I am speaking also of this – living the lives of others. Not only others’ poetry, others’ paintings, others’ sculptures, but others’ visions, others’ inspirations, others’ madness. People, instead, think of their own job, their own children, getting to the end of the month and all this, in the perversion of the term, is perfectly justified. Things it is worth demonstrating about. But if we don’t work on the interior piazza, in a hundred years, we will have the same problems. Dear honourable deputy, you need to see that the people you administrate are human beings who need your presence. They need to get you to understand that – in this life, in future lives, in another turn of anthropological mission – you will be one of us. I cannot leave to Christianity the concept of ‘we are the same’, I also have to ask it of philosophy, anthropology, of the man who governs this type of shift. When we speak of vegetative state we need to go and see these people, see how they are, what breath they emanate, what physicalness exists. We really need to go and meet the side of the woman, child, the immigrant and experience first-hand the force of events, illness, death. A constitution before the Constitution exists which is the constitution of interior research. If you don’t do this type of work, you will never be a new man, a new politician. Because you are playing a game behind a glass, which is simply financial, managerial and economic. Because if you write books, when you finish writing, what is not finished is your trade as a man. It is absurd to finish doing your own job and not begin the trade of woman, child, immigrant, sick person…You can no longer speak of illness if you are only being a doctor and you don’t start being the sick person.

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FUORI FUOCO Out of focus One of the authors of the book Dall’altra parte tells us he understood what illness was, after twenty years of consultancy and so many nice essays on medicine, only when, as a sick person he began to knock on the door of a doctor who was not him. So, I ask myself, do we all have to get ill, go under the rubble of an earthquake, become women and get raped, to understand other conditions? The dominant strategy is that of ‘until it happens to me’. Instinct instead should lead me to do it before, to get sick without getting sick, die without dying . It is useless to spend time on works by Picasso if inside them we do not seek that bit of folly, that bit of soul which is a bridge between detention and death, physical deformation and amputation, between elsewhere and the beauty of non-beauty. Without this there cannot be first a revelation and then the revolution which everyone says they want. Every person wants a revolution of his own salary, his own health, home, his own life…But where will this energy come from if we don’t go and seek it inside ourselves? If we don’t begin to do it from nursery school? I began to make encounters in primary school to go and recount other bodies, other possibilities. Not in secondary school or university even, there its too late, there is already a media deviation and a parental potency on your back. All markets know that with children it’s easier to get a grip, and they are in fact already lying in wait for them. I would like to tell a class that it is not only through the loss of a young brother or a parent that one can understand the lack of a dear one or a guide in life. But it is also through the tales of others and identification. A tale which plucks strings which deeply disturb us, bring us extreme fatigue. If we want, a form of violence too, because it removes a part of the instinct and foresees experience. But it is a long-term investment on an interior research made up of complexity. But who is interested in ‘time’? It interests the sick who have just got sick, the parents who have just had one of their children raped, those who have lost their job, those who have suffered personally. And the others? The others lead their media-communicative lives. Without realizing that it is a vicious circle which produces and nourishes itself on the seed of the most absolute vulgarity, non-harmless banality. Violence in the stadiums? It’s nothing, in comparison! Violence in stadiums is not on a par with the violence of the human stadium. To be sure, after a conversation like this, like after one of your performances, one leaves with one’s suspicions aroused. Even though we always need to administer another dose… But the doses can be really dangerous if there is no process of deglamorization of others and a real internal force. The self-producer has to be the spectator who has to become

–Reality show a self-pusher of different truths. There has to be a work of action, a strategy and an instinct of creation of 'the further'. Having read a book, seen a show, visited a museum, you shouldn’t have an idol. You have to seek your life which you haven’t got and the head you don’t see. I think that as Gods we are hopeless, we are atrophied divinities, amputated divinities. We believe we are God if we produce, we believe we are God if we have power. But we do not believe we are God as strength. And then there is the awful law of imitation, like imitation and limitation. We are born with the need to imitate. People now love their own dramatic heroes in the emulation of those who possess money, women, success. Because for us life is productive, life is action, life is unique beauty. My questioni is: is it of interest to anyone to recount another type of body, another type of action? No! Because science answers: this is not the life of life. And this is, I think, strategy; deciding which is the dignity and obliging others to follow one’s own dogmas and automatically, command. Can we, instead, also give voice to the formless, to the non-beautiful, to the problem, the violent, to all that which dulls our serenity? This is the difference between commanding and asking; those who command do not ask who commands, they command and that’s it. The difference is between commanders and askers. And between power and strength ; the strength of questions is very strong, the power of dominion is lethal. People now undergo dominion with joy. Once more the problem is that of the strategy of the ‘solo’. Nembo Kid is OK, Zorro, Superman is OK but can I think of other stories? At this moment no. Unless I am about to die, unless I have a son in a vegetative state, unless I have a daughter raped in the street by an illegal immigrant. Only now do I wake up and activate a strategy of the instinct, I respond instinctively to a drama and begin trying to know. The theme is when are we born? Are we born only with negative experience? I am devastated by this strategy of experiencers and carriers-out! A history made up of wars and devastation shows us that the reawakening happens because of desperation and drama. Perhaps we have to resign ourselves to the fact that people are renewed only with a change of consciousness obliged by a natural-warl(-like) humiliation? We know only through direct experience. It is obvious that I am not against experience. It is the strategy of the ‘solo’ that I would like to deflate. Is it not desirable to arrive at a consciousness through the intellect and identification, to a form of respect for other lives? It is a job that the intimate nation has to do, the one on the inside of each of us. But who is the one who dresses himself in other lives? Everyone defends his own, as if in some sort of deep-sea diving suit. The point is that people’s landing strips are short, while the themes are planes with a devastating wingspan which need hundreds and hundreds of metres to be able to land. And we, having short strips, we can’t manage them: the plane touches the ground and then takes off again immediately. In fact many essential themes do not manage a landing inside of us. a cura di/by Maurizio Rossi

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–Sopravvivenze/Survival

Homo homini lupus Intervista a/interview with Luigi Boitani

Nel mondo animale l’istinto è sempre strategico? Mentre in etologia il termine istinto ha il significato ben preciso di impulso e costrutto interno che costringe a un determinato comportamento, strategia è un’espressione più ambigua che ha bisogno di essere ricondotta al di fuori della pianificazione consapevole da parte del singolo individuo. Infatti, quando in biologia si parla di strategia di sopravvivenza della specie, si fa riferimento all’insieme di caratteristiche che la selezione naturale ha comprovato essere funzionali alla conservazione della specie. In termini di equazione di crescita della popolazione è possibile allora definire come strategia K quella dei gruppi biologici che non sprecano nessuna risorsa: la prole è minima e su di essa si concentrano tutte le cure affinché abbia la più alta possibilità di sopravvivenza. La strategia R è invece riferibile ai cosiddetti gruppi pionieri e generalisti, animali che come i ratti - o gli uomini stessi - si permettono un grande spreco di risorse. Dunque, in termini squisitamente evolutivi, l’istinto rappresenta senz’altro uno degli strumenti fondamentali delle strategie di sopravvivenza delle specie. La specie umana è davvero affrancata dai dettami dell’istinto? L’uomo è un animale. E la specie umana non è necessariamente la più complessa: abbiamo semplicemente un cervello un po’ più evoluto rispetto agli altri e abbiamo sviluppato una consapevolezza più ricca. Nella scala evolutiva, tra la lumaca e l’uomo, evidentemente intercorrono molti stadi di passaggio, innumerevoli tonalità. Ma i primati mostrano ottime capacità strategiche e sono molto più vicini a noi di quanto non siano ad altri animali. È nel patrimonio genetico che si rintracciano gli elementi costitutivi dell’istinto come predisposizione ad azioni funzionali alla sopravvivenza della specie. In questo senso, nell’uomo come negli altri animali, l’istinto è sempre strategico. Quanto più la specie è consapevole, tanto più quest’ultimo è plasmato in feedback continuo con l’apprendimento; l’uomo è massima espressione di un’interazione che si riscontra in maniera più o meno articolata in tantissimi altri animali. Nella socialità del lupo possono rintracciarsi assonanze con quanto accade nelle relazioni umane? Potrei illustrare tutti i comportamenti che descrivono la socialità del lupo, ma anche degli altri canidi, impiegando gli stessi termini che userei per descrivere quella dell’uomo, tanto è sovrapponibile il carattere delle due strutture sociali. Gerarchie molto simili governano le modalità di caccia, l’allevamento della prole e la difesa del territorio da parte di entrambe le specie. Proprio per questo, nella storia, il lupo e l’uomo sono sempre stati in competizione: il lupo è uno dei totem più comuni nelle popolazioni umane primitive, perché simbolo di un’efficienza e di una scaltrezza da perseguire. Ma ciò che accomuna in maniera straordinaria i due animali è l’elevata plasticità della fenomenologia e dell’ecologia del comportamento: come l’uomo, il lupo vive dal Polo Nord fino alla punta più meridionale dell’India dei deserti dell’Arabia Saudita. Uomini e lupi sono, infatti, tra gli esseri più flessibili sulla faccia della terra, forti di una capacità di adattamento davvero elevata e di una versatilità unica nella sfruttamento della risorse più diverse. All’origine del cane c’è un uomo e un lupo che diventano complici per istinto di sopravvivenza? Esiste un’affinità elettiva tra la specie umana e la famiglia dei canidi? Non si è trattato dell’incontro reciproco di due strategie di sopravvivenza: il lupo non ha mai avuto necessità di diventare complice dell’uomo. E non parlerei neanche di affinità elettiva, quanto piuttosto della consueta arroganza che l’uomo ha sempre mostrato nel cogliere qualsiasi possibilità di manipolazione offerta dall’ambiente, sfruttando la natura a proprio esclusivo vantaggio. Come ha addomesticato il cavallo o selezionato le colture di mais, l’uomo ha manipo-

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lato il lupo facendone un cane. Per la sua spiccata plasticità comportamentale ed ecologica, il lupo si è prestato più di altre specie ad essere utilizzato per la caccia, per l’inseguimento, per l’attacco, per la difesa, per la compagnia, per il fiuto e per tantissime altre abilità. Nel corso della selezione delle diverse razze canine, l’uomo ha fatto un lavoro abbastanza rozzo: di volta in volta ha accentuato una particolare caratteristica utile alle necessità del momento. Tuttavia, se il levriero è superiore al lupo nella velocità della corsa o il mastino nella forza della presa, nessun cane può vantare la sintesi perfetta di capacità del suo progenitore. Mai come negli ultimi due secoli, l’uomo è intervenuto sul territorio. Quali strategie di resistenza sono state adottate dalle principali specie autoctone di mammiferi d’Europa? Non possiamo parlare di strategia di resistenza nelle specie animali, perché questo implicherebbe una consapevolezza del pericolo e la concertazione di una tattica di risposta. Gli animali hanno reagito, o meglio subìto, i cambiamenti imposti dall’uomo. Le specie più specializzate, nel momento in cui vedono il loro habitat distrutto, non hanno possibilità, sono condannate. Ad esempio, il picchio che vive solamente nella foresta di faggio matura, dove ci sono alberi caduti che propongono legno marcescente dove trovare cibo, a causa dell’attuale gestione delle aree boschive da parte dell’uomo è pressoché estinto. Gruppi biologici più generalisti e pionieri come la volpe o lo stesso lupo presentano maggiori possibilità di adattamento e quindi di sopravvivenza. Infatti, se una femmina di lupo può far nascere ogni volta fino a otto cuccioli, la femmina di orso ha una produttività molto bassa: al massimo tre cuccioli ogni due anni. In alcuni casi le specie più generaliste sono state addirittura favorite dalle modifiche imposte dall’uomo al territorio, mentre altre hanno sofferto gravemente la trasformazione del proprio habitat. Nel continente europeo, se il lupo non viene ammazzato direttamente può vivere dappertutto. L’orso, al contrario, ha bisogno di una situazione ambientale completamente diversa e nel nostro Paese se ne contano ormai solo quaranta esemplari nel Parco d’Abruzzo. Quali strategie per la garantire in futuro la corretta coesistenza di uomo e animali? La prima strategia riguarda l’atteggiamento etico che l’uomo dovrebbe ritrovare nei confronti dell’ambiente di cui è ospite. Sempre di più l’ambiente è trattato come proprietà esclusiva dell’essere umano, autorizzato a correggerlo e manipolarlo a proprio piacimento per garantirsi il massimo profitto col minimo sforzo. La parola strategica è tolleranza. La cultura della civiltà contadina, pur essendo finalizzata allo sfruttamento delle risorse naturali, mostrava un profondo senso di responsabilità e di rispetto verso i ritmi del mondo animale e vegetale che l’uomo occidentale di oggi ha dimenticato. La nostra è la società di una civiltà cittadina che cerca disperatamente un legame con la natura, magari coltivando un geranio sul balcone o tenendo in casa un cane, un gatto, un canarino o chissà quale pesce esotico. Ma, di fatto, non c’è più la consapevolezza della natura; solo la consapevolezza del singolo animale. Gli abitanti dei paesi industrializzati stanno diventando sempre più animalisti, ovvero preoccupati del benessere del singolo animale e sempre meno conservazionisti, cioè interessati alla difesa degli equilibri globali della natura. Credo si tratti di una tendenza drammaticamente ineluttabile, che solo una strategia di rinnovamento culturale di fondo potrebbe invertire. Purtroppo di parole se ne spendono tantissime: si producono bellissimi documenti, vengono pensate strategie per la conservazione delle biodiversità ma, di fatto, le dichiarazioni d’intenti sono inutili se non si traducono in azioni concrete. È vero che la strategia di massima serve per vincere la guerra, ma le battaglie si vincono con le singole tattiche. [english] In the animal world is instinct always strategic? Whereas in ethology the term instinct is clearly definable as the impulse and internal

