Ritratti eriberto mastromattei

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EribertO MastromatteI

L’uomo che parlava al mare


Eriberto Mastromattei L’uomo che parlava al mare

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Lavorava ogni giorno, in qualunque condiescara è quella che è oggi pure zione climatica, oltre le poche ore di riposo grazie a tante persone comuni, a era un vero “moto perpetuo”. La sua esuloro modo “personaggi”, che nelle beranza, la sua vitalità, erano contagiose: fluenti pieghe e nei maggiori gradi di liberera capace di diventare amico di chiunque tà della nuova città, hanno potuto e saputo e si tuffava in una nuova esperienza con lo esprimere al meglio la loro capacità di instesso coraggio con cui si tuffava dal ponte traprendenza, non solo nelle attività econoRisorgimento nel fiume il giorno di Capomiche e nelle professioni, ma anche nella danno e che, ne sono certo, se ci fosse ancovisione delle identità e del senso di apparra, lo avrebbe ripetuto anche dal Ponte del tenenza che la nascente comunità civica si Mare, per suggellare la sua temerarietà con sforzava di affermare. il luogo ormai più ardito ed emblematico Nell’ambito di questo coinvolgente dinadella sua Pescara. Le sue iniziative sono stamismo, Eriberto Mastromattei è stato un Nicola Mattoscio te fonte di intriganti suggestioni per la città. personaggio davvero particolare. Un uomo Presidente della Un personaggio, dunque, cui la Fondazioche ha profuso tutte le sue energie per acFondazione Pescarabruzzo ne Pescarabruzzo vuole rendere omaggio a crescere l’immagine della città e la sua imdue anni dalla scomparsa, col volume che portanza come centro ineguagliabile del avete tra le mani. Dalle pagine di questo liturismo balneare nel medio Adriatico. bro emerge chiaramente la figura di un uomo che ha saputo Estroverso e stravagante, istrionico e vulcanico, Eriberto è arricchire il “genius loci” su cui lo sviluppo della città ha postato un continuo e instancabile innovatore nell’attività di tuto contare anche grazie a uomini come lui, con la fantasia balneazione: ha per primo introdotto le palme sulla spiaggia, del suo impegno professionale e umano. ha costruito una palestra sul terrazzo del suo stabilimento e i Attraverso il ricordo dei suoi amici, dei suoi collaboratori e famosi campi da tennis lungo la riviera; il suo stabilimento era dei suoi familiari, ammirando le fotografie del suo album un’autentica fucina di iniziative per l’animazione della stessa di famiglia, ripercorriamo insieme le tappe della vita di riviera, di giorno e di notte: le attrazioni non mancavano mai, quest’uomo così eccentrico e laborioso, così profondamendal tradizionale albero della cuccagna ai fuochi artificiali la te interprete dello spirito abruzzese e pescarese che è stato notte di San Giovanni, dalle feste improvvisate a base di spaEriberto Mastromattei. ghetti con le cozze ai ricevimenti in grande stile con i tanti Vip che frequentavano il suo ristorante.


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ultimo ricordo che ho del nonno è il giorno dell’incidente, quel maledetto 1 settembre del 2007. È stata una giornata speciale, aveva organizzato una festa sulla spiaggia con una mega mangiata di rigatoni con le cozze naturalmente pescate da lui: aveva 76 anni e si immergeva ancora fino a 30 metri sott’acqua. Quel giorno mi sono divertita tantissimo al suo fianco, ho aiutato anch’io tutto lo staff composto da familiari e amici più cari. Ricordo la musica, la commedia, la sua esuberanza; il suo entusiasmo ci coinvolgeva tutti… Nel pomeriggio ci siamo salutati, e il saluto, ricordo, fu speciale. Il giorno dopo sarei dovuta partire con mamma e papà per una crociera (mai fatta) così ci siamo abbracciati forte forte… ma non avrei mai pensato che potesse essere l’ultimo. Infatti dopo pochissime ore, mentre stavamo preparando le valigie, una telefonata improvvisa e inaspettata ha freddato i nostri animi. Anche se ho solo 12 anni e quindi sono pochi gli anni trascorsi insieme al nonno ho avuto il piacere e la fortuna di conoscerlo bene, di affezionarmi a lui e soprattutto di viverlo. Faccio tesoro dei ricordi che ho e delle cose che lui mi ha insegnato e a cui teneva in particolar modo. Spesso mi portava sul gommone e le ultime volte che scorrazzavamo su e giù per la costa mi metteva alla guida, desiderava che io prendessi dimestichezza e confidenza col mezzo. Un giorno abbiamo percorso tutto il lungofiume ed essere alla guida era assolutamente emozionante, avevo solo 9 anni. È scontato raccontare che anche grazie a lui a soli 5 anni praticavo lo sci nautico, il tennis, la canoa, la vela, ma ciò che non è scontato e di cui

• Giulia Del Monaco col nonno Eriberto.

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faccio tesoro è una delle sue raccomandazioni: lo studio della lingua inglese. Diceva che avrebbe pagato lui stesso le lezioni extrascolastiche, era importante, ed era una delle cose nella vita che si rimproverava di non aver acquisito. Oggi studio inglese anche in una scuola privata, come lui avrebbe voluto, la scorsa estate sono stata tre settimane in America, adoro studiare l’inglese. Il nonno era molto affettuoso con me, sentivo l’amore che provava ed io provavo lo stesso. In questi giorni ho sentito il desiderio di rivedere diverse registrazioni di momenti , giorni, trascorsi con lui: che bello, eravamo sempre tutti insieme al Jambo. Un’estate mi ha riportato dalla montagna un agnellino appena nato, aveva ancora il cordone ombelicale e lo nutrivamo con il biberon, e in più due coniglietti: uno era tutto bianco e l’altro tutto nero con una zampetta bianca… graziosissimi! Sono rimasti lì al Jambo a pascolare per tutta l’estate. Tutto questo per me, per farmi vivere emozioni diverse dagli altri bambini che vivono in città. Nelle videocassette ho visto cose che non ricordavo, ero troppo piccola. Il giorno della mia prima befana mi fece trovare un fuoristrada tutto infiocchettato… Il nonno è sempre tra noi, durante il giorno c’è sempre qualcosa che ce lo ricorda! Spesso il mio desiderio è quello di poter prendere anche il suo cognome, in tante occasioni ho riscontrato la sua notorietà ed è anche per questo che penso: che orgoglio un nonno così. Giulia Del Monaco nipote di Eriberto


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o conosciuto Eriberto Mastromattei il giorno successivo all’assunzione del Comando della Capitaneria di Porto di Pescara ed è stato subito amore a prima vista. Mi colpì la sua massima disponibilità verso gli amici, un senso di appartenenza al mare che amava e soprattutto temeva e rispettava, un amore profondo per la sua Pescara. Sono tanti i ricordi che si affollano nella mente: Eriberto era estremamente estroverso, anche un po’ narcisista, ma tutto quello che faceva scaturiva da un profondo amore per la vita che andava assaporata in ogni momento e, perché no, anche sfidata per conoscere i propri limiti. Come non ricordare l’incendio dell’enorme pupazzo di paglia a Ferragosto, oppure il mare antistante lo stabilimento illuminato, di notte, da mille fiammelle; e che dire della Befana (Eriberto) che arrivava dal mare nel porto di Pescara sugli sci d’acqua o dal cielo calandosi da un elicottero, per portare doni e sorrisi a bambini e adulti (chissà perche a me capitava sempre un po’ di carbone?). Eriberto in queste e tante altre iniziative riusciva a coinvolgere e motivare tutta Pescara e provincia elevando a rango di “evento” le sue zingarate, e contribuendo in modo incisivo a dare una dimensione turistica alla città. Eriberto manca a Pescara e mi manca: mi manca l’allegria che sapeva trasmettere, mi manca la sua generosità d’animo, il suo senso di profonda e sincera amicizia, la disponibilità all’avventura, alla curiosità del nuovo, al desiderio di conoscere, ma soprattutto mi mancano i suoi sogni di cui mi rendeva partecipe e, perché no, qualche volta complice. Ciao Eriberto Ammiraglio Ispettore Capo (CP) Sergio De Stefano Ex Comandante Capitaneria di Porto di Pescara

• Nella foto grande Eriberto sulla vela della sua paranza. Qui sopra, dall’alto, in versione marinaio, sciatore e un ritratto, col suo contagioso sorriso.

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Inconfondibile Eriberto di Marco Patricelli

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l destino nel nome. Si fosse chiamato banalmente Paolo, o Giuseppe, o Antonio, sarebbe stata forse un’altra storia. Ma i genitori lo battezzarono Eriberto, e in quelle quattro sillabe racchiusero un modo d’essere e di apparire. E di farsi riconoscere accantonando il cognome, una specie di zavorra della popolarità. Eriberto: basta la parola. Una caratteristica di pochi. Era nato nel quartiere dei ferrovieri, e portava il marchio a fuoco di una città senza identità, con un’antica vocazione per il mare e per la pesca, e una palese difficoltà a riconoscersi nel secolo breve. La ferrovia aveva portato l’humus per lo sviluppo, perché commercio e turismo erano molto in là da venire. Era quella la matrice di Pescara, la città giardino che non era ancora una città, che si spandeva in quartieri separati l’uno dall’altro, dalle casette basse e dall’edilizia pubblica su cui il fascismo metteva il suo marchio estetico e che i bombardamenti americani risparmieranno. C’era la pineta, c’erano le dune, c’era il mare incontaminato. Non c’erano i palazzi. Il sacco edilizio non era neppure dietro l’angolo: chi avrebbe potuto immaginarlo? L’Adriatico si vedeva da qualunque punto, non lo si deve indovinare come oggi. Le automobili erano un desiderio e ci si accontentava di sognare con la colonna sonora del rombo dei bolidi che partecipavano alla Coppa Acerbo. Eriberto Mastromattei nasce nel borgo dove ferrovieri e orari erano pane quotidiano. Il mare a due passi. Lui veniva dal passato per proiettarsi nel futuro, che immaginava come un visionario istintivo, che fiutava le novità nell’aria impregnata di salsedine. Le regole che rispettava erano le sue: le altre le piegava, le plasmava, o semplicemente le ignorava perché non facevano parte del suo mondo d’acqua e di sabbia. La scuola come un ostacolo, la burocrazia come un nemico. I poeti e i sognatori non si lasciano intrappolare dai lacci di chi vuol ridurre tutto a sintassi e realtà scientifica.

Schietto, diretto, a volte ruvido. Furbo come un marinaio scafato, lampi di intelligenza viva non corroborata dalla cultura scolastica. Da prendere con le molle, senza mediazioni: era fatto così, inutile pensare di imbrigliarlo. Era facile andare d’accordo con lui, e nello stesso tempo era molto difficile, a volte impossibile. Eriberto era un uomo sempre impegnato e impegnativo per chi gli stava attorno, di un iperattivismo che mandava fuori giri e fuori strada chi non era come lui. Esuberante come un merlin nell’oceano; ne sono dimostrazione i suoi spettacolari tuffi di capodanno nel fiume. Non seguiva le mode: le creava. Ci sguazzava in mezzo. Il suo microcosmo era dato dal suo mare e dalla sua Pescara. Ci credeva, in questa “città della fuga in avanti”, e la frase di Pomilio la sentiva sua, anche se assai probabilmente non l’aveva mai letta su un libro. E non solo di Pomilio. Era un mix di ingenuità e di genialità. Aveva copiato, riadattandolo, quello che funzionava altrove, e inventato quello che ci voleva o che lui voleva ci fosse. La Pescara della riviera a cavallo tra gli Anni ‘70 e ‘80 era un luogo fisico, non un luogo di attrazione. All’imbrunire si spegnevano le luci, ma in controtendenza si accendevano i riflettori di Eriberto, sullo stabilimento dei vip e sui campi da tennis nati dal nulla. Non esisteva la movida e neppure il popolo della notte, ma come falene i pescaresi accorrevano in quell’oasi di energia anche per vedere incontri di tennis perfettamente velleitari o dai risvolti fantozziani, tra i personaggi che segnarono quell’epoca e che erano diventati appunto personaggi perché frequentavano Eriberto. Avere in quello stabilimento un ombrellone era una specie di colpo di reni verso l’alto. Finché lui non decise che l’ombrellone faceva troppo “colonia marina” e si inventò le palme. Oggi ce l’hanno tutti i gestori degli stabilimenti, allora soltanto lui e qualcuno schiumava rabbia e lasciava serpeggiare critiche

• La storica foto che ritrae Eriberto mentre si tuffa dal ponte il giorno di Capodanno con una motocicletta davanti a una folla di ammiratori.

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velenose sui prezzi che non erano esattamente popolari (come se oggi lo fossero...). Eriberto, dalla tolda che si era fatta installare in spiaggia, guardava oltre l’orizzonte dell’immediato, incurante, o forse un po’ dispiaciuto perché gli altri non erano come lui. Un altro pescarese prima di lui si era fatto piazzare una nave lontano dall’acqua, Gabriele d’Annunzio al Vittoriale. Eriberto forse lo sapeva, forse no. Dicessero pure che era megalomane, ma quando imboccava una strada la concorrenza si era già persa su quella che lui aveva già abbandonato. Chi frequentava il suo stabilimento e il suo arenile era qualcosa di più di un cliente. Eriberto era una presenza fissa, faceva parte del canone di noleggio come accessorio di cui non si poteva fare a meno. Il cappellone di paglia ne faceva un personaggio di Hugo Pratt, la pelle cotta dal sole che sembrava cuoio, il sorriso che non mancava mai e quegli occhietti piccini capaci di mandare lampi. Anche a vederlo non più giovanissimo capivi perché il cinema si era interessato a lui. Ma Eriberto non si era interessato al cinema e quel flirt era finito così. Il pirata pescarese scorrazzava sul solo Adriatico “verde come i pascoli de’ monti”. Capace di fulminee intuizioni e irrefrenabili impulsi. Si era inventato il pontile, che subito era diventato “il pontile di Eriberto”. Un elemento caratterizzante della città, meta di chiunque volesse provare l’ebbrezza di un tuffo. L’aveva costruito insieme ad amici, in barba a ogni cavillo burocratico, da mestierante dell’ingegneria e dell’architettura. Aveva lanciato l’idea di un’isola artificiale super-attrezzata che avrebbe voluto veder nascere dalla spuma dell’Adriatico pescarese. Naturalmente aveva riempito la città di volantini fantascientifici, senza aver avuto però la soddisfazione di trovare una sponda, nella stanza dei bottoni, per rilanciare quel progetto dalla carta alla costruzione. Quando faceva sul serio, non riusciva a farsi prendere sul serio.

Ogni giorno Eriberto dalla tolda di comando diffondeva i suoi “pensieri” attraverso microfono e altoparlanti. Era uno spasso ascoltarlo. Schivava le trappole della grammatica come uno skipper alle prese con uno specchio d’acqua minato, si avventurava nella sua “filosofia balneare” come un esploratore nel batiscafo, lanciava bordate come il cannoniere di una corazzata che non teme di incassare. La prudenza, la diplomazia e l’opportunismo non gli appartenevano. Ironia a piene mani, comicità volontaria e involontaria, che avevano appeal non solo per quel che diceva ma anche per come lo diceva, con la sua vocetta rasposa e stridula. Anche questa potevi riconoscerla tra mille: un altro marchio di fabbrica. Imprevedibile. Gli bastava ascoltare che qualcuno si lamentava per il caldo, allora lui saliva sugli spalti dei campi da tennis, prendeva la pompa e innaffiava chiunque capitasse lì sotto. Agiva prima di pensare. Era fatto così. Quando si inventò Jambo, a due passi da quello che era stato lo stablimento dei vip e il ristorante della gente che contava, non voleva replicare la ricetta di un successo ma crearne un’altra. E tanto per far capire che “il pirata” era tornato, si piazzò sull’aiuola di fronte un mini veliero che pareva uscito da una tavola di Walt Disney. I pescaresi rimasero a bocca aperta, molti apprezzarono, qualcuno no. Ma nel mare agitato delle grane e delle carte bollate Eriberto navigava come se neppure gli schizzi potessero raggiungerlo. Barra a dritta e avanti tutta. È appartenuto a quella schiera di pescaresi che hanno avuto un solo torto: essere troppo pochi per tracciare la rotta di un’intera città. Se fossero stati di più, o più ascoltati, la cultura, il turismo, il divertimento, sarebbero elementi caratterizzanti e non rapide e luminose comete che attraversano il cielo stellato di Pescara e poi si rituffano nel buio. Eriberto aveva cominciato proprio così: aveva acceso la notte perché il giorno non gli bastava più.

• Eriberto e le sue acrobazie sugli sci d’acqua. Nella pagina a fianco uno dei suoi ultimi ritratti, davanti al Jambo con una delle sue conchiglie.

