Foto Claudio Carella
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 20x30
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 50x70
Alessandro Gabini Alessandro Gabini
Senza titolo, 2009, cartone microondulato, marker
Non svegliare il cane che dorme, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011 cartone microondulato, marker (foto Claudia Ferri)
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 20x30
Vario ART
Alessandro Gabini
di Simone Ciglia
esempio la serie del 2009 L’anno della scenza: la scienza studia la natura, però alla fine secondo me l’uomo non ci capisce mai un cazzo. Nei miei lavori cerco di inserire elementi pseudo-tecnologici, che portano alla luce questo straniamento. È come se fossimo degli alieni. Io di sicuro sono un alienato. Dall’espansione del disegno su scala tridimensionale nasce la scultura. Le sculture nascono da una necessità. Disegnando e avendo sempre a che fare con la bidimensionalità, all’inizio cercavo di superarla staccando i quadri dalla parete. Quelle che dapprincipio erano pensate come opere da parete piano piano si sono trasformate in vere e proprie sculture. Queste sono più che altro una specie di packaging: una superficie bidimensionale che – attraverso delle pieghe – riesco a far diventare tridimensionale. Le sculture mantengono sempre un link con il foglio, oltretutto sono fatte di cartone. Non mi veniva in mente di fare delle sculture in senso classico. Questa è più una sfida, un partire dal bidimensionale per arrivare a una terza dimensione. Le sculture risultano più come dei monoliti, delle specie di simboli. Non ci sono molte similitudini tra sculture e disegni, potrebbero appartenere a due autori diversi. Rimango anch’io stupito di questo aspetto. È bello quando fai qualcosa che prende una sua direzione, che non riesci a controllare, va al di là di te, è un aspetto terapeutico del fare arte. Spesso, in occasione di mostre, realizzi anche delle perfomance. Come la scultura, anche l’aspetto performativo è nato dal desiderio di entrare nelle tre dimensioni. Non so se è per il fatto di provenire dalla musica – in cui devi metterti in gioco fisicamente – ma il semplice gesto di attaccare dei quadri nelle mostre non mi soddisfaceva completamente, per cui sono sfociato nella performance. È l’ultima cosa che mi viene da fare, e lo faccio quando mi riesce spontaneamente. Infatti è impegnativo portare nell’ambiente dell’arte elementi diversi che si mischiano tra loro. Bisogna trovare la situazione giusta per proporre determinate cose. Anche se adesso sei principalmente a Roma, la tua formazione è avvenuta a Pescara. Come pensi che questo contesto abbia inciso sulla tua opera? Il posto in cui stai influenza parecchio le cose che pensi e che vai a fare. A me dà i temi fondamentali di quello che vado a disegnare. Inoltre in tutto il primo disco sono racchiuse delle cose della mia vita qui. Nella mia attività artistica il contesto di Pescara si riverbera con un senso di sarcasmo, di cinismo. Mi fa uscire un lato abbastanza pessimistico, forse. Nella provincia c’è qualcosa che inizia con la noia e si trasforma in atteggiamento nichilistico e del chissenefrega: non dare un senso alle cose ma sorvolare un po’ su tutto e fottersene. Una cosa che è anche vicina al punk, per cui le cose si mischiano. Da un punto di vista pratico non mi ha aiutato molto rispetto alla divulgazione del lavoro ma anche rispetto a un atteggiamento che posso aver acquisito. Venire dalla provincia ti dà da un lato molta forza, dall’altro questa forza c’è chi riesce a capirla e incanalarla e chi ne viene sopraffatto.