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Semafori Traffic lights

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–Sopravvivenze/Survival

HOMO HOMINI LUPUS

construct which forces a certain type of behaviour, strategy is more ambiguous, and we need to remove it from the conscious planning area on the part of the single individual. In biology when we speak of species survival strategy we refer to the set of characteristics which natural selection has shown to be necessary for the conservation of the species. In terms of the growth equation of the population we can thus define as strategy K that of those biological groups which do not waste resources. The offspring are few and all care is concentrated on them to achieve the greatest chance of survival. Strategy R however, refers to the so-called pioneer and generalist groups, animals like rats – or humans – which can tolerate great waste in resources. Therefore, in typically evolutionary terms, instinct is without doubt one of the basic tools of species survival strategies. Has the human species really freed itself of the dictates of instinct? Man is an animal. And the human species is not necessarily the most complex, we just have a brain which has evolved a little more than the others and we have developed a more complex awareness. On the evolutionary ladder, between the snail and man, clearly there are many degrees of transition, countless tonalities. But primates exhibit excellent strategic capacities and are much closer to us than other animals. It is in the genetic patrimony that we trace the basic elements of instinct like predisposition for actions aiming at survival of the species. In this sense, in man as in other animals, instinct is always strategic. The more the species is conscious, the more it is moulded into continuous feedback by means of learning. Man is the greatest expression of an interaction to be found in a more or less elaborate fashion in many other animals. In the sociality of the wolf do we see similarities with what happens in human relations? I could illustrate all behaviour which expresses the sociality of the wolf but also the other canines, using the same terms I would use to describe that of man, the degree to which the two social structures can be superimposed being what it is. Very similar hierarchies determine the way they hunt, the raising of offspring and the defence of territory on the part of both species. Just for this reason in history the wolf and man have always competed. The wolf is one of the most common totems in primitive human populations because it is a symbol of an efficiency and a guile worthy of imitation. But the most extraordinary common factor in the two animals is the elevated plasticity of the phenomenology and ecology of their behaviour. Like man, the wolf lives everywhere, from the North Pole to the southernmost point of India, and the deserts of Saudi Arabia. Men and wolves are indeed among the most flexible beings on the face of the earth, noted for their great capacity to adapt and a unique versatility in the exploitation of the most varied resources. At the origins of the dog is there a man and a wolf who become accomplices by instinct for survival? Is there an elective affinity between the human species and the canine family? It was not a case of mutual encounter between two strategies of survival: the wolf never needed to become man’s accomplice. And I wouldn’t speak of elective affinities either. Rather it is the habitual arrogance which man has always exhibited in seizing any oppurtunity to manipulate which the environment offers, exploiting nature to his exclusive advantage. As he tamed the horse

or selected the cultivation of maize, man has manipulated the wolf, making a dog out of him. Because of its singular behavioural and ecological plasticity the wolf has lent itself more than other species to be utilised for hunting, pursuit, assault, defence, company, scent and many other abilities. During the selection of different canine races man has done something rather gross; each time, he has stressed a particular feature which is useful for the needs of the moment. However, if the greyhound is superior to the wolf in the speed of the race and the mastiff in the strength of the jaws, no dog can boast the perfect synthesis of abilities of his ancestor. Never as in the last two centuries has man intervened in the environment. What strategies of resistance have been adopted by the main autochthonous mammal species in Europe? We cannot speak of resistance strategy in animal species, because this would imply an awareness of the danger and the consultation behind a response tactic. Animals have reacted - or rather undergone - the changes imposed by man. The most specialized species, when their habitat has been destroyed, have no chance, they are doomed. For example, the woodpecker which lives only in mature beech forests but since the only food is to be found in the rotting wood of fallen trees, the result of current management of wooded areas by man, it is just about extinct. More generalist biological groups and pioneers like the fox, or the wolf even, have greater chances of adaptation and thus survival. While a female wolf can give birth every time to as many as eight cubs, the female bear has a much lower productivity, at most three cubs every two years. In some cases the more generalist species have even been favoured by the modifications imposed by man on the environment, while others have suffered greatly the transformation of their habitat. On the European continent if the wolf is not killed directly, it can live everywhere. The bear, on the contrary, needs a completely different environmental context and in Italy we only have forty specimens left. in the Parco d’Abruzzo. What are the strategies we need to guarantee in the future, a reasonable coexistence between man and animal? The first strategy concerns the ethical attitude which man has to adopt with respect to the environment of which he is a guest. Increasingly, the environment is treated as the exclusive property of the human being, authorised to correct it and manipulate it as he sees fit, to guarantee the most profit with the least effort. The strategic word is tolerance. Peasant civilisation, although justified by the exploitation of natural resources, showed a great deal of respect for the rhythms of the animal and vegetal world which western man today has forgotten. Ours is an urban civilisation desperately seeking a bond with nature, perhaps cultivating a geranium on the balcony or keeping a dog in the home, a cat, a canary or who knows what exotic fish. But in actual fact there is no longer an awareness of nature, only that of the single animal. The inhabitants of industrialised countries are becoming increasingly ‘animalist’, worried about the well-being of single animals and less and less conservationist, i.e., interested in the defence of the global equilibria of nature. I think it is a dramatically inevitable tendency which only a strategy of deep cultural renewal might invert. Unfortunately a great deal is said, wonderful documents are produced, strategies for the conservation of biodiversity are thought up, but in actual fact, the declared intents are useless if they are not translated into concrete action. It is true that overall strategy is needed to win the war but the battles are won by means of single tactics. a cura di/by Alessio Cosma

LUIGI BOITANI

LUIGI BOITANI

Luigi Boitani, rappresenta la massima autorità in Italia nel campo dello studio dei lupi. Direttore del Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo dell’Università La Sapienza è membro fondatore e presidente dell’Istituto di Ecologia Applicata, organizzazione non-profit con finalità di ricerca e didattica in campo ambientale. Svolge l’attività di rappresentante per il governo italiano in sedi internazionali come l’OCSE, il Consiglio d’Europa e la Convenzione di Berna e fa parte di associazioni scientifiche internazionali come Ecological Society of America, Society for Conservation Biology, East African Wildlife Society. La sua passione per il Canis lupus e la difesa della sopravvivenza della specie inizia alla Yale University, dove nei primi anni Settanta vince diverse borse di studio per un percorso di specializzazione che lo vede tuttora impegnato nei progetti di conservazione del predatore nel nostro Paese. Wolves: Behavior, Ecology and Conservation, University of Chicago Press (2003), volume scritto a quattro mani con L. David, è stato insignito del premio Wildlife Publications Award.

Luigi Boitani is the leading expert in Italy in the field of the study of wolves (Canis lupus). Director of the Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo at the Università La Sapienza, he is founding member and president of the Istituto di Ecologia Applicata, a non-profitmaking organization concerned with research and teaching in the environmental field. He represents the Italian government on international bodies like the OECD, the Council of Europe and the Berne Convention and participates in international scientific associations like the Ecological Society of America, the Society for Conservation Biology, the East African Wildlife Society. His passion for Canis lupus and the defence of the survival of this species began at Yale University, where, at the beginning of the 1970s, he won a number of scholarships and undertook a course of specialization which still today sees him committed to conservation projects of this predator in our country. Wolves: Behavior, Ecology and Conservation, University of Chicago Press (2003), written together with L.David, was awarded the Wildlife Publications Award.

UTILITY

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Appunti Notebook

Cristina Zinni, Decisioni.

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–Selezioni innaturali/Unnatural Selections

Occhio al bersaglio Watch out for the target La selezione del personale si pone nell’universo lavoro come uno dei momenti più contraddittori nei confronti degli stessi soggetti-oggetti che sono in ballo: il lavoro e i lavoratori. La selezione delle risorse umane può sembrare di per sé una posizione scontata e accettata dalle parti, tanto da attestarsi su posizioni teoriche e tecniche ritenute consolidate. Ma se vogliamo indagare al di là di queste concezioni istituzionalizzate, possiamo rilevare componenti di ben altro significato da quello così sancito. Perché non si ritiene sufficiente una lunga preparazione scolastica magari sino al conseguimento di prestigiosi master? Perché si vuole sottoporre una persona preparata e con già una esperienza consolidata alla prova della selezione? È lecito ipotizzare da parte di chi detiene il potere sul mercato una posizione di scarsa fiducia sulle capacità che ogni lavoratore promette? La relazione umana che si dispone in questo campo presenta dunque aspetti solo apparentemente codificati e condivisibili dalle parti in gioco. E nell’agire umano ciò che avviene durante la selezione di una persona che aspira a un lavoro (la quale si ritiene adatta a quel ruolo) è paradigma di quell’eterno gioco che intercorre tra l’istinto e la razionalità. In base alla scientificità dei test che dovrebbero appurare le qualità che più si ritengono ‘adatte’ si è orientati a reclutare una persona piuttosto che un’altra. Ma questo sembra non bastare. Perché si vuole il colloquio faccia a faccia? Cosa si vuole appurare? È innegabile che si può parlare della ricerca di conferme al risultato dei test, ma questa volta in base a criteri del tutto personali, o forse in base alla propria esperienza, o ancor di più in base alle proprie preferenze e aspettative. Tutte variabili queste che prescindono da ogni ragionevole metro di giudizio, perché si fondano su riferimenti soggettivi. Questa procedura, radicata istituzionalmente quanto nelle menti dei manager, mostra segni di debolezza strutturale e organica. Perché il risultato di prove attitudinali dovrebbe prescindere da un banale colloquio, peraltro sbrigativo, che risente di innumerevoli variabili incontrollabili, dall’una e dall’altra parte. Gli svariati contributi apportati a queste problematiche parlano della facilità con cui i ‘capi’ proiettano o peggio costruiscono fantasmaticamente giudizi e valori sui candidati in base al proprio vissuto. Il proprio, appunto. E la stragrande maggioranza dei colloqui è condotta non da psicologi, ma da direttori e capi che provengono da una precisa esperienza, comunque non esaustiva delle realtà delle varie mansioni. Eppure questa è una prassi consolidata. La soggettività delle persone in ballo rimane sospesa su quei pochi momenti, sembra rimbalzare tra la fredda lucidità di responsi razionali e per questo non contestabili e la melodrammatica pretesa di essere conosciuti e magari riconosciuti con poche domande sulla propria persona. Sono questi momenti difficili da dimenticare, anche per quelli che superano la prova ed ottengono il posto. Avevamo parlato di questo aspetto del mondo del lavoro come paradigmatico dell’eterno conflitto che contrappone l’istinto alla ragione, il sentimento alla consapevolezza scientifica. Ma forse è qualcosa di più. C’è un limite intrinseco ad ogni prassi che si prefigge l’obiettivo di stabilire certezza. Questo limite è dato dalla natura umana, la stessa che si presenta come ospite inatteso ma con il potere di inibire le grandi intelligenze e le potenzialità inesplose, quando le stesse vengono assalite da eventi contrari, dalla mancanza di amore, da difficoltà materiali. Ma queste verità non sono e non saranno mai contemplate in alcun protocollo di selezione. In molti ci si chiede se una persona con basso profilo all’analisi fattoriale dei test (bella parola questa), ma con dei figli da mantenere, non possa risultare sul campo più motivata alla scrupolosità e alla coscienziosità. Queste due sono fra le categorie di ‘previsione’ che si ricercano di frequente nei candidati. Forse perché si ritiene che certi requisiti siano imprescindibili. Al proposito non posso non citare le parole di un economista, Luigi Zingales (dal SOLE 24 ORE- inserto Domenica- del 13 dic. ’09). Così scrive: “Nel prossimo ventennio i progressi della genetica e della scienza in generale renderanno sempre più facile testare le persone per individuare

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Sandro Caldarelli

le loro caratteristiche genetiche. Le opportunità offerte da questi test sono enormi. Conoscendo le nostre predisposizioni saremo in grado di cambiare stile di vita in modo da minimizzare il rischio di ammalarci, di individuare le professioni in cui abbiamo le maggiori probabilità di successo, e di scegliere le medicine più adatte alle nostre caratteristiche genetiche [ … ] ”. Un’ipotesi paradossale, ma che non stupirebbe più di tanto se si avverasse. Perché essa pare germogliare da gemme ben nutrite dalla cultura corrente, per la quale la soggettività delle persone debba poter essere sancita con prove attitudinali, fatte in un momento in cui si sa di non poter sbagliare, con in gioco progetti di vita e condizioni materiali della propria esistenza. Ma esistono altre vie da percorrere? Una è stata tracciata. Anni Sessanta. Adriano Olivetti. Il compimento di un massiccia riconversione da processi meccanici alle nuove esigenze dell’innovazione elettronica. Questo avveniva mezzo secolo fa, e rimane l’unico esempio di lungimiranza innovatrice, che non ha permesso la dissipazione di un patrimonio umano legato alla sua storia. Ma il salto concreto di questa scelta si poté compiere perché si riconobbe una componente essenziale nella genesi e nella vita del lavoro: la fiducia nel lavoratore. Una fiducia scevra di sentimentalismo, semmai fondata su valori etici. Questo è stato istinto? O piuttosto non si è trattato di riconoscere quella componente silenziosa e così umana che sfugge sempre e comunque da ogni considerazione e necessità delle leggi economiche? Il merito di quella scelta abita negli spazi lasciati dalle lacune e dalla superficialità delle leggi di mercato, che hanno spesso considerato la forza lavoro come un complemento, incapaci a riconoscere la dialettica degli opposti. Oggigiorno assistiamo al perpetuarsi di questo continuo gioco, nel quale i più hanno il sentore dell’artificiosità di scelte che si ammantano di pura razionalità, non del tutto sorde a quei fattori umanistici che non trovano spazio. E prova ne è che l’istinto non vuole scomparire in questo processo, perché ogni qualvolta si esamina un candidato lo si vuole conoscere, lo si vuole guardare in faccia, lo si vuole associare alle sue risposte ai test. Questo perenne gioco si specchia magistralmente in quel palcoscenico della vita che Pirandello ci ha consegnato. Così la debolezza dell’impianto selettivo riflette la conflittualità morale e spirituale delle scelte umane. Il mondo del lavoro per sua centralità e necessità rimane una ribalta nodale per l’esistenza umana, e ne esprime la condizione. Quando si apre il sipario il proprio essere dà un nome ai propri bisogni, perché così crede di farsi conoscere, ma viene ricoperto da una forma che non gli appartiene, per ritrovarsi vestito ma anche investito da una realtà oggettuale che non si lascia prendere. Il gioco perverso è condotto senza fine, la forma del proprio essere non viene riconosciuta, quella offerta la si accetta, ma senza farla propria. Così la sacralità su cui si fonda il processo non possiede alcuna realtà oggettiva da poter essere condivisa tra le parti: il lavoratore rimane stordito e rinuncia a capire, il potere finge di aver trovato un altro figlio. [english] Selecting personnel is one of the most contradictory moments in a work setting, as far as subject-objects are concerned, i.e., the work and the worker. The selection of human resources might in itself be something we take for granted, something we all accept, consider as established, in theoretical and technical terms. But should we look further, beyond these institutionalised conceptions, we will detect other factors, of a completely different nature than those which orthodoxy provides us. Why is it that a long education, school, university, even prestigious postgraduate Masters degrees, etc, is felt not to be enough? Why should we subject a person who has been through the educational system, who has gained valid experience, to the test of selection? Could it be simply that those with power over the market have little faith in the abilities which every worker promises? The human relations enacted in this field thus include aspects which are only apparently