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Pescara com’era Giuseppe Quieti

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l suo aspetto vissuto, da uomo di mare, il suo modo di parlare apparentemente rozzo, nascondevano un animo raffinato. Eriberto ha interpretato bene la “pescaresità”, con i suoi valori di riferimento di stampo antico ma con una mentalità costantemente rivolta al futuro. Ha avuto grandi intuizioni, è stato un precursore e sempre un personaggio: aveva carattere e carisma, era un uomo buono e amava Pescara disperatamente. La immaginava sempre più grande, bella e operosa. Ha fatto bene l’amministrazione comunale a non dimenticarlo intestandogli un tratto della riviera nord che è stato per tanti anni il suo territorio e il suo palcoscenico. Ho conosciuto Eriberto semplicemente stando a Pescara ed essendo anche io –molto meno di lui– un uomo di mare. Uno che ama il mare vuol dire che ama tutto: la spiaggia, nuotare, andare in barca, a motore o vela non importa, purché si abbia a che fare con il mare. E al mare Pescara deve le sue fortune, oltre a un territorio favorevole (come disse Vittorio Emanuele in occasione di una sua visita: “che bel sito per una grande città commerciale”); molto ha fatto per Pescara anche la ferrovia. Ed è dal Rione Ferrovieri che nasce il personaggio Eriberto. Agli inizi del secolo il fiume divideva la città e soprattutto divideva due province: Castellamare faceva parte di Teramo, ed era la zona che oggi chiamiamo di Pescara colli. La parte davanti alla spiaggia era una serie di case dove spesso si trovavano i teramani in vacanza. Il Rione Ferrovieri nasce in quella situazione, in quel contesto in cui il fiume divide Castellamare da Pescara, e Pescara era semplicemente un borgo di pescatori. La città non aveva una sua fisionomia ben delineata: avrebbe sorpreso tutti negli anni ‘60 con il suo sviluppo edilizio e commerciale. Pescara era nata nel primo dopoguerra sull’idea del famoso urbanista Luigi Piccinato: Pescara come “città-giardino”. In questa città comin-

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ciarono ad apparire dei personaggi che più tardi fecero non la storia, ma la cronaca della città, e tra questi anche Eriberto. Nella parte bassa di Pescara, nei primi anni ‘20 si sviluppa il Rione Ferrovieri, sorto in seguito all’arrivo della ferrovia e alla costruzione della stazione. La ferrovia è stata occasione di sviluppo per Pescara, ma anche fattore di divisione perché divideva la città in due parti, a est e a ovest dei binari; e ne ha impedito per lungo tempo lo sviluppo, finché non è stata poi sopraelevata grazie all’interessamento degli onorevoli Spataro e Gaspari. Immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale, la vita per i giovanissimi e per i bambini non era facile: Pescara era un cumulo di macerie disseminate di ordigni bellici inesplosi, ma i bambini, per ignoranza o, anche, per incosciente sfida al rischio, avevano eletto i cumuli di detriti, mattoni e calcinacci a luogo preferito per ì loro giochi. Lungo la riviera, prima che fosse completamente sminata, anche le famiglie cosiddette benestanti non se la passavano bene. Pescara era già una città balneare. La spiaggia era relativamente integra e non era così vasta e così lunga come adesso. Per chi abitava in Corso Umberto arrivare –per esempio– alle “4 vele” era un viaggio: la dimensione era più intima, tutti si conoscevano. C’erano solo due autobus, c’era la ferrovia e la stazione –anch’essa presa di mira dai bombardamenti e piuttosto malridotta anche se l’edificio centrale era rimasto miracolosamente intatto– e poi nacquero una serie di attività dovute alla sua posizione strategica: c’erano gli uffici, il palazzo del governo e il palazzo del Comune, quello delle Poste, che erano palazzi monumentali. Anche se non ne dà l’impressione, Pescara ha avuto una storia antica, che risale al tempo dei romani: c’era la Tiburtina, collegamento


• Paranze lungo il molo di Pescara, 1910 circa

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con Roma, e l’imperatore romano Antonino Pio, che era un geografo, calcolò la distanza tra Pescara e Spalato con la stessa precisione con cui siamo in grado di calcolarla adesso. Pescara era il porto di Roma per quanto riguarda l’Adriatico. Un personaggio come Eriberto nasce essenzialmente in un contesto provinciale, come altri personaggi popolari della Pescara dell’immediato dopoguerra. Ne ricordo alcuni: c’era un vecchietto, un ex fantino molto piccolo, basso di statura che si chiamava Vincenzo “lu ciccaro”. All’epoca si aveva l’abitudine di buttare per terra le cicche, allora lui, con un bastone con un chiodo in punta, raccoglieva tutte le cicche che trovava e ne faceva una miscela di tabacco che vendeva, e aveva i suoi estimatori… Poi c’era Antonio “lu furzante”, uno che si sdraiava per terra, si metteva sul petto delle grosse pietre che il figlio, robusto quanto il padre, frantumava colpendole con un martello da spaccapietre . Un personaggio da baraccone. Certo, erano spiriti molto diversi da quello raffinato di Eriberto, però erano anch’essi dei personaggi: personaggi tipici da “paesone”, come era allora Pescara. L’unico cinema era il Centrale, il famoso “pidocchietto” di fianco alla chiesa del Sacro Cuore. Davanti al cinema c’era una signora che vendeva ceci e fave: tutti quelli che andavano al cinema ne compravano per cui nella platea c’erano due file, quelle immediatamente sotto la galleria, che rimanevano sempre vuote perché la gente che andava su in galleria mangiava questi ceci e fave e sputava di sotto le bucce. Eriberto ha mantenuto comunque, a prescindere dalla sua estrazione sociale e dalla capacità economica della sua famiglia, un tratto umano di semplicità, di genuinità, di verità assolutamente unico. Aveva grande rispetto per gli altri e aveva grande rispetto anche per la miseria. Aveva la capacità di interessarsi subito alla condizione umana dell’interlocutore: quando lui chiedeva “come stai” non era mai una domanda formale, gli interessava veramente. Era al di là delle convenzioni. Eriberto era molto amato e rispettato dai politici dell’epoca, anche se la riviera non è stata seguita, nel-

• La spiaggia antistante lo stabilimento dei bagni caldi (anni ‘30-‘40)

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la sua nascita, da una grandissima attenzione da parte degli amministratori, poteva svilupparsi meglio: penso ad alcune costruzioni fatte in maniera approssimativa, alla realizzazione di cabine o spogliatoi non perpendicolari alla spiaggia ma parallele, così da coprire la vista del mare; al fatto che qualcuno considerasse la parte dello stabilimento che si affaccia sulla riviera una parte secondaria e non principale; ad alcune improvvisazioni; recinzioni e colori degli stabilimenti, che non hanno avuto un piano. Ma anche qui Eriberto si distinse realizzando, per esempio, i campi da tennis. È vero che anch’essi oscurano la vista del mare, ma non sono muri o palizzate, costituiscono elemento di attrazione, e tanta gente si ferma a guardare le partite. Quando Eriberto cominciò la sua attività la riviera non era un posto sicuro e la vita non era quella di oggi. Negli anni 50 la fortuna di questa zona di Pescara furono le aggregazioni di giovani che si riunivano attorno a un juke box in luoghi mitici come 4 Vele o Croce del Sud, la cui vita, però, non andava oltre il tramonto. Eriberto aveva sprezzo del pericolo, e cominciò le sue esibizioni con i tuffi dal ponte. Sono gesti dal sapore mitico, che richiamano tra l’altro episodi storici, come la morte di San Cetteo che nel 500 d.C., quale Vescovo di Pescara, tentò di dirimere una disputa sorta tra due fazioni che governavano la città. Il suo intervento fu frainteso dalla fazione che prevalse, e questa lo sacrificò, gettandolo giù dal ponte con una corda al collo. Il suo corpo –qui si entra nella leggendavenne trasportato dal fiume in mare e di lì raggiunse le coste della Dalmazia, dove venne ripescato da un pescatore che vedendolo con una corda al collo lo considerò un martire. Il cadavere, cui venne dato il nome di Pellegrino, fu sepolto e dalla sua tomba una notte uscirono luci, probabilmente fuochi fatui, che vennero scambiati per un evento soprannaturale. Il pescatore aveva un figlio cieco, lo portò a pregare su quella tomba e il figlio riacquistò la vista. Il Vescovo del luogo venne a sapere della morte di un suo collega a Pescara, così il corpo fu restituito alla città e san Cetteo divenne il patrono di Pescara e di Zara.


• Il ponte Littorio e una veduta del litorale pescarese (anni ‘30-’40)

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Il rione ferrovieri Costanzo Elio De Carlo

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riberto era nato nel 1931 in Viale Sabucchi, dove la sua e la mia famiglia abitavano in due villini vicini del Rione Ferrovieri. Viale Antonio Sabucchi –una strada lunga circa duecento metri che collega il parco di Villa Sabucchi al mare– è oggi una delle strade più caratteristiche di Pescara. Ai lati della via si ergono i villini superstiti della schiera di case costruite per ospitare i dipendenti delle Ferrovie e che costituirono, per l’appunto, il Rione Ferrovieri. Questo rione, edificato negli anni 1922-24, fu uno dei primi esempi, in Italia, di rione “satellite”: era staccato, e alquanto lontano, dalla città. Nel 1922 la Società Cooperativa Ferrovieri “Casa Nostra” dà inizio alla costruzione, sui due lati di Viale Sabucchi, di 15 villini bifamiliari, 2 palazzine e 5 edifici a schiera quadrifamiliari, in stile liberty, su tre piani, con giardino recintato, destinati ad ospitare –dalla primavera del 1924– 58 famiglie di dipendenti delle Ferrovie dello Stato di ogni mansione e grado, che costituivano un gruppo sociale omogeneo. Il Rione era folto di pini che costeggiavano Viale Sabucchi; ogni villino aveva il suo giardino ben curato. Nei primi anni, il Rione era isolato dal resto della cit-

• Mappa del Rione Ferrovieri e Villa Sabucchi

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tà, ma dopo l’unificazione, nel 1927, di Castellamare e Pescara in un unico comune, iniziò un certo sviluppo urbanistico e opere importanti ruppero l’isolamento del nostro quartiere. Si cominciò a costruire in direzione nord; il Viale Regina Margherita (ex Viale dei Pini) fu prolungato, nel 1928, fino a congiungersi con Viale Sabucchi; la nuova ferrovia Pescara-Penne, nel 1929, attraversò il Rione da una “breccia” aperta nelle mura di Muzii, che creò anche un utile accesso al nord; fu proseguito il Viale della Riviera con la costruzione, nel 1931, sull’antico tratturo lungo il mare, della strada litoranea Pescara-Montesilvano, oltre via Muzii. In uno dei villini del Rione Ferrovieri viveva la famiglia del Capo gestore principale delle Ferrovie Erminio Mastromattei, dove nel 1931 nacque, ultimo di sette figli, Eriberto. La vita del Rione Ferrovieri si consumava in strada. La sua distanza dalla città influiva su noi ragazzi che, sebbene dediti agli studi e allo sport, conducevamo una vita di borgata fatta di scherzi, di avventure, di esperienze che cementarono la nostra amicizia e crearono un senso di appartenenza e un forte spirito di gruppo. Eriberto entrò in quella schiera di giovani appena superata la prima infanzia e si abbeverò al clima da “amici miei” che dominava la vita di strada. In tale clima, coloro che vi partecipavano erano costretti a sprigionare creatività e vivacità, se non altro per motivi di sopravvivenza. Poi, c’era il mare. Averlo a poche decine di metri dalle case, così a portata di mano, ne fece una palestra per formare il fisico e il carattere dei ragazzi del Rione. L’Adriatico, davanti ai villini dei ferrovieri, era un incanto: una bellezza di selvaggia natura. Si raggiungeva, alla fine di Viale Sabucchi, attraversando la riviera e poi le dune dell’arenile, sulle quali stentava una vegetazione spontanea. La spiaggia aveva una sabbia ancora intatta e asciutta fino a pochi metri dalla battigia; il mare era trasparente e se ne potevano vedere i fondali anche in acqua alta; era pieno di vita per la presenza, fin presso


la riva, di una fauna varia. Ricordo che il signor Erminio, padre di Eriberto, aveva un fisico forte, atletico. Possedeva un “sandolino”, una specie di canoa allora molto in uso, col quale godeva il mare insieme ai figli. D’estate, lo vedevo uscire di casa in pantaloncini, il sandolino su una spalla, diretto al mare accompagnato dai due figli più piccoli, Elisabetta ed Eriberto. Eriberto ha costituito l’espressione più alta della creatività e della vivacità dei ragazzi del Rione che si formarono e vissero la prima giovinezza negli anni tra il 1935 e il 1950, e tale rimase per l’intera città fino alla sua scomparsa. La vita del nostro “clan”, diviso per classi di età, si sviluppava fra scherzi di ogni tipo in cui venivano messi alla prova soprattutto la prontezza di spirito, l’intuito e la capacità di reagire. Potrei elencare decine di episodi che, naturalmente, si concludevano con una risata generale e lazzi pungenti. Io lo avevo accolto nel nostro gruppo quando aveva circa 8 anni, anche se in quel periodo la differenza di età costituiva remora all’assimilazione. Lo ricordo attivo e vivace, specie nelle riunioni serali che si svolgevano a conclusione di faticose, scatenate e sempre divertenti giornate. Voglio raccontare solo un episodio. Tra i vigili urbani ce n’era uno soprannominato “Paparazza”, stante la sua incipiente obesità che lo rendeva simile ad una vongola (una paparazza, appunto). Una volta questo vigile intervenne per interrompere una partita di pallone sulla spiaggia: avevamo infastidito una signora. Il vigile sequestrò la palla. Allora ci impossessammo della bicicletta

che il vigile aveva imprudentemente lasciato sul muretto antistante la spiaggia e, chiamandolo a gran voce, lo invitammo a ridarci la palla altrimenti non avrebbe riavuto la sua bicicletta. Seguì un inseguimento farsesco che si concluse mezzora dopo con il vigile stremato che dovette restituirci la palla per riavere la sua bicicletta. Eriberto fece sempre “base” nella zona, non dimenticando mai i compagni della prima giovinezza e sempre coinvolgendoli nelle sue iniziative che non sempre andavano a buon fine. Che cosa non fece! Ebbe perfino l’opportunità di entrare nel mondo del cinema, ma rifiutò per non lasciare Pescara e il suo mare. Era il 1947. In quello stesso anno, l’esibizionismo e l’istrionismo di Eriberto avevano già trovato un altro canale di sfogo. Nell’anno precedente, dalla Capitale era giunta notizia che un certo Rick De Sonay, un italo-belga, aveva inaugurato il nuovo anno compiendo uno spettacolare tuffo nel Tevere. “Mister Ok”, era stato subito chiamato, dal gesto che aveva fatto appena riemerso. A Eriberto, che nutriva per la sua città un amore smisurato, venne subito da pensare che Pescara, per quanto piccola, non doveva essere seconda a nessuno: avrebbe avuto anch’essa il suo tuffatore. La mattina di Capodanno del 1947 uscì di casa salutando: “Mamma ciao, vado a fare un tuffo al fiume”. Così, come fosse la cosa più normale del mondo. Nessuno immaginava che cosa stesse per fare, tranne gli amici che gli avevano organizzato tutto. A mezzogiorno un folto gruppo di persone affolla il lato mare del Ponte Risorgimento per vedere il giovane Eriberto compiere il primo dei tuffi che lo avrebbero reso famoso.

• Bagnanti davanti al Nettuno, stabilimento pescarese edificato come altri su palafitte

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La famiglia Mastromattei

• La famiglia Mastromattei ritratta da papà Erminio. Da destra la mamma Anita con i figli Luigi, Lucilla, Adriana, Ernesto, Enrico, Elisabetta e Eriberto

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a famiglia Mastromattei era benestante. Erminio, il padre di Eriberto, ricopriva un ruolo dirigenziale nelle Ferrovie e sposò Anita De Sanctis, figlia di un medico. Insieme ebbero sette figli (Luigi, Adriana, Enrico, Lucilla, Ernesto, Elisabetta e Eriberto) che crebbero in un ambiente sano, dove regnava la buona educazione improntata ai valori della famiglia, dell’amicizia, della lealtà e della generosità. Essendo la loro condizione sociale superiore a quella di molte altre famiglie (la madre Anita desiderava che le figlie studiassero musica, e comprò appositamente un pianoforte), i genitori educarono i figli ad essere generosi, a donare, a non pensare solo a sé stessi. Eriberto nasce quindi in questo contesto, il Rione Ferrovieri, realizzato tra la villa della Marchesa Sabucchi e il mare, nel quale tutti si senti-

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vano parte di una grande famiglia, e resterà fedele a quei valori per tutto il resto della sua vita. Il mare è a poche decine di metri dal villino Mastromattei e Eriberto muove i suoi primi passi sulla spiaggia. Poco dopo impara anche a nuotare: il padre possedeva un sandolino e ci portava tutta la famiglia impartendo ai più piccoli le prime lezioni di nuoto. Non molti anni dopo fu Eriberto a prendere possesso dell’imbarcazione e ad avventurarsi in mare con i suoi compagni. Il sandolino era una piccola canoa, nominalmente monoposto, ma sul quale salivano spesso in due o tre ragazzi, azionando l’unico remo alternativamente a destra e sinistra. Prendevano il mare dalla spiaggia antistante viale Sabucchi, e non si limitavano a farlo con la bonaccia: a Eriberto, in particolare, piaceva dimostrare la sua


• In alto i genitori di Eriberto, Erminio Mastromattei e la moglie Anita; Eriberto con la mamma negli anni Settanta. Nella foto grande, Eriberto da piccolo.

