direttore luciano vanni luciano.vanni@jazzit.it caporedattore chiara giordano chiara.giordano@jazzit.it progetto grafico e impaginazione davide baroni grafica@vannieditore.com photo editor chiara giordano chiara.giordano@jazzit.it in redazione sergio pasquandrea sergio.pasquandrea@jazzit.it editore vanni editore srl info@vannieditore.com direttore responsabile enrico battisti pubblicità arianna guerin arianna.guerin@vannieditore.com abbonamenti arianna guerin abbonamenti@vannieditore.com sito web chiara giordano chiara.giordano@jazzit.it hanno scritto in questo numero fabio caruso, stefano franceschini, maurizio franco, paolo fresu, aldo gianolio, chiara giordano, simone graziano, vincenzo martorella , enrico merlin, eugenio mirti, sergio pasquandrea , ivano rossato, giovanni taglialatela , luciano vanni
Da Londra: stuart nicholson (tradotto da sergio pasquandrea) Da New York: ashley kahn (tradotti da sergio pasquandrea) hanno fotografato in questo numero andrea boccalini, daniela crevena , carlo mogavero, roberto polillo, barbara rigon, andrea rotili, francesco truono, luca vantusso, emanuele vergari crediti fotografici L’editore ha fatto il possibile per rintracciare gli aventi diritto ai crediti fotografici non specificati e resta a disposizione per qualsiasi chiarimento in merito foto di copertina © Andrea Boccalini stampa arti grafiche celori,
Terni
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Contents GUIDA AL JAZZ News 12 · Who’s Who: A Night at the Winery - Intervista a Ermanno Basso 16 · MIDJ (Musicisti italiani di jazz) 24 · IJI (Federazione nazionale Il Jazz Italiano) 25 · APPROFONDIMENTI Cover story: Roy Hargrove - Bop & Beyond 32 · Luca Aquino Le melodie soffiate 72 · Seamus Blake - Un americano a Parigi 78 · Cd story: Kósmos - Back Home 84 · 100 anni di Lennie Tristano - Genio misconosciuto del jazz 90 · Scrapple from The Apple: Carol Friedman - La musica e l’immagine 98 · Jazz & Culture: Jazz e letteratura poliziesca - Intervista a Franco Bergoglio 110 · ASCOLTI E LETTURE Records - Editor’s Picks 116 · Claudio Angeleri 122 · Ron Carter/Danny Simmons 124 · Amedeo Ariano 126 · Chick Corea/Christian McBride/Brian Blade 128 · MEV Trio 130 · Giovanni Guidi 132 · Eugenio Mirti 134 · Alessandro Lanzoni 136 · Shalosh 138 · Geoff Westley 140 · Un album del passato 144 · Un album del futuro 146 · Libri 150 · EDUCATIONAL Jazz Anatomy: Paul Desmond - L’Orfeo del jazz 154 · Music Business: Il management confidenziale - Intervista a Mario Guidi 160 · Professione musicista: L’agibilità 164 · CODA My Favorite Things: Cettina Donato & “A Passage Of Time” di Joshua Redman Quartet 172 · Three Wishes: Gaetano Partipilo - L’esperienza del viaggio 174 · Jazz Eat: A cena da Giuseppe Bassi - Count Basie, swing e panzerotti 176 · Turnaround 178 · Placebo di Mat (Mattia Franceschini) 184
editoriale confine
Con l’idea di confine ci siamo misurati fin da piccoli. Attraverso i confini abbiamo costruito la nostra prima relazione con i genitori e con l’ambiente domestico, con i giochi e con i libri, con le linee dei quaderni su cui scrivere le prime parole e con i disegni da colorare. Ogni nostra azione aveva un suo confine, fisico e mentale: dalla porta di casa, di cui era vietato il superamento, alla paura del buio, che ci auto-impediva l’attraversamento di ambienti pieni di mostri selvaggi. Il confine è stato il nostro primo strumento pedagogico, perché delimitava l’estensione delle nostre azioni e perché determinava le nostre prime regole di vita. Ma nonostante le nostre paure e la disciplina impartita dai familiari, siamo entrati nell’età dell’adolescenza attraverso il superamento di quei confini precedentemente rispettati: siamo usciti di casa da soli, abbiamo dormito senza i nostri genitori e abbiamo imparato l’esperienza di spingerci sempre oltre, rendendo possibile l’impossibile. Da allora, ogni confine, ci poneva una domanda: rispettarlo o superarlo? E poi abbiamo iniziato a osservare la cronaca e la storia, e i confini sono diventati racconti costruiti attorno a barriere di divisione dove si è combattuto e si è morti con una bandiera sulle spalle; linee non più immaginarie, ma di pietra e filo spinato, che hanno separato persone, lingue, monete, popoli e religioni, generando lacrime, marginalità, violenza e razzismo, culti e fanatismo. Fortunatamente la cultura, la musica e l’arte – quali espressioni della bellezza, della grazia, delle virtù e della creatività umana – ci hanno sempre offerto, per loro natura, una rappresentazione positiva della parola “confine”, secondo l’accezione latina di cum finis: ciò che al tempo stesso separa e unisce, che ha una fine e un nuovo inizio, che è un prima e un dopo; perché la storia delle espressioni artistiche ci racconta che il confine tra gli stili può rappresentare una preziosa opportunità di dialogo e di cambiamento, un ponte tra differenze (e non una barriera) e un processo di superamento (più che un limite). Tra le forme d’arte che più evocano una irresistibile spinta al superamento dei confini – geografici, culturali e stilistici – c’è il jazz, una musica che nelle sue ampie articolazioni riflette, fin dalle sue origini, l’idea del dialogo tra diversità e la piena affermazione della libertà d’azione attraverso il processo creativo dell’interplay e l’affrancamento dal testo scritto nello spartito. Ma anche il jazz può trasformarsi in un confine, fisico e mentale: lo è nelle parole di chi interpreta questa musica come una forma d’arte fatta di regole e codici; lo è in chi identifica il jazz come un “progetto” e come figlio esclusivo di bandi, concorsi, conservatori e accademie; lo è in chi non dialoga più con il presente storico, rifiutando l’ascolto del nuovo, ritenendolo ideologicamente poco interessante; lo è in chi pensa al jazz come a uno stile di vita, che poi diventa marketing. Il jazz sta vivendo una stagione di grande fascino, che ha a che fare con la parola “confine”: o prosegue nella sua separazione dal presente, confinandosi al ruolo subalterno di musica “assistita” e a debito dei contribuenti, quindi museale e a rischio estinzione, oppure riscopre l’istinto, il piacere e il desiderio del dialogo con i più giovani, ritrovando un po’ di sano sense of humor e rinnovando le proprie abitudini adottando nuovi suoni, nuove forme, nuovi luoghi, nuove pratiche e nuove forme comunicative. Quando Miles Davis, nella seconda metà degli anni Sessanta, smise i panni eleganti a favore di un mutamento nell’immagine hippie più al passo dei tempi, ci offriva consigli per affrontare il futuro: alzare le antenne dritte al cielo, e cambiare, per rendere possibile l’impossibile. E la sfida impossibile dei nostri giorni è di tornare ad affascinare il pubblico delle nuove generazioni. Oltre il confine. Luciano Vanni
Guida al
DI CHIARA GIORDANO
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news JAZZ ICONS OF THE '60S
ROBERTO POLILLO IN MOSTRA A MILANO © ROBERTO POLILLO
ci dice, «presento una collezione di fotografie realizzate negli anni Sessanta: una dozzina in grande formato (105cm x 70cm) e le altre in formato più piccolo (30cm x 45cm). Si tratta di stampe digitali che hanno richiesto un’operazione molto sofisticata: sono partito dalla scansione dei negativi con uno scanner a tamburo, per ottenere file pesanti, circa un gigabyte, e poi ogni immagine è stata trattata in post produzione da Marianna Santoni, per poi arrivare a una stampa il cui risultato finale è realmente paragonabile a quello analogico. La selezione delle opere esposte è stata affidata a Francesco Martinelli, perché volevo che fossero altri occhi e altre sensibilità a operare questa scelta. Sono immagini che ho visto migliaia di volte e le considero parte della mia vita, come fossero dei figli». Il racconto prosegue in un intreccio di ricordi e aneddoti: «Per certi versi quelle fotografie rappresentano un mondo che non c’è più. Emotivamente, quando ci penso, mi mangio le mani perché avrei potuto fare molto di più. Ma ero autodidatta, giovane e un po’ timido, e mi muovevo all’ombra di mio papà, Arrigo, che aveva un carattere mol-
WOODY HERMAN E ARRIGO POLILLO
to più esuberante del mio e che aveva stabilito un rapporto di amicizia con molti di quei musicisti che arrivavano in Italia. Non avevo altri desideri se non di realizzare delle immagini che rappresentassero la musica: non mi interessava catturare lo scatto curioso del musicista, ma ero alla ricerca del momento in cui improvvisavano e di quell’istante dell’azione creativa. Ricordo che, all’indomani del concerto, guardavo i negativi con mio papà. Lui era molto istintivo, non era una persona che meditava a lungo, e generalmente sceglieva l’immagine di getto, direttamente dai provini, dando anche l’indicazione dei tagli che gli interessavano di più per la fase di stampa. Mio padre amava i primi piani». E ora quelle immagini, quegli istanti creativi, e quei primi piani, tornano a scaldare il cuore di chi ama il jazz in una mostra che racconta le icone degli anni Sessanta.
In occasione della quarta edizione del festival di Milano JAZZMI, è stata inaugurata la mostra fotografica di Roberto Polillo dal titolo Jazz Icons of The ‘60s: un evento di valore storico e artistico organizzato in collaborazione con Noema Gallery e promosso presso lo spazio Après-Coup per ricordare il padre Arrigo nel centenario della sua nascita. Le opere saranno esposte fino al 10 gennaio 2020. Roberto Polillo da anni collabora con Jazzit mettendo a disposizione dei nostri lettori il suo straordinario archivio fotografico: lo distingue, oltre il talento, una gentilezza, una timidezza e una generosità d’altri tempi, ed è quindi sempre un piacere e un privilegio poter dialogare con lui. «In mostra, a Milano»,
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NAT KING COLE A CENTO ANNI DALLA NASCITA
LE CELEBRAZIONI IN CASA RESONANCE In occasione del centenario della nascita di Nat King Cole, il 1 novembre esce “Hittin’ The Ramp: The Early Years (1936-1943)”, la raccolta delle prime registrazioni dell’artista pubblicata dalla Resonance Records. Molte tracce escono ufficialmente per la prima volta in questa antologia restaurata di registrazioni originali dal vivo, che comprende 10 LP da 180g limited edition e 7 CD deluxe, per un totale di oltre 180 tracce, con un ampio libretto di 56 pagine contenente foto rare e saggi storici.
BLUE NOTE RECORDS - BEYOND THE NOTES
UN FILM PER L’OTTANTESIMO ANNIVERSARIO In occasione dell’ottantesimo anniversario della Blue Note Records, il 6 settembre è uscito il DVD/BluRay del pluripremiato documentario Blue Note Records - Beyond the Notes: realizzato dalla regista Sophie Huber e prodotto dalla Mira Film, il film è stato presentato in anteprima al Tribeca Film Festival nel 2018 e da allora è stato proiettato in oltre cinquanta festival cinematografici internazionali e ha avuto rappresentazioni teatrali di successo a New York, Los Angeles e Londra.
WHO’S WHO
A NIGHT AT THE WINERY
Intervista a Ermanno Basso DI LUCIANO VANNI
Ermanno Basso è uno dei produttori discografici jazz più affermati su scala internazionale, capace di rendere la CAM Jazz, di cui è direttore artistico fin dalla sua fondazione del 2000, una delle più significative case discografiche indipendenti degli ultimi venti anni. Alcune delle sue produzioni sono state nominate ai Grammy: “What Now?” di Kenny Wheeler (2006), “Viva” di Diego Urcola (2008), “1000 Kilometers” degli Oregon (2008), “Live At The Village Vanguard” (2009) di Martial Solal e “Bad Hombre” (2017) di Antonio Sanchez. Oggi lo intervistiamo per saperne di più del recente programma di registrazioni tematiche: quelle della serie A Night at the Winery.
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© ELISA CALDANA FRANCESCO BEARZETTI E FEDERICO CASAGRANDE Live presso la cantina Abbazia di Rosazzo, giugno 2017
TRA TALENTO, DISCIPLINA E NUOVE SFIDE Ermanno Basso è una figura di grande talento e fascino, e rappresenta appieno la figura del produttore discografico 4.0: curioso, amante delle sfide, affascinato dal mondo dei giovani (da qui l’idea della collana Cam Jazz Presents) e delle nuove tecnologie applicate al music business. Parlando con lui attraversiamo un bel pezzo di storia della musica del nostro tempo con cui ha stretto collaborazioni professionali e sincera amicizia (da Armando Trovajoli a Paul Motian, da Ralph Towner a Kenny Wheeler) e scopriamo una persona dai mille interessi (tra motori e buon vino) e dalla capacità di emozionarsi ancora per nuovi incontri, nuove sfide e quegli assolo di profonda bellezza, ispirazione e intensità che ancora emergono dalle incisioni Cam Jazz. Ermanno porta con sé la riservatezza e l’understatement di stampo sabaudo, che proviene dal suo DNA piemontese, ma anche l’umorismo, la gioia di vivere e la goliardia del suo essere romano; e poi la disciplina, il rigore e quella grande applicazione nel lavoro che lo ha portato sempre di più a lavorare e vivere in Friuli Venezia Giulia, dove – non a caso – nasce la nuova collana discografica tematica che prende il nome di A Night at the Winery.
DAI DISTILLATI AL VINO «Tutto ha inizio nel 2015 da una notizia di cronaca che mi colpisce: l’istanza di fallimento della distilleria friulana Domenis, una società attiva da oltre un secolo a Cividale del Friuli e che ha sempre rappresentato un’eccellenza della regione e del nostro paese. Ne parlo con Stefano Amerio (ingegnere del suono e titolare dello studio Artesuono, dove viene registrata buona parte della produzione CAM Jazz, NdR) e decidiamo di saperne di più e di mobilitarci con l’organizzazione di un festival per offrire loro un sostengo e un contributo». Ermanno e Stefano non avevano conoscenze dirette alla Domenis, ma è Amerio a suggerire di contattare Elda Felluga, contitolare dell’azienda vitivinicola Livio Felluga. «Chi conoscevamo alla Domenis? Nessuno. E allora chiamiamo Elda Felluga. Non l’avevo mai conosciuta direttamente ma compravo i loro vini. L’abbiamo chiamata e ci fornì i riferimenti della Domenis e una settimana dopo ci troviamo assieme per una cena, anche perché Stefano ed Elda avevano già maturato assieme l’idea di registrare un disco in cantina. Fu in occasione di quella cena che nasce l’idea di un programma di registrazioni in cantina. Ne parlo con Francesca e Agostino Campi, titolari della CAM Jazz: l’idea piace anche a loro e mi invitano ad andare avanti». In quella cena a tre tra Ermanno, Elda e Stefano prende corpo il progetto A Night at the Winey. «Scoprimmo che avevamo molto in comune e si accese magicamente quel fuoco sacro di mettersi all’opera. Volevamo coinvolgere più cantine dei colli orientali del Friuli e in un arco temporale di diciotto mesi abbiamo costruito una serie di sopralluoghi, accordi e amicizie che hanno confermato la bontà dell’idea. Saranno cinque le cantine che accoglieranno il primo ciclo di registrazioni: Livio Felluga, con cui organizzeremo due concerti, uno in barriccaia e uno nell’Abbazia di Rosazzo, Bastianich, Venica & Venica, Le Due Terre e Jermann».
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WHO’S WHO
CIAK, SI PARTE Il format è assai audace e affascinante: realizzare vere e proprie session di registrazione all’interno di cantine vitivinicole come se si fosse in studio. Nell’estate del 2017 nascono le prime sei registrazioni che coinvolgeranno un bel gruppo di musicisti tra cui Enrico Pieranunzi, Claudio Filippini, Andrea Lombardini, U.T. Gandhi, Bruno Chevillon, Michele Rabbia, Gabriele Mirabassi, Robert Taufic, Francesco Bearzatti, Federico Casagrande, Michele Campanella e Javier Girotto. «Visitando queste straordinarie cantine, ci siamo immediatamente resi conto che erano luoghi esclusivi e allora nasce in noi il desiderio di costruire un’esperienza che andasse oltre l’idea stessa del concerto ma che fosse un avvenimento e un qualcosa di assimilabile a uno spettacolo. Insomma, qualcosa che potesse diventare un’esperienza unica. Da qui l’idea di portare in cantina un pubblico, non più di venti o trenta unità, e mettere assieme vino, musica, bellezza, convivialità e arte. E far partecipare il pubblico a un evento unico, una registrazione di un disco, come se si fosse in studio, e non un vero e proprio concerto». Nelle parole di Ermanno, che scorrono a fiumi, è evidente quanto questa nuova collana discografica lo abbia coinvolto e appassionato. Gli chiediamo di raccontarci un aneddoto che più gli è rimasto nel cuore. «Con Michele Rabbia abbiamo praticamente messo in piedi un’istallazione sonora prima di ogni concerto. In occasione del cin cin di benvenuto, la performance di Michele – due volte in coppia con U.T. Ghandi – era un po’ l’occasione per far conoscere il mondo nostro sonoro e artistico. Gli ospiti venivano fotografati da Elisa Caldana e al termine della serata venivano stampate delle foto ricordo. Michele non aveva mai fatto un sopralluogo. Lui girava la cantina, prendeva il bicchiere e metteva in circolo la musica in relazione con la terra della vigna, le botti, le scatole di legno dove si mettono le bottiglie ma anche le attrezzatura di lavoro in campagna. Michele ha manipolato il suono dell’imbottigliamento del vino di Bastianich e da Jermann abbiamo costruito un’installazione artistica e sonora con una pioggia di migliaia di palline di ping pong».
MUSICISTI, FONICI ED ENOLOGI Sul fronte della produzione, la Winery Series genera un’infinita sequenza di problemi tecnici proprio perché la session di registrazione viene introdotta in un delicatissimo ambiente. C’è quindi il bisogno di costruire un team specifico, di grande esperienza e competenza professionale ma al tempo stesso sensibile e capace di relazionarsi con un’esperienza così particolare. A fianco di Ermanno Basso (di fatto il produttore e coordinatore artistico) e Stefano Amerio (ingegnere del suono), operano Paula Jo Mastrobuono (coordinamento e produzione esecutiva Cam Jazz) ed Elisa Caldana (fotografa), oltre a un insieme di altri tecnici. «Dovevamo selezionare strumenti e suoni, perché una chitarra avrebbe fatto vibrare il vino, esponendolo a una modifica del suo ciclo di vita. Così alla fine ho messo insieme sei differenti progetti musicali, con strumentazioni che potevano coesistere con gli ambienti che le aziende ci avevano messo a disposizione. Altra decisione importante è stata quella di usare, seppur minimale, una illuminazione a Led per non scaldare e per non alterare il microclima della cantina. Ogni giorno era una sfida diversa, anche solo per arredare lo spazio e farlo assomigliare a un palco per concerti».
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© ELISA CALDANA ERMANNO BASSO E STEFANO AMERIO
TO BE CONTINUED Il 25 maggio 2018 è il giorno della conferenza stampa presso il Conservatorio di Musica Tomadini di Udine ed è subito un successo, nazionale e internazionale, ben recepito da stampa specializzata e non.
«Ci sono stati appassionati che hanno acquistato tutti e sei i cd. Ampliamento di mercato, persone che hanno apprezzato il jazz» L’appetito vien mangiando, perché altre cantine, altri musicisti e soprattutto il pubblico richiede una continuità al progetto. Ed ecco una seconda edizione, che viene documentata dal vivo a giugno 2018 e che esce in distribuzione internazionale nel maggio 2019. «Cosa è cambiato? L’esperienza con i luoghi - tre vecchi (Felluga, Venica & Venica e Le Due Terre) e tre nuovi (Tonutti, Le Vigne di Zamò e Gravner) – e l’idea di sonorizzare video realizzati negli anni Quaranta e Cinquanta che parlano di vigna e di campagna. In occasione di ciascuna registrazione in cantina, abbiamo proiettato lo stesso video di otto minuti che racconta le quattro stagioni di vita della vigna e abbiamo coinvolto il Conservatorio di Musica Jacopo Tomadini di Udine, grazie alla disponibilità del direttore Virginio Zoccatelli e del direttore del Dipartimento di Jazz, il pianista Glauco Venier: prima di ogni nuova registrazione gli allievi del conservatorio hanno potuto sonorizzare il video in bianco e nero. Ovviamente c’è ancora forte il desiderio di andare avanti e di esplorare nuovi territori, nuove cantine, nuove aziende e nuove famiglie di viticoltori»
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LA RICERCA DI UNA VISIONE COMUNE di Simone Graziano (presidente dell’associazione Midj)
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idj, l’associazione nazionale dei musicisti di jazz, nasce nel 2014 proprio da una visione di Ada Montellanico: riunire sotto un unico tetto il complesso e variegato mondo dei musicisti di jazz. Da allora a oggi possiamo dire di aver fatto di tutto, sia in ambito promozionale sia istituzionale. I numerosi bandi che abbiamo creato hanno avuto una funzione centrale nel sistema del jazz italiano: colmare una lacuna istituzionale. Prima che esistesse Midj non c’erano possibilità alcune per i musicisti di andare all’estero in residenza artistica interamente pagata o di stare quattro giorni in residenza con musicisti francesi alla Casa del Jazz o ancora, portare i propri gruppi in tour per i festival europei e italiani. Midj ha dimostrato come un’associazione con qualche centinaio di iscritti sia capace non solo di dialogare col mondo istituzionale ma soprattutto di dare vita a decine di iniziative in grado di attivare un intero sistema altrimenti abbandonato. Bene ricordarsi tale premessa per capire ciò che segue. I bandi Abiy Ahmed Ali, premier Etiope, neo premio Nobel che abbiamo creato in questi anni sono stati dei grandi successi in termini di adesioni, e ciò conferma il bisogno che il sistema ha di supporto all’attività artistica. In particolare gli ultimi due, Air e NGJ (in partenariato con I-jazz), hanno avuto nel complesso 270 iscrizioni, e se sommiamo le 114 di Esplorazioni arriviamo quasi a 400. Se ci fermassimo all’analisi numerica potremmo facilmente sostenere che Midj gode di ottima salute, dato che in sei anni di esistenza l’associazione non ha mai avuto un così alto numero di iscritti. Ma l’analisi non può terminare qui: in questi sedici mesi di presidenza ho avuto l’onore di poter parlare con una miriade di musicisti e ricevere un altrettanto numero di e-mail. Il tema di fondo è il malcontento. Pur riconoscendo a Midj un ruolo di straordinario veicolo di dialogo con le istituzioni, le problematiche sollevate sono molte: i musicisti under 30 sono scontenti perché non li valorizziamo come dovremmo, i musicisti under 45 sono scontenti perché la gestione dei bandi, nell’eventualità che si vinca, non ha condizioni professionali degne, i musicisti over 50 sono profondamente delusi perché le iniziative promosse non li riguardano. In estrema sintesi, sono tutti “incazzati”. Al di là del merito delle singole problematiche sovraesposte, c’è un dato che emerge fortissimo: i bandi creano aspettative che vengono nella grande parte dei casi disattese, o peggio non prese proprio in considerazione. Preso atto di questa situazione, ho deciso insieme al direttivo di Midj che il modo migliore per affrontarla sia indire un’assemblea nazionale dove tutti i musicisti iscritti e non, potranno avanzare delle proposte concrete per migliorare la situazione. Il 17 novembre 2019 alla Casa del Jazz di Roma faremo l’assemblea: sarà a porte chiuse, nessuna diretta Facebook, Instagram o YouTube, chi vuole dovrà venire a Roma per parlare o ascoltare cosa si sta facendo in Italia in questo momento. Trovo stimolante che si generi un movimento di riflessione e di analisi sull’operato di Midj, affinché si possa ricercare una visione che accomuni tutti i musicisti al di là del tornaconto più o meno immediato che si può ricevere dai bandi. Per me questa visione starà nel perseguire in futuro delle battaglie di sistema, ovvero riguardanti tutti i musicisti al di là delle distinzioni anagrafiche. E le due grandi azioni di sistema che vedo all’orizzonte su cui dovremo concentrarci saranno la creazione di un export office e la modifica del sistema previdenziale. Vi aspetto il 17 novembre. Un abbraccio a tutti
«Se non ci sarà un futuro, sarà perché non siamo stati in grado di immaginarlo»
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IL SUONO CONDIVISO DI UNA GRANDE ORCHESTRA di Paolo Fresu (presidente della Federazione nazionale Il Jazz Italiano)
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a Federazione nazionale Il Jazz Italiano nasce il 13 febbraio del 2018 con l’intento di coagulare e rafforzare il nostro jazz. Dopo l’esperienza dell’AMJ (Associazione musicisti di jazz) degli anni Ottanta e Novanta, nel febbraio del 2008 vede la luce IJazz in rappresentanza dei festival e delle rassegne e, nel marzo del 2015, Midj a rappresentare la voce della grande famiglia dei musicisti italiani. È grazie a queste due associazioni che, con l’insediamento presso il MiBACT del ministro Dario Franceschini, il jazz entra a pieno titolo nel programma culturale del nostro paese, partecipando attivamente alla costruzione del suo percorso artistico e creativo. Per la prima volta nella storia della Repubblica, un ministro chiede pubblicamente scusa al mondo del jazz per l’assenza istituzionale di questi decenni e colloca coscientemente il nostro idioma in un luogo di rilievo quale genere fondamentale nel già ricco panorama musicale. È questo virtuoso dialogo a dare il via a una serie di progetti e di attività tra le quali il bando strutturale per il jazz che, nell’arco di tre anni, ha finanziato progetti nazionali con un totale di circa due milioni di euro. Inoltre, diverse azioni sistematiche come l’International Jazz Day dell’Unesco e progetti di rete che hanno coinvolto numerose città italiane e valorizzato luoghi come borghi o stazioni ferroviarie in progetti sinergici legati al jazz oltre alla opportunità di fare parte dei tavoli di discussione intorno al tema delle leggi e dei decreti sullo spettacolo. Ma è stata forse l’occasione dell’Aquila a saldare ancora meglio questo rapporto a dimostrare la dinamica virtuosità del jazz italiano. Nata da un invito del ministro, in cinque anni abbiamo portato nel capoluogo abruzzese e negli altri territori colpiti dal sisma (tra cui Amatrice, Camerino, Scheggino, Norcia, Ussita, Castelluccio, Accumoli e altri) circa 3.500 musicisti, costruendo forse uno dei più grandi eventi mondiali legati al jazz e alla solidarietà. Nell’arco di una sola giornata centinaia di artisti, direttori di festival, fotografi, giornalisti, tecnici e appassionati hanno contribuito al successo di una manifestazione che, oltre a portare vitalità nei centri colpiti e contribuito alla
costruzione di un centro polivalente nella città di Amatrice, ha offerto a noi stessi la possibilità di contarci e di guardarci negli occhi come mai era accaduto prima. La storia del jazz italiano si divide tra un “prima” e un “dopo” L’Aquila intendendo un cambiamento storico nelle coscienze e coinvolgendo partner di rilievo come la Siae e il Nuovo IMAIE (Istituto mutualistico artisti interpreti o esecutori). Realtà con le quali abbiamo potuto sviluppare importanti progetti tra cui il bando di residenze internazionali AIR scritto da Midj e l’apertura del tavolo di discussione sul diritto di improvvisazione oltre a importanti progetti di promozione, in Italia e all’estero, dei talenti italiani attraverso il progetto Nuova Generazione Jazz, nonché uno showcase alla European Jazz Conference, incontro annuale di Europe Jazz Network, ospitato per la prima volta in Italia a Novara in collaborazione con I-Jazz. Ma risulterebbe riduttivo citare solo alcuni dei goal collezionati in questi pochi anni seppure, disquisendo di sport, non possiamo non citare la Nazionale dei jazzisti frutto anch’essa di questo percorso. Il 21 febbraio 2018, solo dopo una settimana dalla nascita, la federazione – oggi composta da ben sette associazioni di respiro nazionale in rappresentanza dei musicisti (Midj), festival e rassegne (IJAZZ), jazz club (IJC), etichette discografiche (ADEIDJ), agenzie (IJN), fotografi (AIFIJ) e didattica/scuola/infanzia (IJVAS) – firma con il Ministero un Protocollo d’Intesa in dieci punti che sancisce delle nuove politiche di sostegno al jazz italiano, secondo impegni reciproci che ribadiscono il profondo significato del linguaggio afroamericano quale valore fondamentale nella cultura italiana e contemporanea. A poco più di un anno e mezzo dalla nascita, IJI è solo all’inizio del suo percorso laddove quello creativo e artistico ci sta ovviamente particolarmente a cuore. Se la musica resta l’epicentro delle nostre scoperte non possiamo altresì dimenticare gli anni bui delle battaglie individuali sui temi del lavoro e della dignità dell’artista. Battaglie che sembrano non avere portato a grandi risultati se non nel contribuire a un progressivo svuotamento delle coscienze oltre che a guardinga visione di sé stessi e degli altri
«Se il jazz italiano crescerà ancora questo sarà l’indistinto merito di tutti e non di uno. Perché le più belle orchestre della storia sono composte da grandi solisti e da straordinari gregari. Per un suono unico, indimenticabile e riconoscibile come quello del jazz italiano che tutti ci invidiano nel mondo»
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Appr diment
rofond ti
BOP & BEYOND L'ETICHETTA CHE PIÙ FACILMENTE SI SENTE APPLICARE A ROY HARGROVE È QUELLA DI “NEO-BOPPER”. E SENZ'ALTRO CONTIENE UNA PARTE DI VERITÀ, PERCHÉ NELLA SUA TROMBA RISUONAVA LA LEZIONE DEI GRANDI TROMBETTISTI HARD BOP. MA ALLO STESSO TEMPO È RIDUTTIVA, PERCHÉ HARGROVE ERA UN MUSICISTA COMPLETO: DOTATO DI UNA TECNICA PERFETTA, ABILE NELLE BALLAD, BANDLEADER AUTOREVOLE, CAPACE ARRANGIATORE E – LAST BUT NOT LEAST – APERTO AI SUONI DELLA CONTEMPORANEITÀ, CHE ESPLORÒ CON IL GRUPPO DEGLI RH FACTOR. SCOMPARSO NEL NOVEMBRE 2018 A SOLI QUARANTANOVE ANNI, HARGROVE HA LASCIATO UN VUOTO INCOLMABILE NEL MONDO DEL JAZZ, CHE LO RIMPIANGE COME MUSICISTA E COME UOMO DI SERGIO PASQUANDREA
© ANDREA BOCCALINI
COVER STORY
ROY HARGROVE
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PRODIGIO DELLA TROMBA
RITRATTO DA GIOVANE (1969-1994) NATO A WACO, IN TEXAS, NEL 1969, ROY HARGROVE CRESCE A DALLAS, DOVE FA I SUOI STUDI MUSICALI. DOPO AVER INIZIATO A SUONARE LA TROMBA A NOVE ANNI, SI AFFERMA PRESTO COME UN ENFANT PRODIGE, TANTO DA VENIR NOTATO DA WYNTON MARSALIS A NEMMENO DICIOTT'ANNI. NEL 1990 FA IL SUO ESORDIO DA LEADER CON “DIAMOND IN THE ROUGH” (NOVUS)
DI SERGIO PASQUANDREA
DALL'HARD BOP AL NU SOUL Quando, il 2 novembre 2018, si diffuse la notizia della scomparsa di Roy Hargrove, il mondo del jazz reagì con stupore misto a incredulità. Certo, molti avevano notato che, da qualche anno in qua, le apparizioni del trombettista si erano diradate. Dopo il fortunato progetto degli RH Factor (2003-2006) e le collaborazioni con artisti come D'Angelo, Erykah Badu, Q Tip e Meshell Ndegeocello, Hargrove era comparso sempre più raramente sia dal vivo sia su disco (l'ultimo titolo a suo nome era il progetto orchestrale “Emergence”, del 2009). Qualcuno aveva sentito parlare di problemi personali; i più informati sapevano che da tempo Roy combatteva con una grave malattia congenita; chi l'aveva visto suonare l'aveva trovato spesso stanco, precocemente invecchiato; ma nessuno si aspettava che ci lasciasse così all'improvviso, a soli quarantanove anni. Roy Hargrove è stato una stella tanto luminosa quanto tragicamente breve nel cielo del jazz. Cresciuto in Texas, emerso a poco più di diciott'anni dopo essere stato scoperto nientemeno che da Wynton Marsalis, si affermò come il legittimo erede dei grandi trombettisti hard bop – Clifford Brown, Donald Byrd, Freddie Hubbard, Lee Morgan, Woody Shaw – dei quali riproponeva lo stile insieme focoso e sofisticato, con forti radici nella tradizione nera. Ma Hargrove seppe anche aprirsi ai suoni della contemporaneità, dall'hip hop al nu soul, com'è naturale per un ragazzo cresciuto negli anni Settanta e Ottanta. Con l'approssimarsi del primo anniversario della sua morte, cerchiamo di ripercorrere la carriera di un musicista che tanto avrebbe potuto ancora dare al jazz contemporaneo.
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ROY HARGROVE
RAY CHARLES E DAVID “FATHEAD” NEWMAN
DALLAS Roy Anthony Hargrove nasce il 16 ottobre 1969 a Waco, una cittadina nella parte orientale del Texas. Nove anni dopo, la sua famiglia si trasferisce nella vicina Dallas, e proprio in quel periodo Roy comincia a interessarsi alla tromba. Il suo primo strumento è una vecchia cornetta appartenuta al padre, che in gioventù era stato un musicista dilettante (Roy avrebbe voluto un clarinetto, ma in casa non c'erano i soldi per comprarlo). Oltre alla collezione paterna di dischi, le sue prime influenze sono il gospel, ascoltato in chiesa la domenica, e il funk, che gli arriva dalla radio. Ben presto, comunque, la tromba comincia ad appassionarlo: a sedici anni – pur essendo, secondo le sue stesse parole, capace di suonare «solo un po' di blues» – è già abbastanza bravo da iscriversi alla Booker T. Washington High School for the Performing and Visual Arts, un liceo specializzato nel settore artistico, che vanta una tradizione prestigiosa: fondato nel 1892, fu anche la prima scuola a Dallas aperta agli afroamericani; fra i suoi diplomati, si contano le cantanti Norah Jones, Edie Brickell ed Erykah Badu. In effetti, il Texas non è tra gli stati americani più rinomati per il jazz (mentre è notoriamente una fucina di talenti blues, tanto da aver dato il nome a un particolare stile, il “Texas blues” per l'appunto), ma può vantare nomi illustri come Booker Ervin, Harold Land, Charles Moffett, Dewey Redman, Horace Tapscott, Jack Teagarden, Teddy Wilson, oltre all'importante scuola sassofonistica dei “Texas tenors”, quella di Arnett Cobb, Illinois Jacquet, Buddy Tate e David “Fathead” Newman. Proprio a quest'ultimo, e in particolare a una visita presso il suo liceo, Hargrove attribuì una parte importante nella sua scelta di dedicarsi al jazz.
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«Quando ascoltai Clifford per la prima volta fu il suo suono a colpirmi. Il calore del suono e la voce che aveva. All'inizio pensavo: “Ma questa è davvero una tromba? È proprio una tromba?”. Perché nella mia esperienza, fino ad allora, il suono della tromba era forte e acuto. Ero abituato a suoni forti, da ottone»
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CLIFFORD E FREDDIE Un'altra influenza fondamentale è – strano a dirsi – il preside della scuola, il quale, appreso che Hargrove non aveva mai ascoltato Clifford Brown, lo porta nel suo ufficio e glielo fa apprezzare per la prima volta. «Quando ascoltai Clifford per la prima volta», ha raccontato in un'intervista del 1996 per All About Jazz, «fu il suo suono a colpirmi. Il calore del suono e la voce che aveva. All'inizio pensavo: “Ma questa è davvero una tromba? È proprio una tromba?”. Perché nella mia esperienza, fino ad allora, il suono della tromba era forte e acuto. Ero abituato a suoni forti, da ottone. Ascoltavo suonare Clifford e sentivo soltanto suoni dolci. Pensavo: “Wow, non sapevo che la tromba potesse fare queste cose”. Era andato oltre i limiti dello strumento. Era un musicista completo. È qualcosa che cerco di fare anch'io. Ma l'artista che mi ha davvero sconvolto quando lo sentii è stato Freddie Hubbard. Per me, incarnava lo stesso stile classico di Clifford, “Fat Girl” (Fats Navarro. NdR) e Lee Morgan, con in più un suono contemporaneo».
CLIFFORD BROWN
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ROY HARGROVE
Impressionato dall'abilità di Roy, Marsalis lo invita a unirsi alla sua orchestra per suonare presso il Caravan of Dreams Performing Arts Center di Fort Worth. Lì, il giovanissimo trombettista si esibisce davanti a maestri come Bobby Hutcherson, Herbie Hancock, Frank Morgan, Buster Williams e Al Foster
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WYNTON MARSALIS Un altro incontro importante è quello con Wynton Marsalis, che nel 1987 tiene un seminario per gli studenti della scuola: «La prima volta che lo sentii», ha scritto Wynton ricordando il collega subito dopo la scomparsa, «mi fu chiaro che era un assoluto talento naturale, con un orecchio fenomenale, una gran memoria e un'eccezionale destrezza sullo strumento». Nella stessa occasione, Hargrove conosce Larry Clothier, che sarebbe rimasto il suo manager per il resto della carriera. Clothier ha ricordato che Marsalis, impressionato da quel giovanotto, gli aveva detto: «Man, ho sentito questo ragazzino oggi, che diventerà un fenomeno. No, mi sbaglio, quel ragazzino è un fenomeno già oggi». Più tardi, Wynton aveva invitato Hargrove a suonare con lui in una jam-session: «[Roy] se ne stava con la testa fra le spalle e gli occhi fissi al pavimento. Wynton disse: “Vuoi suonare qualcosa?”, e lui sembrò rimpicciolirsi, guardò in basso e annuì. Io pensai: accidenti, questo ragazzino è spaventato a morte. Ma quando arrivò il suo turno, potevi vederlo tirarsi su ed espandersi. Ed era proprio come aveva deto Wynton: era un fenomeno». Impressionato dall'abilità di Roy, Marsalis lo invita a unirsi alla sua orchestra per suonare presso il Caravan of Dreams Performing Arts Center di Fort Worth. Lì, il giovanissimo trombettista si esibisce davanti a maestri come Bobby Hutcherson, Herbie Hancock, Frank Morgan, Buster Williams e Al Foster. Hargrove ha anche l'occasione per fare la sua prima tournée europea insieme a Marsalis, con il quale si esibisce in Olanda, al North Sea Jazz Festival.
WYNTON MARSALIS
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© FRANCESCO TRUONO
DIFFERENT KINDS OF BLUES DAL TEXAS A NEW YORK
«Io sono del Texas, e i musicisti texani sono molto basati sul blues, mentre in genere i jazzisti “puri” hanno uno stile più be bop. Dipende anche di quale parte del Texas sei, perché dalle mie parti, nella zona di Dallas, siamo perlopiù trombettisti o altosassofonisti, mentre intorno a Houston ci sono molti batteristi o suonatori di ottoni più gravi, come il trombone, o di sax baritono, o tuba. A Houston hanno anche uno stile più avanzato, sono sempre basati sul blues ma suonano più out, come Frank Lacy. Ma anche Ornette Coleman, alla fine, suona il blues. C'è sempre il blues dentro, da qualche parte. A New York, per esempio, hanno un approccio al blues più intellettuale, più basato sulle progressioni di accordi. Ma si tratta sempre di blues. In zone diverse hanno diversi modi di esprimerlo. [...] A New York la vita ha un ritmo veloce e questo rende la musica diversa, più basata sul suonare linee melodiche che si muovono velocemente su accordi molto fitti. Tutto succede in fretta, se perdi un passaggio non ti ritrovi più, così come a New York, se giri l'angolo sbagliato, ti ritrovi nella strada sbagliata. [...] Ma poi la cosa interessante è proprio mescolare musicisti che vengono da luoghi diversi e che hanno approcci diversi alla musica. È come quando cucini e mescoli i diversi ingredienti: allo stesso modo, se hai un musicista del Midwest, uno del Sud, uno di New York, e li metti insieme, viene fuori un sapore diverso, un altro magnifico esempio di come la musica può infrangere le barriere della comunicazione». (intervista per Jazzit n. 36, settembre-ottobre 2006).