Foto Claudio Carella
Vario ART L’arte di oggi segue le vie più diverse e si fonda sull’incontro e la contaminazione di media differenti. In questa tendenza si iscrive anche Alessandro Gabini (Pescara, 1976), la cui principale identità è quella di musicista. La musica rappresenta così la matrice principale della sua opera artistica: come attitudine, come immaginario, come tematica. L’assenza di una formazione accademica spiega la sua predilezione per un tipo di espressività non mediata, che accomuna tutte le forme in cui si esprime: disegno, scultura, performance. Il suo universo formale è infatti governato da una qualità formale grezza e da un tratto crudo. Che definizione daresti del tuo lavoro? Il mio lavoro è molto vario, ma le cose mi nascono sempre da un interesse verso i contrasti presenti nella società in cui viviamo. È vario nella messa in pratica delle intuizioni che si possono avere. Qual è stata la tua formazione? Non c’è: non ho fatto né il liceo artistico né l’accademia. All’inizio mi dedicavo maggiormente al disegno, ed è quello che ho sempre fatto: soprattutto tratto. Successivamente nella sperimentazione sono arrivato all’acrilico, poi ho avuto un’ondata di pittura a olio figurativa, ma si è trattato solo di un periodo. A un certo punto sono tornato sui miei passi. Artisti come Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus ed altri conosciuti al Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo mi hanno influenzato molto: è quella forse l’unica formazione che ho avuto, se la si può chiamare così. Come hai iniziato? Mettevo musica a palla e disegnavo le copertine dei dischi (degli Iron Maiden, dei Guns N’ Roses). Da lì andando sullo skateboard mi sono trovato sulla strada dell’hip hop (Beastie Boys), da cui nasce anche l’interesse per la street art. Per questo i media che uso provengono anche da quell’ambito, come ad esempio i pennarelli. La cosa che mi interessa è il tratto crudo, sia nel disegno che nella musica: anche in quest’ultima preferisco suoni secchi, duri, non riverberati. Proprio nella musica si può riconoscere una delle matrici principali della tua opera: come atteggiamento, come immaginario, come tecniche … Anche la tua stessa identità è doppia, in quanto sei sia musicista che artista. Questi due ambiti espressivi hanno aspetti in comune: le tematiche dei testi delle canzoni infatti si avvicinano un po’ a quelle dei disegni. Entrambi poi sono caratterizzati da un forte elemento ironico. Il tuo immaginario inoltre sembra provenire dalle subculture della strada. Sono attratto dal processo di sintesi che riesce a esprimere un messaggio con segni essenziali, mi viene in mente Keith Haring; la street art è una dimensione dalla quale attingo, riportando nel mio mondo i tratti più veloci, semplici, crudi. Il disegno costituisce tuttavia la base della tua pratica artistica. Nei disegni il tema ricorrente è quello dello scontro tra natura e uomo. Cioè di come l’uomo, attraverso mezzi tecnologici avanzati, riesce a consumare sempre più velocemente e in modo compulsivo le risorse naturali di questo pianeta. Ne offre un
Alessandro Gabini
Non svegliare il cane che dorme, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011 cartone microondulato, marker (foto Claudia Ferri) Senza titolo, 2009, cartone microondulato, marker
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 50x70 Fontana, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011cartone microondulato, pompa idraulica, acqua, inchiostro (foto Claudia Ferri)
Today’s art takes varied routes and is founded on the encounter and contamination of the various media. Alessandro Gabini (Pescara, 1976) belongs to this trend, but his true identity is that of musician. Music represents the main matrix of his artwork: as a disposition, imagination and thematics. The absence of an academic background explains his predilection for a non-mediated type of expressiveness, which lies at the heart of all the forms in which it is expressed –drawing, sculpture and performance. In fact, his formal universe is governed by a formal crude quality and a raw brush-stroke. What definition would you give of your work? My work is very varied, but what I do always stems from my interest in the contrasts in today’s society. The variedness comes from how I express the intuitions I have. Tell me about your studies I don’t have any formal artistic training. When I started, I used mainly to draw. Later, I started experimenting and using acrylics, then I had a wave of figurative oil painting, but it was only a phase, and I went back. Artists like Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus and others who I met at the Città Sant’Angelo Museum Laboratory had a great influence on me - this is perhaps the only “training” I’ve had, if you can call it that. How did you begin? I used to listen to discs at full volume and design the covers (Iron Maiden, Guns N’ Roses). From there on, while skateboarding, I ended up on the hip hop scene(Beastie Boys), which gave rise to my interest in street art. This is why the media I use come from that world, like felt-tip pens, for instance. What I like is a raw stroke of the pen, both in drawing and music - dry, harsh, dampened sounds. One of the main matrixes of your work seems to come from music - in an attitude, the imaginary, your techniques....Even your very identity is dual - you’re a musician and an artist. These two expressive ambits have certain aspects in common: the themes you can find in the lyrics of some songs are a bit like those of my drawings. And there’s also a strong element of irony in both. Your imaginary seems to come from street subcultures. I’m attracted by the process of synthesis which can express a message with essential signs - all this makes me think of Keith Haring; street art is the dimension I draw from, portraying it with swift, raw, simple strokes. Drawing however makes up the base of your art. In my drawings, the recurring theme is the clash between man and nature, that is, how man, by means of advanced technology, is compulsively and rapidly starving the planet of its natural resources. The 2009 series The year of science gives a good example of this: science studies nature, but when it comes to the crunch, mankind is way out. In my work, I try to introduce pseudo-technological elements which can reveal this incomprehension. It’s as if we were aliens - I’m one for sure!