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abilità affrontando il mare anche con acque per niente tranquille. La vita nel rione Ferrovieri non si svolge solo sul mare: Eriberto va a scuola, e spesso nei voti di condotta emerge il suo carattere esuberante. Ma sapeva bene che lo studio era una cosa importante, un valore che poi trasmetterà a tutti i suoi figli e anche ai nipoti. Durante la guerra, quando cominciano i bombardamenti su Pescara, la famiglia fu costretta, come tantissime altre, a lasciare l’abitazione nel Rione Ferrovieri e a trasferirsi in zone meno pericolose. È il settembre del 1943 e i Mastromattei si rifugiano a Santa Lucia di Collecorvino, dove restano per più di un anno in un casolare di campagna, ospiti presso una famiglia che gli mette a disposizione il granaio. Anche in quel drammatico frangente Eriberto si mostra aperto e solare, trova in ogni cosa il lato positivo. La vita a Santa Lucia è ben diversa da quella che la famiglia conduceva a Pescara, ma il giovane Eriberto si sente a suo agio con i contadini e con gli altri membri della famiglia che li ospita. Nei primi giorni di ottobre del 1944 la famiglia Mastromattei fa ritorno finalmente a Pescara, ormai ridotta a un mucchio di macerie, e trova miracolosamente intatta la casa di Viale Sabucchi. Tutti cercano di riprendere le vecchie abitudini: i fratelli maggiori si dedicano agli studi, riprendono ad andare a scuola, si iscrivono all’università. Eriberto esprime ai genitori il suo desiderio di lavorare sul mare. Con l’aiuto del padre ottiene la concessione di un tratto di spiaggia antistante Viale Sabucchi e comincia subito a costruire un casotto di legno sulla spiaggia, il primo nucleo di quello che poco tempo dopo divenne l’Albatros. Facendosi aiutare da un operaio costruisce le cabine, gli spogliatoi, i servizi. Pian piano il progetto prende forma e diventa un vero stabilimento che si aggiunge

• Papà Erminio e i suoi sei figli sul sandolino. Eriberto nascerà dopo qualche mese

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agli altri, già esistenti e ben noti, del litorale pescarese. Ma Eriberto aveva una marcia in più: il suo diventa un luogo frequentatissimo, grazie alla sua personalità e alla sua inventiva. Dimostra, nella gestione dell’impresa, un senso di fiducia nel prossimo che resterà il suo tratto caratteristico anche negli anni a venire. Vende bibite e pizze a tutti, ma spesso fa credito. A chiunque. L’inaugurazione dell’Albatros coincide con l’acquisto di una paranza. Eriberto comincia a navigare con quella barca, per diporto e per pescare. Mette le reti in mare, poi le va a ritirare e distribuisce, gratuitamente, il pescato a quelli che lo aspettano sulla riva. È di questo periodo un episodio che dimostra quanto Eriberto tenesse alla sua città, alla sua famiglia e al suo mare. Aveva circa sedici anni quando il padre decide di fargli fare un provino a Cinecittà. Eriberto da giovane è un gran bel ragazzo: atletico, prestante, già piuttosto facile all’esibizionismo e molto fotogenico. Il viaggio a Roma è fruttuoso: la commissione che esamina il giovane Mastromattei lo trova decisamente interessante e gli viene anche consigliato di seguire un corso di recitazione per l’anno a venire, naturalmente previo trasferimento nella Capitale. Si delinea una prospettiva di lavoro molto ambita e remunerativa per lui, ma qualche giorno più tardi il giovane Eriberto decide che stare lontano dal mare e dalla sua famiglia è per lui un sacrificio troppo grande, e rinuncia. Il mare mette a segno il suo primo colpo nella vita di Eriberto. Una vita fuori dagli schemi, soprattutto per l’epoca: sono tanti gli episodi che disegnano il personaggio fin dalla sua prima giovinezza, come racconta bene Elisabetta Mastromattei, scrittrice e poetessa, che al fratello ha dedicato con amore un romanzo autobiografico recentemente pubblicato dalle edizioni Tracce.


• Un giovane e atletico Eriberto sulla prua della sua paranza

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L’imprenditore della sabbia Eriberto, il balneatore Gabriele Pomilio

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o conosciuto Eriberto quando avevo 14 anni, allo stabilimento Alcione. In quegli anni c’era un altro personaggio che si occupava di sport, e ci allenava per il nuoto e la pallanuoto: Antonio D’Ercole. Qualche volta Eriberto ci prestava il moscone per fare l’allenamento. Siamo nel ’52-’54. L’allenamento con Antonio D’Ercole consisteva nel nuoto, dall’Alcione al porto e ritorno. Ma dovevamo prepararci per i tuffi di partenza e al molo non potevamo buttarci perché era pericoloso, così andavamo a prendere un moscone allo stabilimento Croce del Sud, allora gestito dal padre di Carlo Pace. Una sera arrivò proprio Carlo Pace –erano le sette, l’orario in cui i bagnini smettevano di lavorare– e ci impedì di prendere il moscone dicendo che “era bucato”, e non potevamo servircene. Ma come era possibile, se fino a mezz’ora prima era stato usato dal bagnino? Da allora si prese il soprannome di “Carlo bugia” e quindi il moscone ce lo prestava Eriberto. Spesso fu protagonista anche alla festa di Sant’Andrea, nella processione delle barche. Per la festa di San Cetteo, che si celebrava sul fiume, approntava il palo della cuccagna, ma non in verticale: dalla sua barca metteva in orizzontale il palo insaponato col prosciutto al termine. Essendo sempre stato un uomo di mare lo faceva perché c’era di mezzo l’acqua, per lui fiume e mare erano un tutt’uno. Anzi, si doleva della scarsa valorizzazione che la città dava al suo fiume. La vita di Pescara è sempre stata lontana dal fiume: il centro della città, Piazza Salotto, è a quasi 2 chilometri. Anche Eriberto, certo, ha vissuto la sua vita professionale e personale a una certa distanza dal fiume, però concettualmente per lui fiume e mare erano una cosa sola.

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Eriberto era uno che si interessava allo sport come veicolo per promuovere l’immagine della città. Noi due eravamo amici e avevamo degli amici in comune, e poi il suo stabilimento era il luogo e il centro dove si svolgevano attività, si vedevano persone, era insomma un punto di riferimento della vita cittadina. Di lui va detto senz’altro che era un uomo geniale e quando aveva un’idea diceva: “Prima facciamola e poi vediamo”. Se fosse ancora vivo probabilmente avrebbe realizzato anche il suo sogno di fare un’isola artificiale sul mare di Pescara. Nel ‘66 avevo già aperto l’agenzia di pubblicità e curavo un’ampia clientela sparsa in tutto l’Abruzzo, che era nel suo periodo di massimo sviluppo. Molti dei miei clienti erano frequentatori dello stabilimento, ma i rapporti con Eriberto andavano oltre il semplice “essere clienti” o no: era diventato un punto di riferimento della Pescara che voleva svilupparsi. Proprio in quegli anni Gilberto Ferri, allora presidente della Camera di commercio, mi commissionò una campagna pubblicitaria per la promozione della riviera, che dopo una certa ora si affollava solo di motociclette e automobili: in quegli anni non si usava ancora passeggiare sulla riviera. Ferri promosse una serie di iniziative per stimolare i cittadini a riappropriarsi del lungomare. Lo slogan era “come è bello di sera passeggiar sulla riviera” ed Eriberto già da molto tempo cercava con mezzi suoi di rendere vivibile il lungomare, prolungando la vita dello stabilimento fino a sera tardi. La riviera viveva, allora, in uno stato di abbandono, ma l’iniziativa è la vitalità di Eriberto, unitamente alla campagna della Camera di Commercio, fecero sì che tutti gli altri balneatori si rendessero conto che la riviera poteva vivere anche di sera. Prima di allora la vita sulla riviera si limitava ad alcuni eventi, per quanto importanti, come per esempio un’elezione di Miss Italia svoltasi davanti al Lido, dove c’era una postazione dell’azienda di soggiorno.


• Eriberto in spiaggia

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Questa iniziativa di Eriberto è significativa perché dimostra come tutto ciò che lui facesse, tutte le idee che si faceva venire in mente erano esclusivamente rivolte allo sviluppo di Pescara, alla promozione della sua immagine. In quel periodo esistevano già alcuni stabilimenti storici, come la Croce del Sud, Miramare, Alcione. C’era Grazia, una strana donna molto mascolina, che aveva lo stabilimento che oggi è, credo, il Nettuno: anche lei non avrebbe mai intrapreso un’attività notturna… Fu Eriberto a cambiare le abitudini dei balneatori, per esempio quella di levare gli ombrelloni dalla spiaggia al tramonto: erano gli anni Sessanta, lui fu il primo a lasciarli in spiaggia, li chiudeva e basta. Diceva che non aveva senso, il mattino seguente, perdere del tempo a rimettere a posto gli ombrelloni. Questo comportamento è perfettamente in linea con il suo carattere. Lui dava fiducia tutti, come quando aveva il casotto sulla spiaggia e faceva credito a chiunque. Come diceva D’Annunzio, come nelle botteghe dei rigattieri, quello era un coacervo composto di miseria ignobile e nobiltà scaduta. Mancini, Santomo, Santilli, Raffaele D’Annibale, Adriano Fadda, tutti provenienti da ceti diversi, da esperienze politiche diverse, da culture diverse. L’unico motivo per stare insieme era Eriberto: lui era il collante, era amico di tutti. Aveva costituito questo gruppo completamente trasversale che era quasi come una famiglia. Ricordo che una volta c’erano Edmondo, Fedele, Galeone, e nel ristorante di Eriberto vedemmo i promo di Edmar: erano eccellenti; alla fine il giocatore fu preso ma si era rivelato un disastro: Galeone lo chiamava “lu lebbro”, la lepre, e Eriberto disse: “Ma come è possibile giocare bene se quando ti alzi dalla panchina arrivano bordate di fischi?”. Edmar effettivamente non giocava

• Lavori sulla terrazza dello stabilimento “Eriberto”

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mai e quelle rare volte che veniva chiamato in campo, quando si alzava dalla panchina arrivavano fischi dalla curva… Nello stabilimento di Eriberto si fecero anche alcune presentazioni della squadra di pallanuoto. Una volta, nell’87, Gino Pilota ci portò il grande Senna e facemmo una presentazione della squadra che vinse lo scudetto. Pilota era un altro personaggio… Quando venne Senna lui raccomandò la massima riservatezza e in un men che non si dica l’aveva già detto a tutti gli amici. Risultato fu che già all’aeroporto si trovava un gruppo di persone pronte ad accogliere il grande pilota. Fece la stessa cosa anche con Benetton, che però non venne portato allo stabilimento. Oltre a Raffaele D’Annibale e a Santilli un altro personaggio che aveva un forte legame con Eriberto era Gianni Santomo. Lo stabilimento di Eriberto era anche frequentato da molta gente ricca e Eriberto è stato un simbolo dello sviluppo di Pescara. C’erano i palazzinari: Pescara aveva intorno ai primi anni ‘70 un’attrazione demografica di circa 600.000 persone a settimana; il centro era veramente “centro commerciale”. Forse proprio per questa sua funzione prettamente commerciale la città non viveva il mare. Tra le persone che frequentavano lo stabilimento c’erano naturalmente anche molti commercianti: e proprio per Santilli, per Santomo o per altri Eriberto inventò la pubblicità su una vela. Più tardi lo feci anch’io ma lui l’aveva già fatta… Uno dei personaggi pescaresi del periodo degli anni ‘70 che frequentavano lo stabilimento era Ivan Nacucchi. Di famiglia estremamente ricca, possedeva il palazzo dove c’è il negozio di Italiani. Sempre in bicicletta, rubava rose dai giardini e le offriva alle ragazze; girava con una macchinetta fotografica senza rullino fingendo di fare delle fotografie. Era talmente famoso che a chi non conosces-


• Eriberto e la sua paranza. In basso a destra la vela usata a scopo pubblicitario

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se Ivan veniva detto che non era di Pescara. Proprio a Ivan Nacucchi una notte Eriberto e i suoi murarono la porta di casa… Ivan sperperava un sacco di soldi, e la madre giurò spesso di diseredarlo. Un giorno si sono presentati a casa sua con un sacco, la mattina presto, lui ha aperto mezzo addormentato e questi gli hanno detto che la madre aveva lasciato tutto quanto al gatto; aprirono il sacco e uscì fuori questo gatto e tutti a rincorrere il gatto perché bisognava ammazzarlo… Ivan Nacucchi fu oggetto di un altro scherzo quando c’erano gli altoparlanti che diffondevano le trasmissioni radio sulla spiaggia e gli annunci della Capitaneria di Porto; Eriberto e qualche altro della cricca si recarono alla centrale della radio e diffusero, con la complicità di qualcuno, evidentemente, un messaggio lungo tutta la spiaggia: “Si è perso il piccolo Ivan, indossa un costumino leopardato…”. Ogni volta che c’era un evento sportivo che faceva primeggiare Pescara, Eriberto era in prima linea. Ricordo che quando vincemmo lo scudetto nell’87, era presidente Gianni Santomo, Eriberto stava con noi non tanto per la nostra amicizia ma perché avevamo portato Pescara al primo posto. Lui era così: Pescara e il mare, non vedeva altro. In una seconda fase lo stabilimento era famoso perché il ristorante era uno dei migliori: la gente veniva da fuori per mangiare al ristorante di Michele Cicchini. Eriberto restava comunque un grande pioniere, un innovatore. Pescara era un po’ la Forte dei Marmi dell’Adriatico, era una spiaggia di vip, grazie anche alle idee di Eriberto

• In questa pagina Eriberto in versione “Befana” con Valerio Santilli

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sulla spiaggia: i campi da tennis annessi allo stabilimento oppure le “palme”, che sembrano una stupidaggine ma all’epoca fu una novità e la gente ci veniva anche per quello. Anche nel vestiario Eriberto era particolare, era una sorta di maestro di cerimonia del suo locale. Gli piaceva circondarsi di gente famosa perché sapeva che questo portava lustro e prestigio a Pescara. Gli unici personaggi che non frequentavano il locale se non sporadicamente erano i politici: Eriberto non si è mai circondato di politici, e loro neanche lo corteggiavano. Lui non si è mai buttato in politica e non ha mai cercato l’appoggio delle istituzioni, ha sempre lavorato in maniera autonoma e indipendente. Da lui tutto diventava uno spettacolo: le partite di tennis tra Adriano Fadda e Santilli erano motivo di attrazione, la gente si fermava a guardare. Eriberto aveva un cuore nell’acqua salata. Di lui emergeva un lato umano che oggi gli imprenditori della balneazione non hanno. Un’altra particolarità di Eriberto era che nella sua genialità lui era abbastanza convinto che gli altri non avessero la sua creatività e non fossero in grado di stare al suo passo, perciò preferiva rimanere nella sua zona. Gli unici momenti in cui faceva le sue comparse in centro era per la Befana o per fare i tuffi o per altre sue esibizioni. Non riusciva proprio a stare lontano dal mare e per questo, quando finiva la stagione, spesso faceva viaggi in zone lontane come il Kenya o le Maldive. Dove c’era il caldo, dove c’era l’estate. Dove c’era il mare.


• Eriberto davanti al suo stabilimento con Vincenzo Marinelli e Francesco Martoncelli

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Pescara, capitale dello sport Giovanni Galeone

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riberto? Che fenomeno! È una delle prime persone che ho conosciuto a Pescara. Era luglio, prima della partenza per il ritiro Vincenzo Marinelli mi disse che saremmo andati a mangiare in un ristorante sul lungomare. C’era Michele, un mago della cucina come scoprii in fretta, e lui, Eriberto, ovviamente in costume da bagno, che correva da una parte all’altra della spiaggia, parlava con tutti, spontaneo e diretto pure con il sottoscritto che pure non aveva mai visto prima. Un personaggio unico, un pazzo scatenato, un uomo con il quale era difficile non legare. Lui forse ci marciava pure un po’ recitando questo ruolo naïf e sopra le righe, certo è che lì sul mare era il padrone della situazione. Cominciava alle sei del mattino, andava a ritirare le reti e poi il pesce pescato lo regalava alle vecchine che lo aspettavano sulla spiaggia, la sua giornata andava avanti sempre di corsa, tra cento iniziative e tante idee. Era un fenomeno, ne faceva di tutti i colori: la pesca, lo sci d’acqua, il paracadute, il leoncino sotto la palma, il tennis, e la Befana e tante di quelle iniziative che fai anche fatica a ricordare. Generoso, mai che lo abbia visto nervoso o arrabbiato, sempre pronto piuttosto alla sceneggiata. Quando si dice “Pescara è ‘nu film”, beh, lui era il vero attore protagonista. E poi il suo amore per il mare era veramente infinito. Io con lui andavo dovunque, eravamo gli unici a uscire in barca col garbino e non era inconscienza, quanto la gioia, il piacere che ci accomunava di stare in mezzo alle onde. Credo, tra l’altro, che proprio lui, a Pescara, abbia segnato una svolta nel modo di fare turismo balneare. Sì, un rivoluzionario, era davanti a tutti e non di poco, col

suo dinamismo, la sua genialità che gli altri magari imparavano ad apprezzare solo a distanza di tempo. Io mi trovai subito a mio agio e non tardai a capire che proprio quello era lo spirito della città». Pescara, allora, era una città sorprendente, di un dinamismo e una vitalità che stordivano. Giravi per il centro e vedevi sempre gente, i negozi affollati e non perchè ci fossero i saldi. Magari non compravano ma li vedevi presenti, un gran caos tutto intorno, con le auto parcheggiate in doppia fila all’ora del caffè o dell’aperitivo, lo stress che scivolava via tra una chiacchiera e una risata. Di bacchettone non c’era proprio niente, men che meno il conformismo. Era la stessa cosa da Eriberto. Dall’esterno poteva sembrare un ambiente un po’ snob, ci entravi dentro e capivi subito che era solo un’impressione sbagliata. Allo stesso tavolo o sotto la stessa palma trovavi Vincenzo Marinelli, Gianni Santomo, personaggi del mondo dello sport, imprenditori facoltosi, il rettore dell’università e il primario d’ospedale ma anche il vigile del fuoco, il cazzaro, perfino lo spazzino. Gli stessi che poi si prendevano a pallate sul campo da tennis in sfide infinite, senza esclusione di colpi e di sfottò. Nella mischia si buttava anche Eriberto che a tennis ci sapeva fare poco, eppure spesso riusciva a vincere. Era furbo, era gatto, ne sapeva una più del diavolo, una palla contestata era sempre l’occasione per una sceneggiata che più di una volta finiva in accenno di rissa. Ho visto non solo lui ma anche altri del gruppo tirarsi dietro delle racchettate e poi rincorrersi minacciosi sulla spiaggia per poi tornare sul campo e riprendere la partita come se niente fosse, senza cattiveria nè rancori. E questa per me era una cosa bellissima, in perfetta sintonia con quel che accadeva in città. Io me la ricordo bene Pescara. Effettivamente non c’era nessun pericolo, niente di niente. Sapevi che c’erano quelle tre o quattro famiglie che magari potevano con-

• Una lezione di tennis sul primo campo dello stabilimento “Eriberto”. Nella pagina a fianco Eriberto e il figlio Luca (a sinistra) con Giovanni Galeone