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ROY HARGROVE
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NEW YORK
BOSTON, NEW YORK Durante gli anni del liceo, Roy Hargrove si era già fatto un nome come uno dei migliori trombettisti della zona e aveva avuto occasione di accompagnare più volte i musicisti di passaggio per Dallas. Logica, quindi, la scelta di trasferirsi, subito dopo il diploma, a Boston per iscriversi al Berklee College of Music. In realtà, la permanenza al Berklee durerà appena un anno, dal 1988 al 1989, perché nel 1990 il trombettista si sposta a New York e si iscrive alla New School, una delle più rinomate università della Grande Mela, dove ha fra gli insegnanti anche Donald Byrd. Nel frattempo, comincia a frequentare le jam-session che si svolgono al Bradley's, all'epoca uno dei migliori locali della città, del quale in breve tempo diventa un habitué. Ciò gli permette di fare esperienza sul campo e allo stesso tempo di inserirsi nell'ambiente jazzistico newyorkese. «Quando arrivai a New York», ha raccontato Hargrove, «imparai l'importanza della sottigliezza, dell'intensità senza troppo volume, e del suonare sugli accordi. In Texas, era un po' diverso. La gente non ne sapeva molto degli accordi. Si diceva: “Okay, suoniamo del blues!”. Oppure suonavamo qualcosa di basato sul blues, qualcosa di molto semplice, con un centro tonale, in tonalità di Do o roba del genere. Quando cominciai ad andare in giro con i musicisti più anziani, cominciai ad aprire un po' di più le orecchie. Un sacco di brani li ho imparati lì per lì, solo stando sul palco con i più anziani. Chiamavano un brano che non conoscevo e io dicevo: “Non lo conosco”. E loro: “Oh, beh, lo sentirai”. Cominciavano a suonare e io mi univo a loro. Avevano ragione, riuscivo a sentirli. […] Io pensavo che ci fosse un solo modo per suonare il blues, ed era I-IV-V. [...] Ma quando arrivai qui mi resi conto che c'erano altri modi. C'è il giro d'accordi in dodici battute. Poi ci sono le diverse variazioni su quel giro, che implicano il suonare accordi diversi: suonare I-IV-II-V, oppure andare su di una terza, tutti questi diversi modi di suonare un normale blues in dodici battute. Erano cose che non sapevo prima di arrivare qui e sentire questi musicisti che suonavano sugli accordi. Mi ha aiutato molto, potevo applicarlo a ciò che già sapevo sul suonare il blues più semplice e poi imparare a suonarci sopra usando i cambi d'accordo».
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Hargrove ha tutto il profilo di un enfant prodige, e come tale è accolto dalla comunità jazzistica. Questo ragazzino del Texas sfoggia uno stile muscolare, acrobatico, ma intriso di blues. Gli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta sono quelli in cui è all'apice l'onda dei “Giovani Leoni”, tra i quali il giovane Hargrove è arruolato da pubblico e critica
GIOVANI LEONI Nel 1990, a soli ventun anni, Roy Hargrove fa il suo esordio come leader con “Diamond In The Rough” (Novus/RCA): ma già negli anni precedenti aveva inciso con musicisti di tutto rispetto come Bobby Watson (“No Question About It”, Blue Note, 1988; il suo esordio discografico), Carl Allen (“Dreamboat”, Timeless Records, 1990, dove figura un brano da lui composto, Depth), Frank Morgan (“A Lovesome Thing”, Antilles, 1990) e con una all-stars band della Blue Note, insieme a Bobby Watson, Mulgrew Miller, Frank Lacy e Kenny Washington (“Superblue”, 1988). Insomma, il giovanissimo Hargrove ha tutto il profilo di un enfant prodige, e come tale viene accolto dalla comunità jazzistica. Questo ragazzino del Texas sfoggia uno stile muscolare, acrobatico, ma allo stesso tempo intriso di blues. Su YouTube, ad esempio, lo si può vedere, appena diciannovenne, negli Horizons di Bobby Watson, in un'infuocata versione live di No Question About It; al suo fianco ci sono Benny Green al pianoforte, Curtis Lundy al contrabbasso e Victor Lewis alla batteria, ma Roy non sembra intimidito dalla compagnia illustre e sfodera un assolo brillante, che dimostra piena padronanza del linguaggio hard bop più avanzato. Del resto, è lo spirito dei tempi: gli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta sono quelli in cui è all'apice l'onda dei “Giovani Leoni”, tra i quali il giovane Hargrove viene naturalmente arruolato da pubblico e critica, insieme ad altri colleghi trombettisti come Terence Blanchard, Wallace Roney o Nicholas Payton.
CLIVE DAVIS
NOVUS, ARISTA E OLTRE
© WILLIAM P. GOTTLIEB
La Novus Records venne fondata nel 1978 da Clive Davis, fondatore della Arista Records. Davis concepiva la Novus come la divisione jazzistica dell'Arista e ne affidò la direzione a Steve Backer, già in forze alla Impulse!. Il catalogo Novus comprendeva una gran varietà di artisti, da Muhal Richard Abrams a Steve Coleman, da Oliver Lake a Steve Lacy, fino a Henry Threadgill e Larry Coryell. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l'etichetta scritturò anche molti giovani appartenenti al gruppo dei “giovani leoni”, quali Marcus Roberts, Danilo Pérez e Antonio Hart, prima di chiudere i battenti alla metà degli anni Novanta. Oggi, il suo catalogo è gestito dalla Sony Records. Clive Davis nacque a Brooklyn nel 1932 da una famiglia di origini ebraiche. Dopo la laurea in legge ad Harvard, la sua carriera lavorativa cominciò come praticante in diversi studi legali, finché non venne assunto come consulente dalla Columbia Records. Lì scoprì la propria passione per la musica e decise di diventare un produttore. Nel 1967 divenne presidente della CBS, dove cominciò a produrre i nuovi nomi del rock: Janis Joplin, i Santanta, i Chicago, e in seguito Bruce Springsteen, Billy Joes, i Blood Sweat & Tears, i Pink Floyd. Negli anni Settanta riorganizzò varie etichette dipendenti dalla Columbia e fondò la Arista, facendone presto una delle etichette di punta a livello internazionale, con un carniere di artisti pop, rock e più tardi anche rap. Dopo la chiusura della Arista nel 2011, oggi lavora presso la Sony.
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ROY HARGROVE
Il tutto non sfigurerebbe su un disco degli ultimi Jazz Messengers, ma soprattutto Hargrove si fa notare per la padronanza linguistica e il buon controllo strutturale, notevoli in un musicista così giovane: nei brani veloci non si lascia mai prendere la mano dalla tecnica e nelle ballad mostra un lirismo asciutto e concentrato
“DIAMOND IN THE ROUGH” “Diamond In The Rough”, il suo disco d'esordio, che esce nel 1990 sull'etichetta Novus di Clive Davis, conferma quest'impressione. Al suo fianco ci sono due band diverse: la prima è composta di suoi coetanei (Antonio Hart, Geoff Keezer e Ralph Peterson Jr.), con il veterano Charles Fambrough al contrabbasso; nella seconda, al contrario, troviamo in maggioranza musicisti più anziani di lui (Ralph Moore, John Hicks e Al Foster), con un ventisettenne Scott Colley al contrabbasso. In entrambi i casi, comunque, il trombettista è il più giovane del gruppo. Hargrove contribuisce al repertorio con tre temi originali: New Joy, dalle armonie sofisticate, Confidentiality, un uptempo irto di trappole ritmiche, e All Over Again, dall'aggraziata melodia che alterna swing e tempi latin. Altrettanti brani escono dalla penna di Keezer, mentre uno è firmato da Fambrough. Il resto del programma comprende la monkiana Ruby My Dear, il cui tema è affrontato da Moore con un suono sensuale, pieno di reminiscenze websteriane, la classica Whisper Not di Golson, uno standard (It's Easy To Remember, con Hargrove unico solista, tranne un breve assolo di pianoforte) e un tema di Denzil Best (Wee). Il tutto non sfigurerebbe su un disco degli ultimi Jazz Messengers, ma soprattutto Hargrove si fa notare per la padronanza linguistica e il buon controllo strutturale, notevoli in un musicista così giovane: nei brani veloci non si lascia mai prendere la mano dalla tecnica e nelle ballad mostra un lirismo asciutto e concentrato.
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ANTONIO HART
NEL SOLCO DELLA TRADIZIONE Sempre per la Novus escono, in un brevissimo arco di tempo, “Public Eyes” (1991), “The Vibe” (1992), il live “Of Kindred Souls” (1993) e “Tokyo Sessions” (1992), quest'ultimo a nome di Hargrove e del sassofonista Antonio Hart. Roy Hargrove compare anche nel disco “Live In Concert” (1993), a nome di un ottetto denominato Jazz Futures, e in altri due titoli (“Beauty And The Beast”, del 1993, e “Blues 'n Ballads”, del 1994) pubblicati sotto il nome collettivo di The Jazz Networks. In tutti questi dischi, lo troviamo sempre in ottima compagnia: musicisti della sua generazione come Antonio Hart (una delle presenze fisse al suo fianco, in questo giro d'anni, nonché suo compagno di studi al Berklee), Joshua Redman, Rodney Whitaker, Benny Green, Christian McBride (che Hargrove aveva conosciuto quando avevano rispettivamente quattordici e sedici anni), Greg Hutchinson, ma anche maestri come Carl Allen, Billy Higgins, David “Fathead” Newman, Gary Bartz e Frank Lacy. Anche lo stile conferma quanto osservato nel disco d'esordio: un vigoroso neo-hard bop, che si rifà ai grandi modelli storici, reinterpretati con passione e competenza e rivisti alla luce di un'estetica che fa della perfezione tecnica il suo tratto principale. “Perfezione” che, si badi, non equivale necessariamente a “freddezza”: si ascoltino ad esempio la tenera September In The Rain (da “Public Eye”) o, dallo stesso disco, la pacata Once In A While e l'assorta e notturna End Of A Love Affair, per capire come il giovane Hargrove non sia affatto un algido macinatore di note, ma al contrario un musicista già ben consapevole dei suoi mezzi e capace di usarli, quando serve, con ammirevole parsimonia. Semplicemente, Hargrove e compagni sembrano – almeno per ora – interessati più a muoversi con immacolata abilità nei solidi binari della tradizione, che non a cercare una propria via personale alla contemporaneità.
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ARETHA FRANKLIN E CLIVE DAVIS
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ROY HARGROVE E SONNY ROLLINS
JAZZ GALLERY I dischi sono di qualità costantemente alta, senza cedimenti: tra le chicche, il dialogo fra Hargrove e il trombone di Frank Lacy in Things We Did Last Summer (in “The Vibe”); il blues terragno di Blues For Booty Green, con l'organo di “Brother” Jack McDuff (sempre in “The Vibe”); la My Shining Hour con la sordina di “Of Kindred Souls”; o, sempre dallo stesso disco, la lentissima, sospesa Mothered, dove si fa notare il sassofono di Ron Blake. A testimoniare la stima di cui il giovane Hargrove è circondato nell'ambiente jazzistico, sta anche la sua fitta attività di sideman. In alcuni dei titoli ritroviamo i nomi già incontrati: Ralph Moore (“Furthermore”, Landmark, 1990), Antonio Hart (“For The First Time”, RCA, 1991), Charles Fambrough (“The Proper Angle”, CTI, 1991), ma il trombettista compare anche in dischi di Jackie McLean (“Rhythm Of The Earth”, Antilles, 1992) e Steve Coleman (“The Tao Of Mat Phat”, Novus, 1993). Nel 1991 è ospite di Sonny Rollins in due brani di “Here's To The People” (Milestone), uno dei quali, Young Roy, gli è esplicitamente dedicato; i due avevano già suonato insieme l'anno prima alla Carnegie Hall. Nel 1991, 1992 e 1993, Hargrove risulta primo nel referendum di Downbeat, nella categoria Rising Star. E il trombettista non manca di lasciare il segno sulla scena musicale newyorkese: nel 1992, affitta un loft a Downton, al 290 di Hudson Street, che all'inizio viene concepito come un semplice luogo per provare, ma che nel 1995, insieme al manager Dale Fitzgerald e alla cantante Lezlie Harrison, si trasformerà nel Jazz Gallery, tuttora attivo come spazio non solo per performance musicali, ma anche per esposizioni d'arte, anche se attualmente si trova al 1160 di Broadway. Nel 1994 Roy Hargrove lascia la Novus per firmare un contratto con la Verve.
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BOP, ARCHI, CUBA E MILES HARGROVE ALLA VERVE (1994-2002)
NEL 1994 IL CONTRATTO CON UNA MAJOR COME LA VERVE PROIETTA ROY HARGROVE NELLE ALTE SFERE DEL JAZZ. NEL GIRO DI POCHI ANNI, IL TROMBETTISTA PUBBLICA UNA SERIE DI LAVORI, L'UNO MOLTO DIVERSO DALL'ALTRO, CHE TESTIMONIANO LA RAGGIUNTA MATURITÀ COME LEADER, ESECUTORE E ARRANGIATORE DI SERGIO PASQUANDREA
CON I TENORI Il contratto con la Verve Records segna per il venticinquenne Hargrove l'ingresso ufficiale sulla scena che conta. In quegli anni, l'etichetta sta vivendo un periodo di grande spolvero, sia con le riedizioni del suo immenso catalogo storico, sia con nuove produzioni che vedono protagonisti i grandi maestri e le nuove leve. Tra fine anni Ottanta e primi anni Novanta, firmano per l'etichetta Herbie Hancock, Wayne Shorter, Joe Henderson (in piena fase di ripresa della propria carriera, dopo un periodo di semioscurità), John Scofield, Shirley Horn, Betty Carter, Abbey Lincoln, ma l'etichetta produce anche l'acid jazz dei britannici Incognito e lo smooth jazz di Chris Botti. Hargrove rimarrà alla Verve per dodici anni, producendo una decina di dischi che sono tra i suoi lavori più riusciti. Il primo, che esce nel 1994, è “With The Tenors Of Our Time”, dove a un quintetto di base, che è all'epoca la working band di Hargrove (Ron Blake al sassofono, Cyrus Chestnut al pianoforte, Rodney Whitaker al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria) si aggiunge in ogni brano un diverso sax tenore; ed è una lista di nomi da “chi è chi”: Stanley Turrentine, Joshua Redman, Branford Marsalis, Joe Henderson, Johnny Griffin (quasi tutti, peraltro, artisti di scuderia in casa Verve). Un progetto senz'altro ambizioso, possibile solo con una grande major, che mette il giovane trombettista a diretto confronto con il passato e il presente del jazz.
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DAVID “FATHEAD” NEWMAN
BLUES E RHYTHM'N'BLUES Per la maggior parte del pubblico, il nome di David “Fathead” Newman è inestricabilmente legato a quello di Ray Charles: e in effetti molte delle incisioni seminali di “The Genius” sono caratterizzate dal suono del suo sax. Ma Newman è stato anche un grande jazzista, esponente della scuola dei “Texas Tenors”, con il suo suono potente, irrorato di blues e rhythm'n'blues. Nato a Corsicana, una cittadina a una novantina di chilometri da Dallas, crebbe a Dallas, dove studiò prima il pianoforte e poi il sax. Il suo soprannome era in origine un nomignolo offensivo che gli appioppò il suo insegnante di musica, quando scoprì che stava suonando un brano a memoria, invece che leggerlo sullo spartito. Il suo primo modello fu il grande sassofonista e cantante Louis Jordan. Dopo aver conosciuto Ray Charles nel 1951, entrò nella sua band tre anni dopo. Il suo sax si può ascoltare in tante hit, come Unchain My Heart, What I'd Say o Let The Good Times Roll, ma raramente i suoi assolo superavano le 8 o 12 battute. Newman lasciò la band di Ray Charles nel 1964 (vi tornò brevemente nel 1970-71) e cominciò a lavorare da sideman per artisti come Lee Morgan, Aretha Franklin, B.B. King, Joe Cocker, Dr. John, Natalie Cole e Jimmy Scott. Registrò anche una quarantina di dischi a suo nome, dal primo, “Fathead” (Atlantic, 1960), fino all'ultimo, “The Blessing” (High Note), uscito nel 2009. Oltre al sassofono contralto, è stato anche un rinomato specialista del flauto e del sax baritono. Si è spento a Kingston, New York, nel 2009, all'età di 75 anni.
LA MATURITÀ DELL'INTERPRETE Ovviamente Hargrove passa l'esame a pieni voti, dimostrando ancora una volta la sua versatilità in tutti i contesti. “With The Tenors Of Our Time” è un disco compatto, equilibrato nella struttura, ma allo stesso tempo vario nelle atmosfere. Si apre con Soppin' The Biscuit, un tema di Hargrove: un blues in 16 battute, su un trascinante tempo di 6/8, con Ron Blake come solista e con un breve, fulminante assolo di Cyrus Chestnut. Blake torna anche in Valse Hot (il celebre tema in 3/4 di Sonny Rollins), condividendo la scena con Branford Marsalis; in Once Forgotten, un felpato tema latin in cui suona anche il soprano; in Mental Phrasing, un uptempo firmato da Hargrove, insieme a Joshua Redman; e nel finale, il lentissimo e sospeso April's Fool. When We Were One è una bella ballad di Johnny Griffin, in cui Hargrove si esibisce al flicorno, strumento da lui molto amato. Griffin è ospite anche su Greens At The Chicken Shack, un infuocato blues a tempo di shuffle, composto da Chestnut. Due brani anche per Joe Henderson, entrambi sue composizioni originali: il coltraniano Shade Of Jade e uno swingante medium intitolato Serenity. Joshua Redman figura nella ballad Across The Pond (un'altra composizione del leader), mentre a Stanley Turrentine è assegnato un tema latin intitolato Wild Is Love. E c'è spazio anche per una vetrina riservata al contrabbassista Rodney Whitaker, che fornisce un lungo assolo in Never Let Me Go. Fra questa folla di ospiti illustri, spicca comunque Hargrove, con un timbro di grande bellezza, una tecnica smagliante e assolo costruiti in maniera sempre attentamente meditata. Nel 1995 esce “Family”, un altro disco dalla lineup ricchissima. La formazione base è la stessa del precedente, solo con Stephen Scott al pianoforte al posto di Chestnut; ma poi si alternano al pianoforte anche Ronny Mathews, Larry Willis e John Hicks; al contrabbasso Walter Booker e Christian McBride; alla batteria, Jimmy Cobb, Karriem Riggins e Lewis Nash. Ci sono anche Jesse Davis e David “Fathead” Newman ai sassofoni e, su una traccia, fa capolino nientemeno che Wynton Marsalis. Insomma, una vera e propria riunione di famiglia, come denuncia il titolo del disco.
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Il disco si avvia alla conclusione con il tenero Nostalgia di Fats Navarro (con Wynton Marsalis a fare da seconda tromba), l'energico Thirteen Floor di David “Fathead” Newman (nell'inedita veste di flautista), il rapidissimo Firm Roots, un tema di Cedar Walton, e il lentissimo, malinconico The Trial, che ha quasi il carattere di un leader schubertiano
© EMANUELE VERGARI
RITRATTO DI FAMIGLIA E alla famiglia sono dedicati anche i primi tre brani, indicati collettivamente come Trilogy: Velera è scritto per la madre di Hargrove, Brian's Bounce per il fratello minore e Roy Allan per il padre, che morirà proprio quell'anno, poco dopo l'uscita del disco. La scrittura, qui, si fa spessa, quasi orchestrale, rivelando in Hargrove anche una matura penna di arrangiatore e compositore. The Nearness Of You è un'altra dimostrazione dell'abilità del trombettista (qui, al flicorno) nelle ballad e vede anche un bell'intervento di “Fathead” Newman; Lament For Love mette in fila la sezione ritmica di Ronny Matthews (autore del brano), Walter Booker e Jimmy Cobb; Another Level mostra l'abilità di Hargrove nello scrivere temi allo stesso tempo sofisticati e cantabili; la sognante A Dream Of You, di Christian McBride, dà ovviamente spazio a un bell'assolo di contrabbasso; Pas de trois si apre con una splendida introduzione di John Hicks, che è anche il solista principale, mentre in Polka Dots And Moonbeams lo sgabello del pianoforte è occupato da Larry Willis e la tromba di Hargrove dialoga con il sax di Jesse Davis. The Challenge, un latin di Stephen Scott, dal tema vagamente memore di Recorda Me di Joe Henderson, permette al leader di mostrare il suo controllo tecnico e timbrico anche sui tempi veloci. Ethiopia consiste in un suggestivo dialogo fra la tromba e il contrabbasso di Whitaker. Infine, il disco si avvia alla conclusione con il tenero Nostalgia di Fats Navarro (con Wynton Marsalis a fare da seconda tromba), l'energico Thirteen Floor di David “Fathead” Newman (che troviamo nell'inedita veste di flautista), il rapidissimo Firm Roots, un tema di Cedar Walton, e infine il lentissimo, malinconico The Trial, che ha quasi il carattere di un leader schubertiano, con il suo duetto iniziale fra il sax di Jesse Davis e il contrabbasso con l'archetto di Whitaker, che si apre poi a un maestoso finale orchestrale. Nel complesso, “The Family” è un disco che concede poco allo spettacolo e punta piuttosto alla sostanza musicale e all'espressività.
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«Fu un'idea dei produttori. Ma avevamo molta esperienza con quella formazione, perché ci suonavamo al Bradley's. [...] È stata una sfida suonare senza batterista, ma Christian ha una pulsazione molto solida e, sai, la batteria ce l'hai nella testa. È così che l'ho concepito: quando registravo quel disco, sentivo la batteria nella testa»
NEL SEGNO DI PARKER Sempre nel 1995 esce “Parker's Mood”, dove – in contrasto con i due titoli precedenti – Hargrove riduce l'organico all'osso: oltre alla sua tromba, ci sono soltanto due vecchi amici, Christian McBride al contrabbasso e Stephen Scott al pianoforte. «Fu un'idea dei produttori», ha raccontato il trombettista. «Ma avevamo molta esperienza con quella formazione, perché ci suonavamo al Bradley's. Ci siamo limitati a portare quella cosa del Bradley's in studio. È stata una sfida suonare senza batterista, ma Christian ha una pulsazione molto solida e, sai, la batteria ce l'hai nella testa. È così che l'ho concepito: quando registravo quel disco, sentivo la batteria nella testa». Le sedici tracce del disco sono, ovviamente, un omaggio a Charlie Parker nel quarantennale della morte, sotto forma di sue composizioni (Klactoveesedstene, Parker's Mood, Marmaduke, Yardbid Suite e via dicendo) o di temi a lui legati (Laura, April In Paris, Star Eyes). Tutti brani battutissimi, ovviamente, ma l'organico ridotto, unito all'assenza della batteria, permette di darne letture prosciugate, quasi cameristiche (si ascolti ad esempio la Yardbird Suite in duo tromba-pianoforte o la Chasin' The Bird tromba-contrabbasso), senza rinunciare al drive ritmico. Molto belle anche le ballad – Laura su tutte – dove Hargrove può dare pieno sfogo al suo lato cantabile e romantico. Una bella prova non solo del trombettista (che si ritaglia una Dewey Square in totale solitudine), ma anche dei due partner, che interagiscono su un piano di piena parità e hanno anche lo spazio per un bel duetto su Laird Baird e per una vetrina solistica ciascuno (Red Cross per McBride, April In Paris per Stephen Scott).
CHRISTIAN MCBRIDE
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ELLA FITZGERALD E NORMAN GRANZ
VERVE
LA STORIA DEL JAZZ Fra le molte etichette specializzate in jazz, poche – forse nessuna – possono vantare un catalogo paragonabile, per vastità e varietà, a quello della Verve. Da quando, nel 1956, venne fondata da Norman Granz, la Verve è diventata uno dei simboli stessi del jazz, con dischi di Ella Fitzgerald, Stan Getz, Bill Evans, Billie Holiday e infiniti altri. Granz creò la Verve per unificare il catalogo delle diverse etichette da lui fondate, quali la Clef e la Norgran, e soprattutto per ospitare i dischi della sua beniamina, Ella Fitzgerald. I primi dischi pubblicati,
infatti, sono quelli dei celeberrimi songbooks. In realtà, già nel 1961 l'etichetta vennne venduta alla MGM (Metro Goldwyn Mayer), dove il timone passò a Creed Taylor, che aveva da poco abbandonato la Impulse!. Fu soprattutto merito di Taylor se la Verve diventò una vera e propria miniera d'oro, grazie a dischi di enorme successo come “Jazz Samba” di Stan Getz e Charlie Byrd e il fortunatissimo “Getz/Gilberto” (Grammy Award come migliore album dell'anno nel 1965), che lanciarono la moda della bossa nova negli Stati Uniti. Nel
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1967 Taylor lasciò la Verve per fondare la CTI. Negli anni successivi, il catalogo Verve si allargò anche al rock, con nomi come i Velvet Underground (“Velvet Underground & Nico”, “White Light/White Heat”) e Frank Zappa. Passata prima alla Polygram e poi alla Universal, la Verve ha assunto dal 1998 il nome di Verve Music Group e dal 2016 quello di Verve Label Group. Negli anni Novanta il catalogo jazzistico fu rilanciato e rinnovato, oltre a includere i cataloghi storici di etichette come la Polygram, la Impulse! e la ABC.
ROY HARGROVE
© EMANUELE VERGARI
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ROY HARGROVE
A CUBA Per il disco successivo, “Habana” (1997), Roy Hargrove mette insieme una band nuova di zecca, denominata “Crisol” (crogiolo), che riunisce musicisti americani e cubani. La prima idea era balenata ad Hargrove nel 1996, quando era stato invitato a Cuba per l'Havana Jazz Festival, dove era stato ospite per undici giorni. «Quando andai per la prima volta a Cuba nel '96, stavano festeggiando!», ha ricordato in un'intervista del 2009. «C'è questa gente che non ha nulla, non possono nemmeno andare in un negozio per comprare un succo d'arancia. Devi andare a casa di qualcuno per comprarti una birra o qualcosa da bere. Non hanno nemmeno il bagno in casa. È una cosa da pazzi. Ma quando c'è una festa, quando parte la musica, è come un festival. Sanno davvero come divertirsi. Tutto ciò mi ha ispirato... le possibilità mi sono esplose in testa. Devo tantissimo a Chucho [Valdés] per avermi fatto conoscere quel mondo. Prima di allora, non ne avevo idea. Sul serio. Non in quel modo, prima di andare laggiù e vederlo di persona. Il livello di virtuosismo dei musicisti cubani è incredibile! Uno può avere cinque diverse frecce al suo arco. Per esempio, ci può essere un trombettista che suona le congas ed è anche un artista visuale e sa ballare». «Quando conobbi Anga (Miguel “Anga” Diaz. NdR) e Changuito (soprannome del percussionista José Luis Quintana. NdR) e suonai con loro, anche se non sapevano parlare inglese, ero in grado di comunicare con loro attraverso la musica, e loro mi mostrarono un sacco di cose. Mi mostrarono come suonare i diversi ritmi basati sulla clave».
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Hargrove, da parte sua, si mostra pienamente a proprio agio sulle complesse suddivisioni ritmiche della musica cubana. Il disco [“Habana”] è probabilmente il suo lavoro più riuscito sino a questo momento, e non a caso gli farà vincere il suo primo Grammy, nel 1998, per la categoria “Latin Jazz”
CHUCHO VALDÉS
LA POTENZA DEL RITMO “Crisol” è una sorta di big band in miniatura. Tra i fiati troviamo Gary Bartz, il portoricano David Sánchez e Frank Lacy, mentre al pianoforte c'è Jesus “Chucho” Valdés, una delle leggende della musica cubana, supportato da Russell Malone alla chitarra, Jorge Reyes al basso elettrico e John Benitez al contrabbasso. E poi, come in ogni gruppo cubano che si rispetti, una nutrita sezione percussiva: Horacio “El Negro” Hernandez e Idris Muhammad alla batteria, Miguel “Anga” Diaz alle congas e Jose Luis “Changuito” Quintana ai timbales. Il disco viene registrato nel dicembre dello stesso anno, a Orvieto, in occasione di Umbria Jazz Winter. Il modello, ovviamente, è l'orchestra afro-cubana di Dizzy Gillespie, alla quale il trombettista si ispira apertamente. Al di là dei modelli, comunque, “Habana” si caratterizza per l'energia traboccante. Lo dimostra sin dalla traccia d'apertura, Oh My Seh Yeh, arrangiata e composta da Frank Lacy, che si apre con una potente sezione di percussioni, sulla quale si innesta un riff della chitarra elettrica e poi l'intera sezione di fiati in crescendo, dalla quale emerge il trombone di Lacy in un tema a note lunghe; il pezzo, basato su due soli accordi, dà il tono al disco, che sposta decisamente l'ambito stilistico di Hargrove dalla tradizione hard bop a un versante decisamente più sperimentale. Senza scendere nei dettagli, basti dire che “Habana” è percorso da un'irresistibile pulsione danzante e da una maestosa energia esecutiva, esaltati da arrangiamenti efficacissimi, la cui densa tramatura armonica non va mai a discapito della tensione ritmica. Hargrove, da parte sua, si mostra pienamente a proprio agio sulle complesse suddivisioni ritmiche della musica cubana. Il disco è probabilmente il suo lavoro più riuscito sino a questo momento, e non a caso gli farà vincere il suo primo Grammy, nel 1998, per la categoria “Latin Jazz”.
LA LEGGENDA CUBANA
Difficile trovare un musicista che più di Chucho Valdés sintetizzi la grande tradizione del pianoforte cubano. Jesús Valdés Rodríguez (questo il nome completo) è nato nella cittadina cubana di Quivicán il 9 ottobre 1941. La sua è una vera e propria dinastia di pianisti, a partire da suo padre Dionisio Ramón Emilio Valdés Amaro, meglio noto come Bebo (19182013), celebre anche come compositore, direttore e arrangiatore, fino a suo figlio Chuchito. Chucho cominciò a registrare poco più che ventenne, insieme a colleghi destinati anch'essi alla fama, come il clarinettista Paquito D'Rivera e il bassista Cachaíto. Nel 1967 fu tra i fondatori dell'Orquesta Cubana de Música Moderna, un gruppo che avrebbe poi accompagnato leggende della musica cubana, come la cantanta Omara Portuondo. Ma il suo gruppo più celebre sono gli Irakere, fondati nel 1973, che insieme ai Los Van Van contribuirono a modernizzare il suono della musica di Cuba. Vi rimase per oltre venticinque anni, dopodiché venne sostituito dal figlio Chuchito. Negli anni Novanta il contratto discografico con la Blue Note diede a Valdés la notorietà internazionale e gli permise di diventare una presenza familiare per il pubblico statunitense e mondiale e di vincere ben sei Grammy Awards. Fra le onoreficenze, Chucho Valdés può vantare l'incarico di Goodwill Ambassador per la FAO e un dottorato ad honorem presso il Berklee College of Music.
CHUCHO VALDÉS
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ROY HARGROVE
«Per me, è molto importante stabilire un rapporto con musicisti che sono stati lì per molto tempo. Loro sono quelli da cui posso imparare di più. È per questo che, su ogni disco che faccio, ho come ospite un musicista che è un veterano del jazz. Tutti possiamo imparare qualcosa da quello scambio»
© ROBERTO POLILLO
PER MILES E PER COLTRANE Bisognerà attendere tre anni per il disco successivo, intitolato “Moment To Moment” (2000): e si tratta di un progetto ancora diverso, che vede la tromba di Roy Hargrove accompagnata da una sezione d'archi, insieme a una sezione ritmica (Larry Willis, Gerald Cannon e Willie Jones) e al sassofonista Sherman Irby. Il grosso degli arrangiamenti è di Larry Willis, ma tre dei brani escono dalla penna di Gil Goldstein e due da quella di Roy Hargrove stesso. La formula jazz plus strings è notoriamente rischiosa e “Moment To Moment”, nonostante i begli arrangiamenti, non riesce sempre a evitare un certo effetto di monotonia, dovuto soprattutto alla scelta di brani tutti a tempo lento, perlopiù in tonalità minore. Si tratta comunque di un documento della voglia di sperimentare, che sempre ha guidato il trombettista. Nel 2002 esce invece un lavoro che più jazz non si può: “Directions In Music: Live At Massey Hall”, co-firmato insieme a due pesi massimi come Herbie Hancock e Michael Brecker (nella sezione ritmica ci sono John Patitucci e Brian Blade). Fra i brani, anche una sua composizione originale, intitolata The Poet. Il disco, pensato come omaggio a Miles Davis – di cui Hargrove fa da controfigura – e a John Coltrane, si guadagna un Grammy nel 2003 e mostra come, a soli trentatré anni, Roy fosse ormai accettato a pieno titolo fra i grandi del jazz. A questo proposito, lo stesso trombettista affermava in un'intervista del 1995: «Per me, è molto importante stabilire un rapporto con musicisti che sono stati lì per molto tempo. Loro sono quelli da cui posso imparare di più. È per questo che, su ogni disco che faccio, ho come ospite un musicista che è un veterano del jazz. Tutti possiamo imparare qualcosa da quello scambio. E voglio che la gente sappia che la mia musica ha molto a che fare con le emozioni. Voglio che la gente senta l'espressività quando suoniamo o registriamo, perché ce ne mettiamo sempre molta».
MILES DAVIS
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© ROBERTO POLILLO
DAVE BRUBECK
SIDEMAN Gli impegni da leader non rallentano la sua agenda come sideman, che anzi rimane fitta. Fra la seconda metà degli anni Novanta e l'inizio del nuovo millennio, Roy Hargrove incide al fianco di maestri come Johnny Griffin (“Chicago-New YorkParis”, Verve, 1994), Shirley Horn (“The Main Ingredient”, Verve, 1995; “I Remember Miles”, Verve, 1998; “May The Music Never End”, Verve, 2003), Jimmy Smith (“Damn!”, Verve, 1995; “Angel Eyes”, Verve, 1996), Oscar Peterson (“Meets Roy Hargrove and Ralph Moore”, Telarc, 1996), Cedar Walton (“Composer”, Astor Place, 1996), Ray Brown (“Some Of My Best Friends Are... The Trumpet Players”, Telarc, 2000) e Roy Haynes (“Birds Of A Feather”, Dreyfus Jazz, 2001), oltre che in “Gettin' To It” dell'amico Christian McBride (Verve, 1995). Nel 1995 era stato ospite di Dave Brubeck per il disco “Young Lions & Old Tigers” (Telarc): il pianista gli aveva dedicato il primo brano del disco, intitolato proprio Roy Hargrove. Ma i primi anni Duemila vedono anche un'inaspettata svolta nella sua carriera, che lo porterà su territori ben lontani da quelli del mainstream e del neo-hard bop, nei quali fino ad allora sembrava essere relegato.
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ROY HARGROVE
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HARD GROOVE NELLA TERRA DELL'HIP-HOP (2003-2006)
I TRE DISCHI DEGLI RH FACTOR, USCITI TRA IL 2003 E IL 2006, RIVELANO UN VOLTO SINORA INEDITO DI ROY HARGROVE: IL SUO INTERESSE PER I SUONI CONTEMPORANEI DEL RAP, DELL'HIP-HOP, DEL SOUL E DEL RHYTHM'N'BLUES. I TRE DISCHI DELLA FORMAZIONE MESCOLANO QUESTI MONDI SONORI CON IL JAZZ, IN UNA MISCELA DEL TUTTO PERSONALE DI SERGIO PASQUANDREA
DAL MAINSTREAM ALL'HIP-HOP L'uscita, nel 2003, di “Hard Groove”, prese di sorpresa il mondo del jazz. Che cosa ci faceva Roy Hargrove, il tradizionalista, il purista, il neo-bopper, in mezzo a rapper, tastiere, bassi elettrici, suoni campionati, drum machines, riff funkeggianti, insomma, in un contesto che ricordava molto più l'hip-hop, o tutt'al più la fusion, che non il jazz mainstream? Ovviamente ci fu chi parlò di un'operazione commerciale, della voglia di fare soldi raggiungendo un vasto pubblico con una musica “facile”. Ma la realtà, a guardarla bene, era più complessa. Innanzi tutto, la storia tra Hargrove e l'hip-hop era già piuttosto antica. Nel 1994, ad esempio, il giovane trombettista era comparso in “Buckshot Le Fonque” (Sony, 1994) di Branford Marsalis. Il disco, che all'epoca aveva suscitato molte polemiche, era un pionieristico tentativo di fondere il jazz con il rock, il pop, il rhythm'n'blues, e soprattutto con le nuove sonorità nere del rap e dell'hip-hop: musiche all'epoca ancora giovani, emerse dai ghetti da una decina d'anni o poco più. Il progetto aveva avuto un seguito (ma senza Hargrove) tre anni dopo, con “Music Evolution” (Sony), ma era rimasto un esperimento isolato nella carriera di Marsalis. Probabilmente i tempi erano ancora prematuri; anche se, va detto, il primo ad avere l'idea era stata quella vecchia volpe di Quincy Jones, con “Back On The Block” (Qwest, 1989), seguito due anni dopo da Miles Davis, che nel 1991 aveva tentato la fusione con l'incompiuto “Doo Bop” (Warner) registrato con il produttore hip-hop Easy Mo Bee e uscito postumo nel 1992. Anche l'M-Base di Steve Coleman si era lanciata in esperimenti simili (si ascolti “A Tale of 3 Cities”, Novus, 1994), senza contare la scena acid jazz che proprio in quegli anni cominciava a fiorire in Gran Bretagna.
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I Soulquarians si ispiravano all'hip-hop, ma incorporavano anche elementi del soul, del rhythm'n'blues, del rock, del funk, persino del reggae: tra i loro artisti di riferimento comparivano Marvin Gaye, Bob Marley, Jimi Hendrix, i Parliament/Funkadelic di George Clinton. Insomma, una visione vasta ed enciclopedica della black music
SOULQUARIANS A partire dal nuovo millennio, Hargrove comincia ad avvicinarsi a un gruppo di artisti hip-hop, noti come “Soulquarians”. C'erano molte personalità che negli anni successivi avrebbero dato forma alla scena nera: rappers come Common, Q-Tip, J Dilla e Mos Def; il batterista e produttore Ahmir “Questlove” Thompson (noto anche come membro dei the Roots); il multistrumentista, compositore e produttore James Poyser; il bassista italo-gallese Pino Palladino; il cantante e polistrumentista Michael Eugene Archer (meglio noto con il nome d'arte di D'Angelo); i cantautori Bilal ed Erykah Badu (nome d'arte di Erica Abi Wright, che per inciso era originaria di Dallas ed era stata compagna di scuola di Hargrove). I Soulquarians si ispiravano all'hip-hop, ma incorporavano anche elementi del soul, del rhythm'n'blues, del rock, del funk, persino del reggae: tra i loro artisti di riferimento comparivano Marvin Gaye, Bob Marley, Jimi Hendrix, i Parliament/Funkadelic di George Clinton. Insomma, una visione vasta ed enciclopedica della black music nella sua interezza. Hargrove comincia a comparire in alcuni dischi dei Soulquarians, come “Voodoo” (Virgin, 2000) di D'angelo, uno dei dischi seminali del movimento, “Like Water For Chocolate” (MCA, 2000) di Common, “Mama's Gun” (Platinum, 200) e “Wordwide Underground” (Motown, 2003) di Erykah Badu. Partecipa anche alla tournée di “Voodoo”, nel cui gruppo milita il trombonista Frank Lacy.