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OCCHIO AL BERSAGLIO Watch out for the target encoded, or shared by those on both sides. In human terms, what happens during the selection of a person who aspires to a position (in that he feels he is suitable for the job) acts as a paradigm of that eternal game which goes backwards and forwards between instinct and rationality. Based upon the scientific nature of the tests which are supposed to ascertain, let’s say, the most ‘appropriate’ qualities, one person tends to be recruited rather than another. But this doesn’t seem to be enough. Why is an interview necessary? Why the 'one-to-one'? What is it we need to look further into? Apparently, we are looking for a confirmation of the result of tests undergone, but this time based on criteria which are entirely personal, one’s own experience or indeed, one’s own preferences or expectations. These are all variables which stand outside any reasonable measure of judgement, because they are founded on subjective references. This procedure, which is institutionally rooted, but also anchored in the minds of managers, shows signs of structural and organic weakness. The results of aptitude tests should stand on their own, regardless of an inane interview – usually hurried, dismissive – full of uncontrollable variables coming from both sides. Those who have analysed the problem speak of how easy it is for the ‘bosses’ to project– phantasmally - judgements and values on to the candidate – or even worse construct them - basing themselves upon their own experience. Theirs, no-one else’s! And most interviews are carried out not by psychologists but by directors and bosses who have had a certain types of experience only, which cannot encompass everything. Yet this is ordinary administration. The subjectivity of the people involved remains suspended in those few moments, bouncing it seems, between the cold lucidity of rational – and for this reason unchallengeable – responses and the melodramatic claim “you will see who I am, you will recognise me for who I am” after only a few personal questions. These are difficult moments to forget, also for those who get through the test and get the job. We have said that this aspect of the world of work is paradigmatic of the eternal conflict between instinct and reason, sentiment and scientific awareness. But perhaps there is more to it. There is an intrinsic limit to every practice whose mission is to establish certainty. This limit is given by human nature, the same which presents itself as an unexpected guest but with the power to inhibit great intelligence and unexploded potentialities when these are assailed by contrary events, the lack of love, material difficulties. But these truths are not and will never be contemplated in any selection procedure. Many of us ask ourselves if a person with a low profile in the factor analysis of tests (what a nice word!) but with children to maintain, might, when faced with the challenge, seem more motivated, scrupulous and conscientious than he actually is. These two components are among the categories ‘foreseen’, those which are often sought in candidates. Perhaps because it is felt that certain requisites cannot be set aside. At this point, I feel obliged to quote the words of an economist, Luigi Zingales (dal SOLE 24 ORE, sunday supplement, 13th December. ’09 ). He writes thus: “In the next twenty

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–Selezioni innaturali/Unnatural Selections years, progress in genetics and science in general will make it increasingly easier to test people to single out their genetic characteristics. The opportunities offered by these tests are fantastic. Knowing our aptitudes we will be able to change lifestyle so as to minimize the risk of becoming ill, single out the professions in which we have the best chance of success, and choose the medicines which are most appropriate for our genetic characteristics (…)”. Paradoxical, this hypothesis, but should it actually happen, it probably won’t surprise us much. Because it seems to sprout from buds which today’s culture has been keen to nourish; people’s subjectivity has to be put to the test. How? Aptitude tests, of course, carried out in a context in which the subject knows that a mistake would be fatal and that at stake there are projects for the future and material concerns. Is there an alternative? Well the following case might be enlightening. It was the 1960s. Adriano Olivetti. Carrying out a grand reconversion from mechanical processes to meet the needs of electronic innovation. This happened half a century ago and has remained the only example of innovative far-sightedness which did not lead to the dissipation of a heritage which was part of its history. But the ‘leap’ this choice implied could be achieved only because an essential component was taken into consideration in the genesis and the life of the work: faith in the worker. A faith free of sentimentalism, founded if anything on ethical values. Was this instinct? Or was it about recognising the value of that silent component, which is so human and which evades – always and inevitably - the considerations and needs of economic laws? The merit of that choice dwells in the spaces left by the inadequacies and superficiality of the laws of the market which often consider the workforce as a complement, incapable of recognising the dialectics of opposites. Nowadays we are aware of the perpetuation of this continuous game in which most people sense the artificiality of choices which hide behind pure rationality, and are not entirely deaf to those humanistic factors which are not given a space. Proof of this is that instinct does not wish to relinquish its place in the process, because every time a candidate is examined we want to know him, see him on a one-to-one basis, associate him with his answers in the test. This perennial game is mirrored masterfully in that theatre of life that Pirandello left us. Thus the weakness of the selective set-up reflects the moral and spiritual perplexity inherent in human choices. The world of work, because of its centrality and necessity, remains crucial for human existence and expresses its condition. When the curtain is raised, one’s own self gives a name to its own needs, because in this way it thinks it can get itself recognised, but it is taken over by a form which does not belong to it and finds itself dressed in, but also assailed by, a reality of objects which does not wish to be grasped. This perverse game goes on and on, the form of one’s own self is not recognised, that which is offered is accepted but never belongs. Thus the sacredness on which the process is based does not possess any objective reality to be shared by both sides. The worker remains dazed and gives up trying to understand; power pretends it has another offspring.

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Interni della rivista Sfera, Editrice Sigma-Tau (1988 - 1995). Interiors of review Sfera, Editrice Sigma-Tau (1988 - 1995).

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–Case History

Archivio di sapere Knowledge archive Accolgo con piacere l’invito a presentare il caso della rivista Sfera, un’avventura culturale nata proprio con l’ambizione di voler conciliare, per citare il tema cui è dedicato questa uscita monografica di NB, istinto e strategia. L’intuizione è stata quella di rinnovare i modi e le forme della divulgazione scientifica chiamando in causa anche gli esempi più alti del pensiero umanistico (dalle arti visive alla poesia, dalla fotografia alla riflessione filosofica); il disegno strategico è stato quello di rivolgersi alla curiosità dei lettori italiani, rendendo partecipe dei progressi della ricerca il pubblico allargato dei non addetti ai lavori senza rinunciare alla complessità dei contenuti. Un capitolo fondamentale della storia culturale di Sigma-Tau che testimonia quanto le ragioni d’impresa possono tradursi in autentica promozione della conoscenza. Un’occasione utile e preziosa per fare il punto su un’esperienza davvero speciale, una storia cominciata nel 1988 e terminata dopo quarantatré numeri - ancor oggi - affatto arretrati. Sfera è stata una pubblicazione innovativa, che ha saputo rinnovare completamente il concetto di ‘testata di settore’, trasferendo su carta lo spirito che continua a contraddistinguere la condotta di Sigma-Tau: la certezza che senza il coraggio dell’innovazione non può esservi progresso. Credo che la responsabilità sociale dell’industria farmaceutica debba tradursi anche nella lungimiranza di una politica di promozione effettiva delle conoscenze e nel sostegno concreto alla diffusione del sapere presso tutta la società civile. Abbandonando la presunzione di fornire risposte paternalistiche escludendo i diretti interessati in ragione di un linguaggio specialistico e di una visione oligarchica del sapere. Ed è naturale che una simile iniziativa editoriale porti la firma di un’azienda italiana che, nei suoi oltre cinquant’anni di storia, ha sempre coltivato un capillare rapporto con le diverse componenti della società (istituzioni, mondo accademico, opinione pubblica). Nella consapevolezza che la capacità di sviluppo risiede proprio nella promozione del tessuto sociale circostante e che, dunque, l’impresa è chiamata a fornire il suo costante contributo per poter essere protagonista di un comune processo di crescita. Perché contribuire veramente a migliorare la qualità della vita delle persone non significa soltanto offrire nuove possibilità di cura, nuovi presidi terapeutici. È necessario pensare all’uomo nella sua complessità. Rivista tra le più visionarie che il dialogo tra arte e scienza abbia mai prodotto, Sfera è stato il risultato della perfetta alchimia tra il design editoriale di Pier Giorgio Maoloni, grande esponente della grafica italiana del Novecento, e Giulio Macchi, pioniere indiscusso della divulgazione scientifica. Attraverso l’interazione di parole e immagini si indicava la strada della contaminazione tra competenze diverse come quella più feconda di originali prospettive, capace di interrogare il passato per meglio capire il presente e guidarci, infine, a pensare il futuro. Fu un successo immediato, subito coronato da due importanti riconoscimenti internazionali come il Premio Galileo nel 1989 e il Prix Camera ricevuto a Parigi nel 1991. Medicina e poesia, genetica e pittura, sperimentazione e avanguardia sono alcune delle pagine di uno stesso grande racconto intorno all’uomo e al suo universo. Un patrimonio di idee senza tempo. Per continuare a leggere il futuro della scienza, attraverso uno sguardo interdisciplinare. Per ribadire l’urgenza di dover continuare a sostenere forme di sapere che sappiano allargare i propri orizzonti anche in un mondo che, purtroppo, appare sempre più refrattario allo scambio culturale e alla globalità dell’esistenza.

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Silvia Cavazza

[english] I’m glad to accept this invitation to present the Sfera magazine story, a cultural adventure which began with this intent, to bring together - to quote the theme of this monographic issue of NB - instinct and strategy. The intuition at work was that of a renewal of scientific popularization, how it should be carried out and it was to involve the most important names in humanistic thought (from visual arts to poetry, photography, philosophical reflection). The idea was to appeal to the curiosity of Italian readers, allowing a larger public of non-experts to participate in the initiative without compromising the complexity of the contents. A fundamental chapter in the cultural history of Sigma-Tau which testifies to how business logic can be transformed into a realistic promotion of knowledge. A valuable contribution to the analysis in depth of a truly special experience, a story which began in 1988 and finished after forty three issues, Sfera was an innovative publication which offered a complete renewal of the concept of ‘sectorial magazine’ transfering on to paper the spirit which continues to mark Sigma-Tau’s commitment, i.e., the certainty that without the courage to innovate there can be no progress. I think that the social responsibility of the pharmaceutical industry has to translate also into the long-sightedness of an effective promotion of knowledge and in real support for a diffusion of knowledge over the whole of civil society. Resisting the presumption of supplying paternalistic responses and thus excluding those who are directly involved by means of specialistic language and an oligarchic vision of knowledge. And it is quite natural for such an editorial initiative to represent an Italian firm which, in its 50 years of history has always tried to forge close links with a variety of different social components (institutions, the academic world, public opinion). In the awareness that the ability to bring about development resides in just that promotion of the surrounding social tissue which therefore the firm is called upon to offer, a constant contribution if it wishes to remain active in a common process of growth. Contributing seriously to an improvement in the quality of a person’s life does not only mean offering new treatments, new therapeutic protection. We need to take into consideration man as a whole. One of the most visionary of magazines which the dialogue between art and science has ever produced, Sfera was the result of a perfect alchemy between the editorial design of Pier Giorgio Maoloni, distinguished figure in 20th century Italian graphics and Giulio Macchi, undisputed pioneer in scientific popularization. It was the interaction between words and images which pointed towards contamination, the path between different skills like the more fertile one of original perspectives, capable of interrogating the past to get a better understanding of the present and leading us into the future. It was an immediate success and received two important international prizes , the Premio Galileo in 1989 and the Prix Camera in Paris in 1991. Medicine and poetry, genetics and painting, experimentation and avant-garde are just some of the pages of the same great story concerning man and his universe, a patrimony of ideas outside time. To continue to read the future of science with an interdisciplinary approach. To reassert the urgency to be applied in sustaining forms of knowledge which widen its own horizons also in a world which, unfortunately, appears increasingly insensitive to cultural exchange and the globality of existence.

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La finestra Bow window

Kodak, Color processing, 1950.