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trollare il gioco d’azzardo, ma finiva lì. Di droga nemmeno a parlarne, nel periodo in cui ci sono stato io proprio non esisteva. La città mi affascinava per quel modo semplice e diretto di viverla. Ricordo episodi che oggi potrebbero sembrare incredibili, arrivavano inviati da tutte le parti d’Italia e pure loro restavano affascinati. Arrivò una giornalista e mi disse che il suo fotografo voleva fare un servizio su di me sulla spiaggia, possibilmente di notte e magari con un cavallo bianco. Detto e fatto. La banda di Eriberto –Fefè, Mancini, Valerio Santilli, il genovese– si mobilitò, arrivarono le fotoelettriche e ovviamente pure il cavallo bianco. Ci divertimmo da matti. E poi quella volta che, dopo una cena, il sindaco Piscione mi prese sotto braccio e mi disse: “Domani arriva il ministro per inaugurare la nuova stazione di Pescara. Ci terrei a fartela vedere in anteprima. Se ti va ci vediamo lì dopo mezzanotte”. Ovviamente ci andai, assieme a me c’erano un giornalista, un fotografo e alcuni amici, giro completo, in pratica la nuova stazione la inaugurammo noi. Oggi una cosa del genere nemmeno a pensarla. Sì, quella era una Pescara diversa, fatta di gente schietta, generosa, di personaggi straordinari. Quando tornavo a Udine, la mia città, mi sembrava di vivere in un altro mondo, lontano anni luce dalla realtà che avevo scoperto in riva all’Adriatico. Niente di preordinato, di razionale, imperava la filosofia del “tutto si può fare”. E anche lo sport era l’espressione di questo modo di vivere: sempre all’attacco, senza troppi calcoli né timori. Furono anni straordinari anche per lo sport: il Mascara in serie A con l’Adriatico sempre pieno e felice, anche quando perdevi, la squadra di pallanuoto che vinceva tutto anche in Europa, basket e pallavolo a livelli che non c’erano mai stati in passato. Uno spettacolo, una festa infinita alla quale partecipava tutta la città che scopriva orizzonti fino ad allora sconosciuti. Andavi a casa di Gino Pilota, un altro personaggio incredibile dell’epoca, e ci trovavi Ayrton Senna, il più grande pilota del mondo, che girava in giardino con la macchinetta elettrica, passavi da

• Eriberto col suo leoncino Juma ; a fianco in barca con Marco D’Altrui

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Michele, il ristorante di Eriberto, e scoprivi che a uno dei tavoli c’erano Gianni Brera o i Benetton. Sì, quello era un punto di ritrovo, si passava da lì e ci si tornava, era l’espressione più diretta del fascino che emanava la città e che conquistava in fretta chi la scopriva. A me almeno ha fatto questo effetto. Sarà pure per il mio carattere, il mio modo di pensare ma certo è che ci misi poco ad entrare in sintonia con tutto quello che mi girava intorno. Una città aperta, che offriva un approccio diretto, naturale e che proprio per questo poteva affascinare anche gente con un carattere diverso dal mio. Quei personaggi non li trovi più, questo è certo. La città, nel suo modo di essere, è totalmente cambiata, probabilmente anche più di quanto sia capitato altrove. Vi faccio l’esempio di Udine che resta tranquilla, ordinata più o meno come lo era 25 anni fa. La differenza allora era abissale, lo spirito diverso di Pescara e dei pescaresi, tra l’altro, lo vedevi anche nello sport. Io ho vinto campionati anche a Udine e a Perugia, ma qui era sul serio tutta un’altra storia. Vi faccio un esempio. Alla vigilia della gara col Parma, quella che ci avrebbe dato la promozione in serie A, in città era già festa, nessuno che pensasse che quella partita avremmo anche potuto perderla. A Perugia, qualche anno dopo, stessa situazione e atmosfera del tutto diversa. “Domani? Speramo mister, speramo…” era questa la frase che sentivo di più. Ma come, “speramo”? A Pescara non c’era storia: avevamo, non solo noi della squadra ma tutta la città, una convinzione di vincere che era senz’altro superiore alle difficoltà della sfida. Ricordo “l’isola dei sogni” che Eriberto voleva costruire lì, davanti al suo mare… Un’idea bellissima. E se devo fargli un rimprovero è solo di non averla pensata prima. Venti anni fa, in quella Pescara del “si può fare” avremmo ribaltato il mondo, sono convinto che sarebbe nata anche la sua isola. Sì, formidabili quegli anni. E credo che proprio per questo Eriberto e la città mi resteranno sempre nel cuore.


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Jet-set sull’Adriatico Michele Cicchini

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li anni in cui ho lavorato insieme a Eriberto sono stati un periodo molto particolare per Pescara: la città viveva un periodo di splendore e di grande euforia per i successi che le locali squadre sportive di tutte le discipline conseguivano una stagione dopo l’altra. E il ristorante divenne il luogo di riferimento per ogni evento, era il posto che veniva scelto da chi organizzava qualcosa per portarvi gli ospiti, sia che si trattasse di attori o di sportivi o di figure in qualche modo importanti. Conobbi Eriberto proprio quando decise di affidarmi la gestione del ristorante. Ricordo che era Novembre, una giornata molto piovosa, e lui mi attendeva davanti allo stabilimento. Io arrivai e chiesi di vedere il locale. “È aperto, vai pure”, mi disse. La serratura non c’era, la porta del ristorante era chiusa con un fil di ferro. Quello era lo “stile Eriberto”: una ristorazione e una gestione arrangiata, improvvisata, alla quale dovetti porre rimedio. Il locale era poco più che uno stanzone dove si facevano pizze e qualche piatto caldo. Ci investimmo tantissimo, alcune centinaia di milioni; una cifra enorme per quegli anni, ma alla fine lo trasformammo in un ristorante bello, accogliente, elegante. Nessuno credeva che ci saremmo riusciti. Il successo fu immediato e quello divenne subito “il” ristorante di Pescara, quello dove c’era sempre qualche personaggio importante. Chi passava per lavoro o per turismo in città conosceva il nostro locale, il passaparola fu determinante. Poi nel mese di ottobre dell’ ‘85, una mattina, Eriberto venne da me dicendomi “Michele, tu sei il primo, sei il numero uno”. Frase sibillina della quale dopo qualche giorno gli chiesi spiegazioni. Mi rivelò

•Insieme a Jarno Trulli

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che aveva comprato una barca e che per pagarla doveva vendere il ristorante, e io ero in cima alla lista dei possibili acquirenti. Dopo tutti i debiti contratti per rinnovarlo mi sembrava una follia, ma lui insistette e così, nel giro di quindici giorni, dovetti indebitarmi ulteriormente per trovare i soldi: parliamo di centinaia di milioni, mica uno scherzo. Ma ne fui ben felice, perché abbiamo vissuto insieme un’avventura straordinaria. Durante la prima stagione, quella della mia semplice gestione, i nostri rapporti non erano particolarmente stretti: io facevo il mio lavoro e lui il suo. Ma in seguito diventammo amici, e cominciai a capire il personaggio e ad accettarne le stravaganze. Eriberto era decisamente sopra le righe, diciamo fuori luogo rispetto all’ambiente che avevamo creato: era capace di entrare nel locale, in pieno orario di cena (con i clienti in giacca e cravatta) in mutande, con un cappellaccio di paglia, per dirmi qualcosa o controllare che tutto andasse bene. Appena gli facevo notare che forse quello non era l’abbigliamento adatto mi chiedeva scusa, e sapevo che era sincero. Ma sapevo anche che il giorno dopo l’avrebbe rifatto, non c’era modo di fargli cambiare atteggiamento. Lui viveva così, in modo un po’ selvatico, era un suo difetto ma anche il suo pregio. Sapevi sempre chi avevi davanti: un uomo sincero, onesto, generoso e di una simpatia contagiosa. Capitava spesso che offrisse da bere ai clienti del ristorante, o che si fermasse a parlare con loro al tavolo, e tutti lo apprezzavano per quello che era. Lavoravamo in perfetta armonia. A volte veniva da me la mattina e mi diceva “andiamo a fare un giro in centro”. Significava prendere la macchina e percorrere tutta la spiaggia fino alla Madonnina. Lui la chiamava “la nostra autostrada”. Era un buon diavolo, completamente matto: una volta eravamo in macchina e udimmo delle sirene, stava arrivando il carro dei pompieri. Lui fece una manovra con la macchina e si piazzò proprio davanti al


•Eriberto tra Ubaldo Righetti (a sinistra) e Massimiliano Allegri, attuale allenatore del Milan, quando giocava a Pescara

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mezzo che sopraggiungeva, precedendolo a gran velocità; naturalmente i vigili del fuoco ci facevano cenno di spostarci, e io lo incalzavo: “Eriberto, spostati!” e lui “Ma no, ci stanno salutando!” e avanti a fare da apripista. Matto come un cavallo, impulsivo. Come pensava una cosa doveva farla senza curarsi delle conseguenze. Una volta, tra il ristorante e la spiaggia, mi allestì un campo da bocce. La mattina arrivai e gli chiesi “Ma ti sembra normale che davanti al ristorante ci sia un campo da bocce?” e lui: “Forse hai ragione. Però quant’è bello, vero?”. Dovevo continuamente contenere le sue esuberanze, ma malgrado tutto aveva uno spirito raffinato, era nobile, colto, gentile e altruista; cercava sempre di partecipare a tutto quello che avveniva, anche dentro il ristorante faceva sempre sentire la sua presenza ma non era mai ingombrante: era uno dei suoi pregi principali, faceva tutto in buona fede, anche le cose che magari non si dovevano fare. Era capace di mettersi a passare il trattore sulla spiaggia mentre tutti mangiavano, poi naturalmente si ripeteva il siparietto, con lui che mi chiedeva scusa e io che accettavo, ben sapendo che non potevo evitare certi comportamenti. Quando Leo Junior festeggiò il suo addio al calcio invitò tutta la nazionale brasiliana a Pescara. Naturalmente vennero a mangiare nel ristorante. Quel pomeriggio, prima della partita, mi era giunta una telefonata da Roma: era la segretaria di Falcao che specificava che il grande campione doveva cenare in fretta perché aveva l’esigenza di ripartire per il Brasile. La partita finì intorno alle 22.30 e quando arrivarono i giocatori al ristorante la macchina di Falcao restò addirittura col motore acceso, con lui che ogni tanto si affacciava e faceva cenno all’autista di aspettare perché sarebbe ripartito immediatamente dopo la cena. Il risultato fu che alle 8.20 del mattino staccai la luce per farli andare via, e loro come se niente fosse si misero a suonare la samba con bicchieri, posate e piatti. Incluso, ovviamente, Falcao. Per il ristorante sono passati tantissimi personaggi famosi, quasi tutti appartenenti al mondo del calcio (dai presidenti delle squadre di quell’epoca, Mantovani, Viola, Cipriani… fino a grandi giocatori, compresa tutta la Nazionale italiana e perfino la Nazionale cantanti) ma anche personaggi come Luciano Benetton con tutta la famiglia, al compleanno di Gino Pilota; e Michele Placido, o personaggi della tv come Simona Tagli, o miti dello sport come Ayrton Senna, che era praticamente di casa: sarà venuto 15, 20 volte. Un ragazzo eccezionale, rimasto nel cuore di molti; giocava con i bambini dentro il ristorante, era molto informale, molto alla mano, un carattere buono e gentile. Il giorno che morì a Monza lo aspettavamo per cena a Pescara. Tutto quello che avveniva sulla spiaggia era fatto in barba a ogni regola: era Eriberto che faceva la legge, lì, come nel Far West. Per esempio, quando in città si comincia-

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rono a vedere i primi cassonetti per l’immondizia, per il nostro ristorante un solo cassonetto non bastava e Eriberto, verso le 4.30, le cinque del mattino, andava a prendere altri cassonetti e se li trascinava con una fune davanti allo stabilimento; a mezzogiorno puntualmente arrivavano i vigili che venivano a riprenderseli e lui li lasciava fare, tanto la mattina dopo avrebbe ripetuto il suo piccolo “furto”. Sono solo piccole cose, ma succedevano regolarmente. Il rapporto di Eriberto con la legge era diventato quasi una barzelletta, ma ha sempre fatto tutto con lo scopo di fare del bene alla città, non si è mai arricchito facendo quello che faceva. Il rapporto con Eriberto si è sfilacciato dopo la vendita del ristorante: lui si stava dedicando al Jambo, e io –dopo dieci anni trascorsi nel “mostro”, come lo chiamava lui– vendetti il locale a un gruppo di imprenditori, cosa che ne segnò anche l’inesorabile declino. Avevo trovato lavoro al Delfino verde, e Eriberto veniva quasi tutti i giorni lì piuttosto che mangiare nel suo vecchio ristorante, gestito da qualcun altro. Un giorno mi disse che aveva delle strutture per palme inutilizzate, e mi chiese se potessero servirmi. Gli dissi che non ero interessato, che non sapevo cosa farmene. Beh, il mattino dopo mi ritrovai quei cappellotti davanti al Delfino verde. Non potendo usarli li portai in un magazzino, finché dopo qulche tempo Eriberto mi chiamò, chiedendomi di preparargli l’assegno per quelle coperture. E io naturalmente glielo feci, riscaricandogliele davanti al Jambo il mattino seguente. È stata l’unica volta che tra noi c’è stato uno screzio, ma non abbiamo mai perso il sorriso. Sono stato proprietario del ristorante di Eriberto dal 1985 al 1995 e quello è stato il mio periodo migliore, ma anche il periodo migliore di quel ristorante. Di persone come lui, in una città che ha un mare e una spiaggia come questa, ce ne sarebbero volute più di una. Nel suo lavoro era il massimo, lui creava costantemente: ogni anno faceva qualche cambiamento, c’era sempre qualche novità, ora una doccia, ora una fontana, ora una siepe… addirittura un anno costruì una palma a due piani, che chiamò Chernobyl perché era il periodo in cui era accaduto quel disastro in Ucraina. Vivevamo attaccati l’uno all’altro per 20 ore al giorno. Certo, c’era anche chi lo criticava ma in genere il suo lavoro veniva sempre ben visto. E Pescara gli deve molto: se oggi è quella che è, con il suo mare e la sua spiaggia, il merito è essenzialmente di quel grande uomo e di quel magnifico imprenditore che Eriberto è stato.


• In alto con Nicola Pietrangeli; in basso con Massimo Oddo

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Il personaggio Eriberto Gianni Santomo

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desso, però, non facciamone un santino. Eriberto sarebbe stato il primo a farsi una bella risata nel sentire e leggere la pioggia di lodi che gli è piovuta addosso dopo la sua scomparsa. No, non era un santino, non era un modello d’uomo. Era un uomo, semplicemente, con i suoi pregi e i suoi difetti: come tutti. Era irruente, istintivo, permaloso, geniale, coraggioso, creativo, testardo, eccessivo, incosciente, meticoloso, arruffone, esibizionista, narcisista, avventuroso, dinamico, divertente, generoso. Leale per convinzione, sleale per convenienza. Non era, insomma, un modello di virtù civiche, amava andare contro le regole, era insofferente di leggi, norme, regolamenti e quant’altro frenava o inibiva la sua inventiva, la sua voglia di fare. La sua regola era: prima lo faccio, poi vedo se si può fare. Un uomo così lo puoi ammirare e volergli bene, ma non puoi farne un modello di cittadino esemplare. Un santino, appunto. Ma come? Uno passa una vita assecondando felice e contento la sua propensione all’irregolarità e poi, da morto, si ritrova ad essere glorificato come una summa di virtù cui si dedicano addirittura strade! “Ma parlano di me?” si chiederà, incredulo, Eriberto scompisciandosi dalle risate. Io gli sono stato amico per oltre quarant’anni, da quando, ragazzino, mio fratello Rino mi portò allo stabilimento di Eriberto e questi subito mi coinvolse nella messa in mare della sua famosa paranza. Gli sono stato vicino anche nei suoi ultimi giorni, quando andavo a trovarlo nella sua stanza d’ospedale e gli parlavo nella speranza di stimolare una qualche reazione nel suo cervello e nel suo corpo ormai privi di vita che non fosse puramente vegetativa. “Vallo a trovare, parlagli –mi diceva qualche suo parente–, a te era così

legato, magari sentire la tua voce gli farà bene, forse avrà qualche reazione”. Anch’io, in quei suoi ultimi giorni, ho talvolta sperato che da un momento all’altro Eriberto si svegliasse e si mettesse a raccontarmi l’ultimo gossip su questo o quel personaggio pescarese senza risparmiare alcun particolare, per scabroso che fosse. Sì, perché lui, per dirne un difetto, aveva il brutto vizio di non sapersi tenere “nu cice ‘mmocche”, come diciamo a Pescara. Glielo rimproveravo spesso, anche perché ero stato anch’io vittima della sua passione per lo “sputtanamento” pubblico degli amici di cui veniva a sapere qualche notizia riservata, specie se riguardante la sua vita privata. Ma lui era così, non aveva, non dico la virtù della discrezione, ma proprio non aveva il senso del limite. Era il trionfo dell’eccesso. Da lui, per esempio, potevi aspettarti la reazione più spropositata quando si riteneva offeso, si trattasse pure d’una offesa venialissima, insignificante. Ricordo un episodio di una ventina d’anni fa. Come spesso m’è capitato nella mia vita d’imprenditore, stavo passando delle giornate in cui non avevo il tempo nemmeno di prendere un caffè. Succede, in quei casi, che sei talmente concentrato sul lavoro che non trovi tempo per altro, meno che mai per gli amici. Un giorno Eriberto mi cerca al telefono per un paio di volte ma io mi feci negare e non lo richiamai. “Tanto –pensai– domani ho prenotato il campo da tennis al suo stabilimento, lo vedrò e gli spiegherò la situazione”. L’indomani, quando andai da lui, già pregustando le due ore di partitella che m’ero concesse per “staccare” un po’, finalmente, dal lavoro, trovai i campi da tennis impraticabili: Eriberto, offeso perché non gli avevo risposto al telefono né l’avevo richiamato, li aveva allagati per impedirmi di giocare. Non solo: due giorni dopo mi vidi recapitare una raccomandata nella quale Eriberto mi diffidava dal frequentare il suo stabilimento in quanto “persona non gradita”. Che fai con un uomo così? O lo mandi af-

• Eriberto con Gianni Santomo sull’aereo per la Polinesia. A fianco durante una delle tante feste sulla spiaggia