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OMAGGIO AL PADRE Intervistato nel 2006 da Downbeat, il trombettista aveva rivendicato con orgoglio la propria attenzione per tutti i generi musicali: «È la stessa cosa che facevo quando andavo alla Berklee. I jazzisti dicevano: “I musicisti funk non conoscono la tradizione, non sanno suonare, non conoscono l'armonia”, e i musicisti funk dicevano: “Voi siete troppo cervellotici, non suonate mai il groove, suonate troppe note”. Ma c'era un territorio intermedio, in cui si poteva comprendere uno stile. Se suoni del funk, devi capire come entrarci dentro e non suonare troppe note. […] Devi sapere quando hai dato abbastanza, abbandonarti al groove che fa muovere i piedi della gente, far loro scuotere la testa o battere le mani. Quando suoni jazz, devi conoscere la teoria e la tecnica. Il punto è stare esattamente nel mezzo». Intervistato da Ted Panken per il sito jazz.com, Hargrove ha dichiarato che “Hard Groove” era inteso anche come un omaggio alla memoria del padre. «Mio padre», raccontava il trombettista, «collezionava dischi. Aveva lo sguardo lungo. La gente veniva a casa nostra a vedere che cosa aveva, poi andavano a comprarlo. Volevano sapere quali erano le novità, perché mio padre ce le aveva. […] Ogni fine settimana, mio padre comprava due o tre nuovi dischi, poi tornava a casa, e due settimane dopo [quei dischi] erano dei successi. Lui comprava solo ciò che gli piaceva, ma a quanto pare quello era anche quello che piaceva a tutti gli altri... ma più tardi. Mi diceva sempre: “Il jazz mi piace, ma quand'è che farai qualcosa di più contemporaneo, qualcosa di funky?”, e io rispondevo: “Ci sto arrivando”. Se n'è andato prima che potessi farlo. Perciò ho cominciato a raccogliere tutti quei dischi nella mia memoria, tutte le cose che sapevo lui aveva. Compravo Herbie Hancock con gli Headhunters, e gli Earth, Wind & Fire, e George Clinton... mi stavo rieducando. Avevo sempre fatto delle piccole registrazioni casalinghe della mia musica originale, e decisi di tirarne un po' fuori dagli archivi e trasferirla in un contesto live. Quello è stato l'inizio degli RH Factor. Andammo per due settimane negli Electric Lady Studios. Appena si sparse la voce che stavo facendo qualcosa di diverso, tutti i musicisti di New York cominciarono a venire lì!».
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ROY HARGROVE
JAZZ, FUNK E RAP “RH Factor” è il nome che Hargrove dà al nuovo gruppo (un gioco di parole con le sue iniziali, come del resto “Hard Groove” gioca d'assonanza sul suo cognome), mentre gli Electric Lady Studios (chiaro omaggio hendrixiano) sono gli studi usati dai Soulquarians per realizzare le loro produzioni. Le sedute di registrazione si allargano via via, fino a comprendere qualcosa come trentuno musicisti, molti dei quali capitati per caso in studio, e che realizzano le loro parti improvvisandole al momento. Hargrove, da parte sua, lascia massima libertà d'azione a tutti i musicisti coinvolti, sotto la supervisione del tecnico del suono Russ Elevado (lo stesso di “Voodoo” di D'Angelo): c'è buona parte dei Soulquarians, come Common, Q-Tip, Erikah Badu, James Poyser, insieme a una quantità di cantanti, musicisti di ogni estrazione, tra i quali i sassofonisti Steve Coleman e Jacques Schwarz-Bart, il contrabbassista Reggie Washington, il batterista Willie Jones III e la bassista e cantautrice Meshell Ndegeocello, personalità-faro della nascente scena soul contemporanea. Il risultato è un'eccitante miscela di jazz, ritmiche funk, brani dei Funkadelic, suoni elettrici, ipnotici groove, sequenze rap, morbide ballad, unite in un'amalgama nel quale è difficile separare i singoli elementi.
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«Le nostre esperienze sono piuttosto diverse da quelle di Charlie Parker, ma è sempre la nostra esperienza. Sono influenzato dalla musica di John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis, e Dizzy Gillespie. Ma sono anche influenzato dalla musica di KRS-One, Woo Tang Clan, e L. L. Cool J, Peaches and Herb, e gli Earth, Wind and Fire»
AVVICINARE DUE MONDI Critica e pubblico, come già detto, si divisero fra estimatori e denigratori (specialmente quando il trombettista, invece che con gli eleganti completi che era solito indossare, si presentava sul palco con una vistosa pettinatura rasta e pantaloni larghi al cavallo), ma ciò non impedì a Roy Hargrove di portare il gruppo in tournée mondiali né di tenerlo in vita per tre anni, durante i quali vennero prodotti altri due dischi: l'extended play “Strenght” (Verve, 2004), contenente solo sei tracce – Rich Man's Welfare, Bob Drop, Strength, Listen Here, For Fun, Universe (Special Bonus Mix) – e “Distractions” (Verve, 2006), che seguono sostanzialmente la traccia segnata dal lavoro precedente “Hard Groove”. «È vero che il jazz, nella sua forma più pura, acustica, straight ahead, non beneficia di un gran supporto da parte delle case discografiche, e dall'altra parte le persone che vengono dall'hip-hop e dal rhythm & blues non si sentono affatto attratte da questa musica», rifletteva Hargrove nel 2004 in un'intervista con la rivista francese Jazz Magazine. «Con i primi due dischi degli RH Factor ho cercato di avvicinare questi mondi che, nonostante tutto, sono ancora molto lontani. Spero che questo progetto aprirà delle porte, farà in modo che più jazzisti collaborino con artisti mainstream. Da parte mia, non ho progetti precisi, ma continuo a suonare sia in formazioni acustiche che con gli RH Factor, un tipo di gruppo che non è facile portare in giro al giorno d'oggi, soprattutto per ragioni economiche. In Francia, funziona bene, molto meglio che negli Stati Uniti. Laggiù, gli RH Factor sono un sentito dire: si sa che esistono, ma i jazzisti non vogliono cedere! Eppure, quando qualcuno si prende la pena di ascoltarli, le reazioni sono molto positive, del tipo: “Pfff, non sapevo che tu fossi in grado di suonare questo genere di cose...”». RESTARE FEDELE ALL'ARTE Del resto, già nel 1996, intervistato da Mark Felton per All About Jazz, Hargrove rivendicava il suo diritto a muoversi al di là dei generi prestabiliti. «Molti critici hanno soprannominato la tua musica, così come la musica di molti dei tuoi contemporanei, "neobop". Qual è la tua reazione a quell'etichetta?» chiedeva Felton. «Neobop? Che cos'è? Neobop. Credo sia un modo per descrivere il fatto che molti di noi suonano nella tradizione. Tutto ciò che suoniamo nel jazz è un riflesso delle nostre esperienze di vita. Le nostre esperienze sono piuttosto diverse da quelle di Charlie Parker, ma è sempre la nostra esperienza. Sono influenzato dalla musica di John Coltrane, Charlie Parker, Miles Davis, e Dizzy Gillespie. Ma sono anche influenzato dalla musica di KRS-One, Woo Tang Clan, e L. L. Cool J, Peaches and Herb, e gli Earth, Wind and Fire. Qui sta la differenza. Non so da dove venga il termine “neobop”. È un modo per descrivere il fatto che viviamo in un mondo contemporaneo e per noi suonare in uno stile classico è fuori dalla norma. Conosco persone a casa mia che mi chiedono sempre “perché non fai rap?”. Non si aspettano che io, una persona giovane, suoni jazz. Ma io ho sempre sentito di dover sfidare me stesso. E dato che amo moltissimo la musica, non volevo cadere nella routine. Voglio imparare sempre qualcosa di nuovo. Non mi è mai interessato guadagnare molti soldi e diventare famoso. Penso che, finché rimango fedele all'arte e imparo quanto più posso, il resto è secondario. Per prima cosa viene ciò che posso fare per portare avanti il mio sviluppo come artista. Per questo “neobop” è solo un titolo, una finzione».
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ROY HARGROVE
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GONE TOO SOON GLI ULTIMI ANNI (2006-2018)
DOPO ALCUNI OTTIMI DISCHI PUBBLICATI TRA IL 2006 E IL 2009, LA CARRIERA DI ROY HARGROVE SEMBRA SUBIRE UN RALLENTAMENTO CON IL NUOVO DECENNIO. LA RAGIONE VA CERCATA IN PROBLEMI CONGENITI DI SALUTE, CHE CON GLI ANNI SI FANNO SEMPRE PIÙ GRAVI. IL TROMBETTISTA CONTINUA COMUNQUE L'ATTIVITÀ DAL VIVO E REGISTRA COME SIDEMAN. SCOMPARE IL 2 NOVEMBRE DEL 2018, A SOLI QUARANTANOVE ANNI
DI SERGIO PASQUANDREA
NIENTE DI SERIO “Nothing Serious” (Verve, 2006) esce contemporaneamente a “Distractions”, l'ultimo lavoro degli RH Factor. Se ancora ci fosse bisogno di una prova della versatilità di Roy Hargrove, questo disco ne fornisce una lampante: quanto “Distractions” è impregnato di atmosfere urbane e contemporanee, tanto “Nothing Serious” si muove nei più rigorosi canoni della tradizione hard bop. Persino le copertine sembrano pensate per sottolinearne la natura di dischi insieme gemelli e opposti: in entrambe c'è in primo piano il volto di Hargrove, di profilo, con addosso lo stesso cappello e la stessa giacca, su uno sfondo cittadino; ma in “Distractions” il tutto è colorato di tinte brillanti, mentre “Nothing Serious” esibisce sfumature grigie, bluastre e marroncine. Il gruppo è il più classico quintetto jazz: Justin Robinson a sax alto e flauto, Ronnie Matthews al pianoforte, Dwayne Burno al contrabbasso e Willie Jones III alla batteria, oltre ovviamente al leader alla tromba e al flicorno. Ancora una volta, come già visto, la formazione riunisce coetanei di Hargrove insieme a un maestro delle generazioni precedenti: Matthews (1935-2008), un musicista che ha militato al fianco di leggende come Max Roach, Johnny Griffin, Art Blakey, Freddie Hubbard, Woody Shaw, Lee Morgan e molti altri ancora. Il disco è di ottima qualità, come del resto è quasi scontato con Hargrove: si apre con la title-track, sul cui ritmo cubano il trombettista sgrana un assolo di micidiale precisione, per proseguire attraverso un programma fatto soprattutto di brani medio-veloci, con l'eccezione di Trust, una morbida ballad su cui Roy può sfoggiare il suo splendido timbro strumentale.
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ROY HARGROVE
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ROY HARGROVE
Negli anni successivi passeranno sempre più spesso nelle sue band musicisti giovani come i batteristi Quincy Phillips (1977) e Ameen Saleem (1979) e i pianisti Sullivan Fortner e Jonathan Batiste, entrambi nati nel 1986. Segno che Roy è ormai passato dal ruolo di “giovane leone” a quello di veterano
CIBO PER LE ORECCHIE “Nothing Serious” è l'ultimo disco di Hargrove su etichetta Verve. Il successivo “Earfood”, del 2008, esce infatti per l'EmArcy. Del gruppo precedente, resta solo Justin Robinson, mentre il resto della formazione è rinnovato: Gerald Clayton al pianoforte, Danton Boller al contrabbasso e Montez Coleman alla batteria. L'indirizzo stilistico, comunque, rimane mirato verso un energico hard bop, spesso percorso da ritmi di danza (I'm Not So Sure, Strasbourg/St. Denis) o spezzato da brani di carattere più medidativo (Starmaker, Joy Is Sorrow Unmasked, Rouge, Divine). Il finale recupera addirittura un brano di Sam Cooke (Bring It On Home To Me), sul cui ritmo terzinato Hargrove ha modo di lasciare scatenare il bluesman che è in lui. Vale la pena di notare che stavolta Hargrove è il più anziano del gruppo, con l'eccezione di Robinson che è un suo coetaneo: Boller (1972) e Coleman (1974) sono nati negli anni Settanta, mentre Gerald Clayton ha solo ventidue anni. Negli anni successivi passeranno sempre più spesso nelle sue band musicisti giovani come i batteristi Quincy Phillips (1977) e Ameen Saleem (1979) e i pianisti Sullivan Fortner e Jonathan Batiste, entrambi nati nel 1986. Segno che Roy è ormai passato dal ruolo di “giovane leone” a quello di veterano, che può permettersi di fare da mentore agli young cats, come li si definirebbe nel gergo jazzistico.
GERALD CLAYTON
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
DOWNBEAT New York, 1946 Dizzy Gillespie, John Lewis, Cecil Payne, Miles Davis, Ray Brown
AI TEMPI DELLE BIG BAND Il disco successivo, “Emergence” (EmArcy, 2009), vede per la prima volta Roy Hargrove a capo di una big band: un'idea che lo aveva tentato da sempre (del resto, aveva collaborato più volte con la Dizzy Gillespie All Stars Big Band) e che gli permette, in quattro brani su undici, di dimostrare anche le sue abilità di arrangiatore. «Ho sempre guardato in video la big band di Dizzy [Gillespie], che era una grande ispirazione per me. Quando cominciai a suonare jazz da ragazzo, la big band è stato il mio terreno d'allenamento, per imparare come leggere e come suonare in sezione o in gruppo. È come se volessi tornare indietro. Una volta c'erano le big band e poi vennero i piccoli gruppi; ora, ci sono i piccoli gruppi e io cerco di riportare indietro le big band. […] Il gruppo è una band piena di solisti, quindi per me la sfida è metterli tutti insieme e farli suonare come un ensemble pensando tutti nella stessa direzione, con gli stacchi compatti e tutti che respirano allo stesso tempo... le cose che fanno le normali big band».
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ROY HARGROVE
© WILLIAM P. GOTTLIEB
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CHARLIE PARKER, THREE DEUCES, NEW YORK, 1947
UNA LEZIONE DI UMILTÀ “Emergence” è, tanto per cambiare, un disco suonato benissimo, con una scelta di brani che pesca dai dischi precedenti di Hargrove (Velera e Roy Allan da “Family”, Mambo For Roy da “Habana”, Trust da “Nothing Serious”), pantografati in formato orchestrale, aggiungendovi una mancita di standard, alcune composizioni originali, tra cui una lunga suite firmata da Frank Lacy (Requiem) e persino la ripresa de La Puerta, vecchia canzone del messicano Luis Demetrio (1931-2007), interpretata da Roberta Gambarini, che in quegli anni si stava facendo un nome tra le migliori vocalist sulla scena. Suoni, timbri e arrangiamenti rimandano senz'altro a una dorata classicità, ma la qualità esecutiva è innegabile. Del resto, Hargrove ha affermato di considerare l'esperienza della big band come un salutare bagno d'umiltà: «Un sacco di volte, specialmente oggi, quando vado a una jam session, la gente è così egocentrica! […] Suoniamo un blues in Fa e chiunque abbia uno strumento si alza a suonare, e va avanti per tre ore. Ogni musicista suona cento chorus. Non c'è umiltà. Le big band, i grandi ensemble creano un ambiente in cui non devi distenderti a suonare per due ore. Non tutti possono essere John Coltrane! A volte puoi suonare anche soltanto mezzo chorus. Charlie Parker suonava mezzo chorus e ti faceva uscire di testa! C'è qualcosa da dire sull'abilità di tagliare: dire meno ma metterci più significato».
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«Cerco di cantare attraverso lo strumento come farebbe un vocalist. Penso sempre al testo. Clifford Jordan mi disse che devi conoscere le parole di una canzone, perché è allora che capisci di che cosa parla, e quando suoni la melodia capisci davvero quali emozioni stai trasmettendo. Ti aiuta anche con il fraseggio»
© ANDREA ROTILI
SUONARE COME UN CANTANTE In “Emergence” c'è una traccia, September In The Rain, nella quale Roy Hargrove si cimenta come cantante, rivelando una voce soffice e garbata e lanciandosi poi in un divertente scambio di frasi scat con l'orchestra, un po' nello stile di Cab Calloway. Egli stesso, del resto, aveva mostrato una chiara qualità “vocale” nelle sue splendide interpretazioni di ballad, che costituivano sempre uno dei momenti più emozionanti nei suoi dischi e nelle sue esibizioni dal vivo: «Sono sempre stato attratto dai pezzi lenti», raccontava a Ted Panken nel 2009. «Per me le ballad hanno una qualità emozionale. Rallenti e senti tutto, tutte le sfumature... Forse sono anche un romantico. Penso di credere nell'amore! Mi piacciono i brani lenti. Mi piace quando una canzone ti fa piangere. A volte è proprio lì che c'è la bellezza, quando rallenti il tempo. E ascolto sempre i cantanti. Nat King Cole e Shirley Horn. Sarah Vaughan è la mia preferita. Ovviamente devo molto a Carmen McRae. L'ho sentita molte volte dal vivo e lei mi faceva sempre salire sul palco. Il suo modo di porgere i brani... Ho ascoltato anche Freddy Cole al Bradley. Nella mia musica c'è un elemento vocale. Cerco di suonare come un cantante. Cerco di cantare attraverso lo strumento come farebbe un vocalist. Penso sempre al testo. Clifford Jordan mi disse che devi conoscere le parole di una canzone, perché è allora che capisci di che cosa parla, e quando suoni la melodia capisci davvero quali emozioni stai trasmettendo. Ti aiuta anche con il fraseggio».
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Purtroppo, l'ennesimo ricovero gli risulta fatale: il 2 novembre 2018, all'età di quarantanove anni, Roy Hargrove muore al Mont Sinai Hospital di New York, per un collasso cardiaco dovuto a insufficienza renale. Lascia la moglie, la cantante e compositrice Aida Brandes, e una figlia, Kamala, avuta da una precedente relazione
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QUARANTANOVE ANNI A questo punto, Hargrove sembrerebbe lanciato dritto verso il firmamento del jazz: ha quarant'anni, è un musicista maturo, creativo, con una reputazione ben consolidata. E invece qualcosa in lui sembra rompersi: il nuovo decennio non vedrà più suoi dischi da leader, anche se rimane piuttosto attivo sia come sideman sia dal vivo. Le ragioni sono diverse: c'è un'inveterata dipendenza dalle droghe, che nel 2014 lo porterà a un arresto per possesso di cocaina (ma il manager Larry Clothier ha affermato che, negli anni seguenti, il trombettista era riuscito a disintossicarsi con successo). Ma soprattutto c'è un'insufficenza renale congenita, che già a partire dai primi anni Duemila lo aveva costretto a sottoporsi a periodiche sedute di dialisi. Fatto sta che il rendimento di Roy Hargrove comincia a farsi altalenante e i suoi impegni diventano via via più sporadici. A New York, comunque, lo si può trovare spesso allo Small's, delle cui jam-session continua a essere un partecipante assiduo. Sempre secondo le parole di Clothier, «qualunque cosa abbia avuto per parecchi anni, era stata radicalmente, drasticamente limitata nell'ultimo anno o due. Stava suonando benissimo; si era davvero rimesso in sesto. Nell'ultimo giro che abbiamo fatto in Europa, era stato in forma come non l'avevo sentito negli ultimi dieci anni». Purtroppo, l'ennesimo ricovero gli risulta fatale: il 2 novembre 2018, all'età di quarantanove anni, Roy Hargrove muore al Mont Sinai Hospital di New York, per un collasso cardiaco dovuto a insufficienza renale. Lascia la moglie, la cantante e compositrice Aida Brandes, e una figlia, Kamala, avuta da una precedente relazione.
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HARGROVE E LA COMPOSIZIONE I MAESTRI
«John Hicks mi ha influenzato con la sua concezione armonica. Usava molti accordi maggiori. Quando entrai in contatto con lui, suonava brani con il suono dell'accordo maggiore con l'undicesima aumentata. È uno dei miei suoni favoriti, quindi cominciai a scrivere molti brani che contenevano quel suono. James Williams aveva un approccio molto soulful alla scrittura. È una cosa che ho preso un po' da lui. Sto imparando a scrivere in un modo molto melodico, ma con accordi che sono un po' diversi dalle solite sequenze II-V, o III-VIII-V-I. A volte si muovono in modi inconsueti. Cerco di fare in modo che le mie composizioni siano brani che puoi ascoltare e ricordare, che rimangano con te. Questa è la musica che mi piace. È per questo che mi sono divertito tanto a suonare in un disco di Cedar Walton che ho fatto da poco (“Composer”, Astor Place, 1996. NdR). [Walton] aveva scritto tutti questi brani che erano forti dal punto di vista melodico. Sono rimasti con me per un bel po'. Li sento ancora in testa. Ovviamente, Charlie Parker influenza il mio modo di scrivere. Metteva in campo un sacco di roba ritmica e armonica. E molti pezzi erano come porzioni dei suoi assolo. Aveva certe frasi che poi sviluppava. Una delle cose più belle nei brani di Bird è che, alla fine della melodia, ricominciano da capo [Canta il tema di Drifting On A Reed]. Ritornano su sé stessi e continuano ad andare avanti e ancora avanti! Per me è fortissimo, mi piace molto». (Intervista del 1996 con Mark Felton per All About Jazz)
ROY HARGROVE
SUONARE E DIVERTIRSI Nonostante la malattia e i problemi privati, Hargrove aveva continuato a suonare dal vivo e a lavorare in studio come sideman. Lo troviamo con venerati maestri come Jimmy Cobb (“Cobb's Corner”, Chesky, 2007; “Jazz In The Key Of Blue”, Chesky, 2009), Johnny Griffin (“Live At Ronnie Scott's”, In+Out, 2008), Roy Haynes (“Roy-Alty”, Dreyfus Jazz, 2011), Marcus Miller (“A Night In Monte Carlo”, Dreyfus/Concord, 2010), ma anche con nomi meno noti come Steve Davis (“Update”, Criss Cross, 2006), Anke Helfrich (“Better Times Ahead”, Double Moon, 2006), John Beasley (“Letter To Herbie”, Resonance, 2008), Johnny O'Neal (“In The Moment”, Smoke Sessions Records, 2017), con artisti giovani come il pianista israeliano Roy Assaf (“Andarta”, Origin, 2008), la cantante francese Cyrille Aimée (“Cyrille Aimée & Friends”, SmallsLIVE, 2011) o il batterista Ameen Saleem (“The Groove Lab”, Jando Music, 2015), con artisti rock e pop come John Mayer (“Continuum”, Columbia/Aware Records, 2006) e Angelique Kidjo (“Õÿö”, Razor&Tie, 2010). Nel 2014 fa capolino su “Black Messiah” (RCA), dell'amico D'Angelo. La sua ultima apparizione discografica risale al 2017, sul disco “A Brief Enquiry Into Online Relationships” (Dirty Hill) del gruppo indie-pop The 1975. Del resto, egli stesso aveva dimostrato abbondantemente di considerare poco o nulla le barriere di genere. «Non mi piacciono le vibrazioni negative», affermava già nel 1995. «Un sacco di volte vado a sentire dei musicisti talmente seri: “Sono un jazzista. Sono super-fico e super-moderno”. Voglio dire, è fico, ma è noioso. Sai che cosa intendo? Io cerco di divertirmi sul palcoscenico, perché se non lo faccio io non lo fa nemmeno la gente. Uno degli aspetti più importanti della musica è risollevare il morale della gente».
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ROY HARGROVE
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COVER STORY
ROY HARGROVE
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E il vecchio amico Antonio Hart, di rimando, scriveva subito dopo la sua scomparsa: «Il mondo non ha mai potuto vedere tutto il pieno talento di Roy Hargrove. Era al di là delle categorie e della stessa parola “genio”. Roy aveva qualcosa che si può vedere solo un paio di volte nella vita: qualcosa che si vedeva in Charlie Parker o in John Coltrane»
© EMANUELE VERGARI
SONO UN CANALE PER LA MUSICA Roy Hargrove, nonostante gli esordi precoci e la carriera costellata di successi, non è mai stato un divo o un amante dei riflettori. Se a volte poteva dare l'impressione di una certa riservatezza, o persino scontrosità, chiunque l'ha conosciuto bene lo descrive invece come una persona positiva, caratterizzata da una grande disponibilità e umiltà, sempre pronto a imparare da chiunque e a mettersi al servizio della musica. «Sono fortunato di avere l'occasione di stare davanti alla gente e diventare un canale attraverso cui la musica scorre da me a loro», dichiarava in un'intervista realizzata nel 2011 durante il Chicago Jazz Festival. «In questo modo possono cambiare la giornata, sentirsi meglio. […] Cerco di tenermi lontano dalle cose negative. Ce ne sono già abbastanza. […] Non voglio essere il portavoce di nulla, è pericoloso... (ride). Ma passerò le cose che ho imparato da gente come John Hicks, Walter Booker, Larry Willis, Ronnie Matthew, George Coleman, tutti questi grandi veterani della nostra musica. Passerò ciò che ho imparato da loro a tutti coloro che incontro». La sua scomparsa ha suscitato un coro unanime di cordoglio e rimpianto nei suoi colleghi musicisti. Nicholas Payton ha affermato: «Ho detto spesso che due cose hanno cambiato la scena del jazz a New York: la scomparsa di Art Blakey e la chiusura del Bradley’s. Oggi se n’è aggiunta una terza, la morte di Roy Hargrove. New York non sarà più la stessa senza di te, Roy». E il vecchio amico Antonio Hart, di rimando, scriveva subito dopo la sua scomparsa: «Il mondo non ha mai potuto vedere tutto il pieno talento di Roy Hargrove. Era al di là delle categorie e della stessa parola “genio”. Roy aveva qualcosa che si può vedere solo un paio di volte nella vita: qualcosa che si vedeva in Charlie Parker o in John Coltrane»
ROY HARGROVE
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© FPAOLO GALLETTA
STORIE
LUCA AQUINO LE MELODIE SOFFIATE “ITALIAN SONGBOOK” (ACT, 2019) È QUALCOSA DI PIÙ DI UN ALBUM, PERCHÉ AL SUO INTERNO C’È UN’ESPERIENZA UMANA CHE FA LA DIFFERENZA: QUELLA DEL TROMBETTISTA LUCA AQUINO, CHE HA DOVUTO INTERROMPERE LA SUA CARRIERA ARTISTICA PER CIRCA DUE ANNI A CAUSA DI UNA PARESI FACCIALE MA CHE HA FATICOSAMENTE RECUPERATO LA TECNICA E IL DESIDERIO DI TORNARE A SUONARE. VI RACCONTIAMO UNA STORIA CHE PARLA DI PASSIONE, AMORE, BELLEZZA E MUSICA
DI LUCIANO VANNI
C
onosco Luca Aquino fin da quando, era il 2008, venne alla luce il suo album d’esordio, “Sopra le nuvole” (Universal Music). Con Jazzit lo abbiamo costantemente accompagnato in questi primi dieci anni di produzione discografica e attività concertistica, e a Luca riconosco una passione per la vita, ancor prima della musica, e quella dolcezza, quell’altruismo, quella timidezza e quell’educazione che lo rendono a suo modo unico. E poi lo distingue una curiosità intellettuale che lo porta ad assorbire sempre nuovi stimoli, tra arte e letteratura, poesia e cinema, ma anche sport, ambiente e viaggi: quel desiderio di conoscenza e di sperimentazione che ha generato una sequenza di produzioni discografiche così diverse tra loro, tra echi di Lucio Dalla, standard jazz, The Doors e Radiohead, tra acustico ed elettronico. Poi si è spenta la luce e Luca ha vissuto questi due ultimi anni in un forzato isolamento. Un silenzio obbligato per motivi di salute che ha comunque portato nuova bellezza e nuove opportunità: una bellissima figlia, Anita, e un nuovo album, “Italian Songbook”, che ha spinto il trombettista a ricostruire un nuovo stile e una nuova tecnica. Allora, caro Luca, riannodiamo i fili della memoria. Torniamo all’estate del 2017. Tutto era pronto per il tuo Jazz Bike Tour, e invece... Il mattino della partenza del mio tour in bicicletta, mi sono svegliato con la parte sinistra del mio volto completamente paralizzata: una paresi di Bell aveva bruciato il nucleo del settimo nervo facciale. Ci spieghi meglio che cosa era questo Jazz Bike Tour? Ho sempre amato pedalare, fin da piccolo. Una passione che mi ha trasmesso papà. Con il Jazz Bike Tour sarei dovuto partire dalla mia città, Benevento, con bici e tromba, per arrivare in Norvegia, a Oslo, in cinquanta giorni, con una media di settanta chilometri al giorno. Mi ero preparato un anno intero, atleticamente ero pronto. Di giorno avrei pedalato e la sera avrei suonato in festival, luoghi d’arte, club, teatri, piazzette e borghi antichi, con musicisti europei e artisti provenienti dal Medio Oriente. Oltre quaranta concerti, organizzati in otto nazioni, insieme al manager del progetto Andrea Scaccia, anche lui appassionato di ciclismo. Il sottotitolo del tour era “Wheels not Walls”, un viaggio su due ruote oltre muri e barriere, un cammino nel segno della musica e della sua capacità di avvicinare culture e accorciare distanze.
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INTERVISTA
LUCA AQUINO
«Il Jazz Bike Tour metteva in connessione la musica jazz con lo sport, la natura, l’arte, l’economia verde, i riverberi, il cibo, l’avventura, l’amicizia, l’accoglienza, la solidarietà e un pizzico di follia. Il Jazz Bike Tour era un contenitore delle esperienze che avevo vissuto e delle passioni che mi avevano travolto fino a quel momento»
Un qualcosa di estramente attuale, capace di inserire la musica in un contesto esperienziale e di valore civile e sociale molto più ampio. Proprio così. Il Jazz Bike Tour metteva in connessione la musica jazz con lo sport, la natura, l’arte, l’economia verde, i riverberi, il cibo, l’avventura, l’amicizia, l’accoglienza, la solidarietà e un pizzico di follia. Il Jazz Bike Tour era un contenitore delle esperienze che avevo vissuto e delle passioni che mi avevano travolto fino a quel momento. E poi arrivano la diagnosi e quindi la convalescenza e la riabilitazione. Non sono riuscito a muovere il viso per mesi, non potevo neanche sorridere e avevo grosse difficoltà a mangiare, parlare e a interagire in pubblico. È stato un anno complesso, durante il quale il pensiero che io potessi risuonare oppure no la tromba era secondario, quasi irrilevante. Volevo solo recuperare le funzioni motorie del mio volto e non cadere in depressione. Sono una persona caparbia e ostinata e, dopo un anno di riabilitazione rigida e costante, i nervi si sono rigenerati, i muscoli facciali hanno preso vigore e le labbra hanno ripreso pian pianino a vibrare. Ci vuole coraggio, forza e molta energia positiva. Il ritorno allo strumento come è stato? Ho impiegato poi un altro anno ancora per riuscire a far suonare questo maledetto e meraviglioso strumento.
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E in questo periodo, che posto ha avuto la musica? Che cosa hai ascoltato? Ho ascoltato tanto bebop.
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E come mai? E soprattutto quali sono stati gli autori maggiormente ascoltati? Ho sempre ascoltato tanto jazz, senza paraocchi, ma durante quel difficile periodo durante il quale non riuscivo neanche ad accennare un sorriso, i boppers mi trasmettevano forza e soprattutto gioia e quindi li preferivo ai “darker” nonostante forse più vicini al mio stile e gusto musicale. Tra i tanti cito Charlie Parker, Dizzy, Bud Powell, Erroll Garner, Tad Dameron, Fats Navarro, Art Tatum, Earl Hines, Barry Harris, Clark Terry, Miles e Chet prima maniera, Roy Haynes, Ray Brown, JJ. E poi ero, e sono in fissa, con uno dei pochi jazzisti al mondo che suonava con lo stesso spirito degli inventori di questo genere: Roy Hargrove. Hai mai pensato che la tua vicenda artistica si sarebbe bloccata per sempre? Quando andavo nel panico sì, ma poi, con lucidità, capivo che la tromba era ed è solo un mezzo. Sono io a suonare, non lei. E poi sei ripartito a suonare con i primi esercizi. Cosa ricordi di quel periodo? Sono ripartito da zero, anzi da meno infinito, facendo esercizi facciali e studiando metodi di tromba dei quali non ero neanche a conoscenza. Da piccolo ero stato fortunato, la tromba non mi aveva mai causato problemi e invece poi ho dovuto combattere, cambiare approccio allo strumento e mentalità. È stato tutto molto lento e snervante. Appena mollavo la presa, la tromba non emetteva più alcun suono. Avevo sempre pochissima resistenza. E come reagivi? Mi dedicavo al pianoforte, allo studio dell’elettronica, della tromba elettronica e al mio festival. Passeggiavo tanto. Ero in netta ripresa ma un bel giorno ho avuto un assurdo secondo caso di paresi, all’altro lato del viso, ma questa volta, per fortuna, più leggero.
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LUCA AQUINO
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INTERVISTA
No, pazzesco... Una botta psicologica pazzesca. Il bellissimo romanzo La strada di Cormac McCarthy poi mi ha aperto gli occhi sull’importanza del presente, al cui cospetto la meta dovrebbe perdere quasi ogni rilievo, e, dopo qualche mese, grazie a Bobby Shew e allo studio del trombone a pistoni, ho finalmente trovato la strada giusta, con un’impostazione nuova e uno strumento nuovo che ora porta la mia firma, realizzato appositamente per me dal costruttore olandese Hub Van Laar. E poi arriva Anita, un nuovo inizio. Mia figlia mi ha migliorato esponenzialmente la vita. Ora tutto ha senso. Ti capisco, da padre. Corrono i mesi, fino a quando la ACT di quel genio di Siggi Loch, il suo produttore, ti chiama per incidere un album. Ci racconti quando e come è nata l’idea? La ACT aveva prodotto un album del quartetto di Manu Katché, del quale io ero parte integrante, e la prima volta che incontrai lo staff dell’etichetta fu a Parigi, dopo il nostro concerto con Sting all’Olympia. Mi fecero i complimenti e ricordo la loro curiosità nei confronti del mio suono soffiato. Conobbi poi Siggi sempre a Parigi, al New Morning, ma solo dopo un incontro romano nello studio di Mimmo Paladino si decise di collaborare alla produzione di un mio nuovo album. Arriviamo all’opera: un songbook italiano e quindi un corpus di melodie di straordinaria popolarità. Perché hai deciso di ripartire da qui? Dopo un periodo così difficile, ho deciso di rendermi la vita più semplice e ripartire da melodie ben impresse nella mia mente e stampate nel mio cuore. Ho scelto i brani che si cantavano nella mia famiglia quando ero bambino, melodie ben note e immediatamente riconoscibili. Un omaggio, in punta di piedi, alla canzone italiana, forse la più bella al mondo.
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«Il suono che ascolto dalla mia campana ora è differente, è più profondo. Ho più tecnica sullo strumento ma so usarla ancora meglio. Odio più di prima i tecnicismi inutili. Sento di avere un vocabolario più ricco e forbito, ma suono in maniera più viscerale. [...] I consigli di Enrico Rava sono stati fondamentali»
Coprotagonisti del disco, un’orchestra, una fisarmonica e un pianoforte: perché hai scelto questo assetto timbrico? Dopo qualche prova, con Siggi abbiamo deciso di lavorare su un sound morbido, largo e discreto, senza elettronica e tastiere, per dare voce e spazio al suono acustico della mia tromba, accompagnato da pianoforte e fisarmonica. L’Orchestra Filarmonica di Benevento, presente nell’album in quattro brani, è stata una bellissima scoperta. Ragazzi bravi, grintosi, autonomi, liberi. LUCA AQUINO
Cosa ti ha portato a scegliere i due compagni di avventura, Natalino e Danilo? Danilo è un poeta. Quest’anno ha suonato al mio festival Riverberi e tutti hanno detto che è stato il concerto più bello degli ultimi dieci anni. Natalino suona la fisarmonica con cuore e intelligenza: è una persona e un musicista gentile, raffinato, di qualità, e sempre alla ricerca del senso profondo dell’universo e della spiritualità. Ricordo che una volta, dopo un suo assolo, durante un concerto nel sito archeologico di Petra, rimasi talmente sconvolto da non riuscire a suonare. Quella sera sembrava posseduto. Alla fine del concerto, dopo vari concerti, mi disse di aver finalmente compreso la mia musica.
ITALIAN SONGBOOK ACT, 2019 Luca Aquino (tr, flic, trn); Danilo Rea (pf); Natalino Marchetti (fisa); Orchestra Filarmonica di Benevento; Giovanni Francesca (arr, cond); Fabio Giachino (pf, keys); Rino De Patre (ch) e Ruben Bellavia (batt)
Dodici brani, tra Ennio Morricone e Adriano Celentano, Luigi Tenco e Fabrizio De André (ma anche la meno
Cosa ha significato per te tornare nuovamente in studio? All’inizio mi tremavano le dita, un’esperienza tremenda, ma dopo il primo brano mi sono sentito a casa.
conosciuta So che ti perderò composta da Chet Baker nel 1962), che intendono dare rappresentanza alla melodia, alla lirica e alla poesia in mu-
Ma soprattutto, ti sei sentito diverso? E in che cosa? Il suono che ascolto dalla mia campana ora è differente, è più profondo. Ho più tecnica sullo strumento ma so usarla ancora meglio. Odio più di prima i tecnicismi inutili. Sento di avere un vocabolario più ricco e forbito, ma suono in maniera più viscerale. Tra le tante telefonate e messaggi di amici e colleghi, i consigli di Enrico Rava sono stati fondamentali. Ora quando suono penso meno.
sica della nostra tradizione. L’album è diviso in due: una parte più cameristica in trio (con pianoforte e fisarmonica) e una più sinfonica con l’orchestra, dove si può ascoltare, per la prima volta, Luca Aquino al trombone. L’atmosfera è rilassata e minima-
Come sono nati la selezione dei brani e l’arrangiamento? Pippo non lo sa è stato arrangiato e suonato al piano da Fabio Giachino, i brani orchestrali, con Bellavia ai tamburi, sono stati arrangiati da Giovanni Francesca, mentre la maggior parte dell’album è stato suonato in trio (tromba, piano e fisarmonica) senza alcun arrangiamento. Buona la prima.
le, tutto sembra trattenersi su tempi lenti, con arrangiamenti che esaltano il lirismo e la bellezza delle melodie originali. Spicca l’interpretazione di Almeno tu nell’universo dove Aquino costruisce personali linee melodiche
Come definiresti questo album? Che cosa ti piace di più? Qual è il momento, a tuo avviso, migliore dell’album? Dove ti batte forte il cuore? È una meritata, dolce ripartenza. Mi piace molto il sound generale e ancor di più quello della mia tromba. È dolce. È un album semplice, come tanti altri in giro. Nulla di eclatante, non c’è avanguardia e non c’è sperimentazione. C’è poca follia. È il mio primo album suonato e pensato in questo modo ed è però anche il mio primo album che sono riuscito a riascoltare più di una volta.
e l’azione dell’orchestra sembra cercare costantemente un dialogo con il solista. Ma il nuovo Aquino, forse, si ascolta in tutta la sua profondità espressiva nel soffio lirico de La strada, che racconta simbolicamente ciò che accadrà in futuro. Bella la cover art di Mimmo Paladino. (LV)
Tornerai a immaginare un tour in bicicletta, o lo hai messo alle spalle? Papà, qualche mese fa, mi ha fatto trovare davanti al garage la mia vecchia bici ripulita, luccicante e cromata, col sellino per Anita. Ancora non ho avuto il coraggio e la voglia di salirci su ma, come detto prima, sono un tipo testardo. Oslo: chissà
Deborah’s Theme / Scalinatella / La canzone dell’amore perduto / Caruso / Storia d’amore / Almeno tu nell’universo / Un giorno dopo l’altro / Era de maggio / So che ti perderò / Anema e core / Pippo non lo sa / La strada
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STORIE
SEAMUS BLAKE UN AMERICANO A PARIGI
DALL’ANNO SCORSO, IL SASSOFONISTA SEAMUS BLAKE HA LASCIATO NEW YORK PER VIVERE E LAVORARE A PARIGI. ORA, L’USCITA DI “GUARDIANS OF THE HEART MACHINE” (WHIRLWIND), REALIZZATO INSIEME A MUSICISTI FRANCESI, È UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE SU QUEST’ESPERIENZA
DI STUART NICHOLSON
Q
uando Downbeat istituì il suo referendum dei critici, nel 1961, ciascuna categoria – tromba, trombone, voce, sax tenore, sax alto e così via – era seguita da una sezione intitolata “Talenti meritevoli di maggior riconoscimento”. Anche se in tempi più recenti è stato sostituito dalla dicitura “Rising Star”, il presupposto originario di un musicista che merita un maggior riconoscimento sembra attagliarsi perfettamente al sassofonista Seamus Blake. Dopo tutto, ha un curriculum vitae che farebbe spavento a molti aspiranti musicisti di altri settori. Mentre ancora studiava al Berklee College of Music di Boston, andava in tour e registrava con il batterista Victor Lewis, e dopo la laurea si affermò rapidamente su una scena jazzistica competitiva come quella di New York. Nel 1993 debuttò come leader per la Criss Cross con “The Call”, seguito da altri sei dischi per la stessa etichetta. Nel 2002 vinse la Thelonious Monk International Jazz Saxophone Competition di Washington, D.C., e suonò al fianco di Wayne Shorter e Herbie Hancock. Da allora, ha lavorato più o meno con tutti i musicisti importanti della scena newyorkese: Pat Metheny, Brad Mehldau, Antonio Sanchez, Dave Douglas, Michael Brecker, Randy Brecker, Jane Monheit, Joe Lovano, Gonzalo Rubalcaba, Joshua Redman, Kenny Barron, Sam Yahel, Kurt Rosenwinkel, Larry Grenadier, Wayne Krantz, Jorge Rossy, Jack deJohnette, Brian Blade, Jeremy Pelt, Eric Reed, Dave Kikoski, Al Foster e... beh, vi siete fatti un’idea. È considerato uno dei sassofonisti più influenti della sua generazioni e John Scofield l’ha definito «straordinario: un sassofonista totale», quando suonava nella sua Quiet Band.
