Foto Claudio Carella
Francesco D’Incecco
Corso Umberto I, n. 83 - 65122 PESCARA - Tel. 085.4219109 - Fax. 085.4219380 www.fondazionepescarabruzzo.it - fondazione@pescarabruzzo.it
Vario ART
DA VENTI ANNI COLTIVIAMO PROGETTI E CONDIVIDIAMO RISORSE PER FINALITÀ DI INTERESSE PUBBLICO E DI UTILITÀ SOCIALE.
Francesco D’Incecco
CREDIAMO NELLA FORMAZIONE, NELLA CULTURA E NELLA RICERCA COME ATTIVITÀ CAPACI DI LIBERARE ENERGIE PER IL BENESSERE DELLA COMUNITÀ E LO SVILUPPO DEL TERRITORIO.
CREDIAMO NELLA FORMAZIONE, NELLA CULTURA E NELLA RICERCA COME ATTIVITÀ CAPACI DI LIBERARE ENERGIE PER IL BENESSERE DELLA COMUNITÀ E LO SVILUPPO DEL TERRITORIO. DA VENTI ANNI COLTIVIAMO PROGETTI E CONDIVIDIAMO RISORSE PER FINALITÀ DI INTERESSE PUBBLICO E DI UTILITÀ SOCIALE. Foto Claudio Carella
Corso Umberto I, n. 83 - 65122 PESCARA - Tel. 085.4219109 - Fax. 085.4219380 www.fondazionepescarabruzzo.it - fondazione@pescarabruzzo.it
di Simone Ciglia
di Simone Ciglia
Francesco D’Incecco
Francesco D’Incecco Francesco D’Incecco è rientrato sul palcoscenico dell’arte della nostra regione dopo un periodo di silenzio in cui, pur continuando a lavorare, aveva cessato di esporre. Il suo ritorno è stato segnato da una radicale riformulazione del proprio lavoro che l’ha portato a rinnegare tutto o quasi tutto ciò che aveva prodotto in precedenza. Adesso la sua opera ha trovato nella figura del manichino il nucleo tematico e iconografico fondante: l’artista realizza infatti – con una sapienza artigianale – dei manichini in legno che colloca poi negli spazi in cui è chiamato a intervenire, spesso accostandoli a oggetti di varia natura. I materiali che utilizza in queste installazioni sono quelli con cui viene a contatto nella vita quotidiana, per lo più di natura residuale: vecchi vestiti, scarti di macelleria, bottiglie e quant’altro. Questi simulacri di umanità sono ritratti in azioni o atteggiamenti diversi, con una predilezione per quelli di natura bassa, provocatoria o ancora ironicamente autolesionistica. Qual è stato il tuo percorso? Mi sono diplomato all’Accademia di Belle Arti a L’Aquila nel 2003, ed ora insegno discipline plastiche. Il lavoro che fai appare profondamente legato al luogo in cui va a insediarsi. Che tipo di rapporto s’instaura? Il mio lavoro prende vita “dentro” il luogo: alcune opere hanno un’idea di partenza ben definita e chiara, mentre altre nascono sul posto, adattandosi allo spazio e alle diverse situazioni circostanti. Inoltre è un tipo di lavoro che richiede molto tempo, prende la sua forma e si contorce dallo spasmo, viene torto e “masticato” a pestilenza, accumula elementi seminandone degli altri, in un continuo ciclo di rimpasti e di sbiellati movimenti. Alla fine si distrugge, lasciando nudo al suo passaggio, solo il corpo marcio di uno scatto. Da dove hai ripreso il tema del manichino? Non saprei spiegarlo bene: la mia, non è una ricerca legata a personaggi storicizzati o a correnti di pensiero già definite, ma piuttosto a qualcosa di intimo, arcaico, e profondamente personale. Ho realizzato i miei manichini seguendo le proporzioni del mio corpo, forse perché in quel momento ero l’unico soggetto a disposizione! No scherzo, in realtà quello che faccio, passa sempre sul mio corpo, e dal mio corpo, come un secco stoccafisso si disossa. Ho utilizzato il legno per costruire “l’ossatura”, e snodi in ferro per rendere fluido e più articolato possibile il movimento. Ogni manichino è composto da un assemblaggio di circa 250 pezzi, tra barre