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fanculo o te lo tieni. Io ho fatto entrambe le cose: l’ho mandato a quel paese ogni volta che se lo meritava, ma ci sono rimasto amico. Un uomo è un uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Lui sembrava avere un’abilità particolare nell’affogare gli uni e gli altri in un flusso ininterrotto di chiacchiere (non sputava mai) e discorsi seri, idee balzane e progetti concreti, e poi c’era quella sua frenesia fisica, il suo stare continuamente in movimento, come temesse che il suo corpo si potesse guastare a tenerlo un po’ fermo. Purtroppo, dopo quel maledetto e fatale incidente, Eriberto non fu più in grado di dire una parola, né di fare un gesto. Una fine che non meritava, lui che era stata la persona più ciarliera, attiva, dinamica e instancabile che io abbia mai conosciuta. Dotato, per di più, di un fisico che pareva davvero baciato dalla grazia d’una eterna efficienza. Ricordo un episodio che ha dell’incredibile. L’ultima sua vacanza l’ha fatta con me, come tante altre volte. Eravamo in Polinesia, a Bora Bora. Un giorno arriva una grande nave americana, davvero enorme, che getta l’ancora al largo. Eriberto le vede e dice: “La voglio visitare, m’avvicino in barca e poi m’arrampico su per la catena dell’ancora”. Gli faccio notare che mi sembrava una fesseria, per di più impossibile. Be’, dire a Eriberto che una cosa era impossibile era come sfidarlo a farla. E così fu. Prese in affitto una piccola imbarcazione a remi e mi convinse “almeno a dare un’occhiata da vicino”. Ci avvicinammo a qualche decina di metri da una delle navi, lui si alzò

• I fuochi d’artificio davanti alle palme dello stabilimento la notte di San Giovanni

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in piedi e cominciò a gridare per richiamare l’attenzione dell’equipaggio. Nessuno se lo filò, naturalmente, allora lui senza alcuna esitazione, prima che potessi trattenerlo, si tuffò in acqua, raggiunse a nuoto la nave e cominciò ad arrampicarsi su per la catena dell’àncora lunga almeno 40-50 metri. Aveva 75 anni ma a vederlo procedere senza sforzo in quella dissennata arrampicata gliene avresti dati davvero cinquanta in meno. Non per niente l’avvocato Giorgetti lo definiva “una scimmia di mare”. A metà salita fu individuato dall’equipaggio che cominciò a gridargli “get down! get down!”, scendi, scendi! Lui, figurarsi. Allora i marinai lo presero di mira con un idrante indirizzandogli contro un getto d’acqua abbastanza potente. A quel punto, anche il cocciutissimo Eriberto capì che doveva abbandonare l’impresa. Ma cosa fece? Mica ridiscesee lungo la catena, no: lui, senza esitazione alcuna, con un agile volteggio si tuffò toccando l’acqua con un ingresso stilisticamente impeccabile. Da 25 metri d’altezza all’età di 75 anni! Alzai gli occhi e mi accorsi che l’equipaggio lo stava applaudendo. Eriberto, ancora in acqua, non se n’accorse e io mi guardai bene dal dirglielo: sarebbe stato un incentivo per più folli e pericolose avventure. Del resto, lui era davvero un uomo-pesce, l’acqua sembrava il suo elemento naturale. Se è vera la teoria della reincarnazione, Eriberto adesso è sicuramente un delfino che fila veloce in chissà quale mare alla ricerca di avventure, finalmente appagato e felice.


• Eriberto dietro la scrivania del suo stabilimento; qui sopra con Gianni Santomo, Vittorio Orlando e Bruno Bencivenga ai piedi del Cervino

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Pesca subacquea e altre storie Domenico Giorgini*

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onobbi Eriberto per caso. Stavo nuotando in immersione davanti al suo stabilimento, vicino agli scogli, che erano appena stati posizionati. Facevo pesca subacquea, e avevo scoperto che tra gli scogli si annidavano i polpi. In superficie notai che si stava avvicinando un pattino con un signore che stava in piedi, e quel tipo, un uomo grosso con un remo in mano, mi ha dato un colpo e mi ha gridato: “Tu qui non ci devi passare! Vai via!». Scappai subito, dirigendomi verso il mio stabilimento. Seppi poco dopo che quell’uomo era proprio Eriberto, al che andai da lui e gli chiesi scusa. Lui disse che sì, potevo passare tranquillamente davanti al suo stabilimento, ma che ogni volta che ci andavo dovevo lasciargli due polpi… A volte cercavo di eluderlo passando sott’acqua, ma non so come, lui mi beccava sempre. Nel frattempo avevo fondato il circolo sommozzatori Blue Dolphin, alle Naiadi, ed ero stato costretto a nominarlo presidente onorario: in acqua era meglio di me, era un pesce, un anfibio. Sapeva tutto, e pensare che io sono istruttore. Lui il brevetto non l’aveva, ma era capace di battere chiunque in immersione. E da lì abbiamo cominciato a viaggiare insieme: Mar Rosso, Zanzibar, Kenya… Ricordo che gli piaceva farci fare le prove al suo stabilimento, avevamo un trattamento speciale. È stato uno dei più grandi amici che ho avuto, abbiamo condiviso tanto. Era generoso, non badava a spese, faceva tutto ciò che c’era da fare senza farsi mai problemi di tempo o di soldi. E aveva 17 anni più di me. Fino al giorno prima dell’incidente ci siamo immersi insieme per pescare le cozze. Ricordo che una sera –mettevamo le reti, in mare, per pescare; naturalmente non avremmo potuto…– erano le tre di notte, il mare si era alzato. Eriberto venne davanti a casa mia mettendosi a gridare, mi chiamava: “Domè! Domè!”. Svegliò tutto il palazzo –una cosa da non credere– per dirmi che dovevamo andare a ritirarle o il mare ce le avrebbe strappate. Lo fece diverse volte. Nonostante gli schiamazzi frequenti, e quindi il fastidio arrecato a tutti i condomini, quando avvenne l’incidente tutti gli inquilini del palazzo mi chiedevano sempre: “Come sta Eri-

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berto?”. Era entrato nel loro cuore, come in quello di tutti coloro che l’hanno conosciuto. Era sempre rimasto simpatico a tutti quelli che aveva conosciuto, aveva sempre un regalo per tutti. E la sua generosità gli fece venire in mente l’idea della Befana. La prima la facemmo così: lui era in una casetta che noi sub spingevamo, poi uscivamo tutti insieme portando dei doni. Dopo l’incidente ho “ereditato” il ruolo di Befana, ma non è più la stessa cosa senza di lui. Il nostro rapporto non si limitava al periodo estivo: io ho un piccolo laboratorio sotto casa e d’inverno, quando lui non lavorava, mi veniva spesso a trovare, e passavamo serate divertenti a mangiare, bere e parlare. Stare con lui significava rischiare la pelle di continuo, ma era una fortuna stargli vicino. Una volta, a Sharm el Sheikh, ci eravamo immersi, ma Eriberto era rimasto sulla barca. Durante l’immersione il mare era montato parecchio, e il comandante della barca era in difficoltà: stava facendo la manovra per approcciarci nel modo sbagliato. Ci stava venendo addosso e ci avrebbe ammazzato tutti quanti: fu Eriberto a togliergli il timone e a compiere la manovra nel modo corretto, così da consentirci di salire a bordo senza rischi. Faceva cose pericolose, ma non avrebbe mai messo a repentaglio la vita di nessuno. E infondeva sicurezza in tutti quelli che gli erano accanto. Era spericolato, in macchina: passava col rosso, correva… ma era divertente. Aveva il gusto della trasgressione: bastava che gli si dicesse “questo non si può fare” che lui subito lo faceva. Era amico di tutti, automaticamente un mio amico diventava anche suo. Ricordo che durante un viaggio in Kenya avevamo una stanza in riva al mare, in un residence nel quale lavoravano alcuni operai. In realtà erano piuttosto sfaticati, non facevano nulla. Un giorno mi svegliai e li vidi tutti affaccendati nelle loro mansioni: Eriberto li aveva messi in riga, e tutti credevano che lui fosse il padrone del residence. Si definiva “un imprenditore della sabbia”. Una volta siamo andati, come altre volte, a rubare le cozze alla piattaforma. Ci eravamo immersi, io portavo un sacco pesantissimo di cozze. Risalgo e mi avvicino alla sagoma del gommone, senza rendermi conto che il nostro era rosso, ma quello sul quale stavo salendo era grigio. Era della Polizia. Io –che qualche conoscenza tra le forze dell’ordine ce l’ho– feci una faccia come per dire “scusate”, ero molto imbarazzato. Il comandante del gommone mi riconosce e chiede cosa stessi facendo, e quando capisce che stavo rubando le cozze mi fa: “vuoi vedere che c’è anche Eriberto?” e in quel momento lui risale tra le risate generali… Era una situazione comica continua. Appena il mare lo permetteva andavamo sempre sott’acqua, a pescare qualunque cosa. È stato naturale, per me, aiutare il figlio Luca a fondare il circolo sommozzatori che porta il suo nome, per il grande rapporto che ho avuto con quell’uomo divertente, matto e geniale che era Eriberto Mastromattei. * Co-fondatore, insieme a Luca Mastromattei, del circolo sommozzatori “Eriberto Sub”


• Un giovane Eriberto, appassionato di immersioni, con un A.R.O., autorespiratore ad ossigeno utilizzato durante la II Guerra Mondiale

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La famiglia di Eriberto Erminio Mastromattei

C’

è una fotografia che ritrae me e mia sorella su un motoscafo con dietro papà che faceva sci acquatico. Io portavo il motoscafo da 85 cv, avevo nove anni. Quella foto racchiude tutto, è l’immagine della nostra famiglia. Una famiglia che ha vissuto sempre sul mare. Posso dire, con un po’ di presunzione, che con quello che ho fatto io fino all’età di 15 anni un quindicenne di oggi ci fa tre vite. A tre anni cominciai a fare sci d’acqua, l’ho praticato in ogni condizione meteo. A sei anni mi sono dedicato alla vela: l’unica volta che ho preso parte a una regata insieme a mia sorella Anita siamo arrivati quarti assoluti con i “grandi”, e primi tra gli under 12. Io avevo 11 anni, mia sorella 8. Avevamo una piccola barca a vela, un flying junior che perdipiù era in prestito. Era papà a spingerci a fare tutte queste cose, io non volevo imparare. Quando salivo sulla barca non facevo in tempo a percorrere 200 metri dalla riva che già mi ero rovesciato tre volte… Poi ho capito il meccanismo e mi sono appassionato. Poi è iniziata l’epoca del tennis, diventai anche campione

• Da destra: Eriberto, il figlio Erminio con sua moglie Paola e Luca con la piccola Giulia

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regionale. Ho praticato anche il nuoto, e ho la qualifica di bagnino. In famiglia l’abbiamo tutti. L’Albatros era nient’altro che un casotto di legno, un prefabbricato, che era grande la metà dell’attuale stabilimento Eriberto. L’altra metà apparteneva a un pescatore, il padre dell’avv. Giorgetti, che non avendo necessità particolari, accettò più tardi di cedere la sua parte a Eriberto. Sono i primi anni ’50, e praticamente Giorgetti cedette a papà la sua parte per sole centomila lire, una specie di regalo di nozze. È infatti con mia madre che nasce ufficialmente lo stabilimento “Eriberto”, con uno spazio di 125 metri quadrati. È col loro matrimonio che nasce la vera attività balneare: mia madre ricevette in prestito da suo fratello la liquidazione che lui ottenne quando si dimise da direttore della Galbani, sette milioni di lire. Con quei soldi sono partiti. E io ci sono cresciuto, lì dentro: sono stato partorito in casa, davanti allo stabilimento, e ci ho mosso i primi passi. Ci ho lavorato fin da bambino e anche dopo che papà lo ha venduto sono rimasto a lavorare lì, perché avevo bisogno di un lavoro che durasse tutto l’anno, mentre il Jambo lavorava solo quattro mesi.


• Una prova di forza di Eriberto. In cima alla piramide il figlio Erminio

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Era faticoso lavorare da Eriberto: facevo 15 ore di lavoro, cominciavo alle sette del mattino e andavo avanti fino a tarda sera, a notte inoltrata. Ma per me non è mai stato un problema, non ho mai avuto paura della fatica, del sole cocente, di lavorare al mare. Ci sono cresciuto. Mio padre era un tipo spartano, poteva anche sembrare rozzo ma non lo era. E aveva una salute di ferro: era abituato anche lui alla fatica, non l’ho mai visto con un raffreddore, non si è mai ammalato. Siamo stati temprati dalla spiaggia. C’è un’altra immagine che simboleggia quello che significava stare accanto a Eriberto: una volta papà doveva montare il castelletto per cambiare le luci dei campi da tennis, e un po’ per la sua mania del “fai da te”, e ancor di più per esibizionismo coinvolse me e Anita in questa impresa circense. Il castelletto di ferro era alto circa 16 metri, e sotto di noi si era assiepato un folto pubblico. Questo per lui era pane quotidiano. Lui sapeva esattamente come fare le cose, ne aveva le competenze. Del resto lo stabilimento è la testimonianza della sua capacità, lo tirò su praticamente da solo. Si faceva beffe di chi aveva studiato e credeva di sapere come fare le cose, ma sapeva apprezzare chi ne sapeva più di lui e da queste persone imparava tantissimo. Da lui potevi aspettarti le stelle e le stalle nel giro di un minuto, era capace di portarti in palmo di mano e di schiacciarti un secondo dopo. Un giorno un suo caro amico, un compagno dei tempi della scuola col quale aveva un rapporto fantastico, venne da me e mi disse: tuo padre mi ha detto “F.O.”; io non capivo, gli chiesi cosa significasse, e lui: “Vuol dire falsone opportunista!”. Glielo aveva detto in forma cifrata. Era veramente dispiaciuto, ma non hanno mai interrotto i loro rapporti. Papà era sempre molto generoso e disponibile con gli altri. I miei si sono separati che avevo circa sette anni, e fino all’età di 14 anni ho sempre vissuto al suo fianco. Aveva la capacità di farci lavorare divertendoci: io e Anita ci alzavamo alle sette per andare al mare, a pescare telline, andavamo alla secca, a giocare a pallone… Si facevano cose che oggi non si fanno più: oggi chi si sveglia alle sette per andare a giocare a pallone al mare? se va bene

• Il famoso pontile costruito davanti allo stabilimento “Eriberto”

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ci si va a mezzogiorno… Allora, invece, alle sette c’era un gruppo di ragazzi che già erano in riva al mare a giocare con la natura. Era tutto molto più libero, era un’altra Pescara. Non c’erano neanche gli scogli, si trovano i cannolicchi, le stelle marine. Io salivo sulle sedie per aprire l’ombrellone e facevamo a gara con Anita a chi apriva prima la sua fila di ombrelloni e papà alla fine ci premiava con mille lire. Volevamo a tutti ci costi dimostrarci più bravi di tutti gli altri, e lo facevamo solo per papà. Eravamo esibizionisti, proprio come lui. Non lo facevamo certo per i soldi, perché anche noi, come lui, non davamo importanza al denaro. Papà non l’ha mai fatto: una volta tornando da una serata passata con gli amici a giocare a carte, nel periodo di Natale, ci fece trovare l’albero addobbato con banconote da cinquecento e mille lire. Ai soldi non ha mai dato peso, non li ha mai considerati importanti se non per reinvestirli nello stabilimento. Il pontile, per esempio, l’hanno costruito papà e altri due operai a spese sue, e nell’arco di tre mesi era pronto. Parliamo di pali lunghi circa sette metri, infilati nella sabbia, a sostenere un pontile di 150 metri sul quale si è divertita mezza Pescara. Pescara è una città un po’ particolare: di pescaresi “veri” ne saremo forse 20.000 di cui una buona parte se ne sono andati, e quei pochi che sono rimasti sanno di cosa sto parlando. Le feste sugli scogli le ricordano tutti: si facevano anche perché il pontile li superava abbondantemente. Farlo adesso sarebbe impensabile, oggi per fare un pezzetto di strada asfaltata ci vogliono sei mesi, papà ha costruito il pontile in tre. Era uno spirito “giapponese”, efficiente ai massimi livelli. Naturalmente la sua dedizione al lavoro lo rendeva un po’ assente per la sua famiglia, ma accettavamo la cosa come si fa nelle famiglie degli attori. Per papà lo stabilimento era il suo palcoscenico. Spesso gli chiedevo: ma questo, per te, è un lavoro o un divertimento? Per lui era tutt’e due, non gli importava neanche dell’incasso, demandava sempre il compito di amministrare i conti ad altri. Però si accorgeva se provavi a fregarlo. La prima vera litigata che abbiamo avuto è stata quando ha venduto il ristorante dello stabilimento per comprar-


• Sopra: Erminio con uno scimpanzé. Sotto, Eriberto sugli sci d’acqua; alla guida del motoscafo ci sono i figli Erminio e Anita.