INTERVISTA
SEAMUS BLAKE
«Per quanto New York sia stimolante, per quanto sia il centro del jazz di oggi, non è per forza un bel posto dove vivere: c’è sempre tanto da lottare lì, e io cominciavo a stancarmi di abitare sempre nello stesso brutto quartiere, prendere continuamente la metropolitana, vivere in una grande città»
A PARIGI
Ma un conto è la stima dei colleghi, un altro l’incessante competizione sulla scena jazzistica di New York. Nel 2016 Blake era in cerca di nuovi orizzonti. «Sono molto attento alla qualità della vita», ha raccontato. «Credo che fossi arrivato a un punto della mia vita a New York, in cui ero pronto per cambiare. New York è splendida, non è che la odi, ma credo stessi cercando una diversa qualità della vita, un posto diverso dove vivere. Per quanto New York sia stimolante, per quanto sia il centro del jazz di oggi, non è per forza un bel posto dove vivere: c’è sempre tanto da lottare lì, e io cominciavo a stancarmi di abitare sempre nello stesso brutto quartiere, prendere continuamente la metropolitana, vivere in una grande città. Cercavo un cambiamento nella qualità della vita». Nell’autunno 2016 Blake suonava al Ronnie Scott’s con David Sanchez: «Per un breve periodo sono stato nella sua band, e dopo il concerto venne a salutarmi un signore di nome Olivier Sez. Non lo conoscevo, si presentò e disse: “Ciao, Seamus, sono un tuo ammiratore, non sono un promoter di professione, ma sono un appassionato di musica e ti seguo da anni. Prima o poi mi piacerebbe organizzare un tour con te e con alcuni giovani musicisti francesi”. Io risposi: “Certo, mi pare una splendida idea!”. Così mi organizzò un tour europeo e io gli raccomandai Tony Tixier come pianista. L’avevo conosciuto a New York, perché Tony ci aveva abitato per un po’, ma non avevo suonato molto con lui. Facemmo il tour e fu un grande successo, ci divertimmo e mi piacque molto suonare con quei musicisti: il batterista Gautier Garrigue suona benissimo e [il contrabbassista] Florent Nisse è un ottimo musicista, sono fra i migliori jazzisti francesi. Dopo il tour, non c’erano piani precisi, ma Olivier lanciò l’idea di un disco e io pensai: “Sì, perché no?”. Mi era piaciuto suonare con quei ragazzi e poteva essere un modo per far proseguire il progetto». Nel 2018 Blake si è trasferito a Parigi e da allora ha sempre lavorato in Europa.
TONY TIXIER, FLORENT NISSE, SEAMUS BLAKE, GAUTIER GARRIGUE
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SEAMUS BLAKE
SUONI DIFFERENTI
L’uscita di “Guardians Of The Heart Machine” (Whirlwind) segna il nono disco da leader di Blake, e forse il suo migliore. Il pianista Tony Tixier è un accompagnatore perfetto (il suo ultimo album “Life Of Sensitive Creatures” è anch’esso su etichetta Whirlwind), mentre Garrigue e Nisse hanno il dono di saper fare la cosa giusta al momento giusto, che è il marchio infallibile dei musicisti d’eccellenza. Blake ha scritto otto dei nove brani e li ha arrangiati tutti: «L’idea era di costruire un ponte fra quelli che considero gli elementi dello stile europeo e americano, scrivere musica che mi piace suonare, ma anche con una sensibilità europea». È un’idea interessante, che dimostra come molti musicisti europei non solo sentano il jazz in maniera diversa rispetto alle loro controparti americane, ma lo suonino anche diversamente. «Credo esista una sorta di iniziativa», osserva Blake, «per cui i musicisti europei non copiano sempre lo stile americano, come hanno fatto per molti anni. Il jazz è venuto dall’America, perciò la maniera tradizionale di suonarlo è quella che deriva dalla tradizione americana. Direi che ci sono alcuni musicisti che decidono forse di andare avanti e smettere di copiare lo stile americano. Questi elementi variano da scena a scena, da paese a paese: esiste una scena norvegese, un suono tedesco, e c’è anche un suono britannico, ma in ciascun paese ci sono anche molti che suonano nello stile americano; anche se, quando dico “stile americano”, non intendo “rétro”, perché ci può anche essere un musicista americano contemporaneo che esercita un’influenza, un Brad Mehldau e così via, artisti che sono copiati in tutto il mondo. In Norvegia ho passato del tempo a suonare con i musicisti locali e c’è un suono norvegese, probabilmente ispirato dalle precedenti star norvegesi come Jan Garbarek o gli artisti Ecm. L’Ecm ha contribuito a definire alcuni stili del sound europeo, in Gran Bretagna ci sono i vostri Kenny Wheeler, John Taylor e Norma Winstone, quindi i suoni cambiano da luogo a luogo e i musicisti fanno cose diverse. È troppo perentorio dire cosa siano il “jazz europeo” o il “jazz americano”, ma direi che ci sono differenze ritmiche, nel jazz americano abbiamo figure importanti in senso più tradizionalista, come Christian McBride o Joshua Redman, e forse gli europei stanno tentando qualcosa di diverso».
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INTERVISTA
SEAMUS BLAKE
IL POTERE DELLA MELODIA
In “Guardians Of The Heart Machine” non c’è carenza di melodie forti, come It’s Okay, Sneaky D, Betty In Rio o Blues For The Real Human Beings, dove si evidenzia anche lo stile impeccabile di Tixier. «Per me, il jazz sta essenzialmente nell’improvvisazione e nella bellezza di un assolo», continua Blake, il quale riconosce il potere che la melodia ha di trascinarti nella musica: una voce fresca in quest’era dominata dalla metodologia dei pattern. «È come se la misura del tuo valore come musicista stesse nella tua abilità tecnica», afferma. «Voglio dire, la tecnica è importante, c’è bisogno della tecnica per esprimere le idee che vuoi esprimere, e di certo se hai studiato la tradizione del jazz devi passare per un certo livello tecnico: per suonare a certi tempi c’è bisogno di tecnica, e c’è anche un posto per i pattern. Ma il suonare in maniera melodica sembra qualcosa di così basilare, di così ovvio che rischia di venire persino trascurato. Quando ascolto il jazz di una volta, mi accorgo che c’è sempre, perché in passato era considerato come un prerequisito».
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«Nel corso degli anni, ho sempre cercato di cantare attraverso il mio strumento, e quando ho cominciato ad acquisire un miglior controllo ne ho riconosciuto il potere: quando un musicista canta una melodia attraverso il proprio strumento, sembra ovvio, ma tutto pare suonare meglio»
CANTARE CON LO STRUMENTO
«Una volta, quando ero studente, qualcuno mi disse: “Dovresti cercare di essere più melodico”, e io pensai che, sì, aveva ragione, era qualcosa su cui dovevo lavorare. Quando studiavo, ero così impegnato a cercare di suonare come i miei idoli che mi mancava il coraggio di essere creativo, di suonare e sentire le mie melodie. Nel corso degli anni, ho sempre cercato di cantare attraverso il mio strumento, e quando ho cominciato ad acquisire un miglior controllo ne ho riconosciuto il potere: quando un musicista canta una melodia attraverso il proprio strumento, sembra ovvio, ma tutto pare suonare meglio; invece, se si suona qualcosa di più tecnico, o che viene da una fonte tecnica, può suonare forzato. Nei college e nelle università c’è la tendenza a scodellare un sacco di regole, a insegnare le cose sotto forma di sistemi che possono essere “applicati”, ma cantare con lo strumento non ricade in quelle categorie». “Cantare con il proprio strumento” è una buona descrizione di ciò che sta al nocciolo dello stile di Blake. È una caratteristica che lo distingue da tanti altri, nella confraternita dei tenoristi. Blake è un originale, e un originale in un’era di conformisti è qualcosa di cui far tesoro
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GUARDIANS OF THE HEART MACHINE WHIRLWIND, 2019 Seamus Blake (ten, voc); Tony Tixier (pf); Florent Nisse (cb); Gautier Garrigue (batt)
Avendo suonato con qualunque musicista importante sulla difficile scena del jazz newyorkese nell’ultimo quarto di secolo, e avendo partecipato a quasi ottanta dischi, Seamus Blake
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potrebbe fregiarsi delle sue medaglie da veterano. Ora si è trasferito in Europa e, dopo un fortunato tour con tre dei migliori musicisti francesi, pubblica questo “Guardians Of The Heart Machine”, che fotografa lo stato dell’arte di questo apprezzatissimo sassofonista. E il verdetto è che è in ottima forma: al nocciolo del suo stile c’è un forte senso melodico, che guida la logica interna delle sue ben congegnate improvvisazioni in brani come I’m Okay, Sneaky D, Betty In Rio e Blues For The Real Human Being. Nel disco, c’è anche spazio per lo sperimentale Lanota (ossia “atonal” in scrittura palindroma), mentre la title-track vede il sassofonista sfrecciare su un’interessante sequenza armonica. Quella di Blake è una voce matura, di notevole originalità, e il suo trasferimento in Europa servirà senz’altro a migliorare la sua visibilità qui da noi. (SN) Guardians Of The Heart Machine / Vaporbabe / Sneaky D / I’m Okay / Lanota / Wandering Aengus / Betty In Rio / Blues For The
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Real Human Beings / The Blasted Heath
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ILARIA CAPALBO, CONTRABBASSO, GIUSEPPE D'ALESSANDRO, BATTERIA, E STEFANO FALCONE, PIANOFORTE, TUTTI E TRE NAPOLETANI, SONO I GIOVANI COMPONENTI DEL TRIO KÓSMOS, CHE DEDICA IL SUO PRIMO PROGETTO DISCOGRAFICO, INTITOLATO "BACK HOME", ALLA MUSICA DI LENNIE TRISTANO DI SERGIO PASQUANDREA
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ome è nato il trio? SF: Il gruppo esiste da vari anni, credo almeno cinque o sei, ma solo da un annetto gli abbiamo dato ufficialmente un corpo e un suono, perché i tempi ci sembravano maturi. Abbiamo cercato un'idea comune che interessasse tutti e tre e l'abbiamo trovata in questo progetto su Lennie Tristano. Il nome "Kósmos" fa pensare a un gruppo a conduzione collettiva, giusto? IC: È così, infatti il nostro processo creativo è sempre condiviso, e lo è stato anche in questo caso. I tre brani originali che abbiamo inserito nel disco sono a firma di tutti noi tre, uno per ciascuno: ma anche lì, in fase di prova, tutti hanno contribuito agli arrangiamenti. SF: C'è sempre molta democrazia nella gestione del gruppo. Che cosa volevate comunicare con il nome Kósmos? SF: Con Kósmos volevamo comunicare l'idea che la musica, soprattutto quella improvvisata, è racchiusa in uno spazio ben definito, ma allo stesso tempo infinito, nel quale tutto può accadere. Il nome e l'idea ci piacevano, quindi il nome è arrivato abbastanza in fretta. GdA: "Abbastanza"... perché in realtà è stato un po' più travagliato di così, ci sono state parecchie discussioni! SF: Beh, io cercavo di essere diplomatico! [ride] Però ce l'abbiamo fatta... Come mai un lavoro dedicato a Lennie Tristano? GdA: L'occasione è stato il centenario della sua nascita, che ricorreva nel 2019. Inoltre, è un artista che abbiamo già affrontato in passato e su cui abbiamo costruito parte delle nostre idee collettive. Essendo la nostra prima uscita discografica come trio, ci sembrava giusto cominciare un discorso nuovo attraverso un artista che ci rappresentasse in modo forte. Come avete elaborato i brani? GdA: Volevamo fare in modo che la musica di Tristano suonasse anche "nostra", in maniera personale. Tristano è stato più lo spunto per elaborare le nostre idee, che non un omaggio fine a sé stesso. SF: Se qualcuno cercasse Tristano in questo lavoro, o più in generale nel nostro modo di suonare, probabilmente non lo troverebbe. L'omaggio è più alla sua musica, che non al suo pianismo o alla sua maniera di gestire le formazioni. Ad esempio, lo stesso trio pianistico è una formazione che Tristano non praticò molto, preferendo piuttosto gruppi più ampi, spesso senza il basso o la batteria, oppure il piano solo. IC: Soprattutto la sua concezione musicale è simile a quella che abbiamo noi. SF: Esatto: mi riferisco a una musica che non si auto-genera, ma che deriva dal confluire di altri elementi, dalla letteratura, dalle conversazioni con gli altri esseri umani, dalla vita che accade tutto intorno. Questo è un concetto che Tristano cercava di trasferire anche ai suoi allievi, perché la docenza è stata una parte importante della sua carriera. Chi studiava con lui non doveva essere un mero musicista, ma un uomo in senso più complesso, che fosse in grado di portare questa complessità nella sua musica. IC: L'idea è che la musica sia la risultante di convergenze con altre forme di arte. Per usare una parola che oggi va molto, si può dire che è un concetto "olistico".
CD STORY
KÓSMOS
«Fare un omaggio significa riconoscere gli elementi comuni con il musicista che si sta omaggiando e renderli propri, costruendo qualcosa di nuovo. Lo stesso titolo, "Back Home", è quello di un brano di Tristano, ma vuole anche significare l'intenzione di "riportare a casa" Tristano, di portarlo ai giorni nostri»
Tristano è stato anche un grande originale: non è facile dire se sia bop, o cool, o cos'altro... GdA: Infatti un altro aspetto interessante, per noi, era che la carriera di Tristano, nel suo insieme, poteva essere uno spunto per intraprendere tante direzioni musicali diverse. Difficile inquadrarlo in una sola categoria: si capisce sempre che è lui, ma non è sempre univoco racchiuderlo in un'unica formula. La libertà formale che la sua musica ha sempre, pur all'interno di paletti ben precisi, ci ha dato la possibilità di approfondire molti aspetti, che si ritrovano poi anche nel disco. SF: Quando gli affibbiavano l'etichetta di "cool jazz", ci rimaneva malissimo. Sosteneva che la sua musica non fosse affatto "fredda", ma semplicemente il jazz per come lui lo sentiva. Forse il suo stile è più un'evoluzione naturale del be bop, che non "cool jazz". Un altro aspetto fondamentale della sua musica è l'enfasi sulla spontaneità, sulla creazione istantanea, collettiva, nata dall'interazione, tant'è che per certi versi anticipò persino il free. SF: Anche questa è una cosa che abbiamo cercato di riproporre nel repertorio di questo disco, dove si trovano un po' tutti gli aspetti della musica di Tristano. Ci sono i suoi mascheramenti di standard jazz, ma all'interno dei brani abbiamo voluto inserire momenti di libertà formale, dove ci si liberasse dalle strutture e dalle armonie e ci si concentrasse sulla costruzione di linee melodiche tramite l'interazione collettiva. Infatti nei brani abbandonate spesso la classica improvvisazione su chorus in favore di pedali o di strutture più aperte. IC: Come trio, anche a prescindere dal repertorio di Tristano che abbiamo affrontato in questo disco, abbiamo sempre cercato di incorporare la pratica dell'improvvisazione collettiva: un po' perché è nelle nostre corde, un po' perché in questo modo vengono fuori in maniera spontanea nuove idee, che poi spesso vengono trasformate e incorporate nei brani. Qual è il rapporto tra i vostri brani e quelli di Tristano? SF: Nello scegliere il repertorio, per prima cosa abbiamo individuato i brani di Tristano che ci piacevano e che volevamo arrangiare, poi da lì è nata l'idea di scrivere un brano ciascuno. Volevamo omaggiare la musica di Tristano, riprendendo elementi propri del suo stile, ad esempio l'uso del contrappunto o dei block-chords, in funzione di cluster. In sintesi, si potrebbe dire che non avete voluto fare una cosa "alla Tristano", quanto piuttosto portare Tristano all'interno del vostro mondo espressivo? SF: Sì, anche perché una cosa "alla Tristano" non ci sarebbe nemmeno riuscita tanto bene: bisogna suonare ciò che si ha veramente nelle mani. Fare un omaggio significa riconoscere gli elementi comuni con il musicista che si sta omaggiando e renderli propri, costruendo qualcosa di nuovo. Lo stesso titolo, "Back Home", è quello di un brano di Tristano, ma vuole anche significare l'intenzione di "riportare a casa" Tristano, di portarlo ai giorni nostri.
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© PAOLO SORIANI
ILARIA CAPALBO, GIUSEPPE D'ALESSANDRO, STEFANO FALCONE
Quali sono i vostri modelli, non tanto come singoli strumentisti, quanto come idea di trio? GdA: Tutti e tre, prima ancora di conoscerci, avevamo come modello principale Bill Evans. Io mi sono addirittura avvicinato al jazz grazie a lui, quindi la sua musica rimane nel mio DNA, e credo che lo stesso valga anche per gli altri. Alla fine, tutti e tre ci siamo trovati a conoscerci con quel repertorio. Un altro punto di riferimento è il trio di Ahmad Jamal, insieme a quello di Jarrett. Da subito, è venuto fuori un background comune fra tutti e tre, tanto che non abbiamo nemmeno avuto bisogno di individuarlo esplicitamente. IC: In questo siamo stati fortunati, perché abbiamo trovato un'affinità reale nel modo di suonare di ciascuno, e anche un'intesa molto bella sul piano umano. In fondo, anche se non sembra, in Bill Evans – soprattutto nel primo Evans – c'è qualcosa di Tristano, che poi forse si è andato diluendo con gli anni. GdA: Infatti secondo me il Bill Evans più interessante è proprio quello degli inizi, fino ai primi anni Sessanta, quando quest'influenza si sente moltissimo. Il Bill Evans di fine anni Cinquanta era palesemente tristaniano, ed è quello che ancor oggi dà un effetto più forte. Diciamo che agli inizi era un po' più iconoclasta di quanto lo diventò in seguito. Tristano ha avuto senz'altro una sua influenza nella storia del jazz, anche se sarebbe difficile individuare una linea di discendenza precisa. SF: Molto ha contato anche la sua intensa attività di docente, che è diventata una vera e propria fucina di talenti: Warne Marsh, Sal Mosca, Alan Broadbent, musicisti che poi hanno fatto scuola. Anche in Paul Bley, in Jarrett, c'è senz'altro un filone che deriva da Tristano. Dopo di lui, molte cose sono cambiate: penso ad esempio al suo modo di suddividere il tempo. Nonostante le indicazioni metriche siano apparentemente regolari, la disposizione delle frasi è da mal di testa, con le melodie che partono in punti inaspettati della battuta
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CD STORY
KÓSMOS
Introduzione all’ascolto DI STEFANO FALCONE, ILARIA CAPALBO E GIUSEPPE D'ALESSANDRO
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Lennie's Pennies
Rispetto all’originale di Tristano (derivato dalla trasposizione in minore delle armonie dello standard Pennies From Heaven), è stata sviluppata una riarmonizzazione e un conseguente riadattamento metrico della melodia. Sotto il profilo formale, è abbandonata la struttura di partenza (ABCD) di 32 battute per dare vita a una nuova forma, più complessa, nella quale ogni frammento tematico, se pur destrutturato, risulti avere una propria carica narrativa. Come difatti accade nell’ultima parte dell’esposizione del tema, dove la melodia del brano – volutamente ritornellata – è affidata al solo pianoforte in un crescendo dinamico che conduce, con una nuova cadenza, all’assolo del contrabbasso e poi a quello del pianoforte. L’assolo della batteria, che guida il brano alla conclusione, si svolge su un vamp in 9/4 (4/4+5/4) costruito sull’intro del brano. (SF)
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Back Home
In Back Home è possibile individuare quattro ambienti narrativi che danno vita a un viaggio dalle tappe ben definite. L’introduzione è affidata al dialogo tra pianoforte e contrabbasso, interrotto solo nella parte finale che prelude all’inizio del tema. Il pianoforte espone la melodia principale: mentre la mano destra suona il tema con piccoli gruppi di crome in battere, la mano sinistra si muove in contrasto disegnando un pattern ritmico in levare; intanto, contrabbasso e batteria espongono una nuova linea melodica che funge da supporto armonico. Il terzo ambiente narrativo è quello dell’assolo del pianoforte, dove le armonie si semplificano grazie a un voice leading dal forte valore melodico. L’ultima tappa del viaggio è la coda, costruita su un ostinato in 7/4, sul quale gli strumenti esplorano tutte le variazioni dinamiche, traghettando così il brano verso la sua naturale conclusione. (SF)
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Il tema del brano, esposto inizialmente senza l'accompagnamento armonico della mano sinistra e senza modulazioni ritmiche, è costruito per sottrarre una direzione chiara verso cui indirizzare l'ascolto. Gli assolo della batteria e del pianoforte restano nell'ambito di una modalità improvvisativa free, in cui però il tempo sostenuto viene ostinatamente marcato dalla ritmica. Il tema, seguendo un climax ascendente, è infine riproposto arricchitosi delle sue componenti armoniche e metriche. (GDA)
Come le correnti del Nord da cui prende il nome, Strömmar è costruita grazie all’azione uguale e contraria di due flussi, che si concretizzano musicalmente nel binomio minore/maggiore, rubato/a tempo, riportando alla mente anche il contrasto e l’essenziale omogeneità di elementi come freddo e caldo, maschile e femminile. Le due sezioni/suggestioni, che s’intersecano nella struttura, sono caratterizzate dalla presenza di ostinati ritmici a cui vengono sovrapposte melodia e improvvisazione. (IC)
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Holism si riferisce al concetto di musicista come sistema. La musica è un sistema poligenetico che non si auto-alimenta. A concorrere alla nascita dell’atto musicale sono spesso tutta una serie di forme di esperienza che hanno poco a che fare con la musica stessa. Era questa concezione della musica che permetteva a Lennie Tristano di avere un’influenza profonda sulla vita dei propri allievi, aiutandoli a diventare non meri musicisti ma uomini complessi la cui molteplicità confluisse nell’atto musicale. (SF)
Dell’up-tempo della versione originale di questo brano si è mantenuta la costanza ritmica, trasformandone l’intenzione swing in un andamento più terreno e assecondando la melodia suonata da Lennie Tristano nelle prime quattro battute con un ritmo armonico definito. Questa cellula, nucleo del nuovo brano, sostituisce l’improvvisazione integrale con due momenti solistici ben differenziati, dal carattere tonale, ispirati dalle diverse progressioni armoniche nella struttura. (IC)
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317 East 32nd Street è uno dei brani più noti di Lennie Tristano, costruito sulla canzone Out Of Nowhere di Johnny Green, ma con alcuni significativi cambi armonici. Il tema è esposto in rubato dal pianoforte, mentre la batteria ne sottolinea i vari momenti in modo sostanzialmente coloristico. Le ultime battute del tema, suonate su tempo swing con andamento moderato, introducono l'assolo del pianoforte sugli accordi originali del brano di Green. Seguono l'assolo di batteria e il tema, chiuso liberamente come all'inizio. (GDA)
La melodia di Detour è un frammento dell’improvvisazione che il sassofono sviluppa in Digression intrecciandosi al contrappunto del pianoforte. Su questa melodia si è provveduto a innestare una nuova armonia, chiudendo il brano in un ciclo di dodici battute che vogliono essere solo un punto di partenza per l’esplorazione degli esecutori. Il brano Detour tiene fede alla pratica dell’atonalismo pragmatico iniziata da Lennie Tristano: non si esce dal sistema tonale, che continua a esistere in forme astratte e complesse. (SF)
Hadiyya
Strömmar
Holism
317 East 32nd Street
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Line-up
Digression/Detour
K รณ
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BAC K H O M E
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TRACKLIST
LINEUP
01. LENNIE'S PENNIES (L. Tristano)
STEFANO FALCONE PIANOFORTE
02. BACK HOME (L. Tristano)
ILARIA CAPALBO CONTRABBASSO
03. HADIYYA (G. D'Alessandro)
GIUSEPPE D'ALESSANDRO BATTERIA
04. HOLISM (S. Falcone) 05. 317 EAST 32ND STREET (L. Tristano) 06. STRร MMAR (I. Capalbo)
Registrato presso Godfather Studio, Napoli, 21 febbraio 2019
07. LINE-UP (L. Tristano)
Cover Artwork by Davide Baroni
08. DIGRESSION/DETOUR (L. Tristano)
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© WILLIAM P. GOTTLIEB
STORIE
100 ANNI DI
LENNIE TRISTANO GENIO MISCONOSCIUTO DEL JAZZ NEL 2019 RICORRONO DIVERSI CENTENARI: ART BLAKEY, NAT KING COLE, GEORGE SHEARING, HERBIE NICHOLS, MA IL PIÙ SIGNIFICATIVO È QUELLO DEL PIANISTA, COMPOSITORE E DIDATTA ITALOAMERICANO LENNIE TRISTANO, CHE VIDE LA LUCE A CHICAGO IL 19 MARZO 1919 E MORÌ PER INFARTO NEL 1978. LA SUA EREDITÀ È, IN TUTTI I SENSI, DI CAPITALE IMPORTANZA PER LA STORIA DEL JAZZ, ANCHE SE LA CONOSCENZA DELLA SUA MUSICA È INVERSAMENTE PROPORZIONALE AL RUOLO DA LUI RICOPERTO CHE LO HA VISTO PROTAGONISTA DELLA DEFINIZIONE DI UNO STILE UNICO, PERSONALE, CHE POSSIAMO CHIAMARE TRISTANO STYLE
DI MAURIZIO FRANCO
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ome giustamente scrive Riccardo Brazzale (Tristano, il profeta in: Franco Fayenz e Riccardo Brazzale, Lennie Tristano il profeta incompreso. Stampa Alternativa, Viterbo 2006) fu «di gran lunga il più significativo tra i jazzmen bianchi […] con un incredibile scarto tra la grande importanza e la scarsa popolarità» dovuta, aggiungiamo noi, alla scarna discografia, che forse non raggiunge nemmeno la decina di album. Cieco dall’età di nove anni, Tristano frequentò scuole per handicappati in cui la musica fu subito al centro dei suoi interessi e nel suo apprendimento imparò a comporre e arrangiare per piccolo gruppo, studiò pianoforte, violoncello, clarinetto e sax tenore, lo strumento da lui più praticato dopo il piano (tra l’altro riusciva a suonare due fiati contemporaneamente), dimostrando una sensazionale capacità di apprendimento. I suoi studi in conservatorio sono invece poco documentati: si sa che non si diplomò, anche se la trascendentale tecnica pianistica di cui era in possesso (si esercitava suonando sui dischi di Art Tatum) rivela studi profondi (probabilmente da autodidatta) e una conoscenza notevole del linguaggio bachiano. Non a caso userà per tutta la vita tecniche provenienti dal mondo eurocolto, pur sostenendo che per un jazzista studiare quella musica è errato in quanto il suo obiettivo è l’improvvisazione, non l’interpretazione. Completò il suo apprendistato attraverso l’assidua frequenza al quartiere nero di Chicago, dove ebbe modo di avvicinarsi alla cultura afroamericana e afrolatina, ma le sue prime esperienze professionali furono quelle di insegnante, che hanno fatto di lui il più famoso didatta della storia del jazz, il musicista che nell’ultimo decennio di carriera ha rinunciato all’attività per dedicarsi solo all’insegnamento.
STORIE
100 ANNI DI LENNIE TRISTANO
Per lui era importante sviluppare la creatività e l’introspezione, la capacità di guardare dentro sé stessi per poter realizzare una musica artistica, e non stupisce sapere che da lui sono passati tanti jazzisti, molti anche per pochissimo tempo, tutti animati dal desiderio di conoscere la sua visione del jazz
L’INSEGNAMENTO DI TRISTANO
©HERMAN LEONARD PHOTOGRAPHY, LLC
Naturalmente Tristano non era un docente di strumento, ma di improvvisazione e linguaggio jazzistico e un punto fermo del suo metodo consisteva nel far cantare gli assolo dei jazzisti che amava di più (Charlie Parker e Lester Young in particolare) per favorire l’acquisizione di uno stile personale. In effetti, non imparando le frasi sullo strumento, si evita di assimilare quegli automatismi motori che poi creano un’inconscia dipendenza dalle frasi studiate, mentre cantando si interiorizza un linguaggio, non la sua meccanica. Per lui era infatti importante sviluppare la creatività e l’introspezione, la capacità di guardare dentro sé stessi per poter realizzare una musica artistica, e non stupisce sapere che da lui sono passati tanti jazzisti, molti anche per pochissimo tempo, tutti animati dal desiderio di conoscere la sua visione del jazz. L’originalità di Tristano, quella che si evidenzia nello stile che lo identifica, parte dal fatto che era un jazzista perfettamente conscio delle differenze tra l’atteggiamento espressivo degli afroamericani e quello dei musicisti bianchi. Una consapevolezza alla radice della sua concezione del jazz trasmessa attraverso un atteggiamento per nulla dialettico che, unito a commenti poco lusinghieri sui suoi colleghi, lo rese inviso a molti. Per lui il jazz era improvvisazione, swing, dialogo collettivo, contrappunto improvvisato tra i musicisti e la creazione estemporanea doveva svilupparsi come uno stream of consciousness, un flusso di coscienza libero da ogni idea premeditata, a volte persino dai temi dei brani, considerati una concessione alla memoria del pubblico, uno di quegli aspetti “commerciali” che lui condannava aspramente. Autentico padre padrone, voleva controllare ogni aspetto dell’attività musicale dei suoi studenti-discepoli, cosa che purtroppo gli riuscì con il tenorista Warne Marsh, la cui carriera fu compromessa per le intromissioni del pianista.
BIRDLAND, 1949 Lennie Tristano e Charlie Parker con Hot Lips Page, Lester Young e Max Kaminsky
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©ROBERTO POLILLO
LENNIE TRISTANO, MILANO 1965
LO “STILE TRISTANO”
Warne Marsh, con il chitarrista Billy Bauer, i sassofonisti Lee Konitz e John La Porta, i bassisti Arnold Fiskin e Peter Ind, fu protagonista di quello stile peculiare che si può definire come Tristano Style, che in fondo è bebop reinterpretato da musicisti bianchi partendo, in primo luogo, dalla riduzione dei colori blues, come dimostra anche il fatto che Tristano ha raramente affrontato anche la forma di quella musica, all’epoca identificata unicamente con il mondo afroamericano. Poi, realizzando una rivoluzione ritmica per sottrazione, cioè togliendo gli aspetti percussivi e la verticalità dei “cross rhythm” tipici del bebop per costruire una poliritmia orizzontale, inserita nel cuore della trama melodica e ottenuta attraverso le pronunce e gli accenti. Un modo di pensare che invece dei corti segmenti fraseologici tipici dello stile bop portava alla realizzazione di frasi lunghe e articolate, dalle complesse poliritmie interne, difficili da avvertire tanto che, nel passato, molti scrissero ingenuamente che quella musica era isoritmica. Invece Tristano è stato un genio del ritmo, una sorta di Monk al contrario, visto che quest’ultimo prediligeva verticalità ritmica e percussività del tratto. La linearità dei ritmi richiedeva bassi volumi a contrabbasso e batteria, che dovevano suonare in modo levigato, e ciò ha portato al fraintendimento in merito alla ricchezza ritmica di quella musica che però, richiedendo un lavoro sotterraneo alla ritmica proprio in un’epoca nella quale basso e batteria stavano sviluppando un nuovo e più ampio ruolo, tenne lontano da quello stile molti musicisti. Eppure la sottigliezza ritmica di Tristano è indispensabile per realizzare gli insegnamenti del maestro italo-americano e si estende anche al sound, morbido e pervaso da sottili accentuazioni, in cui i fiati hanno sonorità ricche di sfumature, mai aggressive, e dipanano la matassa armonica srotolandola in senso lineare e melodico, laddove i bopper ragionavano in modo verticale, costruendo angoli acuti. L’armonia era quella del bebop, basata su arricchimenti e modificazioni dei brani provenienti dal mondo popular, tra cui il grande pianista prediligeva I’ll Remember April, Pennies From Heaven, Indiana, You Go To My Head. Un altro elemento chiave era l’improvvisazione collettiva controllata dal giro armonico e dal climax del gruppo, rilassato, ma non snervato, narrativo e costruito come un vero flusso di coscienza, ben diverso dall’espressionismo visionario e allucinato dei bopper.
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STORIE
100 ANNI DI LENNIE TRISTANO
NEW YORK, 1947 Bill Harris (trombone), Flip Phillips (sax tenore), Lennie Tristano (piano), Chubby Jackson (contrabbasso), Denzil Best (batteria) e Billly Bauer (chitarra)
IL TRISTANO STYLE DEGLI ANNI QUARANTA
Il suo pensiero musicale era già definito nel 1947, come dimostrano i suoi cameristici brani in trio con la chitarra di Billy Bauer e diversi bassisti, tra cui On A Planet, Supersonic, Freedom (Blues) nei quali Tristano cercava di realizzare un’improvvisazione collettiva in cui la chitarra doveva suonare contromelodie e controarmonie basate su voicing e un incedere ritmico in grado di completare la tessitura della musica, quindi concentrarsi sull’ascolto di quanto facevano il pianoforte (soprattutto) e il contrabbasso (più basico nelle sue linee), secondo un procedimento all’epoca del tutto desueto. Quando il trio diventava quartetto grazie al clarinetto di John La Porta, come in Speculation e New Sound, sempre del 1947 (anno discograficamente prolifico, mentre clamorosamente il 1948 non lo sarà affatto), il contrappunto improvvisato diventava ancora più difficile per cui possiamo considerare queste pagine portatrici di uno sguardo verso il futuro.
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Tristano nel 1949 realizzerà i primi due brani informali della storia, Intuition e Digression, nei quali sviluppa la libera improvvisazione collettiva attraverso uno schema armonico di riferimento in cui, dopo l’inizio del pianoforte, l’ingresso degli altri musicisti avviene ogni quindici o venti secondi
I CAPOLAVORI IN SESTETTO
I capolavori del periodo sono però quelli incisi in sestetto nel 1949, con Marsh, Konitz, Bauer, Fiskin e Morton o Best alla batteria, e titolano Wow, Crosscurrents, Marionette (di Bauer), Sax Of A Kind (di Konitz). Tra questi il primo è stupefacente: scritto in stile improvvisativo, con un bridge a tempo doppio e figurazioni strette che impegnano i due sax, all’unisono per terze, in un tour de force che, alla fine, avrebbe dovuto far dire al pubblico proprio Wow. Ogni sezione di questo brano presenta scomposizioni in 3/8, 5/4 e 5/8 che agiscono sul 4/4 di base mentre le improvvisazioni si svolgono dentro una sorta di tessuto fugato, con brevi periodi concessi a ognuno degli improvvisatori. Il pezzo esplicita perfettamente l’estetica tristaniana: è fluido, ha un sound complessivo di assoluta morbidezza ed evidenza a pieno l’originalità e la diversità della scuola di Tristano (l’analisi di questi e di altri brani la troviamo nel libro più completo e profondo sulla musica di Tristano: Eunmi Shim, Lennie Tristano – His Life in Music, The University of Michigan Press (Ann Arbor 2007); qualche informazione utile la si ricava anche da: François Billard, Lennie Tristano, Éditions du Limon, Montpellier 1988). LE PIETRE MILIARI, TRA AVVENTURA E AVANGUARDIA
Nonostante il livello assoluto della musica, Tristano sentiva che doveva spingersi ancora più avanti e così, nel 1949, realizzerà in quintetto senza batteria i primi due brani informali della storia, non solo di quella jazzistica, Intuition e Digression, nei quali sviluppa la libera improvvisazione collettiva attraverso uno schema armonico di riferimento in cui, dopo l’inizio del pianoforte, l’ingresso degli altri musicisti avviene ogni quindici o venti secondi. Si tratta di due pietre miliari della storia del jazz, che venivano talvolta suonate nei club, ma in forma più lunga dei tre minuti abituali del 78 giri, e anche se sono ancora tonali rompono completamente con le forme conosciute. I brani furono pubblicati anni dopo la loro registrazione, ma sembra che diversi musicisti sapessero di queste pagine avventurose e all’avanguardia. LO SPERIMENTALISMO DEGLI ANNI CINQUANTA
Con i primi anni cinquanta Tristano proseguirà su una propria, complessa strada utilizzando in modo creativo la sovraincisione, i cui primi esempi sono Ju Ju e Passtime, incise nel 1951 con Roy Haynes alla batteria (perfettamente nella parte di drummer tristaniano) e il contrabbassista inglese Peter Ind. L’idea, geniale, fu quella di incidere prima i pezzi in trio e poi sovrapporre un’altra mano destra per creare un contrappunto improvvisato, un dialogo con sé stesso estremamente coerente. Nel 1953 Tristano registrò un brano avveniristico (che attenderà gli anni Settanta prima di essere pubblicato), sovraincidendo quattro parti di pianoforte; si tratta di un singolare capolavoro titolato Descent Into The Maelstrom (come il racconto di Edgar Allan Poe), anticipatore di quella musica contemporanea proposta da musicisti jazz che è parte del nostro attuale panorama sonoro. Anche qui manca una struttura predefinita e il percorso viene pianificato mettendo in relazione cellule tematiche e ritmiche secondo uno scopo preciso: descrivere il gorgo marino dei fiordi del Mare del Nord attraverso una formidabile tensione spiraliforme, con le note gravi, eseguite lentamente, che indicano i bordi del vortice e le parti acute, più veloci, il centro, quello che porta al risucchio.
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STORIE
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La posizione di Lennie Tristano nella storia del jazz e nel Novecento musicale necessita di una profonda revisione che collochi questo grande musicista tra le figure più rilevanti del percorso jazzistico, oltre che nel Gotha dei grandi pianisti. Soprattutto, occorre far ascoltare la sua musica e quella dei suoi discepoli
ORIGINALITÀ E AVANGUARDIA
©ROBERTO POLILLO
Nel 1955 vede la luce uno dei suoi album fondamentali: “Lennie Tristano”, edito dall’Atlantic, che contiene un brano di eccezionale originalità, Turkish Mambo, esempio rarissimo in Tristano dell’uso verticale del ritmo di ascendenza africana. Sopra l’hi-hat che scandisce il beat e utilizzando due scale blues minori, vengono costruite quattro parti di pianoforte basate su metriche differenti: 7/8, 12/8 (o 3/8) 5/8 e 4/4, che nel costante gioco di incastri segnano un cammino infinito. Altro brano sovrainciso è il citato Requiem, blues basico e terrigno dedicato alla memoria di Charlie Parker, scomparso pochi mesi prima, aperto da un preludio debitore, come sottolinea Brazzale (op. cit), dell’inizio del secondo movimento della Seconda sonata per pianoforte in sol minore di Schumann. Il brano di apertura dell’album, in trio con basso e batteria e dal titolo Line Up, suscitò invece aspre polemiche, esempio dello sciocco agonismo che animava (e ancora anima) il mondo del jazz. Tristano voleva costruire, con la sola mano destra, una serie di figurazioni basate su pronunce che si potevano realizzare in modo chiaro solo a una certa velocità, ma che avrebbero fornito l’effetto desiderato a un’altra, più incalzante. Per questo motivo registrò prima il basso e la batteria per poi proporli a un tempo dimezzato per poter inserire la parte di piano, quindi riportò il tutto alla velocità iniziale della ritmica. Pezzo interessante e insolito, che rivela quanto Tristano fosse all’avanguardia nell’utilizzo delle possibilità offerte dallo studio di registrazione, tra l’altro nel periodo in cui in Europa fiorivano gli studi di fonologia.