in legno e cerniere in ferro a doppio snodo. Grazie a questa struttura il manichino riesce a compiere tutti i movimenti del corpo umano, permettendone i più svariati movimenti. Mi piace deturpare, seppure in modo lieve, l’anatomia umana. Un lieve “storpiamento” nasconde spesso una grande potenza espressiva. Un altro versante su cui lavori è quello testuale: quest’anno hai pubblicato un piccolo libro che contiene una serie di testi di natura poetica. Qual è il legame fra questi due aspetti del tuo lavoro? Anche se non ne parlo molto, credo che si tratti di una parte fondamentale di questo lavoro; infatti le due cose sono nate parallelamente. Questi scritti, non so come chiamarli, in un certo senso sono fotografie, immagini, microstorie di carogne e satanassi, di rattusi coticoni e scorticate verginelle, storie di carnazza e fegatelli, di birracce e di feroci e micragnosi pappatoi. La questione del significato del lavoro di un artista è sempre estremamente complessa. Come si pone nel caso del tuo lavoro? Non amo parlare di significato, il messaggio non m’interessa, credo che la comunicazione sia solo una gravida illusione a cui facciamo tutti finta di credere. A volte mi meraviglio di come gli altri possano apprezzare le cose che faccio. Voglio lasciare che il mio lavoro sia svincolato da patetici rimandi culturali, come se poi tutto questo fosse davvero importante, gioco sulle potenziali differenze dei significati. Non mi va di tirare in ballo, la società, la politica, l’istruzione o l’ecologia, non provo il minimo interesse in tutto questo: vivo la cosa in maniera più isolata e personale. Io non ho niente da dire; lascio che “l’altro”, se ne ha voglia, stabilisca un rapporto con le cose che faccio. In realtà questo lavoro non nasce per spazi museali, ma per luoghi “aperti”, dove incarna per brevi istanti qualche storia clandestina. La mia è una ricerca intima, ciò che vedono gli altri sono affari loro: non credo che io possa aiutarli in nessuna maniera. Infatti è possibile guardare i tuoi lavori da molteplici chiavi di lettura: dalla tragedia alla commedia. Effettivamente hanno sempre questo duplice risvolto: se ci troviamo ad esempio di fronte ad un accattone scorticato e mutilato, gettato in un angolo di stada, la componente tragica e violenta è evidente, ma se lo stesso magari sfoggia un “concertino” dando fiato alla sua tromba infilata nel sedere, ecco che la tragedia sfuma lentamente nel grottesco.
In altri casi è presente una forte simbologia arcaica, carnale e sanguigna che forse trova le sue radici proprio nella “broda” primordiale e maleolenta di una assurda e sverginata r“esistenza”. Il tuo lavoro sembra collocarsi su quella linea di confine tra l’arte e la vita. In realtà non trovo differenza tra le due cose. Non cerco di creare una finzione scenica o una riproduzione della realtà, si tratta di manichini, oggetti morti e inanimati, che non nascondono a nessuno, la loro natura truce di carcasse. Un altro elemento interessante è che le misure dei manichini sono riprese da quelle del tuo corpo. Dopo aver iniziato a lavorare in questa direzione ed avendo, come già detto, preso le proporzione sul mio corpo, le persone a me più care hanno iniziato a notare la mia somiglianza con i manichini, o per meglio dire con la loro identità, ed effettivamente mi sono reso conto anch’io che forse non facevo altro, che continuare a partorire, i miei feticci scardinati replicanti. Perché non hanno il viso? Hanno dei visi abbozzati, torturati, sono delle presenze-assenze. Non vogliono sembrare nel dettaglio corpi umani, rimangono solo degli inutili e iperbolici fantocci. La loro espressività prende corpo dalle loro posizioni, dall’atteggiamento e dalle pieghe delle stoffe che coprono viso e corpo, dai guanti,
dai vestiti, dalle scarpe e dai cappelli, che in loro diventano corpo. Questa loro resistenza all’esistenza, si dissolve lentamente con il tempo. Come serpi nella muta, cambiano la pelle e le ventraglie, mentre tornano sornioni di codazzi tracolenti al loro nuovo e impecorito incarnamento.
Francesco D’Incecco è nato a Pescara nel 1977, si è diplomato in scultura presso l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila nel 2003, ha partecipato a numerose mostre in diverse città italiane e all’estero con una personale nel 2004 a Berna (Svizzera). Insegna Discipline Plastiche nella provincia di Chieti dove vive e lavora.