Sculpture originates from the expansion of a drawing onto a three-dimensional scale. Sculpture is born of necessity. While drawing and doing everything on a two-dimensional plane, I used to try to get over it by distancing the paintings from the walls. What started out as works to go on the wall, gradually turned into proper sculptures. These are more than anything else a sort of packaging - a two-dimensional surface which I make threedimensional by means of the folds in it. The sculptures always keep a link with the page, and apart from anything else, they’re made of cardboard. I never felt like doing real sculptures in the classical sense. This is more of a challenge, a departure from the two-dimensional to get to the third dimension. Sculptures are more like monoliths, or symbols. There aren’t many similarities between the sculptures and drawings, they could have been done by two different artists. I myself am always surprised by this. It’s nice when you do something which goes off in its own direction, that you can’t control, it goes outside of you, and that’s the really therapeutic side of art-making. Often you do performances at your exhibitions. Like with sculpture, doing performances stemmed from a desire to enter the three-dimensional. I don’t know if it’s because I come from the music world, in which you have to use the physical dimension, but quite simply having your paintings hanging on the wall at exhibitions didn’t give me any real satisfaction, so I started doing performances. It’s my latest urge, if you like, and I do it when I feel it’s going to be spontaneous, because it’s quite hard to bring all these different elements into art, mixing them all together. You have to be in the right place at the right time for it to come off. Now you spend most of your time in Rome, but you grew up in Pescara. How do you think this context has influenced your work? Where you are has a strong influence on what you think and do. I get basic themes from it, which I then draw. My first disc talks about aspects of my life here. In my activity as artist, Pescara emerges imbued with sarcasm and cynicism. It brings out the pessimistic side of my personality, I think. In the provinces, there is something that starts with boredom, and turns into a nihilistic, couldn’t-care-less attitude, a way of skimming the surface of things and not giving a damn. Something akin to punk, everything mixed up. From a practical point of view, all this has not helped my work to become known, but that may depend on my own attitude. Coming from the provinces on the one hand gives you strength, but on the other, you can either make the most of this strength or allow it to crush you.
Bassofondo, intervento per Daniela D’Arielli, Galleria Cesare Manzo, Roma 2010 (foto Matteo Fato)
Peavey, 2008 cartone microondulato, marker, evidenziatori
Love Distortion, 2008 cartone microondulato, marker, evidenziatori
Alessandro Gabini
Non svegliare il cane che dorme, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011 cartone microondulato, marker (foto Claudia Ferri)
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 20x30
Vario ART
Foto Claudio Carella
Senza titolo, 2009, cartone microondulato, marker
Alessandro Gabini
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 50x70 Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 50x70 Non svegliare il cane che dorme, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011 cartone microondulato, marker (foto Claudia Ferri)
Alessandro Gabini L’arte di oggi segue le vie più diverse e si fonda sull’incontro e la contaminazione di media differenti. In questa tendenza si iscrive anche Alessandro Gabini (Pescara, 1976), la cui principale identità è quella di musicista. La musica rappresenta così la matrice principale della sua opera artistica: come attitudine, come immaginario, come tematica. L’assenza di una formazione accademica spiega la sua predilezione per un tipo di espressività non mediata, che accomuna tutte le forme in cui si esprime: disegno, scultura, performance. Il suo universo formale è infatti governato da una qualità formale grezza e da un tratto crudo. Che definizione daresti del tuo lavoro? Il mio lavoro è molto vario, ma le cose mi nascono sempre da un interesse verso i contrasti presenti nella società in cui viviamo. È vario nella messa in pratica delle intuizioni che si possono avere. Qual è stata la tua formazione? Non c’è: non ho fatto né il liceo artistico né l’accademia. All’inizio mi dedicavo maggiormente al disegno, ed è quello che ho sempre fatto: soprattutto tratto. Successivamente nella sperimentazione sono arrivato all’acrilico, poi ho avuto un’ondata di pittura a olio figurativa, ma si è trattato solo di un periodo. A un certo punto sono tornato sui miei passi. Artisti come Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus ed altri conosciuti al Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo mi hanno influenzato molto: è quella forse l’unica formazione che ho avuto, se la si può chiamare così. Come hai iniziato? Mettevo musica a palla e disegnavo le copertine dei dischi (degli Iron Maiden, dei Guns N’ Roses). Da lì andando sullo skateboard mi sono trovato sulla strada dell’hip hop (Beastie Boys), da cui nasce anche l’interesse per la street art. Per questo i media che uso provengono anche da quell’ambito, come ad esempio i pennarelli. La cosa che mi interessa è il tratto crudo, sia nel disegno che nella musica: anche in quest’ultima preferisco suoni secchi, duri, non riverberati. Proprio nella musica si può riconoscere una delle matrici principali della tua opera: come atteggiamento, come immaginario, come tecniche … Anche la tua stessa identità è doppia, in quanto sei sia musicista che artista. Questi due ambiti espressivi hanno aspetti in comune: le tematiche dei testi delle canzoni infatti si avvicinano un po’ a quelle dei disegni. Entrambi poi sono caratterizzati da un forte elemento ironico. Il tuo immaginario inoltre sembra provenire dalle subculture della strada. Sono attratto dal processo di sintesi che riesce a esprimere un messaggio con segni essenziali, mi viene in mente Keith Haring; la street art è una dimensione dalla quale attingo, riportando nel mio mondo i tratti più veloci, semplici, crudi. Il disegno costituisce tuttavia la base della tua pratica artistica. Nei disegni il tema ricorrente è quello dello scontro tra natura e uomo. Cioè di come l’uomo, attraverso mezzi tecnologici avanzati, riesce a consumare sempre più velocemente e in modo compulsivo le risorse naturali di questo pianeta. Ne offre un
Vario ART
Alessandro Gabini
di Simone Ciglia
esempio la serie del 2009 L’anno della scenza: la scienza studia la natura, però alla fine secondo me l’uomo non ci capisce mai un cazzo. Nei miei lavori cerco di inserire elementi pseudo-tecnologici, che portano alla luce questo straniamento. È come se fossimo degli alieni. Io di sicuro sono un alienato. Dall’espansione del disegno su scala tridimensionale nasce la scultura. Le sculture nascono da una necessità. Disegnando e avendo sempre a che fare con la bidimensionalità, all’inizio cercavo di superarla staccando i quadri dalla parete. Quelle che dapprincipio erano pensate come opere da parete piano piano si sono trasformate in vere e proprie sculture. Queste sono più che altro una specie di packaging: una superficie bidimensionale che – attraverso delle pieghe – riesco a far diventare tridimensionale. Le sculture mantengono sempre un link con il foglio, oltretutto sono fatte di cartone. Non mi veniva in mente di fare delle sculture in senso classico. Questa è più una sfida, un partire dal bidimensionale per arrivare a una terza dimensione. Le sculture risultano più come dei monoliti, delle specie di simboli. Non ci sono molte similitudini tra sculture e disegni, potrebbero appartenere a due autori diversi. Rimango anch’io stupito di questo aspetto. È bello quando fai qualcosa che prende una sua direzione, che non riesci a controllare, va al di là di te, è un aspetto terapeutico del fare arte. Spesso, in occasione di mostre, realizzi anche delle perfomance. Come la scultura, anche l’aspetto performativo è nato dal desiderio di entrare nelle tre dimensioni. Non so se è per il fatto di provenire dalla musica – in cui devi metterti in gioco fisicamente – ma il semplice gesto di attaccare dei quadri nelle mostre non mi soddisfaceva completamente, per cui sono sfociato nella performance. È l’ultima cosa che mi viene da fare, e lo faccio quando mi riesce spontaneamente. Infatti è impegnativo portare nell’ambiente dell’arte elementi diversi che si mischiano tra loro. Bisogna trovare la situazione giusta per proporre determinate cose. Anche se adesso sei principalmente a Roma, la tua formazione è avvenuta a Pescara. Come pensi che questo contesto abbia inciso sulla tua opera? Il posto in cui stai influenza parecchio le cose che pensi e che vai a fare. A me dà i temi fondamentali di quello che vado a disegnare. Inoltre in tutto il primo disco sono racchiuse delle cose della mia vita qui. Nella mia attività artistica il contesto di Pescara si riverbera con un senso di sarcasmo, di cinismo. Mi fa uscire un lato abbastanza pessimistico, forse. Nella provincia c’è qualcosa che inizia con la noia e si trasforma in atteggiamento nichilistico e del chissenefrega: non dare un senso alle cose ma sorvolare un po’ su tutto e fottersene. Una cosa che è anche vicina al punk, per cui le cose si mischiano. Da un punto di vista pratico non mi ha aiutato molto rispetto alla divulgazione del lavoro ma anche rispetto a un atteggiamento che posso aver acquisito. Venire dalla provincia ti dà da un lato molta forza, dall’altro questa forza c’è chi riesce a capirla e incanalarla e chi ne viene sopraffatto.