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si la barca. Era stato a Genova, alla fiera della nautica, e si era innamorato di una barca che costava 400 milioni. Per quello vendette il ristorante. Io mi arrabbiai tantissimo: mi aveva promesso che ci avrei lavorato, che quello sarebbe stato il nostro posto, e per protesta io non feci mai una vacanza con lui su quello yacht, solo qualche giro davanti alla spiaggia. Peraltro la barca durò poco, dopo qualche anno la svendette ricavandoci poco più di cento milioni. Ero molto legato al ristorante, ci lavoravo anche come pizzaiolo. Ricordo –era l’ ‘86– che Galeone aveva espugnato Milano: il Pescara aveva vinto 2-0 con l’Inter, e fecero il “Processo del lunedì” dentro al ristorante. Grazie al Pescara sono passati dal ristorante tanti personaggi: per una partita di coppa Italia è venuta tutta la Juventus con Zoff, oppure la Fiorentina dove c’era un certo Oriali… Parliamo dell’ ‘83, dell’ ‘85. E poi il fuoco di San Giovanni in riva al mare: sono dovuti venire i vigili del fuoco per spegnere i falò, ma non c’era niente da spegnere, il pupazzo che bruciava era sopra gli scogli e quindi non poteva succedere niente. Era un divertimento per tutti. Neanche quello si è potuto più fare: vigili, polizia, amministrazione, a papà hanno sempre tarpato le ali, mentre a Rimini gli avrebbero dato un premio. Una volta durante un torneo di tennis all’una di notte ci fu un applauso così forte che vennero i vigili a dire che non si poteva fare tutto quel rumore. Pensare che lui spendeva un sacco di soldi per fare queste cose: una volta D’Alfonso, col quale papà aveva un ottimo rapporto, gli disse che gli avrebbe finanziato l’evento della Befana, ma papà rifiutò perché disse che aveva già preso impegno per partire per la Polinesia. Io gli dissi: «Ma come? L’unica volta che pagano per farti fare una delle tue…». Niente da fare, lui rifiutò. Papà organizzava sempre tutto mettendo a disposizione il suo tempo e il suo denaro e al massimo raccoglieva qualche sponsor, che naturalmente era ben lieto di contribuire, dato il ritorno d’immagine che gli portava. In realtà lui faceva queste cose per farsi pubblicità, non c’era nessun altro motivo. Soprattutto per esibizionismo. Diceva sempre: «Non mi butto dalla Tour Eiffel solo perchè non potrei rivedermi». I tuffi dal ponte erano puro esibizionismo. Aveva cominciato perché a Roma c’era il famoso Mr Ok, un italo-belga che si buttava a capodanno dal ponte Milvio. Una scommessa con il suo amico Luca Nicolai fece il resto. Una volta Mr Ok venne a Pescara e andò a trovare papà, e lui colse l’occasione per ridergli in faccia dicendogli “noi qui siamo tanti che ci buttiamo nel fiume a capodanno!”. A volte, durante la festa di S.Andrea, si issava fino alla cima del pennone della sua paranza e poi scivolava giù dalla vela buttandosi nel fiume. Era una specie di stuntman, e del resto aveva anche avuto un’occasione di entrare nel cinema. Ho una foto sua vestito da fachiro, ma era troppo

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attratto dal mare e stare a Roma per lui era impossibile. Papà avrebbe potuto fare tante cose che la città non gli ha permesso di fare, le istituzioni per prime. Se lui fosse nato in una città come Rimini gli avrebbero permesso sicuramente molto di più, e già 40 anni fa avremmo avuto un’isola dei sogni, come la chiamava lui. L’idea l’aveva avuta già quando fece il pontile. È sempre stato un innovatore.

L’invenzione della palma

La prima palma è nata in questo modo: una mattina – sarà stato forse il 1984– siamo arrivati al mare alle sette e abbiamo trovato un tronco riportato dal mare, tutto storto. Lo avevamo alzato in piedi e ci domandavamo cosa farne. Papà disse: facciamone un super ombrellone. E allora siamo andati a comprare delle assi di legno e lo abbiamo costruito in quattro e quattr’otto, coprendolo con le foglie di palma prese dalla riviera. Da lì venne l’idea di fare tutta la prima fila di ombrelloni proprio con quei palmizi. La sua idea in realtà era che tutta la costa pescarese fosse caratterizzata da questa soluzione, e ben presto anche gli altri balneatori adottarono le palme con la sua consulenza, realizzando uno dei suoi sogni per l’amata città. Quando papà vendette lo stabilimento io rimasi a lavorare con i nuovi proprietari, perché avevo bisogno di un lavoro che durasse dodici mesi, non solo una stagione. Il Jambo era allora solo un gazebo con una cucina arrangiata, non aveva neanche gli ombrelloni. C’era mio fratello Luca che ci lavorava, ed era più che sufficiente. E poi ero legato affettivamente a quel luogo, lo sentivo come casa mia. Nonostante tutto, quando ottenne la concessione balneare per il Jambo mi capitava spesso di andare a dargli una mano, al termine del lavoro allo stabilimento Eriberto. Gli chiudevo gli ombrelloni volentieri, più veloce di me non c’è nessuno: ci mettevo sì e no un quarto d’ora, avevamo studiato tutte le tecniche per fare presto: due secondi per chiudere una sedia, tre per chiudere un lettino. Ero velocissimo e credo di esserlo tuttora; ero più veloce perfino di papà. Da lui ho imparato la cortesia verso i clienti, e quello che mi faceva rabbia era che i nuovi proprietari di Eriberto non usavano lo stesso trattamento che lui aveva con i suoi clienti. Bisogna mantenere una continuità: quando uno è disponibile ha solo da guadagnare. Papà diceva che “il cliente ha sempre ragione anche se ha torto”.

L’onestà

La cosa più importante che mi insegnato papà è l’onestà: una volta presi cento lire dalla sua macchina per giocare a biliardino (allo stabilimento suo!) e mi fece un rimprovero che non lo scorderò mai per tutta la vita.


• Eriberto scherza con due aragoste in Kenya.

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Dovevo chiederle, mi disse, e me le avrebbe date. Tante volte abbiamo trovato portafogli, anelli d’oro, orologi, facendo dei lavori sulla spiaggia. Ero in grado di ritrovare un anello su 10.000 metri quadrati di spiaggia. Non ho mai preso niente che non fosse mio. Quando pulivamo la spiaggia lavoravamo su ogni millimetro, eravamo gli unici ad avere il trattore quando gli altri usavano ancora il setaccio a mano, e ci toccava anche leggere sui giornali che “la spiaggia di Eriberto è sporca”, cosa che puntualmente mio padre doveva smentire. Credo che spesso si dicesse male del nostro stabilimento perché molti lo invidiavano, ma era l’Abruzzo che doveva essere invidiato dalle altre regioni per avere uno che riusciva a fare certe cose. I peggiori nemici purtroppo ce li avevamo in seno. Non si è mai riusciti a fare una cosa insieme agli altri balneatori: ogni idea che aveva papà veniva sempre malvista dagli altri, cambiare la mentalità era difficilissimo. Per esempio papà aveva cominciato ad aprire lo stabilimento a Pasqua: gli altri naturalmente gli davano del matto, come per le palme o per l’idea di lasciare in spiaggia gli ombrelloni a fine giornata. Ma aprire in quel periodo, essere già pronti, era un’ottima pubblicità per l’estate, un investimento. Era il modo migliore per avere nuovi clienti. Forse adesso si comincia a capire l’importanza di quello che faceva Eriberto. Papà era certo una persona particolare, con lui non lavoravi: correvi. Certe persone sono venute a lavorare e dopo due ore sono andate via, ma se si superava la prima settimana era fatta. Ti metteva alla prova, ti tambureggiava i primi giorni per vedere come reagivi. Dopo era tutto un coprirti di elogi, ma all’inizio era durissima. Ai suoi dipendenti non ha mai fatto pagare un soldo, in queste cose era insuperabile.

Quando fece mangiare gratis 2000 persone

Nel ristorante sono passati tanti personaggi: mia madre mi racconta che una volta a Pescara al teatro Massimo vennero Renato Carosone e Gegé di Giacomo, con Corrado che faceva da presentatore. Naturalmente vennero a mangiare al ristorante dopo lo spettacolo. Di Giaco-

• La costruzione del pontile

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mo improvvisò una batteria usando piatti e bicchieri, la clientela impazzita. Mia madre era allora una gran bella donna, anzi a detta di molti era la più bella donna della città. Corrado le propose di fargli da valletta, non in quella serata ma sul serio, come professione. Lei, che era incinta di me all’epoca, disse ovviamente di no. Quella serata segno un po’ l’inizio del successo del ristorante. In quel periodo c’erano solo due ristoranti sul mare: Eriberto e Guerino, che era un po’ più di lusso; quello di papà invece era un po’ più alla mano, si mangiava praticamente sulla spiaggia, di fronte al mare: era un’atmosfera splendida, papà sapeva cosa voleva la gente. Una volta andammo con un gommone a Ortona a pescare le cozze, papà, io e mia sorella e c’era Marcello Alby. Partimmo alle sette e tornammo verso l’una e mezza allo stabilimento, dove ci aspettava un amico di papà, Peppe De Cecco. Quando vide la quantità di cozze che avevamo riportato (e che Alby aveva pulito a dovere mentre noi le pescavamo) disse: potremmo fare una bella cena stasera. Fece arrivare un camion di pasta, e al costo di una bombola di gas abbiamo organizzato una cena: abbiamo fatto mangiare gratis 2000 persone.

Il nostro sogno: lavorare con lui

Il rapporto con mio padre si incrinò dopo la vendita dello stabilimento. Io restai a lavorare da Eriberto per cinque o sei anni, poi me ne andai anche da lì e presi lavoro allo stabilimento Le Hawaii, ma durò poco. Data la corte spietata che papà continuava a farmi, decisi di tornare a lavorare con lui, era il 2001. Si lavorava anche 20 ore, dalle sette del mattino alle tre di notte; ho imparato a fare il barman, lavoravo a fianco di veri professionisti. Eravamo in quattro e servivamo circa 1000 persone a sera. Purtroppo quell’estate arrivò qualcuno a fare un’offerta che mio padre non poteva rifiutare: voleva in gestione lo stabilimento offrendogli più soldi di quelli che papà aveva speso. Ovviamente la mia avventura al Jambo finì quell’anno, e anche il mio lavoro sul mare. Papà accettò l’offerta. Non potevo volergliene, era davvero un’ottima occasione, avrebbe continuato a gestire lo stabilimento senza il peso del lavoro notturno. Certo, ne rimasi dispiaciuto esattamente come quando aveva venduto il ristorante Eriberto. In fondo il mio rapporto con lui si è deteriorato solo per le sue mancate promesse. In realtà il sogno mio, e anche quello di Anita, era di poter lavorare con lui, volevamo stargli vicino e lavorare tutti insieme nel nostro stabilimento. Avremmo potuto creare qualcosa di grande, tutti insieme, come una famiglia. E se mio padre avesse avuto una mente più imprenditoriale e fosse stato meno “uomo di spettacolo” forse ci sarebbe riuscito, avrebbe avuto magari anche 10 stabilimenti.


•Inaugurazione della “passeggiata Eriberto” sul lungomare cittadino.

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Anita Mastromattei

L’

amore per la sua città e per le sue origini lo ha trasmesso in pieno a tutti noi figli. Io sento di amare la città proprio come la amava lui, perché mi ha insegnato a viverla dalla mattina presto, apprezzare il sorgere del sole nella quiete dell’alba, quando non c’è nessuno. E continuo ancora oggi ad emozionarmi ogni volta che porto a spasso il cane in spiaggia alle sei del mattino. Nei periodi della sua malattia ho fatto di tutto perché lui potesse provare di nuovo queste emozioni: la mattina di ferragosto l’ho portato al mare, sulla sedia a rotelle, e si è emozionato, ha quasi ripreso vita. Mi rivedo molto nella sua energia, mi sento addosso il suo entusiasmo, la sua forza, la sua voglia di vivere; mi sento instancabile, come se lui fosse dentro di me. Diceva spesso che tra tutti e tre i figli quella che si avvicinava di più alla sua indole ero io. Credo che questo sia in parte vero: nel mio Dna c’è la sua parte energica, creativa, esibizionista e generosa, ma dall’altra parte ho anche i geni di mia madre, amorevole, dedita alla famiglia. Cerco di trasmettere a mia figlia i pregi dell’uno e dell’altro, proprio come autonomamente ho fatto io cercando di prendere il meglio da entrambi i miei genitori. Ho avuto con papà un rapporto anche conflittuale: avevo bisogno di lui più come padre che come personaggio, e lui è purtroppo stato sempre più personaggio. Quando è successo il peggio piangevo disperatamente, sentivo quasi un vuoto, quel vuoto che avrei voluto che lui colmasse, in vita, come padre. Mi ha fatto molto male e fa male anche oggi… ma come dice sempre anche mia madre, se avessi avuto il padre che desideravo non avrei avuto Eriberto, devo accettarlo com’era. Ed era divertente: quando i miei si separarono mi capitava spesso di tornare a casa e dire a mia madre: “Che tristezza, mamma, la vita sarebbe senza papà”. Ci rendeva la vita estremamente movimentata. Mio padre ci ha investito di responsabilità anche supe-

riori a quelle che possono competere a bambini di sette, otto, dieci anni: ricordo il giorno in cui mi mandò a pagare il canone demaniale, mettendomi in mano dieci milioni. Avevo appena dieci anni. Spesso ci affidava un motoscafo da 150 cv per far fare sci nautico ai clienti, naturalmente senza patente. E queste responsabilità che ci dava erano una grande manifestazione di fiducia, e ci rendeva consapevoli di poterle assolvere. Siamo cresciuti in fretta. Attraverso questo suo modo di essere anche bizzarro, sopra le righe, un po’ folle, ci ha fatto crescere. Ti dava sicurezza: in mare non ho mai avuto nessuna paura, se c’era lui, in qualsiasi condizione meteorologica, ero tranquilla, non poteva accadermi nulla. E non era incurante del pericolo, sapeva perfettamente ogni cosa che faceva. Aveva voglia solo di superare i propri limiti e ci spingeva a fare altrettanto. Poteva sembrare un matto, ma ogni progetto che realizzava era pensato con piena coscienza. Una volta mi disse di salire fino alla cima dell’albero della barca che sta davanti al Jambo. Mi fece sedere su una tavoletta agganciata con delle cime per andare a srotolare lo spinnaker che si era intrecciato, ad un’altezza di quasi tre piani. Mi chiese esattamente quanto pesavo, fece i suoi calcoli e mi fece salire. Aveva conoscenze tecniche, non scolastiche, in grado di rivaleggiare con quelle dei tanti architetti e ingegneri che per questo lo ammiravano: le sue costruzioni –sempre realizzate senza progetti e permessi– ottemperavano a qualsiasi norma di sicurezza e resistevano alle condizioni climatiche e meteorologiche, anche le più avverse, al contrario di opere realizzate da tanti professoroni. Pensiamo alla sfera di Fay Sport che eresse su un traliccio in cima allo stabilimento: era tutto studiato, e malgrado sembrasse una struttura esile e a forte rischio soprattutto in caso di vento forte, non ebbe mai problemi. Da buon Scorpione, era anche bravo a curare le persone, era una sorta di dottore e non aveva repulsione per ferite o cicatrici, piuttosto ne era attratto: assisteva alle autopsie col dottor Bracali, fu in grado di guardare il medico che gli operava il braccio per curargli l’epicondilite senza battere ciglio. Questa figura di pescatore, rozzo e stravagante, era solo il vestito di un uomo saggio e molto competente a dispetto dell’assenza di un qualsiasi titolo di studio. Era uno spirito nobile. Molti pensano che proprio per il suo modo di porsi avesse umili origini, ma veniva da una famiglia benestante, ultimo di sette figli e unico della famiglia a non aver voluto studiare: mio nonno lo legava alla sedia come Vittorio Alfieri, ma contro la sua volontà… lui scappava, gli piaceva il mare e spesso stava fuori la notte, andava a pesca sulle paranze. Per farsi perdonare si metteva in verticale sopra la croce di Sant’Antonio, e mia nonna gli gridava: “Eriberto, ti perdoniamo, basta che scendi da lì”… I miei nonni era-

• Eriberto/Befana con Giulia, la nipotina; nella pagina a fianco Eriberto con la figlia Anita.

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no molto preoccupati per il futuro di questo figlio che aveva questa smodata passione per il mare (trasmessa da mio nonno, che al fascino del mare non era indifferente ma che coltivava con molta più moderazione), e decisero di comprargli una piccola concessione balneare. Mio padre era però totalmente incapace di gestire l’attività da un punto di vista amministrativo, e a questa carenza sopperiva mio nonno, e successivamente mia madre, sempre presente in azienda. I miei ricordi dello stabilimento Eriberto sono in gran parte legati ai tornei di tennis. Ricordo la folla che assiepava gli spalti, le cabine, i muretti, che pagavano perfino un biglietto per assistere a partite tra personaggi, non certo professionisti, che si sfidavano sui campi di terra rossa a colpi di sfottò… Io ero incaricata di fare il giro di tutti gli enti e le istituzioni con il motorino, che a dieci anni neanche potevo guidare, per raccogliere le sponsorizzazioni: coppe, targhe, gadget vari. Alla Coca Cola invece andavo con un autista, perché ci fornivano ombrelloni, sedie da regista, tavolini, così come alla Saquella. Alla fine del giro tornavo allo stabilimento carica con tutti i gadget che occorrevano per la premiazione. E quando il torneo finiva andavamo la sera tardi alla pizzeria Nastro Azzurro, a fare due chiacchiere prima di andare a dormire. Io ero ancora piccola ma adoravo quel vivere frenetico che ci riempiva la vita. Per una bambina era un’esperienza meravigliosa, era molto divertente l’atmosfera che si respirava. La storia del Jambo invece è questa: lì c’era lo stabilimento “È nata una stella”, della famiglia Massacesi; i tre figli alla morte del padre non rinnovarono la concessione che quindi tornò in mano alla Capitaneria di Porto. Uno di questi tre figli venne preso a lavorare da papà, che gli propose di riprendere la concessione sfruttando anche la forza del suo cognome. Lui rifiutò, papà disse che avrebbe tentato anche da solo, e così ci riuscì. Ne fece un alaggio di barche che chiamò “Marina di Eriberto”, una rimessa ad uso e consumo dei clienti di Eriberto. Il vecchio stabilimento era già stato smantellato, non c’era niente; lo stabilimento precedente comprendeva anche quella che oggi è la zona di spiaggia libera, quindi era molto grande. Papà prese solo quei trenta-quaranta metri di spiaggia che gli servivano per la rimessa. Era il ’92.

