Visual Design

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VISUAL DESIGN

Numero 1 - Anno I - 2018 - Publicomm Srl - Milano - Bimestrale - Italy 8€ - ISSN 2420-9090

Rivista di grafica, creatività e attualità

L’INGEGNO

E LE SUE RADICI

Idee e progetti possono trovare posto nella mente in uno stato di incubazione per anni, e non sorprende che la creatività sia finora sfuggita ad un vero approccio scientifico.

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COMINCIARE (BENE) UN LAVORO CREATIVO | L’ERA MUSICALE POST BOWIE E PRINCE | RIVISTE DI GRAFICA ITALIANE GUARDARE PENSARE PROGETTARE


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PERSONAGGI 14 L’ERA MUSICALE POST BOWIE E PRINCE di Kory Grov e Rob Sheffild

TENDENZE 21 RIVISTE DI GRAFICA ITALIANE di Nicola D’Agostino

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INTERVISTA

NEUROSCIENZE 4 LA SCINTILLA DELL’INGEGNO E LE SUE RADICI BIOLOGICHE di Hellen Phillip

ESPERTI DEL MESTIERE 10 COMINCIARE (BENE) UN LAVORO CREATIVO di Annamaria Testa

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25 GUARDARE PENSARE PROGETTARE di Norina Wendy Di Blasio

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NEUROSCIENZE

LA SCINTILLA DELL’INGEGNO E LE SUE RADICI BIOLOGICHE Idee e progetti possono trovare posto nella mente in uno stato di incubazione persino per anni, e non sorprende che la creatività sia sfuggita fino a poco tempo fa ad un vero approccio scientifico.

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ono secoli che l’uomo studia il fenomeno della creatività, forse sin dai tempi in cui ha sviluppato il pensiero e la coscienza di sé. Dato che l’intuizione creativa sembra davvero arrivare all’improvviso, quasi dall’alto, il merito è stato qua e là attribuito agli dei, agli spiriti o - ai giorni nostri - al quoziente di intelligenza e al subconscio. L’unica parte del processo che conosciamo è il momento dell’intuizione. Tuttavia, idee e progetti creativi possono stare in incubazione - magari inconsapevolmente - per mesi o persino anni. Non sorprende, quindi che la creatività sia a lungo tempo sfuggita a un vero approccio scientifico. All’inizio degli anni 70 era ancora vista come un tipo di intelligenza. In quegli anni però, per merito di Paul Torrance, furono sviluppati dei test di misurazione del quoziente di intelligenza e del talento creativo più precisi: divenne subito evidente che il nesso tra i due non era così banale. Le persone creative sono intelligenti, in termini di quoziente di intelligenza, ma semplicemente nella media o poco più. Oltre un certo livello, e a seconda della disciplina, il quoziente di intelligenza non aiuta a scatenare la creatività: è necessario, ma non sufficiente. Non potendo studiare il processo creativo vero e proprio, la maggior parte dei primi studi si è concentrata sulla personalità. Secondo lo specialista Mark Runco, dell’Università della California a Fullerston, la personalità creativa tende ad attribuire un grande valore alle qualità estetiche e ad avere interessi molteplici, che le forniscono risorse a cui attingere e nozioni da ricombinare in soluzioni innovative. Le persone creative sono attratte dalla complessità e hanno la capacità di 5

gestire ciò che è in conflitto. Sono in genere estremamente motivate, forse persino un po’ ossessive. I soggetti meno creativi, al contrario, hanno la tendenza all’irritabilità se non riescono a combinare immediatamente tra loro tutti gli elementi, non tollerano la confusione. La creatività affiora in coloro che sanno aspettare, ma solo in quelli che si sentono a loro agio nel convivere con una certa mancanza di chiarezza. A volte però, c’è un prezzo da pagare, per secoli, il talento creativo è stato spesso associato alle malattie mentali. Kay Redfield Jamison, scrittore e psichiatra all’Università Johns Hopkins a Baltimora che soffre di disturbo bipolare, ha scoperto che gli artisti affermati hanno una certa tendenza a sperimentare disturbi dell’umore. A suo parere, l’elemento scatenante dell’evento creativo potrebbe essere il cambiamento dell’umore e non, piuttosto, lo stato d’animo negativo di per se stesso. Allo stesso modo, alcune caratteristiche della schizofrenia sono ten-

Van Gogh: creativo affetto da malattia mentale


denzialmente più presenti nelle persone creative. Lo psichiatra Gordon Claridge di Oxford, usa una “scala della schizotipia” per classificare alcuni aspetti della malattia che non sono patologici di per se stessi, come avere allucinazioni, sentire voci, avere pensieri incoerenti, credere nella magia e così via. I soggetti con queste caratteristiche tendono a ottenere un buon punteggio nei test di pensiero laterale, divergente e aperto; mentre coloro che raggiungono il punteggio più elevato trovano che queste tecniche di pensiero siano distruttive. L’intelligenza può aiutare a canalizzare questo stile di ragionamento verso qualcosa di fortemente creativo. Ma il pensiero laterale, se combinato con problemi emotivi, può portare a qualche patologia mentale. Jordan Peterson, uno psicologo dell’Università di Toronto, ha individuato un meccanismo che aiuterebbe a spiegare questo aspetto.

A suo dire, il cervello dei creativi è più aperto alla ricezione di stimoli. I nostri sensi tempestano il cervello con una valanga di informazioni, il quale deve filtrarne o bloccarne la maggior parte per evitare di restarne sepolto. Peterson chiama questo processo “inibizione latente” e sostiene che gli individui nei quali è meno sviluppata hanno un quoziente di intelligenza piuttosto alto e una memoria ben allenata, possono destreggiarsi assai meglio in questa miriade di informazioni ed essere, così, più aperti a nuove possibilità e nuove idee. Quindi, secondo Peterson, la malattia mentale non è un presupposto necessario della creatività, ma ne condivide alcuni aspetti cognitivi. E dell’atto creativo in se stesso cosa si dice? Uno dei primi studi sul cervello in azione è stato fatto da Colin Martindale, psicologo dell’Università di Maine a Orono. Nel 1978, Martindale usò una rete di elettrodi applicati al cuoio capelluto di