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 20x30
Foto Claudio Carella
Senza titolo, 2009, cartone microondulato, marker
Fontana, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011cartone microondulato, pompa idraulica, acqua, inchiostro (foto Claudia Ferri)
Today’s art takes varied routes and is founded on the encounter and contamination of the various media. Alessandro Gabini (Pescara, 1976) belongs to this trend, but his true identity is that of musician. Music represents the main matrix of his artwork: as a disposition, imagination and thematics. The absence of an academic background explains his predilection for a non-mediated type of expressiveness, which lies at the heart of all the forms in which it is expressed –drawing, sculpture and performance. In fact, his formal universe is governed by a formal crude quality and a raw brush-stroke. What definition would you give of your work? My work is very varied, but what I do always stems from my interest in the contrasts in today’s society. The variedness comes from how I express the intuitions I have. Tell me about your studies I don’t have any formal artistic training. When I started, I used mainly to draw. Later, I started experimenting and using acrylics, then I had a wave of figurative oil painting, but it was only a phase, and I went back. Artists like Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus and others who I met at the Città Sant’Angelo Museum Laboratory had a great influence on me - this is perhaps the only “training” I’ve had, if you can call it that. How did you begin? I used to listen to discs at full volume and design the covers (Iron Maiden, Guns N’ Roses). From there on, while skateboarding, I ended up on the hip hop scene(Beastie Boys), which gave rise to my interest in street art. This is why the media I use come from that world, like felt-tip pens, for instance. What I like is a raw stroke of the pen, both in drawing and music - dry, harsh, dampened sounds. One of the main matrixes of your work seems to come from music - in an attitude, the imaginary, your techniques....Even your very identity is dual - you’re a musician and an artist. These two expressive ambits have certain aspects in common: the themes you can find in the lyrics of some songs are a bit like those of my drawings. And there’s also a strong element of irony in both. Your imaginary seems to come from street subcultures. I’m attracted by the process of synthesis which can express a message with essential signs - all this makes me think of Keith Haring; street art is the dimension I draw from, portraying it with swift, raw, simple strokes. Drawing however makes up the base of your art. In my drawings, the recurring theme is the clash between man and nature, that is, how man, by means of advanced technology, is compulsively and rapidly starving the planet of its natural resources. The 2009 series The year of science gives a good example of this: science studies nature, but when it comes to the crunch, mankind is way out. In my work, I try to introduce pseudo-technological elements which can reveal this incomprehension. It’s as if we were aliens - I’m one for sure!