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–Cromoterapie/Chromotherapies

Nell’intensità In intensity “Il colore è il luogo dove si incontrano il nostro cervello e l’universo”. Paul Klee, ricordando le parole di Cézanne, mette in luce in modo conciso ed efficace la complessa natura del colore e così anche la difficoltà di darne una reale ed univoca definizione. Proprio del mondo sensibile delle cose e del processo istintuale e cognitivo insieme, fatto biologico e culturale, il colore diventa oggetto di strategie laddove si tenta di comprenderlo, di sistematizzarlo, di produrlo e soprattutto di progettarlo. Secondo Pompas e Luzzato il colore è simbolo comunicativo secondo tre livelli: naturale, o non volontario, espressivo e artificiale. Il primo è attribuito all’uomo che, attraverso l’uso dei colori della natura sul proprio corpo, per gli oggetti, gli abiti e gli ambienti con cui si circonda, sopperisce alla mancanza della facoltà di produrre colore in relazione alle situazioni, così come avviene nel regno vegetale e animale¹. A questo livello, poi, il colore diventa un simbolo espressivo o intenzionale. Il secondo livello vede l’instaurarsi di rapporti di causa-effetto tra sensazioni cromatiche e comportamento, come è alla base del fenomeno della percezione visiva, gli stimoli cromatici e luminosi entrano in rapporto con il sistema nervoso. L’individuo esprime comunemente le proprie preferenze cromatiche ricorrendo all’uso di certe tinte piuttosto che altre in quanto il rapporto tra colore e contesto psicologico, pur riferendosi anche all’espressione individuale, è sempre determinato dall’elaborazione compiuta dalla psiche in rapporto alla memoria e all’esperienza, legandosi così alla realtà storica, ideologica e culturale che stanno all’origine². Infine il terzo livello corrisponde all’uso codificato e storicizzato del colore nelle relazioni sociali. Con ciò si intende il colore nell’architettura religiosa, nell’abbigliamento codificato delle cerimonie, delle divise civili, militari e religiose, nella simbologia rituale, nella segnaletica, nella pubblicità, nella colorazione artificiale dei prodotti alimentari, nel rivestimento cromatico dell’oggetto industriale che attraverso di esso aggiunge un valore estetico al valore reale della merce³. La grammatica del colore4 risulta importante soprattutto nel momento in cui si parla di colore come componente progettuale. Rispetto al valore della ‘forma’ eletta e colta del disegno o dei suoni linguistici distintivi degli esseri umani, il colore è stato considerato a lungo un segno proprio della natura inferiore inorganica, una caratteristica visiva, discriminante e immediata, di pietre e materiali inerti (Charles Blanc, 1980-1923)5, ma nella sua apparente istantaneità e immediatezza la percezione di un fatto coloristico è un atto estremamente complesso, che non dà una prima immagine, ma un’esperienza in sé stessa valida 6. Il colore è una qualità propria della forma delle cose e proprio per questo occorre che il progetto si avvalga di una visione più possibile unitaria del dato cromatico. Le conoscenze fisiche non sono però sufficienti per scegliere e accostare i colori perché il processo progettuale deve considerare tutti i valori a cui le esperienze dello spazio cromatico sono legate. Partire dal dato percettivo e dal contesto semantico è una scelta coerente per un progetto che considera le caratteristiche dell’essere umano e mira alla qualità ambientale del sistema uomo-spazio di vita7. Quando pensiamo alla città contemporanea, viene da chiedersi se esistano ancora le città e cosa ad oggi le fa sembrare un oggetto materiale confuso piuttosto che un organismo vitale8. Per poter affrontare un discorso sull’identità della città, occorre quindi interrogarsi sul che cosa sia. L’uomo può comprendere ciò che lo circonda attraverso le numerose esperienze sensoriali nei confronti di questi elementi; tra le funzioni sensoriali la più importante riguarda la vista e le sensazioni che relazionano la persona alla natura e alla società derivano per la maggior parte dal processo visivo, in cui gli occhi permettono di acquisire consapevolezza attraverso la cattura del più impercettibile cambiamento, tra migliaia di oggetti diversi da cui non può essere scisso il fenomeno del colore. Da queste considerazioni nasce spontanea la domanda: è possibile usare il colore per definire l’identità di una città? Guardando specialmente agli aspetti percettivi,

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Valentina Vezzani e Xia Liu

quindi al colore come simbolo e segno nel processo comunicativo, individuandone un potenziale per l’unico ruolo nella sfida contro l’omogeneità della città moderna, come può essere usato e progettato per definire l’identità di una città persa in diversi gradi di inconsapevolezza causati dall’istinto dei singoli? Per molte società e città storiche, come il caso di Venezia, il colore è una diretta espressione della cultura locale e del luogo stesso. “Venezia è forse la città più città che esiste: voglio dire il luogo più ‘costruito’ dall’uomo... E la forma di questa città, tutta costruita dall’uomo a cominciare dallo stesso terreno su cui si imposta, ‘fiorisce tra l’acqua e l’aria’, si innesta sulla linea inafferrabile, quasi indistinguibile, dove l’aria e l’acqua si toccano. Venezia nasce in una brughiera che intorno ha l’acqua d’un azzurro-verdastro fioco, e su cui incombe un cielo immenso, d’un celeste quasi sempre pallido. Il gusto che si formò nei veneziani da quando iniziarono ad abitare la laguna è radicalmente coloristico... Il gusto nativo dei Venetici fu dunque fin da principio ovviamente per il colore: colore vivo, scorrevole, aperto all’esperienza, al tempo: tempo della natura e tempo dell’uomo... Qui, in questo isole, essi trovarono una natura priva di plasticità - non monti o colline o masse d’alberi - ma solo acqua ed aria: elementi puri, immateriali, di colore”9. Anche la storica città di Jaipur, in India, si distingue per la sua spettacolarità e vivacità culturale: ha infatti ottenuto il titolo di ‘Pink City’, la città rosa, e grazie ai suoi particolari materiali, ai suoi colori vivaci e all’unicità della sua tradizione culturale affascina da sempre i suoi ammiratori e visitatori. Col passare del tempo Jaipur conserva in sé le originali storie e teorie della città; il rosa non è solo un colore poiché rappresenta il simbolo della città. In risposta agli impattanti processi di globalizzazione e di urbanizzazione, poi, i nuovi edifici nella e intorno alla città vecchia hanno mantenuto il colore originale con lo scopo di portare avanti l’eredità della ‘Pink City’; questo accade soprattutto perché gli abitanti stessi sono orgogliosi e hanno un forte senso di appartenenza alla loro cultura e storia. Si può dire così che le persone, le regioni e i paesi sono identificati dalle cromie della loro architettura che ha un inconfondibile peso culturale e, occasionalmente, un così forte simbolismo che certi colori sono associati ad un luogo o ad una città come riflesso di un sentimento locale e di una memoria cromatica10. L’oggetto materiale confuso, la città contemporanea, è sempre più di difficile comprensione. Soprattutto per il vasto processo di immigrazione e per la rapida globalizzazione dei mercati la città contemporanea ha subìto forti cambiamenti in termini di aspetto e configurazione ed è diventata multiculturale. Attraverso questi processi il colore diventa un tema ancora più complesso; se si pensa poi che in relazione al contesto urbano esso non è determinato né da regole prefissate, né da una particolare preferenza collettiva, risulta chiara la perdita di un’identità cromatica chiara e visibile come era per le città del passato. Ecco che progettare il colore per definire l’identità di una città consiste nello studio dell’armonia tra gli elementi visivi urbani, le persone e il colore stesso, perché il fascino dei cromatismi visualizzati nella città si realizza nella strutturazione generale di queste relazioni. La complessità della città si esprime anche attraverso l’ambiente visivo urbano; l’immagine della città è riflessa dalla visione umana attraverso la percezione del contesto urbano fisico: il contesto urbano fisico è l’oggetto percepito, mentre l’essere umano è il soggetto della percezione. Il soggetto della percezione e l’ambiente fisico urbano interagiscono tra loro, e ciò costituisce l’ambiente visivo della città11. Perché questa complessità visiva non influisca negativamente sull’aspetto della città, quindi sull’interazione delle persone con essa, occorre raggiungere un’armonia. Questa, a livello percettivo, dipende dalla coordinazione ad ampia scala di tutte le variabili che intercorrono all’immagine visiva della città stessa (figura 1). In particolare, l’armonia cromatica viene raggiunta quando, a livello di scale spaziali, vi è equilibrio tra gli aspetti legati alla tradizione e alla modernità, tra quelli propri del paesaggio naturale e quelli del paesaggio artificiale, tra quelli delle aree industriali e

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figura1

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NELL’INTENSITà IN INTENSITY delle aree residenziali, senza tralasciare poi i colori e le finiture della grande varietà di arredi e architetture urbane. Non bisogna dimenticare che il colore si manifesta nella città anche attraverso gli eventi e gli stili di vita dei suoi abitanti. La complessità della città infine si manifesta attraverso il processo di comunicazione tra gli elementi visivi, le persone e il colore. Infatti la comunicazione tra il colore urbano, insieme degli elementi visivi percepiti, e gli individui si sviluppa su più livelli che tengono in considerazione le molteplici nature e funzioni del colore stesso. Se da un lato gli aspetti fisici e fisiologici del colore rimangono indifferenziati nel processo percettivo, dall’altro variano gli aspetti psicologico, semiologico, sociale, antropologico, ecc., che sono manifestati differentemente dalle preferenze cromatiche di popoli di diversa provenienza e nazionalità. Nella città contemporanea, insieme sistemico di fattori, funzioni e relazioni, gli elementi che influiscono sugli aspetti cromatici della città sono numerosi ed articolati. Il colore, per contribuire alla definizione dell’identità urbana, deve essere compreso, studiato e progettato considerando le risorse naturali, il contesto geografico e climatico, la storia, la religione e le tradizioni culturali, il senso di appartenenza e le preferenze cromatiche degli abitanti, i materiali e le tecniche locali, ecc. Le risorse naturali Le tipiche città dell’area mediterranea, grazie alle ricche risorse di pietre e terre locali, si differenziano per costruzioni urbane prevalentemente sui toni del bianco propri degli intonaci e dei marmi, dei rossi del cotto, dei marroni dei tufi e delle argille, riportando solo in alcuni casi i gialli, i rossi e i blu nel caso di porzioni ed elementi decorativi (figura 2-3). Al contrario, nelle remote città cinesi, data la rarità di pietre e terre, le case, i templi e altri edifici venivano realizzati sfruttando l’abbondante legname locale: le piccole città fatte di legno naturale esprimono tutt’oggi una speciale sensazione visiva data dalla fusione di un tono leggermente caldo con l’ambiente circostante, caratterizzato da corsi d’acqua, dalla vegetazione e da un velo di nebbia (figura 4). La condizione geografica e climatica Gli esseri umani, che sono nati e si sono evoluti in un mondo pieno di colori adattandosi al contesto ambientale e climatico, hanno sviluppato uno speciale criterio di selezione e di armonia del colore. Nel caso delle zone con clima temperato caldo, le città vedono un diffuso utilizzo del bianco e di colori freschi e calmi che esprimono un senso generale di comfort e di quiete (figura 5); nel caso invece di regioni fredde, in cui il lungo periodo invernale produce un’immagine del contesto naturale monòtono, si preferiscono toni caldi, come nel caso di Reykjavik, in Islanda, città ricca di colori vivi sui toni del giallo, del rosso e del verde, che contribuiscono al bilanciamento delle condizioni psicologiche degli abitanti. Nelle città della Cina meridionale i muri delle case sono bianchi e i tetti di un calmo grigio; la loro interazione con il limpido fiume contribuisce a dare una refrigerante sensazione visiva. Il colore degli edifici, insieme a quello del cielo e della vegetazione formano uno speciale tono cromatico della città, tanto da poter parlare di ‘città inchiostro’ (figura 6). La storia La città costruita nel corso di diversi anni riflette gli status economici e la cultura di ciascuna epoca; nel susseguirsi di diverse estetiche e stili il colore della città ha subito numerosi cambiamenti. Per questo motivo è possibile studiare il colore e la sua configurazione nel contesto urbano per comprendere la storia di una città. Nel caso di Pechino, città con oltre ottocento anni di storia che mostra tutt’oggi il suo passato dinastico di tipo feudale, è possibile comprendere la struttura sociale attraverso l’uso distinto dei trattamenti cromatici di forte contrasto quali lo schema colore del Palazzo Reale della ‘Città Proibita’ e delle residenze tradizionali. Qui l’applicazione del colore sulle facciate non corrisponde solo alla funzione protettiva per la struttura lignea, ma anche ad una funzione di sistema di codificazione indicante lo status del palazzo. Nel contrasto armonioso tra rosso e giallo, l’edificio emette ancora uno splendido luccichio (figura 7). Al contrario, il tradizionale grigio delle abitazioni della Hu Tong12 descrive il passato, quasi i fatti accaduti in ogni angolo della città (figura 8) e in questo caso la tinta dà significato anche al luogo, contribuendo così alla definizione di un’identità locale. La cultura e la religione Diversi contesti geografici generano diverse culture e costumi; così anche le preferenze e le sensibilità cromatiche si differenziano da una cultura all’altra. È il caso, ad esempio, del ‘rosso cinese’ che, forte di un’antica storia derivante dall’adorazione del fuoco e dal suo ampio uso nel corso delle diverse dinastie, ancora oggi è molto sentito dal popolo cinese. Da privilegio reale e aristocratico a colore d’uso popolare, è diventato un’importante tinta per la cultura del paese tanto da essere ‘il’ colore di numerose usanze ed feste nazionali.