Jordan Peterson: psicologo dell’Università di Toronto 6


alcuni soggetti per produrre un elettroencefalogramma mentre questi elaboravano delle storie. Dimostrò che la creatività ha due fasi: l’ispirazione e l’elaborazione. Quando le “cavie” inventavano delle storie, l’attività cerebrale era stranamente ridotta: come se l’attività cosciente fosse a riposo, mentre il cervello creava connessioni dietro le quinte. Era la stessa sorta di attività cerebrale tipica di alcune fasi del sonno, il che poteva spiegare perché il sonno e il relax aiutano le persone a essere creative. Tuttavia, quando gli individui in stato di quiescenza cerebrale venivano sollecitati a lavorare sulle loro storie, l’attività di onde alfa svaniva e il cervello diventava attivo, con un risveglio corticale crescente. Sorprendentemente, sono stati i soggetti con maggior scarto in attività cerebrale - tra fase di ispirazione e fase di elaborazione - a produrre le trame più immaginifiche. Nulla, nella loro attività cerebrale nascosta, ha permesso di identificarli come creativi o non-creativi. “È come se l’individuo più creativo dice Guy Claxton, psicologo dell’Università di Bristol in Gran Bretagna - non riuscisse a cambiar marcia. La creatività richiede diverse modalità di pensiero. Le persone molto fantasiose si muovono tra di esse in modo intuitivo”. La creatività non è altro che flessibilità mentale: forse non un processo strutturato in fasi successive, ma il passaggio tra due stati della mente. In uno studio più recente, Martindale ha scoperto che 7

questa commutazione di attività è particolarmente evidente nel lato destro del cervello. Tuttavia alcuni soggetti, ai quali sono state interrotte le connessioni tra i due lati dell’encefalo per curare un’epilessia refrattaria, sembrano essere meno fantasiosi, mostrando così che la comunicazione tra il lato destro e quello sinistro è pure importante. I ricercatori stanno ora lavorando sugli aspetti anatomici della fecondità mentale. Studi sul cervello di soggetti con particolari tipi di creatività mostrano che le aree attive variano in funzione del sapere specialistico usato, e ciò non sorprende. Il linguaggio, l’immaginativa, la consapevolezza spaziale e così via sono grossomodo localizzati in una più aree dell’encefalo. Matematici e fisici potrebbero avere dei lobi parietali più estesi, che sono importanti per la rappresentazione spaziale; mentre gli scrittori avranno le regioni del linguaggio assai distribuite sui lobi frontale e temporale, forse addirittura estese su entrambi i lati del cervello, quando di norma sono confinate a quello sinistro. Queste aree specializzate non sono le sole a essere attive. L’uso creativo di informazioni richiede coordinazione tra più aree. “La sintesi creativa necessita una nuova organizzazione che porti innumerevoli aree cerebrali a essere simultaneamente attive”, dice Claxon. Quando ci concentriamo su qualcosa che non richiede immaginazione, come quando leggiamo la bolletta del gas, ci sono meno centri attivi


e una minor attività di sintesi. Ingegerd Carlsson, psicologa dell’Università di Lund in Svezia, e i suoi colleghi, hanno scoperto un aspetto che potrebbe accomunare diverse forme di creatività. Quando si eseguono delle istruzioni impegnative in termini di inventiva, ad esempio fare l’elenco più esteso possibile dei vari usi di un oggetto, i lobi frontali sono marcatamente più attivi: sono i lobi preposti a modificare strategia e a spostare l’attenzione da un compito all’altro. I lobi frontali contribuiscono pure a coordinare le connessioni tra le diverse aree cerebrali, controllando la produzione di sostanze chimiche atte alla trasmissione dei segnali nervosi, come spiega 8

il neurologo David Beversdorf dell’Università dell’Ohio. La cosa che accomuna gli stati mentali in condizione di riposo, il sonno e la depressione, con pari livelli di creatività, è la carenza di un trasmettitore chimico chiamato noradrenalina, o norepinefrina. Questo mediatore chimico controlla la facilità con cui i neuroni parlano tra loro. In scarsa quantità stimola la comunicazione in reti di neuroni larghe, mentre in quantità superiore focalizza l’attività su reti più piccole e serrate. Pazienti trattati con precursori della noradrenalina trovano che la loro abilità creativa a risolvere cruciverba sia rallentata, dice Beversdorf, mentre prodotti come il propranololo, che bloccano tale sostan-


za chimica, aiutano i pazienti a eseguire meglio compiti come la soluzione di anagrammi. Paul Howard-Jones, che lavora con Claxton a Bristol, pensa di aver individuato un altro aspetto della creatività. Ha chiesto a dei soggetti di inventare una storia partendo da tre parole e ha esaminato la loro attività cerebrale con una risonanza magnetica funzionale per immagini. In una prima prova è stato chiesto alle persone di non sforzarsi e produrre la storia più ovvia suggerita dalle parole. In una successiva è stato loro chiesto di lavorar di fantasia, e le parole venivano cambiate per renderne gradualmente più difficile la connessione. Come i soggetti mettevano maggior impegno per inventare racconti più originali, si riscontrava un incremento di attività in una precisa regione cerebrale pre-frontale, sul lato destro che si estendeva all’indietro verso una regione più profonda chiamata corteccia del cingolo anteriore. Secondo Howard-Jones, queste aree giocano un ruolo importante nel monitoraggio del conflitto, aiutandoci a flitrare le combinazioni di parole desiderate e a eliminare quelle inutili. Ciò evidenzia un altro aspetto della creatività: l’elaborazione di una storia – soprattutto se complessa - genera molte opzioni da selezionare. Quindi, la creatività non è altro che un processo cosciente di analisi e valutazione delle idee. Il test mostra pure che, maggiore è lo sforzo cerebrale, più la mente può rivelarsi creativa. Per essere veramente creativi, però, occorre ben di più di un personalità, di aree e di connessioni cerebrali precise: occorre usarle efficientemente. La capacità, le situazioni e il background sociale forgiano la nostra creatività, tanto drasticamente quanto le risorse cerebrali con cui siamo nati. I soggetti più creativi sfruttano pure 9

il ritmo dei vari momenti della giornata, dei weekend e delle vacanze per alternare stati diversi di concentrazione cerebrale. Possono concedersi una passeggiata dopo due ore passate alla scrivania, perché sanno che ciò giova loro e senza farsi sensi di colpa. La creatività, inoltre, non ha bisogno di solitudine e travaglio, aggiunge Teresa Amabile dell’Harvard Business School. Benché si tenda a porre in relazione l’arte solitaria dello scrivere e la pittura con la tristezza d’animo e i disturbi emozionali, la creatività scientifica e quella nel luogo di lavoro si verificano solo quando le persone sono vitali e ottimiste. In uno studio di realtà imprenditoriali esistenti durato una decina di anni e pronto per la pubblicazione, Amabile sostiene che lo stato d’animo positivo all’interno di organizzazioni sfocia in creatività e il rapporto tra i due è molto lineare. Il pensiero creativo, inoltre, migliora l’umore delle persone, così il processo è anche circolare. I tempi stretti, le pressioni finanziare, le scarne elargizioni di bonus, al contrario, non scatenano affatto la creatività professionale: è la sola motivazione interiore, e non la coercizione, che genera la miglior qualità di lavoro. L’altro aspetto della creatività, spesso trascurato, è sociale. Vera John-Steiner dell’Università di New Mexico a Albuquerque e autrice di “Creative collaboration” (Oxford University Press, 2000) ritiene che per essere veramente creativi occorrono intensi contatti sociali fondati sulla fiducia, e non solo i semplici contatti neuronali. Un requisito essenziale del creativo è che, nella sua vita, incontri almeno qualcuno che non lo consideri matto. Hellen Phillip Traduzione di Piera Salto


ESPERTI DEL MESTIERE

COMINCIARE (BENE) UN LAVORO CREATIVO.