LENNIE TRISTANO, MILANO 1965
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©ROBERTO POLILLO
LENNIE TRISTANO, MILANO 1965
LA CLASSICITÀ E L’ASTRAZIONE DEGLI ANNI SESSANTA
Sei anni dopo, nell’autunno del 1961, Lennie Tristano registra nel suo studio casalingo un altro album Atlantic, “The New Tristano”, il suo primo lavoro interamente in piano solo, nel quale troviamo una pagina di enorme rilevanza, cioè CMinor Complex, costruita sul giro armonico del prediletto Pennies From Heaven, soltanto trasportato in minore. I quasi sei minuti di musica sono caratterizzati da una costante linea di basso che si può configurare sia come uno stride figurato, sia quale basso continuo barocco, vista anche la somiglianza delle linee con la logica costruttiva bachiana. Figurazioni in sei sul ritmo di base in 4/4, trascendentale tecnica esecutiva, chiarezza delle idee caratterizzano un brano in cui il pianista realizzava la sua visione del jazz: improvvisazione, swing, flusso lineare delle frasi (l’intera trascrizione, oltre che in Shim, op.cit., e l’analisi del pezzo sono in: Marco Di Battista, Lennie Tristano C-Minor Complex, Lulu Enterprise Inc., Raleigh 2012). L’altra pietra miliare del disco è la suite Scenes And Variations dedicata ai suoi tre figli, Carol (diventata batterista), Tania e Bud, come Bud Powell, il suo pianista di riferimento che con la tecnica utilizzata per distribuire sullo strumento il peso dinamico tra le varie dita lo aveva influenzato. Proprio Bud, costruito sugli accordi di My Melancholy Baby, evidenzia una furibonda tensione espressionista di tipo bop. Infine, nei concerti europei del 1965 Tristano si spingerà sino ai limiti estremi della tonalità, toccherà ampiamente la dissonanza e poco tempo dopo si ritirerà dalla scena musicale attiva lasciando una rilevante eredità musicale, un enorme lascito artistico e di pensiero che, purtroppo, a tutt’oggi non è ancora stato veramente raccolto, mentre la sua posizione nella storia del jazz e nel Novecento musicale necessita di una profonda revisione che collochi questo grande musicista tra le figure più rilevanti del percorso jazzistico, oltre che nel Gotha dei grandi pianisti. Soprattutto, occorre far ascoltare la sua musica e quella dei suoi discepoli, ancora troppo poco conosciuta anche tra gli addetti ai lavori, nonostante nell’ultimo ventennio ci siano stati, in particolare in Europa e in Italia, alcuni album che hanno affrontato le composizioni e, in generale, il suo mondo espressivo
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SCRAPPLE FROM THE APPLE
CAROL FRIEDMAN LA MUSICA E L’IMMAGINE
DI ASHLEY KAHN
QUELLA TRA LA FOTOGRAFIA E IL JAZZ È UNA RELAZIONE ANTICA E PROFONDA: PER MOLTI VERSI, LA FOTOGRAFIA HA CONTRIBUITO A FOGGIARE IL MITO DEL JAZZ. CAROL FRIEDMAN È UNA DELLE PIÙ GRANDI FOTOGRAFE JAZZ IN CIRCOLAZIONE: IN CINQUANT’ANNI DI CARRIERA, HA FOTOGRAFATO INNUMEREVOLI MUSICISTI E PROGETTATO UN’INFINITÀ DI COPERTINE DI DISCHI
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arol Friedman sembra quasi arrivare da un altro tempo: possiede un’eleganza anni Sessanta, come se fosse appena uscita da una fotografia di Richard Avedon. E c’è un perché: l’eleganza visuale è sempre stato il suo principale interesse e il suo linguaggio. È una fotografa esperta e ha anche lavorato come direttore creativo per una quantità di etichette discografiche, creandosi una reputazione grazie alle immagini personali e sofisticate che è in grado di sviluppare. Le copertine dei dischi sono diventate tele pronte per i suoi ritratti. Nina Simone, Dexter Gordon, Anita Baker, Bobby McFerrin, Jessye Norman, Teddy Pendergrass, Don Pullen, Quincy Jones sono solo alcuni degli svariati personaggi leggendari del jazz – e non solo – per i quali ha confezionato immagini destinate a durare. Per loro, è semplicemente “Carol”: nel mondo del jazz, ce n’è una sola. CATTURARE IL MOMENTO
Ho imparato che Carol è una vera artista, che, oltre a seguire progetti per libri e film, si dedica al proprio archivio, dove registra la storia delle leggende del jazz, così come delle sue nuove frontiere. È onnipresente sulla scena jazzistica, coglie i migliori concerti e assiste agli eventi più importanti e spesso condivive i momenti più speciali sui social media. Ricordo un brevissimo video da lei postato, in cui Frank Wess, all’inizio di una serata al Village Vanguard, diceva con fare sornione agli spettatori: «Avete fatto una bella mossa a venire qui stasera». Ricordo che pensai come quel filmato catturasse tutta la quieta passione, l’intelligenza e il senso dell’umorismo che Wess portava con sé ogni volta che saliva sul palcoscenico, a quel punto della sua lunga carriera. Carol era lì, per catturare e condividere quel momento. LA MUSICA PER PRIMA
Un altro ricordo: una telefonata al leggendario produttore discografico Jerry Wexler – l’uomo che ha inventato il termine “rhythm and blues” e ha lavorato con tanti giganti della musica americana – pochi giorni prima che scomparisse, nel 2008. L’avevo chiamato per sentire la sua voce, scambiare qualche battuta, ridere e salutarlo. Carol era con lui, in carne e ossa, e in vivavoce. Ancora parliamo di come ci siamo incontrati accanto al letto di Jerry. Conoscevo molti dei “greatest hits” di Carol, ma fino a quella conversazione non mi ero reso conto né della vastità di ciò che aveva compiuto, né della profondità della sua dedizione al jazz e ai suoi musicisti. È famosa per la sua meticolosa abilità e per il suo senso dello stile, ma ciò che la guida è l’orecchio: la musica viene sempre per prima. Carol, grazie ai social media e alla reputazione generale, sei nota come una persona che si dedica al jazz e sta sempre sulla scena. Sei d’accordo, e che cosa hai visto di recente che potrebbe suscitare la nostra invidia? Grazie, Ashley. Io lo chiamo il continuum dell’ispirazione. La musica è senza dubbio una musa e una forza. Non posso immaginare la mia vita senza l’essere una testimone privilegiata di tanti momenti sul palcoscenico: Jimmy Heath che, a novantadue anni, dirige gioiosamente i suoi splendidi arrangiamenti e composizioni per la sua big band. O Roy Haynes che, a novantaquattro, dà fuoco a James di Pat Metheny e forniva una definizione perfetta di ciò che si intende per tempo, stile e generosità. Perché un grosso aspetto del mio lavoro è documentare l’ethos del jazz: lo stile, l’improvvisazione, il lignaggio, l’emozione; ascoltare e osservare la musica è essenziale per farlo, così come lo è il sostenere la musica. Serve a tenere sotto controllo tutto, ed è anche un piacere nella sua forma più pura.
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C’è un concerto al Vanguard che non dimenticherò mai. Era il trio di Geri Allen, con Esperanza Spalding e Terri Lyne Carrington. Hanno portato la precisione, lo spirito, il soul e lo swing a un livello tutto nuovo. Il palcoscenico era in fiamme! Il continuum dell’ispirazione Quali sono le situazioni musicali che apprezzi di più? Apprezzo soprattutto i gruppi che riuniscono più generazioni diverse e dimostrano il lignaggio e il passaggio di testimone che sono così importanti per questa musica. Jimmy e Roy con i loro giovani musicisti al Blue Note. Ron Carter con Emmett Cohen ed Evan Sherman al Village Vanguard. Roy Hargrove con Sullivan Fortner al Jazz Standard. Freddy Cole al Birdland. Tony Bennett che tiene un impeccabile concerto improvvisato sul palcoscenico dell’Apollo, per raccogliere fondi per la Jazz Foundation of America. E mi piace anche ascoltare giovani musicisti, nuove composizioni, sezioni ritmiche che emergono e si evolvono. Fred Hersch, Kurt Elling, Renee Rosnes, Kassa Overall, Terence Blanchard, Dianne Reeves, Bobby McFerrin, Bill Charlap, Tom Harrell, la Gil Evans Big Band, Cécile McCloran Salvant, Lisa Fischer: tutti che presentano splendidi nuovi lavori e nuovi gruppi. C’è un concerto al Vanguard che non dimenticherò mai. Era il trio di Geri Allen, con Esperanza Spalding e Terri Lyne Carrington. Hanno portato la precisione, lo spirito, il soul e lo swing a un livello tutto nuovo. Il palcoscenico era in fiamme! Il continuum dell’ispirazione. Come descriveresti ciò che fai ora, qual è il tuo ruolo oggi rispetto a quello che era in passato? In gran parte, la mia arte e la mia carriera non sono cambiate. Ho avuto la fortuna di far convergere molto presto il mio lavoro personale e quello commerciale. Continuo a documentare la musica per il mio archivio privato, a concepire e produrre vari progetti, a progettare e fotografare campagne d’immagine per i musicisti. A parte qualche lavoro per riviste jazz da giovane, non ho mai avuto un grande interesse nel fotografare musica dal vivo, e non ce l’ho tuttora, ma quando sono in giro faccio uno o due scatti, sul palco e fuori. I social media, ovviamente, hanno trasformato tutti in documentaristi. La mia piccola macchina fotografica è un orgoglioso pesce fuor d’acqua in una sala piena di iPhone. Per quanto riguarda il mio lavoro per l’industria discografica, anche se le immagini si sono ridotte dai trenta centimetri degli LP ai quindici dei cd, il processo è sempre lo stesso. Tutto comincia con la musica. Quando mi commissionano una copertina per un disco, per prima cosa parlo con l’artista dei suoi obiettivi artistici e commerciali. Poi vivo insieme alla musica, fino in fondo, quando ancora non è né mixata né messa in sequenza. Poi comincio a esaminare le immagini che si adattano alla musica e che rappresentano meglio ciò che l’artista desidera dire ed esporre nel contesto e nella progressione del suo lavoro.
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ROY HAYNES AL BLUE NOTE, NEW YORK
Facciamo un passo indietro. Ci puoi raccontare dove sei nata e cresciuta e quando hai cominciato a interessarti alla musica? Sono nata a Brooklyn. Io e il mio papà eravamo grandi fan della musica e la mia infanzia ha beneficiato di una colonna sonora impeccabile: Billie Holiday, Lester Young, Sidney Bechet, Odetta, Josh White, Harry Belafonte, Peter Paul and Mary, i Weavers, Bob Dylan, Barbra Streisand, e ovviamente Sinatra. Quando piantammo le tende nei sobborghi del New Jersey, stavo cominciando i miei anni formativi e, con l’eccezione di Dylan, ho cercato la mia colonna sonora personale. La radio è stata un veicolo privilegiato, dove passavano tutti, dai Rascals a Percy Sledge, dai Beatles a Otis Redding, da Bill Withers agli Chiffons e a Stevie Wonder. Prima ho avuto un giradischi Panasonic portatile di plastica, che somigliava a una borsetta e su cui si potevano suonare solo 45 giri, poi risparmiando mi comprai uno stereo e cominciai a sentire musica ventiquattr’ore su ventiquattro. Mi innamorai dei gruppi rock e R&B e della provincia sonora di Crosby Stills and Nash, Paul Simon e Joni Mitchell. Bob Dylan era una costante. C’è da stupirsi, se si pensa a quanti artisti emersero nei dieci anni fra il 1963 al 1973: i Beatles e gli Stones, Marvin Gaye, i Ten Years After, i Jethro Tull, i Led Zeppelin, i Chambers Brothers, i Doors, gli Allmans, Al Green, i Kinks, gli O’Jays, gli Small Faces, Curtis Mayfield, i Traffic, i Blind Faith, Cat Stevens, Aretha, Joni Mitchell, Crosby Stills and Nash, erano tutti sul piatto del mio giradischi. La presenza del jazz nella mia vita era pari a zero.
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CHET BAKER
E come ti sei appassionata al jazz? Tutto cambiò nel 1976, quando studiavo arte a Manhattan. Una sera passai accanto allo Strykers, un piccolo jazz club nel mio quartiere, l’Upper West Side. In quel preciso momento qualcuno uscì sul marciapiedi e io sentii della musica che mi fece fermare di colpo e mi costrinse a entrare nel club. Sul palco c’era Chet Baker che cantava Just Friends. Fu amore al primo ascolto. Forse le fondamenta jazzistiche della mia infanzia giocarono un ruolo nella mia risposta viscerale a quella musica. Nel giro di pochi giorni lavoravo lì come cameriera, con la mia Leica dietro il bancone del bar. La mia educazione jazzistica cominciò lì, in quel momento. Non solo imparai a conoscere la musica, ma trovai l’obiettivo e costruii le basi per quella che sarebbe diventata una grandissima parte del lavoro della mia vita. E i tuoi esordi come fotografa? Mio padre era un fotografo amatoriale e io, in quanto primogenita, ero il suo soggetto preferito. Chiesi la mia prima macchina fotografica quando avevo quattro o cinque anni: credo che lo feci per partecipare alla conversazione. Ho un ricordo molto vivido di me che metto in posa la mia sorella minore e due suoi amichetti per una fotografia e dico loro come sedersi, che cosa fare e dove guardare. Stavo dirigendo. La cosa più divertente non era tanto catturare il momento, quanto crearlo. Ed è ancora così. Avevo scattato fotografie per tutta la vita, ma non avevo mai pensato alla fotografia come a una professione, perché non sapevo che esistesse una professione del genere. Ero una diciannovenne con vaghe aspirazioni artistiche quando mi iscrissi a un corso intitolato “Ritratto psicologico”, con il grande ritrattista fotografico francese Philippe Halsman. Il primo giorno di corso ci mostrò il suo ritratto di Gloria Swanson e ci parlò di tutto quello che aveva portato all’immagine finale: le conversazioni, i guanti, la danza del tutto. Il mio cuore cominciò a battere più in fretta e mi dissi: «Questo è ciò che sono io». Un momento che cambiò la mia vita. Halsman ci insegnò che un fotografo ha successo solo se cattura la vita interiore del suo soggetto. Mi sembrò una verità assoluta e da allora vi ho sempre tenuto fede.
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Dopo la laurea in una facoltà d’arte, alla fine degli anni Settanta, avevo tirato a campare per un po’, lavorando come freelance per riviste di jazz, quando John Snyder mi chiese di entrare alla Artist House come direttrice artistica. John aveva visto le mie fotografie sulla rivista giapponese Swing Journal e mi chiese anche se sapevo come progettare e creare esecutivi di stampa Quando hai cominciato a interessarti alla direzione artistica e al design? Anche se mi ero laureata in Belle Arti, non avevo mai studiato design grafico. Dopo la laurea in una facoltà d’arte, alla fine degli anni Settanta, avevo tirato a campare per un po’, lavorando come freelance per riviste di jazz, quando John Snyder mi chiese di entrare alla Artist House (etichetta discografica attiva fra il 1977 e il 2006. NdR) come direttrice artistica. John aveva visto le mie fotografie sulla rivista giapponese Swing Journal e mi chiese anche se sapevo come progettare e creare esecutivi di stampa. Oggi è quasi inimmaginabile, ma i computer ancora non esistevano. Ciò che andava stampato doveva essere ridimensionato, ordinato e letteralmente tagliato e incollato su dei pannelli per poi passare alla stampa. Non avevo mai avuto un vero lavoro in vita mia e non volevo lasciarmi sfuggire quest’opportunità. Perciò mentii. Snyder mi assunse e io andai dritta in libreria e comprai un libro intitolato Menabò ed esecutivi di stampa. Funzionò. Qualche mese dopo vinsi un premio come direttrice artistica per la copertina di “Tales of Captain Black” di James Blood Ulmer: fu una grande emozione e mi diede molta fiducia in me stessa. Gli uffici della Artist House erano in un loft industriale sulla Trentasettesima Strada. Gli artisti di casa erano Ornette Coleman, Gil Evans, Jim Hall, Charlie Haden, David Liebman, Chet Baker, Art Pepper e James Blood Ulmer. Ornette abitava in una camera proprio dietro a dove lavoravo io. Bern Nix e Jamaaladeen Tacuma venivano a provare. Gil di notte usava l’ufficio di Snyder per comporre e riascoltare quanto registrato sul registratore a bobine di John. I quadri della collezione di Ornette erano appesi ai muri. Che tempi... E i musicisti mi ringraziavano se chiedevo di fotografarli. Le prime immagini di quei giorni alla Artist House sono ricordi preziosi. Ci puoi parlare della tua evoluzione artistica come fotografa? Dal punto di vista artistico, non avevo ancora trovato il mio stile. Quando studiavo fotografia, ci avevano insegnato a prendere qualcosa da coloro che ammiravamo e usarlo come modello. A quei tempi le icone erano Diane Arbus, Duane Michaels, Garry Winogrand e Robert Frank. Io adoravo [Irving] Penn e [Richard] Avedon, ma la loro estetica era fuori portata per me, perché non sapevo niente di illuminazione in studio. Quindi andavo avanti con i reportage, la moda e le fotografie ai jazzisti scattate per strada, in camerino, in albergo e a casa loro. Ma la svolta fu quando costruii un’imitazione di uno sfondo da studio usando un piccolo flash Vivitar collegato alla mia Leica. E mi innamorai delle tele bianche. Non tornai più indietro. Da allora in poi, qualunque altro elemento nell’inquadratura l’ho sempre percepito come una distrazione.
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Quello fu l’inizio della tua carriera nell’industria musicale? Per mettere le cose in prospettiva, quello alla Artist House fu il mio primo lavoro, appena uscita dalla facoltà d’arte. Ero riuscita a mettere a frutto il mio amore per la musica, trasformandolo in un piccolo stipendio guadagnato fotografando musicisti jazz. Un sogno diventato realtà. Ma l’ascesa nell’industria musicale, al di là della cintura di sicurezza del mondo jazzistico, era rischiosa. Guardavo sbalordita le copertine dei dischi realizzate da Norman Seeff, chiedendomi come avrei mai potuto orientarmi in quell’industria musicale così ostile e fuori portata, senza avere punti di riferimento. Strada facendo, ho avuto la fortuna di incontrare un triumvirato di fratelli maggiori che mi hanno fatto da mentori: Jerry Wexler (produttore ed ex-capo della Atlantic Records. NdR), Bruce Lundvall e Quincy Jones, che riconobbero il mio amore per la musica, elogiarono il mio lavoro e mi offrirono i loro saggi e generosi consigli. Gli anni Ottanta e Novanta sono stati straordinari per la musica in generale, e anche per te dal punto di vista professionale. Com’è cominciata quella fase della tua carriera? Ci descrivi lo spirito di quei tempi? Sono stati senz’altro anni meravigliosi e intensi. Lavoravo come fotografa di ritratti freelance, ma ce la facevo a malapena. Nel 1984, per pura ostinazione, proposi a Gentlemen’s Quarterly un inserto di dieci pagine sui jazzisti; non avevo mai lavorato con loro e misi come clausola che avrei scelto io i modelli. I miei soggetti erano un giovane Wynton [Marsalis], che avevo visto suonare al Mikell’s con Art Blakey, il Modern Jazz Quartet, Hilton Ruiz, Archie Shepp, Gil Evans e Michael Brecker. Dopo che il numero uscì, il loro direttore artistico mi raccontò che l’editor di GQ, durante una riunione, aveva mostrato allo staff le mie immagini e aveva proclamato: «Così voglio che sia questa rivista». Mi chiamarono immediatamente per discutere l’inserto del mese successivo. Nel frattempo, stavo cercando la mia strada nell’industria musicale e avevo realizzato un paio di copertine per l’etichetta Elektra/Musician di Bruce Lundvall. Bruce all’epoca era il presidente e Bob Krasnow dirigeva il consiglio d’amministrazione. Incrociai Bruce una sera, a una festa di compleanno che era anche un vernissage per Miles Davis; il mio ritratto di Miles Davis venne scattato lì, quella sera, nel ripostiglio per le scope. Bruce mi chiese di andare alla Elektra per conoscere Krasnow e fare un colloquio come direttrice creativa. Ero più che lusingata che avessero pensato a me, ma un lavoro di qualunque tipo era l’ultima cosa che volevo, perché stavo cominciando ad avere successo nel mondo della moda. Per rispetto nei confronti di Bruce, andai al colloquio, con un piano segreto in mente. Ma, contrariamente a qualunque previsione, Krasnow mi assunse su due piedi. Poi, proprio il giorno dopo, Bruce Lundvall diede le dimissioni per andare a dirigere la Blue Note. Mi girava la testa. Bruce mi chiamò, si scusò per il sotterfugio e, da bravo mentore, mi spinse ad accettare il lavoro; lo feci. Di lì a poco mi destreggiavo tra le foto per GQ (di notte o nei fine-settimana) e il lavoro all’Elektra. Qualcosa doveva avere la meglio e fu la moda. Lasciai l’Elektra meno di due anni dopo ma, dietro insistenza di Krasnow, continuai a fare la direttrice artistica e a scattare foto per le loro copertine: la più memorabile fu quella per “Rapture” di Anita Baker, la prima di molte sedute con Teddy Pendergrass. Scattavo per molte delle più importanti etichette. A un certo punto, Bruce mi invitò a cena e mi rimproverò per aver abbandonato il mondo del jazz. Mi propose di diventare la direttrice artistica non-ufficiale e la principale fotografa per la Blue Note. E lo feci. Jean Philippe Allard arrivò da Parigi e mi chiese di scattare foto dei suoi artisti per la Verve. La A&M Records mi affidò la serie jazz. E cominciai a filmare Abbey Lincoln. Era bello essere tornata a casa.
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ABBEY LINCOLN
So che hai lavorato per un periodo anche alla Motown, giusto? Nel 1995 Abbey mi invitò ad andare con lei a una festa di Natale della Polygram. Andre Harrell era appena stato nominato nuovo capo della Motown ed era anche lui in sala. In un altro imprevisto momento fatale, me ne andai da quella festa con il ruolo di vicepresidente dei servizi creativi e di direttrice creativa della Motown. Avevo gli occhi che luccicavano. Mi sentivo onorata per la fiducia di avermi reso responsabile dell’immagine di un’etichetta storica, e anche perché avrei avuto l’opportunità straordinaria di fotografare le leggende della Motown, come Smokey Robinson, Stevie Wonder e Diana Ross. Ma niente di tutto ciò era destinato ad accadere. La versione della Motown gestita da Harrell non aveva nulla a che fare con le leggende o con l’eredità del passato. A parte “Vulnerable”, un cofanetto di registrazioni di standard inedite di Marvin Gaye, e la presenza di Candace Bond e Clarence Avant, la mia permanenza lì fu un disastro sconfortante, per questo me ne andai e mi ripromisi di non deviare mai più dalla musica e dal lavoro che per me era davvero significativo.
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NINA SIMONE
Quali sono i tuoi maggiori successi di quel periodo: jazz o non-jazz? Le mie sedute preferite sono quelle con Lena Horne, Sarah Vaughan e Nina Simone: le Regine. Ci sono molte copertine di cui sono fiera, per diverse ragioni. “Rapture” di Anita Baker, perché ho dovuto lottare duramente: per quanto strano possa sembrare oggi, non c’era mai stata una copertina in cui qualcuno avesse gli occhi chiusi e Krasnow si rifiutava di approvarla. “Simple Pleasures” di Bobby McFerrin, perché è Bobby allo stato puro. Quando fotografai Dexter Gordon per “The Other Side of Round Midnight”, aveva appena finito di girare il film per la regia di Bertrand Tavernier e arrivò ancora nel personaggio, con quell’abbigliamento sublime. Le copertine per Sun Ra. “Let The Rhythm Hit ‘Em” di Eric B. e Rakim. “Art Deco” di Don Cherry. “Relationships” di Bebe e Cece Winans. “Deep In The Blues” di James Cotton, per la storia e l’avventura in cui ci imbarcammo per realizzarlo. Da bambino, Cotton aveva vissuto e lavorato in una piantagione di Helena, in Arkansas. Quando tutti ricevevano la paga settimanale allo spaccio della piantagione, il giovane Cotton suonava l’armonica sul portico, raccogliendo mance nel cappello. Dopo la prima seduta in uno studio fotografico a Memphis, James guidò, nella pioggia battente, lungo la Highway 61 fino a Helena; sua moglie Jacqueline faceva da copilota e io con il mio assistente stavamo sul sedile posteriore. La piantagione era stata rasa al suolo, ma lo spaccio era ancora in piedi. La pioggia era fortissima e c’erano galline ovunque. E James Cotton si mise a suonare l’armonica sul portico, dopo tutti quegli anni. Che cosa c’è nel jazz che ti ispira, che vedi in una luce diversa rispetto ad altri stili musicali con cui hai lavorato? Che cosa posso dire, senza essere considerata snob? C’è il jazz e c’è tutto il resto. Amo la musica, tutta la musica, al di là dei generi. Ma il jazz è la pura e unica forma d’arte che, fino a oggi, è stata la mia ispirazione più profonda. I miei soggetti preferiti sono sempre stati i jazzisti e non penso che cambierò mai.
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Una persona come Abbey Lincoln si incontra una volta sola. Come artista, ha lasciato un segno indelebile nella nostra cultura in ogni decennio della sua vita. E aveva un talento a tutto tondo: sapeva scrivere, cantare, recitare, e tutto a un livello superlativo Credo che ciò sia chiaro da molte delle foto che hai scattato e dalle relazioni personali che hai sviluppato negli anni con tanti artisti leggendari. Molte leggende del jazz, alcune delle quali ormai scomparse, hanno avuto un ruolo-chiave nella mia vita e nel mio sviluppo come artista, e molti di loro sono divenuti miei intimi amici. Ho avuto la benedizione di ricevere amore, amicizia e saggezza da Randy Weston, Abbey Lincoln e Ornette Coleman. Geni che non potranno mai essere sostituiti. I fratelli Heath, che conosco da più di trent’anni, di recente hanno ricevuto un premio alla carriera dalla Jazz Foundation of America, all’Apollo. Dopo essere scesi dal palco, Jimmy e Tootie hanno regalato a me la statuetta di Percy. Niente mi ha mai commossa più di quel gesto. I documentari non sono progetti semplici. Che cosa ti ha fatto entrare in quel gioco? Perché Abbey Lincoln? Una persona come Abbey Lincoln si incontra una volta sola. Come artista, ha lasciato un segno indelebile nella nostra cultura in ogni decennio della sua vita. E aveva un talento a tutto tondo: sapeva scrivere, cantare, recitare, e tutto a un livello superlativo. Da qui il mio desiderio di girare un film sulla sua vita e sul suo lavoro. Come amica e come sorella maggiore, era divertente, gioviale e saggia. Era di una generosità straordinaria. Pensava in maniera originale ed era di una lealtà assoluta. Non mancava mai di chiedere notizie su mia madre e mio padre o di farmi un regalo di compleanno. Aveva una magnifica risata e dei bei piedi delicati. Alla fine, voleva davvero “andarsene via da qui” e non aveva paura di morire. Penso a cosa farebbe Abbey con questa follia politica di oggi, perché era una cittadina responsabile e non tollerava la stupidità. Dato il suo profondo livello di empatia e umanità, tutto ciò l’avrebbe colpita in maniera devastante. E di sicuro avrebbe, come ha fatto sempre, riformulato la delusione per scrivere qualcosa. Il film avrebbe dovuto essere pronto da tempo, soprattutto perché il mondo sembra essere davvero diventato come lei aveva preconizzato. Parlaci di una delle tue creazioni più durature: il libro Nicky The Jazz Cat. La serie di Nicky The Jazz Cat nacque quando mi resi conto che avevo fotografato il mio gatto Nicky insieme a tutte le leggende del jazz. All’inizio pensai che queste immagini avrebbero potuto costituire un libriccino dolce e originale, ma poi capii che Nicky era la perfetta ambasciatrice per insegnare il jazz ai bambini. Poi dovevo metterci la musica, in modo che il jazz non fosse solo un concetto astratto. Niente, nell’impero casalingo di Nicky, è stato semplice o redditizio, ma è stata una soddisfazione vedere che i bambini la amavano e si lasciavano guidare da lei.
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Quali sono i tuoi progetti attuali? Mi piace averne parecchi contemporaneamente, e a stadi diversi di realizzazione. L’ultima volta che ho fatto visita al fotografo Chuck Stewart, parlavamo di Quincy [Jones] e Chuck mi ha detto che una volta gli aveva chiesto perché tenesse sempre in gioco tanti progetti: non sarebbe stato più facile concentrarsi su uno alla volta? Quincy rispose che non voleva “affezionarsi a una singola cosa”. Ho appena finito di sistemare e catalogare il magnifico archivio della documentarista e appassionata di jazz Jean Bach (1918-2013. NdR). Due libri di fotografie jazz sono in corso di progettazione, così come un’esposizione sugli anni newyorkesi di Chet Baker. Stiamo digitalizzando l’intero archivio fotografico jazz, un procedimento molto arduo. Ancor più importante, stiamo cercando fondi per il film su Abbey Lincoln, ancora incompiuto, che ho cominciato quasi trent’anni fa. Come sta andando in questi giorni? Quali sono le sfide e i cambiamenti rispetto a quando hai cominciato a lavorare? A un certo punto, dopo che molti dei miei leggendari amici erano scomparsi, la mia tristezza prese il sopravvento: sentivo che non mi interessava più nulla di documentare il nuovo ordine jazzistico. Per fortuna ho cambiato idea. Finché l’industria discografica va avanti, da una parte è appeso a un filo, dall’altro viene sempre giustamente reinventato. Pensa al fascino del vinile. Per questo sono sempre in modalità “ascolto”. Per quanto riguarda il mio lavoro, sono molto più felice se posso produrre il package dei dischi dall’inizio alla fine, lavorando direttamente con gli artisti. Non sono mai stata brava con la diplomazia, o a tollerare la situazione “artesu-commissione” delle etichette discografiche, e ora quell’impedimento non c’è più. È una gioia poter stare con gli artisti, immergermi nella musica e sviluppare una campagna d’immagine che possano sentire adeguata a ciò che volevano esprimere. Provo un immenso senso di gratitudine per questa fiducia. Se c’è una filosofia dietro tutto ciò che hai fatto, puoi dirci qual è? I miei collaboratori mi descrivono come una perfezionista per farmi un complimento, ma ci sono anche degli svantaggi. Io lo sento più come una sofferenza, ma non posso in nessun modo abbassare l’asticella più di quanto ritenga assolutamente corretto. Lo stesso standard si applica a tutti i diversi stadi e dettagli della produzione, della ripresa e del design. Per quanto possa fare il fotografo, la perfezione deve arrivare da sola. Io preparo la colonna sonora e allestisco la scena. Poi si tratta di stimolare il momento, con la speranza che la confluenza di spirito ed emozioni si verifichi. Se c’è una filosofia o un’ideologia che io sottoscrivo, devo tornare alla massima di Halsman: che la fotografia deve rivelare la vita interiore del soggetto. Il tempismo, l’improvvisazione, la fiducia sono tutti in gioco. Certe volte un’immagine deve essere inseguita fino allo sfinimento, altre volte fiorisce subito, senza sforzo, al primo colpo. Ma c’è un ulteriore barometro, ed è che la fotografia deve piacere al cuore, all’anima del soggetto, non a me. Ho sempre sentito che la mia responsabilità è quella di dare ai miei soggetti un’immagine idealizzata di sé stessi. Sentire Nina Simone che, in tutta onestà, mi dice: «Carol, mi hai fatto somigliare ad Audrey Hepburn e ti ringrazio» o Sara Vaughan: «Mi hai fatto somigliare a me stessa» è la vera soddisfazione in ciò che faccio.
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Qual è il complimento che ti ha reso più orgogliosa? Il più bel complimento è che gli uomini e le donne che più stimo ammirino il mio talento e sostengano i miei obiettivi. Fra di loro, ci sono Gordon Parks, Jerry Wexler, Ahmet Ertegun, Jean Bach, Geoffrey Holder, Chuck Stewart, Albert Murray, Bruce Lundvall, Herman Leonard e Abbey Lincoln. Sono i risultati, più che i riconoscimenti, a rendermi orgogliosa. È gratificante che una generazione di bambini sia cresciuta con Nicky The Jazz Cat. Aver documentato la vita e il lavoro di Abbey Lincoln per parecchi decenni è stato un impegno enorme e, quando avrò completato il film, suppongo che sarà il mio orgoglio più grande. C’è un complimento di cui sono orgogliosa ed è venuto da Abbey, la notte prima che entrasse per l’ultima volta in ospedale. Diede un’occhiata in giro a casa mia e mi disse che avevo dedicato la mia vita a costruire un aureo monumento alla musica, e poi affermò: «Per tutti noi, il tuo monumento è grande quanto la musica stessa». Non penso possa essercene uno migliore
CAROL FRIEDMAN E QUINCY JONES SUL SET
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© CARLO MOGAVERO
STORIE
JAZZ E LETTERATURA POLIZIESCA INTERVISTA A FRANCO BERGOGLIO JAZZ E CRIME STORIES SONO UNITI DA UN LEGAME DI LUNGA DATA, INTENSO E MOLTO ARTICOLATO. ABBIAMO CHIESTO A FRANCO BERGOGLIO, STORICO, SAGGISTA, GIORNALISTA E UNO DEI MAGGIORI ESPERTI ITALIANI SULL’ARGOMENTO, DI RACCONTARCI QUALCOSA A TAL RIGUARDO E DI PARLARCI DELLA SUA RICERCA DI FABIO CARUSO
L
a prima domanda è, direi, doverosa. Quando e come hai iniziato a interessarti a questa tematica? Da quando ho l’età della ragione, leggo con una matita in mano. Annoto i libri e poi trascrivo le citazioni, suddividendole per argomenti. Da sempre mi emoziono quando trovo riferimenti al jazz in testi impensati. Scrivendo il mio primo libro per Costa & Nolan, Jazz! Appunti e note del secolo breve (2008), ho fatto alcuni cenni al tema, ma senza svilupparlo. La miccia vera è stata l’intervista all’esperto di gialli Kevin Burton Smith sul rapporto tra noir e jazz. Lui sosteneva che questo legame oggi non esiste, che i romanzieri americani contemporanei citano l’hip hop, il rock, il metal, che il mio approccio era da intellettuale europeo che guarda agli Stati Uniti per categorie astratte. Io ribattevo: «E allora James Ellroy? Michael Connelly?». Alla fine arrivò la sfida. Burton Smith mi disse: «Se tu sostenessi queste tesi qui in America, ti chiederebbero di dimostrarle con numeri e statistiche». Quella fu la folgorazione sulla via per Damasco. Dovevo leggere e catalogare tutti i giallisti che si erano occupati di jazz! Sono riemerso cinque anni dopo con i primi risultati e ho iniziato a scrivere. Alla fine avevo letto o sfogliato 1500 romanzi e censito oltre 300 scrittori. Le connessioni fra crime stories e jazz sono molteplici, la materia è vasta. Qual è stato il tuo approccio metodologico? Lo definirei un approccio sabaudo-piemontese. L’etica protestante del lavoro, unita a una certa follia endemica, ci impedisce di ultimare un lavoro fino a quando la nostra coscienza calvinista non sussurra che abbiamo fatto tutto il possibile, moralmente e fisicamente. Quindi il primo passo era cercare libri e poi leggere e schedare. Avevo una sorta di sindrome di Stoccolma. La mia tesi era il carnefice e io per salvarmi sono diventato un detective di libri, ho cercato gialli nelle bancarelle più putride, li ho ordinati fino in Australia, ho torchiato librai-testimoni per sapere se stavo dimenticando qualcosa. Alla fine ho anche giocato con questa ossessione dell’essere il detective dei detective e ho trasformato i miei sforzi in un meta-saggio. La letteratura, la vita e la ricerca si sono fuse insieme! Il libro si è scritto da solo: gli argomenti erano quelli che emergevano con prepotenza, sempre uguali, da un romanzo all’altro. Il jazz nel noir è un cliché. Gli scrittori lo sanno benissimo. I migliori ci giocano, i mediocri ne abusano e mettono un detective con impermeabile e fiaschetta di whisky in tasca a sentire il blues in un ufficio spoglio, illuminato dalla luce a strisce di una veneziana. Michael Connelly fa ascoltare Art Pepper e Clifford Brown al detective Bosch, ma il nostro uomo vive e lavora in una Los Angeles realistica, della quale l’autore conosce bene sia il mondo del crimine sia il dipartimento di polizia: la musica delinea il carattere del personaggio, funziona nel meccanismo della trama e non diventa un cliché. Quali sono le connessioni tra il jazz e il romanzo criminale? I capitoli del mio saggio ne indagano diverse: i detective che ascoltano jazz durante un’indagine, le cantanti bionde che sono sempre dissolute o amanti del protagonista, i jazz club che diventano luogo di crimini, i musicisti come assassini o vittime. La connessione fondamentale con il Novecento secondo me è questa: jazz e giallo sono forme d’arte o d’intrattenimento “popolari” che “coabitano” negli stessi luoghi e “climi”. Cultura alta e bassa si mescolano e per districare la matassa bisogna saper entrare in questi mondi, come ci ha insegnato a fare Umberto Eco.
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STORIE
JAZZ & CULTURE
«Ho approfondito l’opera vastissima di Ellery Queen, letto più cose di Donald Westlake e di Auguste Le Breton. In un suo romanzo il protagonista va a sentire Cozy Cole. Leggere queste vecchie storie è anche un modo per riportare sotto i riflettori musicisti incredibili, spesso dimenticati»
A luglio del 2015 è stato pubblicato da Arcana il tuo Sassofoni e pistole, saggio ampio e dettagliato. Il sottotitolo è piuttosto eloquente: Storia delle relazioni pericolose tra jazz e romanzo poliziesco. Il libro ha avuto un ottimo riscontro di critica. Giancarlo De Cataldo ha scritto una doppia pagina per la sezione cultura di Repubblica. E poi tanti quotidiani, dal Corriere della Sera all’Unità, lo hanno recensito, insieme a settimanali e riviste. Questa è la forza di un argomento azzeccato: anche se l’autore è oscuro il lavoro trova la propria strada. Terminate le presentazioni canoniche, il tema ha girato in forma di reading, col titolo Pianoforti e pistole con Guido Canavese e dal racconto che avevo posto in chiusura al libro è nato un divertente spettacolo teatrale di Mirabilia Teatro, Sax Crime. Assassinio al jazz club, per la regia di Andrea Murchio con Alessia Olivetti e con musicisti in scena come Alfredo Ponissi e Claudio Nicola. La tua indagine è ancora in fieri. All’orizzonte si prevede un secondo volume? Le ossessioni sono dure a morire. Pensavo che dopo aver pubblicato il libro mi sarei placato. E invece no. Continuo a cercare, ma senza ansie da pubblicazione.
© CARLO MOGAVERO
Chiunque voglia tenersi aggiornato sugli sviluppi delle tue ricerche, può seguire il tuo blog www.magazzinojazz.it In Magazzino Jazz accatasto articoli di vario genere, tra cui questi. Penso di aver aggiunto almeno una trentina di spin-off al libro. Ho approfondito l’opera vastissima di Ellery Queen, letto più cose di Donald Westlake e di Auguste Le Breton. In un suo romanzo il protagonista va a sentire Cozy Cole. Leggere queste vecchie storie è anche un modo per riportare sotto i riflettori musicisti incredibili, spesso dimenticati.