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–Cromoterapie/Chromotherapies In riferimento, invece, alla filosofia asiatica che guarda alla teoria dei ‘cinquecolori’13, il colore è il mezzo e il simbolo di classificazione sociale, oltre ad essere un simbolo di buon auspicio. L’architettura del Tibet esprime il legame tra il colore e il mondo religioso; questo forte legame influisce poi sulla cultura locale e sull’immagine della città stessa. Data l’influenza della religione, il popolo tibetano ha una speciale predisposizione per il bianco, il rosso e il nero. Ad ogni colore corrisponde un dio, rispettivamente il dio del cielo, il dio della terra e dei fantasmi. Fino ad oggi, questo paradiso nel mondo conserva ancora i costumi tradizionali per dipingere le case ad ogni ‘Festa di Primavera’(che annuncia l’inizio di un nuovo anno secondo la tradizione tibetana) con il bianco sulle pareti, il nero sulle cornici delle finestre e bandiere colorate per esprimere i buoni propositi per il nuovo anno14 (figura 9-10). Colori, materiali e tecniche locali Il Messico vede l’interessante ed importante attività di ricerca dell’architetto Luis Barragan nei confronti di un linguaggio progettuale moderno basato sull’esplorazione della tradizione e delle locali tecniche di colorazione delle superfici. É stato il primo architetto ad usare materiali pittorici antichi per nuovi interventi urbani grazie al fortunato ritrovamento, su mercati locali, di alcuni speciali pigmenti realizzati con particolari pollini e polveri di guscio di lumaca, facilmente realizzabili ed applicabili data la loro durabilità. La configurazione Le città che presentano la stessa palette cromatica possono essere percepite visivamente in modi completamente diversi se la configurazione e le caratteristiche dello spazio urbano sono diverse. Infatti le città storiche, come organismi vitali, mostrano un’articolazione armoniosa degli edifici, delle strade, dei margini d’acqua e della vegetazione, dando così un senso di continuità e di misura per l’uomo che invece le città moderne, in quanto macchine artificiali, hanno perso. La funzione e la scala La scala della città riflette le funzioni urbane a livello distrettuale. In generale la piccola città ha meno abitanti, dispone di servizi base e di pochi mezzi di trasporto; nelle strette o piccole strade l’esperienza del paesaggio urbano è lenta, la distanza è corta per questo è semplice cogliere il panorama complessivo della città. Le grandi città invece, dispongono di un numero superiore di abitanti e di una complessità di funzioni maggiore, oltre che ad un aumento del traffico e delle distanze. L’aspetto generale della città diventa così meno comprensibile per l’osservatore che cerca di conoscerlo attraverso i suoi segni, nodi e punti di riferimento. Allo stesso tempo le città ancora più estese sono il risultato di un moderno processo di civilizzazione industriale in cui si fanno sempre più evidenti ed acuti i conflitti tra modernità e tradizione, tra internazionalità e conservazione di ciò che è locale. La complessità della città richiede, come per la materia colore, un approccio interdisciplinare sia sul piano della comprensione, che sul piano della progettazione e gestione; la complessità nasce e si sviluppa grazie alle azioni insieme istintive e strategiche di numerose persone che al suo interno vivono, si muovono, lavorano, scelgono e decidono per la loro vita e per quella degli altri. Proprio in riferimento a tali ultime considerazioni, la conoscenza della componente cromatica deve essere valutata come importante elemento di progetto architettonico – e non solo – e trattato al pari delle altre componenti di progetto contribuendo sostanzialmente ad inverare quel sistema di segni per mezzo dei quali si attua una comunicazione: una comunicazione visiva e tattile, ambientale e materiale, che è trasmissione di significati15. [english] “Colour is the place where our brain and the universe meet”. Paul Klee, recalling the words of Cézanne, states clearly the complex nature of colour and also the difficulty of giving it a real, univocal definition. In just that sensitive world of things and both the instinctive and cognitive process, a biological and cultural fact, colour becomes the object of strategies when we attempt to understand it, systematize, produce and above all project it. According to Pompas and Luzzato colour is a communicative symbol on three levels: natural or non-voluntary, expressive and artificial. The first is attributed to man who, through the use of the colours of nature on his own body, objects, clothes and his environment, compensates for the lack of the ability to produce colours in response to situations, as in the vegetal and animal world. At this level colour becomes a symbol, expressive or intentional1. The second level sees the establishment of cause-effect connections between chromatic sensations and behaviour in the same way that at the basis of the phenomenon of visual perception, chromatic and luminous stimuli come into contact with the nervous system. The individual usually expresses his own chromatic preferences by appealing to the use of certain colours rather than others in that the relation between colour and psychological context, though concerning also individual expression, is still determined by the elaboration carried out by the psyche in relation to memory and experience, thus

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La finestra Bow window

figura 2. Bari, San Nicola (Photo Liu Xia).

figura 3. Verona (Photo Liu Xia).

figura 4. Cina, Fenghuang (Photo Liu Xia).

figura 5. Grecia, Santorini (Photo Liu Xia).

figura 6. Cina, Zhou zhuang (Photo An Peng).

figura 7. Pechino, CittĂ Proibita (Photo Moontan).

figura 8. Hu Tong (Photo Qi ShiWen)

figura 9. Tibet, Budala (Photo Chunfen).

figura 10. Tibet, Dreprung Monastery (Photo Chun Feng).

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NELL’INTENSITà IN INTENSITY linking up with the historical, ideological and cultural reality of the origins2. Finally, the third level corresponds to the codified and historicized use of colour in social relations. By this we mean the colour of religious architecture, in the codified clothing of ceremonies, civil, military or religious uniforms, ritual symbology, sign systems, advertising, artificial colouring in food products, chromatic surface covering of the industrial object with colour increasing the aesthetic value and adding to the real value of the goods3. The grammar of colour4 is important above all when we begin to speak of colour as component in a project. With respect to the value of ‘form’ elected by and captured in the design or the distinctive linguistic sounds of human beings, colour has long been considered a sign itself of inferior inorganic nature, a visual, discriminating and immediate characteristic of stones and inert materials (Charles Blanc, 1980-1923)5 but in its apparent instantaneousness and immediacy the perception of a colour effect fact is an extremely complex act which does not provide an initial image, but an experience valid in itself valid6 .Colour is a quality pertinent to the form of things and precisely for this reason it is necessary for the project to avail itself of the most unitary vision of the chromatic data. However, physical knowledge is not enough if we wish to choose and bring together the colours because the planning process has to consider all the values the chromatic space is linked to. Starting with the perceptive data and the semantic context is a coherent choice for a project which considers the characteristics of the human being and aims at the environmental quality of the man-space system of life7 . When we consider the contemporary city we are inclined to ask ourselves if cities still exist and what today makes them seem a confused material object rather than a vital organism8. To attempt a discussion about the identity of the city we need thus to ask ourselves what it is. Man can understand what surrounds him through the many sensorial experiences with respect to these elements. Of the sensorial functions, the most important concerns sight and the sensations which relate the person to nature and society derive mostly from the visual process in which our eyes allow us to acquire awareness through capture of the most imperceptible change, out of thousands of different objects from which the phenomenon of colour cannot be split. These considerations produce a spontaneous question – Can we use colour to define the identity of a city? Looking especially at perceptive aspects, thus at colour as symbol and sign of the communicative process, singling out a potential for the only role in the challenge against homogeneity of the modern city, how can it be used and projected to define the identity of a city lost in different degrees of unawareness caused by the instinct of single individuals? For many societies and historical cities, like Venice, colour is a direct expression of local culture and the place itself. “Venice is perhaps the city-like city that exists, I mean the place most ‘constructed’ by man …And the form of this city, all built by man, even the land itself on which it was imposed, ‘flourishes between the water and the air’, is grafted on to the unseizable line , almost impossible to distinguish, where air and water touch. Venice was born in a moor surrounded by water of a dull blue-greenish colour and over which an immense sky hovers, of an almost always pale blue. The native taste of the Venetians was thus, right from the start, obviously a taste for colour: live colour, flowing, open to experience, time, the time of nature and that of man…Here in these islands, they found a nature devoid of plasticity, no mountains or hills or trees, just water and air, pure elements, immaterial, of colour” 9. The historical city of Jaipur in India too, stands out because of its spectacular nature and cultural liveliness. It has actually gained the name ‘Pink City’and thanks to its particular materials, its lively colours and the uniqueness of its cultural tradition it has always fascinated its admirers and visitors. With the passing of time, Jaipur has preserved in itself the original stories and theories of the city: pink is not only a colour, it is the symbol of the city. Then as a reaction to impaction processes of globalization and urbanization, the new buildings in and around the old cities have kept their original colour, carrying forward the inheritance of the ‘Pink City’. This happens, above all because the inhabitants themselves are proud and have a strong sense of belonging to their culture and history. One might thus say that people, regions and countries are identified by the colour shades of their architecture which has an unmistakeable cultural significance and, occasionally, such a strong symbolism that certain colours are associated with a place or a city as a reflection of a local sentiment and a chromatic memory10 . The confused material object, the contemporary city, is becoming more and more difficult to understand. Above all, because of large scale immigration and the rapid globalization of markets the contemporary city has undergone big changes in appearance and configuration, and it has become multicultural. By means of these processes, colour becomes even more complex as a theme. If one consi-

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–Cromoterapie/Chromotherapies ders that in relation to the urban context it is not determined either by pre-established rules or by a particular collective preference, what stands out is the loss of a chromatic identity, clear, visible, that of cities of the past. So, planning the colour to define the identity of a city consists in the study of the harmony between visual urban elements, people and colour itself, because the fascination of chromatisms visualised in the city is realised in the general structuring of these relations. The complexity of the city is expressed also through the visual urban environment. The image of the city is reflected by the human vision through the perception of the physical urban context, i.e., the physical urban context is the object perceived, while the human being is the subject of the perception. The subject of perception and the physical urban environment interact and this constitutes the visual environment of the city11 . For this visual complexity not to have a bad influence on the appearance of the city, and thus, the interaction of the people with the city, we need to achieve a harmony. This, on a perceptive level, depends on the coordination on a wide scale of all the variables which intervene in the visual image of the city itself (picture 1). In particular, chromatic harmony is achieved when, on a spatial scale level , there is equilibrium between the aspects linked to tradition and to modernity, between those of the natural landscape and those of the artificial landscape, those of industrial areas and those of residential areas. And we should not omit the colours and dressing in the great diversity of urban architecture and furniture. We should not forget that colour is displayed in the city also in the events and lifestyles of its inhabitants. Finally the complexity of the city is manifested through the process of communication between the visual elements, people and colour. Indeed, communication between urban colour, a set of the perceived visual elements and the individuals, is developed on different levels which take into account the many natures and functions of the colour itself. While, on the one hand, physical and physiological aspects of colour do not undergo differentiation in the perceptive process, on the other, there is a variance in the psychological, semiological, social, anthropological etc., aspects, which are manifested differently by the chromatic preferences of peoples of different origins and nationality. In the contemporary city, a systemic set of factors, functions and relations, there are many elements which influence the chromatic aspects of the city and they are complex. Colour, to contribute to the definition of urban identity, has to be understood, studied and planned, taking into account natural resources, the sense of belonging and the chromatic preferences of the inhabitants, local materials and techniques. Natural resources Typical cities in the Mediterranean area, thanks to the abundant resources of local stone and earth, are to be distinguished, on the whole, in terms of urban constructions, by the white tones of plaster and marble, the reds of terracotta, the browns of tufa and clay, and in only a few cases the yellows, reds and blues of decorative portions and elements (pictures 2-3). On the other hand, in remote Chinese cities, given the rarity of stones and earth, the construction of houses, temples and other buildings exploited the large supplies of local wood. The small cities made of natural wood express, still today, a special visual sensation, the result of the fusion of a slightly warm tone with the surrounding environment, characterised by water courses, vegetation and a veil of mist (picture 4). Geographic and climatic conditions Human beings, who are all born and have evolved in a world full of colours, adapting to the environmental and climatic context, have developed a special criteria of selection and harmony of colours. As for cities in tropical areas there is a widespread use of white and fresh, calm colours which express a general sense of comfort and peace (picture 5). However, as far as colder regions are concerned, where the long winter period produces a context of natural monotone, warmer tones are preferred, as in the case of Reykjavik, in Iceland, a city rich in lively colours, with yellow tones, reds and greens, which contribute to balancing the psychological conditions of the inhabitants. In the cities of southern China, the walls of the houses are white and the roofs are of a calm grey. Their interaction with the limpid river contributes to a cooling visual sense. The colour of the buildings, together with that of the sky and vegetation form a special chromatic tone for the city, so much so that we hear talk of ‘ink cities’(picture 6) History The city constructed over a number of years reflects the economic status and culture of each era. In the succession of different aesthetics and styles, the colour of the city has undergone many changes and for this reason we can study colour and its configuration in the urban context to understand the history of a city. In the case of Pekin, a city with more than eight hundred years of history and which still manifests today its dynastic, feudal past, it is possible to understand the social structure through the distinctive use of chromatic treatment with strong contrasts like the colour scheme of the Royal Palace in the ‘Forbidden City’and traditional residences. Here, the application of colour on to the façades does not correspond only to the protection of the wooden structure, but also to a codification system which indicates the status of the palace. In the harmonious

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La finestra Bow window

Johannes Itten, Die farbe - Kunstgewerbemuseum, Gewerbeschule der Stadt, Zurigo, 1944. (21 x 15 cm, designer: Max Bill)

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–Cromoterapie/Chromotherapies