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Quattro suggerimenti per cominciare bene, per dare il giusto avvio alla generazione di qualcosa che prima non esisteva.

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a cosa più difficile del fare un lavoro, specie se è un lavoro creativo, è cominciare. E la seconda cosa più difficile è finire. È una strana sindrome speculare, che deriva dalla caratteristica incertezza del lavoro creativo. Questo è il primo dei due articoli che ho pensato di dedicare all’argomento. Il modo migliore per fare un lavoro – non ci piove – è cominciare a farlo. Lo dicevano le nostre nonne: chi ben comincia è a metà dell’opera. E, assai prima delle nonne, lo diceva Orazio: dimidium facti, qui coepit, habet (chi comincia è a metà del lavoro). Già: ma chi comincia è a metà del lavoro proprio perché cominciare costa (almeno) metà della fatica complessiva. Sul blocco dello scrittore sono state composte, non

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così paradossalmente, pagine e pagine. Attorno a questo tema Stephen King ha scritto Shining, uno dei suoi romanzi più famosi. Se cercate “writers’ block” con Google trovate quasi un milione e mezzo di risultati, e scoprite che ci sono passati molti scrittori importanti. Se cercate “creative block” trovate altri 359.000 risultati e scoprite che di blocco creativo hanno sofferto, per esempio, anche molti pittori. C’è quella sensazione disturbante, più ancora che di dover scalare una montagna, di protendersi verso un abisso di cui non si vede il fondo (e in fondo all’abisso, con ogni probabilità, c’è anche una montagna da scalare). E non si capisce bene a che cosa aggrapparsi, e se l’appiglio è abbastanza solido.


APPIGLI. Bene: un buon modo per cominciare è costruirsi dei buoni appigli, ragionando non tanto (o non ancora) sul che cosa si può fare o ci si può inventare, ma sulle premesse. Insomma, conviene farsi qualche domanda. Le quattro, secondo me, fondamentali sono queste: qual è l’obiettivo, o lo scopo, del lavoro che si intende fare? Di quali elementi è costituito l’obiettivo? Quali dati servono? Come conviene procedere? Ne ho parlato in dettaglio in questo articolo e, se le domande vi sembrano convincenti, potreste dargli un’occhiata.

“C’È QUELLA SENSAZIONE DISTURBANTE, PIÙ ANCORA CHE DI DOVER SCALARE UNA MONTAGNA, DI PROTENDERSI VERSO UN ABISSO DI CUI NON SI VEDE IL FONDO...”

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DILAZIONI. Beh, sì, con i lavori creativi la tendenza a procrastinare cresce proprio per via di quella vertigine. Non è solo questione di buona o cattiva volontà (per intenderci, qualcosa del tipo “devo mettere in ordine la scrivania, lavare i piatti o fare una telefonata complicata ma non ne ho nessuna voglia e rimando cincischiando”). Per cominciare un lavoro creativo bisogna avere una direzione, no? Le risposte alle domande di cui parlavo prima possono aiutare, ma non sono propriamente, in sé, una direzione. Un modo in apparenza paradossale, ma in realtà efficace per cominciare un lavoro creativo è fare qualcos’altro, che proprio non c’entra: una doccia, una passeggiata o un salto al bar di sotto. Occhio: ho detto “che proprio non c’entra”. Perdere tempo alla scrivania non funziona. Fare due passi, sì. Potendo, perfino dormirci sopra funziona. Ma a patto di avere fatto prima i compiti: cioè di aver almeno risposto alle domande di cui dicevo sopra, e di continuare inconsciamente a lavorare mentre state facendo qualcos’altro, o mentre sognate.


STRUGGERSI E DISTRUGGERSI. Il flow, il flusso creativo, scaturisce quando ci si immedesima in ciò che si sta facendo fino a dimenticarsi di se stessi. Per questo ho il sospetto che struggersi troppo sul fatto che si sta tirando in lungo, e che cominciare è difficile, e che il tempo stringe, sia comunque una pessima idea, e un ottimo modo per distruggere ogni residua energia. Se cerco “procrastination” con Google trovo oltre 12 milioni di risultati: evidentemente il problema è sentito, e di gente che non riesce a cominciare a far qualsiasi cosa è pieno il mondo. Ma devo dire che tutti gli articoli e i video sulla procrastinazione, e perfino quelli che offrono buoni consigli, mi sembrano vagamente normativi e depressivi: due condizioni che si conciliano malissimo con il lavoro creativo. Quindi, se volete approfondire i perché e i percome della vostra tendenza a procrastinare, vi consiglio comunque di non farlo mentre state procrastinando. Dateci un taglio, invece. Approfondirete in un altro momento, quando siete tranquilli. Magari in un piovoso pomeriggio domenicale in cui non avete proprio niente di meglio da fare. Psychology Today vi offre, indicizzati in un’unica pagina, una quantità di articoli sul tema. Poi andatevene al cinema a vedere un film divertente, però.

PRIMO PASSO. Un grazioso articolo su Creativity post suggerisce che un buon trucco per fare le cose è proprio… cominciare a farle, ma con l’idea di farne appena un pezzettino. Funziona. Minimizza l’ansia da prestazione. L’abisso si riduce a dimensioni più affrontabili: non più sei pagine da scrivere, ma “sei righe, e poi smetto”. Magari diventano molte più di sei righe. Un altro buon trucco è anticipare il primo passo. Raccogliere sistematicamente materiali. Perfino prendere qualche appunto (ehi, non più di qualche appunto!) sul successivo lavoro da fare mentre ancora si sta finendo il precedente. Così, quando al momento giusto vi ci metterete, il lavoro vi apparirà già iniziato.

Una versione più breve di questo articolo esce anche su internazionale.it. Annamaria Testa

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PERSONAGGI

L’ERA MUSICALE POST BOWIE E PRINCE David Bowie muore a pochi giorni dal suo 69esimo compleanno, dopo la pubblicazione del nuovo album. Prince, da tempo malato di Aids, trovato nel suo appartamento di Minneapolis.