«Sono la vostra seppia…»

Io avevo tanta voglia di dedicarmi alla ristorazione, così chiesi –ed ottenni– di allestire una cucina piuttosto primitiva su quel tratto di spiaggia, erigendo un prefabbricato con un paio di bombole del gas e un piano per lavorare; addirittura mia madre da casa mi aiutava preparando lasagne e parmigiane. Io coinvolsi Gianna D’Alberto, una cliente dello stabilimento Eriberto, nonché amica di famiglia, molto brava a cucinare. Il risul-

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tato? Un successo nonostante la precarietà della struttura; eravamo costretti a mandar via le persone, ogni sera era un pienone. Era proprio per questo che quel posto riscuoteva tanto consenso, per l’atmosfera un po’ selvaggia e familiare. Dopo un paio d’anni papà riuscì a convertire la concessione da rimessaggio in concessione balneare, e nacque ufficialmente il Jambo. Come sempre senza alcun tipo di permesso. Ricordo il giorno in cui arrivarono i carabinieri per fare i controlli in cucina: “Siamo i NAS”, dissero. E papà, per tutta risposta: «Sono la vostra seppia, fate di me quello che volete» (gioco di parole: NAS, Nucleo Anti Sofisticazione, somiglia alla parola “nasse”, ovvero le trappole per catturare le seppie, ndr). Questa frase ha fatto il giro del mondo. Del resto il Jambo era “lo stabilimento del pirata”, quindi era perfettamente consapevole di agire al di fuori delle regole. Lui prima costruiva e poi metteva in regola, altrimenti non gli avrebbero mai permesso di fare quel che voleva. E comunque ogni volta che ha costruito qualcosa nessuno gliel’ha mai fatta poi smantellare: quel che faceva aveva un senso, e soprattutto non portava altro che lustro e ritorno d’immagine per la città, come il terzo campo da tennis, realizzato in una notte. Metteva l’amministrazione davanti al fatto compiuto, e poi pagava. E tutti si innamoravano di quello che faceva, dagli amministratori ai turisti ai cittadini.

Juma

Tra le tante esperienze va senz’altro ricordato il periodo in cui papà ci portò Juma: era il 20 agosto del 1982, io avevo 15 anni e un cucciolo di leone entrò a far parte del nostro quotidiano. Per ben 8 mesi (e a 8 mesi posso assicurare che non era più un leoncino) lui e papà sono stati in simbiosi, Eriberto giocava con lui come un bambino con il suo micio. Per tutto questo tempo Juma ha vissuto allo stabilimento, libero di correre sulla spiaggia, che d’inverno era poco frequentata. A marzo dell’83 Juma aveva 8 mesi circa e non poteva più stare in azienda, la stagione estiva era alle porte e in città si era sparsa la voce… in molti avevano paura di venire allo stabilimento. Così papà prese contatti con il direttore dello Zoo Safari di Fasano: era il posto migliore per un leone cresciuto in cattività, chilometri di spazi all’aperto, libero di correre e stare insieme ai suoi simili. Il dolore per il distacco fu forte per tutti noi ma non c’era scelta, incominciava ad essere adulto e quindi i rischi erano alti. Siamo tornati due volte allo zoo per rivederlo ed entrambi gli episodi sono stati più che emozionanti. La prima volta fu dopo soli tre mesi: Juma alla nostra vista si emozionò e non esitò ad andare incontro a papà che, folle, era sceso dalla macchina nonostante l’assoluto divieto persino di aprire i finestrini. Conservo ge-


• Eriberto con Anita in barca e, qui sopra, con la piccola Giulia.

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losamente le foto di quei momenti che hanno dell’incredibile: Juma come un gattone salta addosso a papà leccandogli il viso… La seconda volta fu dopo circa un anno. Juma oramai adulto aveva una testa grande come un 50 pollici, era irriconoscibile e soprattutto incuteva timore e non solo a me… Ma riconobbe subito la nostra macchina, si avvicinò con decisione al finestrino e per la prima volta vidi l’esitazione di papà: con il dito sul pulsante lasciò leggermente alzare il vetro del finestrino… era veramente mastodontico, così come il suo ruggito, che forse era un saluto! Juma subito fu richiamato dal capo branco, non poteva e non doveva avvicinarsi a noi… quella era la legge del branco.

Un grande sportivo

Il periodo più bello della vita lavorativa di papà è stato durante la collaborazione con Michele Cicchini. C’era un’armonia e un rispetto reciproco tra i due che faceva funzionare tutto a meraviglia: un equilibrio perfetto che ha fatto sì che stabilimento e ristorante lavorassero in sinergia verso un obiettivo comune, cioè rendere quel luogo un punto di riferimento imprescindibile per la città. E la grande stagione sportiva vissuta da Pescara in tutte le sue discipline è stata d’aiuto. Papà era un grande sportivo: negli anni ‘50 vinceva gare di canottaggio a Castel Gandolfo e all’Idroscalo di Milano. Era un sommozzatore provetto: i Vigili del Fuoco, negli anni ‘60, non avevano una squadra di sommozzatori, così per tutti gli interventi, anche quelli più inquietanti, chiamavano lui. Anche per questo i Vigili del Fuoco hanno sempre avuto per lui un occhio di riguardo in occasione delle sue imprese; faceva sci d’acqua, adorava la vela: riportò un due alberi da solo, da Napoli a Pescara, senza alcuno strumento che potesse aiutarlo nella navigazione. Tutto ciò che comportava la presenza dell’acqua lo affascinava, ovviamente la sua passione per gli sport “di terra” era inferiore. Ma era tifoso dell’Inter e del Pescara.

Mitiche serate

Nel ’94 decise di progettare la struttura “caraibica” del Jambo, e di riassumere in quel progetto le idee raccolte durante tutti i suoi viaggi esotici. Purtroppo accadde che lo stabilimento venne incendiato, poi addirittura sequestrato. Ci fu una lotta spietata da parte del proprietario della casa di fronte, che gli mandò controlli a raffica, diceva che gli aveva oscurato la vista del mare. Dopo il dissequestro papà rase al suolo tutto e ricostruì daccapo. Nel ’96 finalmente iniziò l’attività balneare vera e propria. Io proposi e ottenni di proseguire la durata dell’attività oltre il tramonto, cosa che allora solo pochi altri stabilimenti facevano. Le nostre serate furono un successo enorme, il locale era sempre pieno e per papà era una novità assoluta il vivere dei ragazzi di oggi, il cosiddetto “popolo della notte”. Guadagnavamo tantissimo. L’idea era partita da me, e anche per questo mi ero assunta io la responsabilità di gestire quelle serate, facendomi aiutare per le pubbliche relazioni dal mio amico Guido Carinci. Di conseguenza ero il punto di riferimento di tutti, dai clienti ai dipendenti, e questo a lui dava un po’ fastidio, perché in quel momento non era lui al centro dell’attenzione. Ma nonostante qualche contrasto iniziale dovuto a queste piccole gelosie, siamo andati avanti benissimo, perché tutti riconoscevamo il valore della sua presenza, della sua forza e delle sue idee. Abbiamo cavalcato la sua onda. E avrei voluto continuare a cavalcarla, ma purtroppo a causa di alcune scelte discutibili, le nostre strade si sono divise. Per esempio quando mio fratello Luca era diventato abbastanza grande e aveva già le competenze per poter gestire il ristorante del Jambo, l’anno in cui si è diplomato papà diede il ristorante in gestione a un altro. E non ammise discussioni, motivò anzi la sua scelta –che io trovavo sconsiderata– dicendo che Luca doveva fare esperienza fuori dall’Italia, che non doveva restare lì. Era un padre padrone, a volte. Io e Erminio da un certo punto di vista siamo stati fortunati: non vivendo con lui ne abbiamo potuto prendere solo il bello, viverci insieme non era affatto facile. Adesso lui non c’è, ma potevamo dimostrargli che potevamo farcela a stare insieme tutti quanti. Noi tre figli e la moglie. Ma hanno preferito vendere, cosa che io non avrei mai fatto.

Era mio padre

Papà: geniale, forte e debole allo stesso tempo, era il bianco e il nero, odio e amore, era un viluppo di emozioni e sentimenti contrastanti. Te li faceva provare, quei sentimenti: l’ho amato e odiato allo stesso modo. Era in grado di darti le stelle o di portarti alle stalle nel giro di un’ora. Era geloso, impetuoso, vulcanico. Una forza dirompente. Nel periodo della sua malattia ho cercato di fare di tutto per alleviare le sue sofferenze, era una cosa che sentivo forte dentro. Ma ancor di più sentivo l’esigenza di rivendicare il mio ruolo di figlia. • Giulia con l’agnellino regalatole dal nonno

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• Eriberto e Anita in vacanza alle Mauritius e a Marilleva

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Luca Mastromattei

R

icordo che nel 1990, durante il periodo dei mondiali, stavamo lavorando al Jambo. Quell’anno, in realtà, nasce “Marina di Eriberto”: in quello spazio c’era la rimessa delle barche dello stabilimento Eriberto, che si utilizzava come deposito di barche, mosconi e catamarani per i clienti dello stabilimento. Era un “libero alaggio di barche con custodia”. Nel frattempo lo stabilimento continuava ad esistere, papà aveva ceduto parte della proprietà ad altre due persone e dalla cessione di quelle quote ottenne i soldi per poter portare Jambo a concessione balneare. Inizialmente il Jambo era un piccolo bar pizzeria, addirittura da asporto. Lo stabilimento venne bruciato nel ‘94 e prima ancora sottoposto a sequestro per delle irregolarità nel collettore fognario insieme ad altri stabilimenti: in quel periodo c’era un giudice che fece passare un sacco di guai a molti altri stabilimenti (anche il Belvedere, l’Aurora, Guerino furono messi sotto sequestro per le stesse irregolarità). Dopo qualche tempo lo stabilimento venne incendiato: qualche malelingua pensò addirittura che fosse stato lo stesso Eriberto a mettergli fuoco, ma in realtà non c’era nessun tipo di assicurazione, mancando una recinzione. Quindi semplicemente decise di ricostruire. Dall’incendio comunque si salvò la cucina che era staccata dalla sala, ma la stagione era comunque compromessa. Nei mesi successivi si adoperò molto per far dissequestrare lo stabilimento e per ricominciare a costruire quello che vediamo anche oggi. Papà vendette lo stabilimento Eriberto per vari motivi: un po’ perché il periodo migliore di quello stabilimento era ormai terminato e anche perché voleva avere più tempo da dedicare alla sua nuova iniziativa, dato che era faticoso portare avanti le due situazioni contemporaneamente. Credo che il motivo principale fosse che aveva perso un po’

• Eriberto e Luca in Croazia con Gianni Serafini

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l’entusiasmo da quando era andato via Michele (Cicchini), e quindi pian piano si staccò dalla sua creatura per dedicarsi completamente al nuovo stabilimento. Nel Jambo ha riversato tutte le sue esperienze di viaggio e di navigazione: il nome stesso è l’espressione di saluto che si usa in Kenya.

Il Jambo

La clientela del vecchio stabilimento lo seguì in questa nuova avventura, e le piccole dimensioni del Jambo la resero ancora più selezionata. Il locale era più chic, aveva perso un po’ lo spirito popolare, almeno esteticamente; in realtà all’interno la vita era la stessa che si faceva nel vecchio stabilimento: feste ogni giorno, cene, il clima era esattamente lo stesso. Il Jambo è stata l’ultima creazione di papà, alla quale lui ha dedicato tutta l’ultima parte della sua vita investendoci enormi risorse economiche, finanziarie e soprattutto affettive. È ovvio che dava l’80% al locale e il 20% alla famiglia, ma se c’è stato uno che è riuscito a far conciliare i propri sogni con le aspettative della città quello è stato proprio papà. È stato un imprenditore atipico all’interno della classe balneare, era l’unico che poteva dirsi “artista del turismo”; non voleva stare dietro una scrivania, non voleva guadagnare, voleva solo “fare”. Le sue idee dovevano essere di esempio, dovevano costituire motivo di attrazione per la città; tutto quel che faceva era volto a questo scopo e spesso ciò avveniva anche contro ogni regola commerciale, aziendale o di mercato: se una cosa non si poteva fare lui cercava di farla lo stesso perché aveva una risonanza benefica verso la città. E in questo senso il Jambo era una novità assoluta sul litorale di Pescara: era lo stabilimento più “in”, il più in vista, il più chic di tutta la spiaggia. La vera novità del Jambo era proprio il vecchio Eriberto con tutta la sua personalità e le sue idee, dal modo di abbellire il locale alle piante all’ester-


• Luca col padre Eriberto in partenza per il Venezuela

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no, fino alla forma del bar, rotondo, fatto in stile africano con tutti i pezzi riportati dal Kenya. Era un luogo elegante con tanti servizi e un certo tipo di clientela. Si distingueva per tutte queste caratteristiche dagli altri stabilimenti anche perché papà riusciva a dedicarcisi molto di più che all’altro.

Le feste sulla spiaggia

Lui è stato uno dei primi a fare le feste sulla spiaggia e portò questa tradizione anche nel nuovo stabilimento, che viveva molto di sera anche grazie all’intervento di mia sorella Anita che lo gestì per qualche anno; e il successo fu enorme. Papà c’era sempre, io avevo otto o nove anni e lavoravo con lui. Mi ha insegnato tutto: a ricevere la gente, a pulire la spiaggia, a passare il trattore (e pensare che ero minorenne), chiudevo montavo smontavo gli ombrelloni, mia madre si arrabbiava perché non voleva che facessi quegli sforzi ma papà mi incitava a fare tutte le esperienze possibili e lo ringrazio ancora di questo. Ho ricevuto praticamente lo stesso trattamento dei miei fratelli più grandi: a 15 anni avevo già avuto tante di quelle esperienze che un giovane di oggi se le sogna; ho fatto una vita selvaggia. Lui si è impegnato tanto con tutti i suoi figli, prima con i miei due fratelli e poi alla fine con me, per farci diventare come lui, per trasmetterci il suo spirito nel modo di fare le cose, anche con discussioni, litigi, contrasti. Ma alla fine la spuntava sempre. Il risultato è che io a otto anni anni già guidavo la moto d’acqua e portavo il trattore. Salivo sul tetto di Jambo per cambiare la paglia, con mio padre, attaccato ad una cima. Ci insegnava anche come pulire la spiaggia, come chiudere gli ombrelloni, la cura e l’amore per le piante… tutte cose che ci ha trasmesso lui. E da lì è nata anche la mia passione per la cucina: a 13 anni già facevo le pizze, anzi prima ancora di andare alla scuola alberghiera facevo 100, 150 pizze a sera. Papà mi ave-

• Con il piccolo Luca durante i lavori allo stabilimento Eriberto

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va costruito una pedana di legno sulla quale salivo per poter lavorare ai fornelli. Naturalmente mia madre non approvava: il lavoro era veramente tanto ma è proprio quel che che ho fatto al Jambo che mi ha indirizzato verso un percorso di studi mirato a capitalizzare le mie competenze. Se papà non avesse premuto l’acceleratore con me come ha premuto anche con i miei fratelli oggi non mi troverei ad essere la persona che sono. Molti dei suoi clienti lo avevano seguito nella nuova avventura, il nome di papà era una garanzia. Purtroppo non c’era posto per poterli ospitare tutti, perché il Jambo era molto più piccolo di Eriberto: c’erano solo quattro file di palme, poi sono diventate cinque e l’ultimo anno eravamo riusciti ad averne sette, rosicchiando ogni anno una striscia di sabbia in più al mare. D’inverno mettevamo delle tavole in modo che il vento raccogliesse la sabbia su quelle tavole; a giugno bastava toglierle e ci trovavamo sabbia pulita da poter utilizzare per spianare la spiaggia e guadagnare una fila per mettere le palme. Anche questo era parte del personaggio Eriberto. La cosa singolare della sua avventura è stata soprattutto che non ha mai avuto relazioni politiche, non si è mai appoggiato a nessuno, ha sempre fatto tutto da solo. Incarnava un po’ una certa idea di superuomo, era in grado di fare tutto, gli riusciva sempre tutto, cadeva sempre in piedi. Lui era non solo il collante che teneva insieme il suo eterogeneo gruppo di amici, ma la sua personalità era quello che ci teneva attaccati, noi tre figli, a lui. Lo ammiravamo: eravamo tutti meravigliati dal modo in cui lui si comportava nel suo lavoro. Certo abbiamo sofferto del fatto che lui si dedicasse così tanto alla sua attività, ma alla fine era nostro padre, gli volevamo bene anche per quello. Tutto quello che guadagnava veniva reinvestito nello stabilimento: se non c’erano modifiche da fare lui si inventava le modifiche, se non c’erano miglioramenti lui inventava i miglioramenti.


• Eriberto e Luca con un pescatore all’Isla Margarita in Venezuela.