FRANCO BERGOGLIO
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A tuo parere, qual è attualmente lo stato dell’arte relativamente al rapporto fra letteratura poliziesca e musica jazz? Non c’è molto. Gli autori accademici esaminano bene il romanzo jazz o la jazz poetry, ma nessuno prima aveva studiato sistematicamente il rapporto tra crime fiction e jazz. Solo David Rife ha dedicato un capitolo del suo libro Jazz Fiction al tema. David Butler ha scritto un bel volume dal titolo emblematico Jazz Noir, ma si occupa esclusivamente di cinema. In Italia il rapporto tra jazz e cinema è stato esplorato a più riprese. Perché il cinema sì e i romanzi no? Ho due risposte: la prima è che il cinema ha proposto anche molte colonne sonore jazz ed essendo uno stereotipo, vende bene come prodotto commerciale. La seconda è che in Italia il cinema ha una storia critica più profonda di quella musicale. Ci sono cattedre universitarie di storia del cinema e di critica cinematografica e questo ha favorito gli studi accademici. In America ci sono i cultural studies che coprono questi temi e molta saggistica di livello si colloca in quel campo. Da noi praticamente quasi non esistono. Quali sono i cinque romanzi imprescindibili che uniscono crime e jazz? Questo è un colpo basso! Comunque ci provo. Direi Sparate sul pianista di David Goodis, uno dei pionieri del noir americano, Che altro pezzo dobbiamo mandarti? di John Wainwright, un classico del poliziesco inglese, Piccolo blues del francese Jean-Patrick Manchette, Corri, uomo, corri di Chester Himes per il giallo di matrice afroamericana e, in Italia, Musica Nera di Leonardo Gori. Ho scelto autori di paesi diversi per testimoniare quanto il genere abbia ramificazioni mondiali, un po’ come capita al jazz. Se posso permettermi, vorrei consigliare anche alcuni autori. James Ellroy, la serie di Michael Connelly dedicata a Harry Bosch e quella di James Lee Burke su Dave Robicheaux. I libri di Elmore Leonard con protagonista Carl Webster. Questi autori citano spesso il jazz e rappresentano un’immersione mozzafiato nel thriller americano contemporaneo. Nel Vecchio Continente scrivono benissimo John Harvey, Huges Pagan (una specie di Céline del noir), Peter Høeg, Arne Dahl. Vorrei, infine, suggerire un ultimo titolo da jazzofili incalliti. Aria chiusa di Evan Hunter, autore con lo pseudonimo Ed McBain della saga dedicata all’87° distretto. Aria chiusa non è un giallo, ma la storia di un trombettista che sta tentando di liberarsi dalla tossicodipendenza. Una vicenda drammatica che descrive un certo sottobosco musicale che negli anni Cinquanta era reale. Questa storia dovrebbe figurare tra i migliori romanzi sul jazz
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As
scolti
FILIPPO BIANCHINI
SOUND OF BEAUTY SEPTEMBER, 2018
Il tenorista Filippo Bianchini ci fa ascoltare un album che esalta il suo timbro strumentale – una voce quanto mai avvolgente, pastosa, soffiata e profonda - e la sua capacità di scrittura, a livello compositivo ma anche, e soprattutto, sul fronte degli arrangiamenti. La musica del quartetto guidato da Bianchini (N. Andrioli al piano, I. Spalletti al contrabbasso e A. Luongo alla batteria), con ospite il trombettista J.P. Estievenart, si muove con grande naturalezza e spontaneità. Siamo a un vertice del modern mainstream. NEBULOSA ROSA BRUNELLO - LOS FERMENTOS
SHUFFLE MODE CAM JAZZ, 2019
Le idee sonore di Rosa Brunello sono sempre così sorprendentemente vaste, eclettiche e ispirate, ma ciò che stupisce in “Shuffle Mode” è la cura maniacale per ogni dettaglio timbrico – grazie allo straripante contributo di Frank Martino – e per ogni singola frase o frammento, come fosse un concept album. Vengono introdotti elementi di musica concreta e schegge di progressive, reggae, alternative, punk, elettronica, ma anche ballad oniriche, come Il barone rampante. TITUZ ROCK
RECORDS a cura di Luciano Vanni
CLAUDIO COJANIZ/FRANCO FERUGLIO
BLUE QUESTION (FOR M & M) CALIGOLA, 2019
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Pianoforte, quello di Claudio Cojaniz, e contrabbasso, quello di Franco Feruglio: a sei anni da “Blue Africa”, il duo torna in studio per registrare un corpus di sette brani per investigare il mondo del blues inteso non tanto come “forma” ma come esperienza di vita e sentimento. Ne nasce un dialogo crepuscolare, intimo e fortemente lirico, che esalta l’intensità espressiva più melanconica dei due solisti – Amis (pour M & M) e Insomnia, ad esempio – ma crea nuove opportunità di interplay serrati e più eccitati e convulsi (Cracking). AMIS
EDITOR'S PICKS
GUIDO DI LEONE TRIO
PARENTS ABEAT, 2019
Il trio guidato dal chitarrista Guido Di Leone – completato dal trombettista Jim Rotondi, classe 1962, cofondatore dei leggendari One For All, e dal contrabbassista Paolo Benedettini – opera sul solco della tradizione ma con un assetto strumentale pianoless e di stampo cameristico: ciò significa valorizzare appieno la meccanica dell’interplay e la voce solistica. L’impressione che se ne ricava dall’ascolto è una forte empatia fra i tre e la consapevolezza che il dialogo, nel jazz, è il centro focale del tutto. THE BREEZE AND I
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FRANCESCO DIODATI YELLOW SQUEEDS
ADALBERTO FERRARI 3 ÈLÈ-MENTS
NEVER THE SAME
UNSTABLE WATERCOLORS
AUAND, 2019
DODICILUNE, 2019
Apparentemente sghembo e irrazionale, “Never The Same” può essere considerato uno straordinario zibaldone dei pensieri del chitarrista Francesco Diodati. Un luogo di riflessione, sintesi e pensieri elaborati in forma corale con i suoi Yellow Squeeds – F. Lento (tromba), G. Benedetti (tuba, trombone e flauto), E. Zanisi (pianoforte e Fender Rhodes) ed E. Morello (batteria) – come dimostra la traccia River, una caleidoscopica, piccola suite che si muove tra inquietudine, dolcezza, lirismo e caos. RIVER
Il clarinettista Adalberto Ferrari – affiancato dal pianista A. Zambrini (che si fa ascoltare anche al flauto traverso) e dal contrabbassista M. Ricci – guida un ensemble che si distingue per l’assetto timbrico di stampo cameristico e porta alla luce una musica senza tempo, che sovrappone e intreccia la musica popolare, diremmo mediterranea, al classicismo, attraverso la prassi jazzistica. La scrittura, carica di obbligati, è fortemente evocativa e lirica, ed è pensata per offrire ampi spazi al solismo. LONTANO
DOCK IN ABSOLUTE
JACOPO FERRAZZA TRIO
UNLIKELY
THEATER
CAM JAZZ, 2019
CAM JAZZ, 2019
Il piano trio Dock in Absolute nasce in Lussemburgo e costruisce il suo baricentro espressivo ispirandosi alla tradizione della musica europea, tra classicismo e Novecento, zigzagando tra lirismo, virtuosismo, plasticità, eleganza e quell’idea di progressive jazz che sta nutrendo le formazioni più eclettiche del nostro tempo. La scrittura, carica di obbligati e di raffinatissimi impianti armonici e ritmici, esalta le doti espressive del pianista J.P. Koch e al tempo stesso il groove e la potenza dell’impatto sonoro del trio. BORDERLINE
Il contrabbassista Jacopo Ferrazza torna a registrare alla guida del suo trio – completato da Stefano Carbonelli alla chitarra (a cui Ferrazza dedica partiture pensate per pianoforte) e Valerio Vantaggio alla batteria – elaborando una musica sofisticata, eterea e profonda, che sintetizza classicismo, Novecento e improvvisazione (sempre controllata). Emergono echi friselliani (come la straordinaria Rhapsody For A Child), sofisticate trame contrappuntistiche (A Visionary Spring), fughe (Awakening) e corali (Sofia). RHAPSODY FOR A CLOUD
DOCTOR 3
ETTORE FIORAVANTI
CANTO LIBERO
OPUS MAGNUM
VIA VENETO JAZZ/JANDO MUSIC, 2019
ALFAMUSIC, 2019
I Doctor 3 sono un super trio nato nel 1997 (per iniziativa del pianista D. Rea, del contrabbassista E. Pietropaoli e del batterista F. Sferra) che ha costruito la sua identità intrecciando interplay e libertà espressiva attorno a repertori di grande popolarità. “Canto libero” mette in relazione il trio con il songbook di Enrico Battisti, riuscendo a offrire nuovi ed efficaci scenari emotivi come nel caso di Con il nastro rosa. E poi c’è la loro straordinaria capacità di divagare in libertà: come nei tre frammenti Doctor 01, Doctor 02, Doctor 03. CON IL NASTRO ROSA
La scrittura del batterista Ettore Fioravanti si distingue da sempre per la grande propensione al canto, alla forza melodica, ai dettagli timbrici, alla cura degli arrangiamenti e al divertissement: con “Opus Magnum” la narrazione si fa ancora più sofisticata, libera e aperta maggiormente al dialogo collettivo, come se fosse stata pensata per valorizzare il solismo dei componenti del quartetto che comprende M. Colonna ai clarinetti (dirompente in Sagitta), I. Legari al contrabbasso e P. Mirra al vibrafono. COLOMBINA
GIOVANNI FALZONE OPEN QUARTET
JAVIER GIROTTO TRIO
L’ALBERO DELLE FATE
TANGO NUEVO REVISITED
PARCO DELLA MUSICA RECORDS, 2019
ACT, 2019
L’Open Quartet del trombettista Giovanni Falzone nasce, come indica il suo nome, per accogliere sempre nuove risorse artistiche, e in questo caso si completa con E. Zanisi al pianoforte, J. Ferrazza al contrabbasso e A. Rossi alla batteria. Il disco è ispirato a un luogo reale, nei dintorni del lago di Endine, dove Falzone ama trascorrere momenti di riposo: la musica che ne nasce è profondamente romantica, riflessiva e nostalgica, e fa emergere il timbro strumentale in purezza ed elegiaco. IL MAGICO SASSO
Come recita il titolo, il disco rende omaggio allo storico album che vide la collaborazione tra Astor Piazzolla e Gerry Mulligan (uscito in Europa con il titolo “Tango Nuevo” e in Argentina come “Reunion Cumbre”] e che fu registrato in Italia nell’autunno del 1974. Girotto opera la scelta di una rilettura più cameristica e intima, in trio, con il bandoneonista Gianni Iorio e il pianista Alessandro Gwiss. Una preziosa occasione per ascoltare il baritonista italo-argentino in una dimensione più riflessiva. CLOSE YOUR EYES AND LISTEN
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YARON HERMAN TRIO
GIANFRANCO MENZELLA QUARTET
SONGS OF THE DEGREES
DOUBLE FACE
BLUE NOTE, 2019
ALFAMUSIC/ALFAPROJECTS, 2019
Il pianista di origini israeliane Yaron Herman, oramai francese d’adozione, torna al piano trio (in questo caso con S. Minaie al contrabbasso e Z. Ravitz alla batteria) dopo dieci anni e lo fa con un ampio corpus di originali e un album registrato live in studio. Si respira grande libertà espressiva, con partiture che – con poche eccezioni (è il caso della sognante Still Awake) - nascono per liberare la forza dell’improvvisazione e di un interplay serrato che evoca il piano trio di jarrettiana memoria. THE HERO WITH A THOUSAND FACES
Il tenorista Gianfranco Menzella guida il suo quartetto (completato da B. Montrone al pianoforte, L. Fattorini al contrabbasso, A. Pache alla batteria), con ospite Joe Magnarelli alla tromba, all’interno di un repertorio d’autore firmato da Cedar Walton, Benny Golson, Horace Silver e Joe Henderson: si respira un clima di grande raffinatezza, profondità, concentrazione e spiritualità, a dimostrazione del fatto che ancora oggi l’hard bop può essere materia viva e vitale, ispiratrice e generativa. PEACE
ALBERTO LA NEVE
MAURO OTTOLINI
NIGHT WINDOWS
SEA SHELL – MUSICA PER CONCHIGLIE
MANITÙ RECORDS, 2019
AZZURRA, 2019
Il tenorista e sopranista Alberto La Neve, con il contributo di loop machine e multi effetti, elabora un concept album in assolo attorno all’opera del pittore statunitense Edward Hopper, lasciandosi ispirare da otto opere che si trasformano in altrettante composizioni di grande personalità. Il merito del sassofonista è di elaborare una musica fortemente ancorata e dialogante con le immagini, per certi versi impressionista, senza eccedere in astrattismo o in un virtuosismo fine a sé stesso. AUTOMAT
L’opera, da considerarsi un concept album, è un inno alla natura realizzato con i suoni naturali delle conchiglie e intende sensibilizzare ai temi dell’educazione ambientale anche attraverso un cartone animato, connesso al progetto “Sea Shell”. Si ascoltano schegge di musica concreta, tra onde e venti, sonorità etniche e tribali, in un flusso continuo di suggestioni, tra misticismo e spensieratezza, che coinvolgono anche Vinicio Capossela (La Madonna delle conchiglie), Gavino Murgia e Vanessa Tagliabue Yorke. CORAL DIRGE
LUZ
MIRKO PEDROTTI QUINTET
ENCELADO
DURCH
AUAND, 2019
NUSICA.ORG, 2019
A cinque anni dall’esordio di “Polemonta”, il trio LUZ (G. Ancillotto alla chitarra, I. Legari al contrabbasso e F. Scettri alla batteria) torna in studio con un concept album ispirato al cosmo, alle stelle e alla mitologia greca. Il risultato finale è un’esplorazione pionieristica, a tratti surrealista, di linguaggi: un flusso sonoro di grande potenza dove l’improvvisazione – controllata su cd, e più aperta dal vivo - si muove tra partiture post rock, ipnotiche, nostalgiche e psichedeliche, tra inquietudine e lirismo. SHAPIRO
Il vibrafonista Mirko Pedrotti porta con sé il sincretismo del jazz contemporaneo grazie a un blend sonoro fatto di classicismo, avanguardie, Novecento, black music ed elettronica. “Durch” è progressive nell’articolazione delle composizioni (che appaiono come mini suite), per la complessità della scrittura, per la ricerca timbrica (vibrafono, sax, Fender Rhodes, basso, batteria), per la plasticità ritmica delle composizioni ma anche per quel lirismo e quella spiritualità che emerge sempre in profondità. IGOR’S DANCE
BRAD MEHLDAU
ROMANO PRATESI/DAVE LIEBMAN
FINDING GABRIEL
SOUND DESIRE
NONESUCH, 2019
DODICILUNE, 2019
Questa volta è il Vecchio Testamento a ispirare il pianista Brad Mehldau, protagonista di un capolavoro dei nostri tempi: un’opera sontuosa, al tempo stesso ipnotica, psichedelica e seducente, tra melodismo, jungle, psichedelia e minimalismo. Mehldau è carico di idee e si fa sentire al pianoforte e su di una sterminata sequenza di strumenti, tra Fender Rhodes, Hammond, xilofono, mellotron e il sintetizzatore polifonico Dave Smith OB-6. Tra i numerosi ospiti, Kurt Elling, Mark Guiliana e Ambrose Akinmusire. ST. MARK IS HOWLING IN THE CIT Y OF NIGHT
L’incontro tra Romano Pratesi, al clarinetto basso, e il polistrumentista Dave Liebman (in questa circostanza al soprano, al flauto e al pianoforte), si manifesta con una musica che appare orchestrale, polifonica e corale, a dispetto di un organico così essenziale e asciutto. Emerge il desiderio di elaborare un dialogo serrato, un impatto sonoro di straordinaria potenza espressiva e un ambiente sonoro fortemente creativo che si alimenta grazie alle preziose e incisive cellule melodiche da cui sgorga l’improvvisazione. DUET IN THE MIRROR
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ENRICO RAVA/JOE LOVANO
SONIA SPINELLO
ROMA
SOSPESA
ECM, 2019
ABEAT, 2019
Registrato dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il 10 novembre 2018, “Roma” celebra gli ottant’anni di Enrico Rava a fianco del sassofonista Joe Lovano e alla guida di un quintetto comprendente G. Guidi al pianoforte, G. Cleaver al contrabbasso e D. Douglas alla batteria. Ma non c’è spazio per l’auto celebrazione: l’album possiede il sacro fuoco dell’ispirazione e - come dimostra il lungo medley finale – un’intensità spirituale, un’energia vitale e una capacità di trasferire emozioni come raramente accade di sentire. DRUM SONG/SPIRITUAL/OVER THE RAINBOW
Basterebbe una sola ballad, Sottile, a esporre il senso profondo di questo album firmato dalla cantante Sonia Spinello: un brano interpretato, e sussurrato, a due voci con Ivan Segreto, che si distingue per una scrittura sofisticata e intimistica, e testi profondi. “Sospesa” è un album di canzoni di grande fascino, arrangiate per quartetto d’archi e trio jazz (tromba, chitarra classica e pianoforte), e ci fa ascoltare un’interprete elegante che ha il merito di ridefinire l’idea stessa della canzone italiana. SOTTILE
VINCENZO SAETTA
THE SYCAMORE
NOWHERE
SEAMLESS
TÜK MUSIC, 2019
EMME, 2019
«Vi siete mai chiesti dove vanno a finire i sogni?». L’altoista Vincenzo Saetta apre il booklet dell’album con una domanda che ne indica l’identità e i confini espressivi: un caleidoscopio emotivo fatto di partiture liriche (Nowhere) e inquiete (Precog), per certi versi nervose (Untitled) e nostalgiche (Notturno For Miles). Il quintetto - A. Lanzoni al pianoforte, G. Francesca alla chitarra, D. Sorrentino al contrabbasso e L. Del Prete con la voce di W. Ricci ospite in un brano – ha plasticità, interplay e grande energia vitale. UNTITLED
The Sycamore è un sestetto – anche se preferiscono definirsi collettivo - attivo dal 2015 che si distingue per l’assetto timbrico inedito (trombone, tenore, doppia chitarra, contrabbasso e batteria) e che opera come una small big band, proponendo partiture al tempo stesso liriche ed esotiche, intime e meditative ma anche cariche di energia vitale. Emerge il desiderio di costituire un’identità sonora che valorizzi al tempo stesso l’ensemble, la scrittura e le potenzialità espressive di ogni singolo solista. SA PANXA
SATOYAMA
TORNE/BERNE/SMITH
MAGIC FOREST
SUN OF GOLDFINGER
AUAND, 2019
ECM, 2019
L’attenzione si concentra su di una narrazione progressive (fluida, timbricamente varia e affascinante con l’inserimento di inserti recitativi), che intende riflettere sulle tante emergenze contemporanee, dalla desertificazione alla biodiversità: emerge una forte personalità (si sente che la band è attiva da almeno sei anni) e si ascoltano echi radioheadiani e friselliani, e una certa vena nostalgica che ricorda Nils Petter Molvær, che rende il tutto eccezionalmente elegiaco. LEAVE
Dopo anni di attività concertistica, il trio comprendente il chitarrista David Torne, l’altoista Tim Berne e il batterista Ches Smith si fa ascoltare anche in studio discografico: ed è come immergersi in un potente flusso sonoro, uno tsunami espressivo che dà vita a un’atmosfera di forte inquietudine, ipnotica e avvolgente, imprevedibile e tumultuosa. Il trio si misura su tre lunghe composizioni (oltre venti minuti ciascuna) e ha la capacità di generare un suono orchestrale, grazie al sapiente utilizzo di live-looping ed elettronica. SPARTAN, BEFOR IT HIT
KENDRICK SCOTT ORACLE
ISRAEL VARELA
A WALL BECOMES A BRIDGE
THE LABYRINT PROJECT
BLUE NOTE, 2019
VIA VENETO JAZZ/JANDO MUSIC, 2019
Dopo quattro anni dal debutto discografico, il quintetto Oracle - guidato dal batterista Kendrick Scott e completato dal pianista T. Eigisti, dal chitarrista M. Moreno, dal sassofonista J. Ellis e dal bassista J. Sanders - torna in studio con un concept album ispirato dalle inquietudini del nostro tempo. Si ascolta un hard bop di nuova generazione, fortemente spirituale, raffinato, lirico, intenso e impreziosito da inserti di musica elettronica, grazie agli interventi del dj Jahi Sundance. VOICES
In qualsiasi contesto operi, la musica del batterista e cantante di origini messicane Israel Varela acquisisce una dimensione orchestrale: come in questo caso, anche se per esplorare i sentimenti più profondi della propria personalità (il labirinto ne è una metafora) guida un quartetto comprendente F. Weber al pianoforte, A. Paixão al basso e B. Wendel al sassofono. La musica proposta è di ampio respiro, riflessiva e avvolgente: un blend tra danze sudamericane, tradizione jazzistica e classicismo europeo. ALL DIRECTIONS
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© VINCENZO MAGNI
CLAUDIO ANGELERI BLUES IS MORE
SI INTITOLA “BLUES IS MORE” (DODICILUNE, 2019) IL NUOVO ALBUM DI CLAUDIO ANGELERI, UN DISCO CALEIDOSCOPICO CHE RACCONTA MOLTE STORIE DIVERSE E CHE INDAGA LA TEORIA DELL'ARMONIA NEGATIVA DI ERNST LEVY. NE ABBIAMO PARLATO CON IL PIANISTA E COMPOSITORE
DI EUGENIO MIRTI
«Levy ha introdotto e riletto tutta quella che è la teoria della musica con questa chiave di lettura: non c’è un modo maggiore che esprime la triade e un modo minore che è una sua versione spuria, ma in realtà sono due facce della stessa medaglia. Pochi musicisti si occupano di armonia negativa, uno per esempio è Steve Coleman»
“Blues Is More”: qual è il senso del titolo? Come avrai visto, in questo disco ho applicato lo studio della “Negative Harmony” di Ernst Levy (musicologo, compositore, pianista e direttore svizzero, 1895-1981, NdR), anche se poi naturalmente l’importante è la musica, l’effetto che si ottiene, più che la teoria; e ciò che differenzia il jazz da altre musiche è proprio il blues: tanti elementi, diverse culture che si incontrano, la modalità che vive con la tonalità… Ritengo che sia quel qualcosa in più che caratterizza il jazz, e quindi mi sembrava un bel gioco di parole. CLAUDIO ANGELERI
Qual è il principio di questa teoria? È un po’ difficile da spiegare per chi non conosca la teoria musicale. Il sistema cosiddetto “polare” si basa sugli armonici naturali, che in realtà sono elementi cultuali, esprimono la dualità tra la fisicità e la spiritualità. Levy ha introdotto e riletto tutta quella che è la teoria della musica con questa chiave di lettura: non c’è un modo maggiore che esprime la triade e un modo minore che è una sua versione spuria, ma in realtà sono due facce della stessa medaglia. Pochi musicisti si occupano di armonia negativa, uno per esempio è Steve Coleman, che ha fatto un lavoro molto interessante sui Rhythm Changes. Diciamo che questo modo di vedere la musica arricchisce la tavolozza sonora a disposizione.
BLUES IS MORE DODICILUNE, 2019 Claudio Angeleri (pf, tast); Gabriele Comeglio (alto, sop); Andrea Andreoli (trn); Marco Esposito (b el); Luca Bongiovanni (batt, perc); Paola Milzani (voc #9); Giulio Visibelli (fl #4)
“Blues Is More” è un bel disco in cui Claudio Angeleri mette in opera le teorie della Negative Harmony elaborate da Ernst Levy e rese famose di recente dai confronti sul tema sviluppati da Jacob Collier ed Herbie Hancock. Il lavoro si segnala subito per una grande varietà di mood, eclettico e cangiante come pochi, pur rimanendo il sound generale sempre personale e riconoscibile. Il repertorio è costruito con sette brani originali e le riletture di Dance Of The Infidels di Bud Powell, A New World A Comin di Duke Ellington e Monk’s Dream di Thelonious Monk. Tra i brani originali troviamo un blues (Blues Is More) e un Rhythm Change (Absolutely), inseriti con il proposito di illustrare le peculiarità sonore della Negative Harmony. Il gruppo di lavoro è affiatato e di alto livello. La ritmica è a suo agio nei tempi afro così come nelle ballad, nelle situazioni più free così come nei groove old style (si ascoltino i richiami a New Orleans della title-track, per esempio); i solisti non sono da meno, esprimendo assolo sempre ben riusciti. Un disco che si apprezzerebbe comunque, ma che diventa interessante se si vogliono approfondire le teorie e il sound elaborati da Ernst Levy. (EM)
Come hai scelto i tre brani non originali? Ellington è un compositore che passa dal maggiore al minore con esuberanza, anche quando esce dalla tonalità e poi torna, ha un modo paritario nell’usare le due modalità. Bud Powell usa proprio delle formule negative, per esempio gli accordi minori con la sesta. E anche Monk, che ha tra l’altro “inventato” l’uso concettuale dell’accordo minore sesta con la sesta al basso che porta a fare una cadenza plagale IV-I o IV-V-I. Come hai scelto i musicisti per questo lavoro? Mi piace avere un nucleo di persone che suonano sempre insieme; con molti musicisti di questo ensemble suoniamo insieme dal 2001, e chiaramente l’interplay si ottiene perché ci si conosce e non hai bisogno di spiegarti. Che cos’è il jazz oggi? Non ha cambiato fondamentalmente il suo approccio, è sempre stato una musica inclusiva già a New Orleans: lì si incontrava con la musica italiana, ebraica, c’erano diversi elementi sempre interpretati con personalità, che è l’etica del jazz. Il jazz è vivissimo, solo che gli stimoli in una società multietnica e con una comunicazione espansa sono molto maggiori. Io insegno nella scuola, sono in prima linea e sento che stanno succedendo delle cose belle. Se avessi una bacchetta magica, quale sogno esaudiresti? Dico sempre che sono soddisfatto di quello che sto facendo e del momento culturale e storico che vivo, mi piace. Vorrei certamente avere più supporto e sostegno per superare la fatica di sopravvivere nelle attività culturali. Mi chiedo spesso che cosa faranno i ragazzi che studiano, dal momento che non ci sono i soldi per i festival; tutto questo è soprattutto un problema economico che a sua volta deriva da un problema culturale
Voicings / Seascape / Blues Is More / Paths / Absolutely / Easy / Dance Of The Infidels / A New World A Comin / Monk's Dream / Dixie
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JAZZ REVIEW
© DANIELA CREVENA
FOCUS
THE BROWN BEATNIK TOMES
Ron Carter/Danny Simmons DI FABIO CARUSO
D
anny Simmons è un artista a tutto tondo, vulcanico e infaticabile. Cresciuto in una famiglia ad alta concentrazione di stimoli culturali – il padre professore di storia, la madre insegnante e pittrice, un fratello (Russell) produttore musicale e televisivo e l’altro (Joseph) membro fondatori dei Run-DMC –, Danny è uno stimato poeta, romanziere e pittore espressionista astratto, le cui opere sono state esposte, fra l’altro, nella sede dell’ONU, presso lo Schomburg Center for Research in Black Culture, il Brooklyn Museum e lo Smithsonian African American Museum. Insieme al fratello Russell, ha ideato e prodotto la Def Poetry Jam, una trasmissione televisiva di successo, andata in onda sulla HBO dal 2002 al 2007, in cui si esibivano poeti, giovani o già affermati, in alcuni casi affiancati da famosi attori e musicisti. The Brown Beatnik Tomes è il titolo di una raccolta di poesie e dipinti di Danny Simmons, pubblicata nel 2014 e ben presto trasformata in una performance multimediale sul palco della BRIC House a Brooklyn, di cui l’album “The Brown Beatnik Tomes - Live At BRIC House” offre un significativo estratto. Simmons fonde musica (jazz, in questo caso) e poesia, riproponendo la più autentica tradizione degli autori della Beat Generation – Ferlinghetti, Kerouac e Ginsberg – a partire, però, da una più moderna prospettiva africano-americana, con un quid di
CARTER/SIMMONS
THE BROWN BEATNIK TOMES BLUE NOTE, 2019 Ron Carter (cb); Danny Simmons (voc #1-4, #8, #9); Donald Vega (pf #5, #7); Russell Malone (ch #5, #7); Lisa Jesse Peterson (voc #6), LuQuantumleap (beatbox #6) For A Pistol / The Final Stand Of Two Dick Willie / Feeling It Coming On / Tender / Here’s To Oscar / Where Do I Begin / There Will Never Be Another You / The Jigaboo Waltz / The Brown Beatnik Tomes
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black consciousness in più. Al centro della scena ci sono lo stesso Simmons, che declama i suoi versi in modo intenso e quasi viscerale, e un monumento della musica jazz come Ron Carter (supportato dalla chitarra di Russell Malone e dal piano di Donald Vega), che con il suo contrabbasso affianca e interseca la parola poetica. L’album si apre con For A Pistol, un accorato ed evocativo tributo ad Amiri Baraka, punto di riferimento della poetica di Simmons, seguito da The Final Stand Of Two Dick Willie, personaggio creato dallo stesso poeta – e protagonista del suo recente libro, The Return of Two Dick Willie –, che simboleggia l’intima essenza dell’uomo di colore attraverso decenni di progressi e di fallimenti. In Tender le parole di Simmons si sposano perfettamente con le note di Carter, il quale riesce a renderle ancora più soffici, al limite della sensualità. Degna di nota è la presenza di Liza Jessie Peterson, attivista e poetessa di enorme talento, che interpreta una delle sue poesie più famose, Where Do I Begin, nella quale Carter interagisce anche con il beatboxing di LuQuantumleap. La scaletta comprende anche due brani strumentali affidati alle sapienti mani di Ron Carter e dei suoi due sodali: Here’s To Oscar, un omaggio al contrabbassista Oscar Pettiford, e una bella versione di There Will Never Be Another You, che si apre con un intenso assolo di Carter
TRIPLETS
IL NUOVO TRIO DI AMEDEO ARIANO SI CHIAMA TRIPLETS ED È COMPLETATO DA LUCA BULGARELLI AL CONTRABBASSO E FRANCESCA TANDOI AL PIANOFORTE. UNA FORMAZIONE CHE PASSA CON ELEGANZA DAL SUONO PIÙ CLASSICO A QUELLO PIÙ MODERNO: ABBIAMO INTERVISTATO IL LEADER IN OCCASIONE DELL'USCITA DEL DISCO OMONIMO (ALBÓRE JAZZ, 2019)
DI EUGENIO MIRTI
© EMANUELE VERGARI
AMEDEO ARIANO
«Gli arrangiamenti sono nati per rielaborare i brani secondo il nostro gusto; è un disco suonato al momento, molto jazz, nel quale però abbiamo cercato di seguire delle direttive ben precise: non è un jazz di ricerca, ma una musica che parte dalla tradizione, affrontando a mano a mano un linguaggio più moderno»
Puoi raccontarci come è nato questo nuovo trio con Francesca Tandoi al pianoforte e Luca Bulgarelli al contrabbasso? Conosco Francesca da più di quindici anni. Tutti i musicisti di jazz bazzicano nei club e io la sentii suonare al Gregory’s tanti anni fa: già avevo visto in lei delle grandi potenzialità. Con Luca suoniamo insieme da vent'anni nella formazione di Sergio Cammariere. Quando mi è capitato di ricevere la proposta dall’Alexanderplatz di organizzare un concerto con la band che preferivo, ho pensato a un trio con loro due. La formazione è piaciuta, quindi il giorno dopo il concerto ho pensato di chiamarli per dire loro che avevo intenzione di registrare, e così dopo due giorni dal primo concerto ho organizzato la registrazione alla Casa del Jazz. Sono contento, mi sembra che il disco sia fresco, fruibile, non spigoloso. Allegro!
AMEDEO ARIANO
TRIPLETS ALBÓRE JAZZ, 2019
Perché il titolo “Triplets”? Tutti pensano alle terzine, naturalmente; invece, è un gioco di parole che ho voluto creare: devi sapere che sono nato da parto trigemino, ho un fratello gemello, Gino (bassista blues), e una sorella gemella, Adele, che è stata ballerina ed è ora insegnante di danza. Siccome la musica del nostro trio è stata così immediata e facile, mi è sembrato quasi che io e i miei amici musicisti fossimo fratelli gemelli… triplets!
Amedeo Ariano (batt); Francesca Tandoi (pf); Luca Bulgarelli (cb)
La traccia inizale di “Triplets”, F.S.R. (la classica For Sonny Rollins di Ray Brown), ben esplicita già da subito l’intento di Amedeo Ariano e gli ingredienti del suo nuovo trio Triplets: un forte swing, il sound bluesy, il richiamo al jazz mainstream più pulsante ed energico, una festa della tradizione, ma non solo. Eccellente l’interplay tra Ariano e Bulgarelli (del resto suonano insieme da vent'anni con Sergio Cammariere) e impeccabile Francesca Tandoi, vera protagonista del disco. L’album alterna momenti dal sound più classico ad altri che si avvicinano a quello più contemporaneo, come ben si può ascoltare in BulgArianTandoj, una sorta di blues modale creato estemporaneamente, dal riff aggressivo e prepotente. La formazione in trio per pianoforte e ritmica è sicuramente una delle più consolidate nella storia del jazz, ma la sezione formata da Ariano e Bulgarelli e le continue invenzioni di Francesca Tandoj rendono questo disco a suo modo speciale: un album dal groove enfatico che si ascolta e riascolta più che volentieri. Non resta che augurarsi un secondo lavoro di questo trio – nato da un concerto estemporaneo – realizzato da brani originali, per apprezzare appieno la maestria di questa formazione. (EM)
Come avete scelto il repertorio del disco? E come l’avete arrangiato? Abbiamo scelto i brani insieme. Tre giorni prima della registrazione, per il concerto all'Alexanderplatz, ho chiesto a Luca e a Francesca di redigere un elenco di brani che avrebbero suonato volentieri. Francesca ne ha scelti quattro o cinque, Luca lo stesso; abbiamo scritto la scaletta che poi in parte è rimasta uguale anche nel disco, tranne un brano che abbiamo creato estemporaneamente (BulgArian Tandoj). Gli arrangiamenti sono nati per rielaborare i brani secondo il nostro gusto; è un disco suonato al momento, molto jazz, nel quale però abbiamo cercato di seguire delle direttive ben precise: non è un jazz di ricerca, ma una musica che parte dalla tradizione, affrontando a mano a mano un linguaggio più moderno. Nel CD infatti si trovano sia il sound tradizionale sia quello più contemporaneo. Qual è l’importanza della tradizione? Conoscere la tradizione significa conoscere le basi, e questo vale per tutte le forme d’arte. Come fai a suonare il jazz se non conosci le sue basi e la sua storia, dalla tratta degli schiavi al jazz moderno? Che cos’è il jazz oggi secondo te? Esiste, e per quanto mi riguarda mi fa ancora vivere bene di musica: con il jazz lavoro da trent'anni e più. Oggi è una realtà molto forte, radicata, e credo che il jazz italiano sia uno dei più forti al mondo, un ambiente grande e interessante. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Al momento continuo a essere in tour con Sergio Cammariere, un'esperienza che vivo da vent'anni; sono molto fortunato perché Sergio è uno dei pochi artisti che ha una band stabile, ci crede. Poi sarò in tour con Nick the Nightfly, un altro grande artista, che ha da poco pubblicato un nuovo album. Poi sarò in tour con la formazione di “Triplets”, poi con Nino Bonocore, che è un altro bravissimo cantautore. E poi tante altre cose…
F.S.R. / The Sheik Of Araby / You Don’t Know Me / I Didn’t Know What Time It Was / I Thought About You / Body And Soul / BulgArianTandoj / When Sunny Gets Blue
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JAZZ REVIEW
© DAN MUSE
FOCUS
TRILOGY 2
Corea/McBride/Blade DI EUGENIO MIRTI
E
ra il 2014 quando la Concord pubblicava “Trilogy”, un album (triplo) live delle esibizioni di Chick Corea con una sezione ritmica diversa da quella abituale formata da Dave Weckl e John Patitucci: il disco, infatti, vedeva il maestro americano avvalersi dell’opera dei talentuosi Christian McBride al contrabbasso e Brian Blade alla batteria, due tra i più celebrati musicisti del jazz contemporaneo. “Trilogy” ebbe uno straordinario successo di vendite e critica (vinse due Grammy Awards, “Best Jazz Instrumental Album” e “Best Improvised Jazz Solo” per Fingerprints), ed ecco che la Concord ha di recente pubblicato il suo seguito, “Trilogy 2”, ancora live ma questa volta “soltanto” in formato doppio. L’album ospita brani classici della storia del jazz come All Blues, How Deep Is The Ocean e Crepuscule With Nellie e brani tratti dal songbook personale di Corea: composizioni molto note (e a loro volta diventate standard) come 500 Miles High e La Fiesta. Ricompare – è la prima volta che viene nuovamente registrata dopo circa mezzo secolo – Now He Sings, Now He Sobs, la title-track del leggendario album che per primo dimostrò il talento del giovanissimo (siamo nel 1968) Corea. Il resto del programma vede un altro brano di Monk (Work), Pastime Paradise di Stevie Wonder, Lotus Blossom di Kenny Dorham, la classica ballad But Beautiful di Jimmy Van Heusen, Eierdown di Steve
COREA/MCBRIDE/ BLADE
TRILOGY 2 CONCORD, 2019 Chick Corea (pf); Christian McBride (cb); Brian Blade (batt) CD1: How Deep Is The Ocean / 500 Miles High / Crepuscule With Nellie / Work / But Beautiful / La Fiesta CD2: Eiderdown / All Blues / Pastime Paradise / Now He Sings, Now He Sobs / Serenity / Lotus Blossom
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Swallow e la traccia di apertura, How Deep Is The Ocean, in una versione emblematica e particolarmente accattivante. Le esecuzioni sono belle e ben riuscite, come possiamo raccontare con due esempi. La classica All Blues, staccata a un tempo velocissimo, è prima terreno di un lungo assolo del leader che brilla per inventiva e senso melodico; segue quello di McBride, che dispiega un continuo rincorrersi col pianoforte (che commenta, punteggia, risponde alle frasi del contrabbasso); riparte il pianoforte con un secondo assolo, tutto giocato con la tecnica dei block chords, per poi confluire nel tema finale. Pastime Paradise inizia invece con una linea ritmica costruita con due note del pianoforte, accompagnate da Blade che suona i suoi tamburi come fossero percussioni; l’andamento è latineggiante, con le linee di McBride in evidenza e il tema armonizzato in maniera semplice ma efficace da Corea; l’assolo del pianista è tutto giocato melodicamente, con una inesauribile quantità di idee che richiamano sempre il tema di Wonder. “Trilogy 2” è un album ben riuscito, che mostra tre maestri dei rispettivi strumenti dare vita a quello che può essere considerato jazz nella sua accezione migliore: musica estemporanea, che cambia continuamente direzione, ispirandosi alle idee di uno dei musicisti e modificando in tempo reale il sound del trio, che raggiunge così vette di bellezza assolute
MEV TRIO RIFLESSI
I MEV TRIO PUBBLICANO PER ALFAMUSIC IL LORO SECONDO ALBUM FATTO DI BRANI PER I QUALI È DIFFICILE TROVARE UN’UNICA MATRICE CULTURALE E STILISTICA. ABBIAMO CHIESTO DA DOVE NASCE TUTTO CIÒ A MICHELE ZANNINI, CHITARRISTA E AUTORE DELLE COMPOSIZIONI CONTENUTE IN “RIFLESSI”
DI IVANO ROSSATO
«La nostra idea di base è stata sempre quella dell’apertura e di non rimanere chiusi in un determinato recinto stilistico. Il fatto che nei brani si percepiscono radici culturali e musicali differenti deriva appunto dalla nostra curiosità verso le musiche etniche del mondo. Oltre a ciò incide il fatto che ognuno di noi viene da esperienze musicali diverse»
Puoi parlarci del vostro nuovo album? “Rif lessi” è la fotografia di un determinato periodo, nasce per caso su un treno, sul tetto di un albergo a Istanbul, tra la nebbia della provincia, diciamo che come ogni disco nasce grazie a quello che ti succede intorno e che attraversi. La formazione di questo disco è stata graduale e in esso vi è l’intenzione di aggiungere un altro gradino al nostro percorso. MEV TRIO
Che approccio hai alla composizione dei brani originali? Ho un approccio molto intimo e, se si può dire, spirituale alla composizione. Non scrivo a “tavolino” ma cerco di isolarmi da tutto e scavarmi dentro, aspettare e connettermi, è come una folata di vento e, se mi faccio trovare pronto nel momento in cui passa, c’è un nuovo brano.
RIFLESSI ALFAMUSIC, 2018 Michele Zannini (ch, baglama); Emidio Petringa (batt, perc); Valerio Mola (cb). Special guests: Andrea Perrone (tr #1, 5); Erasmo Petringa (vlc #2, 6); M’Barka Ben Taleb (voc #7); Alessandro Tedesco (trn #3)
Quanto inf luisce il trio nella fase compositiva? Ovviamente inf luisce molto, i brani di “Contromano” e “Rif lessi” sono di mia composizione ma comunque poi, una volta in st udio, li a rra ng ia mo e ci lavoria mo insieme e quindi la direzione e il respiro che prendono sono a nche di Emidio Pet ringa e Va lerio Mola rispet tiva mente bat teria e cont rabbasso dei MEV.