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gennaio 2016. David Bowie, leggendario cantautore e attore, muore dopo una lunga battaglia contro il cancro. Aveva 69 anni. La pagina Facebook dell’artista ha dato la notizia, e i collaboratori del cantante hanno confermato la notizia a Rolling Stone. “David Bowie è morto in pace, circondato dalla sua famiglia, dopo una coraggiosa battaglia di 18 mesi contro il cancro”, dice la dichiarazione. “Mentre molti di voi condivideranno questa perdita, vi chiediamo di rispettare la privacy della famiglia in questo momento di lutto”. Una delle voci più originali e singolari nel mondo del rock’n’roll per quasi cinquant’anni, Bowie ha fatto del mistero, della ribellione e della curiosità i tratti distintivi della sua musica. Sempre imprevedibile, l’artista camaleontico, vera icona della moda, ha vestito molti panni nella sua vita. Ha iniziato come un dissidente astronauta del folk-rock, è poi diventato un alieno glam-rock, androgino, dai capelli arancio (con il nome di Ziggy Stardust), poi un maestro del funk, ben vestito e con gli occhi azzurri (Thin White Duke), poi ancora un art rocker amante delle droghe (con gli 15

album di Berlino), poi ancora un hit-maker della new-wave, un hard rocker, un entusiasta techno e un impressionista jazz. La sua predisposizione alla teatralità gli ha fatto guadagnare schiere di fan. Nel frattempo, ha creato hit da classifica come Space Oddity, Changes, Fame, Heroes, Let’s Dance e Where Are We Now?, tra le altre. Di conseguenza, il suo impatto sul mondo della musica è stato enorme. Tra chi ha fatto una cover di Bowie si vedono nomi come Joan Jett, Duran Duran, Smashing Pumpkins, Marilyn Manson, Arcade Fire, Oasis, Ozzy Osbourne, Morrissey, Beck, Red Hot Chili Peppers, Bauhaus, Nine Inch Nails. Il figlio di Bowie, Duncan, ha twittato una foto del padre che lo tiene in braccio nella mattinata di lunedì, scrivendo, “Mi spiace molto e sono davvero triste nel dire che è vero”. L’amico e collaboratore di Bowie, Brian Eno, ha invece scritto, “Le parole non sono abbastanza”. “David Bowie era una delle mie ispirazioni più importanti, senza paura, creativo, ci ha donato magia per tutta la sua vita”, ha scritto Kanye West. “Prego per i suoi amici e famigliari”. Bowie è nato con il nome di David Robert Jones l’8 gennaio 1947 in un sobborgo di Londra. Suo padre, Heywood


Jones, lavorava come promotore di una fondazione a favore dei bambini e sua madre, Margaret Mary Jones, era una cameriera. Ha iniziato a suonare il sassofono a 13 anni, ha frequentato una high school per studiare come artista commerciale. Quando ha iniziato a concentrarsi sulla musica, ha suonato con gruppi dai nomi tipo the King Bees, the Manish Boys (che hanno suonato con Jimmy Page) e Davey Jones and the Lower Third. Ha preso lo pseudonimo di Bowie, dal nome di un coltello, al fine di evitare confusione con il cantante dei Monkees, Davy Jones. Ha pubblicato un album eponimo nel 1967 che ha avuto poco successo in U.K. e non è finito neanche in classifica negli Stati Uniti. Una cosa che cambierà con l’uscita successiva. Con Space Oddity nel 1969, la cui drammatica title track racconta la storia dello sfortunato astronauta Major Tom, ha avuto la sua prima hit. La canzone è arrivata al numero uno in U.K. e al 15 negli States, con l’album nella Top 20 di entrambe le nazioni. Ogni Lp realizzato ha svelato un nuovo aspetto della sua genialità. L’anno successivo, con The Man Who Sold the World, ha sperimentato con la psichedelia e nel 1971 ha fuso il pop-rock con l’arte e la sperimentazione in Hunky Dory.

Conteneva la hit Changes, con la sua promessa “Look out you rock & rollers/ One of these days you’re gonna get older”, oltre che alle canzoni più amate dai fan Oh! You Pretty Thingse Life on Mars oltre a canzoni che parlano di Bob Dylan e Andy Warhol. (Ha interpretato l’artista scomparso anni dopo nel film Basquiat). È stato nel 1972 con The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars, però, che ha definito il suo stile. Grazie al ruolo della rock-star perdente, ha innovato il suo look più glam, amplificato nei suoi show dal vivo, molto teatrali. Tutt’altra cosa rispetto all’idealismo hippie degli anni Sessanta con cui ha avuto successo, Ziggy era sfacciato e arrogante, e il personaggio ha funzionato appena Bowie lo ha presentato al pubblico. Oltre alla title track, Starman, Suffragette City e Five Years sono stati tra i pezzi più di successo. Ziggy Stardust era un personaggio che Bowie ha mantenuto anche con il suo album successivo, Aladdin Sane, che conteneva The Jean Genie, Drive-In Saturday e una cover rag-tag dei Rolling Stones, Let’s Spend the Night Together. Ha provato a mandare in pensione Ziggy nel 1974 con Diamond Dogs, ma la carica glam di Rebel Rebel gli ha suggerito di tenerlo in vita. Ha fatto mar-

“HA PRESO LO PSEUDONIMO DI BOWIE, DAL NOME DI UN COLTELLO...” 16


cia indietro nel 1974 quando ha pubblicato Young Americans, dove ha incorporato soul, funk e disco in canzoni come Fame, scrivendo assieme a Luther Vandross Fascination. Era una mossa rischiosa, ma ha raggiunto il secondo posto nella classifica U.K. e il nono in quella statunitense. È andato ancora più a fondo nel mondo del funk con Station to Stationdell’anno successivo, prendendo il vizio, ampiamente documentato, della cocaina e scrivendo hit come l’ottimista Golden Years. L’album, in generale, ha segnato un rinnovato interesse nell’avant-garde. È stata una trasformazione breve, però, visto che Bowie sarebbe scomparso nel mondo di Berlino, sperimentando sempre di più con la musica e con le droghe. Iniziando con Low, del 1977, che abbinava l’art-rock con un minimalismo ambient, il cantante si è confrontato con suoni acidi ed epici, sostenuti dalla collaborazione con Brian Eno. L’album contiene la hit Sound and Vision e ha dato il via ai suoi album successivi, Heroes di quell’anno e Lodger, con il successo di Boys Keep Swinging. Negli anni ottanta è ritornato con un nuovo interesse nel mondo della musica più radiofonica, con una numero uno raggiunta in U.K. grazie a Ashes to Ashes, che prosegue la storia di Major Tom e la hit Fashion. Entrambe le tracce appaiono su Scary Monsters (And Super Creeps) del 1980. Nel 1981, ha registrato il duetto Under Pressure con i Queen, dove combinava la sua voce con quella di Freddy Mercury, per raggiungere il numero uno in U.K. e la top 30 negli Stati Uniti.Nel 1983, ha pubblicato Let’s Dance, co-prodotto da Nile Rodgers degli Chic. La collaborazione, che comprende anche la chitarra di Stevie Ray Vaughan, ha partorito i singoli Let’s Dance, China Girl e Modern Love. Dopo queste, è arrivata la hit Blue Jean, dall’album Tonight dell’anno successivo. Bowie ha raggiunto per l’ultima volta il numero uno nella classifica U.K. con la cover di Martha and the Vandella, Dancing in the Street, in duetto con Mick Jagger. A eccezione del singolo beatlesiano del 1986, Absolute Beginners, il resto degli anni Ottanta sono stati meno importanti per Bowie musicalmente. Ha pubblicato Never Let Me Down nel 1987, e 17