NELL’INTENSITà IN INTENSITY contrast between red and yellow, the building still emits a marvellous sparkle (picture 7). On the other hand, the traditional grey of the dwellings of Hu Tong¹² describes the past, practically the events taking place in every corner of the city (picture 8) and in this case the colour gives meaning to the place too, thus contributing to the definition of a local identity. Culture and Religion Different geographical contexts generate different cultures and customs. Preferences too and chromatic sensitivities are differentiated according to culture. For example, ‘Chinese red’ full of ancient history, deriving from the adoration of fire and its wide use over different dynasties, is still today is very popular with the Chinese people. From a royal, aristocratic privilege, to a colour of popular use, it has become an important colour for the culture of the country, so much so that it has become ‘the’ colour of many national customs and festivals. However, as for the Asiatic philosophy which looks to the theory of the ‘five colours’13, colour is the means and the symbol of social classification, besides being a symbol of good luck. The architecture of Tibet expresses the bond between colour and the religious world and this close link then influences local culture and the image of the city itself. Given the influence of religion, Tibetans have a special predisposition for white, red and black. Every colour corresponds to a God, respectively the God of the sky, the God of the earth and ghosts. This paradise in the world still preserves the traditional customs to paint houses and every ‘spring festival’ (which announces the beginning of a new year according to Tibetan tradition) with white on the walls, black on the cornices of the windows and coloured flags to express New Year resolutions.14 (pictures 9-10 ) Colours, materials and local techniques In Mexico important research has been carried out by the architect Luis Barragan, about a modern planning language based on the exploration of tradition and local surface colouring techniques. He was the first architect to use ancient pictorial materials for new urban initiatives, thanks to the fortunate discovery in local markets of certain pigments made out of particular pollens and dust from snail shell, easily realisable and applicable given their durability. Configuration The cities which present the same chromatic palette can be perceived visually in completely different ways if the configuration and the characteristics of the urban space are different. In fact, historical cities, like vital organisms, boast a harmonious elaboration in the buildings, roads, water margins and vegetation, providing a sense of continuity and measure for man which modern cities - in that they are artificial machines - have lost. Function and scale The scale of the city concerns urban functions at a district level. In general, the small city has fewer inhabitants, it has basic facilities and limited public transport. In the narrow, small streets, the experience of the urban landscape is slow, distances are short, for this reason it is simple to grasp the overall panorama of the city. The big cities on the other hand, have more inhabitants and greater complexity of functions besides an increase in traffic and distances. The general appearance of the city thus becomes less comprehensible for the observer who wants to know the place, looking at its signs,

junctions and reference-points. At the same time, the even more extended cities are the result of a modern process of industrial civilisation in which more and more obvious and acute are the conflicts between modernity and tradition, between the international nature, and conservation, of the local. The complexity of the city, like material colour, requires an interdisciplinary approach to comprehension and to planning and management. The complexity begins with and develops thanks to the actions - both instinctive and strategic - of many people who live, move, work, choose and decide about their lives and that of others, but inside. With respect to just these last considerations, the knowledge of the chromatic component has to be considered an important factor in the architectural project – and not only – and treated on a par with the other components of the project contributing basically to make true that system of signs thanks to which communication is effected , a visual and tactile communication, environmental and material, which is a transmission of meanings15. (1, 2, 3) L. Luzzato e R.Pompas, Il linguaggio del colore, il Castello, Milano 1980. (4) “Per comunicare correttamente con il colore le singole unità cromatiche devono essere conosciute nell’ordine dato da un ‘sistema’ che segue regole precise, cioè possiede una grammatica. La grammatica è lo studio degli elementi costitutivi di una lingua, sia osservati nel loro significato di base, cioè isolatamente che in quel contesto, cioè in reciproco rapporto tra loro”. L. Luzzato e R.Pompas, Il linguaggio del colore, il Castello, Milano 1980. (5) D. Batchelor, Cromofobia. Storia della paura del colore, Mondadori Editore, Milano 2001. (6) R. Argan , “Il colore come rappresentazione dello spazio”, Colore, n. 7, 1961, pp. 5-8. (7) D. A. Calabi, “Colore, Texture e contributi di Basic design”, in V. Vezzani (a cura di), Lo scenario del colore, Aracne editrice, Roma 2009, p. 90. (8) Osservatorio Birdwatching, “Post-city age”, NB - Nuova Serie, n. 0, Anno I, 2009, p. 53. (9) Sergio Bettini, Venezia. Nascita di una città, Electa, Milano 1978. (10) H.T.C. Soares, “Porto: chromatic harmonies and cultural identity” in Atti del Convegno AIC – Association Internationale de la Couleur, Stoccolma 2008. (11) Tom Porter,Byron Mikellides, Color for architecture,Van Nostrand Reinhold, 1976. (12) Hu Tong è il nome delle antiche vie residenziali, ricche di memoria, di Pechino. (13) La teoria dei cinque colori deriva da un’ antica filosofia cinese che ha visto diverse evoluzioni di pensiero nel susseguirsi delle diverse dinastie; per ulteriori approfondimenti vedi W. Yu e W. Zhou, “Five-color Theory and the phenomenon of traditional Chinese colors”, Hundred Schools in Art, n.23, 2007. (14) Mu Ya Qujijiancai, “The external walls color and structure of Tibetan building” in Journal of Architecture, n. 11, 1987. (15) M. Bisson, “Il Progetto del colore”, C. Boeri e M. Bisson (a cura di), Variazioni sul colore, FrancoAngeli, Milano 2006, p.15.

(1, 2, 3) L. Luzzato e R.Pompas, Il linguaggio del colore, il Castello, Milan 1980. (4) “To communicate correctly and with color, the single chromatic units have to be known in the order given by a ‘system’ which respects precise rules , i.e., it possesses a grammar. Grammar is the study of the elements which constitute a language, those observed in their basic meaning , i.e., isolated, and in that context, i.e., mutually related”. L. Luzzato e R.Pompas, Il linguaggio del colore, il Castello, Milan 1980. (5) D. Batchelor, Cromofobia. Storia della paura del colore, Mondadori Editore, Milan 2001. (6) R. Argan , “Il colore come rappresentazione dello spazio”, Colore, n. 7, 1961, pp. 5-8. (7) D. A. Calabi, “Colore, Texture e contributi di Basic design”, in V. Vezzani (ed. by), Lo scenario del colore, Aracne editrice, Rome 2009, p. 90. (8) Osservatorio Birdwatching, “Post-city age”, NB - Nuova Serie, n. 0, Anno I, 2009, p. 53. (9) Sergio Bettini, Venezia. Nascita di una città, Electa, Milan 1978. (10) H.T.C. Soares, “Porto: chromatic harmonies and cultural identity” in Atti del Convegno AIC – Association Internationale de la Couleur, Stoccolma 2008. (11) Tom Porter,Byron Mikellides, Color for architecture,Van Nostrand Reinhold, 1976. (12) Hu Tong is the name of the old residential streets, full of memories, in Pekin. (13) The theory of the five colours derives from an ancient Chinese philosophy which saw different evolutions in thought in the succession of different dynasties; for further information see W. Yu e W. Zhou, “Five-color Theory and the phenomenon of traditional Chinese colors”, Hundred Schools in Art, n.23, 2007. (14) Mu Ya Qujijiancai, “The external walls color and structure of Tibetan building” in Journal of Architecture, n. 11, 1987. (15) M. Bisson, “Il Progetto del colore”, C. Boeri e M. Bisson (ed. by), Variazioni sul colore, FrancoAngeli, Milano 2006, p.15.

LABORATORIO COLORE

LABORATORIO COLORE

Il Laboratorio Colore nasce dalla volontà del Dipartimento IN.D.A.C.O. (di Industrial Design, delle Arti, della Comunicazione e della Moda) del Politecnico di Milano di creare una struttura in grado di supportare didattica e ricerca sul colore, fornendo al mondo produttivo risposte progettuali innovative. Una cultura del progetto cromatico che chiama in causa ambiti disciplinari diversi come psicologia, neurofisiolgia, antropologia e semiotica. Valentina Vezzani, svolge la propria attività di ricerca presso il Laboratorio proprio all’insegna dell’interdisciplinarietà del colore, formulando una lettura dello scenario contemporaneo attraverso il design, strumento privilegiato di gestione della complessità. Lo sguardo di Xia Liu si concentra invece sulla città, ponendo in relazione lo scenario urbano del suo paese di origine, la Cina, con quello europeo. In entrambi i casi, il colore continua ad essere espressione di memorie, tradizioni e identità.

The Laboratorio Colore is the result of a desire on the part of the Dipartimento IN.D.A.C.O. (Industrial Design, Arts, Communication and fashion) of the Politecnico di Milano, to create a structure to sustain teaching and research into colour, providing innovative planning initiatives. A chromatic project culture which appeals to different disciplinary fields like psychology, neurophysiology, anthropology and semiotics. Valentina Vezzani carries out her research work at the Laboratory in precisely this field, the interdisciplinarity of colour, formulating an interpretation of the contemporary scenario by means of design, an instrument favoured by complexity management. Xia Liu concentrates on the city, bringing together the urban scenario of her country of origin, China and that of Europe. In both cases, colour continues to be an expression of memories, traditions and identity.

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UTILITY

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–Orientamenti/Orientations

You are here Il conflitto tra istinto e strategia è inerente alla progettazione della segnaletica. C’è poi la questione dell’imprevedibilità pianificata, conosciuta anche come ‘avventura’ o, più modernamente, come ‘l’esperienza’: si viaggia con in mente una destinazione, naturalmente, il cosiddetto ‘viaggio da A a B’; a volte, tuttavia, è piacevole combinare la meta con un percorso eccitante che consenta di scoprire luoghi interessanti lungo la strada. Chissà quali piaceri inaspettati ci possono essere in un negozio… Il defunto ergonomo Harm Zwaga dell’Università di Utrecht citava tre modi in cui la segnaletica aiuta il viaggiatore: - raggiungere la propria destinazione - seguire un percorso specifico - esplorare l’ambiente circostante L’esperienza ha dimostrato che gran parte dei viaggiatori vuole raggiungere tutti e tre gli obiettivi contemporaneamente. Nella maggior parte dei casi, la linea che separa le esigenze istintuali del momento e un programma pianificato in anticipo semplicemente non esiste. E quando esiste, è al massimo un confine piuttosto indistinto. Chi viaggia in aereo vuole fondamentalmente raggiungere l’uscita d’imbarco (destinazione), ma non prima di aver fatto il check-in, acquistato un quotidiano, aver bevuto un caffè e utilizzato la toilette (percorso). Girovagare in negozi interessanti lungo la strada è un’opportunità in più (esplorare l’ambiente circostante). Nonostante il passeggero voglia il maggior tempo possibile per fare shopping, egli vuole anche trovare il chiosco dei giornali, prendere il caffè, individuare la toilette e seguire il percorso più breve e veloce per arrivare alla sua uscita, preferibilmente senza interruzioni costanti che possono fargli perdere il volo. In molti aeroporti una serie ininterrotta di annunci risuona dagli altoparlanti del sistema di amplificazione, per esortare i passeggeri in ritardo a presentarsi immediatamente alla loro uscita altrimenti il loro bagaglio sarà scaricato dall’aereo. In altre parole, chi viaggia in aereo si trova intrappolato tra il desiderio di seguire i propri istinti naturali di rilassatezza e il bisogno di mettere a punto una strategia efficiente. Facciamo un passo indietro nel tempo, in un’epoca in cui viaggiare era davvero un’avventura, un’epoca con poca segnaletica e nessun sistema GPS, quando il modo più veloce di spostarsi era a cavallo. (Sfortunatamente, i briganti che in quel periodo rendevano la vita pericolosa sono ritornati, a quanto pare, sotto forma di pirati che creano diversi problemi alle imbarcazioni che navigano a largo della costa della Somalia). I ‘segnali’ posizionati dentro e intorno alle città erano gli unici punti di orientamento per il viaggiatore. I primi erano rappresentati dai nomi delle strade che conducevano alle città, e questo risale al tempo dei Romani. Lungo la Via Appia e la Via Aurelia, per esempio, si iniziò a costruire secoli prima della nascita di Cristo. Le locande erette agli incroci e presso gli attraversamenti dei fiumi erano luoghi ideali per ottenere informazioni riguardo la strada. E il profilo della città all’orizzonte aiutava il viandante a identificare da lontano la propria destinazione, poiché la sagoma di ogni città era unica, grazie alle variazioni architettoniche di chiese, fortificazioni, castelli e degli altri grandi edifici. (Il riconoscimento del profilo delle città all’orizzonte rimane un metodo attendibile per i marinai, che si affidano anche ai segnali dei fari, ciascuno dei quali emette uno schema distintivo di segnali). Le strade terminavano alle porte della città, che spesso portavano i nomi della città da cui vi si arrivava – piuttosto utile, specialmente per coloro che viaggiavano nella direzione opposta. Le strade principali di una città iniziavano alle porte d’ingresso; esse erano spesso strade commerciali, che in molti casi prendevano il nome anche dalle città vicine (ad esempio ‘Corso Venezia’ a Verona, ‘Via Senese’ a Firenze, ‘Via Torino’ a Milano). Conosciute come ‘strade radiali’, si estendevano

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Paul Mijksenaar

come una ragnatela attraverso il centro della città, dove il campanile di una chiesa o la torre del municipio, ergendosi molto più in alto degli altri edifici, potevano essere visti da lontano. Anche punti di riferimento come fiumi, castelli, monasteri e chiese, questi ultimi costruiti spesso sulle cime delle colline, servivano da segnali. I fiumi che scorrevano attraverso le città dividevano le aree urbane in quartieri peculiari e spesso differenziati per ceto sociale, con nomi caratteristici: Trastevere (Roma), Southbank (Londra), Noord (Amsterdam), Rive Gauche (Parigi), Hudson (New York e New Jersey) e così via. Questi punti di riferimento concreti, paragonabili alle informazioni fornite dai satelliti GPS odierni, includono: - vie e strade - incroci e piazze - fortificazioni (mura della città) - fiumi e ponti - edifici sulla cima delle colline - punti più alti (torri) nei centri cittadini Tali riferimenti aiutavano i viaggiatori a stimare sia la distanza sia la direzione. Il campanile della chiesa è davanti o dietro di me? Mi sto allontanando o avvicinando alle porte della città? La differenza maggiore tra l’uso del sistema GPS e il viaggio nei tempi antichi è che i vecchi viandanti raccoglievano informazioni oralmente da una varietà di fonti, inclusi locandieri, bottegai, contadini e altri viaggiatori. Questi contatti fornivano informazioni non solo sulle condizioni delle strade (allagamenti, ponti crollati), ma, molto più importante, anche su potenziali pericoli (briganti, soldati) e su cosa si sarebbe trovato a nel luogo in cui si stava andando (corruzione, rivolte, occupazione militare). Persino i primissimi sentieri e vie formavano delle reti di comunicazione che collegavano paesi, città e nazioni tra di loro. Solitamente queste strade si basavano su caratteristiche geografiche: serpeggiando tra le vallate, oltre i valichi di montagna e lungo fiumi abbastanza profondi da essere guadati, le strade seguivano la traiettoria più corta possibile. Strade panoramiche e sentieri rustici come quelli che si trovano negli odierni parchi nazionali e riserve naturali erano inconcepibili: erano sia rischiosi sia poco pratici. Inoltre, solo i benestanti avevano abbastanza tempo libero per godersi tali piaceri. Le strade percorse da molti viaggiatori offrivano sicurezza numerica: maggiore protezione dai ladri (le merci costose spesso venivano trasportate in carovane scortate da guardie armate), insieme ad agevolazioni lungo il cammino. Dopotutto, la distanza che uomo e animale potevano percorrere senza fermarsi per cibo, acqua e riposo era limitata. Molto più tardi, e comunque ancora molti secoli fa, le mappe comparvero sulla scena. I primi esempi abbastanza piccoli da poter essere trasportati da un individuo erano destinati alle imbarcazioni che navigavano in alto mare, per tracciare rotte favorevoli tra porti commerciali e per aiutare gli esploratori in cerca di risorse di valore – tesori come oro, argento e spezie esotiche – o pensate per attendere i propri fortunati scopritori in aree remote del mondo. Mappe permanenti, alcune dipinte sui muri, altre intarsiate in pavimenti di marmo, adornavano le stanze di castelli, palazzi, municipi ed altri edifici importanti. Molte di esse erano create non per assistere i marinai in navigazione tra i flutti, ma per dimostrare il potere del governo sulle terre e territori che occupava. Altri primissimi esempi erano le mappe di proprietà, utilizzate per la registrazione dei terreni, e le mappe militari. I primi nomi registrati dati alle strade principali, solitamente costeggiate da file di alberi per creare ombra, possono essere rintracciati nell’antica Roma. Queste strade, costruite principalmente per scopi militari, erano usate dalle armate romane

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Analisi delle modalità di percorrenza all’interno del nuovo Museum Plaza di Louisville, Kentucky, USA. Il diagramma mostra la complessità dell’edificio con le sue quattro imponenti torri, il museo, l’hotel e il livello parcheggi. Analysis of routes inside the new Museum Plaza, Louisville, Kentucky, USA. The diagram shows the complexity of the building with its three imposing towers, the museum, the hotel and the parking level. (© Mijksenaar Arup Wayfinding, New York).