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Impossibile fermarlo

Non sempre abbiamo appoggiato le sue scelte, ma era assolutamente impossibile cercare di fermarlo: era come se due mosche (io e mia madre) cercassero di fermare un aereo. Certo che essere cresciuti come il figlio di Eriberto è tuttora una delle cose più belle che mi siano successe. Sono molto grato per tutto quello che ha fatto per me, è stato un onore stargli accanto, conoscere quel personaggio, e per la città è stata una fortuna che esistesse uno come lui. Non c’era verso di farlo ragionare, spesso anche contro il suo interesse economico: se doveva fare una cosa la faceva e basta e questo riguarda anche la trasformazione di un anonimo deposito barche nel locale più “in” della costa pescarese. Con papà è morta anche la tradizione. Di tipi come lui ne nasce uno ogni cent’anni, e quando nasce purtroppo deve avere anche il terreno per poter agire. Lui stesso non è stato compreso affatto dagli amministratori della nostra città. Una volta decise di convertire le cabine spogliatoio a moduli abitativi in stile di bungalow africani, e lo fece. Sarebbe stata una cosa fantastica per un turista poter dormire davanti alla spiaggia con il proprio giardinetto e la colazione servita dallo stabilimento. Certo, era una provocazione: papà voleva semplicemente porre l’attenzione sulla mancanza a Pescara di strutture alberghiere, non voleva che i turisti andassero a dormire (e quindi a portare soldi e fama) a Montesilvano o a Francavilla; voleva che Pescara primeggiasse. Dentro quelle due casette c’era perfino l’idromassaggio! Naturalmente vennero i controlli e siccome questi moduli abitativi non erano sulla piantina dello stabilimento (del resto come potevano?) dopo pochi giorni invece di smantellarli ci mise due belle insegne: “pronto soccorso” e “bagno disabili”, tolse i letti, si fece dare uno dei lettini da ospedale e quindi riuscì a tenerle in piedi. La storia della barca è più o meno la stessa, mise l’amministrazione davanti al fatto compiuto. Quella barca che adesso è di fronte al Jambo apparteneva al marito di mia zia, ovvero la sorella di papà, Elisabetta. Con lui papà condivideva la passione per il mare e per le barche, ed era tanto l’amore che provavano per quell’imbarcazione che nel tentativo di abbellirla la caricarono di talmente tanti pezzi che alla

fine la barca si appesantì troppo e affondò; la ritirarono su ma purtroppo non potevano più tenerla in mare. Così pensarono di metterla sulla spiaggia libera, addirittura sopra gli scogli (ne facevano dei discorsi seri) e alla fine decisero di tirarla in secco e di metterla davanti allo stabilimento: alle due di notte riuscì a posizionarla e la mattina naturalmente era pieno di poliziotti, di vigili e Capitaneria. Va detto che la barca non entrava nell’aiuola, perché oltre ai lampioni c’era una palma che la bloccava. Naturalmente piuttosto che segare una parte della barca, papà sradicò la palma e la portò, radici incluse, dentro lo stabilimento. È ancora lì, viva e vegeta. L’aveva già fatto una volta, asportò una palma che si trovava nel giardino di un avvocato che conosceva, nella zona di piazza San Francesco. La notte con una gru riuscì a toglierla e a portarla dentro lo stabilimento; nello sradicarla, con lo scavatore, strappò un tubo dell’acqua scatenando un getto, una fontana tipo idrante, alle quattro del mattino… alla fine riuscì a convincere la proprietaria del giardino (che naturalmente era uscita per vedere cosa stava succedendo) che era necessario estirpare la palma, altrimenti sarebbe morta soffocata dalle tubazioni. Insomma, alla fine risultò che stava facendo un favore alla signora, e quella si prodigava in ringraziamenti. Per 7-8 anni Jambo è stato l’eccellenza sulla costa di Pescara, forse sulla costa dell’intero Abruzzo. Poi papà decise di dare il ristorante in gestione, forse un po’ per stanchezza: del resto aveva quasi settant’anni, e vissuti in quel modo. Si dedicò solamente alla spiaggia e finché c’è stato lui la clientela è sempre stata contenta. Aveva cominciato, in quel periodo, a lavorare al suo ultimo progetto, “l’isola dei sogni”, l’ultimo ricordo che avrebbe voluto lasciare a questa città. Ce l’avrebbe fatta, se non fosse accaduto quel che è accaduto, un malaugurato, stupido incidente. Prima che se ne andasse mamma decise di vendere lo stabilimento, non senza dolore, ma perché non c’era più nessuno che ci si potesse dedicare. Nessuno di noi, ovviamente; insomma, se finiva lui finiva tutto. Mia madre non ne ha più voluto sapere niente, papà era insostituibile. E non ci sarà più nessuno come lui.

• Anita, Luca e la nipotina Giulia; Luca e Eriberto con il cantante Tony Dalli a Marbella

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• Eriberto con la moglie Renata e il figlio Luca in vacanza. Qui sopra, i due stabilimenti in una panoramica aerea

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Mirella Angelozzi

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rano gli anni Sessanta ed ero una delle ragazze più corteggiate di Pescara. Lavoravo nel più bel negozio di Corso Umberto, “7 bello”. Ero sempre molto elegante; l’ambiente lo richiedeva, ma principalmente amavo vestire alla moda e con stile. Avevo circa 18 anni e proprio in quel periodo tra i tanti corteggiatori della “Pescara bene” c’era anche Eriberto. Era completamente cotto per me, me lo ritrovavo dappertutto! Ho iniziato a frequentare lo stabilimento e così è iniziato il mio rapporto con lui. Per me era il compagno di giochi: con lui ho imparato a giocare a tennis solo dopo poche settimane di lezioni che lui stesso mi impartiva, abbiamo anche vinto un torneo al parco Florida. Ero abbastanza portata per gli sport. Insieme facevamo pesca subacquea, mi chiamava “lo squalo dell’Adriatico” per la mia attitudine agli sport acquatici. Diceva: “lo squalo dell’Adriatico si è mangiato lo squalo tigre”, dove lo “squalo tigre” era lui. Eriberto si sentiva sentimentalmente sottomesso: all’inizio non pensavo a lui come possibile fidanzato, anche perché era più grande di me di 12 anni… malgrado la differenza di età e le mie iniziali ritrosie non si è mai dato per vinto: ha continuato a farmi una corte spietata per due anni. Ero intenerita da questo amore grande e plateale che ogni giorno mi dimostrava, da tutte queste attenzioni stravaganti e non, iniziai ad affezionarmi al punto di decidere di sposarlo. Durante questo periodo mi aveva convinto che non ci poteva essere un marito migliore di lui. Ci siamo sposati il 7 dicembre del ‘63 nel Santuario della Madonna di Loreto Marche. Al matrimonio presero parte tutti i parenti e gli amici che frequentavamo: l’avvocato Mas-

• In queste pagine Eriberto con la prima moglie Mirella

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signani, l’avvocato Cerceo, Trisi, l’ingegner Troncelliti, Stelvio Consorte, il dottor Vizioli. È stata una gran festa, durante la quale naturalmente non sono mancati gli scherzi e gli sfotto’ dei suoi compagni storici. A fine pranzo fecero scendere Eriberto giù per le scale con il cappio legato al collo. Subito dopo, in macchina: il viaggio di nozze da Pescara fino a Barcellona e poi Palma di Majorca, passando per Montecarlo. A lui piaceva molto –anche troppo– il gioco d’azzardo, per cui il casinò fu una fermata obbligatoria. Il viaggio fu faraonico: i migliori alberghi, gli acquisti folli… abbiamo speso la bellezza di 7 milioni di lire e negli anni ‘60 ci si comprava praticamente un appartamento. Erano le follie di Eriberto. Al rientro inizia la vita matrimoniale, il lavoro di un’attività fiorente, le responsabilità. Io lavoravo con lui, mi occupavo dell’amministrazione dello stabilimento e del ristorante, cose che lui non era in grado di fare. Il suo campo era la spiaggia, era la gente. È sempre stato un istrione, un uomo di spettacolo. Il mio obiettivo era invece quello di progredire, di far crescere la mia famiglia sotto tutti punti di vista… di migliorare. Ma lui ne combinava di cotte e di crude. Era capace di mandarmi su tutte le furie, tanto che prendevo e andavo via con l’autobus; lui allora raggiungeva l’autobus con la macchina, lo bloccava e si metteva a chiedere scusa platealmente, costringendomi a scendere. Io piangevo, lui veniva da me, mi leccava via le lacrime, e cinque minuti dopo era di nuovo lì a comportarsi esattamente come prima Dopo 11 mesi di matrimonio, quando nacque il nostro primogenito Erminio, per me il periodo del gioco in parte finì; non fu così per Eriberto, che restò sempre un eterno Peter Pan, dedito molto alla sua attività, al divertimento, al mare e agli amici, e poco presente in casa, poco attento alle esigenze familiari. Eriberto perse, o soppiantò rapidamente, le caratteristiche protettive e rassicuranti che mi avevano fatto innamorare di lui. Fu questo a provocare tutti i contrasti tra noi: io mettevo il valore e l’importanza della famiglia sopra ogni cosa; lui era succube delle sue stravaganze, del suo personaggio, dei suoi continui eccessi che non finivano mai. Ha messo a dura prova il nostro matrimonio e la mia salute. Ho lavorato, ho lottato come una leonessa per difendere il matrimonio, la mia famiglia. Ma non ce l’ho fatta. La nostra è stata una grande storia d’amore, ma anche una continua competizione tra due persone incompatibili, durata fino all’ultimo giorno della vita di Eriberto. Quando ha avuto l’incidente, durante la sua degenza in ospedale, ho cercato di fare il possibile, da lontano, per aiutare lui e la sua famiglia, senza oltrepassare i limiti imposti dal mio ruolo. Ho sofferto molto per la sua scomparsa così improvvisa e immeritata, che non si addice al grande personaggio che è stato. Ci siamo fatti tanto male ma abbiamo vissuto anche momenti indimenticabili, e il ricordo della nostra storia resterà sempre nel mio cuore.


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Renata Iacone

H

o conosciuto Eriberto alla fine degli anni ‘70. Aveva ancora il ristorante, che lui definiva “il mostro” a causa delle sue dimensioni. Lo conobbi a una festa in casa di una mia amica ai colli, era inverno, all’inizio mi era anche piuttosto antipatico: nella presentazione tutti mi dissero: “Ma come, non conosci Eriberto?”. No, non l’avevo mai sentito nominare. Lui da buon megalomane si è quasi offeso, ma io non frequentavo il centro come lui… Io al mare andavo al Marechiaro, con le amiche. Il 6 dicembre del 1980 ci siamo sposati. Quando lo conobbi si era già separato dalla moglie. Mi apparve subito per quello che era: un uomo che doveva sempre essere al centro dell’attenzione. Io invece sono esattamente l’opposto, mi piace stare dietro le quinte. Lui continuava a telefonarmi allo studio legale dove lavoravo, mi faceva una corte spietata e allora ho cominciato a frequentarlo. Pian piano, conoscendoci, è nata una simpatia, poi l’amore e il matrimonio. Nell’agosto dell’ ‘83 nacque Luca. Il primo viaggio che abbiamo fatto insieme è stato a Livigno. Lui pretendeva che sapessi sciare, mi ha portato sopra al cocuzzolo della montagna e mi ha detto: “Adesso scia”, esattamente come faceva con i suoi figli. Io ero spaventatissima! Di lui apprezzavo tanto il suo altruismo, aveva un cuore grande e ti faceva sentire importante anche con le piccole cose. A volte parlavamo di un problema che io trovavo enorme e lui mi diceva: “Non ti preoccupare, sorridi e basta, ci penso io”. Io sono un tipo ansioso, lui non lo era; ti tranquillizzava sempre. Ed io amo la tranquillità, non do fastidio agli altri, preferisco stare dietro le quinte, ma non per superbia o per superiorità, ma proprio per carattere; sono schiva, tutto il contrario di Eriberto: esuberante, generoso, estroverso, altruista. Diciamo che gli opposti si attraggono. Lui non amava la scrivania e infatti io ero quella che si occupava dell’amministrazione, e poi avevo anche lavorato vent’anni al Comune. Diceva: “non darmi scrivania carta e penna perche faresti di me un uomo morto”. Ci completavamo. Era un grande istrione: doveva stare bene prima l’amico e poi la famiglia, se un amico diceva che aveva bisogno di qualcosa e lui non l’aveva la chiedeva in prestito per poterla dare all’amico. Non sapeva dire di no. Ripeteva sempre: “Se fossi nato donna sarei stata la prima prostituta gratis”. Gli dispiaceva andare a chiedere a un cliente i soldi dell’ombrellone o di un conto non pagato al bar, per questo mi sono occupata sempre io dell’amministrazione del Jambo. Ogni mercoledì Eriberto comprava cassette di fiori al mercato –e spesso gli dicevo che spendeva un sacco di soldi– ma per lui i fiori erano tutto: i fiori e le belle donne non dovevano mai

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mancare nel suo stabilimento. Era il suo carattere. Forse grazie al fatto di essere così gli era consentita anche qualche deroga alla formalità: per esempio è capitato spesso che entrasse in Comune in tenuta da spiaggia, ma era anche la sua miglior caratteristica comunicativa. Lui era sé stesso e pretendeva che gli altri fossero sé stessi, non voleva compromessi e non voleva inganni. Poi vendette lo stabilimento “Eriberto” e partecipai anch’io alla realizzazione di Jambo. Quando andavamo all’estero lui memorizzava tanti piccoli dettagli interessanti che poi riproduceva nello stabilimento. All’inizio era un rimessaggio di barche, non c’era niente; pian piano ha creato, con lo stile esotico copiato dall’estero, questa che lui chiamava “la creatura”: una vera novità per Pescara. Quando aveva l’altro stabilimento, al mio posto c’era mio padre e quindi alla fine è stata mantenuta una continuità, sono subentrata a mio padre in un altro stabilimento. Affidarmi l’amministrazione del Jambo fu una scelta abbastanza condivisa ma Eriberto ha sempre voluto che la famiglia partecipasse alla sua attività; lo aveva fatto con la sua famiglia precedente e lo fece anche con la nostra. Si dava tutto quanto al lavoro, sembrava avere una giornata di 50 ore, e molto meno alla famiglia, ma comunque la quantità di affetto che riversava sui suoi familiari era la stessa che qualunque genitore riversa sui propri figli o qualunque marito sulla moglie. Era così, non potevamo farci niente ma non ci ha mai fatto mancare nulla. Non era “appiccicoso”, non aveva grandi slanci affettuosi: era quello che per insegnarti a nuotare ti buttava in acqua, o al posto di darti un bacio ti dava uno scappellotto sulla nuca. Lo faceva con i figli e lo faceva anche con me. Al Jambo lavoravamo tutti insieme: io all’amministrazione, Luca faceva le pizze, Anita si occupava del locale di sera e Erminio pensava alla spiaggia. Eriberto sorvegliava tutto, ficcava il naso dappertutto ma c’era una bella armonia. È stata anche molto dura, il lavoro era tanto e si doveva faticare parecchio. Per Luca è stata una specie di servizio militare prima del servizio militare vero. Eriberto era capace di darti tutto, ma dovevi fare quello che diceva lui; e allora sì che diventavi suo amico e potevi sperimentare la sua generosità. Quando abbiamo venduto il ristorante qualcuno si è arrabbiato, ma Eriberto motivò la sua scelta dicendo che non voleva che Luca –che ormai già era avviato verso una carriera in cucina– restasse a Pescara, voleva che andasse all’estero a fare esperienza. La verità è che la situazione per Eriberto cominciava ad essere pesante, anche se divertente: l’età avanzava e voleva dedicare la propria attività esclusivamente alla spiaggia. Tra le tante cose che fece, le varie battute anche colorite alle quali non rinunciava mai, ricordo che una volta si era diffusa la notizia che c’erano i ratti in spiaggia. Questo influì molto sulla presenza turistica. Un giorno Eriberto, come


• Renata ed Eriberto alle Maldive; sotto, Eriberto in Kenya.

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faceva di solito, prese il microfono per dare informazioni sul meteo ma poi, visto che la gente non veniva più perché c’erano i topi e visto che non era vero niente, disse: “Signore e signori, devo fare un annuncio prima del meteo. Vi posso tranquillizzare, vi assicuro che zoccole non ce ne sono e se ce ne sono stanno sulla riva e sotto le palme”. Il Jambo esplose in una fragorosa risata. Naturalmente alcune delle signore si sono risentite, ma lui alla battuta non ci rinunciava.

Un vulcano in vacanza

Eriberto in vacanza era ancora più esuberante che a Pescara. Normalmente era già insopportabile, ma in vacanza era al cubo. Non sapeva una parola di inglese o di francese ma si faceva capire in tutte le lingue del mondo: siamo stati in Kenya, alle Maldive, alle Seychelles, alle Mauritius… Generalmente andavamo via intorno a febbraio o ai primi di marzo. In vacanza diventava vulcanico, tanto che quando si tornava da una vacanza con lui bisognava andare in ferie. Una volta –era l’8 marzo, la festa della donna– lui entrò in Comune non con qualche rametto di mimosa, ma con un albero! Era così, o dava tutto o non dava niente, non c’erano mezze misure; era uno Scorpione al 100 per cento, e forse il fatto che io fossi dei Pesci mi consentiva di completare il suo carattere, tanto che certe volte riuscivo anche a domarlo. L’unico momento in cui ho visto il suo sorriso spegnersi un po’ è stato durante l’alluvione che distrusse molti degli stabilimenti nel ’92. Eriberto era distrutto dal dolore: l’acqua è arrivata fin sotto le cabine. Un altro momento in cui l’ho visto triste è alla morte di mio padre, col quale aveva stabilito un rapporto splendido, anche se per

• Renata, Anita e Eriberto al Jambo

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pochi anni. Tra me e lui grandi litigi non ci sono mai stati. Forse qualche momento di sconforto l’avrà anche avuto ma a me non l’ha mai mostrato.

Era un grande uomo

Dal momento dell’incidente gli siamo stati tutti vicini. È successo sotto casa. Ci alternavamo io, Luca, Anita, la sorella Elisabetta. Non l’abbiamo mai lasciato da solo. Durante il coma, e al risveglio, aveva attimi di lucidità: capiva quello che gli dicevo, riconosceva i volti, ma non abbiamo mai più parlato, per il 90 per cento era assente. Credo che si rendesse conto del suo stato. Nell’ultimo periodo si è lasciato andare. Quando era in vita e incontrava qualcuno che stava sulla sedia a rotelle si augurava di non finire così. Dopo 18 mesi di sofferenze, tra Pescara, Chieti, L’Aquila, Ancona, alla fine Dio gli ha concesso di andarsene. La cosa assurda è che da quando ci siamo sposati gli ho visto fare delle cose incredibili, avrebbe potuto farsi male in qualsiasi momento della sua vita e invece è arrivato fino a 75 anni senza un graffio o una malattia. E il giorno in cui è successo l’incidente era appena rientrato dalla piattaforma dove si era recato a prendere le cozze insieme a Luca. Il primario del centro di rianimazione, quando l’abbiamo portato lì, mi disse: “Signora, dubito che passerà la notte”. Ha resistito 18 mesi. Aveva un cuore grande e forte. È stato un bene che Pescara abbia deciso di intitolargli una parte del lungomare; di più non avrebbe potuto fare, ma comunque è una persona che è rimasta nel cuore di tutti e chi vorrà lo ricorderà sempre per quel grande uomo, e quel grande personaggio, che è stato.


• Renata e Eriberto in vacanza in Venezuela

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Estroverso e stravagante, istrionico e vulcanico, Eriberto è stato un continuo e instancabile innovatore nell’attivitĂ di balneazione pescarese


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