Sculpture originates from the expansion of a drawing onto a three-dimensional scale. Sculpture is born of necessity. While drawing and doing everything on a two-dimensional plane, I used to try to get over it by distancing the paintings from the walls. What started out as works to go on the wall, gradually turned into proper sculptures. These are more than anything else a sort of packaging - a two-dimensional surface which I make threedimensional by means of the folds in it. The sculptures always keep a link with the page, and apart from anything else, they’re made of cardboard. I never felt like doing real sculptures in the classical sense. This is more of a challenge, a departure from the two-dimensional to get to the third dimension. Sculptures are more like monoliths, or symbols. There aren’t many similarities between the sculptures and drawings, they could have been done by two different artists. I myself am always surprised by this. It’s nice when you do something which goes off in its own direction, that you can’t control, it goes outside of you, and that’s the really therapeutic side of art-making. Often you do performances at your exhibitions. Like with sculpture, doing performances stemmed from a desire to enter the three-dimensional. I don’t know if it’s because I come from the music world, in which you have to use the physical dimension, but quite simply having your paintings hanging on the wall at exhibitions didn’t give me any real satisfaction, so I started doing performances. It’s my latest urge, if you like, and I do it when I feel it’s going to be spontaneous, because it’s quite hard to bring all these different elements into art, mixing them all together. You have to be in the right place at the right time for it to come off. Now you spend most of your time in Rome, but you grew up in Pescara. How do you think this context has influenced your work? Where you are has a strong influence on what you think and do. I get basic themes from it, which I then draw. My first disc talks about aspects of my life here. In my activity as artist, Pescara emerges imbued with sarcasm and cynicism. It brings out the pessimistic side of my personality, I think. In the provinces, there is something that starts with boredom, and turns into a nihilistic, couldn’t-care-less attitude, a way of skimming the surface of things and not giving a damn. Something akin to punk, everything mixed up. From a practical point of view, all this has not helped my work to become known, but that may depend on my own attitude. Coming from the provinces on the one hand gives you strength, but on the other, you can either make the most of this strength or allow it to crush you.
Bassofondo, intervento per Daniela D’Arielli, Galleria Cesare Manzo, Roma 2010 (foto Matteo Fato)
Peavey, 2008 cartone microondulato, marker, evidenziatori
Love Distortion, 2008 cartone microondulato, marker, evidenziatori
Alessandro Gabini
Non svegliare il cane che dorme, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011 cartone microondulato, marker (foto Claudia Ferri)
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 20x30
Vario ART
Foto Claudio Carella
Senza titolo, 2009, cartone microondulato, marker
Alessandro Gabini
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 50x70 Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 50x70 Non svegliare il cane che dorme, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011 cartone microondulato, marker (foto Claudia Ferri)
Alessandro Gabini L’arte di oggi segue le vie più diverse e si fonda sull’incontro e la contaminazione di media differenti. In questa tendenza si iscrive anche Alessandro Gabini (Pescara, 1976), la cui principale identità è quella di musicista. La musica rappresenta così la matrice principale della sua opera artistica: come attitudine, come immaginario, come tematica. L’assenza di una formazione accademica spiega la sua predilezione per un tipo di espressività non mediata, che accomuna tutte le forme in cui si esprime: disegno, scultura, performance. Il suo universo formale è infatti governato da una qualità formale grezza e da un tratto crudo. Che definizione daresti del tuo lavoro? Il mio lavoro è molto vario, ma le cose mi nascono sempre da un interesse verso i contrasti presenti nella società in cui viviamo. È vario nella messa in pratica delle intuizioni che si possono avere. Qual è stata la tua formazione? Non c’è: non ho fatto né il liceo artistico né l’accademia. All’inizio mi dedicavo maggiormente al disegno, ed è quello che ho sempre fatto: soprattutto tratto. Successivamente nella sperimentazione sono arrivato all’acrilico, poi ho avuto un’ondata di pittura a olio figurativa, ma si è trattato solo di un periodo. A un certo punto sono tornato sui miei passi. Artisti come Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus ed altri conosciuti al Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo mi hanno influenzato molto: è quella forse l’unica formazione che ho avuto, se la si può chiamare così. Come hai iniziato? Mettevo musica a palla e disegnavo le copertine dei dischi (degli Iron Maiden, dei Guns N’ Roses). Da lì andando sullo skateboard mi sono trovato sulla strada dell’hip hop (Beastie Boys), da cui nasce anche l’interesse per la street art. Per questo i media che uso provengono anche da quell’ambito, come ad esempio i pennarelli. La cosa che mi interessa è il tratto crudo, sia nel disegno che nella musica: anche in quest’ultima preferisco suoni secchi, duri, non riverberati. Proprio nella musica si può riconoscere una delle matrici principali della tua opera: come atteggiamento, come immaginario, come tecniche … Anche la tua stessa identità è doppia, in quanto sei sia musicista che artista. Questi due ambiti espressivi hanno aspetti in comune: le tematiche dei testi delle canzoni infatti si avvicinano un po’ a quelle dei disegni. Entrambi poi sono caratterizzati da un forte elemento ironico. Il tuo immaginario inoltre sembra provenire dalle subculture della strada. Sono attratto dal processo di sintesi che riesce a esprimere un messaggio con segni essenziali, mi viene in mente Keith Haring; la street art è una dimensione dalla quale attingo, riportando nel mio mondo i tratti più veloci, semplici, crudi. Il disegno costituisce tuttavia la base della tua pratica artistica. Nei disegni il tema ricorrente è quello dello scontro tra natura e uomo. Cioè di come l’uomo, attraverso mezzi tecnologici avanzati, riesce a consumare sempre più velocemente e in modo compulsivo le risorse naturali di questo pianeta. Ne offre un
Vario ART
Alessandro Gabini
di Simone Ciglia
esempio la serie del 2009 L’anno della scenza: la scienza studia la natura, però alla fine secondo me l’uomo non ci capisce mai un cazzo. Nei miei lavori cerco di inserire elementi pseudo-tecnologici, che portano alla luce questo straniamento. È come se fossimo degli alieni. Io di sicuro sono un alienato. Dall’espansione del disegno su scala tridimensionale nasce la scultura. Le sculture nascono da una necessità. Disegnando e avendo sempre a che fare con la bidimensionalità, all’inizio cercavo di superarla staccando i quadri dalla parete. Quelle che dapprincipio erano pensate come opere da parete piano piano si sono trasformate in vere e proprie sculture. Queste sono più che altro una specie di packaging: una superficie bidimensionale che – attraverso delle pieghe – riesco a far diventare tridimensionale. Le sculture mantengono sempre un link con il foglio, oltretutto sono fatte di cartone. Non mi veniva in mente di fare delle sculture in senso classico. Questa è più una sfida, un partire dal bidimensionale per arrivare a una terza dimensione. Le sculture risultano più come dei monoliti, delle specie di simboli. Non ci sono molte similitudini tra sculture e disegni, potrebbero appartenere a due autori diversi. Rimango anch’io stupito di questo aspetto. È bello quando fai qualcosa che prende una sua direzione, che non riesci a controllare, va al di là di te, è un aspetto terapeutico del fare arte. Spesso, in occasione di mostre, realizzi anche delle perfomance. Come la scultura, anche l’aspetto performativo è nato dal desiderio di entrare nelle tre dimensioni. Non so se è per il fatto di provenire dalla musica – in cui devi metterti in gioco fisicamente – ma il semplice gesto di attaccare dei quadri nelle mostre non mi soddisfaceva completamente, per cui sono sfociato nella performance. È l’ultima cosa che mi viene da fare, e lo faccio quando mi riesce spontaneamente. Infatti è impegnativo portare nell’ambiente dell’arte elementi diversi che si mischiano tra loro. Bisogna trovare la situazione giusta per proporre determinate cose. Anche se adesso sei principalmente a Roma, la tua formazione è avvenuta a Pescara. Come pensi che questo contesto abbia inciso sulla tua opera? Il posto in cui stai influenza parecchio le cose che pensi e che vai a fare. A me dà i temi fondamentali di quello che vado a disegnare. Inoltre in tutto il primo disco sono racchiuse delle cose della mia vita qui. Nella mia attività artistica il contesto di Pescara si riverbera con un senso di sarcasmo, di cinismo. Mi fa uscire un lato abbastanza pessimistico, forse. Nella provincia c’è qualcosa che inizia con la noia e si trasforma in atteggiamento nichilistico e del chissenefrega: non dare un senso alle cose ma sorvolare un po’ su tutto e fottersene. Una cosa che è anche vicina al punk, per cui le cose si mischiano. Da un punto di vista pratico non mi ha aiutato molto rispetto alla divulgazione del lavoro ma anche rispetto a un atteggiamento che posso aver acquisito. Venire dalla provincia ti dà da un lato molta forza, dall’altro questa forza c’è chi riesce a capirla e incanalarla e chi ne viene sopraffatto.