Il MEV trio di Michele Zannini, Emidio Petringa e Valerio Mola torna, dopo l’esordio “Contromano” (Blu & Blu Music, 2013), con un album che colpisce fin dal primo ascolto per la varietà stilistica di cui sono intrisi i nove brani originali firmati da Zannini. Varietà che si ritrova sia nella tavolozza timbrica, in cui gli effetti di chitarra e i musicisti ospiti portano di volta in volta nuovi colori e sfumature, sia nelle strutture dei brani mai ripetitive e prevedibili. Particolarmente efficace risulta poi la scelta compositiva di costruire le composizioni attorno a idee melodiche semplici che fanno da perno ritmico e creativo su cui sviluppare temi e improvvisazioni. Rappresentano compiutamente quanto detto brani come Per caso e Streghe che vedono ospite alla tromba Andrea Perrone, entrato oggi stabilmente nel gruppo, così come Istanbul, una composizione evocativa, per metà strumentale e successivamente arricchita dalla voce della poliedrica artista tunisina M’Barka Ben Taleb. (IR)
Qua li sono le evoluzion i rispet to a l primo a lbum “Contromano” del 2013? “Cont roma no” è il nost ro esordio, e il primo disco ha sempre un sapore mag ico e sog nato. “R if lessi” invece è un disco di t ra nsizione se vogliamo, in esso ci sono diverse direzioni e di fat to seg na il nost ro passagg io da t rio a qua r tet to. Nel disco ci sono quat t ro ospiti (A ndrea Perrone, Erasmo Pet ringa, M’Ba rka Ben Ta leb e A lessa ndro Tedesco) e questo è dov uto a l fat to che sentiva mo l’esigenza di da re e aprire la nost ra musica a nuov i colori e a nuove sonorità. Lungo i bran i si percepiscono radici cult ura li e musica li dif ferenti; è un processo compositivo inconscio o nasce da un idea precostit uita? La nost ra idea di base è stata sempre quella dell’aper t ura e di non rimanere chiusi in un determinato recinto stilistico. Il fat to che nei bra ni si percepiscono radici cult ura li e musica li dif ferenti deriva appunto da lla nost ra curiosità verso le musiche et niche del mondo. Olt re a ciò incide il fat to che og nuno di noi v iene da esperienze musica li diverse e t utto questo conf luisce in un unico ca lderone. Come pensate che evolverà la vostra musica in f ut uro? In ca ntiere c’è un nuovo disco che reg ist reremo penso prima dell’estate. Poi, per qua nto rig ua rda la nost ra musica, non so come evolverà ma suonerà sicura mente in qua r tet to e non più in t rio, perché A ndrea Perrone è orma i ent rato a fa r pa r te stabilmente del proget to MEV poco dopo le reg ist ra zioni di “R if lessi”
Per caso / Danza / Intercity 505 / Underwear / Streghe / Senza sole / Istanbul / Isola / Yellow Summer In
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JAZZ REVIEW
© CLÉMENT PUIG / ECM RECORDS
FOCUS
AVEC LE TEMPS
Giovanni Guidi DI IVANO ROSSATO
«C
ol tempo, col tempo tutto se ne va / Ti dimentichi il viso, ti dimentichi la voce e il cuore quando non batte più / Non vale la pena di andare a cercar lontano / Bisogna lasciar perdere e va bene così / Col tempo…». Con queste parole nel 1970 Léo Ferré raccontava il disincanto conseguente la fine di una storia d’amore, dando vita ad Avec le temps, un brano che sarebbe stato reinterpretato da un grande numero di artisti negli anni a venire. Risulta interessante che Giovanni Guidi, quasi cinquant'anni dopo, sembri aver voluto quasi “recitare” la componente emozionale racchiusa nel testo del cantautore francese più che limitarsi a suonare una sua personale versione della partitura. Guidi opera infatti una riuscita fusione fra musica e testo, una sintesi mediatica in cui l’esecuzione incarna l’essenza delle parole scritte da Ferré, con il contrabbasso di Thomas Morgan a rispondere al pianoforte sulle note del tema. Con “Avec le temps” Guidi si conferma un bandleader maturo e consolida il sodalizio con l'etichetta ECM, guidando una band costruita attorno al suo trio – Thomas Morgan al contrabbasso e João Lobo alla batteria – arricchito dalla chitarra di Roberto Cecchetto e dal sax tenore di Francesco Bearzatti. Il concetto del tempo evocato dal titolo dà così la sensazione di permeare tutta la raccolta. Il tempo dilatato, spesso non esplicitato, consumato senza fretta e sfruttato
GIOVANNI GUIDI
AVEC LE TEMPS ECM, 2019 Giovanni Guidi (pf); Francesco Bearzatti (ten); Roberto Cecchetto (ch); Thomas Morgan (cb); João Lobo (batt) Avec le temps / 15th Of August / Postludium And A Kiss / No Taxi / Caino / Johnny The Liar / Ti stimo /Tomasz
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per accentuare la componente emozionale e visiva di composizioni che creano spazi anziché saturarli. Con questo approccio si sviluppa ad esempio anche 15th Of August, una composizione che, dopo l’esposizione del tema a opera della chitarra, cresce tesa come il rullo di tamburi che precede il numero finale dell’acrobata. Un brano ricco di dinamica che, con i suoi chiaroscuri, sembra a tratti uscire dalle atmosfere di Angel Heart, film diretto nel 1987 da Alan Parker. Postludium And A Kiss e No Taxi sono i due episodi che vedono il contributo alla scrittura del quintetto al completo. Dove il primo prosegue nelle battute iniziali la rarefazione del tempo per poi sfociare in una rincorsa ritmica, lineare, incalzante, il secondo propone un geometrico unisono che lascia successivamente spazio alla libertà dell’improvvisazione quasi free. Una parentesi scoppiettante che prelude al ritorno alle atmosfere sospese con il lirismo di Caino e i tratti quasi onirici di Johnny The Liar. Ti stimo è permeata dalla distensiva luminosità del tema che viene suonato, armonizzato e alternato fra i vari strumenti in un dialogo continuo e apparentemente mai ripetitivo, dando prova del gioioso affiatamento maturato fra i cinque musicisti. La raccolta si chiude con una delicata dedica al trombettista polacco Tomasz Stanko scomparso nel 2018 e collega di Guidi nell'Enrico Rava-Tomasz Stanko Quintet
STORIE
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EUGENIO MIRTI ZEN#4
© LUCA VANTUSSO
EUGENIO MIRTI È TANTE COSE INSIEME: È CRITICO MUSICALE, DIDATTA, PROMOTER, MUSICISTA MA ANCHE AUTORE E COLLABORATORE DI QUESTA RIVISTA. L'USCITA DI “ZEN#4”(ALFAPROJECTS, 2019) È UNA DELLE RARE OCCASIONE CHE ABBIAMO DI CONFRONTARCI CON LUI COME LEADER DI UNA PRODUZIONE DISCOGRAFICA DI LUCIANO VANNI
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«L’opportunità di ascoltare così tanta musica grazie alla collaborazione con Jazzit mi ha spesso inibito a tornare a produrre un disco a mio nome, perché se capitano dischi belli, pensi che non sarai mai all’altezza, e se capitano album meno ispirati, ti viene la paura che anche il tuo possa risultare poco interessante»
Partiamo dalla genesi di questa opera. Che cosa racconta “Zen#4”? Come sai detesto il concetto di “progetto” nella declinazione che viene usata dai musicisti contemporanei e “Zen#4” direi che è l’esatta antitesi di quel concetto, perché in sostanza racconta la mia vita nei quasi dieci anni che ci ho messo a finirlo. Insomma, potrei considerarla come una sorta di biografia in musica. Ascoltarti su disco è sempre un’esperienza abbastanza rara. È passato così tanto tempo dall’ultimo cd, “Sempre più lontano” (Musica Mancina, 2013), perché l’attività concertistica e di scrittura musicale vive in simultanea con altre attività, tra la direzione della Scuola Notabene, l’insegnamento della musica, senza dimenticare il coinvolgimento con Jazzit. A proposito, ti confido un piccolo segreto: l’opportunità di ascoltare così tanta musica grazie alla collaborazione con Jazzit mi ha spesso inibito a tornare a produrre un disco a mio nome, perché se capitano dischi belli, pensi che non sarai mai all’altezza, e se capitano album meno ispirati, ti viene la paura che anche il tuo possa risultare poco interessante. Non è secondario il fatto che sono papà di due ragazze: per scelta consapevole da molti anni ho “frenato” l’attività di performer per star loro vicino, e “Zen#4” naturalmente un po’ racconta anche di loro e Cristina, mia pazientissima moglie e musa.
EUGENIO MIRTI
ZEN#4 ALFAMUSIC/ALFAPROJECTS, 2019 Eugenio Mirti (ch, ukulele, tibetan horn); Ivano Rossato (ch #11)
Tra minimalismo, dissonanze, echi, frammenti di melodie e rielaborazioni di partiture, emerge un album di forte spiritualità, inquietudine e lirismo. Eugenio Mirti sceglie di mettere su disco buo-
Torniamo al titolo. Perché “zen”? Ciò che indico come zen è un insieme di tante cose diverse. Ma per semplificare, ti dico che volevo registrare un album per dare vita a un qualcosa che mi rappresentasse e a un oggetto bello della mia vita. Zen, quindi, come esperienza in modo puro e intimo senza implicazioni commerciali, narcisistiche o esibizionistiche.
na parte di ciò che ama e che lo ha formato, e la spirale degli stimoli è così vasta da diventare un po’ una sinossi del Novecento. Si avverte, fin dal primo ascolto,
Non resta che entrare nel cuore della musica. Ho anche impiegato molto tempo a elaborare un linguaggio che raccontasse tutti i miei interessi e fosse di conseguenza il più personale possibile: il jazz come il rock e la musica elettronica, l’Oriente – come sai, studio cinese da più di dieci anni –, i suoni originali, la chitarra, la passione per Jimmy Page, i duetti per violino di Béla Bartók, John Coltrane, i tarocchi, i Beatles e così via. Non sta a me, per una volta (finalmente!), dire se l’insieme sia coerente o meno, ma certamente posso dire che è assolutamente rappresentativo delle tante anime che, sommate, diventano la mia personalità. Mi sembra poi importante dire che parallelamente al cd ho commissionato un cartone animato che racconta la title-track: viviamo, ce lo siamo detti tante volte, in un’era in cui il club globale è diventato YouTube, e allora ho ritenuto interessante costruire un contenuto video che nascesse attorno alla mia musica.
quanto “Zen#4” sia nato in lentezza, con un grande sforzo creativo e intellettuale, oltreché spirituale. Non c’è l’esaltazione del gesto tecnico, del bello e del giusto: siamo immersi in un’atmosfera ipnotica, intima, profonda, primitiva, irruenta, tra ambient e rumorismo. È un album da riascoltare più volte per essere compreso a fondo: per assaporare tutte le infinite sfumature timbriche (il suono, in “Zen#4”, diventa composizio-
Conoscendoti, so che hai reso “Zen#4” un lavoro corale e di comunità. Hai ragione. Ci tenevo a coinvolgere e “tirare” dentro a “Zen#4” alcune persone che con me hanno “camminato” parecchio negli ultimi anni: in primis Ivano Rossato, che suona la slide nell’ultima traccia; e poi Matteo Pellizzola, che da allievo di chitarra è diventato un ottimo ingegnere del suono; Daniela Floris, che oltre a essere una continua fonte di ispirazione per i suoi reportage ha scritto delle bellissime liner notes; e infine Leonardo Schiavone, che ha disegnato la meravigliosa copertina e realizzato le foto del booklet. E questo perché trovo che la musica, e in particolare quella con un alto tasso di improvvisazione, si arricchisca nello stesso modo in cui la vita si arricchisce della presenza di persone straordinarie
ne) e i tanti rimandi sotterranei, tra J.J. Cale e Fabrizio De André, oltreché gli evidenti echi che fanno riferimento ai Beatles e a Frank Zappa, e perché no, anche ad Arnold Schönberg. (LV) Zen#4 / Spring 2018 / Sorrow / Naima / Up Jumped Spring / Tomorrow Never Knows / XIV - Temperance / White Flower / Spring 2018 (JP Version) / Zen#5 / Far Star / Coral / Mutual Dreaming
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JAZZ REVIEW
© JUSTIN BETTMAN
FOCUS
UNPLANNED WAYS
Alessandro Lanzoni DI FABIO CARUSO
D
opo “Dark Flavour” (2013), “Seldom” (2014) e “Diversions” (2016), per Alessandro Lanzoni, in veste di leader, è la volta di “Unplanned Ways”, registrato a marzo del 2018 a New York e pubblicato ad aprile di quest’anno sempre dall’etichetta Cam Jazz. Con questo album il ventisettenne pianista toscano, che ha iniziato a sciorinare le sue capacità fin dal conseguimento del Premio Massimo Urbani nel 2006, sembra completare la sua evoluzione da talentuoso enfant prodige a musicista dalla personalità matura, dotato di un pianismo limpido, definito e ritmicamente solido. Lanzoni dimostra di aver sviluppato in questi anni, grazie a studio, ricerca ed esperienze al fianco di alcuni fra i più grandi musicisti jazz (Kurt Rosenwinkel, Lee Konitz, Enrico Rava, Ambrose Akinmusire, solo per fare dei nomi), un linguaggio originale, misurato e creativo allo stesso tempo, capace di fondere in modo elegante tradizione e modernità. Accanto a lui una sezione ritmica di statura eccezionale, composta dal contrabbassista californiano Thomas Morgan (da tempo collaboratore di musicisti quali Bill Frisell, Steve Coleman e Craig Taborn) e dal batterista newyorkese Eric McPherson (che ha lavorato, fra gli altri, con Jackie Mclean, Jason Moran e Avishai Cohen). Dopo averli ascoltati suonare con David Virelles, uno dei suoi pianisti preferiti,
ALESSANDRO LANZONI
UNPLANNED WAYS CAM JAZZ, 2019 Alessandro Lanzoni (pf); Thomas Morgan (cb); Eric McPherson (batt) Shiny Stockings-Misty / Conception / Relay / The Peacocks / Amaruq / Upper Manhattan Medical Group / Near Collapse / Blood Count / Thelonious / Coda
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Lanzoni – come ha ribadito in più di un’occasione – è rimasto colpito dal loro sound e dalla profondità della loro interpretazione. Le quattro composizioni originali presenti nel disco (Relay, Amaruq, Near Collapse e Coda) sono frutto dell’inventiva e della fluida interazione dei tre musicisti. Si tratta di esecuzioni tutto sommato brevi – la più lunga, Relay, non raggiunge i tre minuti – ma piene e intense, nelle quali la creatività improvvisativa ben si amalgama con scelte melodiche coerenti e percorsi tematici “familiari” per l’ascoltatore. Per gli altri sei brani dell’album, Lanzoni si è indirizzato verso classici del repertorio jazz meravigliosi, ma solitamente poco frequentati, che egli ha riletto con incisività e originalità, senza cedere alla tentazione di grandi stravolgimenti. Le intenzioni del pianista sono ben chiare fin dalla prima traccia, in cui egli unisce Shiny Stockings, energico brano scritto da Frank Foster per l’orchestra di Count Basie, con la più sognante e sentimentale Misty di Erroll Garner. Brillanti, raffinate e molto equilibrate le rivisitazioni di Conception di George Shearing e dell’evocativa The Peacocks di Jimmy Rowles. Notevole la riproposizione di due capolavori nati dal genio di Billy Strayhorn, Upper Manhattan Medical Group e Blood Count, che vengono reinterpretati con estrema sensibilità e competenza. Un disco da ascoltare
FOCUS
JAZZ REVIEW
Shalosh
ONWARDS AND UPWARDS DI IVANO ROSSATO
F
in dall’esordio autoprodotto “The Bell Garden” del 2014, gli Shalosh hanno dimostrato una naturale propensione nell’architettare i brani con strutture caratterizzate da brusche sterzate tematiche e improvvise variazioni ritmiche, spesso intrise di un groove quasi da dancefloor. Il tutto, però, senza indulgere in sterili cerebralismi ma anzi trovandosi a proprio agio nelle parti serrate e tecniche così come in quelle riflessive ed eteree di maggiore respiro e quasi pop, vista l’immediatezza delle melodie. Il percorso evolutivo che li ha portati alla pubblicazione di “Rules Of Oppression” (Contemplate, 2017) ha visto poi accentuarsi questa attitudine compositiva in una direzione sempre più personale e distante dai canoni del jazz trio tradizionale. La traiettoria intrapresa è stata quella verso una musica strumentale evoluta nello stile, con una miscela di jazz, rock, classica e pop, così come nella scelta timbrica, che, a strumenti della tradizione occidentale affianca sonorità mediorientali ed elettroniche.
SHALOSH
ONWARDS AND UPWARDS ACT, 2019 Gadi Stern (pf, Rhodes, Micro Korg); David Michaeli (cb); Matan Assayag (batt)
After The War / Children Of The 90's / Meditation / You'll Never Walk Alone / The Impossible Love Story Of Jackie And Hanan / Sinan, And His Never Ending War Against The Bureaucracy Robots / Take On Me / Tune For Mr. Ahmad Jamal / Lullabye / Onwards And Upwards
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La raccolta di brani contenuta in “Onwards And Upwards” e pubblicata per la ACT si presenta come la naturale evoluzione del trio di Gerusalemme, un’area del mondo che nell’ultimo decennio ci ha abituati ad artisti capaci di miscelare con efficacia tradizione e innovazione, caratteristica comune anche al progetto incarnato dal pianista Gadi Stern, il contrabbassista David Michaeli e il batterista Matan Assayag. Composizioni come l’iniziale After The War dimostra l’intenzione di travalicare non solo i confini di genere, coniugando con naturalezza jazz modale, rock, poliritmie, ma anche quelli culturali e geografici. Ed è proprio questo approccio aperto che ha permesso agli Shalosh di calcare tanto i palchi jazz quanto quelli di festival rock, parlando in entrambi i contesti con analoga efficacia. Alla struttura elaborata del primo brano fa immediatamente da contrasto il carattere pop di Children Of The 90's dall’atmosfera cinematografica che quasi ipnotizza tanto da non far percepire l’intricato tessuto ordito dalla sezione ritmica. La capacità di congegnare ogni composizione in più “atti” è evidente anche in Meditation e ancora di più nel racconto strumentale esposto dagli otto minuti di The Impossible Love Story Of Jackie And Hanan, dove le strutture non prevedibili e giocate sulla dinamica dei contrasti fluiscono senza protagonismi, alternando con naturalezza incisi e improvvisazione, melodie intense e pause soliste. Le composizioni originali sono affiancate da due riletture altrettanto peculiari nello stile reinterpretativo: You'll Never Walk Alone, del duo Richard Rodgers/Oscar Hammerstein, e una divertente quanto inattesa Take On Me, il successo planetario della synthpop-band norvegese A-HA che nel 1985 scalò le classifiche mainstream. In entrambi i casi gli Shalosh non si limitano a reinterpretare le composizioni ma le scompongono negli elementi peculiari per poi riassemblarli, integrandoli con parti scritte dal trio
GEOFF WESTLEY TRA IMPROVVISAZIONE E MUSICA CLASSICA
NELL’ERA DELLA SPECIALIZZAZIONE GEORGE WESTLEY EMERGE COME UN PERSONAGGIO QUASI RINASCIMENTALE: PRODUTTORE, ARRANGIATORE, PIANISTA, DIRETTORE DI MUSICAL, DIRETTORE DI TOUR… ATTIVITÀ TUTTE SVOLTE AL PIÙ ALTO LIVELLO DEL PROFESSIONISMO MONDIALE, CON NOMI COME LUCIO BATTISTI O I BEE GEES, PER FARE DUE ESEMPI. DOPO UNA VITA PASSATA AL SERVIZIO DEGLI ALTRI, WESTLEY HA PUBBLICATO UN ALBUM PER PIANOFORTE SOLO, CON QUATTRO LUNGHI BRANI IMPROVVISATI NEL SUO STUDIO. L’ABBIAMO INTERVISTATO PER SAPERNE DI PIÙ
© FRANCESCO TRUONO
DI EUGENIO MIRTI
«Siamo troppo abituati ad ascoltare il pop, nel quale è tutto uguale dall’inizio alla fine; nella musica classica non è così, se ci pensi qualsiasi forma d’arte dovrebbe avere questi cambiamenti, e l’esempio ideale è quello dell’opera. È fondamentale la varietà, soprattutto in un brano che dura oltre i quindici minuti»
L'album “Does What It Says On The Tin” nasce come una serie di lunghe improvvisazioni. Da tanto tempo, quando sono a casa e scrivo arrangiamenti, che rappresentano la maggior parte del mio lavoro, scrivo al pianoforte oppure al tavolo con carta e penna (sono un ragazzo analogico!); per rilassarmi, quando sono stanco, mi diverto a suonare il pianoforte, seguo la mia testa, invento estemporaneamente, improvviso. Un paio di anni fa ho iniziato a registrare queste performance che si svolgevano nel mio studio senza pubblico, poi dopo un anno ho risentito alcuni brani e ho pensato che c’era qualcosa di bello; così con fatica ho trascritto quello che avevo suonato in origine, ho corretto i piccoli errori e i vicoli ciechi e ho creato quello che si sente sul cd. In realtà in questo processo ho sviluppato il materiale per affrontare anche un secondo cd: quando avrò il tempo lo farò!
GEOFF WESTLEY
DOES WHAT IT SAYS ON THE TIN CUTTLEFISH, 2019 Geoff Westley (pf)
Classe 1949, George Westley è uno dei più incredibili personaggi della scena musicale contemporanea: direttore musicale del musical “Jesus Christ Superstar” a Londra, direttore musicale di molti tour dei Bee Gees, produttore di successo (soprattutto in Italia con gli album “Una donna per amico” e “Una giornata uggiosa” di Lucio Battisti), arrangiatore dalle mille risorse che negli ultimi anni ha lavorato con grandi orchestre classiche, nel suo pedigree mancava solo un album a suo nome: “Does What It Says On The Tin” colma brillantemente la lacuna con quattro brani per pianoforte solo dall’ispirazione classicheggiante, anche se in origine improvvisati dal musicista inglese nel suo studio. Dopo un anno dalla registrazione Westley li ha riascoltati, trascritti, sistemati in alcuni punti e poi pubblicati. Certo è curiosa la sensazione di ascoltare un musicista noto per gli arrangiamenti pop e quelli orchestrali mettersi alla prova all’età di settant'anni in un album per pianoforte solo dal taglio vagamente classico; ma il risultato mette in luce l’aspetto più intimo del musicista inglese, con una grande varietà di sensazioni e contrasti, luci e ombre, forte e piano, in un soliloquio musicale che mille volte si perde in rivoli diversi per poi ritornare e fluttuare ancora, senza fermarsi mai. (EM)
Il disco racchiude solo quattro brani, ma di grande lunghezza. Sono stati creati così, e in effetti sono molto simili agli originali che avevo improvvisato; la forma era quella, le melodie sono le stesse, ho solo perfezionato l’accompagnamento e qualche armonia qui e là. Avevo anche pensato di realizzare brani più corti, però lo fanno già tutti, e siccome erano nati così, ho finito per lasciarli più lunghi. Questi brani quindi nascono come improvvisazioni ma diventano concettualmente musica classica contemporanea. Non mi considero un jazzista, vengo dal mondo classico, e si sente: ci sono tutte le mie ispirazioni, Chopin, Rachmaninov, Schubert, Mendelssohn... Preferisci produrre, arrangiare o suonare? Mi è sempre piaciuto suonare il pianoforte, e in effetti l’ho suonato in tutte le produzioni che ho realizzato. Non l’ho suonato dal vivo per decenni prima della produzione di questo cd, ma mi piace farlo, mi dà molta soddisfazione, soprattutto se presento la mia musica. Mi sembra che l’album si caratterizzi per i molti contrasti. C’è tensione, come in qualsiasi musica. Siamo troppo abituati ad ascoltare il pop, nel quale è tutto uguale dall’inizio alla fine; nella musica classica non è così, se ci pensi qualsiasi forma d’arte dovrebbe avere questi cambiamenti, e l’esempio ideale è quello dell’opera. È fondamentale la varietà, soprattutto in un brano che dura oltre i quindici minuti, serve a tenere alta l’attenzione. Hai avuto una carriera ricca di successo e soddisfazioni: c’è ancora un sogno nel cassetto che vorresti esaudire? Mi sarebbe piaciuto realizzare la mia musica già trent’anni fa, ma poi c’era sempre un lavoro che veniva fuori e poi un altro, e un altro, e così ho rimandato fino a oggi: come arrangiatore e produttore sono sempre stato al servizio degli altri, e non mi dispiace, anzi, sono stato fortunato. Spero però che adesso questo disco abbia successo e sia il primo di una lunga serie!
Improv-Impromptu / Improv-Thirteen / Improv-Eleven / Improv-22 33
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IMPULSE!, 1966
SONNY ROLLINS ALFIE
el gennaio 1965 fu commissionato a Sonny Rollins, direttamente dal regista-produttore Lewis Gilbert che lo aveva ascoltato al Ronnie Scott’s Jazz Club di Londra, la colonna sonora per il film Alfie (con Michael Caine come protagonista). Rollins compose e scrisse le partiture registrandole alla fine di ottobre 1965 presso i londinesi Twickenham Film Studios con alcuni dei migliori jazzisti inglesi, fra cui Tubby Hayes, Ronnie Scott e Stan Tracey, musica effettivamente usata per il film (solo per 11 minuti) e mai pubblicata su disco. L’album “Alfie” (Impulse! A-9111), uscito in Gran Bretagna col titolo “Sonny Plays Alfie” (HMV CLP 3529), fu invece registrato quando Rollins, tornato
N
di Aldo Gianolio
negli Stati Uniti, affidò le proprie partiture a Oliver Nelson che, dopo averle sistemate, riunì un fior fiore di musicisti per la registrazione del 26 gennaio 1966 presso gli studi di Rudy Van Gelder: Phil Woods era al sax alto, Bob Ashton al sax tenore, Danny Bank al baritono, J.J. Johnson o Jimmy Cleveland al trombone, Roger Kellaway al piano, Kenny Burrell alla chitarra, Walter Booker al contrabbasso e Frankie Dunlop alla batteria (ma a prendere qualche assolo, oltre a Rollins, furono solo Kellaway e Burrell). L’album non ebbe il successo che meritava, forse perché considerato una deriva commerciale proprio nel periodo in cui il jazz coevo era in ebollizione
UN ALBUM DEL PASSATO
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Differently; il tenero e mesto He’s Younger Than You Are (53 bmp); il valzerino scanzonatamente riflessivo On Impulse (176 bpm); il blues ruvidamente spregiudicato Transition Theme For Minor Blues Or Little Malcolm Loves His Dad (119 bmp), probabilmente composto da Stan Tracey; infine il frenetico Street Runner With Child (332 bmp). Il più “rappresentativo” è Alfie’s Theme, dalla forte caratterizzazione blues per via del tema costruito sulla scala pentatonica del Si bemolle minore e basato su una forma-canzone AABA di 32 battute “atipica”, perché il ponte B non è modulante ma rimane nel medesimo centro tonale. L’assolo di Rollins (dopo quelli più brevi di Burrell e Kellaway) procede per 7 chorus (si potrebbe anche pensare a 28 sezioni di 8 battute ciascheduna inanellate senza soluzione di continuità) per la durata di 5 minuti e 50 secondi, metà di quella complessiva del brano (10 minuti e 25 secondi). Sonny mantiene sempre alta l’intensità e la forza espressiva facendo
sorgere di continuo idee nuove e sorprendenti, ciclicamente recuperando brandelli di tema, poi rivoltati, ripetuti, parafrasati (sulla falsariga del modus operandi di Thelonious Monk), operazione che gli consente, in assolo così lunghi, di mantenere l'unità formale perché è come se riportasse ogni volta il brano al punto di partenza; in mezzo ci sono astrazioni che possono volare alte nell’aria in viluppi contorti o scendere a precipizio in fitti mulinelli, persino “coltraniani”, blocchi percussivi di note brevi o spazi enigmatici di silenzio, indugi su singole note rese sinuose e instabili o spostamenti ritmici di frasi intere, saldando elaboratio e inventio in un tutt’uno di passione infervorata, simile alla trance (Rollins afferma che le sue variazioni tematiche partono e si sviluppano a livello di subconscio), che gli fa infilare una serie ininterrotta di visionari contorcimenti politonali capaci di unire, in una dimensione trascendente, Coleman Hawkins a Roscoe Mitchell
«A DISCAPITO DEL SUO INIZIALE MISCONOSCIMENTO, “ALFIE” È UNA DELLE OPERE ARTISTICAMENTE MEGLIO RIUSCITE DEL “SAXOPHONE COLOSSUS”, IL DISCO INCISO IN STUDIO CHE MEGLIO RAPPRESENTA IL SONNY ROLLINS DEI LUNGHI E TORRENZIALI CONCERTI DAL VIVO»
politica ed estetica (al contrario, ebbe successo la canzone pop Alfie, composta da Burt Bacharach e cantata da Cher, voluta espressamente dalla Paramount nei titoli di coda). A discapito del suo iniziale misconoscimento, “Alfie” è una delle opere artisticamente meglio riuscite del “saxophone colossus”, il disco inciso in studio che meglio rappresenta il Sonny Rollins dei lunghi e torrenziali concerti dal vivo. Inoltre il sassofonista vi mette a punto quei perfezionamenti stilistici palesati con l’album del 1962 “The Bridge”, uscito dopo un lungo ritiro dalle scene e diventato famoso, riguardanti la ricerca maniacale sulla espressività del suono e la costruzione di un’improvvisazione mista fra inventio (improvvisazione tematica, che scandaglia il tema in ogni suo risvolto) ed elaboratio (improvvisazione motivica, che si basa su scale e arpeggi costruiti sugli accordi). I brani registrati sono sei: il brioso e spavaldo Alfie’s Theme (137 bpm), che si ripete in Alfie’s Theme
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WAYNE SHORTER EMANON BLUE NOTE, 2018 3 LP + 3 CD + COMIC BOOK
on questo numero inauguriamo una nuova rubrica, nella quale cercheremo di identificare se vi siano dei dischi registrati e/o pubblicati negli ultimi mesi che possano in qualche modo “restare” nel tempo e, magari, segnare un nuovo percorso per la musica che amiamo. Quelle selezionate potranno essere a volte opere seminali, altre volte dirompenti, ma sempre nel segno dell'innovazione oppure di un cambio o sviluppo di una rotta tracciata. Il compito affidatomi da Jazzit è davvero arduo e, ovviamente, potenzialmente fallace, ma è una sfida che tra il serio e il faceto mi piace affrontare. Da musicista non allineato e da narratore di vicende musicali, mi capita abitualmente (chi mi segue sui social network già lo sa) di discorrere con amici
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di Enrico Merlin
e colleghi in merito alla musica nuova che più mi attrae o mi affascina, così come di quella che invece mi pare più uno specchietto per allodole. Nessuna presunzione di fondo, solo il piacere di condividere pensieri su opere che, a mio modesto avviso, appaiano interessanti su uno o più parametri. E come primo passo, quasi a indicare il cammino tra passato e futuro, penso sia doveroso occuparci di un “grande vecchio” che riesce ancora a proporre musica nuova. È il caso di questo album triplo di Wayne Shorter, uscito per Blue Note sul finire del 2018. Nei vari confronti avuti, a esempio, ho notato che in molti non sembrano apprezzare il lavoro orchestrale, ma solo quello del quartetto. Ma come è costruito questo impareggiabile artefatto?
UN ALBUM DEL FUTURO
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grande performance retorica, un viaggio sulle montagne russe del pensiero laterale. E così è la sua musica. Ma questa per chi ama la sua musica non è una novità. Il nucleo delle operazioni musicali è gestito dal quartetto che è con lui sin dal 2000, composto da Danilo Pérez, John Patitucci e Brian Blade, ma nel primo disco si aggiunge, come precedentemente indicato, l'Orpheus Chamber Orchestra, celeberrima formazione orchestrale newyorkese, con all'attivo oltre 70 pubblicazioni discografiche. Qualcuno potrebbe quindi aspettarsi un prodotto occhieggiante in qualche modo alla Third Stream, ma è qui che si cela l'arcano. Fare interagire un ensemble accademico con un gruppo di improvvisatori è una sfida che è stata tentata molte volte nella storia, ma raramente vinta. In “Emanon” siamo su un piano completamente diverso. Un mondo caleidoscopico in cui stili e storie musicali si intrecciano e si sviluppano attraverso elaborazione di cellule motiviche imprevedibili, tanto che a tratti sembra che anche le parti scritte siano improvvisate, quasi un'unica mano, un unico pensiero, guidasse contemporaneamente ed estemporaneamente i 34 musicisti coinvolti. E nei fraseggi compaiono continue citazioni.
Dopo un drammatico accordo iniziale in Pegasus, a esempio, il sax soprano intona una serie di variazioni dell'introduzione di Witch Hunt da “Speak No Evil”; a 2:50 entra l'ensemble orchestrale con evoluzione dell'idea motivica iniziale e, questa volta, anche del tema di Witch Hunt. È l'inizio di un viaggio di grande libertà poetica ed espressiva che, attraverso micro citazioni ed elaborazioni, diventa metafora della vita (non solo artistica) di un gigante. Witch Hunt torna anche in Prometheus Unbound (che titolo super!) e in She Moves Through The Fair Danilo Pérez cita la progressione discendente di It's About That Time da “In A Silent Way”. Ma potremmo parlare anche dell'approccio ritmico al limite della xenocronia nei primi minuti di Lotus. Servirebbero pagine e pagine per raccontare ciò che accade nel dettaglio in questi tre dischi, ma ciò che è certo è che “Emanon” appare quale un faro nella notte del jazz fintamente contemporaneo di cui siamo sommersi. L'opera ci lancia decine di spunti dai quali si potrebbe davvero partire per fare musica nuova e originale, seguendone le coordinate. Buon ascolto!
«MOLTI APPASSIONATI DI JAZZ NE HANNO RICONOSCIUTO LA GRANDEZZA, MA PIÙ PER UNA QUESTIONE DI RISPETTO PER UNO DEI GRANDI VETERANI DEL JAZZ, CHE NON PER UNA REALE COMPRENSIONE O INTIMITÀ CON L'OPERA»
Nella sua versione deluxe, vivamente consigliata fino a che il prezzo non diverrà inaccessibile, troviamo tre LP e tre CD, il cui contenuto è identico a parte la suddivisione dei brani sui vari supporti. Ad essi è allegato un fumetto, ideato e sceneggiato da Monica Sly e dallo stesso Shorter, illustrato da Randy DuBurke. L'amore per la fantascienza e la narrativa sociale d'anticipazione è sempre stato un filo conduttore nella creatività del sassofonista. Dai tempi dei suoi primi dischi diverse sue composizioni sono caratterizzate da titoli che a quel mondo fanno riferimento. Il fumetto di circa ottanta pagine è realizzato con una cura e una qualità davvero straordinarie. E il tutto è legato alla musica in modo indissolubile. Chi ha avuto la possibilità di intraprendere un dialogo con Shorter, o anche il solo seguirlo in un'intervista, sa che è un tour de force che in pochi sono in grado di sostenere e comprendere fino in fondo. Il suo modo di esprimersi è spesso fatto di allusioni, metafore, a volte di decontestualizzazioni apparenti o implicite, giochi di parole, riferimenti a situazioni o personaggi discontinui con il discorso in atto, risatine improvvise... Ma se si arriva in fondo poi si ha sempre la sensazione di aver assistito a una
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JAZZIT
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libri DI SERGIO PASQUANDREA
“Qualcuno ha detto che la storia di una civiltà si potrebbe tracciare seguendo le traduzioni di testi stranieri realizzate lungo i secoli. Anche senza arrivare ai massimi sistemi, non c’è dubbio che la traduzione sia sempre un importante e delicato innesto, nel quale due culture interagiscono e si influenzano a vicenda. Problema tanto più spinoso per il jazz: e non solo perché una gran parte dei testi capitali è tuttora disponibile solo in inglese, ma anche (soprattutto) perché c’è bisogno di un traduttore doppiamente competente, dal punto di vista sia linguistico sia tecnico/musicologico. Non si contano – tacerò i titoli per carità di patria – le traduzioni di libri anche importanti, piagate da svarioni traduttivi che le rendono sovente illeggibili. Certo, ci sono le eccezioni virtuose: ad esempio la minimum fax con le biografie e autobiografie (Armstrong, Gillespie, Ellington, Coltrane, Monk, Davis, Hancock), le raccolte di interviste (Mingus, Coltrane) e i titoli di vario genere (si pensi a Quattro vite in jazz di A.B. Spellmann, Fulmini a Kansas City di Stanley Crouch o il recente volume di George Grella su “Bitches Brew”). O la EDT: prima fra tutti la monumentale traduzione integrale di Early Jazz e Classic Jazz di Gunther Schuller, a cura di Marcello Piras, e poi le numerose uscite susseguitisi negli anni. O le ottime traduzioni di Einaudi o del Saggiatore. Da poco, anche le edizioni Quodlibet hanno inaugurato una collana dedicata al jazz, intitolata “Chorus” e validamente curata da Claudio Sessa e Fabio Ferretti.
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La prima uscita è stata, nel 2018, Grande musica nera. Storia dell’Art Ensemble of Chicago (400 pp., ¤25, traduzione di Giuseppe Lucchesini) di Paul Steinbeck. Traduzione, peraltro, di meritoria tempestività, dato che l’originale, Message To Our Folks, era comparso in inglese nel 2017. Quello di Steinbeck – contrabbassista, nonché professore associato di musica presso la Washington University di St. Louis – è il primo studio dedicato interamente al glorioso ensemble chicagoano. Un libro che nasce con una doppia anima: da una parte racconta la storia del gruppo e dei suoi membri in ordine cronologico, arrivando fino alla contemporaneità (perché l’AEoC è ancora attivo, sebbene dei componenti storici restino solo Roscoe Mitchell e Don Moye); dall’altra, dedica tre interi capitoli all’analisi di altrettanti dischi della band, completi di accurate trascrizioni. Quello che viene fuori è un ritratto non soltanto della band, ma di tutta la scena creativa che intorno a essa si è mossa nei decenni: americana, ma anche europea, dato che l’Art Ensemble trovò il suo primo successo grazie alla lunga trasferta francese che, tra il 1969 e il 1972, ebbe come base Parigi. E non mancano gli agganci con il nostro paese, perché i cinque musicisti di Chicago hanno una lunga e proficua storia di collaborazioni con l’Italia e i musicisti italiani, come non manca di sottolineare Claudio Sessa nell’introduzione. Steinbeck riesce a unire una narrazione chiara e avvincente con analisi musicali sempre approfondite, non di rado illuminanti, rendendo il libro godibile sia agli esperti di musica, sia a qualunque lettore interessato ad approfondire uno dei gruppi-faro nell’avanguardia musicale del Novecento.