Francesco D’Incecco reappeared on the local art scene after a period of silence in which, while continuing to work, he had stopped exhibiting. His return was marked by a radical change in his approach with which he more or less laid aside everything he’d produced before. His current works include dummies as the thematic nucleus and founding iconography: D’Incecco builds exquisitely-crafted wooden figures which he places in the designed areas, often accompanying them with various other objects. The materials he uses in these installations are everyday items, often destined to the waste heap, such as old clothes, bits of meat, bottles and what have you. These simulacra of humanity are shown in various attitudes, with a preference for those of a provocative, menial, even ironically self-harming nature. What is your background? «I graduated in sculpture at the Fine Arts Academy of L’Aquila in 2003 and now I teach Plastic Arts». Your works appear to be profoundly linked to the places they are installed in. How does this come about? «My work takes on life “within” the place: some works start off with a clear, well-defined idea, while others are “born” where they are going to be, adapting to the space and surrounding environment. Besides, this type of work is very timeconsuming; it takes on form, then twists and is chewed into its own shape, taking on various elements while shedding others, in an ever-changing series of movements. At the end, it destroys itself, leaving behind only the essence». Where did you get the dummy theme? «I don’t really know. Rather than something connected with particular historical characters or schools of thought, it’s something more deeply personal and archaic. I created my dummies according to the proportions of my own body - maybe because I was the only one around at the time! I’m joking of course, in effect everything I do is based on my own body, like when you bone a piece of dried fish. I use wood to build the “skeleton” and iron joints to create fluid movement. Every figure is composed of around 250 pieces, including iron bars and hinges. Thanks to this structure, the figure can mimic every single human movement. I like disfiguring the human anatomy, just very slightly. A gentle “impairment” often conceals a great power of expression». Another of your activities is writing. This year you published a little book of poetic works. What links these two aspects of your work? «Although I don’t often talk about it, I think this is a fundamental part of my work - in fact, both activities began around the same time. My writings - I don’t know how to call them really -are a bit like photographs, small stories about carcasses and devils, pimps and virgins, disgusting beer-houses». The issue of the meaning of an artist’s work is always extremely complex. Where do we stand with your work?
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«I don’t like talking about meaning. I’m not interested in the message - I think communication is an illusion we all pretend to believe. Sometimes I wonder how others can possibly appreciate the things I produce. I’d like my work to be devoid of those pathetic cultural links - as if they were really important - and I like to play with the potential differences in meanings. I don’t feel like dragging in society, politics, education or ecology - I’m not interested in any of this - for me it’s purely personal. I’ve got nothing to say, if anything I leave others to establish a relation with what I do. My work isn’t created for museums or galleries, but for “open” spaces, where it personifies a clandestine story for a few moments. My work is a personal affair - what others see in it is their business - I don’t think I can help them in any way». In fact, it is possible to look at your works from many viewpoints - from tragedy to comedy. «In effect, they always have this dual nature. For example if we see a mutilated beggar on a street corner, the tragic and violent element is evident. But if he starts to “trumpet” with his ass, the tragedy becomes grotesque». In other cases, there is a strong archaic, carnal and sanguine symbology which maybe stems from the stinking primeval “broth” of an absurd, deflowered resistance/existence». Your work seems to walk on the line dividing art and life. «I don’t really find any difference between the two. I don’t try to create a scenic fiction or a reproduction of reality - they’re dummies, dead or inanimate objects, that don’t hide their true nature - that of carcasses». Another interesting element is that the dummies have the same measurements as your body. «After I started working in this direction, using my own body proportions, my friends and family began to notice my similarity to the dummies, or rather to their identity, and I began to realise that all I was doing was replicating my fetishes». Why do they have no faces? «They have barely etched, tortured faces - they’re absent presences. They don’t appear to be human bodies with detail - they’re just useless, hyperbolical dummies. Their expressivity is revealed by their positions and attitudes, by the folds in the cloth covering their faces and bodies, their gloves, clothes, scarves and hats, which merge with their bodies. Their resistence to existing melts slowly over time. Like snakes shedding their skin, they change their outer casing and innards». Francesco D’Incecco was born in Pescara in 1977, and he graduated in sculpture at the Fine Arts Academy of L’Aquila in 2003. He has shown his works in many exhibitions all over Italy and abroad, with a personal in 2004 in Berne (Switzerland). He teaches Plastic Arts in the province of Chieti where he lives and works.