ha chiuso la decade come membro del gruppo hard rock Tin Machine, con cui ha pubblicato un altro album nel 1991. Bowie ha cambiato il suo stile musicale ancora nel 1993, con la pubblicazione dell’elettronico Black Tie White Noise, un’altra co-produzione con Nile Rogers, che non ha avuto grande successo negli States. Ha flirtato con il mondo industrial con Outside del 1995, e l’anno dopo è stato indotto nella Rock and Roll Hall of Fame dell’ex Talking Heads, David Byrne. Ha collaborato poi con Trent Reznor nell’album del 1997, co-prodotto da Brian Eno, Earthling, ed è poi tornato al rock con l’album del 1999 Hours... È un suono che ha migliorato poi con Heathen del 2002 e l’anno dopo con Reality, entrambi prodotti assieme a Tony Visconti. Il cantante ha avuto un attacco cardiaco nel 2004 e da quel momento ha abbandonato i tour dal vivo, nonostante abbia fatto alcune apparizioni occasionali con, tra gli altri, Arcade Fire e David Gilmour. Ha fatto la sua ultima salita su un palco nel 2006, in un duetto con Alicia Keys.Assieme a quella musicale, Bowie ha anche avuto una lunga carriera come attore, ha avuto ruoli memorabili in The Man Who Fell to Earth, Labyrinth, The Hunger, Twin Peaks: Fire

Walk With Me e The Prestige, tra gli altri. La sua ultima avventura a teatro è stata Lazarus, un musical off-Broadway che ha portato avanti la storia del suo personaggio in The Man Who Fell to Earth con tracce tratte dalla sua carriera e pezzi originali. Nel 2013, Bowie ha pubblicato il suo primo album da circa dieci anni, The Next Day, che ha raggiunto il numero uno in U.K. e numero due negli States. Due giorni prima della sua morte, il cantante ha pubblicato * (da leggere Blackstar), nel giorno del suo compleanno. L’album riflette il camaleontico interesse dell’artista per il jazz e per l’hip-hop. «Abbiamo ascoltato parecchie cose di Kendrick Lamar», ha detto il produttore Tony Visconti delle sessioni di registrazione. «Kendrick ci ha buttato dentro di tutto, esattamente come volevamo fare noi. L’unico obiettivo che ci siamo dati è stato quello di evitare il rock&roll» aprile 2016. Prince muore. Era originale, un genio, e un artista con una mente sporca – e musicalmente, nessuno si avvicinava a lui. Ogni fan di Prince ha una canzone che secondo lui rappresenta la sua genialità, e per me quel pezzo è The Ballad of Dorothy Parker, uno dei suoi pezzi soul sulle

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“...UN GENIO, E UN ARTISTA CON UNA MENTE SPORCA...” 18


relazioni tormentate dal capolavoro del 1987 Sign O’ the Times. Non ci sono altre canzoni così. Prince litiga con la sua fidanzata, se ne va ed entra in un ristorante per starsene seduto da solo a un tavolo a tenere il muso – “Yeah, lemme get a fruit cocktail, I ain’t too hungry.” La cameriera boho-hipster che lavora al turno di notte ci prova con lui. “You’re kinda cute — wanna take a bath?” – e questo nelle canzoni di Prince è l’approccio discreto. Decidono di passare la notte insieme ma senza fare sesso, tiene su i pantaloni mentre fanno il bagno ascoltando Joni Mitchell. Si fidano l’uno dell’altra, il che è una cosa nuova per lui. Stare con Dorothy insegna a Prince come si fa ad essere amici della propria ragazza, quindi torna dall’altra e si fa un altro bagno con su i pantaloni. E il litigio finisce. La prossima volta che succederà, saprà cosa fare. Questa canzone mi ha fottuto il cervello nel 1987, mi fotte il cervello ora e non smetterà mai di fottermi il cervello. Non ci sono altri cantautori uomini della sua o di altre generazioni ha scritto canzoni sulle donne in questo modo. In un universo parallelo, Prince si è ritirato dopo il 1987 il giorno dopo aver scritto The Ballad of Dorothy Parker restando comunque l’uomo più figo che abbia mai toccato Terra. Prince ha passato quasi 40 splendidi anni nel business, come uno dei più brillanti e imprevedibili artisti al mondo. Ha costruito il suo gospel-pop mettendoci dentro sensualità e spiritualità, eppure la sua voce era piena di affetto intimo, emozionante come quella di nessun altro. Quando cantava, era come se fosse il tuo migliore amico. Ha fatto il miglior singolo degli anni ’80, Little Red Corvette, e i migliori album del decennio, 1999 e Sign O’ the Times. Ha cambiato il percepito e il suono della musica. La notizia della sua morte, a soli 57 anni, è davvero terribile, perché sembrava stesse per entrare nei suoi anni d’oro, un artista che tutti ci aspettavamo restasse prolifico, indipendente, cocciutamente e gloriosamente se stesso per gli anni a venire. Ci meritavamo la possibilità di sentire Prince da vecchio. Questo è il suono che fanno le colombe quando piangono. Adorava fare versioni più sexy della musica dell’altra gente; amava rubare in un modo che faceva sembra19


re Bowie o gli Stones o Stevie Wonder dei dilettanti. Ed è incredibile il modo in cui ha ispirato altri artisti a venire fuori dalla sua lotta. Il motivo per cui l’estate del 1984 è stata la migliore radiofonicamente parlando è perché tutti cercavano di fare Prince, mentre Prince era già un anno avanti agli altri. La hit di Van Halen Jump prendeva il gancio di synth di Dirty Mind, mentre Prince è arrivato al numero uno con Let’s Go Crazy,in cui faceva il verso ai Van Halen, battendoli al loro gioco. Per il resto degli anni ’80, le rock star sbiadite potevano arrivare alla numero uno grazie a Prince – da Phil Collins in “Sussudio” (ciao “1999”!) a Billy Joel con “We Didn’t Start The Fire” (ciao, “When You Were Mine”!). Continuava a far brillare la sua luce viola su altre macchine da hit – in particolare belle ragazze, non a caso –, come suonare il synth in “Stand Back” di Stevie Nicks, o scrivendo per le Bangles. Nothing Compares 2 U, un pezzo riempitivo per l’album fatto pper la Family, è diventata quasi per caso una delle hit più famose al mondo dopo la versione di Sinead O’Connor. È stata la prima star a invitare i rapper a usare sample delle sue canzoni nel brano del 1988 I Wish U Heaven: “Take this beat, I don’t mind / Got so many others, they’re so fine.” 20