Nel 2019 è arrivato il secondo titolo della collana; e si tratta nientemeno che di Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, “Inventore del jazz” di Alan Lomax (364 pp., ¤25, traduzione di Giuseppe Lucchesini). Un testo cruciale nella fortuna critica di Morton, tradotto in italiano per la prima volta a quasi settant’anni dalla sua uscita. Com’è noto, nel 1938 Alan Lomax realizzò una serie di storiche interviste al pianista, che ne approfittò per fissare una sua autobiografia umana e musicale (le registrazioni audio integrali sono da tempo disponibili su cd), arricchita da un vivacissimo ritratto della New Orleans tra fine Ottocento e primi del Novecento. Nei successivi dodici anni, Lomax condusse un’approfondita serie di ricerche, recandosi sul posto e intervistando i testimoni diretti: colleghi musicisti, parenti, amici; ricerche che confluirono, nel 1950, nella stesura di questo volume. Il libro deve il suo fascino a una combinazione di fattori: innanzi tutto il personaggioMorton, che salta letteralmente fuori dalle pagine in tutta la sua dimensione larger than life, componendo una vera e propria narrazione picaresca, arricchita da una miriade di aneddoti, ora drammatici ora esilaranti. Ma quella di Mister Jelly Roll è una narrativa polifonica, perché alla voce del protagonista si alternano quelle di chi l’ha conosciuto e – ultima ma non ultima – quella di Lomax stesso, che fa da collante fra tutte le altre. E proprio quest’ultimo è l’aspetto più interessante: perché Lomax, intellettuale di sinistra (come si poteva essere “di sinistra” negli Stati Uniti pre-maccartismo), padre dell’etnomusicologia, nutriva un sovrano disprezzo per il jazz, che considerava – e lo afferma senza mezzi termini – una forma d’arte commerciale, ben lontana dalla purezza sorgiva dei worksongs, degli spirituals e del blues rurale. Ma il fascino affabulatorio di Jelly Roll è talmente forte che neanche lui riesce a sottrarvisi. Proprio in questa compresenza, e a volte dissonanza, fra tante voci differenti sta il valore del libro, arricchito anche da alcune belle illustrazioni di David Stone Martin, da una prefazione di Stefano Zenni e da una postfazione di Lawrence Gushee, il quale cerca di far luce sulle intricate questioni relative alla data di nascita di Morton e alla sua genealogia familiare
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Educati
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© ROBERTO POLILLO
JAZZ ANATOMY
PAUL DESMOND L’ORFEO DEL JAZZ
DI STEFANO FRANCESCHINI
L’ASSOLO ANALIZZATO È UN’IMPROVVISAZIONE DI PAUL DESMOND SUL BRANO MANHÃ DE CARNAVAL DI LUIZ BONFÁ CONOSCIUTO ANCHE CON IL NOME DI BLACK ORPHEUS E INCISO SU “TAKE TEN” (RCA VICTOR, 1963). DESMOND SI DEDICÒ ANCHE A QUESTO GENERE MUSICALE DA POCO TEMPO DIFFUSOSI NEGLI STATI UNITI
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n aspetto dell’improvvisazione da tenere presente, e per chi scrive imprescindibile, riguarda l’organizzazione e lo sviluppo di un assolo. È un elemento di principale importanza su cui lavorare e studiare per migliorare qualitativamente l’improvvisazione e la sua intelligibilità da parte dell’ascoltatore. L’obiettivo di questa e delle future analisi è di tracciare la sintassi dell’assolo, evidenziando le tecniche usate dal solista per la costruzione delle frasi e rintracciare i modi con i quali esse sono messe in relazione tra di loro all’interno del brano. Trattandosi di un’improvvisazione, l’analisi è eseguita sul testo ricavato da una trascrizione. Il primo assolo analizzato è un’improvvisazione di Paul Desmond sul brano Manhã de carnaval di Luiz Bonfá conosciuto anche con il nome di Black Orpheus e inciso su “Take Ten” (RCA Victor, 1963). Desmond, quando non era impegnato nei gruppi con Dave Brubeck, si dedicò anche a questo genere musicale da poco tempo diffusosi negli Stati Uniti. Quattro dei brani appartenenti a questo disco sono delle bossa nova, mentre l’anno successivo registrò sempre con lo stesso gruppo il disco “Bossa Antigua” uscito poi nel 1965 (RCA Victor, 1965.) La struttura del brano consiste in trentadue misure con forma ABA’C. L’assolo ha una lunghezza di due chorus più la ripresa del tema A’C, più una coda di durata imprecisata. Le parentesi indicano la suddivisione in frasi dell’assolo. Ovviamente, a differenza della musica composta soprattutto del periodo classico-romantico e trattandosi di musica improvvisata, le frasi non rispettano le durate di quattro/sei misure. Pertanto le segmentazioni si trovano in prossimità di note lunghe e/o di pause di una durata tale da far percepire una discontinuità con la frase seguente. I rettangoli evidenziano un particolare ritmo melodico, mentre gli ovali rilevano particolari successioni di suoni. La trascrizione non è stata riportata per intero, ma sono state utilizzate solamente le parti interessate all’analisi (esempio 1).
esempio 1
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JAZZ ANATOMY
Desmond, per organizzare il suo assolo nelle sezioni A e B del primo chorus, utilizza il ritmo melodico della chiusura del tema attraverso l’uso di sequenze, e di un’estensione costruita con la parte iniziale del ritmo (mis.7) (esempio 2).
esempio 2
Nelle prime due misure della sezione A’ (esempio 2), Desmond all’interno della sua frase utilizza una ripetizione del ritmo melodico, mentre al livello di note nella prima parte traspone un tono sopra un intervallo di terza minore, mentre suona in retrogrado una linea cromatica di tre note (esempio 3).
esempio 3
Nella seconda frase della sezione A’ invece troviamo una sequenza melodica con gli ultimi due intervalli modificati, ma con identico profilo melodico. La frase termina con una citazione del tema. Nella frase successiva che si trova a cavallo tra la C e la prima A del secondo chorus, troviamo due frammenti musicali con la stessa struttura: tre note ascendenti seguite da una sequenza melodica, anche se differiscono tra di loro per l’uso d’intervalli differenti (esempio 4).
esempio 4
esempio 5
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Š ROBERTO POLILLO
Nella frase che occupa tutta la sezione B del secondo chorus (esempio 5), troviamo una sequenza con qualche piccola variazione ritmica (un anticipo sul primo quarto) e con una variazione di profilo nella ripetizione. Nella misura 47 della trascrizione osserviamo che riprende lo stesso ritmo di misure 43/44 e 45, ma con profilo differente, che poi troviamo invertito in misura 50. Le ultime quattro note di battuta 47 sono riprese in andamento retrogrado a misura 48 e utilizzate per creare una sequenza melodica con ritmo dislocato su accenti differenti della battuta (esempio 6).
esempio 6
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JAZZ ANATOMY
La prima frase di A’ ha una forma ad arco (a, b, a’) con (a’) che ha lo stesso ritmo ma profilo inverso rispetto a (a). La stessa idea è ripetuta con piccole varianti di ritmo, d’intervalli e profili (b) (esempio 7).
esempio 7
La lunga frase che troviamo nella sezione C è costruita con delle sequenze che hanno lo stesso ritmo ma con qualche piccola variazione intervallare. Qui l’assolo termina. Prima di riesporre il tema nell’ultima sezione C, Desmond suona una frase che ha come perno le note fa# sol la seguite per due volte con diversa ritmica dalle note si sol la mi fa#, e poi ripetute altre tre volte di cui l’ultima con andamento retrogrado dando un’idea di contrazione della frase (esempio 8). Possiamo associare questo modo di costruire la frase alla figura retorica denominata “epanalessi” (esempio 8).
esempio 8
L’assolo termina con una coda (esempio 9). La prima frase è ritmicamente poco mossa, con un’estensione di 6a maggiore che termina con le note si, la. In contrasto, Desmond suona una frase ritmicamente più mossa, polarizzata sulla nota la e con un’estensione di 3a minore. La terza frase è costruita con questa serie di note fa#, mi, si, la, si, che è riutilizzata in retrogrado nella frase successiva, mentre il ritmo è identico. La chiusura della frase mis. 95 mantiene lo stesso profilo e termina con le note si, la, si. L’inizio della quinta frase è un’espansione della precedente: inizia con lo stesso ritmo e stesso profilo, materiale nuovo aggiunto nella parte centrale, mentre nel finale cambia il ritmo per l’aggiunta di un fa# della durata di un sedicesimo. Qui un’altra figura retorica ci viene in aiuto: “l’anadiplosi”. La frase seguente inizia come la fine della precedente. La prima frase termina con le note si, la. La terza e la quarta frase con le note si, la, si. La quinta ha sempre le tre note con l’aggiunta di altre tre. L’ultima frase termina con le note si, la. In questa coda è presente una sorta di esposizione delle note si, la nella prima frase (miss. 86 e 87), un’espansione nelle seguenti e una chiusura sempre con le note si, la (esempio 9).
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esempio 9
A un primo ascolto, la precisione, la lucidità e la logica con cui Desmond suona fanno pensare a un assolo scritto, ma anche nelle sue registrazioni dal vivo possiamo ritrovare e gustare queste sue eccellenti capacità riguardo alla costruzione di un assolo. Per tanto il dubbio persiste. Suonato con fraseggio molto legato in un range che va dal fa#3 a un do5, utilizza scale maggiori e le sue derivate. Le sequenze non sono mai esatte: o c’è una variazione negli intervalli, o nel ritmo, o nella dislocazione all’interno della battuta, creando così unità e variazione allo stesso tempo. Desmond evita quell’effetto macchinetta e artificioso cui certi musicisti senza troppa inventiva ci hanno da qualche tempo abituato. Il procedere rapsodico, abbondantemente presente nelle improvvisazioni di molti jazzisti, qui sembra essere assente. Desmond applica ampiamente la tecnica dello sviluppo melodico. A differenza di Charlie Parker, il cui modo di suonare può essere definito non-lineare, cioè costruito con quelli che erano i suoi personali sintagmi combinati in diverse maniere, in Desmond si ha la percezione di partecipare in tempo reale alla costruzione dei suoi assolo. S’individua una ricerca interna della forma, dando all’assolo un carattere di composizione istantanea. Potremmo definire Desmond un virtuoso, non della tecnica, ma della sintassi improvvisativa. Riassumendo, possiamo rintracciare le seguenti tecniche usate da Paul Desmond all’interno di questa improvvisazione: • isoritmia = stesso ritmo, differenti note, differente profilo; • trasposizione = stesso ritmo, stessi intervalli tra i suoni (tonale) o stesso profilo melodico; • sequenza motivica = motivo costruito con la ripetizione di una sequenza d’intervallo/i; • polarizzazione = melodia che gravita intorno a uno o più suoni; • epanalessi = ripetizione di un gruppo di suoni all’interno della frase; • anadiplosi = frase che inizia con gli stessi suoni con cui finisce la frase precedente
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MUSIC BUSINESS
IL MANAGEMENT CONFIDENZIALE
INTERVISTA A MARIO GU DI LUCIANO VANNI
Mario Guidi è stato un innovatore, oltreché un manager: il primo, su scala nazionale, ad aver creduto e investito nei musicisti italiani di jazz, mettendo loro a disposizione un servizio di management e booking professionale. C’è molto di Mario Guidi nello sviluppo del sistema jazzistico del nostro paese negli ultimi trent’anni e nella vicenda artistica di musicisti quali Enrico Rava e Stefano Bollani; senza dimenticare la funzione di mentoring per le nuove generazioni, tra Francesco Bearzatti, Gabriele Evangelista e Giovanni Guidi, figlio d’arte.
FOTO CORTESIA MARIO GUIDI © ROSSETTI-PHOCUS
UIDI
INTRO «La musica mi ha sempre interessato, ma è diventata la mia professione solo in età matura. Prima lavoravo in ferrovia, e c’è stato un periodo in cui mi occupavo quasi professionalmente di musica nei ritagli di tempo. Ricordo che agli inizi degli anni Ottanta avevamo un’associazione che organizzava concerti a Foligno – l’Associazione Jazz Incontro – e chiamavamo prevalentemente musicisti italiani, ma anche artisti quali Joe Lovano e Sal Nistico. Il primo musicista a chiedermi di occuparmi della sua agenda concertistica fu la pianista Rita Marcotulli. Non avevo contatti e non avevo ben chiaro come potessi farlo, e pensavo di non essere all’altezza, ma ci provai. Rita fu la prima musicista con cui lavorai professionalmente». Passano i mesi e inizia un periodo che viene dedicato alla raccolta di indirizzi, riferimenti e numeri di telefono per entrare in contatto con i promoter nazionali. «Il primo concerto di una certa rilevanza che riuscii a fissare fu a Siena, in occasione dei seminari di Siena Jazz. In quell’occasione, il gruppo di Rita Marcotulli si esibì con un ospite, Enrico Rava. Conoscevo Rava solo come artista, e non di persona, ma da allora iniziammo a collaborare: un sodalizio umano e artistico che ha segnato in profondità la mia e la sua vita».
IL MANAGEMENT MODERNO «A quei tempi, alla fine degli anni Ottanta, in Italia operavano pochi manager. C’erano Patrizio Chiozza e Alberto Alberti, ma si occupavano di artisti americani. Posso dire di essere stato il primo, assieme a Ornella Tromboni, a costruire una scuderia di management con musicisti italiani. Arrivano gli anni Novanta e costruisco un roster con una squadra di straordinari musicisti, tra cui anche Paolo Fresu, Furio Di Castri, Maurizio Giammarco e Ramberto Ciammarughi. Contemporaneamente inauguro anche collaborazioni internazionali, portando in Italia anche Michel Petrucciani e Jan Garbarek. Il lavoro stava crescendo ma fu proprio allora che decisi di ridurre il numero dei musicisti con cui lavorare: una scelta che allora poteva considerarsi apparentemente folle, ma che in verità risultò vincente». Mario Guidi, magari senza volerlo, anticipa una pratica che diventerà centrale nel music business del domani: costruire una partnership solida, globale e trasversale con l’artista, curandone il booking e co-progettando nuove idee e nuove collaborazioni, selezionando le proposte, avendo cura di realizzare contratti a tutela dei musicisti rappresentati e contribuendo a valorizzarne la carriera anche su scala internazionale. «Ho lavorato solo ed esclusivamente con i musicisti che apprezzavo da un punto di vista umano e artistico, con musicisti in cui ho creduto e di cui apprezzavo la musica. E con loro ho stabilito un rapporto confidenziale e fiduciario. Tra me e l’artista c’è sempre stato un filo diretto: ci studiavamo i gruppi con cui lavorare, condividevamo ascolti e spesso davo un contributo di ideazione. Insomma, si lavorava assieme, ma con una costante idea in testa: anteporre la qualità della proposta prima di pensare al successo del tour e ai cachet. Riuscire a costruire un tour di successo era un desiderio ricorrente, certo, ma prima doveva emergere e risaltare la qualità della proposta. Ovviamente, secondo i canoni dell’artista e del sottoscritto».
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MUSIC BUSINESS
IL MESTIERE «Il nostro mestiere genera grande stress, perché operiamo sempre con tanta precarietà e siamo spesso esposti alla superficialità di alcuni promoter, ai cambi repentini dei programmi, all’annullamento dei concerti, a backline che molto spesso non sono all’altezza della situazione, a ritardi di pagamento e a direttori artistici che oramai badano soltanto al botteghino e non più alla qualità artistica. Ma ciò che più mi genera sofferenza è quando i promoter o i direttori artistici, per non dire il pubblico, non riconoscono la qualità proposta. Ognuno di noi ha una griglia di valori di riferimento, ma quando si è convinti di avere nelle mani un grande artista o un giovane talento, e questo viene snobbato o non considerato, è realmente doloroso». Mario Guidi interpreta la funzione e il ruolo del manager sia come garante della carriera del musicista rappresentato, sia come garante dell’integrità della proposta artistica generata. Emerge professionalità ma anche una forte passione, che ancora oggi rimane integra e intatta. «Nel mondo del jazz è spesso difficile la differenza tra un talento che ha qualcosa da dire, e chi invece fa il compito in classe. Ecco, io nel jazz odio chi fa il compito in classe: chi non rischia, chi fa tutto preciso, in bella calligrafia ma senza quella dose di coraggio, spiritualità, slancio emotivo e passionalità. Non sopporto chi ripete gli stessi pattern e di cui già, in anticipo, riconosco le mosse. La tecnica è interessante, ma attraverso la tecnica occorre esprimere qualcosa di forte, profondo e soprattutto unico. Sono sempre dalla parte dei musicisti. Li ho difesi sempre, tranne quando commettono errori e quando mancano di rispetto a colleghi, professionisti e pubblico». RELAZIONI ED ESPERIENZE Chi fa booking e management ha a che fare con le relazioni umane. Significa entrare in sintonia con l’artista rappresentato e con il direttore artistico a cui si dovrà riuscire a trasmettere l’identità della proposta: senza dimenticare che quelle relazioni dovranno trasformarsi in contratti e in marginalità da condividere tra musicisti e agenzia. Ed è in questo delicato equilibrio di umanità, passione e competenze che si misura la qualità di una buona società di management & booking. «Il nostro mestiere ti porta a lavorare senza sosta, tra stress e infinite complicazioni, ma ha il merito di farti entrare in contatto con tante persone interessanti in giro per il mondo. Si tratta di una professione di servizio all’arte ma che si alimenta di arte, e che inevitabilmente genera relazioni umane che danno qualità alla vita. Ma è un lavoro complicato, con mille insidie sempre all’angolo. Ma se dovessi tornare indietro, lo rifarei: perché mi ha portato a conoscere persone che avevano i miei stessi ideali e sentimenti, e perché mi ha fatto attraversare città, tradizioni e culture diverse dalla mia
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FOTO CORTESIA MARIO GUIDI © ROSSETTI-PHOCUS
SCHEGGE DI FUTURO E poi c’è il presente e il futuro di questa professione, ma soprattutto un bilancio di vita. «Non tutti coloro che si mettono a fare questo lavoro hanno le giuste competenze artistiche e la conoscenza della materia. Trovo in molti giovani manager delle figure con spiccate doti commerciali e di marketing, ma non ci sono le necessarie ore di ascolto e di passione. Ma ciò che più è drammatico è che questa proliferazione di figure professionali sta operando in un mercato che non c’è più, perché il pubblico sta svanendo, forse perché si ascolta troppa musica gratuitamente. Ancora oggi, ciò che più mi dà gioia, è la riconoscenza dei musicisti e anche di quei promoter con cui nel tempo ho costruito un rapporto fiduciario e di amicizia basata sulla stima reciproca».
«E poi c’è il figlio, il pianista Giovanni, che oramai ha affermato su scala globale il suo talento. «La carriera di Giovanni mi ha generato soddisfazione e al tempo stesso preoccupazione, ed è stata una gioia e un tormento anche per lui, perché si può pensare che ciò che si è ottenuto sia stato più facile. Adesso c’è un rapporto buono perché il suo valore è stato oramai recepito in modo trasversale e su scala internazionale»
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PROFESSIONE MUSICISTA
DI GIOVANNI TAGLIALATELA (AVVOCATO E MUSICISTA, VICEPRESIDENTE E CONSULENTE LEGALE MIDJ)
CONSIGLI PRATICI PER ORIENTARSI NEL MONDO DELLA MUSICA L’AGIBILITÀ «Sono un musicista e ho bisogno di capire bene cos’è il certificato di agibilità. Se non ho l’agibilità non posso esibirmi in pubblico, in un locale, in un club? Che significa avere la certificazione di agibilità? Chi la deve fare e di chi è onere?» Quante sono le domande che si pongono soprattutto i giovani musicisti quando, dopo aver suonato all’interno delle scuole o al più ai saggi di fine anno in teatro, intendono iniziare un’attività professionale. Il consiglio è quello di affidarsi, almeno nella fase iniziale, ai consigli pratici dei musicisti esperti oppure a operatori del settore (manager, consulenti del lavoro e così via). Occorre comunque avere un minimo di informazioni per poter esercitare professionalmente l’attività artistica. Cos’è il certificato di agibilità? E a chi compete? Mettere in agibilità un musicista significa effettuare la denuncia di assunzione (anche di un solo giorno) e ottenere la certificazione che permette l’esibizione in pubblico. Il certificato di agibilità è il documento che autorizza le imprese dello spettacolo o più semplicemente un esercente a far suonare nel proprio locale (che sia ristorante, pub o club) i musicisti che si esibiscono. Non è altro che una comunicazione preventiva di assunzione di un lavoratore dello spettacolo con l’indicazione del luogo dello spettacolo, del giorno/i di lavoro e il compenso concordato su cui si andranno a calcolare i contributi previdenziali. Il certificato di agibilità viene rilasciato dopo l’accertamento della regolarità contributiva dell’impresa/esercente che è tenuto a conservare una copia del certificato da esibire a ogni richiesta dei funzionari ispettivi che dovessero fare degli accertamenti. La richiesta di agibilità compete per la maggior parte dei casi all’organizzatore dell’evento (gestore del locale/club) e, quindi, i musicisti non devono far altro che fornire i propri dati anagrafici e il numero di posizione Inps. Eccezione per i musicisti scritturati con contratto di lavoro di natura subordinata anche a tempo determinato e per i soci di cooperativa. In questi casi non occorre alcuna certificazione dal momento che il loro nominativo già risulta dai libri sociali. Sono altresì obbligati a richiedere il certificato di agibilità i lavoratori autonomi esercenti attività musicali, obbligo introdotto con il D.L. 14.12.2018 n. 135. In questo caso è il musicista lavoratore autonomo che deve richiederlo e portare con sé il certificato di agibilità, in caso contrario il committente/organizzatore può e deve rifiutarsi di far esibire il musicista poiché in caso di controllo sarà tenuto al pagamento di una sanzione di 129 euro per ogni lavoratore e per ogni giorno di lavoro. Il musicista lavoratore autonomo dovrà procedere all’iscrizione all’Inps con tale qualifica in modo da poter accedere, attraverso il portale online dell’Inps alla propria posizione e, quindi, alla richiesta di agibilità. In altri termini, l’Inps lo qualifica datore di lavoro di sé stesso.
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Cosa succede se non c’è il certificato di agibilità? Posso esibirmi?
© FRANCESCO TRUONO
Essendo un obbligo per il gestore/esercente del locale/club, è quest’ultimo l’unico responsabile in ipotesi di controlli. Il legislatore considera il musicista che si esibisce senza agibilità al pari di un lavoratore a nero, con la conseguenza che si applicano le sanzioni relative, ossia la maxi sanzione pecuniaria che va da 1.500,00 a 9.000,00 euro per ogni lavoratore irregolare. Inoltre, per l’omessa registrazione dei dati del lavoratore/artista da parte del datore di lavoro nel Libro Unico del Lavoro: da 150,00 a 1.500,00 euro fino a 5 lavoratori (componenti); da 500,00 a 3.000,00 euro se la violazione si riferisce a un numero di lavoratori/ artisti compreso tra 6 e 10. Questo è riferito a ogni singolo lavoratore e, quindi, in caso di band di 4 elementi saranno quattro volte tanto. Come funziona? Per il legislatore il musicista, anche se esercita in forma di lavoratore autonomo, viene considerato al pari di un lavoratore subordinato anche e solo per un giorno lavorativo (quello della serata per intenderci) e quindi ha predisposto una tutela rafforzata sia per la verifica preventiva della regolarità contributiva dell’impresa che per la tutela previdenziale del musicista con il versamento della contribuzione previdenziale La richiesta del certificato di agibilità deve avvenire entro cinque giorni dalla prestazione lavorativa e, comunque, prima dell’evento. Se ci sono variazioni (ad esempio l’annullamento del concerto o altre cause di forza maggiore documentate) si procede all’annullamento dell’agibilità entro i successivi cinque giorni. Il certificato di agibilità può essere di tre tipologie: a titolo oneroso, a titolo gratuito e in esenzione contributiva. La richiesta di agibilità va effettuata online accedendo al portale dell’Inps. Chi è esonerato dall’ottenimento del certificato di agibilità? Gli studenti fino a 25 anni di età, i minorenni, i pensionati con più di 65 anni, gli artisti non professionisti aventi altra occupazione con cassa previdenziale di pertinenza. L’esenzione è prevista per le sole esibizioni musicali dal vivo, con un compenso annuo massimo non superiore a 5.000 euro. Tale esonero si ottiene previa autocertificazione di una o più tra le condizioni descritte sopra da parte del musicista al gestore del locale. Inoltre, non sussiste l’obbligo di produrre il certificato di agibilità nello svolgimento di manifestazioni a titolo gratuito con formazioni dilettantistiche o amatoriali che si esibiscono senza alcuna forma di retribuzione (neppure sotto forma di rimborso spese forfettario) a scopo di divertimento, per tramandare tradizioni popolari e folkloristiche, a fini educativi oppure allo scopo di diffondere l’arte e la cultura. Inoltre, non è dovuta contribuzione quando gli enti pubblici locali o le pro loco organizzano manifestazioni per fini culturali, ricreativi o educativi (in questo caso non necessariamente gratuite ma anche in presenza di un pubblico pagante), purché gli artisti non vengano retribuiti. Queste le informazioni minime per svolgere professionalmente e senza affanni l’attività artistica
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Cod
da
A
PASSAGE OF TIME
JOSHUA REDMAN QUARTET
DI CETTINA DONATO
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È
“Passage Of Time” di Joshua Redman il mio disco del cuore: un progetto eccellente, composizioni originali, un quartetto di altissimo livello, musicisti giovanissimi (è del 2001). Mi ha accompagnata, credo, più di tutti i dischi che ho ascoltato in un certo periodo della mia vita. Cioè durante la mia esperienza di musicista negli Stati Uniti, da studente e poi da lavoratrice che si affacciava sulla scena musicale americana. Nonostante questo disco sia per me forse il più bello artisticamente ed esteticamente il più rappresentativo di Redman, lui non lo ha mai proposto nei suoi progetti musicali che lo vedono impegnato in tournée. Evidentemente abbiamo gusti diversi, ma io penso sia un peccato perché proprio grazie a questo progetto, sono sicura che questo giovanissimo musicista (all’epoca era giovane, oggi è un eccellente sassofonista non più giovanissimo) avrebbe catturato anche le orecchie di quegli ascoltatori puristi secondo i quali, esteticamente parlando, dopo la scomparsa di alcuni giganti del jazz non ci sia stato altro che musica di scarsa qualità. Ecco, è questo uno dei motivi per i quali ho scelto un progetto di un sassofonista poco più che trentenne: cari miei, il jazz gode di ottima salute grazie al contributo di giovani performer e compositori traboccanti di talento e conoscenza, di genio e competenza. Sì, perché Joshua Redman, come molti musicisti della sua generazione, non è soltanto dotato di grande talento ma ha anche avuto il coraggio e la pazienza di sapersi mettere in gioco, approfondendo le sue già solide doti musicali con un’attività che qui in Italia qualcuno ha anche la presunzione di affermare che non sia proprio così importante. Aprite bene le orecchie: lo studio! Proprio così, Redman e il quartetto proposto in questo progetto, si sono macchiati di una colpa che si chiama studio e meritata autorevolezza. In qualche altra parte del mondo, invece, (indovinate quale) viene quasi quasi anche sminuita da certi pseudo maestri che salgono in cattedra senza neanche avere la consapevolezza di trovarsi a ricoprire un ruolo sì di prestigio ma allo stesso tempo di notevole responsabilità, nascondendosi dietro maschere di maestri eccelsi con stuoli di proseliti che non sanno neanche imboccare uno strumento a fiato, né fare una suddivisione binaria nella musica classica, figuriamoci in quella jazz. Un delirio! Ma torniamo a noi. Non farò un’analisi tecnica di questo disco perché mi auguro l’abbiate già fatta voi. Bene. Prendetelo, compratelo su iTunes, se non lo avete ancora, e sparatelo a tutto volume in macchina, in camera, in filodiffusione. Dove vi pare. È una suite da far risuscitare i morti, da far innamorare della musica jazz anche gli adolescenti che sentono la trap. C’è tutto: scrittura, improvvisazione, contrappunti, talento innato, studio, competenza, cuore e amore per quello che stai facendo. E si sente. Sono in quattro ma sembrano un’unica persona che suona quattro strumenti contemporaneamente. Il pezzo più bello tra tutti? Enemies Within. E After? Senso della melodia a profusione. Our Minuet? Insomma, se avete già questo disco e lo avete ascoltato come si deve, sapete già di cosa sto parlando. Se non lo avete ancora, che diamine aspettate a comprarlo? Sì, perché i dischi vanno comprati e non scaricati
MY FAVORITE THINGS
© BARBARA RIGON
THEREE WISHES DI CHIARA GIORDANO
GAETANO PARTIPILO L’ESPERIENZA DEL VIAGGIO LA BARONESSA PANNONICA “NICA” DE KOENIGSWARTER (1913-1988) FU AMICA INTIMA DEI PIÙ GRANDI JAZZISTI DEGLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA, DA THELONIOUS MONK A CHARLIE PARKER. AI MUSICISTI CHE FREQUENTAVANO LA SUA CASA ERA SOLITA CHIEDERE QUALI FOSSERO I LORO TRE DESIDERI. OGGI NOI RIVOLGIAMO QUESTA DOMANDA AI JAZZISTI DEI NOSTRI TEMPI
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La buona salute. Il mio primo desiderio è quello di godere di buona salute in modo da poter continuare a fare musica e stare in compagnia delle persone a cui voglio bene. Può sembrare un desiderio ovvio, ma per chi come me ha passato momenti difficili da questo punto di vista, questo diventa veramente un “desiderio feroce” che mette in secondo piano tutti gli altri. Sono consapevole che questa ferocia debba essere alimentata da sogni, ambizioni e positività. Questo è il motivo per cui sono sempre alle prese con l’ideazione di nuovi progetti artistici, nuove collaborazioni, pubblicazioni discografiche. A pensarci bene dovrei dedicare parte del mio tempo anche alla gestione manageriale di quello che produco, ma questa è un altra storia…
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Il viaggio. Vorrei viaggiare il più possibile e portare la mia musica dappertutto. Considero il viaggio una delle forme di nutrimento più importanti. Non solo per un artista. Il viaggio ti mette in relazione con gente nuova, costumi diversi, posti da scoprire. Insomma un mare di emozioni. Alla fine, quando siamo alle prese con il nostro amato lavoro, un po’ non facciamo altro che raccontare noi stessi e quello che viviamo giorno per giorno. Ho avuto la fortuna di fare diversi tour tra Africa, Asia e Stati Uniti. A breve mi aspetta una settimana di concerti in Brasile con la mia nuova band. Vivere certi momenti è per me una delle cose più gratificanti. Cosa potremmo raccontare senza vivere le esperienze che il viaggio può regalare?
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Mia figlia. Vorrei evitare uno dei soliti desideri scontati, cioè quello di migliorare culturalmente il paese in cui vivo o roba simile. Il mio terzo desiderio è tutto per mia figlia Eugenia. Lo dedico a lei perché vorrei che vivesse una vita piena. Mi piacerebbe che realizzasse i suoi desideri e che fosse una persona curiosa, appassionata e sperimentatrice. Il mio desiderio è quello di riuscire a farle capire l’importanza di cercare la propria strada con determinazione e coraggio. Di riflesso, da genitore, sento di imparare moltissimo da questa esperienza. Vivere la crescita di un figlio è una grande lezione di vita che può arricchirti più di ogni altra cosa.
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JAZZ EAT
A CENA DA GIUSEPPE BASSI
Mettiamo una sera a cena con un musicista, che ci invita ad ascoltare un album di jazz attraverso la degustazione di un menù realizzato per l’occasione
COUNT BASIE, SWING E PANZEROTTI A CURA DI LUCIANO VANNI
Il disco che ho in mente è quello che mi ha fatto scoprire e amare la musica jazz. Avevo sette anni e ricordo di averlo ascoltato perché sentivo la mancanza di mio padre, che non tornava a casa da tre mesi per un piccolo incidente che aveva avuto: un disco che mi aveva regalato nei mesi precedenti, perché ogni venerdì, quando tornava a casa, mio padre aveva l’abitudine di portarmi un disco e una macchinina. Si tratta di una registrazione discografica di Count Basie dal titolo “Warm Breeze” (Pablo, 1981): una session che ho ascoltato milioni di volte, che ancora ascolto e che suggerisco sempre agli amici per capire cosa sia il jazz. Il primo brano, C.B. Express, è un’apoteosi di swing: una performance che sale senza mai scendere a livello dinamico, ideale per ballare e che è impossibile da ascoltare rimanendo immobili. Pensando al ballo e a questa enorme gioia che procura l’ascolto di questo disco, ho scelto una pietanza che adoro e che per me è indicativa di una grande festa: e in una festa in una casa barese, non possono mancare i panzerotti, che voleranno sul tavolo con la stessa spinta emotiva dell’orchestra di Count Basie. Sarà una festa per una ventina di amici e ad altissimo volume, che vivremo senza curarci troppo delle urla e delle proteste dei vicini, che verrebbero a suonare e che chiamerebbero i vigili urbani, che inviteremo a ballare con noi e a godersi la serata.
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A CENA DA GIUSEPPE BASSI
JAZZEAT
◆ A N T I PA S T O Ci teniamo sul leggero. Offriamo un piatto con qualche fetta di capocollo di Martina Franca (TA), già presidio Slow Food, e l’immancabile stracciatella di Andria, una mozzarella fresca e sfilacciata con panna che si trova all’interno della burrata. E poi, metterei sulla tavola anche un po’ di cime di rapa e qualche terrina calda di involtini di melanzane al sugo. ◆
PRIMO Partiamo con i panzerotti, che dovrebbero bastare come antipasto, primo e secondo, perché saranno offerti in grande quantità. Il panzerotto è fatto con la pasta di pane e con un ripieno di mozzarella, abbondante, calda e filante, ma si potrà condire anche con altre prelibatezze del territorio. Servirà sfoglia sottile e un impasto resistente ma elastico, lavorato a lungo e con mani esperte, affinché in fase di frittura si gonfi senza rompersi e aprirsi. I panzerotti dovranno essere buttati nella padella rovente di olio di semi di girasole e dovremo ottenere una doratura minima prima di estrarli a ciclo continuo, e messi al volo nei piatti di ceramica rivestiti con tanta carta assorbente.
◆ SECONDO Ci prendiamo del tempo. Dopo un’ora circa dall’ultimo panzerotto, sempre con Count Basie a pieno volume, porterò in tavola una teglia di pasta al forno. Anche se saremo già stracolmi, sarà un’esperienza da condividere con tutto il gruppo di amici. Il timballo, a Bari, si fa con una enormità di sugo di pomodoro con il basilico, e si cucina a parte. Per una ventina di persone farei 5 kg di pomodori pelati, soffritti con cipolla. Realizzeremo un sughetto semplice, dopodiché si faranno cuocere a parte gli ziti, una pasta lunga di grano duro e di forma tubolare e cava, ma con superficie liscia come i bucatini, che sarà rigorosamente spezzata da tutti: caliamo 2 kg di pasta e dopo tre minuti la appoggiamo nella teglia, dove si metterà il sugo preparato. Parallelamente lavoreremo delle polpettine di carne mista, maiale e manzo, con pane ammorbidito nel latte, sale, olio e prezzemolo in abbondanza, ed eventualmente un po’ di aglio per dare sapore; dopo averle soffritte, e tenute qualche minuto a raffreddare, si caleranno nella teglia insieme alla pasta e con fette di mortadella, pezzi di prosciutto cotto e di mozzarella, abbondando di pecorino romano. Fatto il primo strato, si prosegue con la stessa dinamica: si copre tutto di sugo, e si prosegue con altri strati di pasta, polpettine, mortadella, prosciutto cotto, mozzarella e pecorino romano. Il tutto sarà messo in forno a 200 gradi, dai trenta ai quaranta i minuti. ◆ DOLCE Offriremo, per il gran finale, un po’ di castagnelle baresi: biscotti a base di mandorle e cacao, realizzate con farina 00, zucchero, uova, cacao rigorosamente amaro, vino bianco, lievito e un po’ di limone.
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DI VINCENZO MARTORELLA (CRITICO MUSICALE, STORICO DELLA MUSICA E ACCADEMICO)
RAGIONAMENTI IN LIBERTÀ PER ACCOMPAGNARE IL LETTORE ALLA FINE DEL GIORNALE
Lo ammetto: quando il direttore mi ha chiesto di tornare a scrivere per Jazzit (ho risposto sì dopo neanche 30 secondi dal suo messaggio su WhatsApp), proponendomi una rubrica in chiusura di giornale, non sapevo che pesci prendere. Scrivere l’ultima cosa che un lettore legge – ammesso ci sia ancora qualcuno che legge una rivista manco fosse un libro, in maniera lineare e teleologica: dall’inizio alla fine – scarica sulle spalle dello scrivano una responsabilità enorme: come in tutte le cose, finire bene è altrettanto importante che iniziare bene. E i pochi modelli cui ispirarsi, come la Bustina di Minerva di Umberto Eco su L’Espresso, mi sembravano molto, ma molto, fuori portata. Quella che state leggendo, Turnaround, è dunque l’ultima declinazione di un’idea che ha preso corpo a tentoni, sebbene con un’idea forte dentro, e intorno, al cuore: riflessioni (più o meno in libertà) per accompagnare il lettore all’uscita del giornale, lasciandogli idee su cui riflettere o girare intorno, proprio come un turnaround fa in un brano di jazz; e perciò, un po’ saltellanti, serie sì, ma tra una capriola e l’altra. Ma, e qui sta l’ammissione cui alludevo nell’incipit, l’idea originaria avrebbe dovuto chiamarsi in altro modo. Perché uno dei modelli - molto, ma molto, più abbordabili - riesumati dalla memoria a lungo termine era quella della posta dei lettori, imperversante nei settimanali di musica degli anni Settanta e Ottanta. Vere o fasulle che fossero, le domande alle quali “l’esperto” rispondeva rendevano possibile l’accesso ad argomenti difficilmente sdoganabili, soprattutto a seconda della specializzazione dell’esperto medesimo, che andava dalla psicologia alla sessuologia, passando per ogni sfumatura intermedia. Una sorta, insomma, di posta del cuore jazzistica, o jazzittiana. Avevo trovato anche il nome: La posta del chorus. Nessun argomento scottante, niente drammi amorosi o incertezze sentimentali: solo e soltanto jazz, e tutto quello che gira intorno. Alla fine, la proposta è stata accantonata. Ma, e qui chiedo a voi lettori di tenere un segreto, in questa rubrica ci faremo delle domande e – marzullianamente – proveremo a dare qualche risposta. Parlo in prima persona plurale non per un episodio di megalomania, ma perché mi piacerebbe si costruisse lo spazio per un dialogo e un confronto. Nella prossima puntata vi darò un indirizzo mail al quale inviare domande, riflessioni, commenti. Presentata, come si conviene, la rubrica ed estrinsecatane la natura, passiamo all’argomento. Non senza avvisare i lettori più giovani – quelli cioè che leggono Jazzit da un decennio – che il sottoscritto ha una poderosa tendenza a esondare, tracimare (e altri verbi che solitamente segnalano disgrazie e cataclismi), così come una naturale propensione flaubertiana al romanzo a puntate. Perciò, l’argomento, appunto, di questo numero sappiamo dove inizia, ma non quando si esaurirà. Anche perché, trattasi di argomento assai scottante. Avrete seguito la querelle a distanza tra Branford Marsalis e Robert Glasper di qualche mese fa, immagino. Un fatto certo non nuovo negli annali del jazz, ma abbastanza atipico per il momento nel quale è esploso, tanto che Alessandro Da Villa, un mio studente del Conservatorio di Venezia, ne ha ricavato la tesina per l’esame di Storia del Jazz (l’argomento monografico era il jazz del XXI secolo).
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Per i più distratti, un breve riassunto di quanto accaduto. Nel corso di un’intervista al mensile statunitense JazzTime (la trovate qui: https:// jazztimes.com/features/interviews/branford-marsalis-secret/), pubblicata a giugno, Marsalis, sfruculiato da una domanda del sagace intervistatore David Fricke riguardo Robert Glasper e Kamasi Washington, ha espresso considerazioni pungenti nei confronti dei due colleghi, tacciandoli di non essere, di fatto, musicisti di jazz. Ecco il dialogo tra i due. Fricke: «Negli anni Novanta hai inciso due album con la formazione Buckshot LeFonque, nei quali mescolavi jazz, hip-hop e dj culture. I dischi suscitarono reazioni contrastanti. Cosa ne pensi di artisti come Glasper e Washington che oggi lavorano all’incrocio tra jazz e hip-hop?». Marsalis: «Robert Glasper ha un limitato vocabolario jazzistico, ed è un’affermazione che lui stesso non potrebbe negare. Anzi, credo sia nel suo interesse non farlo. Nemmeno Kamasi è un musicista jazz: è un sassofonista. Ma il suo linguaggio non è jazz, ma qualcosa che gli assomiglia. Non è un argomento sul quale voglio sollevare polemiche. Ma posso ascoltare un disco di Lester Young, di Dexter Gordon o Wayne Shorter e chiedere: “Senti quell’eredità nel suo modo di suonare?”. Se non la senti, cos’è che la rende jazz? L’improvvisazione? Siamo tornati di nuovo a quest’illusione. Il successo che ha Kamasi è eccezionale. Ma le persone che lo difendono definendolo un jazzista non sono jazzisti. Hanno la loro idea di che cosa sia il jazz, e ne hanno tutto il diritto. Lo stesso, però, vale per me». La risposta di Robert Glasper non si è fatta attendere a lungo. In un post su Instagram, il pianista di Houston ha replicato in maniera piccata. Eccone uno stralcio: Hai ascoltato le registrazioni del mio trio? Ovviamente no… Diamine, è terribile
«È triste vedere come le persone che dicono di amare il jazz […] siano le stesse che lo stanno uccidendo. Branford, le tue parole suonano amare, avventate e sbagliate» quando gli eroi della tua infanzia hanno paura del cambiamento. Fortunatamente, le persone che erano e sono i VERI guardiani di questa musica non avevano e non hanno la stessa chiusura mentale; nutro enorme rispetto per Branford ma tutta questa mer*a “Non è jazz” è orribile e sta uccidendo la musica. […] Il fatto che tu debba sentire un evidente collegamento tra la mia musica adesso e la musica di 100 anni fa è un problema… È CHIARO CHE DEBBA SUONARE DIVERSAMENTE! È Black Music, è già dentro di me e non ho bisogno di dimostrare che conosco il bebop in ogni brano che registro. Io SONO, noi SIAMO la Black Music». Interessante, no? Anche perché non si tratta, semplicemente, di stare con l’uno o gli altri, ma cercare di capire cosa sta accadendo, e cosa, probabilmente, ci sta sfuggendo
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