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sia in viaggio verso i possedimenti territoriali dell’impero, conosciuti anche come ‘province’, sia di ritorno a Roma, dove marciavano invariabilmente attraverso la città in processione trionfale. Piuttosto degno di nota il fatto che questa consuetudine razionale non ha avuto seguito fino all’arrivo dell’automobile, che ha portato con sé la numerazione delle strade. Che ci crediate o meno, il sistema di numerazione stradale olandese è stato completato negli anni sessanta! I primi cartelli a freccia (N.d.T. cartelli a forma di mano con indice puntato, tipici della tradizione anglosassone) sono apparsi agli incroci delle strade commerciali più trafficate probabilmente non prima del XIX secolo e raramente indicavano qualcosa di diverso dalla prossima grande città sulla strada. Successivamente arrivarono nelle città i cartelli con l’indicazione dei nomi delle strade, sebbene la numerazione delle case non sia stato uno sviluppo automatico di questa nuova consuetudine. Un’attività commerciale poteva fornire come indirizzo ‘piazza del mercato’, che era tutto ciò di cui si poteva aver bisogno. I cartelli e le mappe non appartengono ad un sistema unico e onnicomprensivo ideato per assistere i viaggiatori; questi riferimenti mostrano solo un esempio di collegamenti disponibili che un individuo può utilizzare per mettere insieme un itinerario personale per lo scopo a portata di mano: nobili motivi (pellegrinaggio), bramosia (conquista) o pura necessità (visite familiari, fuga, esilio, lavoro). L’enorme aumento di mobilità che riguarda la nostra vita quotidiana – all’inizio del XX secolo la maggior parte delle persone andava a lavoro semplicemente a piedi – sta portando alla luce l’inadeguatezza di una rete di collegamenti designata (vie, strade, viali). I viaggiatori di oggi vogliono il percorso più comodo e facile per raggiungere la loro meta, e lo vogliono immediatamente. Una descrizione dettagliata della direzione che ciò prende è di scarso interesse. Soltanto nel tempo libero (estremamente abbondante) sono meno preoccupati dalla destinazione finale e più pronti a considerare come rendere piacevole il percorso tra A e B in un certo periodo di tempo, coprendo una distanza conosciuta e fermandosi lungo la strada per un caffè e una crêpe! Indicazioni colorate lungo il percorso prescelto sono sufficienti per i loro bisogni. Il risultato è un aumento del numero di percorsi ‘limitanti’: verso una città, un’azienda, un parco o un edificio; verso una banchina del treno o verso l’uscita dell’aeroporto; verso il pronto soccorso; verso Monna Lisa al Louvre; e, finalmente, di nuovo verso l’uscita e il parcheggio. Tali percorsi non offrono alcuna visione interna dello schema dei collegamenti di base. La nostra dipendenza da percorsi predeterminati aumenta le probabilità di perderci (il GPS smette di funzionare e non c’è nessuna mappa in macchina), in parte perché siamo privi della capacità di rievocare una ‘mappa mentale’ di un’area che non gioca più il benché minimo ruolo nell’informazione fornita. Questo effetto è rafforzato dalle autostrade fiancheggiate sui due lati da chilometri infiniti di barriere acustiche e strade che attraversano gallerie dopo gallerie. (Lungo la strada che percorro ogni anno per arrivare in Italia, attraverso molte città svizzere senza vedere alcuna città neanche di sfuggita). Una risposta a questa situazione è stata la costruzione di strade sempre più specifiche, tra le quali le più conosciute sono le strade ad anello, strade per parcheggi e hotel. Aggiungete a questo il perfezionamento della designazione alfanumerica delle strade: in Europa c’è una distinzione tra autostrade nazionale (numeri con la A e la N) ed europee (numeri con la E), strade nazionali, strade locali e vie di città, ognuna con il proprio vasto sistema di norme che si riferiscono ad argomenti come la velocità massima (e minima) e il tipo di automobilista consentiti. Ciò che vediamo oggi negli edifici è una totale noncuranza della libertà potenziale di movimento del visitatore e nessuna possibilità di sviluppo di intuito spaziale. I vaghi riferimenti ad una destinazione, come ad esempio Hc.2.513, non costituiscono delle eccezioni. Esclusivamente gli interni ed i meglio informati possono anche solo iniziare a decifrare un cartello che potrebbe (o non potrebbe) indicare la strada per l’edificio H, ala C, 2° piano, corridoio 5, stanza 13. Non c’è da meravigliarsi se i sistemi di navigazione GPS, portatili o integrati, già così immensamente popolari, stiano continuando la loro impressionante avanzata. Immettiamo la destinazione, aggiungendo soste lungo la strada a nostro piacere, selezioniamo il percorso più rapido o breve e partiamo. Quando ci avviciniamo a un incrocio, sentiamo una voce umana che ci dice dove andare. La percezione di un consiglio personale è così forte che in breve ci sentiamo ‘legati’ a quella voce registrata che ci ordina di tornare indietro quando sbagliamo strada: urliamo stizziti a nostra volta, quasi senza renderci conto che la nostra reazione rimarrà inascoltata. Questo aspetto di legame sembra essere la ragione della preferenza degli uomini per una voce femminile nei loro GPS… C’è ovviamente una ragione per la forte attenzione sul bisogno di architettura

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–Orientamenti/Orientations e design urbano intuitivi, di architettura che fornisca ai visitatori informazioni istantanee: la posizione dell’ingresso all’edificio e una vista trasparente di tutti gli spazi interni e servizi disponibili. C’è anche un bisogno di progetti di espansione urbana disposta nello stesso modo gerarchico dei centri storici: una piazza centrale con chiesa e municipio, circondata dalle principali vie commerciali e dalle case dei cittadini più importanti e, in periferia, quartieri suddivisi per comunità, alcuni con centri commerciali locali, per ospitare la popolazione rimanente. L’Italia ha ancora centinaia di città con centri medievali autentici che possono essere esplorati senza mappe o cartelli; una contraddizione rispetto ai molti progetti di espansione del XIX e XX secolo che sembrano essere stati disegnati e disposti indiscriminatamente, e che sono più o meno interscambiabili. I designer di segnaletica che usano il termine wayfinding (N.d.T. letteralmente ‘trovare la strada’) desiderano sviluppare sistemi multifunzionali: vogliono un sistema con una rete sottostante di itinerari che possono essere usati in maniera ottimale, e ciò inizia dando all’utente una scelta fra il percorso più corto e quello più veloce e continua offrendo opzioni come il percorso più bello, il più tranquillo o il più interessante. Le selezioni disponibili includerebbero ogni genere di attrazioni lungo la strada, come ristoranti, bar e, naturalmente, toilette pulite e sicure. Ugualmente importante, tuttavia, è l’abilità del sistema di dare all’utente una visione interna della topografia dell’area. L’esempio più recente è la augmented reality, (N.d.T. letteralmente ‘realtà aumentata’), un sistema grazie al quale si può orientare la fotocamera del cellulare verso un edificio o una strada e si ricevono istantaneamente informazioni sul display: la posizione della fermata della metropolitana, completa dei numeri della linea, l’attuale mostra al museo, informazioni su una proprietà in vendita o in affitto. Ciò può essere ampliato con dati sulle strade: dove conducono e cosa offrono (direzione, destinazioni, luoghi d’interesse). I visitatori negli edifici possono usare il sistema per individuare una corsia di ospedale, un oggetto in un museo, uno stand di una fiera campionaria, tutto ciò rimanendo completamente consapevoli di ciò che li circonda. Gli utenti possono scegliere di seguire un percorso specifico o semplicemente di girovagare nell’area in questione. Durante tutto il viaggio, il viaggiatore di domani avrà a portata di mano una rete di percorsi disponibili e rilevanti, così come una selezione personale di destinazioni. Può seguire il suo istinto e i capricci del momento o seguire una strategia di viaggio ben delineata e pianificata, ma avrà anche la libertà illimitata di cambiare idea e piani in ogni momento. Il sistema che usa gli fornirà le ultime informazioni, costantemente aggiornate, che spaziano da osservazioni di carattere generale ai più specifici dettagli disponibili. Paul Mijksenaar (1944), information designer, ha uffici ad Amsterdam e New York. La sua società è specializzata nello sviluppo di sistemi di percorso e wayfinding design. Nuovi scenari per la navigazione assistita Come già descritto da Paul Mijksenaar, la tecnologia informatica e le sue applicazioni sembrano venirci in aiuto anche nel campo del design delle direzioni e delle istruzioni. Il successo conclamato di prodotti quali i navigatori satellitari ne è un chiaro esempio, ma non è che l’inizio di una possibile rivoluzione. Il paesaggio naturale o poco antropizzato, come detto, presenta molte diversità dai moderni paesaggi urbani, caratterizzati da strutture difficilmente decifrabili (pensiamo ai labirinti dei centri commerciali con i loro livelli, mezzi livelli, scale mobili, parcheggi ecc…) e disturbati a livello sensoriale, visivo, auditivo, ma anche tipicamente fisico (affollamento). La soluzione ‘satellitare’ e quindi tecnologica, basata sul semplice inserimento di una destinazione attraverso lo schermo di un piccolo dispositivo, assiste il viaggiatore moderno attraverso la rete stradale sino alla soglia di questi ‘templi della confusione’ dove egli comunque si deve ancora affidare ai tradizionali sistemi di segnaletica (nel nostro paese, mi sia concesso, spesso migliorabili). Infatti l'esile segnale radio che dal satellite permette al nostro navigatore di identificare la sua posizione viene bloccato da pochi centimetri di soffitto; questo limite tecnico rappresenta un’opportunità per l’introduzione di nuovi sistemi di localizzazione e navigazione. Al di là di futuribili e poco implementabili concept di cellulari intelligenti che riconoscono luoghi ed edifici (comunque dallo straordinario valore visionario e di ispirazione) non esiste una vero strumento per la navigazione cosiddetta indoor. Come nel caso del GPS comunque, un sistema tecnologico, una sorta di navigatore personale che ci accompagni alla scoperta di questi luoghi, sarebbe complementare ad un sistema di segnaletica tradizionale migliorandone alcuni aspetti cruciali. In primo luogo sarebbe flessibile, incontrando le esigenze di continuo mutamento tipiche di questo contesto (si pensi alla continua riallocazione degli spazi in un

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68 siti di maggiore interesse, 99 chiese, 151 monumenti, 98 hotels 68 Major sights, 99 churcs, 151 palaces, 98 hotels

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–Orientamenti/Orientations

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ospedale o in un grande corporate building). Inoltre potrebbe azzerare le barriere culturali (soprattutto linguistiche) della variegata società contemporanea. Dove il cartello è un elemento statico, scritto in una o al massimo due lingue, con elementi grafici e simboli non riconosciuti da ogni cultura, un dispositivo intelligente si farebbe trait d’union ed interfaccia tra il messaggio e diversi soggetti riceventi. Messaggio, che potrebbe diventare multisensoriale (video, audio, tattile) e quindi anche arricchire l’esperienza della navigazione. La tecnologia (e soprattutto la tecnologia informatica), che applicata al campo della navigazione assistita in prima istanza potrebbe sembrare prescrittiva, categorica ed autoritaria perché per sua natura funzionale e (spesso…) funzionante, si dimostra quindi un valido ed utile strumento in quanto flessibile ed adattabile a diversi contesti e bisogni. Inoltre la possibilità di affidarsi ad un sistema di navigazione sicuro ed affidabile libera l’individuo dall’ansia di perdersi e in questo modo stimola anche l’esplorazione l’iniziativa. La sfida di applicare tali paradigmi a nuovi contesti, come per l’appunto grandi spazi non raggiunti dall’ attuale tecnologia, è quanto da me intrapreso (con il supporto dello studio Mijksenaar) nel progetto Mercator. L’obiettivo di tale impegno è quello di riuscire a sviluppare un sistema di navigazione per interni applicando i principi del wayfinding e i vantaggi sopracitati di uno strumento ‘intelligente’. Chiaramente il grande passo è quello di creare una struttura (o meglio un’infrastruttura), una piattaforma (come i satelliti per il GPS), su cui costruire il sistema. Il dilagare di dispositivi mobili dalle funzionalità sempre più ricche sembra però un incoraggiamento in questo senso, poiché essi consegnano già buona parte della tecnologia nelle nostre mani liberando l’infrastruttura da costosi investimenti. Infine, orientare con successo il viaggiatore non solo nello spazio reale ma anche attraverso lo spazio virtuale delimitato da mille finestre, pulsanti e touch screens, rappresenta un ulteriore imperativo nella progettazione, ma il solo tema come noto richiederebbe troppo tempo per essere qui trattato. Giorgio Goi (1983) lavora per Mijksenaar, Amsterdam, come information designer. [english] The conflict between instinct and strategy is inherent to the design of signage. And then there’s the matter of planned unpredictability, also known as ‘adventure’ or, more contemporarily, as ‘the experience’. We travel with a destination in mind, of course: the so-called ‘trip from A to B’. Sometimes, though, it’s nice to combine the end point with an exciting route that allows for the discovery of interesting spots along the way. Who knows what unexpected pleasures may lie in store . . . The late University of Utrecht ergonomist Harm Zwaga cited three ways in which signage helps the traveller: - To reach his destination - To follow a specific route - To explore an environment Experience has shown that a good many travellers want to achieve all three goals at once. In most cases, the line that separates the instinctual demands of the moment and a programme planned in advance simply does not exist. And when it does, it’s a badly blurred boundary at best. An airline passenger ultimately wants to reach the gate (destination), but not before checking in, buying a newspaper, having a cup of coffee and using the toilet (route). Browsing in interesting shops along the way adds to the occasion (exploring the environment). Although he wants as much shopping time as possible, he’s also keen to find the newsstand, to grab that coffee, to locate the toilets and to take the fastest, shortest route to his gate, preferably without constant interruptions that might make him miss his flight. At many airports, a barrage of announcements blares from the PA system, urging tardy passengers to report to the gate immediately or their baggage will be off-loaded from the aircraft. In other words, the air traveller finds himself trapped between a desire to follow his natural laid-back instincts and the need to map out an efficient strategy. Let’s take a step back in time – to an age in which travel really was an adventure, an age with few signs and no GPS systems, when the fastest way to get around was by horse. (Unfortunately, the highwaymen that made life dangerous in those days have returned, it seems, in the form of pirates who make life miserable for ships sailing off the Somali coast.) ‘Beacons’ positioned in and around cities were the traveller’s only points of orientation. The first were the names of roads leading to cities, and these date back to Roman times. Building began on the Via Appia and the Via Aurelia, for example, centuries before