Anno della scenza, 2009 inchiostro, marker, acrilico fosforescente su carta cm 20x30
Foto Claudio Carella
Senza titolo, 2009, cartone microondulato, marker
Fontana, Atrocity Exhibition, Warehouse, 2011cartone microondulato, pompa idraulica, acqua, inchiostro (foto Claudia Ferri)
Today’s art takes varied routes and is founded on the encounter and contamination of the various media. Alessandro Gabini (Pescara, 1976) belongs to this trend, but his true identity is that of musician. Music represents the main matrix of his artwork: as a disposition, imagination and thematics. The absence of an academic background explains his predilection for a non-mediated type of expressiveness, which lies at the heart of all the forms in which it is expressed –drawing, sculpture and performance. In fact, his formal universe is governed by a formal crude quality and a raw brush-stroke. What definition would you give of your work? My work is very varied, but what I do always stems from my interest in the contrasts in today’s society. The variedness comes from how I express the intuitions I have. Tell me about your studies I don’t have any formal artistic training. When I started, I used mainly to draw. Later, I started experimenting and using acrylics, then I had a wave of figurative oil painting, but it was only a phase, and I went back. Artists like Emanuela Barbi, Enzo De Leonibus and others who I met at the Città Sant’Angelo Museum Laboratory had a great influence on me - this is perhaps the only “training” I’ve had, if you can call it that. How did you begin? I used to listen to discs at full volume and design the covers (Iron Maiden, Guns N’ Roses). From there on, while skateboarding, I ended up on the hip hop scene(Beastie Boys), which gave rise to my interest in street art. This is why the media I use come from that world, like felt-tip pens, for instance. What I like is a raw stroke of the pen, both in drawing and music - dry, harsh, dampened sounds. One of the main matrixes of your work seems to come from music - in an attitude, the imaginary, your techniques....Even your very identity is dual - you’re a musician and an artist. These two expressive ambits have certain aspects in common: the themes you can find in the lyrics of some songs are a bit like those of my drawings. And there’s also a strong element of irony in both. Your imaginary seems to come from street subcultures. I’m attracted by the process of synthesis which can express a message with essential signs - all this makes me think of Keith Haring; street art is the dimension I draw from, portraying it with swift, raw, simple strokes. Drawing however makes up the base of your art. In my drawings, the recurring theme is the clash between man and nature, that is, how man, by means of advanced technology, is compulsively and rapidly starving the planet of its natural resources. The 2009 series The year of science gives a good example of this: science studies nature, but when it comes to the crunch, mankind is way out. In my work, I try to introduce pseudo-technological elements which can reveal this incomprehension. It’s as if we were aliens - I’m one for sure!
Sculpture originates from the expansion of a drawing onto a three-dimensional scale. Sculpture is born of necessity. While drawing and doing everything on a two-dimensional plane, I used to try to get over it by distancing the paintings from the walls. What started out as works to go on the wall, gradually turned into proper sculptures. These are more than anything else a sort of packaging - a two-dimensional surface which I make threedimensional by means of the folds in it. The sculptures always keep a link with the page, and apart from anything else, they’re made of cardboard. I never felt like doing real sculptures in the classical sense. This is more of a challenge, a departure from the two-dimensional to get to the third dimension. Sculptures are more like monoliths, or symbols. There aren’t many similarities between the sculptures and drawings, they could have been done by two different artists. I myself am always surprised by this. It’s nice when you do something which goes off in its own direction, that you can’t control, it goes outside of you, and that’s the really therapeutic side of art-making. Often you do performances at your exhibitions. Like with sculpture, doing performances stemmed from a desire to enter the three-dimensional. I don’t know if it’s because I come from the music world, in which you have to use the physical dimension, but quite simply having your paintings hanging on the wall at exhibitions didn’t give me any real satisfaction, so I started doing performances. It’s my latest urge, if you like, and I do it when I feel it’s going to be spontaneous, because it’s quite hard to bring all these different elements into art, mixing them all together. You have to be in the right place at the right time for it to come off. Now you spend most of your time in Rome, but you grew up in Pescara. How do you think this context has influenced your work? Where you are has a strong influence on what you think and do. I get basic themes from it, which I then draw. My first disc talks about aspects of my life here. In my activity as artist, Pescara emerges imbued with sarcasm and cynicism. It brings out the pessimistic side of my personality, I think. In the provinces, there is something that starts with boredom, and turns into a nihilistic, couldn’t-care-less attitude, a way of skimming the surface of things and not giving a damn. Something akin to punk, everything mixed up. From a practical point of view, all this has not helped my work to become known, but that may depend on my own attitude. Coming from the provinces on the one hand gives you strength, but on the other, you can either make the most of this strength or allow it to crush you.
Bassofondo, intervento per Daniela D’Arielli, Galleria Cesare Manzo, Roma 2010 (foto Matteo Fato)
Peavey, 2008 cartone microondulato, marker, evidenziatori
Love Distortion, 2008 cartone microondulato, marker, evidenziatori