Prince ha dimostrato qualche segno di cedimento nel 1991, con Diamonds and Pearls. È arrivato meritatamente alla numero uno con Cream ma per la prima volta si vedeva che cercava di fare un pezzo seguendo qualcun altro. Tutti i cantautori pop hanno diritto di fare una sequenza di rime come “girl”/”pearl”/”world” in una strofa una volta nella carriera, ma farlo in un ritornello è una scelta dichiarata, oltretutto metterla nel nome del disco è praticamente una dichiarazione di intenti: «Ok, mi arrendo, che cosa volete ancora?» Comunque è stata l’ultima volta che ha provato ad essere convenzionale. Ha cambiato il suo nome in The Artist Formerly Known as Prince, ha iniziato ad apparire con la scritta SLAVE in faccia, e si è adattato a un nuovo ritmo – non più facendo vagonate di hit pop, ma continuando a sperimentare con ogni album, disseminando gemme che i fan più attenti hanno trovato. Il suo repertorio è pieno di veri e propri tesori nascosti come “Dolphin” dall’album “The Gold Experience”, la sua versione dell’inno anni ’90 “One of us” di Joan Osborne, “Laydown”, di non troppi anni fa, che faceva così: “From the heart of Minnesota / Here comes the purple Yoda!”. È rimasto un uomo misterioso che poteva ridurre in macerie qualsiasi posto, solo camminandoci in mezzo. Ha fatto un’apparizione indimenticabile ai Grammy del 2015, facendo roteare il suo bastone, godendosi l’ovazione del pubblico al momento dell’assegnazione del premio per “Album dell’anno”. «Gli album sono ancora importanti. Come i libri e la cultura nera» ha detto. Prima di avviarsi nella notte, un passo davanti a tutti. Come sempre. Riposa in pace. Kory Grov e Rob Sheffild


TENDENZE

RIVISTE DI GRAFICA ITALIANE.

La confusione tra uso del software e design nasce da un profondo vuoto culturale; l’uso di noti applicativi come Photoshop, InDesign e molti altri non potrà mai sostituire la forza delle idee nate da un foglio bianco. E il mondo della comunicazione visiva ora se ne sta accorgendo.

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i capita spesso di parlare con persone che credono che il graphic design nel suo complesso sia di fatto la capacità di saper usare Photoshop e realizzare quindi qualcosa con questo software: nell’immaginario collettivo “un grafico” é un tizio per cui il famoso editor raster di Adobe non ha alcun segreto. Sempre più spesso mi capita d’incontrare persone incredule quando gli dico che il mestiere del designer pubblicitario o del desktop designer esisteva parecchio tempo prima della nascita del primo transistor. Parliamoci chiaro: oggi l’uso di applicativi software è fondamentale per essere 21

produttivi e competitivi e su questo dubbi non ce ne devono essere, ma si può essere dei designer (ed è auspicabile che sia sempre così) con un foglio di carta bianco ed una matita. La confusione è che quest’attività è una sorta di “manovalanza” o di routine informatica, quando di fatto è una professione incentrata sulle idee e sulla capacità di rappresentarle. Le riviste di grafica che la maggior parte delle nuove leve compra e legge però, escludono di fatto questo concetto: sembrano proporre il ragionamento che le idee concettuali sono solo un corollario, mentre il fondamento è sapere che la sovrapposizione di due livelli può dare il


tale risultato e che se si passano in sequenza due filtri se ne otterrà un altro. La declinazione del concetto si articola sui nomi di altri applicativi: Illustrator, Flash, Dreamweaver ed ovviamente grandi nomi della simulazione tridimensionale, Maya, Cinema 4D, 3D Studio, Rhino o Autocad o tutorial su Final Cut Pro o Avid Xpress. Queste riviste sono estremamente accattivanti, colorate, dispongono del CD o del DVD, regalano trial, programmini completi, fonts, immagini e quanto serve per poter realizzare una bella immagine colorata da poter usare sul sito web, sulla brochurina e quant’altro. Alcune sono dotate di recensioni di hardware per il caso: scanners, macchine fotografiche, videocamere ed ovviamente, software. Però, non sono riviste di grafica e design: sono riviste di tecnica. Sul sito di una società di corsi d’informatica vengono proposte alcune di queste riviste, tutte blasonate e facilmente trovabili in una qualunque edicola, che trattano abbondantemente dell’uso di software di computer graphic: sono ottime riviste di tutorial (anch’io ne ho comprate, cosa vi credete…) ed il loro costo è relativamente contenuto ed in linea con altri prodotti analoghi da edicola. Eppure esiste di più e, mi scuseranno gli 22

editori, di meglio: passano di solito in sordina perché in edicola non si trovano, raramente hanno bei colori e spesso sono “riviste” nel senso “non patinato” del termine: non ne esistono tante, ma quelle poche hanno una storia da raccontare, spesso decennale e sopra ci scrivono grandi nomi del design italiano ed internazionale, famosi architetti, artisti, professori universitari. Sono pubblicazioni che servono per aprire la mente di chi le legge e spesso parlano del perché più che del come si facciano le cose. La prima che cito è anche la più antica: Linea Grafica è stata fondata nel Dopoguerra da un gruppo di architetti ed artisti che avevano precedentemente collaborato ad una pubblicazione simile durata pochi numeri e poi chiusa a causa del secondo conflitto mondiale. La storia della

“...HANNO UNA STORIA DA RACCONTARE, SPESSO DECENNALE E SOPRA CI SCRIVONO GRANDI NOMI DEL DESIGN...”