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the birth of Christ. Inns erected at crossroads and river crossings were good places to get information about the route. And the skyline of a city in the distance helped the wayfarer to identify his destination, since each city’s silhouette was unique, thanks to variations in the architecture of churches, forts, castles and other large buildings. (The recognition of city skylines remains a trusted means of navigation for mariners, who also rely on signals from lighthouses, each of which emits a distinctive pattern of beams.) Roads ended at the city gates, which were often named for the town from which the person arriving had come – quite convenient, especially for those travelling in the opposite direction. The main streets of a city began at the entrance gates. These were frequently shopping streets, which in many cases were also named for nearby cities (e.g. ‘Corso Venezia’ in Verona, ‘Via Senese’ in Florence, ‘Via Torino’ in Milan), Known as ‘radial streets’, they spread like a cobweb towards the centre of town, where the tower of a church or city hall, rising high above all other buildings, could be seen from afar. Landmarks such as rivers, castles, monasteries and churches – often built on hilltops – also served as beacons. Rivers flowing through cities divided urban areas into distinctive, often socially differentiated neighbourhoods with characteristic names: Trastevere (Rome), Southbank (London), Noord (Amsterdam), Rive Gauche (Paris), Hudson (New York and New Jersey) and so forth. These physical reference points, comparable to information provided by today’s GPS satellites, included: - Roads and streets - Intersections and squares - Fortifications (city walls) - Rivers and bridges - Buildings on hilltops - Highest points (towers) in city centres Such references helped travellers to estimate both distance and direction. Is the church tower in front of or behind me? Am I moving away from or towards the city gates? The main difference between the use of a GPS system and travel in ancient times is that early wayfarers gathered information orally, from a variety of sources, including innkeepers, shopkeepers, farmers and other travellers. Not only did these contacts pass on information about road conditions (flooding, collapsed bridges) but, even more important, about potential dangers (highwaymen, soldiers) and the situation at the final destination (corruption, riots, military occupation). Even the very first paths and roads formed networks that connected villages, towns and countries with one another. Usually, these routes were based on geographical features. Meandering through valleys, over mountain passes and along rivers shallow enough to wade across, roads followed the shortest trajectory possible. Scenic routes and rustic paths of the type found in today’s national parks and nature reserves were inconceivable: they were both risky and impractical. Besides, only the wealthy had enough ‘free time’ to enjoy such pleasures. Roads shared by many travellers offered safety in numbers: better protection against robbers (expensive goods were often transported in convoys accompanied by armed guards), combined with facilities along the way. After all, the distance that man and beast could travel without stopping for food, water and rest was limited. Much later – although still many hundreds of years ago – maps appeared on the scene. The first examples that were small enough for one person to carry were intended for vessels sailing the high seas, for charting favourable routes between ports of trade, and for aiding explorers in search of valuable resources – treasures like gold, silver and exotic spices – thought to await their fortunate discoverers in remote areas of the world. Permanent maps – some painted on walls, others inlaid in marble floors – adorned the rooms of castles, palaces, city halls and other important buildings. Most of these were created not to assist sailors in navigating the waves but to demonstrate a government’s power over the lands and territories it occupied. Other early examples were property maps, used in land registration, and military maps. The first recorded names given to major roads, usually lined with trees to provide shade, can be traced to ancient Rome. These roads, built primarily for military purposes, were used by Roman armies heading either to the empire’s territorial possessions – also know as ‘provinces’ – or back to Rome, where they invariably marched through the city in triumphal processions. Remarkably enough, this rational practice had no follow-up until the arrival of the car, which brought with it the numbering of roads. Believe it or not, the Dutch road-numbering system was not completed until the 1960s! It was probably not until the 19th century that the first ‘pointing finger’ signs appeared at the crossroads of well-travelled trade routes, rarely marked with anything other than a reference to the next large town on the route. What followed were signs in cities that indicated street names, although house numbers were not an automatic spin-off

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Š Photo Paul Mijksenaar

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of this new custom. A business might give its address as ‘market square’, which was all anyone needed to know. Signs and maps did not belong to one, all-encompassing system devised for aiding travellers. These references showed only a pattern of available connections, which an individual could use to piece together a personal itinerary for the purpose at hand: noble motive (pilgrimage), greed (conquest) or pure necessity (family visit, escape, exile, trade). The enormous increase in mobility that is affecting our daily lives – at the beginning of the 20th century, most people simply walked to work – has revealed the inadequacy of a designated network of connections (roads, streets, alleys). Today’s travellers want the fastest, most comfortable route to their destination, and they want it immediately. A detailed description of the course it takes is of little interest. Only in their – extremely abundant – leisure time are they less concerned about the final destination and more prepared to consider how to enjoy the route from A to B within a certain period of time, covering a known distance and stopping along the way for a cup of coffee and a pancake! Coloured markers along the chosen route are sufficient for their needs. The result is an increase in the number of ‘restrictive’ routes: to a city, business park or building; to a train platform or an airport gate; to the hospital emergency room; to the Mona Lisa in the Louvre; and, finally, back to the exit and car park. Such routes provide no insight into the underlying pattern of connections. Our dependence on predetermined routes increases our chances of getting lost (the GPS stops working, and there’s no map in the car), in part because we lack the ability to recall a ‘mental map’ of an area that no longer plays even a minor role in the information provided. This effect is reinforced by motorways flanked on both sides by endless kilometres of sound barriers and roads that pass through tunnel after tunnel. (On the route I take every year to Italy, I drive through many Swiss cities without catching the slightest glimpse of the town itself.) One response to this situation has been the construction of more and more specific routes, the most well known being ring roads, parking routes and hotel routes. Add to this the refinement of the alphanumeric designation of roads: in Europe, there is a distinction between European (E numbers) and national motorways (A and N numbers), national roads, local roads and city routes, each with its own extensive system of rules pertaining to matters such as maximum (and minimum) speed and type of road user permitted. What we see in buildings today is a complete disregard for the visitor’s potential freedom of movement and no opportunity for the development of spatial insight. Vague references to a destination – Hc.2.513, for instance – are no exception. Only insiders and savants can even begin to decipher a sign that may (or may not) point the way to Building H, Wing C, 2nd floor, Corridor 5, Room 13. No wonder that hand-held and in-dash GPS navigation systems, already so immensely popular, are continuing their impressive advance. We key in the final destination – adding stops along the way as desired – select the fastest or shortest route, and drive away. As we approach an intersection, we hear a human voice tell us which way to go. The perception of personal advice is so strong that we soon ‘bond’ with the canned voice that instructs us to turn around when we’ve gone the wrong way – we shout back in anger, almost without realizing that our reaction goes unheard. This bonding aspect seems to be behind a man’s preference for a female voice on his GPS . . . There’s clearly a reason for the strong focus on a need for intuitive architecture and urban design – for architecture that provides visitors with instant information: the location of the entrance to the building and a transparent view of all available interior spaces and facilities. There’s also a need for urban-expansion projects laid out in much the same hierarchical way as the historical town centre: a central square with church and city hall, surrounded by the main shopping streets and the homes of prominent citizens and, on the periphery, guild-related neighbourhoods, some with local marketplaces, to house the remaining population. Italy still has hundreds of cities with authentic medieval centres that can be explored without maps or signs. What a contradiction to the many 19th- and 20th-century expansion projects that seem to have been designed and laid out indiscriminately, and that are more or less interchangeable. Signage designers that use the term ‘wayfinding’ are keen to develop multifunctional systems. They want a system with an underlying network of routes that can be used optimally – that starts by giving the user a choice between the shortest and fastest route and continues by offering options such as the prettiest, most peaceful or most interesting route. The available selections would include all sorts of attractions along the way, as well as restaurants, cafés and, of course, safe, clean toilets. Equally important, however, is the system’s ability to give the user an insight into the topography of the area. The most recent example is ‘augmented reality’, a system that lets you aim the camera in your mobile phone at a building or street and receive instant feedback on your

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–Orientamenti/Orientations display: the location of a metro station, complete with line numbers; the current museum exhibition; information on a property for sale or for rent. This can be expanded with data on streets: where they go and what they offer (direction, destinations, points of interest). Visitors inside buildings can use the system to locate a hospital ward, an object in a museum, a trade-fair stand, all the while remaining completely aware of their surroundings. Users can opt to follow a specific route or simply to wander around the area in question. Throughout his entire trip, the traveller of tomorrow will have at his fingertips a network of available and relevant routes, as well as a personal selection of destinations. He can go with his instincts and moment-to-moment whims or follow a well-mapped-out travel strategy – but he will also have unlimited freedom to change his mind and his plans at any time. The system he uses will provide him with the latest information, updated constantly, ranging from generalities to the most specific details available. Paul Mijksenaar (1944), information designer, has offices in Amsterdam and New York. His firm specializes in the development of routing systems and wayfinding design. New scenarios for assisted navigation As Paul Mijksenaar has already said, informatics and its applications also seem to be helping us to design routing systems. The obvious success of products like satellite navigation systems is a good example, but it is only the beginning of a possible revolution. Natural landscapes, or those man has not populated, have little in common with modern urban landscapes, characterised by structures which are difficult to decipher (for example, shopping malls with their levels, half-levels, escalators, car parks etc…) and disturbing on a sensorial, visual, auditive level, but also typically physical (crowding). The ‘satellite’ and thus technological - solution, based on the simple insertion of a destination by means of the screen on a small device, assists the modern traveller along the roads leading up to these ‘temples of confusion’ where, in any case, he still has to rely on traditional sign systems (which could be better, in our country, I might add ). The weak radio signal from the satellite which allows our navigator to identify his position cannot get through a few centimetres of ceiling. This technical limit is an opportunity for us to introduce new systems of localization and navigation. Apart from future, difficult to implement concepts concerning intelligent cell phones which recognise places and buildings (of extraordinary visionary value and inspiration) a real instrument for so-called indoor navigation does not exist. As in the case of GPS, a technological system, a sort of personal navigator which accompanies us in the discovery of these places, would complement a traditional signage set-up, improving certain of its crucial features. In the first place, it would be flexible, meeting the need for continuous alteration typical of this context (consider the continuous relocation of spaces in a hospital or a great corporate building). Besides this, it could eliminate cultural barriers (above all linguistic ones) in our variegated contemporary society. Where the sign is a static element, written in one or two languages at most, with graphic elements and symbols which are not recognised by other cultures, an intelligent device would be a trait d’union and an interface between the message and the receiver. A message which could become multisensorial (video, audio, tactile) and thus also enrich the experience of the navigation. Technology (and above all informatics) applied to the field of assisted navigation might at first seem prescriptive, categoric and authoritarian but because of its functional and (often…) functioning nature, it turns out to be a valid and useful instrument in that it is flexible and adapts to different contexts and needs. Furthermore, being able to trust a system of safe, reliable navigation removes the anxiety of getting lost and stimulates the exploration too. Applying such paradigms to new contexts, like large spaces where current technology has not yet arrived, is the challenge I am facing (with the support of the Mijksenaar studio) in the Maercator project. The objective of this commitment is that of developing a navigation system for interiors by applying the principles of wayfinding and the above-mentioned advantages of an ‘intelligent’ instrument. Clearly, the biggest step is to create a structure (or rather an infrastructure), a platform (like GPS satellites) on which to construct the system. But the spread of mobile devices with increasingly more sophisticated functions seems to be encouraging in this sense, because they already deliver most of the technology directly, freeing the infrastructure of costly investments. Finally, routing the traveller successfully and not only in real space but also through virtual space delimited by hundreds of windows, buttons and touch screens, is a further imperative in planning but the theme, clearly, would require too much time to be discussed here. Giorgio Goi (1983) works for Mijksenaar, Amsterdam, as an information designer.

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Fatti salvo/ Save yourself

XMap USA Street Level Data 2007

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–Primopiano/Close up

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Direttore: Silvana Annicchiarico Cura scientifica: Alessandro Mendini Progetto dell’allestimento: Pierre Charpin

www.triennaledesignmuseum.it www.triennale.it

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