rivista è di per se interessante, ancora di più gli argomenti trattati che spaziano in tutti gli ambiti delle arti grafiche, ma quello che la caratterizza è il manifesto programmatico del progetto editoriale, che la inquadra e ne detta le linee concettuali, quasi politiche per certi versi e che offre un quadro, un’interpretazione dell’idea di che cos’è la grafica oggi, nell’epoca moderna: Indichiamo la grafica come attività che colloca dunque dentro al sistema generale della progettualità orientata alle necessità dell’uomo. Per quanto articolata in numerosi settori e pur mostrando facce anche molto diverse, noi, che possiamo preferire di chiamarci autori o planner, designer o creativi, fotografi o illustratori, riconosciamo la nostra professione come un’attività unitaria. Così come ribadiamo l’unità della disciplina cui fa riferimento la cultura del grafico. Già da queste poche righe s’apprende un qualcosa che va al di là del semplice “saper fare”: si sale di livello ed incontriamo il concetto, il pensiero che in qualche modo colloca e da una posizione ad una

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figura professionale. L’AIAP ha ovviamente una sua pubblicazione, Progetto Grafico, nato dalle ceneri del bollettino dell’Associazione nel ’94 e convertito in rivista che nel suo primo editoriale si presentava affermando: “Oxggi le necessità di carattere informativo e di aggiornamento “leggero” hanno trovato nel sito e nella posta elettronica un efficace risposta, una soluzione efficiente agli annosi problemi di puntualità e servizio delle notizie. Mentre diventa determinante per l’associazione trovare strumenti propri per colloquiare in maniera qualificata e all’altezza con i contesti cui prima abbiamo accennato. Questo è il progetto e la finalità ultima di Progetto grafico. La nostra rivista dovrà diventare un appuntamento costante di riflessione, utile al socio e al professionista, ma anche alle scuole, alle università, agli istituti di cultura, alle istituzioni e alle pubbliche amministrazioni.” Promesse a tutti gli effetti mantenute: dalle sue pagine sia ha un quadro della professione che è reale e realistico, è uno strumento utile anche a livello di controllo sul-


le novità normative che vertono sul settore e vengono trattati e discussi argomenti interessanti, ma anche mostre, esposizioni e libri. Per chi volesse, l’AIAP si è recentemente dotata anche di un blog, SocialDesignZine che permette di leggere in breve di eventi e manifestazioni correlate all’Associazione e d’interagire con la redazione. Un’altra rivista che si muove su binari analoghi è quella patrocinata dalla Fondazione Ugo Bordoni, i Quaderni di Telèma, pubblicazione di gran lunga più recente, ma sicuramente altrettanto interessante per qualità e contenuti proposti: non si tratta di una rivista esplicitamente di grafica, ma abbraccia più ampiamente il mondo dell’ITC come in linea col suo editore. Tra i Quaderni si trovano spesso trattati argomenti di comunicazione e nuovi media, ma ad un livello nettamente superiore rispetto a quanto si possa trovare in rete. L’utilità di questa rivista è legata proprio all’analisi che fa della tecnologia e dell’impatto che essa ha sull’uomo nell’era moderna: informazioni queste necessa24

rie se si vuole essere capaci di analizzare ed adattare i messaggi ad un qualunque potenziale target di riferimento. In definitiva queste sono tre pubblicazioni di un livello superiore rispetto alle classiche riviste patinate di tutorial, ma esistono anche pubblicazioni che di fatto si muovono a cavallo tra questo e quel livello: sebbene incentrata sul mondo della grafica CAM e CAD e del modellato, molto interessante è anche 3DWorld, che più che esercizi da copiare mostra e tratta delle applicazioni reali dei software a livello non amatoriale. Questo post era incentrato esclusivamente sulle riviste cartacee, ma credo che sia giusto anche citare un paio di testate on-line: Master New Media (sebbene sia una pubblicazione di comunicazione e marketing piuttosto che di grafica); la rivista francese ètapes che tratta di design ed arti visive in generale. In fine segnalo i blog di Mauro Lupi, famosissimo SEO Master italiano, e di Nicola D’Agostino, web design ed articolista. Nicola D’Agostino


INTERVISTA

GUARDARE PENSARE PROGETTARE

Il complesso rapporto tra testo e immagine secondo l’esperienza di un grafico italiano e autore di successo: Riccardo Falcinelli

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na comune frequentazione della filosofia a fare da substrato alla conversazione. Circondati da libri. Accompagnati dalle note di un concerto non troppo rumoroso. Gli elementi sono stati sufficienti per fare di quest’intervista un’esperienza cognitiva significativa. Perché le neuroscienze possono insegnare qualcosa agli artisti e ai designer? Cosa significa progettare una copertina o una collana? Che futuro spetta all’e-book? Molte le domande e le possibili risposte, ma prima di tutto la consapevolezza che per fare bene il mestiere di designer bisogna essere bravi artigiani, avere una grande cultura alla spalle e il bisogno costante di nutrire la propria curiosità. La parola a Riccardo Falcinelli, art director di Minimum fax, ma soprattutto artigiano consapevole. 25

Qual è il tuo approccio alla progettazione? “È nel rapporto con il testo che la figura acquista senso e significato”, sono parole tue … Oggi viviamo nella società dell’immagine. È vero nel senso che non si sono mai prodotte, vendute e commercializzate tante immagini come oggi, però, è anche vero che possiamo interpretare e capire le immagini solo in relazione ad un discorso più ampio di conoscenze, di cultura, di emotività che fa parte del nostro bagaglio. Un’immagine non è automaticamente comunicativa: quando pensiamo (quindi anche quando guardiamo e quando progettiamo) lo facciamo in parte per immagini, ma pensiamo nella lingua alla quale apparteniamo. E questo rapporto con la lingua e con la scrittura, ma in senso più ampio con la cultura, è sempre presente nel dare significato alle immagini.


Non possiamo liberarci dal pensiero, dalle parole, dalla scrittura che interagendo con le immagini danno significati? C’è un esempio bellissimo di John Berger, in Ways of seeing, un libro degli anni Settanta, in cui l’autore mostra il quadro di Van Gogh con un campo di grano e i corvi che volano, girando pagina c’è scritto “questo è il quadro che Van Gogh ha dipinto prima di suicidarsi”. Una semplice didascalia per farti guardare il quadro sotto un’altra luce. Dietro l’atto di guardare c’è una mente che conosce secondo determinate regole; inoltre, le emozioni, il come queste ci riguardano e il come riguarderanno gli altri sono un altro aspetto fondamentale su cui poggia il guardare. Dietro i tuoi progetti c’è un sempre un artigiano consapevole che tiene conto di questa complessità: in che modo?
 Io sono per una visione profondamente umanistica delle cose: prima ci sono i pensieri, i ragionamenti, la cultura e poi c’è tutto il resto. La progettazione oggi passa per un mezzo molto efficace che è il computer; questo può e deve essere uno strumento che velocizza molti processi. Tuttavia, non si può prescindere dal continuare a progettare, prendere appunti, scarabocchiare, fare le foto... Il designer dovrebbe oggi es26

sere l’artigiano consapevole che riesce a fare in modo che tutti gli aspetti dalle progettazione vengano tenuti insieme. Oggi, però, molti designer utilizzano quasi esclusivamente il computer, con il risultato che vediamo in giro gli stessi prodotti, gli stessi oggetti, lo stesso stile. È una forzatura parlare di stile, quando sarebbe più onesto parlare di quello che Photoshop ci permette di fare. Poi c’è un altro aspetto di cui tenere conto. Oggi vediamo in giro tanto design molto decorativo, ma

Riccardo Falcinelli: autore del libro


Alcune pagine del libro Guardare Pensare Progettare

spesso si tratta di tanti begli effetti che si allontanano da quello di cui si sta parlando. Invece, è proprio ciò di cui stai parlando che dovrebbe contare. Purtroppo molti, soprattutto i più giovani, non sono consapevoli e tendono a considerare le immagini per la loro funzione decorativa. Eppure nulla di ciò che ci circonda è neutro, ogni immagine ha un punto di vista politico, economico, sociale. A proposito di computer: Macintosh vs Microsoft, Photoshop vs Illustrator … Come proseguiresti la lista delle grandi dicotomie? Ha per te un senso proseguirla? E da che parte stai?
 Ognuno ha il suo linguaggio e quindi troverà il software che gli permette di esprimersi meglio: non c’è una guerra tra software. Per quanto riguarda un confronto fra macchine, invece, il Mac rimane più efficiente. Forse perché all’origine è nato come computer per il design: i software sono stati pensati per quelle macchine e, quindi, le versioni per Mac offrono necessariamen27

te risultati più raffinati. Ad esempio?
 Ad esempio, ci sono caratteri, come tutte le font del 500-700, pensate per avere delle legature tra le lettere. La presenza di queste legature associate ad un carattere è solo corretto non solo da un punto di vista filologico, ma lo è anche da un punto di vista cognitivo, si è anche visto infatti che agevolano la lettura. Semplicemente: la versione di InDesign ed XPress per Mac ne tiene conto, la versione per Pc no (segno di come sia una versione adattata per un pubblico meno esigente). Guardare, pensare, progettare: in una parola, design. Come nasce il progetto di una copertina?
 Formarsi, ragionare, capire che di che tipo di libro si tratta sono dei passaggi fondamentali. Parlare molto con chi lavora il libro nella casa editrice: il direttore editoriale o l’autore, se è il caso i traduttori, i curatori. Documentarsi. Ad esempio, se è un titolo straniero che viene


tradotto è utile vedere come è stato trattato all’estero. Fatto questo si discute qual è il modo migliore per raccontare tutto al lettore in Italia, provando a percorrere diverse strade e discutendole insieme. Solo un approccio critico, di discussione, ti può portare ad una buona copertina, che arrivi ai lettori, aderendo al testo. La copertina e/o la collana che avresti voluto o vorresti progettare?
 Non lo dico. Per scaramanzia, potrebbe capitarmi di farla il prossimo anno. Hai recentemente scritto un libro, Guardare, pensare, progettare. Neuroscienze per il design sul quale non posso fare a meno di chiederti: perché proprio le Neuroscienze come terreno di confronto per il Design, su temi che hanno popolato tutta la riflessione filosofica da Platone in poi?
 Intanto perché c’è un entusiasmo per le Neuroscienze, anche se questo rischia di essere acritico e superficiale, dunque,

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pericoloso. Poi, perché le Neuroscienze stanno tirando fuori delle conoscenze su cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo, guardiamo, progettiamo: ora basta solo mettersi intorno ad un tavolo e ragionarci su per i prossimi 200 anni. Intendiamoci, non si tratta della scoperta dell’esistenza del neurone dell’arte, ma si tratta di capire ad esempio, in che modo la presenza e il funzionamento dei neuroni specchio possano incidere su modo in cui percepiamo, pensiamo, progettiamo. Un’ultima domanda, più frivola. Ebooks: “I hate them. It’s like making believe there’s another kind of sex. There isn’t another kind of sex. There isn’t another kind of book! A book is a book.” Lo ha detto Maurice Sendak in una splendida intervista sul Guardian. Tu che rapporto hai con l’e-book?
 L’e-book è il futuro su questo non ci sono dubbi, ma c’è un grande malinteso. L’e-book di cui si sta parlando oggi è un business di elettronica, non un business di cultura. Se si guardano bene i dati di


Amazon ci si accorge che sta mistificando e che i veri numeri del venduto riguardano le vendite dei Kindle e non dei libri: di fatto per un Kindle venduto (che costa circa 100 dollari) si comprano pochi (2,3,4: davvero pochi) libri a un dollaro. A mio avviso, la presenza reale e culturale di un evento è anche il volume di affari che esso muove e in questo caso il volume di affari mosso riguarda gli appassionati di novità elettroniche non i lettori. Quindi l’e-book è il futuro, ma non quello che ci stanno raccontando adesso?
 Stanno ‘vendendo’ come novità la possibilità di scegliere il carattere, di impaginare più grande o più piccolo: una cosa che ha senso per il romanzo dell’ottocento. Ma i libri non sono solo questo. Diciamoci la verità, sull’i-pad si legge meglio La Repubblica che molte altre cose… Studiarsi un libro di biologia, ad esempio, con tabelle, grafici, foto, testo su e-book è un’esperienza faticosissima. Anche perché la posizione che i concetti occupano nella pagina è un elemento fondamentale dello studio e della memo-

rizzazione. Non stupisce, quindi, che le grandi University Press americane non stiano producendo e-book. Analogamente faccio fatica ad immaginare oggi gli illustrati ad esempio della Taschen su e-book. Per ogni libro c’è una struttura visiva stabile consolidata che fa parte del contenuto di quel libro…
 In pratica. E, come ha detto Umberto Eco, nel libro “Non sperate di liberarvi dei libri”, l’e-book è solo un libro fatto in un altro modo. Quindi come ci sono il cartonato, il tascabile, la bibbia medioevale, oggi c’è anche l’e-book: un libro fatto in un altro modo. Se di futuro vogliamo parlare, questo è nel pdf evoluto: una struttura di impaginato elettronico che organizza le cose non come le vuole il grafico, ma come le immagina l’autore del libro. - See more at: http://www.mangialibri. com/interviste/intervista-riccardo-falcinelli#sthash.0gtthyvH.dpuf

Copertine create da Minimum Fax

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Norina Wendy Di Blasio


A cura di Valentina Ramaccioni 30


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